astava: la mattina dopo ricevetti una lettera da un ufficiale dell’esercito che da Londra michiedeva di prendere in considerazione l’idea di sposarlo subito. Eccomi quindi con una ziapremurosa, due amiche in ansia e tre uomini fra i piedi. A mia zia potevo parlare di WalterEvans e lo feci francamente, esponendole la cosa. Ma non menzionai gli altri due, perché conil suo atteggiamento conservatore avrebbe pensato che c’era qualcosa in me di seriamentesbagliato, se incoraggiavo tre uomini nello stesso tempo. Eppure non sono mai stata unacivetta.Avevo solo una settimana da passare a Edimburgo, prima di partire per Londra, poiché ilmio viaggio di ritorno a Bombay era stato prenotato prima di lasciare l’India. Il mio problemaera: a chi chiedere consiglio? Era facile rispondere. Mi recai dalla Diaconessa della ChiesaScozzese, a Edimburgo. Era una sorella di Sir William Maxwell di Cardoness Castle e cognatadella zia di cui ero ospite. Per me era sempre “Zia <strong>Alice</strong>” e io l’adoravo perché in lei non c’erail minimo segno di limitatezza o di ottusità. La vedo ancora — alta, dritta nella sua uniformemarrone di diaconessa mentre si alza per darmi il benvenuto nel suo bellissimo studio.97 Le sue uniformi erano di seta marrone molto pesante e normalmente portava colletti epolsini di trina che avevo fatto per lei. Ero molto brava a fare i pizzi. Avevo imparato daragazzina e mi riusciva bene. Per anni avevo fatto per lei colletti e polsini per gratitudine diavermi sempre compresa. Non si era mai sposata, ma conosceva la vita e amava la gente. Leraccontai la storia di Walter Evans, del Maggiore a Londra e dell’idiota facoltoso che mi avevaseguita in Inghilterra e che anche in quel momento mi aspettava fuori dalla porta. Mi ricordoanche ora quando andò alla finestra per sbirciarlo, attraverso la tenda, ridendo. Parlammo perdue ore e mi disse di lasciare fare a lei, avrebbe pensato e pregato per trovare una soluzione,dato che ero troppo malata per avere capacità di giudizio o il necessario buon senso. Mirilassai di fronte a questa sua capacità di gestione e tornai dalla zia, riconfortata. Dopo pochigiorni andai a Londra dove ripresi il piroscafo per l’India accompagnata da Gertrude Davies-Colley che si era impegnata ad accompagnarmi e curarmi in quanto ero ovviamente troppomalata per essere lasciata sola.Tornai così alla mia attività senza la più pallida idea di cosa avrei fatto in seguito, decisa avivere giorno per giorno senza guardare al futuro. Avevo fiducia nel Signore e nei miei amici easpettavo.Nel frattempo “Zia <strong>Alice</strong>” si mise in contatto con Walter Evans, il cui servizio militare eraalla fine e stava per lasciare l’India. Gli pagò tutte le spese perché andasse negli Stati Uniti perseguire un corso di teologia e farsi pastore della Chiesa Episcopale, l’equivalente americanodella Chiesa Anglicana. Lo fece perché la sua nuova posizione sociale avrebbe facilitato ilnostro matrimonio. Lo fece in modo trasparente, informandomi ad ogni passo e tenendo alcorrente anche Miss Sandes. L’intera questione fu però condotta molto tranquillamente neimiei confronti e del mio lavoro nell’esercito, e quando alla fine lasciai l’India per sposarmi erainteso che rientravo per sposare un pastore.98 Tornai ad Umballa e lavorai tutto l’inverno, l’estate andai a Chakrata per gestirvi la Casadel luogo. La mia salute peggiorava e le emicranie erano più frequenti. Il lavoro era moltopesante e ricordo con gratitudine la bontà e la gentilezza di due uomini che fecero tanto perme, sì che spesso mi domando se non devo loro di essere viva. Uno fu il Colonnello Leslie, lecui figlie erano mie amiche e coetanee. Andavo spesso a casa sua e si occupava di mesquisitamente. L’altro fu il Colonnello Swan, ufficiale medico dell’esercito in quel distretto emio medico curante. Fece tutto il possibile per me, a volte mi è stato accanto per ore, ma miaggravai al punto che i due uomini presero la situazione in mano e telegrafarono alla miafamiglia e alla signorina Sandes che mi avrebbero rimandata indietro in Inghilterra con ilprossimo piroscafo.A Londra andai da Sir Alfred Schofield, fratello di Theo Schofield, che a quel tempo erauno dei più famosi neurologi di Londra. Mi misi nelle sue mani. Era molto intelligente everamente mi capì. Arrivai da lui terrorizzata dalle mie emicranie. Temevo di avere un tumore43
al cervello o di stare per impazzire o cose del genere, ed ero fisicamente troppo debole perriuscire a vincere queste fobie.99 Dopo aver parlato con me si alzò dalla scrivania, frugò nella libreria dalla quale estrasse ungrosso volume. Lo aprì indicando un certo paragrafo e disse: “Signorina, legga queste quattroo cinque righe e si liberi dalle sue paure”. Lessi che l’emicrania non è mai letale; che non haeffetto sulla mentalità del soggetto e che le vittime sono normalmente persone dotate di unbuon equilibrio e di potenza mentale. Aveva avuto la saggezza di leggere le mie paureinespresse, e cito questo fatto a beneficio di altri sofferenti. Mi mise quindi a letto per sei mesi,a cucire per tutto il tempo. Andai così a Castramont, da zia Margaret, nella vecchia camera cheavevo occupato per tanti anni e iniziai a preparare per mia sorella un corredo di biancheria —sottovesti con gale cucite a mano e orlate di trine; mutandine con i pizzi (che allora non sinominavano mai) e corsetti oggi caduti in disuso. Una cosa voglio dire a mio favore: ero unabravissima ricamatrice. Ogni giorno mi alzavo e passeggiavo nella brughiera, e ogni settimanami accorgevo che miglioravo un po’. Spesso ricevevo lettere da Walter Evans che mi scrivevacon regolarità dall’America.44
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a spese della verità, né condurra
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