Le Opere donate dagli Artisti - Delphi International
Le Opere donate dagli Artisti - Delphi International
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<strong>Le</strong> <strong>Opere</strong><br />
<strong>donate</strong><br />
<strong>dagli</strong> <strong>Artisti</strong>
Cristina Anna Adani<br />
L’artista, modenese di nascita e centese di adozione,<br />
propone all’interno della scultura contemporanea<br />
uno spazio creativo originale di forte impatto visivo e<br />
cognitivo.<br />
La sua formazione scientifica e psicologica la porta a<br />
cogliere gli elementi archetipici delle figure femminili che<br />
modella nella terra oppure che fonde nel bronzo. È la<br />
plasticità della mente, della materia mnestica governata<br />
da segni e simboli, che rimanda alla potenzialità della<br />
materia plastica, duttile nella sapiente e reiterata manipolazione<br />
dello scultore.<br />
Donne, dee oppure ninfe vaganti è pur sempre<br />
l’immagine della femminilità che emerge in un gioco<br />
20<br />
compositivo, in un grumo pulsante di linee di forza, che<br />
cantano la bellezza infinita delle creature e riportano<br />
all’interno della materia il mistero della fertilità.<br />
La serie delle “Dee bianche” dell’anno 2006 permette<br />
al visitatore di cogliere il senso di questa ricerca che Adani<br />
continua con determinazione e con nuovo vigore ogni<br />
volta. <strong>Le</strong> sei dee in terra refrattaria hanno l’audacia della<br />
tradizione e la decisione del nuovo.<br />
I panneggi richiamano altri tempi delle divinità antiche,<br />
altri movimenti della danza dei corpi, altri spazi<br />
della prossemica. Bella, maestosa nella sua solitudine, la<br />
dea irradia da dentro le forze che tutto tengono assieme<br />
e legano, ostinate, i fili della vita. Eppure mai le dee ieratiche<br />
e impassibili del passato hanno potuto dichiarare<br />
l’autonomia della persona come solo Cristina Anna Adani<br />
riesce a loro infondere.
Dea bianca, 2006<br />
Terra refrattaria, cm 145x60x40<br />
21
Aurelio Alabardi<br />
L’artista è nato a Castelfidardo (Ancona), dove vive<br />
e lavora. Dopo il diploma all’Accademia di Belle Arti di<br />
Macerata sotto la guida dello scultore Valeriano Trubbiani,<br />
Alabardi concretizza una sua attività espositiva<br />
come pittore e come scultore. Da anni gestisce, insieme<br />
alla moglie, l’azienda zeta arte studio, ditta rinomata<br />
in Italia e all’estero nel settore degli articoli da regalo in<br />
argento. A lui è affidata la progettazione e la realizzazione<br />
delle piccole sculture, dei bassorilievi e di ogni forma di<br />
plastica. Questi modelli testimoniano il livello di qualità<br />
raggiunto dal nostro artista.<br />
Nella sua pittura, <strong>dagli</strong> anni Settanta ad oggi, la natura<br />
morta, il paesaggio, la figura umana hanno assunto<br />
22<br />
valenze diverse, dando rilevanza specifica ora all’uno ora<br />
all’altro tema. Nell’ultimo decennio il fuoco attentivo<br />
dell’artista è volto soprattutto alla progressiva ricerca<br />
dello schiarimento del colore. Nel rendere il colore meno<br />
acceso, la purezza dei pigmenti non viene smorzata,<br />
acquista anzi una luminosità intrinseca che si diffonde<br />
sopra tutta la composizione.<br />
Alabardi realizza nelle sue opere una poetica della quotidianità.<br />
È, il suo, un occhio innamorato della realtà che<br />
ci circonda, che ci avvolge in un abbraccio creaturale, che<br />
ci rende consapevoli e partecipi di un comune destino.<br />
Due tondi di ceramica dipinta e una scultura rappresentano<br />
bene gli ambiti artistici in cui si esprime. Nelle<br />
due nature morte il bacile di terracotta smaltata all’interno,<br />
usato per l’acqua, ci porta sentori del passato e della<br />
sacralità dell’acqua dentro un mondo contadino del tutto<br />
perduto. <strong>Le</strong> forme dei fiori aprono altre riflessioni sulla<br />
bellezza: anche i fiori di campo posso essere belli al di<br />
là della loro classificazione botanica o del loro utilizzo<br />
commerciale.
Tondi<br />
Ceramica dipinta, cm 80 diametro<br />
23
Giovanni Ariano<br />
Artista complesso, amante delle tecniche e dei materiali<br />
diversi, Ariano è una figura di spicco tra i pittori<br />
e scultori del secondo Novecento in Campania. Vive e<br />
lavora a Sant’Anastasia (Napoli).<br />
La formazione autonoma in campo artistico lo ha<br />
indirizzato verso una forma di sperimentazione sulla<br />
materia con la quale continua a mantenere un rapporto<br />
vivo e significativo.<br />
<strong>Le</strong> variate esperienze del suo curricolo testimoniano<br />
la continuità di questo spirito di ricerca e dell’intimo<br />
rapporto che, nel descrivere la realtà del mondo, lega<br />
l’interiorità dei soggetti e la materia.<br />
La sua attività espositiva è di lunga data. Ha collabo-<br />
24<br />
rato anche come sceneggiatore all’allestimento in molti<br />
spettacoli nei teatri di avanguardia napoletani.<br />
Ariano sperimenta tecniche diverse e materiali diversi:<br />
è un artista polimaterico convinto. Accanto alla scultura<br />
compaiono non solo i collages e la calcografia ma anche<br />
dipinti tutti bianchi su cui navigano rare macchie di<br />
colore.<br />
Nelle composizioni rivela una sua curiosità immensa<br />
per tutto quanto lo circonda. I temi di attualità sono<br />
colti con una sua particolare intuizione e attenzione. La<br />
grande sensibilità dell’artista trova nella realtà delle cose<br />
una sorta di controcanto ad un processo di decantazione<br />
e di raffinamento che assomiglia alla ricerca della tradizione<br />
alchemica.<br />
L’opera donata è in questo senso significativa per<br />
esprimere gli elementi che legano arte, musica, alchimia<br />
e la ricerca del suono filosofale. Nella sua “Lira” le sette<br />
note fanno riferimento allo statuto particolare del numero<br />
sette. Quattro sono gli elementi: terra aria fuoco<br />
acqua ai quali si assomma il numero tre che rappresenta<br />
lo spirito trinitario che tutto regge. La musica inoltre ha<br />
come principio il suono primordiale e simbolico, il Logos.<br />
Entro questa prima griglia interpretativa si possono<br />
intessere infinite trame.
Lira<br />
Polimaterico cm 140x62x20<br />
25
Galeazzo Auzzi<br />
Artista fiorentino, felice di essere nato nel quartiere<br />
di San Frediano, dove ha abitato sino ai trent’anni, in<br />
un ambiente in cui arte e artigianato hanno saputo da<br />
sempre colloquiare in modo diretto e continuo sui saperi<br />
e le tecniche della tradizione.<br />
Ora vive e lavora in pieno centro a Firenze con una<br />
visione diretta sull’antico che affascina. Il suo studio<br />
spazia tra gli incanti dell’arte fiorentina. A ben capire, se<br />
i luoghi hanno un’anima, qui si è di certo in presenza di<br />
un luogo magico con un supplemento d’anima.<br />
Tutta l’opera di Auzzi si snoda tra acutezza di osservazione,<br />
volontà di ripresa e capacità di trasformazione. È,<br />
il suo, un occhio innamorato del mondo e della fiorenti-<br />
26<br />
nità, in particolare prende e trasforma, riportandole nel<br />
nostro quotidiano, tecniche e modalità del dipingere che<br />
sembravano appartenere ineludibilmente al passato e che,<br />
invece, tramite il suo intervento, riescono a colloquiare<br />
pienamente con la contemporaneità.<br />
La riproposizione della tecnica della pittura a muro, ad<br />
esempio, gli permette di studiare e di ristabilire una modalità<br />
a buon fresco che sembrava relegata al passato. Fare<br />
un affresco per Auzzi è saggiare il passato per descrivere<br />
il mondo attuale. Il codice espressivo può accogliere una<br />
richiesta di ascolto del presente, può prestarsi benissimo<br />
al gioco dell’arte di creare il sogno del passato... Eppure<br />
quella di Auzzi non è un’operazione di filologia utopica<br />
fine a se stessa ma ha in sé una tensione etica imprescindibile.<br />
È la volontà agente propria dell’uomo che sente il<br />
suo tempo, la società in cui vive e lavora, che ama e sogna<br />
ideali e che mai svia dai propri diritti e doveri.
Crocifissione sospeso nell’immenso (in ricordo di Mara)<br />
Affresco, cm 70x50<br />
27
Giorgio Balboni<br />
Giorgio Balboni è nato a Ferrara, dove vive e lavora.<br />
Nel 1966 si diploma Maestro d’Arte all’Istituto “Adolfo<br />
Venturi” a Modena. Da quel momento cerca i suoi<br />
Maestri nei musei, tra i grandi artisti del passato.<br />
Nel 1968 tiene la sua prima mostra alla Galleria “Schreiber”<br />
a Brescia, nel 1972 a Roma presso la “Galleria<br />
Valle Giulia”, nel 1978 al Palazzo dei Diamanti a Ferrara.<br />
Altre importanti esposizioni collettive da ricordare<br />
sono: nel 1987 alla “Galleria Forni” di Bologna, all’Arte<br />
Fiera a Milano, al Castello Estense con “La natura morta”,<br />
al Castello Estense di Mesola con “Il ritratto”<br />
Nel 2011 è stato invitato ad esporre al Padiglione Italia<br />
per la 54 a Mostra Internazionale d’Arte della Biennale<br />
28<br />
di Venezia.<br />
Balboni è il maestro riconosciuto di una figurazione<br />
dalla inquietante evidenza rappresentativa. <strong>Le</strong> sue opere<br />
ad olio su tela di grande formato rappresentano “figure”<br />
e “manichini come figure”. Il mondo che viene delineato<br />
dall’artista è ad un tempo realistico ed irreale. In effetti<br />
i soggetti rappresentati articolano posture e sentimenti<br />
rinvenibili solo nel melodramma, nelle soap-opera o nelle<br />
riviste patinate di moda. È proprio nella teatralizzazione<br />
del gesto “del personaggio” che si vuole esorcizzare la<br />
paura della scomparsa della “persona”.<br />
<strong>Le</strong> pennellate non evidenti sono di una grande sapienza<br />
e tensione. Nella sua esasperata chiarezza ogni cosa è<br />
meno certa nel suo apparente manifestarsi. <strong>Le</strong> sue figure<br />
vivono totalmente irrorate di luce sull’orlo di fondi del<br />
tutto scuri, quasi caravaggeschi. Seducenti, fluttuano nella<br />
scia luminosa dei riflettori. Tengono lo spazio come su di<br />
un proscenio in cui si rappresenta la virtualità della vita.
Senza titolo, 2007<br />
Olio su tela, cm 100x70<br />
29
Vincenzo Balsamo<br />
Nato a Brindisi, vive a Roma <strong>dagli</strong> inizi degli anni<br />
Cinquanta, solo recentemente è andato ad abitare a<br />
Corchiano (Viterbo).<br />
Un lungo, invidiabile curricolo artistico ha permesso<br />
a Balsamo di perfezionare al massimo grado un suo<br />
particolare linguaggio espressivo che riesce a mediare le<br />
istanze delle grandi correnti innovatrici con una componente<br />
lirica di grande qualità e originalità.<br />
Entrare nel suo lavoro di artista significa ritrovare<br />
visivamente accenni agli stilemi dei grandi astrattisti del<br />
Novecento, pur lasciando dei margini grandissimi di<br />
autonomia all’artista, che forse li ama più per il colore<br />
che non per le loro soluzioni estetiche.<br />
30<br />
Balsamo risolve le sue composizioni intercalando al<br />
flusso delle linee quello delle cromie che creano continui<br />
equilibri nelle forme. All’energia dei colori caldi del<br />
rosso e delle terre contrappone quella dei colori freddi.<br />
In realtà l’artista crea equilibri e tensioni all’interno delle<br />
superfici. Tutto sembra immobile e allo stesso tempo<br />
tutto è in movimento.<br />
Una perpetua metamorfosi si realizza carica di valenze<br />
operative e critiche insieme, ma soprattutto etiche. È<br />
come riconoscere in queste energie lineari, create dal<br />
pittore, le riflessioni sulla possibilità di una libertà che<br />
proprio nel movimento trova una sua giustificazione ed<br />
un limite.<br />
I suoi quadri sono una testimonianza dell’assoluta,<br />
empatica simbiosi che nasce tra l’artista e la superficie del<br />
supporto nel momento in cui valenze critiche ed operative<br />
moltiplicano le soluzioni proposte di volta in volta.<br />
L’attività creatrice di Balsamo combinando e ricombinando<br />
i suoi criptici accostamenti porta fuori la forma<br />
dalle secche dell’apparenza, la fa scorrere in una dimensione<br />
circolare ed infinita dove hanno senso le dicotomie<br />
(caldo-freddo, affermazione-negazione, maschile-femminile)<br />
ed i loro inesauribili giochi di rimandi. In questo<br />
gioco continuo, forse, l’artista riconosce il nostro comune<br />
cammino. La pittura di Vincenzo Balsamo diventa allora<br />
una serena, ma non per questo meno profonda, meditazione<br />
sul destino del mondo e dell’uomo.
Senza titolo<br />
Acqueforte e acquerellate a mano, cm 55x108, (la carta) esemp. 3165/75
Senza titolo<br />
Acquerellate a mano dall’artista, cm 50x70, esemp. 2/25<br />
32
Senza titolo<br />
Acquerellate a mano dall’artista, cm 70x50, esemp. 52/85<br />
33
Paolo Baratella<br />
Nato a Bologna da genitori ferraresi, nella città estense<br />
si trasferisce all’inizio della seconda guerra mondiale per<br />
rimanervi sino agli anni Sessanta quando si trasferisce<br />
a Milano. Inizia la sua attività espositiva a Milano, per<br />
proseguire in molte altre città italiane ed europee, quali<br />
Bonn, Parigi, Berlino, Barcellona, Basilea, Helsinki,<br />
Bruxelles, Mosca, oltre che a New York, San Francisco,<br />
Toronto e Montreal. Negli anni Settanta lavora in stretto<br />
contatto con Giangiacomo Spadari, Fernando De Filippi<br />
e Umberto Mariani, formando un gruppo che, senza<br />
intenti di convergenze formali, rappresenta una delle più<br />
interessanti esperienze artistiche e culturali di quel tempo.<br />
Nel 1973 espone al Palais des Beaux Arts di Bruxelles<br />
e nel 1974 al Musée d’Art Moderne de la Ville de<br />
Paris mentre, nel 1976, gli viene assegnata dal senato<br />
di Berlino la borsa del D.A.A.D. che darà luogo a una<br />
34<br />
serie di mostre in varie città tedesche. Il suo curricolo<br />
riempie molte pagine. Sviluppa la sua arte componendo<br />
vasti cicli pittorici ispirati al soggetto contemporaneo;<br />
vengono così realizzate serie di opere riunite sotto titoli<br />
significativi quali, per citarne alcuni: “Cronaca di un<br />
mal di testa” (1968), “Come se mi alzassi e prendessi<br />
coscienza” (1971), “Vita morte e miracoli di Joe Ditale”<br />
(1974), “Toccata e fuga da/per il potere” (1977), “Bach<br />
Hotel” (1980), “Il 1984 & l’officina ferrarese” (1983),<br />
“Oh specchio delle mie brame!” (1985), “Orfeo/Euridice”<br />
(1987), “Zarathustra: il viaggio di ritorno” (1988),<br />
“La parte mancante” (1989/90), “Fuga della scuola di<br />
Atene” (1992), “Achille e la tartaruga” (1999), “Nemici”<br />
(2000/2003), sino al recente “Canto del Capro nel giardino<br />
delle Esperidi”. A Baratella si deve la decorazione<br />
della nuova sagrestia del Duomo di Ferrara. Tutta la sua<br />
pittura è una riflessione sulla pittura, come linguaggio, e<br />
dei suoi rapporti con gli altri mezzi di comunicazione di<br />
massa, in un mondo che continua a darsi al riguardante<br />
come immagine-spettacolo della tecnica. Eppure la<br />
memoria della grande cultura occidentale si sovrappone<br />
continuamente alla contemporaneità. L’immaginazione<br />
dell’artista sembra fondarsi sul lavoro di queste associazioni.<br />
La preoccupazione fondante diventa allora, come<br />
dice Vittorio Fagone in un’intervista all’artista, quella<br />
di interrogarsi, con gli altri e per gli altri, sul presente<br />
e sul futuro del mondo: speranza, delusioni, utopie e<br />
spiegazioni più o meno praticabili, tutto questo dentro le<br />
metamorfosi di una immagine riconoscibile e permutante<br />
come oggi sono tutte le immagini che amano incrociarsi<br />
secondo modelli costitutivi che favoriscono il moltiplicarsi<br />
di un senso interpretativo”.
Centauromachia, 2011<br />
Tecnica mista su tela, cm 120x100<br />
35
Giuseppe Barone<br />
L’artista è nato a Palmi ma è ormai toscano di adozione:<br />
da anni, infatti, vive e lavora a Prato.<br />
Dopo una formazione scientifica e la laurea in Scienze<br />
Naturali, frequenta l’Accademia di Belle Arti di Firenze,<br />
sotto la guida di Ferdinando Farulli, e il corso di nudo di<br />
Rinaldo Frank Burattin. Insegna successivamente Tecniche<br />
Calcografiche presso la scuola d’Arte “<strong>Le</strong>onardo”<br />
di Prato.<br />
Partecipa ad importanti concorsi di pittura e grafica<br />
ed espone in diverse città italiane e straniere. Si distingue<br />
anche nell’attività di illustratore. Nel 1990 illustra il poemetto<br />
“Calabria” di <strong>Le</strong>onida Rèpaci, edito dalla Grafica<br />
d’arte Lombardi di Roma. Grazie alla sua lunga attività<br />
36<br />
è presente nel Repertorio degli Incisori Italiani (volume<br />
III) Edit Faenza, 2001.<br />
Come argutamente ha sottolineato Franco Patruno<br />
«... Barone fortunatamente possiede quella che, anche<br />
nel greco biblico, è definita “dynamis”, “energia”. Nel<br />
contesto della letteratura tale terminologia designa sia il<br />
parlare con autorità che la forza dell’enunciato, cioè la sua<br />
naturale capacità di coinvolgere e di non lasciare il lettorespettatore<br />
in quella sospensione degli affetti che, per<br />
l’estetica fenomenologia, è naturale premessa per lasciare<br />
che l’opera sveli la sua verità senza pre-comprensioni».<br />
La sua pittura in effetti ha una carica di vitalità immensa.<br />
La forza delle cromie prorompe con la maestà di<br />
un fiume in piena. Tutto avvolge e tiene nel suo andare.<br />
Nel flusso che definisce la composizione il valore tonale<br />
dei pigmenti spinge avanti, sommerge e fa riemergere<br />
le forme. È allora un procedere di pulsioni naturali<br />
inarrestabili che sospingono la percezione visiva dello<br />
spettatore ad uscire dalle partiture delle tele e arrivare a<br />
vedere di nuovo il mondo.
Paesaggio, trittico<br />
Olio su tela, cm 170x300<br />
37
Clara Bartolini<br />
Nata a Venezia, vive a Milano. Oltre agli studi di psicologia<br />
e scenografia, fin dall’infanzia scrive poesie, disegna<br />
e fotografa. La partecipazione ai corsi di recitazione e<br />
di comunicazione, così come lo studio delle filosofie<br />
orientali le hanno permesso di sviluppare una creatività<br />
complessa ed estremamente ricca di sollecitazioni che<br />
le consentono di spaziare autonomamente in vari campi<br />
dell’arte. Lavora come scenografa per la pubblicità,<br />
collabora con importanti agenzie di pubblicità d’Italia e<br />
con famosi fotografi per la realizzazione di campagne,<br />
cataloghi e allestimenti fieristici. Cura e progetta mostre<br />
per artisti e gallerie; collabora con molte aziende internazionali<br />
per progettare eventi e manifestazioni.<br />
40<br />
La complessità cui si ispira la porta a elaborare soprattutto<br />
progetti creativi multimediali in cui la parola<br />
(poetica) si aggrega alla pittura, alla fotografia, al suono.<br />
La sollecitazione dei sensi le permette così di indagare<br />
aree di confine della sensorialità moderna più incline a<br />
perdere, a smorzare le nostre potenzialità piuttosto che<br />
affinarle. Non a caso Clara Bartolini fa parte del gruppo<br />
di artisti di “Arte da mangiare”.<br />
La sua attività espositiva, a partire dal 1984, testimonia<br />
una produzione di una grande libertà e intelligenza<br />
nell’affrontare le dinamiche del mondo contemporaneo<br />
di cui mette in luce le incongruenze, le dissonanze ma<br />
anche le molte fascinazioni. In questo senso l’installazione<br />
del mappamondo trafitto su di una sedia spagliata ci<br />
parla, a globo spento, di rappresentazioni dello spazio<br />
geografico e, a globo acceso, di frantumazioni geopolitiche<br />
continue. I giornali sparsi intorno diventano il<br />
sostrato mediatico di tutto questo parlare. L’insieme alla<br />
fine suggerisce la percezione di aspetti “interiori” rispetto<br />
alle sole superfici tangibili.<br />
È proprio nella sintesi artistica che Clara Bartolini<br />
crea gli aspetti esterni degli oggetti immediatamente colti<br />
che vengono scardinati e ricomposti, facendo emergere<br />
i significati segreti della simultaneità multidimensionale.
Senza titolo, installazione<br />
cm 95x95x100<br />
41
Nedda Bonini<br />
Nata a Bondeno (Ferrara), si diploma nel 1985 in<br />
Pittura con Concetto Pozzati all’Accademia di Belle<br />
Arti di Bologna, dove ha seguito le lezioni di Incisione<br />
di Luciano De Vita. Dal 1995 è docente di Tecniche<br />
dell’Incisione all’Accademia di Belle Arti, prima a Catania,<br />
poi a Macerata e a Venezia dove dal 2005 tiene i corsi<br />
di Editoria d’Arte, dal 2010 insegna a Bologna.<br />
Fin <strong>dagli</strong> inizi della sua attività artistica alterna la<br />
propria creatività nei campi della pittura, della grafica<br />
pubblicitaria, dell’incisione. La sua ricerca si è orientata<br />
soprattutto verso la sperimentazione della multimedialità<br />
della stampa d’arte, cogliendone i valori contenutistici,<br />
concettuali e comunicativi e fondendo discipline artisti-<br />
42<br />
che, senza preclusioni di sorta dal punto di vista tecnico.<br />
Anche questo diventa un modo di fare incisione fuori<br />
dalle modalità che la tradizione ci ha consegnato.<br />
L’uso di strumenti non canonici (trapani dei dentisti o<br />
strumenti degli orafi) e di tecniche no toxic le permette<br />
di cogliere sollecitazioni di altre professionalità e di percorrere<br />
nuove vie di ricerca. Allo stesso modo i materiali<br />
di recupero (ferri, legni, riporti di pelle, plexiglas), reperiti<br />
spesso casualmente, diventano forme che entrano nelle<br />
sue opere. La curiosità dell’occhio dell’artista apre insomma<br />
all’arte la possibilità di incrociare le complessità<br />
di altre operatività.<br />
Spesso è l’intervento di tecniche a monotipo a dare<br />
effetti sgranati alle sue opere lasciando trasparire nelle sovrapposizioni<br />
dei materiali effetti particolari di luminosità<br />
e di colore. L’opera acquista allora la tensione della visione,<br />
apre i visitatori al cambiamento, alla trasformazione<br />
della luce, alla percezione della trasparenza degli spessori.<br />
Segni e simboli creano un linguaggio universale che<br />
l’artista utilizza anche in modo trasversale, mediando<br />
forza dell’immagine e qualità estetica delle forme. Dentro<br />
alla sua poetica c’è sempre un richiamo, un ritorno costante<br />
all’immagine simbolica del cuore ed al significato<br />
che essa contiene.
Il volo, 2010<br />
Olio su tela, cm 140x130<br />
43
Gianni Cagnoni<br />
Nato a Rovigo, dove vive e lavora, risiede spesso a<br />
New York. Comincia giovanissimo a dipingere e fino agli<br />
anni Ottanta realizza numerosi lavori a tema figurativo.<br />
Dopo una intensa attività pittorica si dedica al disegno<br />
realizzando numerosi ritratti a matita e grafite dei<br />
personaggi che incontra durante lo svolgimento della<br />
sua attività professionale. Dal 2000 ritorna alla pittura.<br />
Nascono serie importanti come “Africa”, “Mutazioni”,<br />
le “Isole” e i “Rifiuti”.<br />
Sono cicli pittorici che, pur se ispirati a suggestioni<br />
naturalistiche, mediano esperienze di vita e rivelano<br />
aspetti antinaturalistici che portano l’occhio del riguardante<br />
a saggiare un mondo di emozioni, volizioni, ricordi<br />
44<br />
che spostano l’attenzione verso una sensibilità del tutto<br />
astratta.<br />
L’immagine segna allora il discrimine tra due ambiti:<br />
della soggettività dell’artista e quella della realtà del<br />
mondo.<br />
Cagnoni riesce molto bene a mediare tensioni e pulsioni<br />
realizzando il giusto equilibrio tra i fenomeni percettivi<br />
e la loro problematica rappresentazione.<br />
Specie nelle serie “Africa” e “Mutazioni” l’alterazione<br />
delle cromie, che sembra suggerire spazi della realtà,<br />
slitta invece verso un linguaggio più serrato, concettuale<br />
e mentale.<br />
Dagli impasti del colore emergono stranianti geologie<br />
in cui le striature per piani orizzontali sembrano alludere<br />
ad uno scavo interiore che porta ad un confronto fra<br />
l’interiorità del fluire della coscienza e l’esteriorità dei<br />
dati della vita.<br />
Sono come scrive il critico d’arte Giorgio Rizzi «pseudo<br />
paesaggi che ondeggiano tra sogni astrali e ghiacci<br />
preistorici, tra suggestioni lunari e nostalgie africane».
Africa, 2007<br />
Acrilico su tela, cm 70x100<br />
45
Francoise Calcagno<br />
L’artista, francese di origine, è ormai veneziana di<br />
adozione. Con la città lagunare ha instaurato un rapporto<br />
molteplice fatto di molte sfumature e di infinite<br />
sollecitazioni. La sua galleria-atelier nel quartiere ebraico<br />
del ghetto è anche un modo di instaurare un colloquiare<br />
apertamente vivo con la città, con la sua cultura, le sue<br />
istituzioni, le sue fascinazioni. La formazione stessa si<br />
compie a Venezia dove si diploma con Giovanni Soccol<br />
in scenografia all’Accademia di Belle Arti.<br />
Ben presto all’attività scenografica si accompagna<br />
quella pittorica e incisoria, tradizionale e sperimentale.<br />
Molti sono i riconoscimenti italiani ed internazionali che<br />
continuamente riceve.<br />
46<br />
<strong>Le</strong> sue opere sono come mappe della memoria che<br />
vengono tracciate sui terreni insidiosi della non-memoria.<br />
Come lei stessa afferma, nel suo lavoro cerca di lasciare<br />
una traccia del tempo, mette in evidenza la mutevolezza,<br />
l’instabilità, la perdita, creando strati di colore e materia<br />
che in parte celano, in parte svelano ciò che è sotto.<br />
In questa affermazione di poetica troviamo gli elementi<br />
fondanti la sua ricerca fatta di silenzi e di narrazioni,<br />
di materia e memoria, per citare un testo famoso di<br />
Bergson, ma anche di intelligenza del fare e di curiosità<br />
nello sperimentare. Non è a caso che l’artista ami tanto<br />
uno scrittore come Italo Calvino, al che viene un po’ da<br />
pensare quello che l’imperatore dei Tartari dice a Marco<br />
Polo ne “<strong>Le</strong> città invisibili”: Torni da paesi lontani e tutto<br />
quello che sai dirmi sono i pensieri che vengono a chi<br />
prende il fresco la sera sulla soglia di casa. A che ti serve,<br />
allora, tanto viaggiare?». Eppure in questa piccola eversione<br />
di segni e di sensi consiste tutto il viaggio dell’arte.
Grande verde<br />
Olio su tela, cm 140x100<br />
47
Cinzia Calzolari<br />
L’artista ferrarese, a partire <strong>dagli</strong> anni Novanta, si è<br />
dedicata in modo prevalente all’attività progettuale in<br />
ambito grafico-artistico. È docente all’Istituto “Dosso<br />
Dossi” di Ferrara e all’Istituto Superiore di Industrie<br />
<strong>Artisti</strong>che di Faenza. Presenta opere spesso realizzate a<br />
stampa su tela con oggetti e paesaggi che sono sempre,<br />
per l’artista, anche “paesaggi dell’anima”.<br />
Nelle sue opere realizza una sua precisa azione di<br />
mappatura di coinvolgente fattura. Per questa operazione<br />
Cinzia usa spesso l’intermediazione dell’immagine<br />
fotografica in bianco e nero.<br />
<strong>Le</strong> sue visioni-inquadrature si stendono sulla parete<br />
secondo possibilità diverse di sguardi che occhieggiano<br />
48<br />
il mondo interrogandolo e indagandolo.<br />
Sono indicazioni giocate sempre tra le istanze dei<br />
moduli grafici e la potenzialità dei fondi da velare, schermare,<br />
bucare, ma anche da tenere uniti con gli strumenti<br />
del cucito.<br />
Cinzia è una delle seguaci dell’arte lenta in cui le<br />
azioni tintorie o di ricamo hanno una valenza estetica<br />
determinata. <strong>Le</strong> stratificazioni dei pigmenti oppure delle<br />
carte danno come esito finale una visione che rifiuta una<br />
messa a fuoco cristallina e scientifica del reale.<br />
Quella che viene proposta al visitatore è piuttosto una<br />
visione velata del mondo. <strong>Le</strong> cose hanno un loro lato<br />
oscuro che nessuno strumento riuscirà mai a cogliere<br />
pienamente. L’artista sembra allora suggerire ad esempio<br />
che l’idea “di luogo in cui si vive” può essere non solo<br />
un “trovarsi” in un luogo fisico ma anche in un’azione<br />
del tutto mentale e che, allo stesso modo, la presenza<br />
di un oggetto naturale o artificiale libera sempre una<br />
narrazione di significati.
Senza titolo, dittico<br />
Tecnica mista su tela, cm 160x80<br />
49
Paola Campidelli<br />
Paola Campidelli nasce a Longiano (Forlì-Cesena)<br />
alla fine degli anni Quaranta e attualmente vive e<br />
lavora a Cesena. Si diploma al Liceo <strong>Artisti</strong>co di Ravenna<br />
e si dedica successivamente all’insegnamento.<br />
Dagli anni Ottanta si dedica completamente alla ricerca<br />
pittorica esponendo in Italia come all’estero: fra i tanti<br />
eventi che l’hanno vista protagonista, fondamentale per<br />
il successivo sviluppo delle sue opere sarà la mostra “In<br />
nuce noctis”, tenutasi nel 1993 presso la Galleria “San<br />
Fedele” di Milano. In quell’occasione sviluppa un ciclo<br />
pittorico legato al tema del volto umano che, tramite un<br />
uso violentemente espressionistico del colore, mette in<br />
scena un profondo disagio esistenziale.<br />
50<br />
In seguito, dopo il 1997, matura una pittura sempre<br />
più materica nei confronti della quale il critico e storico<br />
dell’arte Enrico Crispolti denota il «cercarsi e confessarsi<br />
attraverso l’immersione partecipe in un’organicità<br />
metamorfica, che si fa dunque anche corpo, ma che si fa<br />
anche in qualche modo orizzonte del tutto».<br />
Così dal monocromo espressionismo dei lavori iniziali<br />
ora Campidelli si esprime nella più piena trasfigurazione<br />
cromatica, compiendo forse non l’ultima delle sue brillanti<br />
evoluzioni pittoriche.<br />
Nel trittico proposto, la materia si fonde con il soggetto<br />
di ispirazione palustre, trasformando l’atmosfera<br />
in un liquido denso, dai colori brillanti e vitalistici: in una<br />
sorta di pulsazione amniotica, il colore stesso si fa linfa<br />
vitale da cui le forme della natura prendono vita, in cui<br />
terra, acqua e aria si mischiano. Di notevole interesse l’uso<br />
di contrasti cromatici freddi, che traspongono l’acqua<br />
in un blu quasi notturno, mentre i piccoli fiori gialli si<br />
accendono, quasi trattati come fonti di luce autonome.<br />
Così di colpo la pittura di Campidelli si fa acqua e cielo,<br />
comprendendo nell’attenzione per il microcosmo vegetale<br />
tutto il misticismo di un cielo stellato, in cui diviene<br />
impossibile non immergersi.<br />
(f.z.)
Ninfee, trittico, 2008<br />
Acrilico su tela, cm 80x240<br />
51
Mario Capuzzo<br />
Nato a Badia Polesine (Rovigo) nel 1902, Capuzzo è<br />
un artista ferrarese di adozione e codigorese per scelta<br />
dal 1953 sino alla morte avvenuta nel 1978. L’artista si<br />
sposta in continuazione in Italia e all’estero.<br />
Nel “primo” Capuzzo è presente la grande lezione<br />
della pittura ottocentesca che l’artista porta fin dentro alla<br />
seconda metà del Novecento in un intenzionale disimpegno<br />
dalle avanguardie. Come pittore rimane estraneo<br />
alle tensioni che percorrono le vicende del gruppo di<br />
“Novecento”, sponsorizzato a livello locale da Balbo e<br />
dal Corriere Padano e rappresentato da Achille Funi, per<br />
appoggiarsi alla committenza di Emilio Arlotti e della<br />
borghesia che gravita intorno alla sempre più fiorente<br />
52<br />
industria saccarifera.<br />
Capuzzo lascia Ferrara dopo “la lunga notte del 43”<br />
e resta per un lungo periodo a Portorose. <strong>Le</strong> difficili<br />
condizioni politiche istriane nel secondo dopoguerra lo<br />
costringono assieme alla moglie a rientrare definitivamente<br />
in Italia. Si sposta in varie città alla ricerca di una<br />
residenza. La scelta cade su Codigoro e lui e la moglie<br />
vivono su due peate venete sul Po di Volano. Nei primi<br />
anni Sessanta si trasferisce presso la vicina frazione di<br />
Pontemaodino. Il pittore conserva la residenza a Codigoro<br />
ma continua ad essere domiciliato a Milano dove<br />
vive e lavora.<br />
Tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta<br />
Capuzzo modifica sensibilmente il modo di stendere il<br />
colore sul supporto utilizzando modalità fluenti delle<br />
mescole che stende a campiture strisciate, mentre l’organizzazione<br />
della composizione è sempre più essenziale.<br />
Nasce quella cifra stilistica caratteristica che il grande<br />
pubblico riconosce immediatamente e spesso identifica<br />
con l’intera opera del pittore.
Ritratto, 1954<br />
Olio su tela, cm 57x43 tavola<br />
Bozzetti di cavalli, 1960<br />
Olio su tela, cm. 50x70<br />
Deposito di attrezzi, 1971<br />
Olio su tela, cm 50x70cm. 70x50<br />
53
laura Caramelli<br />
Nata a Montelupo Fiorentino, alle porte di Firenze,<br />
famoso centro per la produzione della ceramica artistica.<br />
Fino dall’infanzia frequenta laboratori e fornàci.<br />
Nei primi anni Ottanta affronta, nello studio di Patrick<br />
Hamilton, il disegno dal vero ed in particolare del nudo,<br />
sia nella forma classica sia come indagine del movimento.<br />
Successivamente frequenta l’atelier di Marco Lisa dove<br />
viene attratta dall’uso degli stucchi metallici e dove riprende<br />
a modellare la terracotta.<br />
Nella stessa epoca segue per un biennio la scuola di<br />
ceramica di Montelupo Fiorentino, con specifico interesse<br />
per l’applicazione al tornio. L’incontro con Roger<br />
Partridge la indirizza alla scultura in pietra e in marmo<br />
54<br />
eseguita sia in atelier che alle cave di Pietrasanta.<br />
Per alcuni anni lavora con Frances Raynolds, artista<br />
a cui fa risalire il suo approccio al minimalismo e alla<br />
lavorazione del legno come materia primitiva.<br />
Collabora con Pietro Antonio Bernabei, antesignano<br />
della Bioarte europea, con lavori ed esposizioni in comune<br />
e successivamente con Primo Biagioni, scultore<br />
versatile nell’espressione e nelle tecniche. La sua ricerca<br />
attuale è distribuita equamente tra pittura e scultura.<br />
<strong>Le</strong> sue opere propongono uno stile nuovo in cui<br />
l’alleggerimento materico è compensato da un minimalismo<br />
formale di forte impatto simbolico e percettivo.<br />
La decantazione della materia e della forma alla fine di<br />
un lungo processo, che molti hanno interpretato come<br />
alchemico, portano un respiro vitale all’interno delle<br />
sue opere.
Pendolo, 1997<br />
<strong>Le</strong>gno, ferro e materiali vari (marmi, pietre, specchio ecc. per il pendolo), cm 55 336x40x40
daniela Carletti<br />
L’artista ferrarese affascina con la sua ricerca pittoricoplastica<br />
sul regno vegetale. Coglie aspetti della creazione<br />
del mondo che l’uomo contemporaneo ha trascurato o,<br />
forse, ha volutamente cercato di rimuovere.<br />
Con molto acume e sapienza porta alla ribalta nelle<br />
sue opere quello che non poteva essere confuso con<br />
altre esistenze e che, grazie al suo lavoro, torna a farsi<br />
vedere nella sua completezza. Il suo occhio ha esplorato,<br />
studiato, catalogato e fatto calchi di un mondo infinito di<br />
forme naturali e di vite silenziose, finite ai margini delle<br />
strade e dei canali.<br />
Daniela realizza affascinanti territori dell’ambiguità<br />
tra la scultura e la pittura in cui è possibile sconfinare<br />
56<br />
dalla certezza della mimesi e formulare altre incursioni<br />
nella convenzione delle forme “reali” che vengono paradossalmente<br />
proposte, tra reticenze e scavalchi, come<br />
“calchi” di quelle.<br />
Il piacere della lentezza diventa palpabile nella preparazione<br />
delle matrici, nel prendere consistenza dei<br />
materiali gessosi, nella variazione delle velature.<br />
<strong>Le</strong> sue manipolazioni colgono nuove dimensioni<br />
della temporalità. È il tempo della natura, dello scorrere<br />
ciclico delle stagioni ma anche dei movimenti dell’intuizione,<br />
della percezione viva delle forme e della loro<br />
realizzazione.<br />
Tra materia e memoria la nostra artista articola ritmi<br />
di calchi, di matrici, di rilievi di gesso, di imprimiture, di<br />
cromie che hanno la lentezza delle cose che decantano<br />
e che in quest’azione trovano senso. La forma ritorna<br />
ad essere “forma” con la leggerezza di un andante musicale<br />
in cui ogni sforzo viene annullato dalla volontà di<br />
compiere la partitura complessiva.
Grande impronta n. 2<br />
Gesso in rilievo e colori acrilici, cm 180x240x5<br />
57
Antonio Carotenuto<br />
Antonio Carotenuto di Boscotrecase (Napoli) si diploma<br />
in scultura all’Accademia di Belle Arti di Napoli,<br />
sotto la guida di Augusto Perez.<br />
La scultura però non è l’unica sua forma di espressione.<br />
L’artista, infatti, pratica contestualmente la pittura.<br />
I due ambiti espressivi gli permettono di esperire una<br />
visione dello spazio e delle forme che richiedono ambiti<br />
e codici sempre maggiori di manovra. È la stessa personalità<br />
dell’artista che non vuole sentirsi costretta da<br />
modalità definite già in partenza.<br />
Tutta la sua ricerca è volta quindi a sperimentare i due<br />
mezzi espressivi, della pittura e della scultura, che gli sono<br />
necessari per il grande coinvolgimento di energie che<br />
58<br />
esse comportano ma anche dei rischi cui esse portano.<br />
Scegliere o l’una o l’altra significa, infatti, toccare<br />
specificità e paradigmi diversi, negarsi o aprirsi alle autonomie<br />
del codice. Ci sono ritorni e passaggi nello spaziotempo.<br />
È però la ricerca del momento emozionante del<br />
fare arte a dare senso a tutto il percorso, spesso colto<br />
nello sguardo all’indietro verso il mondo dell’infanzia<br />
perduta.<br />
<strong>Le</strong> sue sculture in pietra lavica sono molto conosciute<br />
e apprezzate. È un materiale che fa parte della sua terra,<br />
delle sue origini: in questo modo l’artista riconosce la<br />
possibilità di un operare al di fuori degli schemi pur se<br />
di certi schemi rispettoso. Il rapporto con i materiali del<br />
territorio gli permette allora di far emergere un mare di<br />
emozioni, di percezioni, di volizioni che portano il sogno<br />
della vita all’interno del sogno dell’arte. Per Carotenuto è<br />
come ritrovare la linfa vitale alla quale sente di dovere la<br />
propria energia, la propria creatività, la propria ragione<br />
di uomo e di artista.
Crocefissione<br />
Ferro, cm 84x25x80<br />
59
Marcello Carrà<br />
È un giovane ingegnere-artista ferrarese che realizza<br />
disegni di grandi dimensioni a mano libera con la penna<br />
Bic. <strong>Le</strong> sue opere propongono immagini di animali. Icone<br />
che, dalla grotta di Lascaux in poi, conoscono fortune<br />
alterne sino ad approdare ai bestiari medievali, alle pagine<br />
illustrate dei volumi scientifici e ai rotocalchi. Sono,<br />
quelli di Carrà, animali posti comunque in difficoltà da<br />
una antropizzazione invasiva, eccessiva, spesso di rapina.<br />
I grandi rotoli di carta da scenografia hanno la misura<br />
standard di centocinquanta centimetri di altezza mentre<br />
la lunghezza è determinata unicamente dal fare dell’artista<br />
che traccia su di una quadrettatura a carboncino una<br />
prima bozza della forma.<br />
60<br />
Tutto il resto è frutto di un maniacale quanto entusiasmante,<br />
meticoloso procedere. È un itinerario visivo<br />
di straordinario nitore in cui si mediano le istanze tassonomiche<br />
della ricerca dell’entomologo, le pulsioni<br />
sadiche di un bambino, che vuole esperire il limite, e la<br />
libertà dell’artista che saggia i percorsi del ductus della<br />
penna a sfera.<br />
Eppure ogni pezzo è un pezzo unico che racconta<br />
una sua storia: di incontro di vita e di morte. Per questo<br />
motivo i titoli o le didascalie che accompagnano le sue<br />
opere segnano la fine tragica di questo incontro.<br />
Carrà rivoluziona la nostra rassicurante visione del<br />
mondo degli insetti che, un po’ come Gulliver tra i Lillipuziani,<br />
trattiamo dall’alto in basso, gasiamo e sterminiamo<br />
con spietata determinazione. È proprio partendo<br />
da questo fatto, per la maggior parte di noi assodato, che<br />
il nostro artista va all’avventura della sua realizzazione<br />
artistica.<br />
Il grande formato diventa allora la rivendicazione di<br />
uno statuto ontologico di prorompente vitalità. L’ingrandimento<br />
fuori scala serve a far tornare in equilibrio<br />
il piatto della bilancia.<br />
Carrà ha visto premiata la sua ricerca artistica con<br />
l’invito alla 54 a Biennale di Venezia - Padiglione Italia.
Arrostita da una lampada alogena<br />
Penna biro su carta, cm 150x237<br />
61
Flora Bellinazzi Cattabriga<br />
Nata a Gaiba (Ferrara) nel 1919, è stata allieva prima<br />
del professor Soriani e, successivamente, di Marcello<br />
Tassini per la pittura e di Laerte Milani per la scultura nei<br />
corsi tenuti presso l’Accademia di San Nicolò, organizzati<br />
dal Club Amici dell’Arte all’interno della sconsacrata<br />
chiesa di San Nicolò a Ferrara.<br />
Ha sempre vissuto e lavorato nella città estense sino<br />
alla morte avvenuta nel 2007.<br />
Ha al suo attivo molte personali e diverse mostre<br />
collettive in cui ha spesso conseguito premi e menzioni<br />
di merito.<br />
Ha distribuito la sua passione artistica in ugual misura<br />
tra pittura e scultura. È riuscita con un lungo lavoro<br />
62<br />
personale ad acquistare una sua riconoscibile autonomia<br />
espressiva.<br />
Se nelle tele è presente quel vibrante dialogo con il<br />
mondo della natura che tanto l’ha affascinata, nella scultura<br />
è soprattutto ad incantarla la figura umana declinata<br />
in mille modi.<br />
Armonia, percezione dello spazio, trattamento cromatico<br />
(sostituito nella scultura dalla patinatura o dalla<br />
doratura della terracotta) danno vita a un mondo di<br />
rappresentazioni e di percezioni di qualificata tensione.<br />
Come scultrice ha sempre amato la grande scultura<br />
che è stata la sua referenza iniziale. L’opera “Omaggio a<br />
Michelangelo”, data in donazione, ne è un bell’esempio.<br />
Eppure Flora Cattabriga con passione e studio è riuscita<br />
a sviluppare e ad accogliere momenti più sintetici nella<br />
realizzazione delle sue sculture.<br />
<strong>Le</strong> sue opere hanno la forza della strutturazione coerente<br />
di una grande spontaneità nell’operare, mediata<br />
dall’impulso dell’autocontrollo e dell’ironia.
Maternità<br />
Terracotta patinata, altezza cm 48x37x52<br />
63
Volto di donna<br />
Terracotta patinata, cm 53x30x19<br />
64<br />
Omaggio a Michelangelo<br />
Terracotta patinata, cm 50x30x25
Ferrara ferita<br />
Terracotta patinata, cm 47x35x46<br />
Cormorano del Golfo, 1992<br />
Terracotta patinata, cm 65 72x46x28
Gianni Cestari<br />
L’artista vive e lavora a Bondeno (Ferrara). Nella sua<br />
formazione due figure hanno giocato un ruolo importante:<br />
Marcello Tassini e Gianfranco Goberti. Il primo<br />
gli ha insegnato il mestiere di pittore a partire dall’utilizzo<br />
di pochissimi colori. Il secondo lo ha coinvolto nel gioco<br />
dell’ironia nel rapporto tra realtà e finzione. È il sodalizio<br />
quinquennale con Gianfranco Goberti, però, a segnare<br />
una vera svolta nella sua vicenda artistica.<br />
Tutta la ricerca del nostro artista è connotata dalla<br />
metamorfosi del sogno, dalla volontà di uscire da una<br />
condizione esistenziale complessa attraverso la forma<br />
liberatoria del segno. Il fantastico diventa allora una<br />
forma di conoscenza.<br />
66<br />
L’occhio dello spettatore è continuamente sollecitato<br />
a sovrapporre le percezioni, a cercare il significato del<br />
movimento nelle immagini e nel gesto stesso della mano<br />
dell’artista che disegna e dipinge le sue rappresentazioni.<br />
Cestari inventaria un repertorio infinito di uno spazio<br />
grafico e narrativo. Davanti ai nostri occhi si aprono<br />
mondi nuovi in cui vanno insieme (di)segno e poesia.<br />
Ogni creatura del suo “bestiario” oppure ogni brano di<br />
un suo “paesaggio” è come animato da una ritmica interna<br />
alla visione che rivendica alla fine l’aspetto poetico<br />
del mondo.<br />
La tensione che si realizza tra i due universi del sensibile<br />
e del figurativo è di un grande equilibrio, pieno<br />
di fascino e di capacità di stare al centro della visione<br />
e della narrazione. Sono alla fine le dimensioni segrete<br />
che ci portiamo dentro, sotto forma di affetti volizioni<br />
sogni, che ci aiutano ad affrontare le cose del mondo con<br />
maggiore adeguatezza e libertà.
Fari dopo la pioggia, dittico<br />
Acrilico su tela, cm 200x280<br />
67
Conte<br />
Conte (Luigi Colombi) nasce a Castelnuovo di Sotto<br />
in provincia di Reggio Emilia. Attualmente vive e<br />
lavora a Poviglio. La sua pittura si pone a ridosso della<br />
modalità Informale, attraverso pulsazioni cromatiche e<br />
paste materiche che si espandono sulla tela come onde<br />
sonore. Non a caso l’amore per la musica sembra essere<br />
il motivo trascinante della sua produzione: variazioni<br />
tonali, movimento strutturale, scale cromatiche, vibrati<br />
e stoccate fanno spesso delle sue tele una pulsazione<br />
quasi più sonora che visiva. Conte sa attuare soluzioni<br />
personali, scostandosi dalla mera tradizione informale,<br />
attraverso una concettualità che si esprime nelle tensioni<br />
e nelle variabili di tecniche miste abilmente controllate,<br />
68<br />
in grado di far emergere la più intima espressività.<br />
Commentando la sua produzione, il saggista e critico<br />
d’arte Paolo <strong>Le</strong>vi ha detto che l’intenzione espressiva<br />
dei suoi lavori è spirituale e drammatica, trasmettendo<br />
una concezione dello spazio pittorico come espansione<br />
macrocosmica di un pensiero filosofico.<br />
Conte stesso dichiara opportunamente che il punto<br />
centrale del proprio lavoro consiste nella dialettica tra<br />
moti interiori dell’animo e suggestioni esterne: a suo<br />
avviso l’artista è colui che sa reagire ai molteplici e frammentari<br />
impulsi esistenziali per conferire loro la logica<br />
del pensiero o per opporvi una reazione di carattere<br />
sentimentale.<br />
Nelle recenti opere presentate, Conte affronta ancora<br />
con più vigore la materia, che si fa sensuale e spessa, spaziale,<br />
lasciando emergere il colore in uno spazio ben poco<br />
virtuale: quello dello spettatore. L’emozionalità emanata<br />
è caricata anche dai titoli scelti che spesso si riferiscono<br />
a ricordi o immagini della vita privata dell’artista, simbolicamente<br />
espressa da paste e pigmenti e liberata sulla<br />
tela con energica concretezza.<br />
(f.z.)
Il colore contro il dolore, 2009<br />
Tecnica mista su tela, cm 100x150<br />
69
Marisa da Bondeno<br />
Marisa Frignani, nata a Stellata di Bondeno (Ferrara),<br />
è la vedova del pittore Mario Capuzzo che ha sposato<br />
giovanissima nel secondo dopoguerra.<br />
Continuatrice della memoria del marito, è la custode<br />
della sua arte; a lei si rivolgono i collezionisti per expertises<br />
delle opere di Capuzzo.<br />
Organizza ogni anno, prima a Codigoro ora a Bondeno,<br />
l’Aprile Capuzzianocon iniziative varie che nelle<br />
festività del mese di aprile servono a promuovere e salvaguardare<br />
la conoscenza dell’arte di Mario Capuzzo, a<br />
ricordarne gli interessi musicali e culturali e a raccogliere<br />
dei fondi destinati a fini umanitari (unicef).<br />
Durante la sua carriera Mario Capuzzo ha avuto molti<br />
70<br />
allievi nell’insegnamento privato. Marisa da Bondeno,<br />
come firma le sue opere, è la più coerente continuatrice<br />
della lezione capuzziana di fare della buona pittura.<br />
Gli stilemi del maestro sono rimasti a lungo presenti<br />
nei suoi quadri sino a quando ha evoluto una sua modalità<br />
originale di espressione.<br />
Il mondo che Marisa ama è quello della natura, dei<br />
paesaggi aperti e dei fiori. Ama soprattutto che lo sguardo<br />
si perda all’infinito. Ama la bellezza anche nelle piccole<br />
cose che il mondo quasi di nascosto ci offre.<br />
La sua tavolozza è densa, piena di intense cromie.<br />
L’uso del colore dato a pasta serve a sostenere la forma<br />
e a dare struttura a tutta la composizione.
Il ciliegio di San Antonio in Polesine, 1985<br />
Olio su tela, cm 60x80<br />
71
luce delhove<br />
Luce Delhove è nata a Uccle (Belgio). Trascorre la<br />
sua infanzia in Africa. A nove anni si stabilisce a Roma<br />
con la famiglia. Nella capitale compie i suoi studi in arte<br />
della stampa, all’Istituto d’Arte, e in decorazione, all’Accademia<br />
di Belle Arti.<br />
Vive e lavora tra Roma e Milano.<br />
Designer, incisore, pittrice e scultrice. È titolare della<br />
cattedra di Grafica d’arte presso l’Accademia di Belle<br />
Arti di Brera.<br />
Fin <strong>dagli</strong> esordi si occupa di incisione, approfondendone<br />
i linguaggi e le tecniche. Successivamente al<br />
1998 sperimenta nuovi materiali per la grafica e realizza<br />
sculture con carte stampate, cellulosa e materiale tessile.<br />
72<br />
Ha una lunga e ricca attività espositiva. Partecipa a<br />
collettive e realizza personali in Italia e all’estero.<br />
Dopo uno stage di lavorazione e sperimentazione<br />
dell’ardesia in Valle Argentina (Imperia), si dedica alla<br />
realizzazione di gioielli con metalli preziosi e pietre dure.<br />
È soprattutto la formazione legata all’arte dell’incisione<br />
a connotare tutta l’attività dell’artista. Tra materia<br />
e memoria, tra volontà cognitiva e tensione costruttiva,<br />
tutta la sua ricerca muove da “sensate esperienze” che<br />
invadono ora la bidimensionalità della lastra ora la tridimensionalità<br />
della scultura per spingere il riguardante a<br />
investire in percezioni visive, volizioni, desideri, sogni.
Senza titolo, 2002<br />
Acrilico su tessuto e legno, cm 150x150x10<br />
73
Giovanni Fabbri<br />
Nasce a Meldola (Forlì) alla fine degli anni Quaranta<br />
da una famiglia di mezzadri. A dodici anni interrompe<br />
gli studi quando la famiglia si trasferisce a Castiglione<br />
di Cervia nel ravennate. Dal 1960 per un decennio si<br />
dedica alla musica. Studia il clarinetto e il sax tenore e si<br />
esibisce in orchestra.<br />
Nel 1980 inizia la sua attività artistica: si iscrive<br />
all’Accademia di Belle Arti di Ravenna e segue i corsi di<br />
Umberto Folli. I compagni lo conoscono come “l’uomo<br />
della pioggia”, per la frequenza nei soli giorni di pioggia<br />
quando non può seguire i lavori di campagna.<br />
È una immersione totale nella pittura del Novecento<br />
con riflessioni e innamoramenti. La ricerca sulla natura<br />
74<br />
delle cose e la riflessione sulle cose della natura lo portano<br />
progressivamente a decantare le forme per arrivare ad<br />
una immagine sintetica, quasi astratta.<br />
Il sodalizio con il gallerista cesenate Albo Sirri lo<br />
introduce nel mondo delle gallerie, dei concorsi e delle<br />
fiere d’arte. Fabbri viene in contatto con i principali<br />
protagonisti dell’arte contemporanea. Sono relazioni che<br />
hanno positive ripercussioni sull’arte del nostro pittore e<br />
gli permettono di giungere ad una maturazione artistica<br />
del tutto originale.<br />
Il nostro artista ama molto la materia, ma ama soprattutto<br />
la vita che dalla materia si origina. La sua pittura è<br />
piena di esperienze attive e allo stesso tempo conosce la<br />
felicità di chi è riuscito a cogliere il lato poetico delle cose.<br />
<strong>Le</strong> sue opere sono come cosmogonie in cui gli elementi<br />
fondanti descrivono sulle malte cementizie dei supporti<br />
inesauribili narrazioni di pulsioni vitali, di ritorni ciclici,<br />
di pause e riprese.<br />
Vive e lavora a Castiglione di Cervia (Ravenna).
Valle, 2009<br />
Tecnica mista su tela, cm 150x130<br />
75
Fabbriano<br />
Fabbriano è nato a Ferrara dove vive e lavora. Come<br />
artista, intorno all’immagine disegnata, dipinta e mediatizzata<br />
ha sviluppato un suo originale curricolo e una sua<br />
particolare ricerca che non dimentica mai la lezione del<br />
passato, anzi da quello deriva gli archetipi senza tempo e<br />
le suggestioni che si prolungano sin dentro la modernità.<br />
La frequentazione negli anni Sessanta di gruppi quali<br />
l’Actionem Aktionismus o il Gruppo Sintesis Informale<br />
non ha mai disperso la direttrice classica di provenienza.<br />
Una piegatura del foglio, una pennellata che sgrana il<br />
colore, un frammento di immagine della storia dell’arte<br />
sono questi i punti di partenza per le sue tecniche miste.<br />
È un mondo, prodotto e riprodotto, che il nostro<br />
76<br />
artista utilizza per un viaggio all’interno della visione in<br />
cui coinvolgere lo spettatore. Lo tiene anzi legato con le<br />
seduzioni di una equilibrata partitura di segni e di sensi<br />
in una lenta alchimia di decantazioni e cambiamenti. In<br />
quello stesso spostamento dall’immagine creata sulla tela<br />
alla sua riproduzione che ritorna sulla tela, frantumata<br />
e scambiata di ruolo, si gioca una messa a distanza delle<br />
immagini nelle immagini.<br />
I lavori di Fabbriano vanno alla ricerca di un mondo<br />
immaginale futuro; sono sempre un’avventura, visiva e<br />
concettuale insieme. <strong>Le</strong> sue opere non hanno mai nulla<br />
di illustrativo o di simbolico da svelare. Vi è piuttosto<br />
una forza interiore che dolcemente, com’è d’altronde la<br />
personalità dell’artista, ma con molta decisione scardina,<br />
piega, sconvolge e ricompone pazientemente gli infiniti<br />
flussi delle immagini che le attraversano.<br />
È un modo di vedere che enfatizza gli stati operazionali,<br />
le sovrapposizioni dei passaggi continui, le sprezzature<br />
del colore, le fragilità ontologiche delle forme. È<br />
una visione non naturalistica che recupera ed allontana<br />
con la stessa cadenza di un respiro, di un battito cardiaco,<br />
del ritmo delle onde sulla spiaggia. Tutto parte dal<br />
quadro tutto a lui ritorna. Sono respiri visivi che hanno<br />
la forza delle maree.
Diesseits (al di qua)<br />
Tecnica mista, cm 81x95<br />
77
Alfredo Filippini<br />
Nato a Ferrara alla metà degli anni Venti, ama esprimersi<br />
indifferentemente nella pittura e nella scultura.<br />
Ha frequentato la “Libera Scuola di Nudo” presso l’Accademia<br />
di Belle Arti di Bologna. È stato allievo e successivamente<br />
collaboratore dello scultore Laerte Milani.<br />
Nel 1945 fonda assieme ad un gruppo di giovani<br />
aspiranti artisti ferraresi il Circolo <strong>Artisti</strong>co Dilettanti di<br />
cui viene aperta l’anno successivo una sezione a Cento.<br />
Artista dalla raffinata cultura tecnica, ama l’uso della<br />
materia pittorica che stende secondo la tradizione coloristica<br />
che discende dai veneti. Ha tra l’altro una notevole<br />
attività di copista, in particolar modo dal Tiepolo e da altri<br />
maestri antichi. Nella pittura ama soprattutto il paesaggio<br />
78<br />
della pianura padana che riprende secondo ascendenze<br />
tardo impressioniste. Il mondo delle fattorie perse nelle<br />
campagne, le boarie delle terre vecchie, la ciclicità delle<br />
stagioni hanno un posto determinante nella sua opera<br />
pittorica.<br />
Nella scultura è la figura a costituire il fondamento<br />
della sua poetica. La lezione di Milani viene rivissuta e<br />
rifondata sulla giusta mediazione tra le istanze dell’interiorità<br />
e le valenze simboliche che le diverse figure si<br />
portano appresso.<br />
Lo spazio che la figura tiene nel gioco delle posture<br />
e degli atteggiamenti si dilata a poco a poco sino a dare<br />
risalto a tutto l’impianto compositivo. Sono quelle del<br />
nostro artista figure che sembrano fiorire nello spazio,<br />
lasciando scorrere linfa vitale sotto le malte cementizie<br />
e le polveri di marmo di cui sono costituite.<br />
Filippini ha al suo attivo anche un valente curricolo<br />
di illustratore.<br />
È, fin dall’anno di fondazione, tra i soci del Club<br />
Amici dell’Arte alle cui collettive non ha mai mancato<br />
di partecipare.<br />
Vive e lavora a Ferrara.
Autunno sereno<br />
Olio su faesite, cm. 60x50<br />
79
Danza<br />
Cemento e polvere di marmo, altezza cm. 96x63x57<br />
80
Federica Finotti<br />
Nasce a Verona, dove vive e lavora, ereditando dal<br />
padre scultore, Novello Finotti, la passione per un’arte<br />
immaginifica, dettata dall’inconscio, espressa attraverso<br />
la pittura e l’oreficeria.<br />
Nel 2002 arriva terza al Concorso di Pittura di Bardolino<br />
Verona; nel 2003 espone alla Galleria d’Arte<br />
“Cortina” di Milano; l’anno successivo è a Carrara con<br />
una personale e nel 2007 è impegnata alla Galleria “Ecke<br />
Galerie” di Augsburg. Dal 2008 ad oggi vediamo il susseguirsi<br />
di una personale alla Galleria “Arianna Sartori” di<br />
Mantova, delle collettive nel Chiostro di Sant’Agostino<br />
a Marina di Pietrasanta e a Palazzo Ducale di Mantova.<br />
La pittura di Federica Finotti è intensa ed essen-<br />
82<br />
ziale, un racconto dell’io che si traduce in suggestioni<br />
cromatiche in grado di animare sottili ombre sulla tela,<br />
che l’artista produce senza l’uso del pennello. Finotti<br />
infatti dipinge direttamente con le mani o con pezzi di<br />
stoffa, quasi a voler eliminare ogni distanza tra lei e la<br />
tela, tra l’emozionalità più intima ed il momento della<br />
sua espressione.<br />
Nei suoi dipinti il colore assume un ruolo fondante,<br />
si fa portatore di percezioni rarefatte a cui Finotti affida<br />
la trasposizione dei suoi stati d’animo abbinando ad<br />
ogni variazione cromatica un differente livello emotivo.<br />
Ultimo punto di approdo in questa sua ricerca è l’uso<br />
dell’oro e del bronzo quasi per illuminare e purificare le<br />
forme che di volta in volta emergono o si rituffano nel<br />
flusso cromatico. «L’oro rappresenta il punto massimo<br />
dell’alchimia, del processo di purificazione, l’arrivo ad<br />
una profonda ed antica saggezza».<br />
(f.z.)
Presenza di luce, 2008<br />
Olio su tela, cm 100x100<br />
83
Novello Finotti<br />
Nato a Verona, lavorando tra la provincia veronese<br />
e la Lucchesia, Finotti conferma una lunga tradizione<br />
poetico-scultorea in bilico tra Toscana (Marino Marini)<br />
e Veneto (Arturo Martini). Si forma infatti a Pietrasanta,<br />
centro di scultura internazionale non molto distante da<br />
Carrara, e a soli ventisette anni espone già su invito un<br />
gruppo di opere alla 33 a Biennale Internazionale d’Arte<br />
di Venezia. Una decina di anni dopo, lo vediamo impegnato<br />
nel panorama internazionale, con esposizioni che<br />
vanno da Tel Aviv, a Ginevra, a New York, dal Festival<br />
dei Due Mondi alla FIAC - Foire <strong>International</strong>e d’Art<br />
Contemporain di Parigi.<br />
In una lunga carriera, con più di trentacinque anni<br />
84<br />
di esposizioni, Finotti sviluppa una scultura evocativa,<br />
in grado di segnare una rottura con il passato, con una<br />
produzione che ha il «coraggio, anzi il piacere della provocazione».<br />
Plasticità visionaria e metamorfica, dal sapore neosurrealista,<br />
Finotti fa di ogni sua opera un autentico<br />
amalgama visivo-concettuale, un condensato di realtà e<br />
sogno grazie ad una estrema libertà ideativa ed esecutiva.<br />
Nelle sue sculture si modellano con levità forme oniriche<br />
in cui ogni cosa può assumere la funzione di un’altra,<br />
anche quando le associazioni sembrano contraddittorie.<br />
La figura organica, sia umana che animale, emerge indistintamente<br />
dal freddo del marmo più nero come dal<br />
calore della terracotta, animandosi di una fisicità vitale,<br />
palpitante e sensuale.<br />
Nell’ultimo decennio, alla produzione privata Finotti<br />
affianca anche la realizzazione di importanti committenze<br />
pubbliche d’arte sacra, tra le quali si ricordano: l’intervento<br />
completo sulla facciata della Basilica padovana di<br />
Santa Giustina; il decoro in bronzo dorato per l’altare<br />
del Beato Giovanni XXIII nella Basilica di San Pietro<br />
in Roma; la grande figura in marmo bianco di Carrara<br />
di Santa Maria Soledad, collocata nella Basilica di San<br />
Pietro in Vaticano.<br />
Dal 2004 è inoltre possibile ammirare il suo monumento<br />
in bronzo dedicato al poeta veronese Berto<br />
Barbarani, collocato nella piazza delle Erbe della sua<br />
natia Verona.<br />
(f.z.)
Galli nella notte,1990<br />
Terracotta, cm 50x43x20<br />
85
ervardo Fioravanti<br />
Il pittore, nato a Calto (Rovigo) nel 1912, ma ferrarese<br />
di adozione, è stato una figura di intellettuale oltremodo<br />
interessante della cultura della seconda metà del Novecento<br />
a Ferrara. Come pittore, giornalista, docente<br />
e poeta ha stimolato l’ambiente culturale cittadino ad<br />
interrogarsi sulla società contemporanea. Lo ha fatto<br />
con arguzia, ironia, passione e serietà anche nei momenti<br />
più drammatici.<br />
La sua apertura verso la vita gli ha permesso di cogliere<br />
in profondità quanto ogni produzione del lavoro umano,<br />
anche la più semplice, costituisca sempre l’aspetto “serio”<br />
del destino delle generazioni. L’uso dei diversi codici gli<br />
è servito proprio per cogliere meglio, attaccandola da<br />
86<br />
fronti diversi, la complessità del mondo reale. Dal Polesine<br />
dell’infanzia alle lotte per l’occupazione del secondo<br />
dopoguerra, la sua attenzione è sempre stata pronta a<br />
sollecitare la sua mano di artista impegnato.<br />
A volte è appena il segno caratterizzante la postura dei<br />
corpi altre volte è la narrazione che si svolge a partire da<br />
poche schermature di colore. In ogni modo è presente<br />
un’analisi attenta e precisa delle vicende degli uomini e del<br />
loro mondo, dei desideri, dei sentimenti, delle volizioni,<br />
delle pulsioni vitali.<br />
Dai primi anni Cinquanta a tutti gli anni Ottanta: dai<br />
paesaggi della ricostruzione del secondo dopoguerra ai<br />
disegni su carta grossa di una sapida padana realtà, dalle<br />
figure declinate in tutta la complessità del loro essere<br />
alle opere grafiche di una finezza di segno notevole. In<br />
questo fluire della visione si coglie l’amore che l’artista<br />
ha sempre avuto per la sperimentazione delle tecniche<br />
così da adeguare il suo modo di comunicare ad un mondo<br />
in continuo cambiamento. Quanto resta di carica<br />
critica, di senso ironico o di burlesco, di immensamente<br />
drammatico nella sua pittura conferma ogni volta la sua<br />
adesione al reale ma la mette contemporaneamente in<br />
dubbio, lasciando al visitatore il compito di interrogarsi<br />
seriamente sul valore delle nostre rappresentazioni.
Ominidi, 1968<br />
Olio su tela, cm 100x100<br />
87
Franco Fontanella<br />
Nasce a Osimo, in provincia di Ancona, dove vive e<br />
lavora.<br />
Autodidatta e precoce, già a quindici anni si approccia<br />
alla pittura dando prova di innegabile disinvoltura, riproducendo<br />
i grandi maestri neoclassici e impressionisti e<br />
sperimentando con passionale curiosità le più svariate<br />
tecniche pittoriche.<br />
Un’innata predisposizione alla pittura lo porta ben<br />
presto alla sua prima personale a soli diciannove anni, la<br />
prima di numerose mostre ed eventi che si susseguiranno<br />
nei cinquanta anni della sua carriera.<br />
L’abilità pittorica di cui sa dare prova porta Fontanella,<br />
già <strong>dagli</strong> anni Novanta, da un vivace iperrealismo<br />
88<br />
pittorico, alla riscoperta dell’affresco – a lui congeniale<br />
per precisione nei dettagli e velocità d’esecuzione –, fino,<br />
negli anni recenti, a cimentarsi con la realizzazione di<br />
vetrate per edifici religiosi, istoriate a grisaille.<br />
Con l’eclettismo tecnico non va comunque confusa<br />
una sperimentazione poetica che si fa invece delle più<br />
coerenti e tenaci nel promuovere una pittura figurativa<br />
che Fontanella, così indagatore della disciplina, ripropone<br />
nei suoi soggetti pittorici madidi di citazionismo<br />
manierato della pittura di genere, culla della concezione<br />
moderna del quadro.<br />
<strong>Le</strong> sue nature morte, passando dalle vanitas della maniera<br />
nordica, alle escursioni ‘extrapittoriche’ del primo<br />
Seicento spagnolo, sanno bagnarsi, come nel caso dei<br />
“Girasoli”, di un’abbagliante luce contemporanea che li<br />
proietta nel mondo concreto; un mondo su cui Fontanella<br />
fa calare un occhio indagatore e chirurgico, in cui ogni<br />
bagliore non è mai lasciato al caso.<br />
Una realtà così vivida da farsi scenica, letteralmente<br />
“arte-fatta”, che Franco Fontanella sa portare alla ribalta<br />
per invitarci a godere della riscoperta di quei piccoli<br />
particolari che diversamente ci sfuggirebbero.<br />
(f.z.)
Girasoli, 2009<br />
Olio su tela, cm 102x72<br />
89
Flavia Franceschini<br />
Nelle serie di opere di periodi diversi che costituiscono<br />
il suo animato curricolo, l’artista ferrarese propone<br />
un filo rosso di continuità. All’interno della ricerca che<br />
da anni sta compiendo, pittura, scenografia, decorazione,<br />
scultura, calcografia delineano nuovi territori in cui<br />
diventa possibile movimentare ed esaltare le forme delle<br />
figure che si iscrivono nella magia della vita che vive.<br />
La bidimensionalità del supporto viene scavalcata da<br />
apporti di scagliola e dall’inserimento dei materiali più<br />
vari. Sono alla fine le sue opere come bassorilievi bloccati<br />
durante un processo di produzione/mutazione che<br />
ricorda i procedimenti degli alchimisti.<br />
È l’amore che l’artista porta per la materia a condurla<br />
90<br />
a studiarne i transiti di stato. È la passione infinita che<br />
ha nei confronti delle grande domande dell’essere nel<br />
mondo che la fa mettere in ascolto di tante voci interiori,<br />
la sua e quella degli altri.<br />
In modo particolare è il fascino della femminilità che<br />
viene colto, indagato, giocato in tutte le possibili variabili<br />
archetipiche. Flavia realizza un mondo di arcane follie e di<br />
struggente sapienza, abitato da figure volanti, da divinità<br />
lunari, da varianti assiro-babilonesi di divinità greche e<br />
molto altro ancora.<br />
Quello che affascina maggiormente nella sua arte<br />
è però il gioco sapiente del trattamento della materia<br />
e del colore. <strong>Le</strong> iridescenze delle cromie sono appena<br />
accennate, tanto da svelare ancora la trama della materia<br />
sottostante. I legni di cirmolo, di tiglio, i rialzi di scagliolasono<br />
impreziositi da velature leggere, insistite di quel<br />
tanto che basta a far cantare i toni ed a creare un effetto<br />
di indomabile vitalità.
Tutte le voluttà della terra(da Roland Barthes), 1991<br />
Tecnica mista, pannello di legno e scagliola dipinti con bassorilievi in legno di tiglio, cm 62x96<br />
Come era azzurro il cielo (da Roland Barthes), 1991<br />
Tecnica mista, pannello di legno e scagliola dipinti con 91 bassorilievi in legno di tiglio, cm 62x96
enzo Gentili<br />
Nato a Ferrara, ha avuto come maestri Giulio Soriani<br />
e Marcello Tassini per la pittura e Laerte Milani per<br />
la scultura. Proprio con Milani collabora fin dall’età di<br />
tredici anni alla realizzazione di cartoni animati per la<br />
“Pubblicine Ferrara”, casa cinematografica ferrarese<br />
specializzata in spot pubblicitari.<br />
Gentili frequenta scultura e pittura con uguale passione,<br />
distribuendo nel tempo opere dell’una e dell’altra<br />
sua creatività. Partecipa attivamente a molte collettive<br />
e personali realizzando in tal modo un buon curricolo<br />
espositivo confermato da premiazioni e riconoscimenti.<br />
Molte sue opere hanno una collocazione pubblica all’interno<br />
delle mura cittadine e nella provincia ferrarese.<br />
92<br />
Come artista Gentili propone una operatività dell’arte<br />
che si esplica con pari impegno e serietà nelle due forme.<br />
In quanto pittore e scultore sa ben governare le posture<br />
dei corpi e riesce a fare “tenere lo spazio” alle sue figure.<br />
La poetica del nostro artista consiste nella messa a<br />
fuoco del “fare”. È un intervento, apparentemente giocato<br />
sull’estrema semplicità dei materiali (la tempera, la<br />
terracotta patinata), che porta l’osservatore direttamente<br />
nell’officina di un artista che con determinazione raggiunge<br />
i risultati previsti.<br />
Il minimalismo dei materiali utilizzati rende ancora<br />
più evidente l’azione creativa del pittore e dello scultore.<br />
La luce fa risplendere le patine, esplode in scintillii<br />
improvvisi, si rifrange nelle figure dalle epidermidi<br />
lunari oppure sui corpi degli animali dalla muscolatura<br />
esemplare. Un sottile simbolismo aggrega le forme e le<br />
disperde all’interno della composizione in una infinita,<br />
straniante narrazione.
Autunno in valle<br />
Olio su tela, cm 100x80<br />
93
Il vento<br />
Terracotta patinata, cm 140x48x36<br />
94
Gianfranco Goberti<br />
Gianfranco Goberti nasce a Ferrara, dove intraprende<br />
già giovanissimo gli studi pittorici all’allora Istituto d’Arte<br />
“Dosso Dossi”, di cui in seguito sarà prima docente e<br />
poi direttore e dove, a diciassette anni, vince il primo<br />
premio di pittura “Il Pennello d’Oro”. Completa poi<br />
la sua formazione presso l’Accademia di Belle Arti di<br />
Bologna che, all’inizio degli anni Sessanta, si presentava<br />
come uno centri più fervidi del mondo artistico ed intellettuale<br />
italiano.<br />
A seguito del diploma nel 1965, partecipa alla Quadriennale<br />
di Roma sviluppando in questa prima fase della<br />
sua ricerca pittorica una riflessione che si colloca a metà<br />
tra la Nuova Figurazione e l’Espressionismo astratto.<br />
96<br />
Durante gli anni Settanta, la sua poetica si ‘raffredda’<br />
attingendo al territorio dell’arte concettuale, anche attraverso<br />
un approccio mediato dalle percezioni ‘optical’. Da<br />
qui in poi la sua attività è in piena ascesa ed i suoi lavori<br />
sono presto notati da grandi critici quali Gillo Dorfles o<br />
Pierre Restany, il grande teorico del Nouveau Realisme.<br />
Nel tempo Goberti concretizza una pittura sempre<br />
più impostata sullo spaesamento percettivo, sulle sollecitazioni<br />
ottiche, sull’oggettivazione di frammenti comuni,<br />
quasi banali, come poltrone o giacche, in cui si rincorre<br />
il motivo della linea o meglio della riga. Da qui i lavori di<br />
Goberti iniziano a caratterizzarsi per una fisica realtà, in<br />
cui i volumi degli oggetti acquistano letteralmente corpo,<br />
come nella bella serie delle “camicie”, quasi abitate da<br />
impalpabili ma presentissime entità che ci vengono anche<br />
suggerite dai titoli, come il “Ritratto d’Ignoto”.<br />
L’occhio anatomico di Goberti si fa vicinissimo, ingigantendo<br />
trame e tessuti che, se da un lato si dimostrano<br />
inquietantemente evocativi di una presenza che resta solo<br />
citata, in una “costante metafisica” propria della cultura<br />
ferrarese dechirichiana, dall’altro si traducono in segni<br />
autonomi, liberi di misurare la loro stessa portata pittorica,<br />
instaurando un dialogo continuo tra figura e sfondo.<br />
(f.z.)
Il mare, sei fasi, 1972<br />
Acrilico su tela, cm 120x170<br />
97
oberto Greco<br />
Roberto Greco nasce a Bengasi in Libia a metà degli<br />
anni Trenta da genitori italiani, formandosi poi artisticamente<br />
in Italia, prima al Liceo <strong>Artisti</strong>co di Firenze poi<br />
presso l’Accademia di Belle Arti della stessa città, dimostrando<br />
già da giovanissimo un grande amore per l’arte.<br />
Dagli anni Settanta inizia la sua carriera in ambito toscano<br />
esponendo, fra le altre, alla Galleria Cennini (1971)<br />
e alla Ken’s Art Gallery (1973) di Firenze.<br />
La piena maturità pittorica lo porterà ad abbandonare<br />
un atteggiamento inizialmente figurativo non senza passare<br />
per una corrente più impressionistica. Dopo varie<br />
ricerche pittoriche, condotte con una sperimentazione<br />
rigorosa, nel 1986 approda ad una pittura gradualmente<br />
98<br />
più informale, dando nuovo impulso all’attività espositiva<br />
che lo vede presente in ambito nazionale come ad<br />
Arte Fiera di Bologna, alle Fiere d’Arte Contemporanea<br />
di Padova o Firenze e all’estero, dove ritroviamo le sue<br />
opere in collezioni private e pubbliche.<br />
L’opera di Roberto Greco diviene così un percorso<br />
introspettivo nella ricerca delle infinite potenzialità della<br />
materia pittorica, che diviene docile mezzo espressivo<br />
di valori visivi e sensoriali, di umore e verità in grado<br />
di fondersi e di vibrare all’unisono, in un unico esistere.<br />
Il gesto, consumato nella ricerca nobile e appassionata<br />
all’interno delle forme in continuo divenire e dei materiali<br />
di cui si compongono, si distende e si amplifica, aggiunge<br />
luce al già luminoso assemblaggio cromatico, schiarisce<br />
e modula i toni, li veste di orecchiabili armonie, nella<br />
matura consapevolezza di avere raggiunto una chiarezza<br />
mentale ed espositiva tale da rendere sincero e profondo<br />
il dialogo con l’osservatore.<br />
(f.z.)
Senza titolo, 1992<br />
Olio su tela, cm 140x140<br />
99
Giovanni Gromo<br />
Nipote di Mario Gromo, scrittore, giornalista e critico<br />
cinematografico della prima metà del Novecento, Giovanni<br />
Gromo nasce a Torino alla fine degli anni Venti.<br />
Durante la sua prima infanzia, la famiglia si stabilisce<br />
ad Alassio, in Liguria, dove ancora giovanissimo conosce<br />
Carlo <strong>Le</strong>vi. Lo stesso Gromo ricorda quegli anni<br />
come «un’indigestione di quadri, di conversazioni sulla<br />
pittura, sull’arte» oltre che come l’inizio di un lungo e<br />
“fraterno”legame. Ma sarà solo anni dopo, durante il<br />
servizio militare a Vicenza, che Gromo coglie l’occasione<br />
per studiare la grande pitture veneta nei musei di Vicenza,<br />
Padova e Venezia, oltre che per venire a contatto con<br />
l’opera di De Pisis, di cui in quegli anni si teneva proprio<br />
100<br />
a Ferrara la prima grande retrospettiva.<br />
La formazione di Gromo si conferma così tutta museale<br />
e, dopo una parentesi romana ed un primo approccio<br />
al mestiere più affine alle attività decorative, torna in<br />
Liguria per dedicarsi più concretamente alla pittura e<br />
alla ceramica, fino ad arrivare all’attenzione della galleria<br />
“La Colonna” di Milano allora diretta da Renata Usiglio.<br />
Per tutti gli anni Sessanta si dedica principalmente<br />
all’attività plastica, instaurando con la tela e la pittura un<br />
rapporto quasi morboso che lo porterà a fare e letteralmente<br />
e a disfare ogni suo quadro di quel periodo. Ma<br />
alla soglia dei quarant’anni, Giovanni Gromo non può<br />
più rimandare una necessità, ancor più che una passione,<br />
e passa definitivamente alla pittura inaugurando una<br />
lunga carriera espositiva, con una personale, di nuovo<br />
a Milano, alla Galleria di Renzo Cortina, presentato<br />
dall’amico Carlo <strong>Le</strong>vi.<br />
Il temperamento di teorico e studioso delle Belle Arti<br />
si riflette da subito nella sua pittura, cauta e meditativa,<br />
ricca di introspezione, prediligendo un universo rurale,<br />
in contatto con la natura. Nei primi lavori non di rado<br />
ci si ritrova invischiati tra una pacata contemplazione e<br />
presenza (uomini o cose) ricche di un sentimento dolente<br />
e persino ‘ostile’.<br />
Un’atmosfera soffusa ed intima si dispiega invece nelle<br />
opere della piena maturità, in cui spesso le ombre giocano<br />
un contrappunto ancora più importante delle luci, sempre<br />
esterne ed estranee all’ambiente, nel disegnare scorci o<br />
nel lasciare emergere un racconto.<br />
(f.z.)
Musica di alcuni giovani, 2002<br />
Olio su tela, cm 80x100<br />
101
luigi Grossi<br />
Artista di origini napoletane, nel suo lavoro Luigi<br />
Grossi gioca con una maliziosa pregnanza semantica<br />
degli elementi che di volta in volta inscena. L’artista con<br />
“Mare” ci pone dinnanzi non certo uno studio sulla<br />
strutturazione astratta dello spazio-opera ma, come<br />
evoca nel titolo, ci sprona a riflette sulle valenze stesse<br />
del fare arte: il pittore non ci fa vedere quel che anche<br />
da soli avremmo visto nel mondo concreto, ma ce ne<br />
restituisce una visione inedita, ci mostra le cose con un<br />
occhio diverso da quello abituale.<br />
La pittura di Luigi Grosso, scoprendo alla nostra vista<br />
quel che ci sfuggiva, suscita lo stupore nel ritrovarci di<br />
fronte ad una pittura “naturalistica”, smentendo le facili<br />
102<br />
scelte di uno linguaggio “naturale” strutturato in base a<br />
mere convenzioni culturali.<br />
Così Grossi concretizza il pensiero platonico secondo<br />
il quale le idee, sensibilmente invisibili, solo grazie<br />
al lavoro e allo sforzo del pensiero, possono rendersi<br />
intelligibilmente visibili.<br />
«L’invisibile, che la pittura rende visibile, non è il<br />
‘fuori’ del mondo, ma al contrario è il suo ‘dentro’, la<br />
sua più propria intimità, che come tale non si trova mai<br />
platealmente esposta».<br />
L’opera di Grossi articola all’interno del quadro un<br />
gesto informale che anima la superficie del supporto,<br />
fuoriuscendone. La vibrazione materica di “Mare” si<br />
fa spazio tridimensionale, seppur breve, attraverso un<br />
concatenarsi di piani in cui la materia si dà con straordinaria,<br />
densa monocromia. <strong>Le</strong> stesure di pasta danno a<br />
‘vedere’ la strenua tensione di una pluralità di direttrici,<br />
portando Grossi non a rappresentare, come un improprio<br />
spettacolo, la natura, ma a far esistere dentro di noi,<br />
come nostro patire, la materia nuova nel momento della<br />
sua produzione.
Mare<br />
Zinco, cm 100x100<br />
103
Alessandro Guerrini<br />
Guerrini nasce a Porto Recanati alla metà degli anni<br />
Quaranta e, dopo un avvicinamento alla pittura da autodidatta,<br />
frequenta prima lo studio del pittore Mario<br />
Lupo a Grottammare e poi l’Accademia di Belle Arti di<br />
Macerata.<br />
Partendo dalla bipolarità che la ricerca artistica della<br />
perfezione estetica passi o dallo studio dell’eccellenza<br />
delle opere dei grandi maestri che ci hanno preceduto,<br />
o dallo studio della natura, di fronte alla quale l’artista è<br />
solo, il critico e storico dell’arte Massimo Bignardi, commentando<br />
l’opera di Guerrini, ci porta a considerare che<br />
in questa seconda via il paesaggio si carica di inquietudini<br />
fino a diventare il luogo delle espressioni individuali. Ed<br />
104<br />
è in quest’ottica che la natura nutre e riempie le tele di<br />
Alessandro Guerrini, «che ama la pittura così come la<br />
sua immagine riflessa […] ritmando l’impianto cromatico<br />
condotto da una pennellata nervosa, che si offre ai soffi<br />
del vento, che non guarda a nessuna regola compositiva».<br />
Guerrini capta e filtra ogni esperienza della quotidianità<br />
esterna per rielaborarla nell’intimità dello studio, dove<br />
immaginario e meditazione si rincorrono in una paesaggio<br />
che è spesso metafora di una più ampia cultura<br />
figurativa: dal Surrealismo lirico al concretismo plastico<br />
che fu prima di Cézanne e poi dei Cubisti, fino a riallacciarsi<br />
alla tradizione tutta italiana del secondo Futurismo.<br />
Da tele sature di oggetti reiterati in uno spazio caleidoscopico<br />
a nature morte di estremo rigore e semplicità,<br />
Guerrini non rinuncia ad assemblare immagini, come in<br />
un collage pittorico, che di volta volta ed indistintamente<br />
sa prelevare dal sogno come dalla realtà ed accostare in<br />
piena libertà espressiva, con un’apparente levità.<br />
«Quella di Guerrini è una pittura intrisa di poesia,<br />
di ansie, di incertezze esistenziali, di irrequietezza, di<br />
ripensamenti: è però un suo preciso e sentito modo di<br />
essere presente, di sentire la pelle vicina alla vita» (Massimo<br />
Bignardi).<br />
(f.z.)
Il drappo, 2009<br />
Olio su tela, cm 70x80<br />
105
Gianni Guidi<br />
Gianni Guidi originario di Bologna (classe 1942), vive<br />
e lavora da più di cinquant’anni a Ferrara, dove, all’assidua<br />
attività artistica, ha affiancato l’insegnamento fino<br />
alla fine degli anni Novanta con la cattedra di Discipline<br />
Pittoriche presso l’allora Istituto d’Arte “Dosso Dossi”.<br />
Da sempre figura tra gli artisti di spicco della città,<br />
ha esposto in più occasioni al PAC, Padiglione d’Arte<br />
Contemporanea di Ferrara, ed è attivo già <strong>dagli</strong> anni<br />
Settanta presso svariate galleria che lo vedono esporre da<br />
Roma, a Milano, Bologna o Venezia, dal centro Culturale<br />
di Knokke a quello di Anversa in Belgio, terra in cui da<br />
anni espone regolarmente.<br />
Durante il suo percorso artistico Gianni Guidi ha<br />
106<br />
saputo raccontare lo spazio attraverso opere a cui la sola<br />
definizione di scultura può non bastare; ma dalle grandi<br />
installazioni ‘aeree’ degli anni Novanta, in cui l’evocazione<br />
dell’elica conferiva alla pesantezza del ferro tutta la<br />
lirica del volo, fino alle recenti terrecotte, raccolte nella<br />
personale “Natura Naturans” alla Galleria del Carbone,<br />
il filo conduttore della poetica di Guidi è il sapiente dialogo<br />
tra una visione filosofica della genesi universale e<br />
le pulsazioni più intime dell’Io.<br />
Gli uomini-albero di Guidi nella sapida ruvidezza della<br />
terra refrattaria esprimono un vortice inarrestabile. È<br />
un continuum biologico che non conosce limiti. La trasformazione<br />
è un flusso, un gioco della materia: non c’è<br />
mai sforzo ma continuo nascente vigore della creatività.<br />
Così tra sciamaniche figure di tartarughe alate, immagine<br />
collassante l’ideologia della stabilità dell’universo, ed<br />
intrecci sinuosi tra l’ibridazione del mondo animale con<br />
quello vegetale, le opere di Gianni Guidi ci conducono<br />
su di un piano simbolico di enigmatica suggestione.<br />
(f.z.)
Senza titolo, 2008<br />
Terracotta patinata, altezza cm 64x21x21<br />
107
ernesto lombardo<br />
Nasce nel messinese negli anni Quaranta e, dopo<br />
la prima attività artistica giovanile in Sicilia, dalla fine<br />
degli anni Sessanta si trasferisce prima a Milano poi ad<br />
Albissola, in Liguria, ed infine a Roma dove attualmente<br />
vive e lavora.<br />
Nei dipinti degli anni Ottanta del maestro siciliano si<br />
ripetono similarmente tre cardini di tutta la sua pittura di<br />
paesaggio, come variazioni del medesimo tema: il mare<br />
in lontananza, una landa desolata e qualche tocco di<br />
vegetazione residua. Elementi questi che non mancano<br />
di caricarsi metaforicamente, così come avviene anche<br />
per la strutturazione dello spazio che si dà nelle tele di<br />
Lombardo con gradi inquadrature, a volo d’uccello, tut-<br />
108<br />
te a favore di una visione terrena, che limita altrettanto<br />
metaforicamente lo spazio aereo, mai visto come fuga.<br />
L’aspetto materico di una terra greve ed opaca si perde<br />
in una profondità che lascia lo sguardo incollato al suolo<br />
senza trovare conforto in un cielo spesso velato.<br />
I paesaggi di Lombardo si caricano di ulteriore tensione<br />
rivelandosi vuoti o, allorquando animati, restando<br />
sempre nel più imperioso silenzio, anche di fronte alla<br />
contraddizione che si gioca tutta nel titolo. Come in<br />
“Canto delle sirene” in cui l’unica presenza in una terra<br />
magmatica è un grammofono d’altri tempi, che si trova<br />
nella più completa inutilità dell’essere: per quanto plausibile<br />
l’ipotesi del suo funzionamento, non vi è anima<br />
viva che potrebbe udirlo. O come nella tela “Dal piccolo<br />
oracolo”, in cui ancora una volta l’unico elemento ad<br />
intromettersi nella natura è un manufatto: una piccola<br />
sfinge di pietra a cui il tempo o l’incuria hanno inesorabilmente<br />
distrutto la testa. Così la statua resta lì, carica<br />
di tutte le aspettative che l’umanità può averle riversato<br />
addosso, in cerca di risposte, di un oracolo appunto, che<br />
non verrà, lasciando imperare su tutto la natura.<br />
Il suo linguaggio pittorico contribuisce a rafforzare le<br />
ideologie delle tematiche: la mancanza di pittoricismi, o di<br />
ricorsi ad un romanticismo patemico, fanno della pittura<br />
di Lombardo una pittura senza “gesto”, tutta incentrata<br />
sul lucido calcolo e sulla struttura analitica della composizione.<br />
Anche il sapiente uso dei contrasti cromatici si<br />
piega ad un clima gelido, non fantasioso, bensì visionario<br />
che non abbandona mai una realtà di base.<br />
(f.z.)
Dal piccolo oracolo, 1989<br />
Olio su tela, cm 100x120<br />
109
Piero Maggioni<br />
(Monticello Brianza 1931 – Viganò 1995)<br />
Nel 1933, a causa della morte dei genitori, entra<br />
nell’Istituto Don Guanella di Como dove resterà sino al<br />
1944. All’inizio del secondo dopoguerra si iscrive al corso<br />
serale di disegno presso il Castello sforzesco. Dopo una<br />
esperienza come disegnatore di gioielli si dedica maggiormente<br />
all’arte ponendosi a cavallo delle due linee<br />
che in quel momento catalizzano il mondo dell’arte: il<br />
neorealismo e l’arte astratta.<br />
Negli anni Sessanta l’esperienza di Albissola gli permette<br />
di venire a contatto con un ambiente artistico<br />
particolarmente interessante. La coroplastica diventa il<br />
110<br />
naturale accesso al mondo della scultura.<br />
In quegli anni stringe amicizia con molti artisti famosi:<br />
tra gli altri si lega in particolare Wifredo Lam, l’artista cinese-cubano<br />
che sarà il principale fattore di cambiamento<br />
della pittura di Maggioni. L’incontro con Picasso, amico<br />
di Lam, porta il nostro artista a riflettere sul suo stile e la<br />
sua arte. È la scoperta della scomposizione geometrica<br />
a discapito della figurazione. L’ispessimento della trama<br />
materica segna anche la sua piena maturità pittorica.<br />
Maggioni comincia a riscuotere grandi consensi nazionali<br />
e internazionali e le sue opere si trovano in moltissime<br />
importanti gallerie pubbliche italiane ed estere.<br />
Negli anni Ottanta il tema sacro diventa prioritario<br />
con un conseguente ritorno al figurativo. Riprende un’attività<br />
intensa soprattutto in campo scultoreo. La pittura<br />
riprende nelle intermittenze della malattia negli anni<br />
Novanta con le “Microstorie ciclistiche”. La bicicletta è<br />
stata l’altra grande passione di Maggioni.<br />
Muore a Viganò nel 1995, sconfitto dalla malattia che<br />
lo tormentava da anni.
Oggiono<br />
Olio su tela, cm 40x50<br />
111
Valle, 1991<br />
Olio su tela, cm 25x70<br />
Autunno nella valle, 1990<br />
Olio su tela, cm 30x90<br />
112
113
Alessandro Marzetti<br />
Lo scultore è nato a Volterra (Pisa), dove vive e lavora.<br />
Dopo il diploma di maturità all’Istituto d’Arte di<br />
Volterra nella sezione alabastro, si diploma in scultura<br />
all’Accademia di Belle Arti di Carrara. Ha un fornito<br />
curricolo come docente e scenografo.<br />
Nel 2001 partecipa come docente di scenografia ai<br />
corsi di formazione professionali annuali di teatro indetti<br />
dalla Provincia di Pisa. Dallo stesso anno è scenografo<br />
della Compagnia della Fortezza, diretta da Armando<br />
Punzo. Successivamente realizza una collezione di modelli<br />
di studi architettonici di “spaziologia” dell’architetto<br />
Vittorio Giorgini, noto rappresentante della scultura<br />
informale.<br />
114<br />
Vanta una intensa attività espositiva in Italia e all’estero.<br />
Partecipa a numerosi simposi di scultura nazionali e<br />
internazionali.<br />
L’opera donata è una installazione di alabastro e di<br />
ferro. La scultura fa parte della serie che l’artista chiama<br />
“disegni di pietra”. Al centro della ingabbiatura di ferro,<br />
in cui gabbia e piano formano un unico pezzo, un torso<br />
femminile di alabastro galleggia nella trasparenza della<br />
luce.<br />
Quella dei “disegni di pietra” è una sorta di disegno<br />
tridimensionale che Marzetti ama molto. Sono sculture<br />
in alabastro realizzate da un unico blocco di pietra che<br />
viene scarnificato fino all’esasperazione, fino a far rimanere<br />
visibile solo l’essenza del soggetto rappresentato.<br />
Il materiale asportato è di molto superiore a quello che<br />
rimane.<br />
È questo processo artistico un voluto portare all’eccesso<br />
la lavorazione manuale in un’epoca in cui l’arte<br />
dà molta importanza unicamente all’idea, al concetto,<br />
tralasciando spesso l’esecuzione che viene delegata<br />
all’artigiano.<br />
Nei suoi disegni di pietra è il vuoto che dà la forma;<br />
sono dei bellissimi nastri di pietra lavorata che racchiudono<br />
porzioni di vuoto. Come nello svolgimento di una<br />
partitura musicale anche nella scultura senza la pausa, il<br />
vuoto, la materia non avrebbe da sola il potere di rappresentare<br />
un’immagine.
Torso femminile<br />
Installazione in alabastro e ferro, cm 82x37,5x37,5<br />
115
dino Masella<br />
Nasce in provincia di Benevento nella metà degli anni<br />
Cinquanta, ma si trasferisce presto a Roma, subendo il<br />
fascino di un ambiente dove storia, archeologia e arte<br />
non hanno confini. È qui che a tutt’oggi vive e lavora,<br />
dividendo la sua passione per l’arte con la professione<br />
medica.<br />
Il suo approccio alla pittura è avvenuto tramite un<br />
lungo percorso, in cui anche la scoperta del variare dei<br />
toni all’interno di un colore ha avuto il sapore di uno<br />
straordinario traguardo.<br />
Sarà l’incontro con Marcello Venturoli, autorevole<br />
critico d’arte, giornalista e saggista, a fargli superare<br />
ogni residua incertezza e a sviluppare in lui una maggior<br />
116<br />
consapevolezza della pratica artistica.<br />
La pittura di Dino Masella si svolge nella sfera esistenziale<br />
dell’individuo, tenta di dar luce alle motivazioni<br />
dell’essere attraverso una espressione affine alla grande<br />
stagione informale americana, come quella che possiamo<br />
ritrovare nell’opera di Mark Tobey.<br />
Nelle sue tele lo spazio riemerge in una superficie<br />
continua, in una dinamica, in una ritmica che proiettano<br />
la tela nella mondanità contemporanea. <strong>Le</strong> linee graffite<br />
si dispiegano con una persistenza organica, quasi di<br />
scrittura interiore, priva di inizio come di fine e incidono<br />
il colore-materia con una ossessiva ricerca di equilibrio.<br />
Masella affronta l’aspetto cromatico delle sue tele<br />
con sfumature piene, in densi strati, con cui esplora il<br />
mondo poetico ed irrazionale dell’immaginazione, in<br />
dipinti dalla grande carica interiore tendente ad affermare<br />
una realtà “altra”, una realtà spirituale. La forza di alcuni<br />
dei suoi quadri risiede proprio nella capacità di arrivare<br />
all’osservatore e di incoraggiare la meditazione, pur senza<br />
alcun riferimento visibile al mondo reale, grazie alla loro<br />
grande carica gestuale.
Senza titolo, 2008<br />
Olio su tela, cm 100x140<br />
117
Adriana Mastellari<br />
Adriana Mastellari, ferrarese, dopo aver frequentato<br />
la Scuola del Libro di Urbino, l’Istituto d’Arte “Dosso<br />
Dossi” di Ferrara, si diploma in scultura all’Accademia<br />
delle Belle Arti di Bologna dove ha avuto come maestri<br />
Umberto Mastroianni e Dante Carpigiani.<br />
Dai busti e dai ritratti degli esordi, alle sculture sulla<br />
ritualità del potere degli anni Ottanta, dai paesaggi<br />
dell’anima degli anni Novanta alle grandi sculture<br />
simbolico-evocative degli anni Duemila, tutto testimonia<br />
la straordinaria vitalità espressiva e la qualificata abilità<br />
tecnica che la nostra scultrice possiede in alto grado.<br />
Quella che emerge nell’arte di Adriana, come ama farsi<br />
conoscere, è la permanenza di una grande intelligenza<br />
118<br />
dello spazio che viene indagato con infinita passione,<br />
senso d’ironia e di autentica convinzione creativa. La<br />
sua è veramente una coscienza agente sempre presente<br />
a se stessa.<br />
<strong>Le</strong> figure femminili sono preminenti nelle sue opere.<br />
Tensioni diverse aprono lo spazio concettuale del suo<br />
mondo secondo modulazioni che indagano il rapporto<br />
problematico che l’individuo organizza con lo spazio<br />
che lo circonda. Uno spazio che, occorre ricordare, non<br />
è solo naturalistico ma anche sociale, politico, culturale<br />
e religioso.<br />
Si comprendono in questo senso gli slittamenti di<br />
segno tra le tensioni del potere e le pulsioni individuali.<br />
Anche l’urlo disperato e autentico di rivendicazione<br />
dell’unità della persona assume allora pienamente il suo<br />
significato.
L’urlo, 1980<br />
Bronzo, cm 52x21x57<br />
119
terry May<br />
Terry May nasce alla fine degli anni Sessanta, si forma<br />
presso l’Accademia di Belle Arti di Roma con il Maestro<br />
Enzo Brunori. Trasferitasi a Ferrara, instaura uno stretto<br />
legame con la città, che cita spesso nei suoi lavori, come<br />
‘luogo’ per eccellenza, e dove da alcuni anni ha avviato<br />
la “Terry May Home Gallery”.<br />
Il titolo del suo lavoro qui presentato, estremamente<br />
biografico, si riferisce alla cagnolina nota come Laika che<br />
fu, suo malgrado, uno dei protagonisti della conquista<br />
spaziale da parte dell’umanità: i sovietici la lanciarono in<br />
orbita nello spazio il 3 novembre del 1975 a bordo della<br />
capsula spaziale Sputnik 2.<br />
Terry May le rende omaggio attraverso la piccola<br />
120<br />
immagine di un aereo e una stella cometa, ottenuta dal<br />
frottage di un oggetto puerile, come un vecchio campanello<br />
per bicicletta. La stessa May confessa di essere<br />
molto affascinata da questa storia, tanto che questo<br />
riferimento compare in più di una sua opera e apre un<br />
ciclo pittorico dedicato appunto a Laika.<br />
Sfondo all’evocazione di questo personaggio lost in<br />
space, un frammento della mappa della città di Ferrara,<br />
nel particolare del castrum bizantino, zona di residenza<br />
della stessa autrice, in cui al posto delle nomenclature<br />
delle vie sono stati sostituiti altrettanti frottage presi da<br />
lapidi sacre presenti negli stessi luoghi, sotto forma di<br />
preghiere e raccomandazioni per l’anima.<br />
«L’unica frase che ho voluto aggiungere è quella che<br />
recita: - perché la terra è nuova e non si sa come camminarla<br />
- .Volevo far sì che ci si affidasse alle parole che<br />
si trovano, alle strade già segnate». Il lavoro lascia così<br />
trapelare il desiderio di ridisegnare il significato dei gesti<br />
quotidiani, anche con un semplice intervento pittorico<br />
libero da qualsivoglia ipocrisia.<br />
(f.z.)
Laika, 2010<br />
Tecnica mista, cm 172x141<br />
121
elio Mazzella<br />
Nato a Napoli, Elio è il minore dei fratelli Mazzella<br />
che costituiscono una presenza particolarmente attiva e<br />
preziosa nel complesso scenario artistico contemporaneo<br />
napoletano. Elio Mazzella (classe 1938) segue studi<br />
umanistici e si laurea in giurisprudenza. Eppure la sua<br />
pulsione verso il mondo dell’arte lo induce a seguire le<br />
orme del padre, Mariano, pittore e restauratore, allievo<br />
di Michele Cammarano. È in questo contesto parentale<br />
che Elio matura il suo tirocinio artistico.<br />
<strong>Le</strong> sue prime prove vengono accolte positivamente<br />
<strong>dagli</strong> artisti che frequentano d’abitudine lo studio paterno.<br />
<strong>Le</strong> potenzialità del giovane Mazzella trovano la giusta rispondenza<br />
nel mecenatismo di Armando D’Abundo che<br />
122<br />
ne favorisce l’esordio nel mondo dell’arte. Elio partecipa<br />
a mostre collettive e personali.<br />
Altro significativo incontro per la sua vita professionale<br />
è quello con Palma Bucarelli, direttrice della Galleria<br />
d’Arte Moderna di Roma e ascoltata critica d’arte, che<br />
ne apprezza il talento e interviene più volte a segnalare<br />
l’artista in varie occasioni.<br />
In particolare è proprio la ricerca sui “cementi” a interessare<br />
la critica. Il cemento nell’eleganza del monocromo<br />
bianco segna come la messa a nudo del significante.<br />
Elio Mazzella vuole con questa sua scelta nell’ambito<br />
dell’Informale spogliare la sua pittura dei significati stabiliti,<br />
non tanto per operare una rivelazione di un senso<br />
nascosto quanto per agire in una esplorazione insistita<br />
dei costituenti del segno.<br />
Dal 1990 si dedica anche alla scultura. Realizza con “I<br />
fantasmi della guerra” delle opere che recuperano reperti<br />
bellici della seconda guerra mondiale. Come giustamente<br />
scrive Mimma Sardella. «La forma e l’armonia appaiono<br />
nei manichini del maestro come un progetto virtuoso,<br />
eseguito con perizia d’autore. Al di là del materiale che<br />
le compone, le figure portano dentro e fuori le loro fattezze<br />
mimate, rese con i reperti bellici, ma con la dignità<br />
taumaturgica che solo un esperto curatore può conferire».<br />
L’artista che ha nel suo curricolo numerose mostre<br />
personali e collettive in Italia e all’estero, nel 2011 ha<br />
partecipato alla 54 a Biennale di Venezia.<br />
Vive e lavora a Napoli e Roma.
Senza titolo, 2006<br />
Tecnica mista, cm 100x125<br />
123
luigi Mazzella<br />
Nato a Napoli, Luigi è il secondo per età dei tre<br />
fratelli Mazzella che costituiscono una presenza particolarmente<br />
attiva e preziosa nel complesso scenario<br />
artistico contemporaneo napoletano. A partire dal 1970<br />
la loro presenza diventa sempre più significativa in ambito<br />
nazionale e internazionale, a dimostrazione di quanto il<br />
processo autonomo e originale delle loro ricerche sappia<br />
rinnovare continuamente una produzione di alta qualità<br />
tecnica e poetica.<br />
Luigi Mazzella (1936) a Napoli vive e lavora. È allievo<br />
di Ennio Tomai (L’Aquila 1893-Napoli 1969) che comprende<br />
le inclinazioni del giovane allievo e le asseconda.<br />
La lezione è duplice sia a livello delle acquisizioni tecniche<br />
124<br />
sia sul grado di affinamento del gusto e del sentire.<br />
Si dedica anche all’insegnamento mentre prosegue la<br />
sua ricerca nel mondo complesso della scultura del Novecento.<br />
È nello studio di Villa Haas, lasciatogli in eredità<br />
dal suo adorato maestro, che persegue la sua battaglia con<br />
la materia e la sua natura polimorfa. Inerzia e dinamicità<br />
segnano il ritmo delle azioni da compiere per cogliere le<br />
dinamiche dello spazio e delle tensioni.<br />
Il bronzo, il legno, l’argento, la ceramica, il ferro, il<br />
marmo e la pietra ma anche il piombo servono al nostro<br />
artista per esprimere quanto la scultura, pur partendo<br />
dal reale, riesca ad esprimersi senza darsi uno statuto<br />
figurativo.<br />
Eppure Palma Bucarelli osserva come «il sentimento<br />
di una forma primaria piena e monumentale è così intrinseco<br />
al suo pensiero che certe sue piccole sculture si<br />
potrebbero facilmente immaginare in grandi dimensioni<br />
in un contesto urbano». Quello che interessa al nostro<br />
artista è proprio la contestualizzazione nella scultura di<br />
un sentire diffuso e partecipato.<br />
Luigi Mazzella prosegue la sua attività con molte<br />
mostre personali e collettive in Italia. Nel 2011, su invito,<br />
partecipa alla 54 a Biennale di Venezia.
Forma<br />
Bronzo, cm 65x25x15<br />
125
osario Mazzella<br />
Nato a Napoli (1932), dove vive e lavora, Rosario è il<br />
maggiore dei tre fratelli Mazzella che costituiscono una<br />
presenza particolarmente attiva e preziosa nel complesso<br />
scenario artistico napoletano contemporaneo. Dopo aver<br />
lavorato insieme per un ventennio, <strong>dagli</strong> anni Sessanta<br />
agli anni Ottanta, dal 2011 i tre fratelli hanno ripreso a<br />
lavorare e ad esporre insieme.<br />
La formazione artistica di Rosario avviene presso<br />
l’Istituto d’Arte “Filippo Palizzi” di Napoli dove ha<br />
come docenti Carlo Striccoli, Alberto Chiancone e Pietro<br />
Barillà. In effetti è l’ambiente stesso di famiglia che<br />
motiva la sua scelta: il padre, Mariano Mazzella, pittore<br />
e restauratore, è stato allievo di Michele Cammarano.<br />
126<br />
Versato alla figurazione, sin dalle prime prove lascia<br />
intendere lo sviluppo della sua arte. Si trasferisce dopo<br />
il diploma a Pozzuoli per rientrare a Napoli intorno alla<br />
fine degli anni Cinquanta. Viene nominato docente di<br />
Discipline pittoriche nello stesso Istituto d’Arte in cui<br />
era stato studente.<br />
Nel mondo di sollecitazioni dei movimenti del secondo<br />
dopoguerra il nostro artista «assume una cifra<br />
autonoma, affatto distante dalle più spinte esercitazioni<br />
della ricerca. Si avvale di tecniche raffinate, dalla pittura<br />
postimpressionistica, al simbolismo e all’espressionismo<br />
europeo senza dimenticare il classicismo e il secentismo<br />
puro» (Giuliana Albano). Quella di Rosario è un’arte<br />
che coniuga impegno e poesia. La scena pittorica che la<br />
sua visione del mondo squaderna davanti agli occhi del<br />
riguardante testimonia la confluenza di fonti diverse e del<br />
tutto eterogenee tra loro che trovano un loro equilibrio<br />
sullo spazio della tela. Dalle istanze della classicità alla<br />
cultura delle saracinesche dipinte, tutto nelle sue opere<br />
vi compare di più istintivo, fluido e lucido al massimo<br />
grado. È una lettura intelligente del mondo in piena<br />
metamorfosi; è la cosciente presa d’atto della memoria<br />
storica della città. Questo contesto gli permette di sviluppare<br />
quella modalità espressionistica che lo condurrà<br />
all’astrattismo informale.<br />
Partecipa a numerose mostre personali e collettive in<br />
Italia e all’estero. Nel 2011 partecipa, su invito, alla 54 a<br />
Biennale di Venezia.
Sinopia di edicola urbana<br />
Tecnica mista su iuta, cm 138x110<br />
127
Mario Minarini<br />
Nasce a Firenze, dove vive e lavora. Qui, ripercorrendo<br />
la tradizione fiorentina che da sempre vede giovani<br />
artisti, in primis Sandro Botticelli, sviluppare il senso del<br />
disegno e della composizione d’arte grazie alla formazione<br />
in botteghe orafe, Minarini si diploma in oreficeria<br />
presso l’Istituto d’Arte della sua città.<br />
Agli inizi del millennio fa il suo ingresso nel mondo<br />
espositivo anche grazie al pittore Valerio Mirannalti,<br />
artista con il quale condividerà un ininterrotto percorso<br />
tematico. La sua formazione prosegue studiando pittura<br />
ad olio con il Maestro Alessandro Berti, oltre che Figura<br />
disegnata alla Scuola Libera del Nudo dell’Accademia di<br />
Belle Arti di Firenze, con Sandra Batoni.<br />
128<br />
Nel 2005 entra nel Gruppo Mazzon, dove frequenta<br />
il maestro Osvaldo Curandai. Da allora i riconoscimenti<br />
non tardano ad arrivare, ricevendo nel 2008 il Fiorino<br />
d’Argento al “Premio Firenze”, con l’opera “Manichino”,<br />
mentre nel 2010 viene pubblicato in catalogo Alinari con<br />
una menzione speciale per il concorso “Premio Vittorio<br />
Alinari”.<br />
Minarini trasmette nei suoi dipinti tutto il mestiere<br />
sapiente della precisione artigiana, affrontando la tecnica<br />
pittorica e disegnativa con ossessiva diligenza, senza<br />
trascurarne il racconto figurativo.<br />
I suoi lavori, raggruppabili in grandi serie tematiche,<br />
vanno dai primi paesaggi toscani in cui si evince il suo<br />
rapporto con la terra d’origine e la sua storia, alla ritrattistica<br />
in cui, grazie alla precisione derivante dall’esperienza<br />
orafa, Minarini sa eccellere rubando l’intima psicologia<br />
di ogni soggetto, tra cui si ricorda la serie omaggio al gallerista<br />
ferrarese Renzo Melotti, fondatore dell’omonimo<br />
Studio già nel 1978 e personaggio di spicco nel mondo<br />
artistico, che con il suo lavoro a Ferrara ha contribuito<br />
alla diffusione di artisti di fama internazionale.<br />
(f.z.)
Ritratto di Renzo Melotti, 2009<br />
Olio su tela, cm 70x50<br />
129
Natura morta<br />
Olio su faesite, cm 82x112<br />
Ritratto di Renzo Melotti, 2009<br />
Olio su tela, cm 70x50<br />
130
131
Valerio Mirannalti<br />
Valerio Mirannalti è un giovane artista fiesolano che<br />
unisce all’operatività del grafico multimediale quella del<br />
pittore e dello scultore. La manualità diventa una sorta<br />
di gioco di compensazione della virtualità dell’immagine<br />
che nasce sul supporto. Creare un luogo per essere. La<br />
natura dipinta dal nostro artista non è tanto volta alla<br />
ricerca della mimesi fine a se stessa quanto piuttosto alla<br />
sollecitazione di un gioco in cui il ricordo di incidenze e<br />
stilemi riportano alla tradizione macchiaiola.<br />
Quello di Mirannalti diventa insomma un corteggiamento<br />
del mondo circostante da parte di un occhio<br />
affascinato, pronto a rilevare pieni e vuoti, silenzi e ritmi<br />
delle cromie. Con l’opera “Faggi alla Colla” l’artista<br />
132<br />
movimenta il supporto facendolo diventare quasi un<br />
bassorilievo. Lo splendido bosco di faggi del Passo della<br />
Colla, sull’Appennino toscano, sopra Borgo San Lorenzo<br />
(Firenze), diventa un’occasione per saggiare una nuova<br />
frontiera della pittura.<br />
Il supporto, costituito dalle pagine gialle degli elenchi<br />
telefonici incollate sulla tela, assume il ruolo o, come<br />
suggerisce l’artista, diventa anche un modo di raccontare<br />
una sua storia. Non più supporto inerte e fungibile, si fa<br />
parte importante della narrazione. Diventa esso stesso<br />
“racconto” nella storia che l’artista ci rappresenta per<br />
immagini.<br />
Il bosco autunnale con la precaria stabilità delle foglie<br />
viene reso con tagli rinforzati che escono dalla dimensionalità<br />
del supporto per permettere allo spettatore di<br />
entrare in una realtà frantumata e ricomposta dall’occhio<br />
dell’artista e del riguardante. La tecnica mista di tempera,<br />
olio con rialzi di gessetto e di acrilico rende bene la sinfonia<br />
cromatica dell’autunno. Pittura-scultura, l’opera segna<br />
il passaggio alla nuova fase creativa dell’artista segnata da<br />
una stagione di sculture di grandi dimensioni.
Faggi alla Colla<br />
Tecnica mista su tela, cm 120x120<br />
133
Matteo Nannini<br />
Nato a Bologna, vive e lavora a Cento (Ferrara). È il<br />
fratello minore del pittore Nicola Nannini.<br />
Si diploma presso il liceo artistico “F. Arcangeli” di<br />
Bologna e successivamente presso l’Accademia di Belle<br />
Arti di Bologna. Dal 1998 insegna disegno e pittura presso<br />
la Scuola di Artigianato <strong>Artisti</strong>co di Cento. Dal 2001 è<br />
insegnante di disegno e pittura presso il Club delle Arti<br />
di Finale Emilia (Modena).<br />
Tagli fotografici e suggestioni proprie della comunicazione<br />
di massa rappresentano una sorta di smodata<br />
variante dell’uomo come personaggio. In un continuo<br />
corteggiare o negare gli stilemi dell’illustrazione, gli<br />
stereotipi, i vissuti del nostro tempo il nostro artista<br />
134<br />
esplora un suo spazio totalmente aperto alle problematiche<br />
esistenziali.<br />
Quasi scatti di un movimento franto e ripreso al rallentatore,<br />
quella di Matteo Nannini è una approfondita<br />
riflessione sulla pittura figurativa nel nostro tempo. Ogni<br />
suo personaggio descrive una ritmica sequenza di azioni<br />
colte con il fermo-immagine. <strong>Le</strong> sue serie sono una<br />
messa a fuoco dell’azione del dipingere. La variazione<br />
della materia pittorica, infatti, è costruita in parallelo al<br />
variare del dislocamento e della distribuzione del corpo<br />
illuminato nei diversi stati della materia in cui si trova.<br />
La serie delle “discariche”, di cui l’opera donata fa<br />
parte, è una personale riflessione dell’artista sul nostro<br />
periodo storico. Anche se non esplicitamente espressa,<br />
la serie è la narrazione visiva delle critiche di Zygmunt<br />
Bauman alla moderna società liquida. A Matteo Nannini<br />
interessa soprattutto la meditazione sull’attuale condizione<br />
in cui versa lo spirito umano, incurante e alla deriva,<br />
totalmente governato da regie occulte. In realtà tali<br />
regie sono ancor più subdolamente oscure visto che lo<br />
“smistamento dei rifiuti” (o lo stoccaggio per categorie)<br />
avviene alla luce del sole.
Area 51, 2008<br />
Olio su tela, cm 150x240<br />
135
Nicola Nannini<br />
Nato a Bologna, vive e lavora a Cento (Ferrara). È<br />
il fratello maggiore del pittore Matteo Nannini. Dopo<br />
il liceo classico frequenta l’Accademia di Belle Arti di<br />
Bologna.<br />
Conosciuto dal grande pubblico e <strong>dagli</strong> specialisti soprattutto<br />
per i suoi “Notturni”, il pittore non dimentica<br />
quella che è stata la sua passione iniziale per la figura. <strong>Le</strong><br />
sue figure navigano in uno spazio che possiede lo straniamento<br />
della familiarità. <strong>Le</strong> istanze del reale colloquiano<br />
con precise coordinate cognitive per una riformulazione<br />
del fenomeno percettivo che coinvolge insieme il pittore<br />
e l’osservatore.<br />
Quella di Nicola Nannini è una pittura colta, per<br />
136<br />
ascendenze e referenze. <strong>Le</strong> sue passioni per la pittura<br />
nordica, in particolare mitteleuropea, sono note e lasciano<br />
testimonianze e margini di riprese continue nelle<br />
sue composizioni. È la volontà di creare un “vedere di<br />
nuovo” che non rinnega mai i saperi della tradizione,<br />
ma non esclude la riflessione della pittura sul labirinto<br />
del mondo.<br />
Nannini riformula sulle tele “cose” che sono piccoli<br />
spaccati di mondi antropologicamente in bilico tra la<br />
rivendicazione di uno statuto di autonomia e il rischio<br />
della perdita di identità personale. La vera difficoltà della<br />
vita è di provare la sensazione di essere sempre cacciati<br />
fuori da un Eden perduto e mai pronti a riformularne<br />
uno nuovo.<br />
<strong>Le</strong> figure che il nostro artista delinea nelle grandi tele<br />
si giocano la partita della vita mentre galleggiano in uno<br />
spazio in cui solo gli oggetti sembrano definire precisi<br />
ambiti di appartenenza.<br />
Giochi di ruolo, di potere, di status rinviano ad una<br />
dimensione della vita dove non si smette mai d’imparare,<br />
deviando da altre direzioni dell’esistenza.<br />
La finezza delle cromie equilibra la prontezza delle<br />
pennellate, ora più evidenti ora totalmente fuse nelle<br />
mestiche. La capacità della composizione si apre di volta<br />
in volta ad una narrazione figurata di grande impatto<br />
emotivo e visivo, continuamente sospesa tra attrazione e<br />
timore per le infinite aperture che il “possibile” consente.
Interno, 2003<br />
Olio su tela, cm 200x150<br />
137
olando Nicodemi<br />
Nasce nei primi anni Venti a Ferrara, dove vive e<br />
lavora. Fino dall’infanzia si dimostra appassionato del<br />
disegno e della pittura. Autodidatta, nella seconda metà<br />
degli anni Quaranta inizia a interessarsi sistematicamente<br />
di pittura. Dipinge en plein air sulle rive del Po.<br />
La sua prima mostra collettiva, insieme a Masotti,<br />
De Stefani e Sfarzi, è del 1961 alla Galleria “Isonzo”<br />
di Ferrara, seguita nel 1967 dalla prima personale alla<br />
Galleria “La Linea”, sempre nella città estense. Altra<br />
tappa importante nel suo percorso la personale del 1970<br />
alla Galleria “Borgo dei <strong>Le</strong>oni”. Inizia un curricolo che<br />
lo vede ugualmente impegnato come scultore e come<br />
pittore.<br />
138<br />
Fino a pochi anni fa il nostro autore gestiva una<br />
galleria-atelier molto frequentata da artisti amici e da<br />
estimatori.<br />
Nell’opera di Nicodemi oltre alla lezione di Morandi<br />
sono presenti altre voci di artisti che hanno significato<br />
molto e l’impronta dei quali è ancora ben visibile. Possono<br />
essere citati Degas e Toulouse-Lautrec, per fare un<br />
esempio, ma anche altri francesi contemporanei, come<br />
Balthus.<br />
Dopo moltissime personali e collettive di successo in<br />
molti luoghi espositivi italiani, Nicodemi matura una sua<br />
cifra stilistica che lo ha reso famoso e stimato ovunque.<br />
<strong>Le</strong> sue opere come tarsie di legni chiari e preziosi<br />
descrivono un mondo che è insieme familiare e surreale,<br />
quotidiano e straniante. La luce estenuata nei toni viene<br />
esaltata dal colore dato a corpo.<br />
È uno stile tutto suo, in cui la leggerezza, l’eleganza<br />
cromatica e la onnipresenza di una luce diffusa divengono<br />
le chiavi identificative della sua espressività.<br />
Una lucida tensione trascorre in queste epifanie<br />
dell’esistere. Il passato e il presente nel fluire degli attimi<br />
prendono forma. L’arte e la vita congiungono nelle figure<br />
parvenze infinite di finzioni e di statuti di realtà.
Il pittore e la modella<br />
Olio su tela, cm 130x160<br />
139
Bimba con melograni<br />
Terracotta patinata, cm 115x42x35<br />
140
141
teresa Noto<br />
L’artista è nata a Palermo, vive e lavora nella sua casastudio<br />
a Correggio Micheli, nel Parco del Mincio, nel<br />
comune di Bagnolo San Vito, in provincia di Mantova.<br />
Al suo attivo si contano numerose mostre personali<br />
e collettive, in Italia e all’estero, che documentano una<br />
ben determinata operatività e una volontà di mettersi in<br />
gioco ogni volta per stabilire nuovi traguardi e raggiungere<br />
nuove mete nel percorso che sta intraprendendo.<br />
<strong>Le</strong> figure giganti sono una caratteristica della sua<br />
modalità di artista. Dal periodo iniziale a quello più recente<br />
il colloquio con il corpo è diventato una cifra ben<br />
riconoscibile del suo curricolo.<br />
In queste figure fuori scala si possono anche vedere<br />
142<br />
delle affinità con la Transavanguardia, ma è attraverso<br />
tappe successive che l’impatto visivo di quei corpi si è a<br />
poco a poco smorzato nella esplosione vitale delle forme.<br />
È prevalsa, infatti, un’altra istanza quella, cioè, dell’insopprimibile<br />
fisicità del corpo, ora visto come un corpo/<br />
pietra, ora statua ora come ritaglio di cielo.<br />
In questa ricerca sugli statuti del corpo è proprio la<br />
conoscenza dei materiali e delle materie pittoriche a suggerire<br />
alla fine l’approccio tecnico più adatto ad affinare<br />
nuove modalità espressive.<br />
Come scrive Vittorio Sgarbi, la nostra pittrice è<br />
«l’artista maieuta, che asseconda la materia, la legge, la<br />
interpreta, stabilisce un rapporto vitale con essa, senza<br />
mai dimenticarsi di considerarla come “grande madre”».<br />
La materia contiene in sé la prima luce della creazione.<br />
Spetta proprio all’artista con le sue manipolazioni, con<br />
le sue arti portare fuori, allo scoperto, quanto di più delicato<br />
possa esserci nei nostri rapporti con la realtà fisica<br />
e psichica del mondo.
Torso, 2005<br />
Olio su tela, cm 140x140<br />
143
Marisa occari<br />
Carolina Marisa Occari, nata nella transpadana estense,<br />
vive e lavora a Ferrara. L’artista appartiene alla linea<br />
più bella della storia dell’incisione del nostro secondo<br />
Novecento e di questo primo decennio del nuovo millennio.<br />
Non tutti sanno quanto il burbero Giorgio Morandi,<br />
suo maestro all’Accademia di Bologna, sia stato prodigo<br />
di attenzioni per questa allieva che avrebbe dovuto essere<br />
la sua assistente alla cattedra d’incisione. La personalità<br />
riservata di Marisa ha deciso altrimenti, anteponendo le<br />
ragioni della famiglia a quelle della carriera.<br />
Eppure l’opera incisoria che è riuscita a realizzare ci<br />
parla di una qualità altissima della mano, di una estrema<br />
144<br />
finezza dell’occhio che guarda e di una sapiente visione<br />
e conoscenza del mondo della calcografia. I luoghi del<br />
Polesine e del delta del Po sono i luoghi della famiglia,<br />
della quotidianità dei sentimenti, ma sono pure i “luoghi<br />
dell’anima”, della sua anima. Sono come sublimazioni<br />
della sua passione incisoria; è insieme l’intensità e la<br />
purezza di un segno che canta sullo spazio della lastra la<br />
sua raggiunta autonomia. I registri del bianco, del nero e<br />
del grigio rivendicano allora lontane ascendenze di una<br />
tradizione alta, riportata nella modernità con il vigore<br />
della leggerezza.<br />
C’è però in tutta l’opera di Marisa Occari una sorta<br />
di dolcissima “sprezzatura”. Accanto alle conoscenze<br />
delle tecniche tradizionali convivono i colpi d’ala del suo<br />
modo originalissimo di porsi nello scoprire il lato segreto<br />
delle cose. È nella dolcezza del ricordo che lo sguardo<br />
dell’artista si fa più incisivo e capace di cogliere il senso<br />
del fluire della vita.
Pestasale con rose secche, 1996<br />
Acquaforte, mm 310x300, esemplare XIX/XX<br />
145<br />
Cactus con ciotola, 1996<br />
Acquaforte, mm 300X150, esemplare X/X
Grande pioppo sul Po, 1999<br />
Acquaforte, mm 235x320, esemplare XV/XX<br />
Vecchio ciliegio e colombaia, 1991<br />
Acquaforte, mm 180x329, esemplare<br />
146
Frutti autunnali, 1998<br />
Acquaforte, mm 210x300, esemplare 9/40<br />
Porta degli Angeli, 1997<br />
Acquaforte, mm 127x240, esemplare 14/60<br />
147
Villa Camerini controluce, 1989<br />
Acquaforte, mm 150x287, prova di stampa<br />
Alla foce, 1995<br />
Acquaforte, mm 115x284, esemplare 35/60<br />
148
149
Maria l. onestini<br />
Allieva del maestro ferrarese Giorgio Balboni, Maria<br />
Luisa Onestini presenta una dozzina di coloratissimi oli<br />
su tela di grande formato. Il tema ricorrente è la bellezza<br />
naturale della fauna alata che popola, “libera”, le acque<br />
interne oppure costiere. Il cielo aperto che le ospita viene<br />
come riflesso nelle posture che ce le rendono visibili.<br />
La nostra pittrice, accanto ad un lavoro di filologica<br />
adeguatezza, propone sempre le istanze della pitturapittura:<br />
l’occhio dello scienziato e del poeta possono<br />
finalmente trovarsi d’accordo. L’avifauna che l’Onestini<br />
delinea nelle sue tele ha proprio il fascino della mimesi<br />
della realtà ed insieme l’irrealtà di un impianto scenografico<br />
di contestualizzazione.<br />
150<br />
Nella realizzazione del suo teatro naturale del mondo<br />
alato le specie vivono come su di un palcoscenico della<br />
visione. Del tutto inconsapevoli, si concedono all’ammirazione<br />
dell’occhio dell’osservatore.<br />
In questi ultimi anni Maria Luisa Onestini, ferrarese<br />
pur se nata in Argentina, dedica agli animali un suo<br />
sguardo attento, puntuale e, direi, empatico. La cura con<br />
cui realizza, attraverso un uso prezioso della pennellata<br />
non evidente, il piumaggio degli uccelli oppure le loro<br />
posture nell’ambiente palustre richiama alla mente dello<br />
spettatore la necessità di superare una visione puramente<br />
ottica di questi “amici” per arrivare a cogliere un insieme<br />
di percezioni che riguardano un essere in carne ed ossa,<br />
pieno di paure, tensioni ed istinti. Ed è questa un’operazione<br />
mai neutrale, perché richiede una decostruzione del<br />
nostro modo di porci nei confronti del mondo naturale<br />
senza egoismi e sopraffazioni. Guardare gli animali diventa<br />
un nuovo modo per ricollocarci nel mondo.
“Pellicani” - Olio su tela, cm. 80x80<br />
151<br />
“Gheppio” - Olio su tela, cm. 80x80
Nemesio orsatti<br />
Nato a Pontelagoscuro (Ferrara) il 28 agosto del<br />
1912, frequenta l’Istituto d’Arte “Dosso Dossi” sotto la<br />
guida di Angelo Longanesi Cattani e, successivamente,<br />
l’Accademia di Belle Arti di Bologna con Virgilio Guidi.<br />
Dal 1950 entra a far parte del corpo docente del “Dosso<br />
Dossi”.<br />
L’attività espositiva di Orsatti è ricchissima, comincia<br />
nel 1934, quando è ancora studente, mentre l’ultima sua<br />
personale si tiene nel 1985, tre anni prima della morte.<br />
Quello che affascina sempre nella sua sicurezza di<br />
espressione è la capacità di muoversi attraverso le diverse<br />
tecniche artistiche con indifferenziata bravura. La calcografia<br />
non ha segreti per lui, così come l’affresco. Allo<br />
152<br />
stesso modo alla pittura si accompagna la scultura. È un<br />
potenziale immaginativo enorme che si attua secondo<br />
codici diversi.<br />
In tutte queste sue realizzazioni Orsatti coglie l’importanza<br />
della figura umana e dello spazio in cui essa vive.<br />
La Figura è l’elemento fondante della sua poetica. Ogni<br />
cosa comincia dal modo in cui la figura tiene lo spazio.<br />
Eppure i labirinti testuali dei corpi attivano una sorta di<br />
materializzazione di uno spazio narrativo che racconta<br />
il movimento interno ed esterno di essere nel mondo.<br />
<strong>Le</strong> opere <strong>donate</strong> connotano il luogo natale lungo le<br />
rive del Po. È un mondo anfibio di acque e terre che il<br />
grande fiume crea e distrugge. <strong>Le</strong> quattro incisioni sono<br />
un esempio di questa attenzione a partire dalla vecchia<br />
dogana (testimone di un tempo in cui il fiume era confine<br />
tra stati diversi) alle capanne in valle quando il fiume indugia<br />
a gettarsi in mare. <strong>Le</strong> terre bonificate sotto gli argini<br />
hanno la vitale importanza di cogliere la vita delle stagioni.<br />
<strong>Le</strong> acquaforti “Nevicata” e “Campagna ferrarese”<br />
richiamano le terre emerse al di qua e al di là del grande<br />
fiume. Allo stesso modo la tela con le aringhe riporta<br />
certe fascinazioni del realismo del secondo dopoguerra.
Natura morta con aringhe, 1954<br />
Olio su tavola, cm 50x60<br />
153
Campagna ferrarese, 1955<br />
Acquaforte, mm 180x246, esemplare 9/15<br />
Vecchia dogana, 1956<br />
Acquaforte, mm 190x245, esemplare 60/60<br />
154
Fattoria sotto la neve 1956<br />
Acquaforte, mm 80x246, esemplare<br />
Villaggio di pescatori, 1956<br />
Acquaforte, mm 780x255, esemplare 21/50<br />
155
Paolo Pallara<br />
Nato a Ferrara, dove vive e lavora, da molti anni<br />
sperimenta una pittura materica nella quale tensioni<br />
informali si accompagnano ad una matrice figurativa<br />
mai dimenticata.<br />
La sua pittura si presenta come un’avventura dello<br />
spirito in cerca di ragioni per l’esistenza e in questo<br />
andare trova immagini che mettono a fuoco i momenti<br />
fondamentali.<br />
Pallara ama la serialità. Ha bisogno, infatti, di ritornare<br />
ad approfondire, a scrutare le minime modificazioni<br />
degli aspetti indagati, tante e tali sono le variazioni dello<br />
spirito e del cuore, tanto numerose sono le sfaccettature<br />
dell’identità personale, tanto infinito è il lavoro di analisi<br />
156<br />
che come artista continuamente compie.<br />
All’interno del tema principale sono diverse le serie<br />
di approfondimento, complice non solo la scansione<br />
spaziale dei luoghi ma anche degli argomenti toccati. In<br />
tal modo la figura simbolo diventa riflessione di una più<br />
ampia considerazione sugli stati d’animo, sulle pulsioni<br />
di vita di ognuno di noi.<br />
<strong>Le</strong> sue opere, in quanto interpretazioni dei sentimenti<br />
provati dall’artista nei vari periodi della sua vita, sollecitano<br />
nello spettatore momenti di identificazione.<br />
Alcune serie sono maggiormente improntate al segno<br />
e meno al gioco delle sovrapposizioni o sottrazioni di<br />
materiali e smalti, dei piccoli inserti di carta o di garza,<br />
altre esaltano una sequenzialità che ricorda scansioni<br />
affettive, pulsioni, desideri ed emozioni.<br />
La pittura si fa in ogni caso meditazione del segmento<br />
di esistenza che spetta ad ognuno di noi, alla nostra<br />
piccola storia. Eppure la possibilità di creare legami con<br />
il destino di tutti offre una modalità di difesa di fronte<br />
alle forze della vita, alle sue problematiche ed ai suoi<br />
giochi di potere.
Il sentiero degli erranti, dittico, 2009<br />
Olio su tela, cm 95x209<br />
157
Stefania Palumbo<br />
Nasce in provincia di Brindisi. Attualmente vive e<br />
lavora a Carrara dove, oltre ad essersi specializzata in<br />
Mosaico <strong>Artisti</strong>co Pavimentale, ha conseguito il Diploma<br />
di Scultura presso l’Accademia di Belle Arti.<br />
Negli anni ha partecipato a simposi internazionali di<br />
scultura, a mostre collettive ed esposizioni personali. È<br />
possibile ammirare alcune sue opere scultoree in spazi<br />
pubblici come ad esempio nei comuni di Fontanarosa, in<br />
provincia di Avellino, a San Pietro a Sieve, in provincia<br />
di Firenze, o come nel Parco Nazionale del Gran Sasso.<br />
La poetica del lavoro di Palumbo si pone al di là di<br />
ogni semplice artificio, cercando nella scultura l’essenza<br />
delle forme e delle cose, ricorrendo spesso alla rievoca-<br />
158<br />
zione di simboli atavici come la spirale, ma anche degli<br />
archetipi formanti utilizzati dall’uomo per lasciare le<br />
prime tracce della propria esistenza come il cerchio, il<br />
triangolo, l’ovale, tutti elementi che Palumbo utilizza per<br />
rievocare la base di ogni creazione naturale.<br />
La sua scultura è nitida, pervasa da rigore e semplificazione<br />
formale, unendo la passione per il marmo alla<br />
lavorazione delle pietre dure, utilizzate spesso come brevi<br />
inserti cromatici atti a sottolineare le parti più morbide<br />
dei modellati, come preziose lumettature materiche che<br />
emergono dalle superfici opache del marmo, come a<br />
sottolineare gli andamenti ascendenti, o i ritmi interni.<br />
(f.z.)
Dimora dei sogni<br />
Marmo di Carrara, cm 80x46x25 159 Retro scultura
Massimo Patroni Griffi<br />
Nato alla metà degli anni Cinquanta a Roma, si stabilisce<br />
a Formia in provincia di Latina, dove a tutt’oggi<br />
vive e lavora.<br />
Artista che ha saputo distinguersi non solo nel panorama<br />
partenopeo, annovera tra i suoi riconoscimenti,<br />
la presenza nell’Archivio Storico per l’Arte Italiana del<br />
Novecento per il Kunsthistorisches Institut in Florenz,<br />
nell’Archivio CID –Centro di Informazione e Documentazione<br />
per le Arti Visive – del Museo d’Arte Contemporanea<br />
di Prato, oltre che in altri numerosi cataloghi.<br />
Nel 2007 partecipa a Roma, in occasione del Centenario<br />
Viscontiano, alla stesura della monografia del Maestro<br />
Luchino Visconti; sempre nello stesso anno a Casal di<br />
160<br />
Principe, in provincia di Caserta, è chiamato a realizzare<br />
un’importante commissione pubblica, con l’opera monumentale<br />
“Albero della <strong>Le</strong>galità” primo monumento<br />
contro le mafie; nel 2009 cura la regia dell’opera “La<br />
Tosca” per la stagione lirica di Terni.<br />
Evidente quindi come la personalità di Patroni Griffi<br />
abbia saputo nel tempo spaziare indistintamente dalla<br />
scultura alla scenografia, dal teatro al design e alla pittura,<br />
dimostrando l’estro esuberante della sua spiccata<br />
capacità produttiva. Da sempre il suo approccio all’arte<br />
si concretizza nell’uso dei materiali più disparati tra loro<br />
in piena dialettica con le forme non-oggettivanti di volta<br />
in volta tratte, o meglio create.<br />
Spaziando da un astrattismo geometrico di forme<br />
pure, concettuali, capaci di un complesso gioco di riflessioni<br />
e di speculazioni, Massimo Patroni Griffi sa<br />
poi affrontare la pittura anche in termini di un forte<br />
impeto creativo, piegando il colore a compenetrazioni e<br />
strutturazioni spaziali, in grado di «comunicare l’urgenza<br />
immediata di una senso assoluto e profondo di libertà».<br />
L’effetto complessivo è quello di un’opera strutturata<br />
e densa di riferimenti dove la materia vissuta, pulsata è<br />
esibita attraverso un gesto potente e carico di energia.<br />
(f.z.)
L’attimo è stato fermato, 2009<br />
Tecnica mista su legno, ottone e tela resinata, cm 60x183<br />
161
Maurizio Previtali<br />
Lo scultore Maurizio Previtali nasce a Palazzolo<br />
sull’Oglio, tra Bergamo e Brescia, terra in cui ancora<br />
oggi vive e lavora dividendosi tra l’attività in studio e la<br />
didattica.<br />
Ha all’attivo numerosissime mostre, che lo hanno visto<br />
esporre sia nel natio territorio bergamasco-bresciano,<br />
che nel panorama nazionale. Diversi i riconoscimenti<br />
ricevuti: è tra i vincitori, per ben quattro anni consecutivi<br />
dal 1999 al 2002, nella sezione scultura del Concorso G.<br />
Greppi di Bergamo.<br />
Previtali ha anche dato prova di grande sensibilità<br />
installativa, realizzando molte opere per spazi pubblici.<br />
Nel corso della sua lunga attività scultorea, caratteriz-<br />
162<br />
zata da un’intensa attività in studio, Previtali ha elaborato<br />
e sviluppato svariate forme stilistiche passando sovente<br />
dal figurativo all’astratto, facendo della metamorfosi organica<br />
della forma una ricerca costante nella sua poetica:<br />
la figura umana si fitomorfizza e viceversa, in processi<br />
generativi in continua evoluzione, in continuo divenire.<br />
Nelle pietre alabastrine come nei marmi del nostro<br />
artista le forme si aprono e si estendono in uno spazio<br />
in continua evoluzione in cui il flusso vitale di un arto<br />
si sviluppa nelle radici di un albero o dove «un nudo<br />
femminile emerge imponente dalla propria crisalide».<br />
<strong>Le</strong> sculture di Previtali appaiono sovente come nuove<br />
forme organiche, embrionali, in fase di crescita, così in<br />
grado di far nascere una nuova specie ibrida tra uomo,<br />
animale o natura: sono per tanto figure primigenie della<br />
vita, irradiano la loro poetica allo spazio circostante, riassumono<br />
la linfa di tutto il lavoro scultoreo dell’artista.<br />
(f.z.)
Parto<br />
Alabastro, cm 35x40x20<br />
163
elio roberti<br />
Nasce a Lavenone in provincia Brescia. <strong>Le</strong> sue opere si<br />
trovano oggi in importanti collezioni pubbliche e private<br />
sia in Italia che all’estero.<br />
Già a vent’anni inizia a dipingere perfezionandosi in<br />
seguito presso l’Associazione <strong>Artisti</strong> Bresciani. Negli<br />
anni di formazione il suo punto di riferimento saranno i<br />
pittori bresciani quali Togni, Garosio e Solaro. Dopo aver<br />
sperimentato prove vicine alle avanguardie informali e<br />
cubiste, la svolta avviene verso il 1980 dopo un periodo<br />
di lavoro a contatto con alcuni pittori livornesi.<br />
Dopo questa esperienza di transizione, Roberti torna<br />
ad una pittura figurativa, attualizzando, in una matrice<br />
del tutto personale, il genere del paesaggio.<br />
164<br />
Elio Roberti è stato definito «pittore della natura nel<br />
senso che nei suoi quadri ogni volta ingaggia un duello<br />
virtuoso con la realtà, per mostrarla nella sua vera essenza,<br />
per far parlare il colore».<br />
L’aspetto cromatico è infatti uno degli stilemi di<br />
questo artista che fa di ogni superficie una campitura<br />
carica e luminosa, quasi di frutta matura, irradiante una<br />
compartecipazione dei sensi che fa dei suoi quadri opere<br />
da gustare oltre che da guardare. Pennellate larghe, metodiche<br />
danno una consistenza solida ad ogni soggetto<br />
che sembra formarsi sotto il pennello almeno quanto i<br />
suoi contorni paiono sfaldarsi sotto la luce.<br />
Interessante anche le composizioni dei suoi paesaggi,<br />
che rispondono sottilmente alle armoniche di verticali e<br />
orizzontali, quasi una ricostruzione ideale della natura, in<br />
cui la linea dell’orizzonte interseca in perfetti equilibri i<br />
pochi elementi verticali, ma ascendenti per antonomasia,<br />
come gli alberi. Tutta sembra giocarsi nel posizionamento<br />
della linea dell’orizzonte, nella visione sferoidale che ne<br />
deriva lasciando ampio spazio a campi di grano che si<br />
fanno infuocati nel loro ampliarsi a dismisura.<br />
(f.z.)
Verso Sancino, 2009<br />
Olio su tela, cm 100x50<br />
165
Ragoli veduta da Saone<br />
Olio su tela, cm 100x100<br />
166
Rogazioni propiziatorie verso Canignone<br />
Oio su tela, cm 100x100<br />
167
enzo romagnoli<br />
Nasce a Castelfidardo (Ancona). Dimostra ben<br />
presto una vera passione per l’arte. Frequenta la scuola<br />
del Maestro Antonio Gasparri da cui apprende i primi<br />
rudimenti dell’arte.<br />
Il desiderio di sperimentare nuove tecniche lo porta a<br />
modificare l’impianto figurativo dei suoi scorci panoramici<br />
della riviera del Conero e delle colline marchigiane,<br />
per impegnarsi in opere di carattere religioso come la<br />
"Crocefissione" nella chiesa di San Benedetto o la grande<br />
pala dedicata ai santi patroni SS. Vittore e Corona,<br />
collocata nella cripta della Collegiata di Santo Stefano.<br />
Dal 1980 inizia una attività di modellazione scultorea,<br />
applicata al settore argentiero. I primi modelli decorativi<br />
168<br />
diventano ben presto vere e proprie sculture.<br />
Ha anche commissioni pubbliche come quella del<br />
Monumento ai Caduti della sezione Marche dell’Associazione<br />
Nazionale Alpini, con figure a grandezza naturale.<br />
Dalle lastre d’argento passa alla fusione in bronzo con<br />
cera persa. La ricerca del nuovo e la ripresa di antiche<br />
tradizioni possono benissimo convivere.<br />
La sua produzione attuale risente dell’amore per la<br />
sperimentazione delle tecniche e dei materiali ma rivela<br />
una profonda riflessione sul destino dell’uomo contemporaneo.<br />
La complessità dei vissuti, la continua sollecitazione<br />
al cambiamento conducono allo smarrimento di<br />
quella necessaria forza interiore che occorre per abitare la<br />
vita. È pertanto quella di Romagnoli una serena, convinta<br />
ed etica affermazione dell’umana dignità.
Ostacoli - dittico<br />
Olio su tela e collage, cm 75x150<br />
169
Natale rosselli<br />
Nasce negli anni Quaranta a Empoli, dove vive e<br />
lavora.<br />
Approcciandosi liberamente alla pittura e al disegno,<br />
iniziando fin da subito un rapporto con la natura en<br />
plein air e non tardando ad arrivare riconoscimenti ed<br />
esposizioni, Rosselli comprende presto la necessità di<br />
approfondire le proprie conoscenze tecniche e visive<br />
delle arti figurative. Si dedica, con sempre maggior assiduità,<br />
allo studio del paesaggio, che resterà tra i suoi<br />
temi prediletti. Del 1992 la sua prima personale presso il<br />
Palazzo Comunale di Empoli e l’anno successivo espone<br />
già al Palazzo Ghibellino della stessa città. Nel 1994<br />
viene inserito nel catalogo “Pittori in Toscana” curato da<br />
170<br />
Giorgio Calandra, Raffaele De Rosa ed Enrico Ugolini.<br />
Da allora le esposizioni sia collettive che personali si sono<br />
susseguite numerose.<br />
La pittura di Rosselli si conferma come un coerente<br />
e rigoroso discorso attorno alla poesia del paesaggio<br />
toscano, riassunto in chiave simbolica e gusto moderno.<br />
Definendo un ristretto nucleo di elementi autoctoni,<br />
Rosselli li affronta con una tecnica pittorica particolarmente<br />
materica, ricca di densità cromatiche, di colore<br />
puro: è un viaggio territoriale privato ed intimistico che<br />
non ammette intrusioni, tant’è che nelle sue tele è rigorosamente<br />
assente ogni possibile personaggio umano,<br />
imponendoci la visione del paesaggio, attraverso le sue<br />
variazioni temporali, come il tentativo di ricostruire le<br />
diverse emozioni della vita quotidiana, dei suoi accadimenti<br />
improvvisi.<br />
Il mondo poetico di Rosselli si muove con armonia<br />
tra luoghi conosciuti ed amati: colline senesi, scogliere,<br />
l’aspra maremma, gli alberi evocati nella luce toscana. La<br />
sua è una pittura di sentimenti e grande forza cromatica<br />
che si colloca nella tradizione della più alta arte contemporanea<br />
italiana con esponenti come Ennio Morlotti,<br />
Carlo Mattioli, Sergio Statizzi.<br />
(f.z.)
Paesaggio toscano<br />
Olio su tela, cm 130x105<br />
171
Ada ruberti<br />
Nata a Quistello (Mantova) nel 1929, l’artista incrocia<br />
la città estense in più momenti della sua vita professionale:<br />
a Ferrara si laurea e lavora per anni. Dal punto di<br />
vista espositivo è attiva <strong>dagli</strong> anni Ottanta con mostre<br />
personali e collettive continuativamente sino all’anno<br />
della sua scomparsa, avvenuta nel 2004.<br />
Una recente mostra alla Galleria del Carbone, curata<br />
da Laura Gavioli e da Renzo Margonari, ha presentato al<br />
grande pubblico un’antologica dei temi che compaiono<br />
nella sua pittura dell’ultimo ventennio.<br />
Artista solitaria ed isolata, riesce ad avere riscontri<br />
critici qualificati della sua attività. Nelle sue opere il<br />
visitatore coglie una intelligente visione e riflessione sul<br />
172<br />
mondo. È proprio questa capacità percettiva che la porta,<br />
come osserva Margonari nel catalogo della mostra citata,<br />
ad «indagare lenticolarmente il dettaglio di una forma<br />
vegetale o restringere il campo spaziale sin quasi a far<br />
sparire il connotato generale, oppure riassumere l’idea<br />
complessiva di un paesaggio riducendone la struttura<br />
ad una linea portante».<br />
<strong>Le</strong> grandi dimensioni del supporto (cm 100x100) le<br />
consentono da un lato una distribuzione delle pennellate,<br />
ben cariche di colore, dall’altro le permettono di lasciare<br />
chiaramente leggibile la gestualità della mano che dipinge.<br />
Nel gioco delle campiture Ada Ruberti allude e ricrea<br />
altre spazialità di luoghi e di cieli infiniti. In tutta la sua<br />
carriera legge sempre la lezione dei maestri e utilizza una<br />
sua messa a fuoco originale che mette fuori scala quanto<br />
viene rappresentato e lascia sospesi i confini tra l’astrazione<br />
e la realtà pure se a quest’ultima bene si vincola.
Paesaggio verde, 1998<br />
Olio su tela, cm 90x70<br />
173
Studio di minerali, 2-99,1999<br />
Olio su tela, cm 90x80<br />
174
Paesaggio di canne, 2-99, 1999<br />
Olio su tela, cm 90x80<br />
175
Gennaro Sardella<br />
Nasce a Napoli e attualmente vive e lavora sulla suggestiva<br />
costa di Sorrento. Fin da giovanissimo dimostra una<br />
predisposizione per il disegno che unita ad un carattere<br />
insofferente ed inquieto lo porteranno a spostarsi tra<br />
Roma, Venezia, Firenze. Durante questi anni di “libero<br />
vagabondaggio” i suoi disegni e i suoi acquerelli si<br />
arricchiscono di ritratti, vedute paesaggistiche e scorci<br />
cittadini come se si trattasse di un diario per immagini<br />
delle sue esperienze vissute.<br />
Così, in questo clima di assoluta libertà, l’artista<br />
prosegue entusiasta la sua attività, arricchendo presto i<br />
sui disegni di storie e racconti, che apriranno la strada<br />
ad un percorso che esploderà solo più tardi, portando<br />
176<br />
alla ribalta il mondo fantasioso e grottesco di Sardella,<br />
pervaso da una profonda forza espressiva, venato di<br />
lirismo ed ironia.<br />
Sarà infatti solo con il ritorno a Napoli nel 1975 e<br />
l’incontro con il pittore Roberto Carignani che Sardella<br />
arriverà alla maturità tecnica e conoscitiva della pittura,<br />
che lo porterà ad incontrare maestri come De Chirico o<br />
Pietro Annigoni.<br />
La sua pittura testimonia palesemente un processo<br />
creativo in cui la realtà subisce una profonda metamorfosi<br />
a favore di una sua completa alterazione e deformazione.<br />
I suoi dipinti rivelano, sotto assolati e brillanti panorami<br />
del Sud, il caos e le tensioni di un surreale mondo contemporaneo,<br />
assieme a momenti di alto lirismo e infinita<br />
dolcezza. Ogni forma, ogni figura antropomorfa è collegata<br />
l’una all’altra in un intreccio di relazioni che passano<br />
dallo stato psichico allo stato fisico. Ogni elemento sulle<br />
tele di Sardella si anima, ogni tocco è luminoso e vibrante<br />
come un mosaico prezioso o come il riverbero del mare<br />
in una giornata di sole, riportando letteralmente ad una<br />
joie de vivre di matissiana memoria.<br />
(f.z.)
Non mi dice mai quello che pensa, 2008<br />
Olio su tela, cm 150x150<br />
177
Anna Seccia<br />
Nata a Ortona (Chieti), vive e lavora a Pescara, città<br />
nella quale ha compiuto gli studi artistici e dove è stata<br />
titolare della cattedra di Discipline Pittoriche e Plastiche<br />
presso il locale Liceo <strong>Artisti</strong>co.<br />
A partire dal 1960 svolge un’intensa attività espositiva<br />
condivisa, fino all’inizio degli anni Ottanta, con l’insegnamento.<br />
Partecipa a prestigiose rassegne, mostre e fiere. È<br />
presente alla 54 a Esposizione Internazionale d’Arte della<br />
Biennale di Venezia, per la Sezione Regionale Abruzzo,<br />
curata da Vittorio Sgarbi.<br />
Dal 1994 inizia una sua innovativa ricerca artistica<br />
(Globalart) volta alla creazione di un progetto di arte<br />
sociale, collaborativa e partecipativa, denominato “La<br />
178<br />
Stanza del Colore”, legato ad una concezione dell’arte<br />
come attivazione di processi per la realizzazione, attraverso<br />
happening-performance, di opere pittoriche di grandi<br />
dimensioni con persone di tutte le età che diventano<br />
coautori dell’opera stessa.<br />
In questo senso nel marzo di quest’anno a Pescara<br />
è stato presentato “L’uovo della collettività”, percorso<br />
ideato dalla nostra artista per i 150 anni dell’Unità d’Italia.<br />
Attraverso l’interazione con l’artista le sinergie di<br />
diverse personalità si incontrano dando origine ad un<br />
momento corale. Cambiano completamente i rapporti tra<br />
l’opera d’arte e i riguardanti che diventano protagonisti<br />
oppure collezionisti delle opere collettive.<br />
È proprio attraverso la pittura connettiva di Anna<br />
Seccia che l’arte si rinnova ed ogni singola voce riesce a<br />
sentirsi alla pari degli altri nella dinamicità creativa della<br />
composizione finale.
Migrazione, 2003<br />
Tecnica mista su tavola, cm 80x145<br />
179
Gabriella Soavi<br />
Originaria di Portomaggiore (Ferrara), vive lavora da<br />
sempre a Ferrara, dove dal 1985 è docente presso il Liceo<br />
<strong>Artisti</strong>co "Dosso Dossi". Ha collaborato spesso con<br />
associazioni ed enti pubblici, anche in qualità di docente<br />
di Tecniche Calcografiche e Tecniche Pittoriche.<br />
Gabriella Soavi si forma presso l’Accademia di Belle<br />
Arti di Bologna, sviluppando il proprio linguaggio artistico<br />
nella commistione tra le tecniche della pittura e quelle<br />
dell’incisione e della grafica d’arte, professionalizzandosi<br />
anche come graphic designer e visualizer, attività che la<br />
vede impegnata presso alcune agenzie pubblicitarie a<br />
cavallo tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta.<br />
Ha esposto in numerose mostre collettive in Italia e<br />
180<br />
all’estero, spaziando dall’originaria Ferrara a Parigi, fino<br />
a Kuala Lumpur, Bristol o Mosca.<br />
Negli anni ha saputo spaziare da opere installative<br />
tridimensionali alle più eteree tecniche calcografiche,<br />
dimostrando grande levità in entrambi i campi, portando<br />
avanti con coerenza una personale poetica, fatta di intimi<br />
richiami, di ricordi accennati, di un racconto delicato del<br />
proprio vissuto.<br />
<strong>Le</strong> opere di Soavi spesso si pongono come scorci di<br />
diari personali, frammentari visivi che accennando ad<br />
una storia mai completamente leggibile, ma pur sempre<br />
toccante, lasciano all’osservatore il compito di ripercorrerne<br />
il vissuto. Come nell’opera “Hai riso”?, esposto per<br />
la prima volta nell’esposizione promossa dall’udi “Libere<br />
per immagini - <strong>Opere</strong> di artiste ferraresi & manifesti”, il<br />
cui titolo allusivo si riferisce in realtà ai ritratti enigmatici<br />
di quattro mondine ferraresi.<br />
(f.z.)
Hai riso?, 2005<br />
Tecnica mista su alluminio (lastre offset di recupero), cm 59x48<br />
181
Jessica Steri<br />
Nata in un’isola del sud-ovest della Sardegna, da parecchi<br />
decenni vive a Ferrara. La pittura governa da tempo la<br />
rotta della nave di Jessica Steri nel mare agitato della vita.<br />
<strong>Le</strong> sue opere sono espressione della sua interiorità,<br />
delle sue emozioni vitali. La dinamicità del vivere in un<br />
continuo agitarsi, in un trasformarsi perenne di ritmi e di<br />
condizioni affascina da sempre la nostra pittrice.<br />
La consapevolezza della forza dei colori è una costante<br />
della sua ricerca pittorica. È la percezione vitale della<br />
forza-colore che Jessica declina nelle sue tele, tono su<br />
tono sino alla monocromia.<br />
I piaceri dell’immaginazione sovrappongono spesso<br />
l’isola natale di San Pietro in Sardegna e il padano mare<br />
182<br />
di nebbia della sua città adottiva.<br />
Jessica guarda il mondo con la meravigliosa follia del<br />
suo desiderio di vivere nella luce: ora solare ora annebbiata,<br />
non importa; sempre pronta a creare ogni volta sulla<br />
tela sue private cosmogonie, alchimie perturbanti e rotte<br />
segrete. La sua scoperta del mondo nasce e si sviluppa<br />
totalmente su questa partizione binaria acqua-terra. Una<br />
presenza fatta di consistenze equoree in cui fluttuano gli<br />
elementi, in cui lucori e chiarori forano il velo che si pone<br />
davanti agli occhi del visitatore, lasciando testimonianze<br />
sulla tela di passaggi, di separazioni e di rigenerazioni.<br />
Nella materia zuppa d’acqua, stilante per giorni di<br />
nebbia prolungata, ogni cosa è avvolta come da un<br />
pulviscolo di luce. In chiave compositiva, se da un lato<br />
provoca un abbassamento del livello di realtà mimetica<br />
dall’altro, per contro, produce un innalzamento lirico<br />
della pulsione espressiva.
Senza titolo<br />
Olio su tela, cm 100x100<br />
183<br />
Casolare ferrarese<br />
Olio su tela, cm 100x120
Gianni tarli<br />
Nato a Solothurn, la città svizzera capitale del cantone<br />
omonimo, si trasferisce adolescente in Italia a Teramo.<br />
Comincia a partecipare alle prime esperienze artistiche.<br />
Dopo la scuola superiore si trasferisce a Cattolica dove<br />
apre una sua galleria anche se continua a prediligere luoghi<br />
espositivi in contesti di frequentazione quotidiana.<br />
Dal 1996 abbandona l’attività commerciale e dedica tutto<br />
il suo tempo alla ricerca artistica in pittura, scultura e<br />
attività performative. Vive e lavora a Teramo.<br />
Partecipa ad Arte Fiera di Bologna nel 1996, al Premio<br />
Roma nel 2000, ad Arte Fiera di Bari e di Parma,<br />
alla Biennale Internazionale d’Arte Contemporanea di<br />
Firenze, tanto per citarne alcune. Ha una intensa attività<br />
184<br />
espositiva in Italia e all’estero.<br />
Nella sua ricerca si libera progressivamente dal peso<br />
materico privilegiando superfici fluide e tecniche nuove.<br />
Nella sua pittura è presente una forma di neo-espressionismo<br />
astratto che diventa ben presto la sua cifra distintiva.<br />
Importante per il suo curricolo è il sodalizio con il<br />
regista Flavio Sciolè che aumenta la volontà del nostro<br />
artista di sperimentare il discrimine tra segno e immagine<br />
e segno-parola.<br />
Sono presenti nella sua attività progettazioni di design<br />
e realizzazioni di oggetti di uso comune in cui la sua<br />
ricerca si sposa alla funzionalità.<br />
L’opera donata è una grande scultura, una installazione<br />
alta cm 250, in cui la costruzione in legno fa da<br />
supporto al suo interno ad una scultura luminosa di<br />
policarbonato, che riprende la struttura del DNA. La<br />
splendida lavorazione del legno introduce alla presenza<br />
pregnante della luce. È una bellissima reazione al mondo<br />
contemporaneo. In questa narrazione, in presentia,<br />
dell’autonomia di ogni possibile variabile lo statuto della<br />
scultura fiorisce nel momento stesso della sua percezione.
Clessidra, 2009<br />
<strong>Le</strong>gno, policarbonato e altri materiali, cm 250x80185
Nani tedeschi<br />
Originario della provincia di Reggio Emilia, nelle cui<br />
campagne tutt’ora vive e lavora, Nani Tedeschi nasce alla<br />
fine degli anni Trenta.<br />
Laureatosi in Medicina, non abbandona mai la sua<br />
prima passione per il disegno e la pittura a cui dedica<br />
ogni momento libero iniziando ad esporre dalla metà<br />
degli anni Sessanta. Il successo internazionale non<br />
tarda ad arrivare e nel 1972 è invitato alla 36 a Biennale<br />
di Venezia, a seguito della quale lascia definitivamente<br />
la professione medica per l’attività artistica che si farà<br />
sempre più intensa. Negli anni espone a Nevers, Vienna,<br />
186<br />
Spalato, Hannover, Amburgo, Berlino, New York, Tokio.<br />
Sue personali si sono tenute nelle principali città italiane<br />
in gallerie private e musei dal Palazzo dei Diamanti di<br />
Ferrara, a Palazzo Braschi di Roma, al Castello Sforzesco<br />
di Milano, alla Fortezza del Priamar di Savona.<br />
Molti sono i cicli cui si è dedicato negli ultimi quarant’anni<br />
e i libri che ha illustrato, dall’Orlando Furioso<br />
a <strong>Le</strong> avventure di Pinocchio.<br />
Nei suoi lavori Nani Tedeschi dimostra una straordinaria<br />
abilità di disegnatore, quasi genetica, come<br />
estensione del rapporto con la sua terra, di una pianura<br />
segnata dalla presenza del Po, in cui lo sguardo può spingersi<br />
fino all’orizzonte, in cui ogni spazio è molto più<br />
aereo che terreno. Tuttavia, accanto all’utilizzo sapiente<br />
della linea, non possono essere dimenticate le invenzioni<br />
coloristiche e grafiche ottenute anche con il collage che,<br />
assieme alla pittura a forti contrasti di colore, segna una<br />
costante nelle sue opere fin <strong>dagli</strong> esordi. <strong>Le</strong> sue tavole<br />
sono così il risultato di uno squisito equilibrio in cui la<br />
pittura si accompagna, con molta naturalezza, al disegno<br />
a matita, a china, al pastello, in grado di ricreare ogni volta<br />
gli accordi poetici di una delicatissima favola.<br />
(f.z.)
Volo sul fiume, 2012<br />
Acrilico su tavola, cm 100x70<br />
Studio del Guercino<br />
187 Tempera e collage su tavola, cm 80x60
Filippo Maria topi<br />
Attivo dalla fine degli anni Novanta, Filippo Maria<br />
Topi nasce a Firenze dove attualmente vive e lavora e<br />
dove si forma negli anni Ottanta presso la Scuola d’Arte<br />
del Maestro Mario Nuti, che nell’immediato dopoguerra<br />
fece prima parte del gruppo Arte d’Oggi e nel 1950 fu tra<br />
i firmatari del manifesto del primo Astrattismo classico.<br />
Non è arduo quindi comprendere in quale ambiente,<br />
prettamente non figurativo, Topi getta la basi per una<br />
pittura concreta, capace di generarsi attraverso le riflessioni<br />
sul proprio linguaggio e sugli elementi della propria<br />
grammatica.<br />
A completarne la formazione, un fruttuoso periodo<br />
a New York durante gli anni Novanta, in cui viene a<br />
188<br />
diretto contatto con la pittura di Keith Haring e l’underground<br />
graffitista della City. A questo periodo risalgono<br />
alcune delle poche opere figurative di Topi, in bilico tra<br />
l’eclettismo anni Ottanta ed un rinnovare gusto Pop per<br />
la mercificazione dell’immagine.<br />
Di ritorno in Italia, dall’inizio del millennio prosegue<br />
la sua riscoperta a ritroso dell’arte americana contemporanea,<br />
con particolare attenzione all’informale gestuale<br />
di Franz Kline di cui riprende la strutturazione spaziale<br />
a grandi impalcature nere, come nella serie “Trame”<br />
del 2005. Fino ai recenti lavori, come la serie “Made in<br />
Italy”in cui l’azione evocata dalle spatolate veloci lascia<br />
via via spazio all’aumentato spessore della pasta cromatica<br />
che sovente si combina di poche e calde tonalità<br />
lumettate dal lavoro in togliere dei segni graffiti. In ogni<br />
tela, al flusso vitalistico della composizione di grande<br />
istintività organica fa da perno l’introduzione di un segno<br />
iconico e artificiale come quello di un numero stampigliato<br />
con cui Topi ripercorre un’altra tappa della storia<br />
dell’arte contemporanea, rievocando un gusto newdada<br />
nell’uso della scrittura dipinta al pari di un oggetto concreto<br />
introdotto sulla tela.<br />
(f.z.)
106, trittico, 2009<br />
Tecnica mista su tela, cm 150x150<br />
189
388:188, trittico, 2009<br />
Tecnica mista su tela, cm 150x150<br />
190
Particolari<br />
191
Vittorio Vecchi<br />
Nato a Ferrara, dove vive e lavora, da sempre ha amato<br />
cimentarsi in esperienze artistiche.<br />
All’inizio degli anni Ottanta mette a fuoco il rapporto<br />
materia-segno-colore con il contributo di tre maestri ferraresi:<br />
Maurizio Bonora per la scultura, Paola Bonora per<br />
l’acquerello e le tecniche ad acqua ed infine Gianfranco<br />
Goberti per la pittura.<br />
Sviluppa da questo momento una sua originale cifra<br />
espressiva in cui la ricerca della sintesi fra l’informale della<br />
materia e gli schemi di organizzazione del materiale da<br />
memorizzare trova un suo felice equilibrio.<br />
La sua ricerca, libera di aprirsi alle molte sollecitazioni<br />
del comunicare, esplora segni e simboli della modernità,<br />
192<br />
ne saggia le alchimie, sollecita percorsi creativi in continua<br />
evoluzione.<br />
Ha al suo attivo un ricco curricolo espositivo con<br />
mostre personali e collettive in Italia e all’estero (Lasko<br />
in Slovenia, Madrid, New York, Orlando e Gainesville in<br />
Florida, Cork in Irlanda e Gulpen nei Paesi Bassi tanto<br />
per citarne alcune). Molte sue opere sono esposte in<br />
collezioni pubbliche e private italiane ed estere.<br />
L’opera donata è costituita da un trittico in cui sono<br />
raffigurati tre momenti della religiosità dei Maya. Il primo<br />
pannello, a partire da sinistra, è dedicato a Itzamna, dio<br />
creatore degli aspetti celesti e terrestri della vita, inventore<br />
della scrittura e signore del giorno e della notte. Il<br />
pannello centrale è quello del dio serpente, Kukulkan,<br />
creatore del calendario e della stella del mattino. Il pannello<br />
a destra riunisce le divinità legate alla medicina<br />
(Sakal Ix’chel, Ahau Chamahez, Cit Bolum Tum). Come<br />
afferma lo stesso artista, «l’opera propone un’allegoria<br />
dell’esperienza quotidiana dell’uomo nel partecipare<br />
alla vita ed allo scorrere dei giorni, mentre i personaggi<br />
evocati emergono dall’oblio del tempo in tutta la loro<br />
luminosa cromaticità che l’accumulo dei detriti della<br />
storia non ha potuto assolutamente scalfire».
Arcaiche presente, trittico, 2009<br />
Tecnica mista su legno, cm140x260<br />
193
Particolari<br />
194
Segnali del tempo, 04, 2004<br />
Tecnica mista su legno, cm 30x30<br />
195
Paolo Volta<br />
Nato nella città estense, dove vive e lavora, dopo<br />
essersi diplomato all’Istituto d’Arte “Dosso Dossi” di<br />
Ferrara, frequenta il corso di Pittura all’Accademia di<br />
Belle Arti di Bologna.<br />
Dal 2000 è il direttore artistico della Galleria del Carbone<br />
di Ferrara che rappresenta una punta di eccellenza<br />
nel quadro espositivo cittadino. In questi anni ha organizzato<br />
oltre centottanta mostre di maestri dell’arte italiana<br />
e di giovani artisti di interessante qualità e di promettente<br />
carriera. La Galleria è anche l’espressione di un gruppo di<br />
artisti che operano in associazione, collaborando con altre<br />
realtà internazionali in Germania, Ucraina,Venezuela,<br />
Texas, Cile, e che intendono valorizzare le peculiarità<br />
196<br />
delle espressioni dell’arte contemporanea.<br />
Ha partecipato a diverse mostre collettive in Italia<br />
e all’estero, suoi lavori sono presso il Museo di Arte<br />
Orientale e Occidentale di Odessa.<br />
L’attività di gallerista non gli fa trascurare quella di<br />
pittore che, anzi, viene rafforzata dai frequenti contatti<br />
con altre creatività. Come pittore preferisce la pittura<br />
figurativa ed in special modo le architetture industriali o<br />
di “passaggio” dell’attività umana. Utilizza un linguaggio<br />
espressivo che rivisita le istanze della Metafisica e del<br />
Razionalismo.<br />
L’attività pittorica di Volta si struttura in special modo<br />
sulla osservazione di forme e di colori immersi in territori<br />
in cui l’uomo interviene con risultati alterni. <strong>Le</strong> sue<br />
archeologie industriali, ad esempio, sono di grande forza<br />
narrativa, compositiva e concettuale.<br />
L’opera donata ha come criptico titolo: “Sezione<br />
aurea”.<br />
È un’indagine spaziale che, partendo in modo inconscio,<br />
si realizza attraverso il piacere di costruire linee<br />
perfette, equilibrate e di stendere le mestiche attraverso<br />
ripetute sovrapposizioni cromatiche, in questo tutto<br />
simili al gesto del muratore che di fila in fila, di mattone<br />
in mattone, forma l’edificio. In tal modo l’artista vuole<br />
dimostrare che solo con una più razionale osservazione<br />
dell’opera le geometrie latenti possono emergere.
Sezione aurea, 1996<br />
Olio su tela, cm 80x80<br />
197
laura Zampini<br />
Nata a Occhiobello (Rovigo), vive e lavora a Ferrara.<br />
È cresciuta in una grande famiglia d’arte: la madre,<br />
Carolina Occari, è conosciuta per le splendide incisioni, il<br />
fratello Luigi è pittore e disegnatore, l’altro fratello, Luca,<br />
è fotografo, la sorella, Licia, è la curatrice dell’archiviazione<br />
delle opere, le nipoti Giuliana Zampini e Tosca Zampini<br />
sono la prima ceramista, l’altra illustratrice e grafica.<br />
Come in un’antica bottega d’arte o in una ritrovata<br />
“officina” queste operatività diverse segnano il passaggio<br />
delle generazioni e della permanente motivazione ad<br />
esplorare incessantemente il mondo dell’arte nelle varie<br />
sfaccettature e modalità tecniche.<br />
La nostra artista si diploma in restauro di dipinti e<br />
198<br />
dorature a Firenze. Frequenta, in seguito, vari corsi di<br />
ceramica e pittura. Tra l’altro è allieva della Scuola di<br />
Nudo presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze.<br />
La passione creativa per l’arte figurativa e per l’arredamento<br />
la porta alla realizzazione di opere, in questi<br />
due ambiti, nei quali è conosciuta per le sue qualità di<br />
interior designer.<br />
Ha al suo attivo diverse esposizioni.<br />
Tutta la famiglia Occari-Zampini è legata al grande<br />
fiume non solo perché tra la transpadana estense e Ferrara<br />
trova gli affetti di una vita ma anche perché il grande<br />
fiume è una costante della poetica di queste generazioni<br />
di artisti.<br />
<strong>Le</strong> opere <strong>donate</strong> sono due tecniche miste su cartone<br />
che rappresentano due momenti sul fiume Po.
Momento del grande fiume I<br />
Tecnica mista su cartone, cm 70x100<br />
Momento del grande fiume II<br />
Tecnica mista su cartone, cm 70x100<br />
199
Sergio Zanni<br />
Sergio Zanni è nato a Ferrara, dove vive e lavora.<br />
Diplomatosi all’Istituto d’Arte “Dosso Dossi” di<br />
Ferrara, frequenta l’Accademia di Belle Arti di Bologna.<br />
Possiede un ricchissimo curricolo di mostre ed esposizioni<br />
in Italia e all’estero. Ha visto premiata la sua ricerca<br />
artistica con l’invito alla 54 a Biennale di Venezia.<br />
Inizialmente predilige l’uso della terracotta per passare<br />
successivamente alla sperimentazione di materiali più<br />
leggeri dove i suoi personaggi raggiungono dimensioni<br />
ciclopiche. L’artista stesso scrive a riguardo del suo itinerario<br />
artistico: «Il mio “mestiere” mi permette viaggi<br />
continui alla scoperta di “terre sconosciute”. Queste “terre”<br />
si sono materializzate in una miriade di personaggi:<br />
200<br />
eremiti, signori della pioggia, assassini, monumenti ai<br />
caduti, diavoli, custodi delle pianure, zingare, osservatori,<br />
camminatori. Palombari, attendisti, figure senza davanti,<br />
piloti, cacciatori di nuvole, Oblomov, fumatori, pittori<br />
di guerra, angeli misteriosi, canti delle sirene eccetera,<br />
fino agli ultimi lavori, equilibristi, Ulisse e altri viandanti.<br />
Verso la fine del XX secolo mi sono posto il problema<br />
di realizzare lavori di grandi dimensioni: l’amata terracotta<br />
è purtroppo pesante e fragile. In un certo senso<br />
sono stato obbligato a sperimentare materiali più pratici<br />
e molto meno nobili della terra. Ha quindi avuto inizio<br />
in quest’ultima fase l’esperienza con il polistirolo ricoperto<br />
con criptonite e iron ball (materiali molto recenti<br />
da scenografia), vetroresina, tondino di ferro e assemblaggi<br />
sempre con oggetti di ferro. Da questi materiali<br />
sono nati i miei lavori più grandi: i kamikaze, il carro<br />
dei vincitori, la foto di gruppo con i sei piloti bianchi, il<br />
grande viandante».<br />
In effetti mai come in queste grandi figure Zanni è<br />
riuscito ad esaltare la “leggerezza” della materia utilizzata<br />
e la pertinenza del senso del soggetto rappresentato. Il<br />
codice oggettuale dell’artista riesce però a cogliere non<br />
solo le dinamiche di differenziazione delle singole opere<br />
ma anche, nello stesso tempo, a riportarle ad una vicenda<br />
di identificazione comune con il riguardante. La possibilità<br />
di creare legami con il destino di tutti offre una<br />
modalità di difesa di fronte alle forze della vita, alle sue<br />
problematiche sociali e ai suoi giochi di potere.
Palombaro<br />
Terracotta patinata, altezza cm 39x100x41<br />
201
ermanno Zanotti<br />
Ermanno Zanotti (Bologna 1938-2011) ha fatto della<br />
coroplastica la passione dominante della sua vita. Non c’è<br />
momento in cui non abbia smesso di modellare o abbozzare<br />
forme, femminili soprattutto. Si portava appresso<br />
una formella d’argilla con la stessa naturalezza di chi porta<br />
con sé un album di schizzi o la macchina fotografica.<br />
Zanotti si è formato una cultura artistica autonoma.<br />
È strano però che questa sua vocazione non gli abbia<br />
mai fatto incrociare un maestro che la incanalasse e che<br />
rendesse meno faticosa la scoperta di quelle modalità<br />
espressive che solo la lunga pratica gli ha reso “naturali”.<br />
La mano che afferra, impasta e crea diventa pensiero,<br />
si fa riflessione sul mondo e sul destino dell’uomo in un<br />
202<br />
sereno, ironico ed empatico coinvolgimento.<br />
L’esplorazione della sua mano sui corpi è governata<br />
da una leggerezza e da una sapienza del tocco infinita.<br />
Anatomie e torsioni gli appartengono per una lunga<br />
meditazione sulle forme e sulla ricerca degli spazi che<br />
esse occupano. Soprattutto gli appartiene l’intelligenza di<br />
declinare attraverso il movimento il linguaggio del corpo<br />
nelle sue infinite interazioni.<br />
Flessuose, intriganti, sensuali le terrecotte patinate<br />
di Ermanno Zanotti tengono splendidamente lo spazio.<br />
Lo riempiono di linee che fluiscono dalle curvature dei<br />
corpi, mentre i continui movimenti degli occhi, che le<br />
inseguono, disegnano instancabili percorsi in un cosmo<br />
infinito. Il nudo femminile raggiunge allora una connotazione<br />
stilistica del tutto particolare, quasi che tra<br />
il modello e l’artista si generasse un gioco continuo di<br />
rimandi e di seduzioni.
Sensualità<br />
Terracotta patinata, altezza cm 76x70x37<br />
203
Maternità<br />
Terracotta patinata, altezza cm 107x60x24<br />
204
205
Patrizio Zona<br />
Nato a Napoli negli anni Cinquanta, fin da piccolo<br />
sente il fascino della manualità e dell’intelligenza delle<br />
mani. Inizia ad occuparsi di artigianato ma ciò che lo<br />
interessa davvero è la scultura in quanto è il contatto<br />
diretto con la materia ad attrarlo. Frequenta le fonderie<br />
e i laboratori artistici.<br />
Da autodidatta sperimenta la lavorazione della pietra,<br />
del marmo, del legno, del bronzo. Comincia a partecipare<br />
a mostre collettive, a premi d’arte. I primi riconoscimenti<br />
della sua arte lo incoraggiano a continuare nella ricerca<br />
intrapresa. Patrizio Zona vive e lavora a Napoli ed è direttore<br />
artistico del Parco delle Sculture della Valdichiana<br />
di Poggio Sant’Angelo a Farneta di Cortona.<br />
206<br />
<strong>Le</strong> opere di Patrizio Zona producono le stesse fluttuazioni<br />
nei corpi della materia che i moti del vento nell’aria.<br />
<strong>Le</strong> forme sono incessantemente percorse da correnti e<br />
da flussi che le plasmano e le modellano. Come costruite<br />
dall’aria, riportano i ritmi della terra, del fuoco, dell’acqua<br />
e degli infiniti mondi che compongono l’universo. In queste<br />
scansioni ognuno riconosce il flusso della sua anima<br />
aerea, della sua vita, circolante nelle vene e nei nervi. La<br />
scultura fissa un ritmo e nel contempo ne suggerisce la<br />
prosecuzione nello spazio e nel tempo.<br />
Nelle sue sculture sono presenti evocazioni di spazi<br />
fisici, ma vi sono anche dei paesaggi mentali che riportano<br />
il mondo ad un livello superiore di elaborazione, fatto<br />
di forze motrici e di limitazioni. Eppure le spinte infinite<br />
del mondo interiore riconducono sempre all’enigma<br />
nascosto nel suo centro. Soltanto qui hanno un senso<br />
le energie presenti, qui soltanto si producono tutte le<br />
trasformazioni della materia e del nostro essere. I moti<br />
dell’aria e quelli dell’animo accompagnano i nostri atti,<br />
le nostre azioni, le nostre libertà.
Archetipo di un volo frenato<br />
<strong>Le</strong>gno di samba Africana, 207 cm 183x18x21