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MINIMALISMO E PLASTICA<br />

Ancora, in gran parte minimalisti, per ritornare nell’ambito del mobile ed arredo, sono quei modelli realizzati<br />

in plastica, dalla forma, in generale, estremamente semplice perché ricavata da uno stampo. Una delle<br />

aziende antesignane in questo campo è la Kartell, fondata a Milano nel 1949 da Giulio Castelli. Tra i prodotti<br />

più noti di sua produzione sono: la seggiola per bambini 4999 del 1964, disegnata da Zanuso e Sapper; il<br />

tavolo di Castelli Ferreri e Gardella modello 4993 del ‘66; la sedia 4860 di Joe Colombo del ‘68; la sedia 4854<br />

di Gae Aulenti dello stesso anno; la sedia sovrapponibile 4850 di Giorgina Castiglioni del ‘70; il tavolo basso<br />

4894 di Gae Aulenti del ‘73; la sedia modello 4875 di Carlo Bartoli del ‘74. A questa produzione di modelli<br />

plastici minimalisti la hartell ne ha fatto seguire altri che, pur pregevoli come gli sgabelli di Anna Castelli Ferreri,<br />

non rientrano tuttavia nello stile in esame.<br />

Più fedele alla tecnologia dei materiali plastici e alla conseguente linea minimalista s’è rivelata l’Artemide,<br />

fondata nel 1959 da Ernesto Gismondi e Sergio Mazza: tra i suoi prodotti di maggiore successo vanno segnalati<br />

la lampada Eclisse (Compasso d’Oro 1967) di Vico Magistretti del ‘66: la poltroncina in abs Toga di<br />

Sergio Mazza del ‘68; la sedia Selene di Magistretti del ‘69; le poltrone Gaudì e Vicario del ‘71, dello stesso<br />

autore, la lampada Megaron di Frattini del ‘79, ecc. Com’è facile intendere, mobili e lampade, minimaliste<br />

perché formate da un unico materiale, la plastica stampata, non sono monopolio delle sole due aziende sopra<br />

citate. Altre ditte e designer producono occasionalmente articoli simili, talvolta di notevole pregio: pensiamo<br />

alla sedia Lambda (il cui nome richiama quello della prima automobile a carrozzeria autoportante), disegnata<br />

da Zanuso per Gavina del ‘64; alla poltrona Gaia di Carlo Bartoli per Arflex del ‘65; al gruppo di tavolini<br />

Marema di Gianfranco Frattini per Cassina del ‘67; dello stesso anno, ricordiamo la serie degli imbottiti Bobo<br />

di Cini Boeri per l’Arflex, primo esempio di sedile realizzato esclusivamente con schiume poliuretaniche<br />

espanse senza struttura rigida interna, un materiale cui accenneremo più avanti; la poltroncina Jumbo in<br />

fiberglass di Alberto Rosselli per Saporiti del ‘68; la poltrona Melaina di Rodolfo Bonetto per Driade del ‘69;<br />

la sovrapponibile seduta Canguro di Giorgina Castiglioni per Gufram del ‘70; le sedie Enne Uno di Piero De<br />

Martini per B&B e quella di De Pas, D’Urbino e Lomazzi per BBB Bonacina, entrambe del ‘70; e via via fino<br />

alla poltrona Air One di Ross Lovegrove per la Edra e allo sgabello Yuyu di Stefano Giovannoni per la Magis,<br />

entrambi del 2000.<br />

Il tipo di materia plastica più «adatto» al minimalismo appartiene alla famiglia dei poliuretani. Questi, a<br />

differenza delle plastiche rigide che sono prevalentemente di modesto spessore, possono aversi, per la loro<br />

natura schiumosa, in masselli di alto spessore e in grado di sostenersi senza interne strutture portanti, cosicché<br />

risultano modellabili direttamente, specie se in forme semplici. Grazie al poliuretano fu rivoluzionato il<br />

modo di progettare e costruire gli imbottiti.<br />

Precorritrice di questa tecnologia fu la citata gommapiuma, lattice derivato dal caucciù, usato per la prima<br />

volta da Albini nel ‘36 e con maggiore successo nel ‘51 da Zanuso con la poltrona Lady per Arflex. E fu appunto<br />

nel dopoguerra che il poliuretano si rese indispensabile per molti imbottiti: la poltroncina Cubo (‘57)<br />

di Achille e Pier Giacomo Castiglioni; il Prog 804 di Enzo Mari (‘66), ottenuto con il solo taglio da un blocco<br />

di poliuretano; la Superonda (‘67) degli Archizoom per Poltronova; le sedute Up di Gaetano Pesce (‘69) per<br />

B&B, rivestite da un tessuto elastico, confezionate per la spedizione in buste sotto vuoto, che riprendevano la<br />

forma iniziale una volta aperta a casa la busta sigillata; la serie le Bambole (Compasso d’Oro 1972) di Mario<br />

Bellini per Cassina, ecc. Le aziende più interessate agli studi dell’applicazione del tipo di plastica in esame<br />

furono la Cassina, la C&B, la B&B di Busnelli. Ma i casi più emblematici dell’uso dei poliuretani negli imbottiti<br />

sono quelli della gran parte dei modelli progettati da Cini Boeri per Arflex. La sua serie Strips ottenne il<br />

Compasso d’Oro nel 1972,<br />

In generale, tecnologia a parte, a fronte di prodotti ad un tempo semplici e raffinati, esiste il risvolto negativo<br />

nell’uso della plastica che, per il basso costo della materia prima e soprattutto della lavorazione, ha alimentato<br />

fortemente il cosiddetto design anonimo, tal che si passa dal più raffinato oggetto in abs o appunto in poliuretano,<br />

magari vincitore di un «Compasso d’Oro», alle seggiole che arredano i bar all’aperto o gli stabilimenti<br />

balneari e che, tradendo la particolare caratteristica formale dei prodotti d’arredo in plastica, ossia il minimalismo,<br />

imitano, magari con un semplice intaglio sui piani dei sedili e delle spalliere, modelli del passato<br />

costruiti in legno o altro materiale; per non parlare della nautica da diporto, regno incontrastato, tranne le<br />

solite eccezioni, del kitsch.<br />

Naturalmente il minimalismo non si limita ai prodotti di plastica; si addice anche e soprattutto ai nuovi ma-


teriali, all’uso di un materiale solo, ad articoli dalla geometria elementare senza peraltro censurare la fantasia.<br />

In questa ampia prospettiva, citiamo a mo’ di esempio di minimalismo non affidato alla plastica modelli quali:<br />

le sedie, i tavoli, i tavolini, le poltrone e i divani disegnati come col «fil di ferro», tanto sono immateriali, da<br />

Fronzoni nel ‘64 e prodotti da Cappellini fino al ‘96; il tavolo tondo coi piedi in ottone regolabili di Gardella<br />

per Azucena del ‘51; il mobile bifronte a scaletta Rampa dei Castiglioni del ‘63 per Bernini; la poltrona Mies<br />

degli Archizoom del ‘69 per Poltronova; il tavolo Orseolo di Carlo Scarpa per Simon del ‘73; il sistema di<br />

mobili componibili Oikos di Antonia Astori per la Driade del ‘73; la sedia Delfina (Compasso d’Oro ‘79)<br />

di Enzo Mari, prodotta da Driade nel ‘74; dello stesso autore i tavoli Frate e Fratello per la Driade nel ‘74;<br />

l’appendiabiti Sciangai di De Pas, D’Urbino e Lomazzi per Zanotta del ‘74 (Compasso d’Oro ‘79); la lampada<br />

da tavolo Atollo di Magistretti per O-Luce del ‘77 (Compasso d’Oro ‘79); il sistema Bric di Enzo Mari e Antonia<br />

Astori per Driade del ‘78; la Spaghetti Chair di Giandomenico Belotti per Alias dell’80; dello stesso anno<br />

è il sistema Oikosdue di Antonia Astori per Driade. Tutta la produzione di Aldo Rossi designer - la caffettiera<br />

La conica (‘83), il bollitore Il conico (‘86), la caffettiera La cupola (‘88) per Alessi, la sedia Milano per Molteni<br />

dell’87, ecc. - è minimalista, come del resto la gran parte delle sue architetture. Un analogo discorso può farsi<br />

per Mario Botta: il carattere dei suoi edifici, simmetrici per un moderno classicismo, razionali ed essenziali,<br />

si ritrova puntualmente nei mobili che agli inizi degli anni Ottanta progettò per Alias, in particolare le sedie<br />

Prima e Seconda.<br />

Continuando la nostra rassegna del Minimalismo, vanno ancora menzionati tra i più rappresentativi dello<br />

stile i principali modelli di Philippe Starck per la Driade: la seggiola Serapis, la poltrona Von Vogelsang, i<br />

tavoli Titos Apostos e Tippy Jackson, tutti dell’85; la sedia Tonietta di Enzo Mari dell’87 per Zanotta; la sedia<br />

in policarbonato Light-light e il tavolo Dry con la struttura minimal in poliuretano armato di Alberto Meda<br />

dell’87 per Alias; lo scaletto in plastica Upper di Paolo Rizzatto del 2001 e il tavolino Jolly in plastica colorata<br />

e trasparente del 2002, entrambi per la Kartell.<br />

Oggetti minimalisti sono stati progettati da designer che figurano anche in altre tendenze stilistiche; è il caso<br />

di Caccia Dominioni che, per Azucena, disegna nel ‘53 la lampada da terra Monachella con base circolare in<br />

ghisa, asta di ottone e lamiera di alluminio piegato che nasconde la lampadina, modello che viene replicato<br />

l’anno dopo in versione da tavola e catalogato come Lta2.<br />

Mi piace terminare questo capitolo sul Minimalismo ancora con alcune conclusioni di Vanni Pasca che, tra<br />

l’altro, hanno il merito di una inusuale chiarezza di posizione critica. I capisaldi del discorso sullo stile in<br />

esame e la relativa storicizzazione sono: l’esistenza di un filone minimalista che attraversa tutta la storia delle<br />

forme, la reazione all’estetismo degli anni Ottanta, la crisi economica degli anni Novanta. A questi fatti, per<br />

così dire, strutturali, vanno aggiunte opportunamente considerazioni critiche e polemiche.<br />

«Negli anni ottanta i teorici del design neoromantico sostengono che una nuova casa, `una casa calda’, si sta<br />

sostituendo alla fredda casa del razionalismo. Il design neoromantico afferma la propria legittimità proprio<br />

come risposta a una domanda di estetizzazione del quotidiano presente tra la gente». Pasca nega questa esigenza<br />

sostenendo che la domanda del pubblico continua ad essere orientata verso la linea razionalista. E ciò<br />

per varie ragioni. «Prima di tutto il design italiano di matrice razionalista ha scarsi rapporti con la freddezza<br />

scientista dell’avanguardia ulmiana; anzi, con la centralità dell’insegnamento di Rogers negli anni cinquanta,<br />

ha sempre praticato un razionalismo temperato, attento alla tradizione e alle tipologie degli arredi. Così è<br />

proprio il design neoromantico ad apparire estraneo, nella sua esibita `artisticità’, a una tradizione e a un’idea<br />

dell’abitare. [...] Malgrado l’effervescenza del pluralismo estetizzante e il suo successo di stampa, il design neoromantico<br />

non trova un reale sbocco di mercato e resta in gran parte fenomeno da esposizione e da collezionismo,<br />

oggi da modernariato. [...] Così, per le industrie, il minimalismo diventa legittimazione culturale<br />

della semplicità tipica del prodotto industriale di serie, al quale rivolgono ora grande attenzione; o della semplicità<br />

di nuove collezioni di arredi, pensate per una casa che non vuole essere né opera d’arte totale né classicamente<br />

borghese, le due ipotesi più diffuse negli anni ottanta. [...] oggi sembra essersi aperta in più situazioni<br />

una ricerca di ‘ricostruzione razionale’ del progetto. Questo nuovo razionalismo intende affrontare quello<br />

che appare il tema centrale del decennio, progettare oggetti che traducano la complessità (formale, ecologica,<br />

relativa all’uso di nuovi materiali, al diffondersi di comportamenti abitativi nuovi) in una inclusiva semplicità:<br />

la semplicità come complessità risolta’, per dirla con Brancusi. Questo modo di intendere la semplicità è forse<br />

il più interessante e il più ricco di sviluppi, per la cultura progettuale di questa fine del secolo»12.<br />

Sul rapporto tra la cosiddetta de-materializzazione prodotta dalla tecnologia digitale e il minimalismo sono<br />

state svolte alcune considerazioni critiche comunque da menzionare. «Molto del design degli anni novanta,


definito minimalista, ha sicuramente nella supremazia della bidimensionalità dell’immagine la sua matrice.<br />

Anche se di chiara derivazione modernista, il minimalismo ha cercato non solo l’essenzialità nei suoi oggetti<br />

ma anche una forzata leggerezza dell’immagine, attraverso la riduzione di spessori, l’adozione di trasparenze<br />

e di superfici ampie in colori chiari (prevalentemente bianche)»13. In questa linea rientrano i prodotti di<br />

Antonio Citterio per B&B o Flexform, quelli di Piero Lissoni per Porro o quelli di Jean Nouvel per Uniform,<br />

la decorazione ottenuta con pixel sgranati o con circuiti stampati (si pensi alla lampada Lastra di Antonio<br />

Citterio per Flos, 1998), la fredda luminescenza dei video ampliata e trasferita su pareti o prodotti, ecc.<br />

Note<br />

1 K.McShine, presentazione nel catalogo della mostra «Primary Structures» al Jewish Museum di New York, 1966.<br />

2 Ibid.<br />

3 Cfr. H. Zinn, La storiografia di sinistra, in «Comunità», n. 160, giugno 1971.<br />

4 Cit. in V. Pasca, Design negli anni novanta, in F. Carmagnola, P. Pasca, Minimalismo, etica delle forme e nuova semplicità nel design, Lupetti, Milano 1996, pp.<br />

101-102.<br />

5 Cfr. R. De Fusco, G. Fusco, La «riduzione» culturale, in «Op. cit.» , n. 23, gennaio 1972.<br />

6 J.-B. D’Alembert, D. Diderot, La filosofia dell’Encyclopedie, Laterza, Bari 1966, pp. 68-69.<br />

7 Ivi, p. 59.<br />

8 Pasca, Design negli anni novanta cit., p. 98.<br />

9 A.G. Fronzoni, in Carmagnola, Pasca, Minimalismo, etica delle fame cit., p. 102.<br />

10 Cfr. G. Dorfles, Disegno negli strumenti di pensione, in «Stile Industria», n. 3, gennaio 1955.<br />

11 M. Meneguzzo, Bruno Munari, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 66.<br />

12 Pasca, Design negli anni novanta cit., pp. 107-111.<br />

13 C. Martino, Note sul design degli anni Novanta, in «Op. cit.», n. 110, gennaio 2001.


IL DESIGN DELLA LUCE<br />

Lampade, apparecchi per l'illuminazione, sistemi elettrotecnici figurano in altre parti di questo libro, ma<br />

data la loro importanza e la ricca letteratura di cui sono oggetto ritengo indispensabile dedicare ad essi un<br />

apposito paragrafo; oltre tutto, poiché il progetto di una lampada richiede un'attenzione che va dalla tecnica<br />

all'estetica, al rendimento e alla durata, non si tratta di delineare una semplice forma ma di studiare il<br />

prodotto in ogni suo aspetto, vale a dire di operare un design totale, motivo che porta a trattare l'argomento<br />

nel capitolo dedicato all'hi-tech. Si aggiunga che nel campo in esame la materia prima e data dal tipo di<br />

lampadina utilizzato, man mano che viene approntato dalla ricerca tecnica. «Nel corso del tempo il linguaggio<br />

del design ha interpretato in modo differente la tipologia degli apparecchi dell'illuminazione; l'adozione<br />

di diverse sorgenti ha permesso di realizzare inedite configurazioni e soluzioni tecnico-funzionali. In oltre<br />

cent'anni numerose fonti sono state introdotte sul mercato - dalla lampadina a incandescenza ai led - ogni<br />

volta fornite di differenti e migliori qualità, di tipo illuminotecnico, ma anche legate a dimensioni e costumi.<br />

Questo ha condizionato e orientato il design delle lampade, che in Italia ha raggiunto eccellenti livelli anche<br />

per una speciale capacità di dialogo fra i designer e le imprese»10.<br />

Nonostante la gamma vastissima di lampade è sempre possibile riconoscere alcune tipologie dominanti fra<br />

numerosi modelli. La prima tipologia è quella del Luminator che Luciano Baldessari, come abbiamo già visto,<br />

iniziò nel '29. Più famoso dell'oggetto di Baldessari è il Luminator che Achille e Pier Giacomo Castiglioni<br />

progettarono per Gilardi e Barzaghi, oggi in produzione della Flos; consiste in un semplice tubo cui è direttamente<br />

collegata la lampada spot e che ha per base tre tubi con una sezione tale da essere riposti all'interno del<br />

sostegno centrale ai fini dell'imballaggio; si tratta di un oggetto della massima semplicità e forse l'emblema<br />

del minimalismo nel settore degli apparecchi per la luce. Mutando tempi e gusto, va segnalato il Luminator<br />

di Ettore Sottsass, intitolato Callimaco e realizzato da Artemide nell'81: all'estremità di un tubo simile al<br />

precedente sono due tronchi di cono, rispettivamente con funzione di base e diffusore; al centro del tubo una<br />

maniglia utile a spostare la lampada.<br />

Se passiamo dalla tipologia high-tech a quella da considerarsi al polo opposto, ci troviamo nel campo delle<br />

lampade di vetro soffiato, di antica tradizione artigianale italiana, veneziana in particolare. Per la vetreria di<br />

Paolo Venini, iniziato al gusto moderno da Gio Ponti fra le due guerre, hanno lavorato i maggiori designer<br />

italiani, da Carlo Scarpa ad Ignazio Gardella, da Albini a Massimo Vignelli ai BBPR che nel '54 adottarono<br />

per il negozio Olivetti di New York dodici lampade a forma di cono in vetro colorato di oltre 60 centimetri<br />

di altezza, cioè la massima misura soffiabile. Altri protagonisti nel settore in esame furono Vinicio Vianello,<br />

designer e titolare dell'omonima vetreria e Oreste Vistosi; nella sua officina lavorarono Angelo Mangiarotti<br />

che progettò per Artemide le lampade Lesbo e Saffo ('67) e numerosi altri designer. Di molti prodotti non si<br />

cita più la vetreria esecutrice quanto l'azienda «editrice». Così Joe Colombo disegna Aton ('64) per O-Luce;<br />

Sergio Asti Daruma ('68) per Candle; Gae Aulenti Patroclo per Artemide ('75); Aulenti e Piero Castiglioni la<br />

lampada Parola per Fontana Arte ('80); fino alle più recenti Lanterna di Marta Laudani e Marco Romanelli<br />

(O-luce, '88), Oa di Philippe Starck (Flos, '96), Glass-glass di Paolo Rizzano (Luceplan, '98), Glo-ball di Jasper<br />

Morrison (Flos, '98), Astra di Denis Santachiara e Lara di Paolo Deganello (La Murrina, 2000)''.<br />

E veniamo alle lampade più pertinenti allo stile high-tech, quelle con fonte di luce mobile nell'ambiente. «Per<br />

il movimento nel corso del tempo si sono imposte due soluzioni: da una parte il sistema a bilanciamento con<br />

contrappeso fornito di snodo, introdotto dal francese Edouard Wilfrid Buquet e brevettato nel 1927; dall'altra<br />

il meccanismo con bracci arti colati regolati da molle, come era stato pensato dall'inglese George Carwardine<br />

nell'Anglepoise del 1934 [...], con immagine e funzionalità complessive ispirate alla fisiologia del braccio<br />

umano. Le molle di dimensioni diverse infatti rappresentano ‘i muscoli’ che tendono l'arto a piacere. La massiccia<br />

base garantisce la stabilità e la calotta ben orienta il flusso luminoso»12.<br />

Direttamente ispirata al secondo modello è la Luxo L-1, realizzata nel 1937 da Jacob Jacobsen che, pur<br />

mantenendo invariato il telaio strutturale, ne incrementa il numero di molle da tre a quattro rendendolo<br />

complessivamente più flessibile, mentre il diffusore acquista un unico profilo dalla forma «a cappuccio». Il<br />

modello norvegese è qui menzionato perché ha costituito il paradigma per molte lampade disegnate in Italia.<br />

Tra queste Berenice, disegnata da Alberto Meda e Paolo Rizzatto per Luceplan nel 1984, riduce lunghezza e<br />

funzione delle molle, affidando il movimento agli snodi, e adotta una calottina schiacciata in quanto alloggio<br />

di una lampadina alogena; Tolomeo di Michele De Lucchi e Giancarlo Fassina, realizzata per Artemide<br />

nel 1986, Compasso d'Oro nel 1989, esibisce per ogni braccio un cavetto di raccordo con le molle nascoste


all'interno delle aste; Fortebraccio, ancora di Meda e Rizzano (Luceplan, 2000) riprende lo schema di Berenice,<br />

accentuandone la snodabilità e potenziando il movimento dei giunti in ogni direzione, mentre il diffusore<br />

è progettato per accogliere ogni tipo di alimentazione: alogena, a incandescenza o a fluorescenza.<br />

Alla prima soluzione, quella a contrappeso, si rifà Richard Sapper che nel 1972 disegna per Artemide la<br />

lampada Tizio, costituita da una base cilindrica rotante, da cui si eleva una prima coppia di aste; a questa si<br />

collegano una seconda coppia di aste con contrappeso e una terza di lunghezza maggiore bilanciata da un<br />

lato come l'altra e dall'altro con il diffusore contenente una lampadina alogena.<br />

Alla logica del contrappeso si ispirano anche le principali lampade di Carlo Forcolini: la prima, Nestore (Artemide,<br />

'88), presenta una base circolare donde si eleva un tubo che ne contiene un altro di sezione minore,<br />

al quale è fissato un giunto triangolare, sorta di piccola mano a sua volta reggente una «lancia» curvilinea<br />

avente ad un lato una sfera sospesa e all'altro il diffusore con la fonte di luce; tutti i punti in cui si incontrano<br />

gli elementi sono snodabili e l'immagine complessiva delle varie posizioni si richiama chiaramente a Calder.<br />

Molto simile come sistema, ma assai diversa nella sua configurazione è la lampada Hydra (Nemo, 2003),<br />

caratterizzata dalla leggerezza dei materiali usati: acciaio per la struttura, alluminio pressofuso per gli snodi e<br />

il diffusore, fibra di carbonio per il braccio lungo. Essa è prodotta in cinque versioni: da tavolo, da lettura, da<br />

terra, da parete, a soffitto. Ancora fondata sul sistema del contrappeso è l'essenziale lampada Galileo, disegnata<br />

con Giancarlo Fassina e prodotta da 0y light nel 2005. Nelle versioni da tavolo e da lettura si tratta di una<br />

struttura ridotta a due soli elementi principali: l'asta che si eleva dalla base e quella che la incrocia nel punto<br />

giusto per stabilire un equilibrio assicurato dal contrappeso e dalla calottina ellittica di policarbonato trasparente<br />

che copre la fonte di luce.<br />

Tra le lampade sopra menzionate, come «fuori serie» citiamo qui la nota Arco di Achille e Pier Giacomo Castiglioni,<br />

realizzata da Flos nel 1962. Caratteristica di quest'opera è il fatto che pur proiettando la luce dall'alto<br />

in basso non è collegata al soffitto. Infatti da una base di marmo si incurva un arco estensibile, così distante<br />

dal tavolo da poter girare intorno a quest'ultimo. Il profilato in acciaio curvato di produzione standard consente<br />

questa distanza e reca al suo estremo un riflettore metallico composto da una calotta fissa forata e un<br />

anello mobile.<br />

Forse la più singolare lampada del design contemporaneo è la Toio del '62 disegnata dai Castiglioni per<br />

la Flos; pur essendo una lampada da terra a luce indiretta, presenta una conformazione che pare nata<br />

dall'insieme di pezzi ready made: una base di normali profilati metallici contiene il trasformatore necessario<br />

per passare dal voltaggio americano di 125 volt a quello europeo di 220 proprio dello spot da 300 watt posto<br />

in cima ad un sottile trafilato esagonale cromato; al termine di quest'ultimo un tondino di ferro con le sue<br />

curve e controcurve forma un alloggio per il grande faro da automobile; il filo che lo lega al trasformatore<br />

corre parallelo al trafilato di sostegno al quale è assicurato da una serie di passanti che richiamano quelli delle<br />

canne da pesca. Simile alla Toio è la Parentesi (Compasso d'Oro 1979), ideata da Achille Castiglioni e realizzata<br />

dalla Flos nel '71. Su un filo d'acciaio sospeso tra soffitto e pavimento, qui trattenuto da una base pesante,<br />

è inserito un tubo sagomato a forma appunto di parentesi che porta un giunto rotante di gomma su cui è fissato<br />

il portalampade con lo spot; il movimento verticale della fonte di luce è assicurato dallo spostamento del<br />

tubo sagomato, quello orizzontale dal giunto posto vicino al portalampade. Il minimalismo di Parentesi non è<br />

dote capace di sostituire l'espressività della più complessa Toio.<br />

Da considerarsi anch’esse «fuori serie» sono: la lampada da tavolo 607 di Gino Sarfatti del '71, funzionante<br />

con lampadina alogena; la lampada D7 di Rizzatto e Colbertaldo per Luceplan (Compasso d'Oro 1981); le<br />

lampade Lola e ritmici di Meda e Rizzatto per Luceplan. La prima dell'87 è composta da tre parti realizzate<br />

in materiali diversi: la base a treppiede pieghevole in zama pressofusa, l'asta di tubi telescopici in fibra cli<br />

carbonio, la testa portalampada, dalla forma di due dita aperte, contenente una lampadina alogena, in un<br />

composto resistente alle alte temperature. La Titanta dell'89, progettata con l'ausilio del computer, è composta<br />

da due ellissi maggiori saldate fra loro a 90° e formanti il perimetro esterno del meccanismo entro il quale<br />

sono fissate 24 ellissi minori che fiancheggiano la centrale parte luminosa che, grazie all'inserimento di filtri<br />

policromi, produce variazioni di luce colorata. La lampada può essere collegata al soffitto ovvero orientata<br />

diversamente attraverso un sistema di saliscendi. Non è da escludere un intento Op Art per la possibilità di<br />

percepire l'oggetto, a seconda del punto di vista, come un insieme lamellare oppure come un unico e compatto<br />

volume.<br />

Naturalmente la cosiddetta «immaterialità» della tecnologia digitale ha trovato il suo terreno d'elezione nel<br />

campo dell'illuminotecnica: «in questi ultimi anni si è assistito ad un fiorire di proposte basate su concetti


innovativi quali la temporizzazione e la variazione cromatica. [...] La Artemide, nel 1996, ha avviato il programma<br />

di apparecchi di illuminazione Metamorfosi, per il quale designer di fama internazionale sono stati<br />

chiamati a dare forma ad un nuovo concetto di lampada, basato sull'utilizzo di un circuito elettronico, che<br />

permette alla luce di cambiare colore e intensità»13.<br />

Note<br />

1 L. Sacchi, Storicità dell'High-tech, in «Op. Cit.», P. 81, maggio 1991.<br />

2 Cit. in M. Dini, Renzo Piano, progetti e architetture 1964-1983, Electa, Milano 1983, p. 126.<br />

3 R. Rogers in Richard Rogers-architect, Architectural Monographs, Academy Edition, London 1986, pp. 124-133.<br />

4 Sacchi, Storicità dell'High-tech cit.<br />

5 Ibid.<br />

6 Cit. in Dini, Renzo Piano cit., p. 156.<br />

7 E. Morteo, Il mobile e la macchina. Due progetti di seggiole per ufficio, in «Domus», n. 719, settembre 1990.<br />

8 G. Corretti, La tecnologia avanzata, in II Design italiano 1964-1990, a cura di A. Branzi, Electa, Milano 1996, p. 31-1.<br />

9 E. Stanzini, Nuovi materiali e ricerca progettuale, in II Design italiano 1964-1990 cit., p. 329.<br />

10 A. Bassi, Lampade e lampadine, design della luce e sorgenti luminose, in A. Bassi, F. Bulegato, Catalogo della mostra omonima, Fiera di Brescia 2004, pp. 7-8.<br />

11 Cfr. Bassi, Lampade e lampadine cit., pp. 202-203.<br />

12 A. Bassi, La luce italiana design delle lampade 1945-2000, Electa, Milano 2003, pp. 233-234. "<br />

13 C. Martino, Note sul design degli anni Novanta, in «Op. cit.», n. 110, gennaio 2001.


IL DESIGN COME GIOCO<br />

ALESSI<br />

In un articolo del 2005, Alberto Alessi, amministratore delegato e direttore generale della prima di dette<br />

aziende perché nata nel 1921, scrive: «Ci sono due modi di vedere il design, delineati chiaramente alla fine<br />

del secolo XX: due approcci al design molto diversi e addirittura in contraddizione tra di loro. Da un lato<br />

c’è l’interpretazione del design tipica della Industria di Produzione di Grande Serie, che vede il design semplicemente<br />

come uno dei tanti strumenti della tecnologia e del marketing. [...].Il secondo modo di guardare<br />

al design è quello tipico invece delle `Fabbriche del Design Italiano’: il design inteso come Arte e Poesia. [...]<br />

un’autentica Missione, una sorta di filosofia generale, di `Weltanschauung’ che sta alla base di tutta la pratica<br />

aziendale. [...] noi riteniamo che la nostra vera natura somigli più a un ‘Laboratorio Industriale di Ricerca<br />

nel Campo delle Arti Applicate’ che non ad una industria nel senso tradizionale del termine. Un laboratorio<br />

il cui ruolo è quello di esercitare una continua attività di mediazione fra, da un lato, le espressioni più avanzate<br />

e più effervescenti della creatività internazionale e, dall’altro, i desideri (o meglio i sogni) della gente. Un<br />

laboratorio che crede che il progresso della nostra società debba essere il frutto di un’incessante dialettica fra<br />

il business e la cultura»7.<br />

In un altro testo, il riferimento al gioco diventa più esplicito. «Io penso che lo scopo del design in futuro<br />

(perlomeno: il nostro scopo per il futuro nel mondo del design) dovrebbe essere proprio questo, trasformare<br />

il destino di gadget degli oggetti nella nostra società dei consumi in una opportunità transizionale, vale a<br />

dire in una opportunità per i consumatori di crescere e di migliorare la loro percezione del mondo. Si tratta<br />

di un’attività dalla natura tipicamente paradossale (come paradossale è il gioco dei bambini). Paradossale nel<br />

senso para dochè, a fianco della regola, della norma, dello standard, al fine di cogliere appieno la cosiddetta<br />

realtà del mondo e della vita».<br />

Detto in altri termini, negli scritti di Alessi si trova una distinzione tra il design rigoroso di estrazione razionalista,<br />

per così dire hard, e quello soft, basato sulla fantasia, sulla cordialità, appunto sul gioco. Questa<br />

seconda linea s’incarna negli oggetti casalinghi e, secondo qualche critico, in quelli da regalo; emblematici i<br />

prodotti chiaramente ludici della collezione Family Follow Fiction del 1992. Questa comprende, tra gli altri,<br />

il fallico accendigas elettronico Firebird di Venturini, il fumettistico servizio per sale e pepe Lilliput di Giovannoni,<br />

e la teiera zoomorfa Penguin tea di Caramia. La caratteristica di tali oggetti è quella di richiamare la<br />

memoria affettiva del fruitore, mediante lo studio di forme, materiali e colori simili ai giocattoli. «La plastica<br />

è la materia dei soldatini, dei pupi e dei gadget, portatrice indiscutibile di una memoria ludica» 8, ed è proprio<br />

la plastica, con le sue proprietà tattili, il materiale prevalente in questi prodotti.<br />

Come scrive Carlo Martino, «il fenomeno di gadgetizzazione ha investito proprio quegli oggetti che in passato<br />

rappresentavano i cosiddetti ricordi, tradizionalmente di fattura artigianale pregiata, la quale attribuiva<br />

preziosità e valore allo stesso. Ma nell’articolo da regalo è stata individuata anche la minore richiesta di<br />

contenuto funzionale da parte del fruitore rispetto ad altri prodotti, rappresentando di fatto uno dei campi<br />

legittimati per la ricerca di frivolezza. Gli oggetti associabili al fenomeno di gadgetizzazione hanno inaugurato<br />

un nuovo linguaggio nel design neo-organico, caratterizzato dal chiaro riferimento a forme biomorfe<br />

e dall’uso di colori vivaci. A distanza di anni, il successo del fenomeno ha portato ad una applicazione degli<br />

stessi caratteri anche a tipologie merceologiche diverse, connotate al contrario da una tradizionale durevolezza.<br />

Non a caso Stefano Giovannoni e Guido Venturini, autori di alcuni dei pezzi più riusciti dell’Alessi, sono<br />

stati chiamati a trasferire gli stessi stilemi su complementi d’arredo o mobili (per Giovannoni sgabelli, sedie e<br />

poltroncine Bobo per Magis, per Venturini mobili contenitori e librerie per BRF)»9.<br />

Il design come gioco implica anche quello della corporate image, ossia il programma di un’azienda volto a<br />

definire la sua identità e a comunicarla con efficacia. Tale programma riguarda appunto anche l’Alessi, della<br />

quale è stato scritto: «Con la consulenza di Alessandro Mendini, tra il 1980 e il 1983, si elabora una strategia<br />

che mira a riposizionare l’azienda sul mercato, affermandone una nuova identità di prestigio. Nasce la collezione<br />

Tea and Coffee Plaza, oggetti d’argento in serie limitata: undici servizi da tavola, pensati come edifici<br />

intorno a una piazza, progettati da architetti implicati in un discorso sontuosamente eclettico di rapporto<br />

con la storia, come C. Jencks, M. Graves, H. Hollein, P. Portoghesi, R. Venturi e così via. La collezione viene<br />

presentata con una serie di mostre-eventi costruiti non in fiere ma in gallerie e musei in tutto il mondo, con<br />

effetto shock perché ci si contrappone al modern che fin allora aveva caratterizzato le aziende design oriented.<br />

La strategia ha successo e Alessi, da azienda di oggetti economici, diventa internazionalmente sinonimo


di design postmodern. Ma decisivo per il successo di Alessi è lo spremiagrumi di Philippe Starck, Juice Salif<br />

(1988), che riscuote un successo da cui è inscindibile la campagna fotografica per la pubblicità. [...] Negli anni<br />

Novanta, poi, con gli oggetti colorati, dalle forme morbide e arrotondate, di Stefano Giovannoni, nasce per<br />

Alessi un fenomeno nuovo, un diffondersi internazionale di oggetti ‘giocattolosi’. Probabilmente è da questi<br />

oggetti che di recente Bruce Sterling, l’autore di fantascienza ora autore di un libro di previsioni, Tomorrow<br />

now, trae ispirazione per immaginare i blobjects, oggetti blob che invaderanno il nostro futuro»10<br />

Note<br />

1 S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, Utet, Torino 1972, vol. VI, p. 798.<br />

2 C. Martino, Note sul design degli anni Novanta, in «Op. cit.», n. 110, gennaio 2001.<br />

3 J.Ch. Schiller, Lettere sull’educazione estetica, Firenze 1937, 6a lett.<br />

4 Ivi, 9a lett.<br />

5 H. Marcuse, Eros e civiltà, Einaudi, Torino 1964, p. 190.<br />

6 F. Menna, Profezia di una società estetica, Lerici, Roma 1968, pp. 1-18-151.<br />

7 A. Alessi, La sfida, Alessi, fabbrica del design, in «Civitas», n. 3, novembre 2005.<br />

8 F. La Cecla, Family Follows Fiction, in L’oggetto dell’equilibrio, Alessi Electa, Milano 1996, pp. 151-167.<br />

9 C. Martino, Note sul design degli anni Novanta, in «Op. cit.», n. 110, gennaio 2001.<br />

10 V. Pasca, D. Russo, Sulla corporate image, in «Op. Cit.», n. 120, maggio 2004.<br />

11 A .C. Quintavalle, Enzo Mari, Centro studi e archivio della comunicazione dell’Università di Parma, Parma 1983, p. 16.<br />

12 Ivi, p. 18.<br />

13Ivi, p. 19.<br />

14 G. D’Amato, Gli oggetti del desiderio, in F. Irace, Driadebook, un quarto di secolo in progetto, Skira, Milano 1995, p. 187.<br />

15 D. Dardi, Il design di Alberto Meda, una concreta leggerezza, Electa, Milano 2005, p. 63.<br />

16 G. Pardi, Apocalypse Now, in C. Forcolini, Immaginare le cose, Electa, Milano 1990, p. 48.<br />

17 V. Pasca, nel catalogo Aleph della Driade dedicato alla serie Ubik.<br />

18 Intervista a Gaetano Pesce, aprile 2000, in C. Martino, Gaetano Pesce, materia e differenza, Testo & immagine, Torino 2003.<br />

19 C. Martino, Note sul design degli anni Novanta cit., p. 43.<br />

20 K.M. Armer, A. Bangert, E. Sottsass, Design anni ottanta, Cantini Editore, Firenze 1990, p. 38.<br />

21 S. Giedion, L’era della meccanizzazione (1948), trad. it. Feltrinelli, Milano 1967, p. 360.<br />

22 Ibid.<br />

23 P.A. Tuminelli, Plastica, in «Domus», n. 776, novembre 1995.<br />

24 C. Martino, Note sul design degli anni Novanta cit., pp. 42-43.<br />

25 G. Pesce, Le temps des questions, Editions du Centre Pompidou, Paris 1996.<br />

26 Cit. in Martino, ; Note sul design degli ami Novanta cit., pp. 78 sgg.<br />

27 Ivi, p. 85.<br />

28 E. Manzini, C. Vezzoli, Lo sviluppo dei prodotti sostenibili, Maggioli Editore, San Marino 1998, 13.<br />

29 M.A. Sbordone, Design e Activity Theory, in «Op. cit.», n. 126, maggio 2006.<br />

30 R. Salmi, Introduzione a T.W. Adorno, Minima Moralia, Einaudi, Torino 1954, p. XLI.


IL DESIGN COME GIOCO<br />

IL GIOCO ANTROPOMORFO<br />

Che i prodotti del design, specie quelli più a contatto con la persona, abbiano una relazione col corpo umano<br />

è cosa scontata. Lo è meno se si considerano i modi e le forme di tale relazione, sia attraverso il tempo<br />

della storia, sia nelle varie tipologie, sia grazie alle varie tecnologie chiamate in causa oggi, sia infine per<br />

l’accentuazione semantica che alcuni designer vogliono conferire ai loro oggetti: sedie, poltrone e divani, lampade,<br />

indumenti, specie quelli per lo sport, moto, biciclette, ecc. Quella antropomorfa è una linea nettamente<br />

distinta da tutte le altre, intrinsecamente ludica, ed essendo riscontrabile come una riconoscibile invariante<br />

nei più diversi articoli merceologici, deve logicamente costituire uno stile.<br />

Una prima interpretazione di quest’ultimo potrebbe essere di tipo prossemico. Com’è noto, la prossemica<br />

è una disciplina derivata dalla semiotica e proposta alla metà degli anni Sessanta da Edward T. Hall, che<br />

studia il «significato» delle distanze poste dall’uomo fra sé e i suoi simili e/o fra sé e gli oggetti di cui si circonda<br />

nella vita quotidiana. Ponendo l’accento sul significato della distanza spaziale, dal rapporto erotico<br />

all’urbanistica, tale disciplina s’interessa prevalentemente degli aspetti comunicativi, semantici, semiotici,<br />

linguistici e per essi sociali del problema, tant’è che la classificazione adottata dall’autore americano si fonda<br />

su quattro tipi di distanza: quella intima, quella personale, quella sociale e quella pubblica.<br />

Nella nostra esposizione possiamo solo parzialmente seguire la linea di Hall: anzitutto perché non è soltanto<br />

il problema del significato della distanza fra l’uomo e gli oggetti che ci interessa, quanto soprattutto quello<br />

della forma che questi ultimi assumono in relazione alla distanza con l’uomo. Si tratta in sostanza, accantonando<br />

temi sociali e comportamentistici, di accogliere il suggerimento della distanza e di trasferirlo dal<br />

campo della significazione a quello della conformazione. Ma per effettuare questo passaggio è necessaria<br />

un’altra distinzione fra i nostri e i criteri di Hall. Nella prossemica vera e propria si dà per nota e definita<br />

tanto l’entità del soggetto quanto quella dell’oggetto, la distanza significando il loro rapporto. Nel nostro caso,<br />

mentre si dà per nota la struttura del soggetto-uomo, anzi sulla sua capacità percettiva si fonda gran parte del<br />

nostro ragionamento, non si dà affatto per scontata quella degli oggetti. Conosciamo o possiamo acquisire sì<br />

le loro valenze estetiche, funzionali e tecniche, ma pur essendo necessarie esse non sono sufficienti per una<br />

definizione morfologica.<br />

Pertanto i tipi di manufatti da includere in ciascuna categoria vanno, in prima istanza, riconosciuti proprio<br />

dalla nozione di «distanza» o, meglio, dalla «distanza-funzione» dal fruitore: a questa si deve in gran parte<br />

la forma degli oggetti. In tal modo riteniamo, per un verso, di accantonare il problema della comunicazione<br />

del significato in quanto non pertinente il nostro argomento e, per un altro, di superare il mero funzionalismo<br />

in quanto, grazie alla distanza-funzione, attribuiamo a ciascun oggetto o gruppo di oggetti un principio<br />

conformativo antropologico-spaziale; una sedia, per esempio, non va considerata per la sua specifica utilità<br />

(un oggetto che serve per), ma per la sua forma-contatto col corpo umano, in una classificazione più ampia,<br />

quella di tutti gli oggetti che «sostengono» tale corpo.<br />

Assunta la nozione di distanza-funzione come parametro dello stile antropomorfo, almeno per quanto concerne<br />

le indicazioni fornite dalla prossemica, al primo posto in una ideale classificazione andrebbero collocati<br />

gli indumenti che indossiamo, la cui distanza dal nostro corpo è minima. quasi una sua interfaccia, se<br />

non addirittura un suo stampo. Al secondo posto andrebbero collocati i mobili, specie sedie e poltrone, con i<br />

quali stabiliamo uno spazio «Contatto»: quindi andrebbero classificati i prodotti resi antropomorfi perché in<br />

contatto solo con una parte del nostro corpo: posate, bicchieri, tazze, oppure maniglie, telecomandi e simili:<br />

ad un livello successivo andrebbero posti prodotti quali sci, biciclette, moto, ecc. in cui, oltre la componente<br />

prossemica va considerata quella relativa al dinamismo: più avanti, nell’esemplificare queste merceologie<br />

citerò i modelli più significativi del design italiano contemporaneo.<br />

Precedenti dello stile che studiamo sono gli arredi del Settecento, il secolo in cui, specie con il Rococò.<br />

l’arredamento sembra prevalere sulle altre arti sussumendole tutte. E in quest’epoca che il corpo, sia<br />

nell’accezione meramente fisica, sia in quella che rimanda alla significazione. diventa il centro di ogni moto<br />

del gusto, di ogni manifestazione del costume. Alla grande manière, che aveva contrassegnato il Barocco,<br />

specie in Francia, subentra la douceur de vivre: a un atteggiamento di classico e razionale ideale eroico se ne<br />

alterna un altro prettamente edonistico, rivolto al piacere fino al libertinaggio: l’austero pittore Le Brun lascia<br />

il campo al sensuale Watteau e al disinibito erotismo di Boucher e di Fragonard. Nell’arredamento si afferma<br />

il principio della convenance, da intendersi come il funzionalismo di allora, grazie al quale sedie, poltrone


e divani aderiscono tanto alla forma del corpo umano quanto al costume del tempo. Infatti alcune delle<br />

principali fogge di poltrone settecentesche - la cabriolet, la più imbottita bergère hanno i braccioli rientranti<br />

rispetto al filo anteriore del sedile per consentire alle dame di sedere senza danno per le loro larghe vesti con<br />

sostegni a «paniere». Analogamente gli schienali sono alti al punto giusto affinché la dama possa poggiare<br />

le spalle senza rovinare l’acconciatura dei capelli. La bergère presenta numerose varianti fra cui la «confessionale»,<br />

così detta per il suo schienale limitato in alto da due «orecchie», per poggiarvi il capo. e la voyeuse o<br />

pointeuse. Si tratta di una poltrona dallo schienale piatto, sormontato da un piccolo ripiano anch’esso imbottito,<br />

che consentiva a una persona in piedi di appoggiarsi da dietro per unirsi alla conversazione o puntare<br />

una posta in una partita a carte, donde il doppio nome del modello. Dalla poltrona bergère deriva altresì la<br />

vasta serie dei divani: il canapé à corbeille, una dilatazione della citata poltrona per accogliervi più persone;<br />

la veilleuse, un divano che presenta uno dei suoi lati corti del tutto simile alla bergère vista di profilo, ma con<br />

la variante di avere un solo bracciolo mentre l’altro diventa un lungo schienale, via via decrescente in altezza<br />

fino a raggiungere l’altro lato, ora senza più braccioli. Oltre a proteggere con la sua parte più alta la testa e con<br />

la sua parte più bassa i piedi della persona che giace distesa su un unico morbido cuscino, la veilleuse costituisce<br />

forse il modello più dissimmetrico e antropomorfo di tutta la produzione del tempo. Il tipo di divano<br />

descritto può inoltre considerarsi una sintesi delle diverse versioni di poltrona con prolunga per poggiarvi<br />

le gambe: la chaise langue duchesse, una bergère con poggiapiedi; la duchesse brisée, ossia un mobile a tre<br />

pezzi, composto da una poltrona a spalliera alta, un poggiapiedi e ancora una poltrona a spalliera bassa, ecc.<br />

Tanto grande è stato il successo della chaise longue duchesse che, nata nella linea del gusto rococò, si ritrova<br />

negli stili posteriori, dal neoclassico ai giorni nostri: si pensi ad alcuni divani disegnati da Deganello, già citati<br />

in un precedente capitolo. Un altro modello antropomorfo ispirato alla chaise longue duchesse è quello disegnato<br />

da Borek Sipek per Driade nell’87, classificabile anche nei modelli polimaterici per l’uso dell’acciaio nella<br />

struttura, della gommapiuma, della pelle e del legno. La più recente versione della chaise longue duchesse può<br />

riconoscersi nella seduta Landscape’05 di Joffrey Bernett del 2005 per B&B.<br />

Un richiamo al Settecento - la presenza delle «orecchie» della bergère «Confessionale» - mostra un’altra<br />

poltrona imbottita in forma antropomorfa, la Wink di Toshiyuki Kita per Cassina del 1981, ma si tratta di un<br />

improbabile ricordo. Qui le parti laterali alla spalliera sono in funzione dell’articolazione di questo originalissimo<br />

modello. Di esso si legge in una pubblicazione del ‘90: «il mobile che merita la denominazione di classico<br />

degli anni Ottanta e che può essere considerato una delle più significative creazioni del decennio è opera<br />

di un giapponese. E suo geniale progetto fu realizzato, però, insieme alla ditta italiana Cassina. Il designer<br />

giapponese Toshiyuki Kita non solo si è guadagnato di sicuro un posto nelle sacre sale del museo di arte<br />

moderna, ma ha anche realizzato un colpo nel mondo del design di produzione con la sua poltrona Wink<br />

che tramite le articolazioni mobili interne può essere collocata proprio come il corpo umano, in posizione<br />

sdraiata o seduta e che, per di più, può scrollare le `orecchie’. Il suo più elegante parente borghese, il sistemaveranda<br />

sviluppato da Cassina [Magistretti disegnò nell’83 un divano intitolato Veranda], può essere mosso<br />

con le articolazioni interne, come anche i divani di Arflex, ma non eguaglia l’amabile originalità della bizzarra<br />

poltrona con gli orecchioni. Nel caso di Wink, le cose vanno come di solito per tutte le invenzioni. Le prime<br />

soluzioni, quando l’idea è ancora fresca e illuminata, sono per lo più le migliori e le più coerenti. Una Wink,<br />

come una sedia Thonet o una Freischwinger, la si può variare ma non la si può migliorare»20.<br />

Ritornando ai precedenti antropomorfi ereditati dalla tradizione, il design di oggi non è solo debitore verso il<br />

Settecento; pensiamo ai «mobili brevettati» dell’Ottocento che richiamarono l’interesse di Giedion. Dopo aver<br />

notato che, rispetto al gusto dominante dell’Ottocento, l’altra faccia del secolo è rappresentata dalle costruzioni<br />

degli ingegneri e dai mobili brevettati, egli dichiara questi ultimi meglio rispondenti, con la loro trasformabilità<br />

e funzionalità, alle esigenze dei ceti medi in ascesa. Si sofferma pertanto su alcune considerazioni<br />

di carattere tecnico. «Il mobile viene scomposto negli elementi singoli: si tenta, nei limiti delle possibilità,<br />

di adattarlo al corpo umano. Non è un caso che il problema degli arti artificiali attiri nell’identico momento<br />

tanto interesse. I piani, sezionati in elementi, vengono collegati e regolati da un congegno meccanico [...]<br />

il mobile ha cessato di essere uno strumento inerte. Esso può adempiere contemporaneamente a parecchie<br />

funzioni. [...] Ottenere il comfort con un adattamento attivo al corpo e non offrendo cuscini, in cui il corpo<br />

sprofondi passivamente, rende evidente la differenza che intercorre fra i mobili essenziali e quelli transitori<br />

del secolo passato»21. I mobili brevettati sono prodotti soprattutto negli Stati Uniti e si possono distinguere<br />

in tipi destinati a nuove esigenze e in tipi tradizionali realizzati con nuove soluzioni. I primi comprendono<br />

poltrone articolabili e trasformabili per invalidi, per studi medici - come quelli dei dentisti -, per barbieri;


sedili ribaltabili per vagoni ferroviari o per scuole e laboratori; interi arredi per vagoni letto, ecc. I secondi<br />

comprendono poltrone con struttura metallica trasformabili in divani, letti, poltrone a dondolo, letti che, per<br />

economia di spazio, si combinano con divani, armadi, scrivanie.<br />

Appare evidente che in questa categoria di mobili la componente ludica si trasforma in una esplicitamente<br />

dinamica: «nei mobili brevettati, il problema fondamentale è un problema di movimento. Pressappoco fra<br />

il 1850 e il 1893, gli Americani disponevano di una fantasia quasi inesauribile per quanto riguardava i vari<br />

modi di risolvere, nel mobile, i problemi del movimento. Talvolta non approfondivano neppure a quale scopo<br />

particolare dovesse servire una seggiola, ma intendevano semplicemente scoprire un nuovo meccanismo,<br />

cioè in quale maniera si potesse dare al sedile un’inclinazione all’indietro o in avanti, e successivamente fissarla.<br />

L’ufficio americano dei brevetti fu costretto a stabilire una speciale categoria per le seggiole inclinabili.<br />

Pur essendo molteplici i metodi, le soluzioni di movimento non sono ovvie. Anche nei mobili europei dopo<br />

il 1920 s’impose un adattamento alla forma del corpo umano. Ma la scomposizione in piani mobili manca<br />

nella maggior parte dei casi. E quindi si resta immobilizzati nella posizione del telaio e non si viene riportati<br />

(come accade invece nella poltrona da barbiere americana) dalla posizione da sdraiati in quella normale che<br />

rende naturale l’alzarsi in piedi. [...] L’America, pur partecipando alle grandi Esposizioni mondiali europee<br />

dal 1851 al 1889, non si vergognava dei suoi mobili `antiartistici’, che sfiguravano di fronte ai pezzi da parata<br />

europei»22.<br />

Non è chi non veda come tutta l’ampia produzione high-tech di sedie per ufficio non derivi direttamente dal<br />

settore indagato per primo da Giedion. Qui non ci resta che segnalare qualche attuale modello italiano corrispondente<br />

alla tendenza indicata dallo storico svizzero, come ad esempio l’Isotron, apparecchiatura odontoiatra<br />

della Giugiaro Design per la Eurodent Industrie Spa, premiata con il Compasso d’Oro del 1991.<br />

Passando alla linea antropomorfa legata ai materiali, l’influenza delle materie plastiche è notevole ai fini delle<br />

opere di questo stile. Intanto, già dalla loro iniziale conformazione, le plastiche non presentano una struttura<br />

propria ma acquistano forma da uno stampo, a sua volta ideato per conformare un prodotto in molti casi<br />

antropomorfo. Il campo d’elezione è quello già citato delle sedie, poltrone e divani. Questo, nel settore degli<br />

imbottiti, acquista aderenza col corpo, grazie soprattutto alla morbidezza dei cuscini o dell’imbottitura; le<br />

sedute di plastica invece svolgono la stessa funzione grazie escusivamente alla loro forma modellata ad hoc<br />

e non si possono modificare ad opera dell’utente. Le più belle e comode sedie e poltrone in plastica, dalla<br />

Melania di Rodolfo Bonetto per la Driade alla Selenia di Vico Magistretti per Artemide, entrambe del ‘69,<br />

dall’intelligente proposta della sedia Cattedrale di Afra e Tobia Scarpa del ‘68 per B&B al modello 4850 in<br />

abs di Giorgina Castiglioni del ‘70 per Kartell, dal modello 4854 di Gae Aulenti del ‘72 ancora per Kartell alla<br />

Vicario di Magistretti del ‘70 per Artemide, costituiscono solo un piccolo qualificato campionario di una produzione<br />

tutta orientata ad ottenere il massimo del comfort con sedute realizzate nella sola plastica a stampo.<br />

Un tappezziere ottocentesco e/o un ingegnere progettista di mobili «brevettati» non avrebbe puntato un<br />

soldo sul comfort di questa produzione novecentesca, in parte non del tutto sbagliando perché, nonostante<br />

l’ergonomia e l’antropometria, i modelli costruiti in plastica a stampo non consentono nessuno dei cento<br />

movimenti e aggiustamenti di una persona seduta su un mobile imbottito o movibile meccanicamente.<br />

Oltre che nel mobilio, le plastiche antropomorfe si addicono alla forma di molti altri generi di prodotti domestici,<br />

già citati nella nostra ideale classifica prossemica, dagli apparecchi igienici alla vasta serie di contenitori<br />

e bottiglie, dalle maniglie di porte e finestre a tutto ciò che è maneggiabile: telefoni, telecomandi, pulsantiere,<br />

ecc. Ma le potenzialità delle materie plastiche non si limitano agli usi finora citati; esse, come vedremo,<br />

sono presenti anche nel campo rappresentativo, persino «espressionistico», del design.<br />

Com’è stato osservato, «oggi la plastica sta cambiando: seguendo un processo evolutivo assolutamente unico,<br />

essa abbandona l’universo supertecnologico che l’ha generata per lasciarsi manipolare con spirito artigianale.<br />

[...] Le ricerche di Gaetano Pesce [...] sono volte alla scoperta delle qualità intrinseche del materiale, nei confronti<br />

del quale vi è un atteggiamento a-tecnologico. Esso viene spinto a rivelarsi nella sua tridimensionalità,<br />

la traslucenza viene sfruttata per accrescere le sue qualità `sferiche’, la massa viene lasciata libera di aggregarsi,<br />

generando superfici di volta in volta lisce o ruvide, piane o corrugate, rigide o morbide, spesso sottili»23.<br />

La deformazione espressionista, ancora una volta ironica e ludica, della plastica (con un effetto simile a<br />

quando si bruciano, liquefacendosi, i manici delle pentole) e quella delle forme antropomorfe costituiscono<br />

la «materia prima» di molte opere di Pesce: si pensi alla serie di sedie e poltroncine Dalila uno, due e tre,<br />

prodotte da Cassina nell’80. Quanto alle forme antropomorfe, è stato notato che l’uomo cui egli pensa non<br />

è quello aggraziato del Rinascimento, bensì un altro, primitivo ma traboccante di vitalità di cui è interes-


sante svelare ciò che nel suo corpo normalmente si nasconde, come il sesso, le imperfezioni e la deformità.<br />

Quest’ultima, sostiene Martino, «riallacciandosi alla poetica del difetto, da lui tanto sostenuta a supporto<br />

della teoria della serie diversificata, è fortemente rappresentata all’interno delle sue opere. Emblematico in<br />

questo senso il progetto della sedia Green Street Chair, prodotta da Vitra nel 1984: un essere deforme, a otto<br />

zampe, con due fori circolari che ricordano due occhi profondi e un altro quadrangolare che diviene una<br />

bocca [...]. Infine, nei più recenti mobili Nobody’s Perfect, prodotti dalla Zerodisegno, alla simmetria dei falsi<br />

occhi nello schienale della poltrona si oppone una variazione cromatica che introduce l’irregolarità»24.<br />

Ma che cos’è la poetica del difetto o del «mal fatto» Nel catalogo che accompagnava la mostra al Centre<br />

Georges Pompidou, Le temps des questions, del 1996, Pesce dà in parte una risposta all’interrogativo: «Noi<br />

tutti sappiamo che la mano d’opera sapiente ed efficace che esisteva in altri tempi è scomparsa con la sua epoca<br />

o, lì dove esiste ancora, è molto rara e molto costosa. Riconoscendo agli uomini il diritto di guadagnarsi<br />

da vivere, dobbiamo sottolineare che il settanta per cento della mano d’opera mondiale possiede un saper fare<br />

elementare, primitivo, dove le prestazioni danno risultati non soddisfacenti. Creativi e insegnanti devono<br />

prendere in considerazione questa povertà di esecuzione nei progetti architettonici e nelle persone che creano<br />

gli oggetti»25.<br />

Adattarsi alle reali capacità della manodopera non significa rinunciare ad ogni ricerca qualificativa del design.<br />

Secondo l’autore, «se il progettista ricorre al ‘fatto male’, bisogna pur saperlo interpretare e trasformarlo<br />

spontaneamente al fine di tirarne fuori dei risultati altamente espressivi, meno rivolti alla bellezza tradizionale<br />

e astratta del passato, ma più rappresentativa del presente e, a mio giudizio, del futuro. [...] Il punto è<br />

ammettere una regola d’arte che contenga l’errore. Perché ammettere l’errore significa liberare la materia delle<br />

sue possibilità espressive e permettere a una mano d’opera anche non qualificata di lavorare secondo le sue<br />

capacità. Significa inoltre abbassare i costi e rientrare in un discorso di economia»26.<br />

Certo, resta il sospetto che Pesce adatti la sua natura di radicale anticonformista, ricercatore a tutti i costi<br />

della diversità, sia pure mediante la «serie differenziata», ad una reale condizione socioculturale, ma è difficile<br />

dargli torto quando sostiene che «il nostro futuro sarà il ‘fatto male’ cui dovremo comunque fornire una vita<br />

poetica [...]. Inutile seguire un ideale di bellezza che poi nessuno sa realizzare o nessuno può comprare»27.<br />

Ciò che osserva questo progettista conferma, da un lato, la natura paradossale del design contemporaneo e,<br />

dall’altro, il punto limite cui può giungere la concezione ludico-antropologica di esso.<br />

Accanto alle plastiche, un altro materiale utile ad uno stile non geometrico è la lamiera stampata che da<br />

sempre ha trovato impiego nel car design, ed oggi in modo più antropomorfo, in quello degli scooter e delle<br />

moto. Rispetto alle biciclette, dove prevale nettamente la forma meccanica su quella antropomorfa, scooter<br />

e moto presentano uno strano connubio tra le due linee, dovuto evidentemente alle influenze del gioco sui<br />

moti del gusto. Specie nei modelli più recenti, alle parti meccaniche - motore, ruote, sospensioni, manubrio<br />

coi suoi accessori - si sovrappone una parte dove più diretto è il contatto con la persona che guida, totalmente<br />

modellata sulla forma del suo corpo. La distinzione che abbiamo fatto in altri capitoli fra «discreto» e «continuo»,<br />

nel caso in esame raggiunge il culmine di essere presente in uno stesso prodotto. Si aggiunga che già<br />

da qualche anno, specie nelle moto, il sellino posteriore, notevolmente più in alto rispetto alla seconda ruota,<br />

è sorretto a forte sbalzo da un braccio posto al disotto della sella anteriore. Si veda, quale esempio, la Multistrada<br />

620 della Ducati. Questa aerodinamica, qui dovuta alla posizione delle parti, altrove, a cominciare,<br />

come altro esempio, dallo scooter Malaguti Spider Max 500, anch’esso del 2004, è accentuata dalla forma a<br />

«spigolo sfuggente» dello stesso disegno delle parti, ivi comprese quelle più meccaniche. Non è difficile associare<br />

questi segni e simboli della velocità ad alcune icone del Futurismo: penso in particolare alla famosa<br />

scultura di Boccioni, Forme uniche della continuità dello spazio, in cui ciascun muscolo dell’uomo in corsa si<br />

deforma nello sforzo dinamico, appunto, in spigoli sfuggenti.<br />

Note<br />

1 S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, Utet, Torino 1972, vol. VI, p. 798.<br />

2 C. Martino, Note sul design degli anni Novanta, in «Op. cit.», n. 110, gennaio 2001.<br />

3 J.Ch. Schiller, Lettere sull’educazione estetica, Firenze 1937, 6a lett.<br />

4 Ivi, 9a lett.<br />

5 H. Marcuse, Eros e civiltà, Einaudi, Torino 1964, p. 190.<br />

6 F. Menna, Profezia di una società estetica, Lerici, Roma 1968, pp. 1-18-151.<br />

7 A. Alessi, La sfida, Alessi, fabbrica del design, in «Civitas», n. 3, novembre 2005.


8 F. La Cecla, Family Follows Fiction, in L’oggetto dell’equilibrio, Alessi Electa, Milano 1996, pp. 151-167.<br />

9 C. Martino, Note sul design degli anni Novanta, in «Op. cit.», n. 110, gennaio 2001.<br />

10 V. Pasca, D. Russo, Sulla corporate image, in «Op. Cit.», n. 120, maggio 2004.<br />

11 A .C. Quintavalle, Enzo Mari, Centro studi e archivio della comunicazione dell’Università di Parma, Parma 1983, p. 16.<br />

12 Ivi, p. 18.<br />

13Ivi, p. 19.<br />

14 G. D’Amato, Gli oggetti del desiderio, in F. Irace, Driadebook, un quarto di secolo in progetto, Skira, Milano 1995, p. 187.<br />

15 D. Dardi, Il design di Alberto Meda, una concreta leggerezza, Electa, Milano 2005, p. 63.<br />

16 G. Pardi, Apocalypse Now, in C. Forcolini, Immaginare le cose, Electa, Milano 1990, p. 48.<br />

17 V. Pasca, nel catalogo Aleph della Driade dedicato alla serie Ubik.<br />

18 Intervista a Gaetano Pesce, aprile 2000, in C. Martino, Gaetano Pesce, materia e differenza, Testo & immagine, Torino 2003.<br />

19 C. Martino, Note sul design degli anni Novanta cit., p. 43.<br />

20 K.M. Armer, A. Bangert, E. Sottsass, Design anni ottanta, Cantini Editore, Firenze 1990, p. 38.<br />

21 S. Giedion, L’era della meccanizzazione (1948), trad. it. Feltrinelli, Milano 1967, p. 360.<br />

22 Ibid.<br />

23 P.A. Tuminelli, Plastica, in «Domus», n. 776, novembre 1995.<br />

24 C. Martino, Note sul design degli anni Novanta cit., pp. 42-43.<br />

25 G. Pesce, Le temps des questions, Editions du Centre Pompidou, Paris 1996.<br />

26 Cit. in Martino, ; Note sul design degli ami Novanta cit., pp. 78 sgg.<br />

27 Ivi, p. 85.<br />

28 E. Manzini, C. Vezzoli, Lo sviluppo dei prodotti sostenibili, Maggioli Editore, San Marino 1998, 13.<br />

29 M.A. Sbordone, Design e Activity Theory, in «Op. cit.», n. 126, maggio 2006.<br />

30 R. Salmi, Introduzione a T.W. Adorno, Minima Moralia, Einaudi, Torino 1954, p. XLI.


IL DESIGN COME GIOCO<br />

IL DESIGN DEI SERVIZI<br />

Nell’elencare i vari modi di associare il gioco al design, ponevo all’ultimo posto il tema che intitola il presente<br />

paragrafo. Molti ricercatori, sempre in riferimento alla tecno-scienza digitale, alla realtà virtuale,<br />

all’immaterialità, alla miniaturizzazione e simili - ormai leit motiv anche nel nostro campo - stanno studiando<br />

la relazione possibile tra il design e i «servizi». Premetto che considero il problema legato soprattutto a<br />

una metafora, pari a quelle che vedremo legare le principali voci dell’informatica all’arte, all’architettura e al<br />

design. Ciononostante, l’idea di un design associato ad un servizio non è del tutto infondata e quindi in grado<br />

di indurre a qualche riflessione.<br />

Semplificando molto, proviamo a definire il termine «servizio» in relazione, vera o presunta, col design.<br />

Quest’ultimo, nella sua più aggiornata accezione «non si applica solo ad un prodotto fisico (definito da<br />

materiali, forma e funzione), ma si estende al sistema prodotto. Cioè l’insieme integrato dei prodotti, servizi<br />

e comunicazione con cui le imprese si presentano sul mercato»28. Una ulteriore specificazione contribuisce<br />

a rendere più chiara la nozione di design dei servizi: «dato rilevante, su cui porre I’ac cento, è quello della<br />

natura dei servizi che non qualificandosi come proprietà, differiscono in maniera sostanziale dai beni materiali<br />

che, viceversa, inducono all’acquisto, al possesso e alla proprietà. Il servizio o l’esperienza, in quanto<br />

beni immateriali che non possono essere prodotti, ma solo erogati, quindi messi a disposizione e consumati<br />

nel momento in cui appaiono sul mercato, mal si adattano alla logica dell’acquisto per accumulare o tramandare.<br />

Questo cambiamento pervade la natura stessa dei beni che, perdendo la loro caratteristica di esclusiva<br />

funzionalità e corporeità, evolvono in beni dall’alto contenuto informativo. [...] Attraverso la presenza fisica<br />

del bene in casa o in ufficio, le aziende stabiliscono un contatto diretto con il cliente; ciò consente di realizzare<br />

una fornitura di servizi che lo accompagna per l’intera durata di vita del prodotto. Così configurata, la<br />

piattaforma di servizi rivoluziona la logica della produzione, poiché diventa un costo associato all’attività<br />

d’impresa, una struttura ponte tra questa e il cliente. Nella logica di vendere sempre più servizi ed esperienze<br />

che beni, soprattutto in settori dove l’uniformità, la quantità e il prezzo hanno saturato i mercati, la sfida<br />

consiste nell’attrarre i clienti attraverso il plusvalore offerto. Al limite, per conquistare sempre maggiori quote<br />

di mercato, le aziende offrono gratuitamente i prodotti della prima generazione, allo scopo di fidelizzare il<br />

cliente in una relazione di lungo termine basata sull’erogazione di servizi sempre più agili e innovativi»29.<br />

Anche a non seguire alla lettera le suddette definizioni e le relative teorie, risulta tuttavia comprensibile<br />

che - come già accennato e come vedremo meglio più avanti -, posto lo scollamento in molti casi tra forma<br />

e funzione, oppure che ad una forma corrispondano più funzioni, molti sono portati a pensare all’esistenza<br />

di una funzione «immateriale», ovvero ad una prestazione. Se un prodotto, avente comunque un senso, non<br />

denuncia chiaramente a cosa serve, vuol dire che l’originaria funzione si è trasformata appunto in qualcosa<br />

di più complesso. Ma se tutto questo è vero, anzitutto siamo fuori dalla cultura materiale; in secondo luogo,<br />

prevedendo la piega moralistica del discorso ecologico, mi chiedo fino a che punto il problema del servizio<br />

sia pertinente alla pratica del design.<br />

E ben vero che «i ritrovati della tecnica non sono neutri e indifferenti, strumenti possibili del bene e del male.<br />

Nella cattiveria dei loro effetti, riproducono quella della loro origine. Con ciò non si vuol escludere la possibilità<br />

di un `mutamento di funzione’ (che è il problema capitale di una critica progressiva), ma si vuol attirare<br />

l’attenzione sullo stretto rapporto che intercorre tra il ritrovato tecnico e la sua funzione sociale, che lo predetermina<br />

nella sua costituzione oggettiva. Lo strumento contiene in sé - nella sua struttura immanente - il<br />

cattivo fine a cui lo si adopera. Occorre diffidare di un certo ottimismo a buon mercato, che si spaccia per<br />

illuministico, e che, sulla base della neutralità dello strumento, fa dipendere ogni cosa dalla buona volontà<br />

di chi se ne serve. Nulla, purtroppo, è neutrale, per la semplice ragione che è un prodotto dell’uomo»30.<br />

Ora, a parte l’ammissione del cambiamento di funzione che, pur introducendo una contraddizione, viene<br />

ammessa dall’autore citato, il passo è qui riportato per distinguere un «ritrovato della tecnica» (nel nostro<br />

caso l’informatica e gli annessi) da una prestazione immateriale qual è quella che invocano i sostenitori del<br />

«design dei servizi». Infatti, è la tecnoscienza a non essere neutrale e quindi spesso oggetto di una malefica<br />

gestione, non certamente il design. Beninteso, se per quest’ultimo s’intende un «piano dei servizi» a grande<br />

scala, allora l’argomento è prettamente politico ed economico, per cui stanno in piedi le ricerche che si vanno<br />

sviluppando, ma se per design intendiamo ciò di cui si occupa questo libro, il «design dei servizi» è una «giocosa»<br />

Metafora.


Note<br />

1 S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, Utet, Torino 1972, vol. VI, p. 798.<br />

2 C. Martino, Note sul design degli anni Novanta, in «Op. cit.», n. 110, gennaio 2001.<br />

3 J.Ch. Schiller, Lettere sull’educazione estetica, Firenze 1937, 6a lett.<br />

4 Ivi, 9a lett.<br />

5 H. Marcuse, Eros e civiltà, Einaudi, Torino 1964, p. 190.<br />

6 F. Menna, Profezia di una società estetica, Lerici, Roma 1968, pp. 1-18-151.<br />

7 A. Alessi, La sfida, Alessi, fabbrica del design, in «Civitas», n. 3, novembre 2005.<br />

8 F. La Cecla, Family Follows Fiction, in L’oggetto dell’equilibrio, Alessi Electa, Milano 1996, pp. 151-167.<br />

9 C. Martino, Note sul design degli anni Novanta, in «Op. cit.», n. 110, gennaio 2001.<br />

10 V. Pasca, D. Russo, Sulla corporate image, in «Op. Cit.», n. 120, maggio 2004.<br />

11 A .C. Quintavalle, Enzo Mari, Centro studi e archivio della comunicazione dell’Università di Parma, Parma 1983, p. 16.<br />

12 Ivi, p. 18.<br />

13Ivi, p. 19.<br />

14 G. D’Amato, Gli oggetti del desiderio, in F. Irace, Driadebook, un quarto di secolo in progetto, Skira, Milano 1995, p. 187.<br />

15 D. Dardi, Il design di Alberto Meda, una concreta leggerezza, Electa, Milano 2005, p. 63.<br />

16 G. Pardi, Apocalypse Now, in C. Forcolini, Immaginare le cose, Electa, Milano 1990, p. 48.<br />

17 V. Pasca, nel catalogo Aleph della Driade dedicato alla serie Ubik.<br />

18 Intervista a Gaetano Pesce, aprile 2000, in C. Martino, Gaetano Pesce, materia e differenza, Testo & immagine, Torino 2003.<br />

19 C. Martino, Note sul design degli anni Novanta cit., p. 43.<br />

20 K.M. Armer, A. Bangert, E. Sottsass, Design anni ottanta, Cantini Editore, Firenze 1990, p. 38.<br />

21 S. Giedion, L’era della meccanizzazione (1948), trad. it. Feltrinelli, Milano 1967, p. 360.<br />

22 Ibid.<br />

23 P.A. Tuminelli, Plastica, in «Domus», n. 776, novembre 1995.<br />

24 C. Martino, Note sul design degli anni Novanta cit., pp. 42-43.<br />

25 G. Pesce, Le temps des questions, Editions du Centre Pompidou, Paris 1996.<br />

26 Cit. in Martino, ; Note sul design degli ami Novanta cit., pp. 78 sgg.<br />

27 Ivi, p. 85.<br />

28 E. Manzini, C. Vezzoli, Lo sviluppo dei prodotti sostenibili, Maggioli Editore, San Marino 1998, 13.<br />

29 M.A. Sbordone, Design e Activity Theory, in «Op. cit.», n. 126, maggio 2006.<br />

30 R. Salmi, Introduzione a T.W. Adorno, Minima Moralia, Einaudi, Torino 1954, p. XLI.

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