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marzo ’08<br />

conoscevo Berman, in Messico quest’obiettivo etico era filtrato dal dialogismo bachtiniano – e<br />

la riflessione del pensatore francese mi sembra molto vicina a quella di Bachtin.<br />

Berman parla di <strong>un</strong> «contratto fondamentale che lega <strong>un</strong>a traduzione al suo originale. Questo<br />

contratto – certo draconiano – interdice ogni superamento della tessitura dell’originale.<br />

Stipula che la creatività richiesta dalla traduzione deve mettersi per intero al servizio della riscrittura<br />

dell’originale nell’altra lingua, e mai produrre <strong>un</strong>a sovra-traduzione determinata dalla<br />

poetica personale del traducente». Quest’obiettivo poetico «è legato all’obiettivo etico della<br />

traduzione: portare sulle rive della lingua traducente l’opera straniera nella sua pura estraneità,<br />

sacrificando deliberatamente la “poetica” propria».<br />

Ancora – e qui si legge Bachtin, oltre che Lévinas: «l’atto etico consiste nel riconoscere e<br />

nel ricevere l’altro in quanto altro».<br />

Vado veloce al p<strong>un</strong>to per me fondamentale<br />

attraverso altre citazioni:<br />

«Una cultura (in senso antropologico)<br />

diviene davvero <strong>un</strong>a cultura (nel<br />

senso, ad esempio, dell’umanesimo di<br />

Goethe, della Bild<strong>un</strong>g) solo se è retta,<br />

almeno in parte da tale scelta [quella<br />

etica]. Una cultura può benissimo<br />

appropriarsi delle opere straniere senza<br />

mai avere con esse rapporti dialogici.<br />

Ma in tal caso, e per quanto essa sia<br />

“civilizzata”, le mancherà sempre ciò<br />

che fa di <strong>un</strong>a cultura <strong>un</strong>a Bild<strong>un</strong>g».<br />

Questo è <strong>un</strong> p<strong>un</strong>to che mi è parti-<br />

colarmente caro, quello della Bild<strong>un</strong>g:<br />

quando l’esperienza messicana ha<br />

Juva, 2007<br />

iniziato a convertirsi in “reale Bild<strong>un</strong>g”,<br />

formazione, a contatto dell’«estraneo formante». (Parlo di “Bild<strong>un</strong>g”, semplificando arbitrariamente.<br />

Cosciente di cosa diventi quel concetto nella postmodernità e di come, forse, non se<br />

ne possa più parlare. Ma tant’è, lo si mette tra parentesi). Quando si abbandona la semplice<br />

traduzione mentale dalla lingua madre alla straniera per altrettanto semplici obiettivi di com<strong>un</strong>icazione,<br />

quando secondo quello che è il processo normale e risaputo s’inizia a pensare in<br />

quella lingua straniera, a pensare quella lingua stessa e a farsi pensare da quella lingua, essa<br />

inizia ad agire nella «corporalità della sua lettera». Non è più solo captazione di senso, ma<br />

esperienza della lettera.<br />

Qui inizia il dialogo con l’altra cultura, dell’estraneo come altro e come «soggetto con pari<br />

diritti» (questa che ormai per me è <strong>un</strong>a formuletta, mutuata da Bachtin, e che ho sempre bisogno<br />

di risignificare).<br />

Quando ho iniziato per forza di cose a introdurmi e praticare quello slang che è parlato<br />

trasversalmente e diffusamente nella capitale messicana, ho iniziato a risalire i gradini della<br />

“Bild<strong>un</strong>g”. Lo straniamento che i miei amici messicani avvertivano nel me-parlando-chilango<br />

era l’estraneo parlando la loro lingua, apportando, dialogicamente, per forza di cose, qualcosa<br />

di nuovo.<br />

Altro passo della riflessione di Berman, mutuata da Hölderlin:<br />

«L’opera non appare qui come <strong>un</strong>a realtà rappresa, statica, immutabile, che si tratta di<br />

riprodurre [...]: essa è piuttosto il luogo di <strong>un</strong>a battaglia fra due dimensioni fondamentali,<br />

e la traduzione interviene come <strong>un</strong> momento nella vita dell’opera dove questa battaglia è<br />

senza fissa dimora 71

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