“Te digo, forse perché sono già un poco condizionata dalle altre lingue, predisposta,allora no… io già dopo i 15 giorni ho aprendido a parlare italiano, non dico che parlavobene, però… ancora mi manca imparare tanto, soprattutto con la doppia… le doppie. Ledoppie “p”, le doppie “b”… queste cose qua, come ad esempio “hanno”, e poi l’accento.Continuo a parlare italiano con accento spagnolo, quello sicuramente.” (int. 11)Va da sé anche la distribuzione “spaziale” della lingua, per cui l’italiano diventalingua della vita pubblica del migrante, delle relazioni con la popolazione locale,mentre lo spagnolo si mantiene per la sfera privata e, quindi, per le relazionicomunitarie, per il quotidiano familiare, per la religione, per la memoria,mantenendo salda la struttura sintattica della lingua d’origine.La figura della madre, in particolare, diventa ponte linguistico tra il paese dipartenza e quello d’arrivo, tra la prima e la seconda generazione. Come spiegaFavaro (2004, 276), gli appartenenti alla prima generazione diventano (parzialmente)bilingui durante il loro soggiorno nel paese d’immigrazione e integrano parole della L2nella loro conversazione che rimane tuttavia prevalentemente espressa in L1. Veramentebilingui si possono considerare solo gli appartenenti alla seconda generazione dei figli,almeno fino al momento in cui la L2 non prende il sopravvento, come avviene innumerosi casi.“Si, si… io ci parlo (con i figli) spagnolo porque la lengua la devono imparare… devonosaber le radice de dove vengono, la mamma sua…” (int. 24)“Lo spagnolo a casa? Quasi no! quasi non lo parlo… io cerco di farlo per i bambini (inipoti), più al grande, di non farle dimenticare el espagnolo. E lui (figlio) dice «Mammaperò le fai male al piccolo! guarda che il piccolo si confonde…». Io le faccio «Uno, due» initaliano, fino al dieci, poi le faccio en espagnolo. «Mamma no…ancora è troppo piccolo!»Ma a me fa piacere perché lui la pronuncia lo fa diverso e ride quando parla lospagnolo… «Nonna così si dice?», «Così si dice in espagnolo, e questa è la tua lingua,amore…». «Ho capito nonna, allora devo imparare a parlare el espagnolo». Durante ilgiorno no, no lo parlo. Però el poco momento che sto a casa sto sola, arrivo, faccioqualcosa, metto a posto il letto, lavo i piatti… però da sola. Sento la musica mia, penso inspagnolo e sento la mia musica, del mio paese… quel momento, quel piccolo momentoche sto a casa. Poi sto sempre a lavoro, di qua e di là…sempre parlando el italiano…” (int.2).Ma il rapporto tra genitori e figli, linguisticamente parlando, non è semplice. Lacomunicazione tra di loro, genericamente in L1 nella fase dell’infanzia, puòdiventare difficile col crescere della seconda generazione. Il passaggio dallalingua informale dell’infanzia ad un registro linguistico più articolato ecomplesso che si sviluppa nell’adolescenza e matura nell’età adulta avviene nellalingua L2. Favaro (2004) parla di “ribaltamento dei ruoli” tra le generazioni: ilgenitore diventa “bambino” nell’L2 mentre i figli acquisiscono consapevolezzalinguistica e diventano “responsabili” dei genitori perché in grado di capire e- 216 -
controllare la nuova realtà, e nel frattempo la voce della madre diventa quelladella memoria (Djebar, 2004) per la prima generazione e di un passato nonvissuto ma incombente, radicato e quasi fantastico per la seconda generazione.“Parla però lei lo rifiuta perché lei è nata qua. Quando siamo andati là in Perù, me nesono resa conto che lo parla. Lo parla bene. Con la famiglia. Il primo giorno guardava,diceva qualche parola… il secondo giorno, il terzo giorno lo parlava quasi normale.Perché io le parlo in spagnolo. Con mio marito parliamo italiano e anche spagnolo, tutti edue, ma con mia figlia… io le parlo spagnolo e lei mi risponde in italiano. Quando stiamocon altri dei nostri connazionali, lì lo parla. Si però così… un po’… è costretta. No, lei miserve sempre come mediatrice linguistica, mi serve sempre. Mi corregge. Adesso che ègrande, adesso lei sta in quel momento che mi critica tutto, che c’è questo confronto conme, che io sono vecchia, che io….o sea, mi critica tutto. Quindi…anche la parola mal dettami dice «Eh, vedi come parli?». (int.1)Tralasciando le dinamiche sociolinguistiche dei migranti, l’aspetto da sottolineareai fini della ricerca è un altro: ovvero l’identificazione linguistica del gruppo diimmigrati in questione. La lingua, come la religione, è una delle maggiori ereditàche la Colonia ha lasciato all’America latina, e oggi, per molti versi, è elementodeterminante nella scelta che milioni di migranti compiono nel loro passaggiomigratorio verso la Spagna. Nel caso dell’Italia, la comune matrice latina agevolala comprensione, tanto da fare dei latinoamericani migranti più “desiderabili”rispetto ad altri. Viene naturale pensare che, in un contesto numericamenteridotto come quello partenopeo, l’uso comune di una stessa lingua sia spontaneo,fondante nel consolidamento dei vincoli comunitari all’interno del gruppo stesso.Eppure la lingua, o meglio l’uso e le sue occasioni d’uso, rientra,inconsapevolmente, nelle strategie di potere.“Quando siamo insieme, tutti quanti parliamo lo spagnolo. Quando dobbiamo parlare…però si crea sai che? Io ho notato questo, le persone che non riescono a parlare benel’italiano, quando poi c’è la persona che stando più tempo qua, che, avendo un pochinopiù de competencia, lo parla, si crea questa situazione di… così… di disagio. Allora iocerco di non parlarlo. Parlo spagnolo, o anche quando si dà questa situazione, cerco didare la opportunità che lo parli un altro anche se lo parla meno di me. Cerco questo,perché io l’ho capito questo. Si crea, soprattutto in quelli che hanno poco tempo o anchemeno… C’è un detto che dicono qua le persone «Qua siamo tutti uguali», siamo tuttiuguali perché tutti quanti facciamo lo stesso lavoro. E allora ci sta, come qua da voi unpoco di rivalità tra nord e sud, tra una regione e l’altra regione, e la stessa cosa è da noi.Ci stanno molte persone, per esempio, che dicono, anche se sono nate in altre province,altre parti della campagna, dicono che sono di Lima. In Perù c’è molto questo, c’è moltadiversità tra di noi, fisica, allora c’è anche questo razzismo… chiamiamolo così.” (int.1)Ancora una volta il fattore “classe sociale” d’origine, tratto che il migrantelatinoamericano porta con sé indelebilmente, ha il suo peso, sebbene si pensi che- 217 -
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