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Dicembre '64 - Ex-Alunni dell'Antonianum

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Con l'avvicinarsi del Natale il cuore si riempie di dolcezza e nella esultanza di questo soave ritorno,<br />

i pensieri degli uomini di buona volontà, dovrebbero essere pensieri di letizia e non di afflizione e<br />

trovare nella umiltà del redento la gioia del cristiano.<br />

E proprio in questa circostanza natalizia (che apre — comunque — una parentesi di serenità tra<br />

gli affanni e le preoccupazioni che assillano il vivere di ogni giorno, in un mondo cosi travagliato) affiora<br />

alla mia mente il ricordo dei Matali della mia giovinezza, forse richiamati dalla nostalgia di altri<br />

tempi, da un vivere diverso, da una diversa concezione della vita, più aderente alla realtà che non quella<br />

di oggi.<br />

Uno di questi in particolar modo mi ritorna vivo alla memoria anche perché da questo ebbe inizio<br />

la mia lunga carriera professionale che ormai sta per chiudersi.<br />

Eravamo nel 1917, l'anno della disfatta di Caporetto della grande guerra ed io con la mia numerosa<br />

famiglia mi trovavo in una città della Toscana, profugo dal Friuli invaso dal nemico. Vivevamo in<br />

mezzo a difficoltà di ogni genere delle quali io, non ancora quindicenne, ne percepivo appena la gravita.<br />

Proprio in quell'anno avevo conseguito, per la verità non molto brillantemente, la licenza di scuola media<br />

inferiore e se mi avessero chiesto di continuare negli studi forse avrei nicchiato come del resto avrebbe<br />

fatto qualsiasi ragazzo non prodigio. Ma non me lo chiesero. Mio padre era del parere che gli studi<br />

dovevano essere continuati senza eccessive difficoltà, senza spinte, senza raccomandazioni come aveva fatto<br />

lui che era riuscito a laurearsi mantenendosi all'università. E fu per questo che mi cercò subito una<br />

occupazione che fu il mio primo contatto con la dura realtà della vita.<br />

Lavoravo in una piccola tipografia e le mansioni che esplicavo erano varie — un tuttofare a poche<br />

lire la settimana! Considerato da quella gente un mangia-polenta, un profugo da tenere alla larga, non<br />

avevo amici e perciò la mia vita, fuori delle quotidiane occupazioni, si svolgeva in un completo isolamento.<br />

La domenica pomeriggio mi recavo, per una stradicciuola serpeggiante tra gli olivi, in un paesino<br />

su nei colli vicini alla città per raggiungere la chiesa parrocchiale dove mi piaceva assistere alle funzioni<br />

vespertine, non tanto, forse, per devozione, quanto per nostalgia della mia parrocchia lontana ove<br />

chierichetto cantavo in coro i salmi del vespro domenicale.<br />

E così anche il giorno di Natale di quell'anno 1917 salii lassù nella piccola chiesetta alpina, in solitudine<br />

e pieno di tristezza. La Chiesa era gremita non dalla mia gente, ma da persone che mi erano<br />

completamente sconosciute e ciò accresceva la mia malinconia. L'attenzione dei fedeli era il Presepio allestito<br />

con molta semplicità: povero presepio in una chiesa povera! Al termine della funzione, il canto<br />

natalizio: «In notte placida - tra muti sentier...» mi riempì l'animo di una tenerezza così dolce da sentirmi<br />

l'incavo degli occhi ingorgato di lagrime! Anch'io, come Gesù Bambino, in quel momento mi trovavo<br />

nelle condizioni di compassionare la povertà della Sua nascita anche se, allora, non ne comprendevo<br />

bene il perché. Non ero ancora in grado di conoscere a fondo quale sarebbe stata poi la Sua vita terrena<br />

e il perché essa si fosse conclusa sul Calvario in quel modo se non dalle semplici cognizioni apprese<br />

da un catechismo elementare, né forse la mia mente era abbastanza matura per capire come Egli fosse<br />

Dio! Da quella culla però, Egli, steso sulla paglia, mi guardava sorridente e mi sussurrava al cuore<br />

paroline che solo più tardi col passar degli anni ne compresi il significato.<br />

Quando uscii dal tempio calavano le ombre della sera e faceva un freddo cane. Scesi il colle con<br />

addosso un po' di quella paura che hanno i ragazzi quando si sentono soli all'imbrunire e per darmi coraggio<br />

andavo ripetendo la nenia natalizia come l'avevo sentita cantare prima.<br />

A casa mi aspettava la cena. Povera cena e poi via a letto che presto bisognava andare per essere<br />

prestissimo in piedi al mattino anche di quel giorno dopo che, allora, non era considerato festivo.<br />

Questo è. il Natale che a scadenza rievoco con tanta nostalgia; quelli che gli son succeduti non ebbero<br />

mai il potere di cancellarlo dalla memoria.<br />

In una chiesa riscaldata, addobbata e infiorata; in uno sfolgorio di luce e melodìe di canti, l'atmosfera<br />

natalizia non è più quella. Davanti ad un Presepio popolato di personaggi semoventi, circondato<br />

da casette illuminate, con contrasti di luci che alternano la notte al giorno, con torrentelli d'acqua serpeggianti<br />

tra colli alberati e giardinetti fioriti e angeli svolazzanti in un cielo pieno di stelle, I' «In notte<br />

placida - tra muti sentier...» suona per me in modo diverso da quello cantato lassù tra gli olivi, in<br />

una povera chiesa di campagna, una sera fredda e buia, da un ragazzo quindicenne soffuso di malinconia<br />

tra sconosciuta gente.<br />

Natale 1963 Locateli!<br />

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