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c’è ancora ness<strong>un</strong> cortocircuito. Sei saldo nel tuo disorientamento.<br />

Il cortocircuito per me è iniziato nell’impatto con la letteratura. Una soglia verso l’estraneo<br />

allo stesso tempo utile ma rischiosa. L’impatto violento della lettura sistematica e anche<br />

esagerata di quasi tutti i romanzi chiave del Novecento messicano, a cui mi hanno costretto<br />

all’<strong>un</strong>iversità, ha coscientizzato quel cortocircuito che vivevo quotidianamente.<br />

Berman discute all’inizio del suo testo <strong>un</strong>a forma tradizionale di traduzione, quella etnocentrica.<br />

Ove etnocentrismo significa ciò «che riconduce tutto alla propria cultura, alle sue<br />

norme e valori e considera ciò che ne è al di fuori – l’Estraneo – come negativo o al massimo<br />

buono per essere annesso, adattato, per accrescere la ricchezza di quella cultura». Il rischio<br />

per me era quello di far rientrare – depurati degli elementi per me discordanti – degli oggetti<br />

letterari nuovi, altri, all’interno di <strong>un</strong><br />

sistema già più o meno consolidato, il<br />

mio, quello che m’ero formato con anni<br />

di studio di letteratura. Però subito<br />

incorrevo in errori, errori di lettura che<br />

mi richiamavano all’ordine. Trovavo il<br />

divertente o l’ironico lì dove non c’era<br />

per <strong>un</strong> messicano. Trovavo <strong>un</strong> tradizionalismo<br />

abbastanza canonico lì dove<br />

il messicano trovava sperimentalismo.<br />

Trovavo elementi che respingevo, come<br />

per esempio <strong>un</strong> misticismo fastidioso in<br />

<strong>un</strong> romanzo come Pedro Páramo, considerato,<br />

e a ragione, dico ora, <strong>un</strong>o dei<br />

romanzi più importanti della letteratura<br />

Juva, 2007<br />

70<br />

latinoamericana. Tutti quegli elementi<br />

andavano contestualizzati, stavo<br />

sottovalutando migliaia di relazioni perché volevo mi<br />

bastassero le mie competenze, semplicemente per arricchirle e confermarle.<br />

D<strong>un</strong>que ho iniziato a sospendere il giudizio. A mettere tra parentesi, per quanto m’era possibile,<br />

tutto il bagaglio critico e letterario che portavo con me, per poi, solo poi, riaprirlo.<br />

Adesso, <strong>un</strong>o dei problemi centrali era quello della lingua. Perché mi sento nella possibilità<br />

di utilizzare il testo di Berman? Perché c’è <strong>un</strong> processo normale nella pratica iniziale di <strong>un</strong>a<br />

lingua straniera. Non conoscendola, inizialmente si opera traducendo quasi simultaneamente<br />

dalla lingua “madre”. E questo succedeva anche durante la lettura. Le prime traduzioni avvenivano<br />

nella direzione della «captazione del senso» di <strong>un</strong> romanzo. Non erano di certo traduzioni<br />

letterali, del tipo di cui parla Berman. No, l’esigenza era captarne il senso, tralasciarne la<br />

lettera, e tradurne il senso.<br />

Questo portava inevitabilmente – ma anche innocentemente – a <strong>un</strong>a «infedeltà alla lettera<br />

straniera». E Berman dice: «Ma questa infedeltà alla lettera straniera è necessariamente <strong>un</strong>a<br />

fedeltà alla lettera propria. Il senso è captato nella lingua traducente. Perciò occorre che sia<br />

spogliato di tutto ciò che non si lascia trasferire in questa». Ci riporta cioè all’etnocentrismo di<br />

cui sopra: «Se la traduzione è captazione del senso, essa non può essere che annessione».<br />

Ma questo avveniva incoscientemente. La mia conoscenza dello spagnolo – e i ritmi di<br />

lettura che mi erano imposti – non mi permettevano ancora d’entrare coscientemente nell’altra<br />

lingua, ma solo di arrabattare traduzioni simultanee per poter discutere in classe di <strong>un</strong> ipotetico<br />

senso complessivo del romanzo da me captato.<br />

Ora, per Berman esiste <strong>un</strong> principio e <strong>un</strong> obiettivo etico della traduzione. Per me che non

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