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marzo ’08<br />
L’arresto s’arresta, ma arrestandosi (come arresto), esso conferisce il movimento. Fa partire, ripartire, venire e<br />
rivenire. Dà la vita, dà la morte. E se le dà in <strong>un</strong> assenso che “disgraziatamente non è certo”, e fort<strong>un</strong>atamente non<br />
è certo. L’arresto s’arresta. Si regge ma senza potercela fare, si mantiene (senza mantenersi) su quella linea instabile,<br />
su quel crinale [arête N.d.A] che lo riconduce a sé (l’arrestarsi dell’arresto), senza potersi costituire in riflessione di<br />
sé o in riappropriazione di sé. Ness<strong>un</strong>a coscienza, ness<strong>un</strong>a percezione, ness<strong>un</strong>a vigilanza può ri<strong>un</strong>ire e raccogliere<br />
questa “restanza”, ness<strong>un</strong>a attenzione può renderla presente. E ness<strong>un</strong> Io.<br />
3. Assenza<br />
Ecco cosa accom<strong>un</strong>a il poema di Shelley ai racconti di Blanchot. In questa falla del testo, in<br />
questo indecidibile, è esemplificata l’irriducibilità del linguaggio agli schemi del logocentrismo.<br />
In questi p<strong>un</strong>ti il testo si piega su se stesso, si invagina. E forse, proprio in questi anelli<br />
che non tengono, può celarsi l’autenticità, l’Eigentlich di ogni individualità (e d<strong>un</strong>que di ogni<br />
testo nel p<strong>un</strong>to della propria reticenza); in quella ferita di cui parla Jean Genet nel f<strong>un</strong>ambolo,<br />
altro paradigma nell’analisi di Derrida: «Mi chiedo dove risieda, dove si celi la ferita segreta<br />
in cui ogni uomo corre a rifugiarsi [...]. Ogni uomo sa come raggi<strong>un</strong>gerla, fino a diventare egli<br />
stesso quella ferita, come <strong>un</strong> cuore segreto e dolente». 3 «Lo straordinario incomincia nel momento<br />
in cui mi fermo. Ma non sono più padrone di parlarne». 4<br />
Lasciar parlare l’afasia che si manifesta al culmine dell’azione nel testo di Blanchot. Questa è<br />
la vera strategia di Derrida.<br />
“Lasciar parlare l’afasia”, vuol dire attribuire la massima importanza a quei momenti del<br />
racconto in cui qualcosa accade. La Cosa indefinibile, e che propriamente non può mai succedere<br />
come succede qualcosa in <strong>un</strong>a storia, che possa poi magari essere raccontata. L’apparente<br />
contraddittorietà di queste affermazioni, serve a Derrida per porsi in <strong>un</strong>a dimensione in fin<br />
dei conti heideggeriana dell’eventualità, che gli permetta di pensare la reticenza di Blanchot<br />
come l’allusione alla Cosa che «è “terribile” poiché, nel suo stesso “inaccadere”, essa avviene<br />
al “vieni”, nel suo no – nel suo passo – di cosa». In questo senso, egli sta pensando alla cosa<br />
come hypokeimenon, ovvero sostanza che non succede, alla quale avvengono gli accidenti<br />
«ma che, in quanto cosa, non accade». Eppure, è ciò su cui si aprono gli occhi di J. (Shelley:<br />
«So on my sight / Burst a new vision, never seen before»), nel passo già citato della Sentenza.<br />
Lo sguardo che le lascia poi <strong>un</strong>a gaiezza che je non può spiegarsi e di cui dice «è <strong>un</strong> ricordo<br />
che basterebbe ad uccidere <strong>un</strong> uomo». Questa eventualità della cosa viene continuamente<br />
spostata da Blanchot nel corso del racconto, così che essa va a identificarsi sia con la visione,<br />
sia con il narratore stesso, che assume a tratti il ruolo della morte. Del resto, quando lo chiamano<br />
al telefono per ann<strong>un</strong>ciargli l’agonia di J., gli si dice «venga», e proprio in quell’attimo la<br />
donna «è morta»: non <strong>un</strong> istante è trascorso (che segnerebbe <strong>un</strong> accadere in senso tradizionale).<br />
Questi riferimenti si moltiplicheranno poi a dismisura nella seconda parte del racconto,<br />
dove je e l’altra donna, Nathalie, saranno l’<strong>un</strong> per l’altra ipostasi di questa “morte” in différance,<br />
o meglio di questa sospensione di ogni senso decidibile tra vita e morte; così la fine del<br />
racconto: «e a lei dico eternamente “vieni”, ed eternamente è là.»:<br />
Processo come l’arrêt de mort indecidibile, né la vita né la morte, sopra vivere piuttosto, il processo stesso che<br />
appartiene, senza appartenere, al processo della vita e della morte. Sopravvivere non si oppone a vivere, ma nemmeno<br />
s’identifica con vivere. Il rapporto è diverso, diverso dall’identità, diverso dalla differenza di distinzione,<br />
indeciso, o, in senso rigorosissimo, “vago”, evasivo, svasato, come si direbbe di <strong>un</strong> bordo.<br />
gnommeri 13