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iattivata, ma in senso contrario, poiché l’atto di tradurre consiste nell’accentuare il principio<br />

o l’elemento che l’originale ha occultato. [...] Quest’accentuazione, nella misura in cui rivela<br />

l’occultato dell’originale, è <strong>un</strong>a manifestazione. E dato che questa manifestazione può prodursi<br />

solo trasformando l’opera in alc<strong>un</strong>i dei suoi tratti, essa è <strong>un</strong>a violenza».<br />

Ancora <strong>un</strong>a citazione, e poi concludo: parlando di <strong>un</strong>a traduzione di Saffo da parte di Deguy:<br />

«È chiaro che i limiti tra l’“estraneo” e l’“estraneità” sono stati discretamente scombinati.<br />

C’è <strong>un</strong>a doppia violenza: sulla lingua traducente, ma anche sull’originale. In certo qual modo,<br />

la traduzione ha prodotto <strong>un</strong> testo più spaesante di quello di Saffo, ma questo spaesamento<br />

esisteva già, nascosto, nella poetessa. Si può dire che essa è risalita all’origine dell’originale.<br />

Ricordiamoci di quel che diceva Alain, che concludeva: “È più inglese dell’inglese, più greco<br />

del greco, più latino del latino [...]”». (Si è parlato, tra tabardiani, del rischio teorico di questo<br />

discorso. Ma tant’è, lo utilizzerò lo stesso, poi mi metterò tra parentesi).<br />

È curioso: quando parlavo chilango, quando quella cultura altra m’aveva totalmente assorbito,<br />

mi stava rovesciando, lavorava su di me con <strong>un</strong>’intensità rivoltante e rivoluzionante,<br />

mi si diceva: «este güey es más chilango que <strong>un</strong> chilango», è più chilango di <strong>un</strong> chilango. Lo<br />

scrivo con molto orgoglio narcisistico. Ma, volendolo superare: cosa significava? Cosa voleva<br />

dire quella persona? Forse che il mio-italiano (il mio, attenzione) era più mio-italiano del mioitaliano?<br />

Questa violenza del me tradotto in chilango manifestava forse qualcosa di occultato<br />

nel mio originale italiano. L’esperienza dell’altro è anche «apprendimento del proprio». È <strong>un</strong><br />

circolo ermeneutico che attraversa le esperienze “davvero” “formanti”. Cito Heidegger, citato a<br />

sua volta da Berman (molti gradi):<br />

«Fare <strong>un</strong>’esperienza con quel che sia [...] vuol dire: lasciare che venga su di noi, che ci raggi<strong>un</strong>ga,<br />

ci piombi sopra, ci rovesci e ci renda altro».<br />

In quest’anno mi sono tradotto, se posso continuare nella metafora, nella pulsione etica<br />

che mi spingeva a conoscere l’Estraneo. La lingua, il parlarsi in <strong>un</strong>a lingua straniera, è <strong>un</strong>o<br />

strumento potentissimo e violento (di rivelazione dell’occultato, tra parentesi). L’«ordine del<br />

discorso» che regola il mio stare qui in Italia parlando in italiano ne è stato per forza di cose<br />

sconvolto. In cosa, ancora non lo so, e a voi non potrebbe interessare. (Ammesso che vi interessi,<br />

invece, ciò che ho tentato di dirvi finora).<br />

eugenio.santangelo@gmail.com<br />

per le citazioni esplicite:<br />

A. Berman, La traduzione e la lettera o l’albergo nella lontananza, Macerata, Quodlibet, 2003.<br />

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