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sotto i due figli a donna - Una città

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www.unacitta.it<br />

peuta può fare una ricerca in internet sul proprio<br />

paziente? E’ appropriato che un terapeuta<br />

metta in rete delle informazioni personali?<br />

Forse la risposta sta come sempre nel buon<br />

senso: il problema non è il mezzo, ma come lo<br />

si usa, se è fatto in modo responsabile (e non<br />

per mera curiosità), è concesso.<br />

C’è però chi resta scettico e anche quando è il<br />

paziente a suggerire di leggere il proprio blog<br />

accetta di farlo solo assieme a lui, perché tutto<br />

deve avvenire in quel setting.<br />

Altri al contrario considerano grave che un terapeuta<br />

non utilizzi tutte le informazioni a sua<br />

disposizione, sarebbe una forma di negligenza.<br />

Resta il problema dell’altra faccia della medaglia:<br />

quando è il paziente a cercare in rete informazioni<br />

sul proprio terapeuta.<br />

Per Huremovic, che ha 39 anni, è più sicuro<br />

star lontani dai social network. I colleghi più<br />

giovani però non sono d’accordo, Facebook fa<br />

parte della loro vita e non ci stanno a rinunciarci.<br />

Qualcuno ha trovato come compromesso la<br />

proibizione (comunicata e condivisa) ai pazienti<br />

passati e presenti di contattarla via social<br />

network. Resta il fatto che un incontro paziente-terapeuta<br />

in rete ha ben altra portata di un<br />

casuale incrociarsi al ristorante e che le implicazioni<br />

sul piano terapeutico, ma anche etico,<br />

restano da indagare.<br />

(www.washingtonpost.com)<br />

2 aprile 2010. Gaza a lume di candela<br />

Max Ajl, scrittore e attivista di Brooklyn attualmente<br />

a Gaza, su www.truthout.org racconta<br />

delle condizioni della popolazione dei campi da<br />

quando Israele impedisce l’ingresso nella Striscia<br />

del carburante necessario ad alimentare la<br />

centrale elettrica già bombardata nel 2006.<br />

“Di notte, a Gaza, negli stretti vicoli dei campi<br />

riecheggia un suono martellante nell’oscurità.<br />

E’ il rumore dei piccoli generatori. Le famiglie<br />

e molti negozi nei campi e nelle <strong>città</strong>, si appoggiano<br />

a tali dispositivi portatili per avere l’elettricità<br />

durante le continue interruzioni che affliggono<br />

la Striscia di Gaza. Sono un misero<br />

surrogato dell’energia fornita dalla centrale<br />

elettrica, o meglio: lo sarebbero, se tutti a Gaza<br />

potessero permetterseli. Ma non è così, specie<br />

per le famiglie che vivono nei campi profughi,<br />

costrette a contare sulle candele. Come la famiglia<br />

di Abdel Karim, che vive nel campo profughi<br />

di Jabaliya, un labirinto super-affollato e il<br />

più esteso degli otto campi profughi di Gaza.<br />

46<br />

una <strong>città</strong><br />

Secondo l’Unrwa (United Nations Relief and<br />

Works Agency) ospita 108.000 persone, il 10%<br />

della popolazione di Gaza. La densità della popolazione<br />

di Jabaliya è di 74.000 esseri umani<br />

per chilometro quadrato.<br />

Sono entrato nella casa di Abdel Karim circa<br />

alle otto e mezza di sera. Il sole era tramontato<br />

da un po’. La stanza era illuminata debolmente.<br />

Di fronte a me c’erano tre piccoli tavoli alla<br />

giusta altezza perché dei bambini possano lavorarci<br />

stando inginocchiati a terra. I quattro<br />

<strong>figli</strong> di Abdel erano allineati accanto a questi<br />

tavoli: tre <strong>figli</strong>e, Maram, 13 anni, Imam, 10 anni,<br />

Riham, 8 anni e infine Mohammed, di 6 anni.<br />

I tavoli sono stati messi assieme con dei rottami<br />

-<strong>due</strong> erano semplici ripiani di legno su<br />

materiale da imballaggio. Il terzo è costituito<br />

da una lastra di metallo piazzata su un banchetto.<br />

Sui tavoli ci sono alcune candele. Ma non<br />

bastano. Non bastano perché con uno shekel -<br />

Gaza usa la moneta israeliana- puoi comprare<br />

<strong>due</strong> candele. Le candele bruciano piuttosto velocemente,<br />

e quando una famiglia non ha quasi<br />

alcuna entrata, la differenza tra <strong>due</strong> e tre candele<br />

accese non è irrilevante. Le <strong>due</strong> candele producono<br />

una luce estremamente pallida, <strong>sotto</strong> la<br />

quale i <strong>figli</strong> di Abdel cercano di fare i compiti<br />

per casa, scrivendo sui loro quaderni, mentre il<br />

padre li guarda…” [continua]<br />

(traduzione di Mariano Mingarelli)<br />

2 aprile 2010. Perdere il lavoro<br />

Dopo averne scritto su Mente e Cervello, Daniela<br />

Ovadia, giornalista scientifica, ha deciso<br />

di riportare nel suo blog parte della sua ricerca<br />

sugli effetti psicologici della disoccupazione,<br />

in particolare per quanto riguarda la perdita del<br />

proprio ruolo sociale. Il pezzo è ricco di stimoli,<br />

si parla di welfare, delle “fasi della disoccupazione”,<br />

della differenza tra i sessi, ma interessanti<br />

sono anche i commenti ricevuti. Si va<br />

da “Peppe” che confida di essere disoccupato<br />

da nove mesi (“Sto per disdire il dopo-scuola<br />

di mio <strong>figli</strong>o”), che come terapia ha aperto un<br />

(bel) blog (http://peppe-liberti.blogspot.com)<br />

in cui parla di Fisica, ma non solo, a Gianni,<br />

cinquantenne del Nordest, che il 2 aprile ha<br />

scritto: “Sono cresciuto con il culto del lavoro<br />

e del fare, studiare-applicare-fare. Partendo da<br />

condizioni familiari di povertà i miei genitori,<br />

dopo la guerra, iniziarono a realizzarsi, abbandonando<br />

la terra o meglio il latifondo e iniziando<br />

un’attività artigianale... Negli anni mi sono<br />

diplomato (di più non si poteva ) ho lavorato<br />

come operaio e poi con altri soci, giovani come<br />

me, nei primi anni ‘80 abbiamo fondato una<br />

ditta di impianti e con questa siamo arrivati a<br />

tre anni fa… ora da solo mi ritrovo con la crisi<br />

e i problemi connessi che ben sappiamo. Sono<br />

in crisi anche io, inizio a cercare un lavoro dipendente…<br />

prima ero in un gruppo dove organizzavo,<br />

correvo, mi confrontavo con varie entità:<br />

i dipendenti, i clienti, i concorrenti, i collaboratori,<br />

i fornitori. Non si sono persi tutti ma<br />

mi manca molto il ritmo dell’attività. I miei<br />

tempi si sono dilazionati, mia moglie lavora,<br />

non abbiamo <strong>figli</strong>, aiuto in casa, sono stato abituato<br />

da mia madre, nel tempo libero collaboro<br />

in un gruppo di Protezione Civile, mi dà la vita.<br />

Oltre al fattore economico -si vive, non ho<br />

pretese, mi basta poco- entra in ballo il fattore<br />

identità. Già dai primi contatti con le agenzie<br />

di lavoro capisco che il mio lungo curriculum<br />

non interessa più di tanto, certe competenze<br />

forse non servono. Oops, speriamo che sia<br />

l’età… Mi riciclo come operaio? Ma se hai la<br />

mentalità dell’imprenditore, nel senso di intraprendere-fare,<br />

ti vorranno in un posto dove…<br />

fai quello senza discutere e basta”.<br />

(http://ovadia-lescienze.blogautore.espresso.repubblica.it)<br />

3 aprile 2010. Romano, Antonio, Camillo…<br />

Si chiamava Romano Iaria e aveva 50 anni<br />

l’uomo che la notte scorsa si è impiccato nella<br />

Sezione adibita a “Casa di Lavoro” del carcere<br />

di Sulmona (AQ). Era tossicodipendente e sieropositivo,<br />

oltre a soffrire di altri gravi problemi<br />

di salute. Nella stessa Sezione, lo scorso 7<br />

gennaio si è impiccato il 28enne Antonio Tammaro:<br />

entrambi si trovavano reclusi non per<br />

scontare una pena ma perché <strong>sotto</strong>posti ad una<br />

“misura di sicurezza detentiva”, quella appunto<br />

dell’internamento in Casa di Lavoro. Ma le<br />

coincidenze tra i <strong>due</strong> suicidi non terminano<br />

qui: infatti sia Iaria che Tammaro si sono uccisi<br />

la notte successiva al loro rientro da un permesso<br />

trascorso con i familiari, ai quali non<br />

avevano manifestato nessun segno di particolare<br />

disagio. Forse, quindi, le ragioni della loro<br />

fine sono da ricercarsi proprio nelle condizioni<br />

disperanti dell’internamento nella Casa di Lavoro<br />

dove, nonostante il nome, di lavoro non<br />

ce n’è proprio e ai “normali” disagi del carcere,<br />

come il sovraffollamento (nella Sezione in cui<br />

si sono uccisi ci sono oltre 200 persone, stipate<br />

UNA CITTA’<br />

Redazione: Barbara Bertoncin, Fausto Fabbri, Joan Haim, Paola Sabbatani, Gianni Saporetti (coordinatore); Edi Rabini (direttore responsabile).<br />

Collaboratori: Katia Alesiano, Andrea Babini, Giorgio Bacchin, Luca Baranelli, Francesca Barca, Sergio Bevilacqua, Guia Biscàro, Marzia<br />

Bisognin, Thomas Casadei, Enrica Casanova, Francesco Ciafaloni, Luciano Coluccia, Carlo De Maria, Bruno Ducci, Enzo Ferrara, Pino Ferraris,<br />

Liana Gavelli, Ombretta Giunchi, Stefano Ignone, Marzio Malpezzi, Cesare Moreno, Annibale Osti, Cristina Palozzi, Francesco Papafava, Iole<br />

Pesci, Mauro Pezzi, Ilaria Maria Sala, Alessandro Siclari, Donato Speroni, Alessandra Zendron. Hanno collaborato: Sergio Bevilacqua, Federico<br />

Carpani, Chiara Frugoni, Silvia Golfera, Paolo Lambertini. Interviste. A Massimo Livi Bacci: Barbara Bertoncin. A Papa Chissokho: Gianni<br />

Saporetti. A Laura Ortensi, Annalisa Piazzesi, Chiara Vocetti, Gianpiero Da Costa: Barbara Bertoncin. A Concetto Maugeri: Barbara Bertoncin.<br />

A Marina Piazza: Barbara Bertoncin e Joan Haim. A Sara Manzoni: Andrea Babini. A Bruno Giorgini: Gianni Saporetti.<br />

Foto. In copertina, di Federico Carpani. A pag. 5 di Paolo Lambertini. A pag. 7 e 9 di Gianni Saporetti. A pag. 13 e 17 di Fausto Fabbri. A pag. 21<br />

e 27 di Marzia Bisognin. A pag. 28-30 di Silvia Golfera. A pag. 33 dallʼalbum di Sara Manzoni. A pag. 35 e 37 di Fausto Fabbri. A pag. 42-43 dallʼalbum<br />

di Gelsomina Bonora. Il servizio fotografico a pag. 24-25 è di Guia Biscàro. Proprietà: Fondazione Alfred Lewin (Presidente: Rosanna<br />

Ambrogetti; consiglieri: Barbara Bovelacci, Giorgio Calderoni, Tonino Gardini, Franco Melandri, Paola Sabbatani, Gianni Saporetti, Sulamit<br />

Schneider, Massimo Tesei). Editore: Cooperativa una <strong>città</strong>. Amministrazione: Silvana Massetti.<br />

Questo numero è stato chiuso venerdì 9 aprile 2010.

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