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IL CLUB DEI PROTAGONISTI 36 N.41 CM Fortunato Galbiati Un avvocato in provincia Ha costruito la sua carriera sul lavoro, ma anche su una grande umanità. «Perché l’avvocato - dice - è prima di tutto un uomo» di Toni Liguori foto Marco Brioschi La sua grande soddisfazione è quella di aver fondato uno studio che, oltre ad essere diventato un punto di riferimento per i suoi clienti, è una fucina di professionisti. Merito anche della grande etica che Fortunato Galbiati mette nel proprio lavoro e che ritiene possa fare la differenza sia a livello umano, che professionale. È limitativo definirla un avvocato di provincia? «Assolutamente no. Anzi, mi fa molto piacere e sono onorato di questa definizione, perché la provincia della quale stiamo parlando è quella di Monza e Brianza, un territorio nel quale più di quarant’anni fa ho iniziato la mia attività forense e che ancora oggi mi vede tra i protagonisti di una professione che continua a darmi enormi soddisfazioni. È ovvio che gli orizzonti del mio studio spaziano verso confini più ampi e la nostra presenza è ormai consolidata in Italia, in Europa e negli Stati Uniti, dove ci portano gli interessi dei nostri numerosi clienti che operano in Brianza, ma che lavorano in tutto il mondo. Proprio per questo abbiamo aperto uno studio anche a Milano e un punto di appoggio fisso a Roma, mentre il centro dell’attività rimane la nostra sede di Carate Brianza». > IL CLUB DEI PROTAGONISTI N.41 CM 37
IL CLUB DEI PROTAGONISTI Che rapporto la lega ai sui clienti? È “solo” un avvocato che dirime le loro controversie o qualcosa di più? «In un certo senso sono il loro consulente, la persona di fiducia che spesso fa parte dei collegi sindacali o siede nei consigli di amministrazione e che, a volte, viene consultato anche prima che i problemi arrivino al pettine. Prevalentemente mi occupo di diritto commerciale e di tutto ciò che questo comporta: un settore nel quale ho acquisito una notevole esperienza e che mi gratifica non poco. Il rapporto che mi lega ai miei clienti è di totale fiducia, consolidato in anni e anni di frequentazione e che a volte è sfociato in un’amicizia fraterna. La parte operativa, invece, viene svolta dai miei validi collaboratori, senza i quali lo studio non avrebbe raggiunto il livello di competenza che lo caratterizza». I collaboratori del suo studio sono piuttosto giovani: immagino creda molto in loro. «Sì, moltissimo, i giovani sono il futuro della società e del mio studio in particolare. Sono stato il primo, 38 anni fa, a costituire nel nostro campo una società di professionisti e il primo studente di Giurisprudenza che ho assunto è l’avvocato 38 N.41 CM Goffredo Pozzoli che allora aveva soltanto 19 anni e che dopo vent’anni di lavoro insieme è diventato socio di questo studio. Anche l’avvocato Alberto Radaelli e mio figlio Giorgio sono soci a tutti gli effetti e contribuiscono fattivamente a far funzionare il tutto anche quando io sono assente. Poi ci sono cinque collaboratori e cinque segretarie, tutte persone preparate di cui mi fido ciecamente. Con loro ho avuto molto fortuna, lo ammetto; l’altra grande fortuna è stata quella di esercitare da sempre la mia attività in Brianza e di essere iscritto al Tribunale di Monza, che rappresenta una delle realtà più importanti d’Italia». Come è cambiata la professione dell’avvocato da quando lei ha iniziato ad esercitarla? «In effetti è cambiata moltissimo, come d’altro canto sono cambiate tante cose nella società contemporanea. Purtroppo, a mio avviso, a livello umano e qualitativo, non è cambiata in meglio, anzi peggiora ogni giorno di più. Innanzitutto trovo inammissibile che nel nostro Paese vi siano 140 mila iscritti all’Albo quando in Francia, ad esempio, ve ne sono soltanto 10 mila. Questo “assalto alla diligenza”, come lo definisco io, non Il team dello studio Galbiati, Pozzoli e Redaelli. Da sinistra Giorgio e Fortunato Galbiati con i colleghi Alberto Radaelli e Goffredo Pozzoli può che produrre un decadimento della nostra professione a scapito della correttezza e della funzionalità del sistema. Tra le nuove leve ci sono elementi validissimi e tecnicamente preparati che devono affrontare una serie di problemi difficile da superare. Le leggi vengono continuamente rinnovate e diventa sempre più necessario studiarle e approfondirle prima di iniziare qualunque tipo di procedimento. Ma i giovani, e non solo loro, non sempre hanno il tempo per farlo, perché devono correre da un Tribunale all’altro per colpa di un sistema lento e farraginoso che non consente di operare con la dovuta precisione. Processi che durano vent’anni, udienze che vengono rimandate per ragioni spesso immotivate e pretestuose costringono i cittadini, e noi che li assistiamo, a tour de force incredibili e umilianti. Per fortuna ci sono Tribunali, come quello di Monza, che continuano a funzionare egregiamente grazie alla presenza di giudici che fanno il loro dovere, pur lavorando con mezzi insufficienti, in condizioni spesso mortificanti, ma sempre con l’idea che la Giustizia, quella con la G maiuscola, vada onorata fino in fondo». Anche secondo lei la Giustizia nel nostro Paese andrebbe riformata? «Sicuramente. Andrebbe attuata una riforma della Giustizia per rendere più aderenti ai tempi il Codice civile, il Codice penale e, in modo particolare, il Codice di procedura civile e penale per regolare i processi e informatizzarli come è stato fatto nei Paesi più progrediti. Naturalmente, la Giustizia va riformata anche dotandola di strutture, di mezzi e di uomini che oggi risultano scarsi e assolutamente insufficienti. È incredibile, tanto per farle un esempio, quello che sta avvenendo a Napoli, nel processo contro Luciano Moggi: dovevano intimare 24 notifiche e su queste 14 non hanno avuto seguito. Quindi il processo è stato rimandato e non finirà mai perché la difesa di Moggi ha chiesto la trascrizione di 30 mila intercettazioni telefoniche e l’audizione di 485 testimoni. Che cosa può pensare un cittadino comune davanti a situazioni di questo genere?». Non crede che alcuni magistrati siano affetti da un eccessivo spirito di protagonismo e che la loro voglia di apparire sui giornali e in Tv danneggi ancora di più l’immagine della Giustizia? «Ho sempre contestato l’eccessiva pubblicità che si è voluta “ Sono sempre in giro per il mondo, passo da un consiglio di amministrazione all’altro, mi muovo in continuazione e sono curioso di tutto dare ad alcuni processi, vedi Perugia, o Cogne, o Garlasco. Quando i protagonisti di queste storie vanno a “Porta a Porta”, o a “Matrix”, o in una delle mille trasmissioni che si improvvisano in Tv sui processi che solleticano la morbosità di un certo pubblico, le loro parole probabilmente vengono ascoltate anche dai giudici popolari, con anticipazioni su processi che poi loro saranno chiamati a giudicare. Trovo aberrante che un magistrato si esponga alle luci dei media come una velina o un personaggio da rotocalco: se lo fa, vuol dire che è malato di protagonismo e non interpreta il suo ruolo nella maniera giusta. Il suo lavoro dovrebbe sempre essere riservato come quello di un prete: le leggi vanno applicate in silenzio, non amplificate con processi mediatici e spettacolari che sviliscono l’immagine della Giustizia». In questi casi non dovrebbe intervenire il Consiglio Superiore della Magistratura? «Sì, è vero, il CSM dovrebbe vigilare attentamente sull’operato dei magistrati. Ma come può un organismo giudicare se stesso e fare giustizia in modo imparziale sui suoi stessi iscritti? Ripeto: le leggi ci sono e vanno applicate in silenzio, senza fare processi mediatici che condizionano l’opinione pubblica, spesso anticipando sentenze ancora da scrivere». Se ritornasse indietro, farebbe ancora l’avvocato? > IL CLUB DEI PROTAGONISTI N.41 CM 39
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