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Ambiente. Futuro nero - Museo del Piave

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Giugno 2010 • sportA PROPOSITO DI CALCIO....Giornalista interista. E me ne vantoSfogo semiserio di un tifoso nascosto a lungopa d’autore: io sono interista.Però c’è un però. Non scrivevo,né parlavo pubblicamente - intendoin tv – di pallone, di footballper una specie di bizzarropatto <strong>del</strong> diavolo con me stesso.Io ho iniziato a fare questomestiere occupandomi di calcio.Andavo (mi offrivo, e loro– i redattori che non c’avevanovoglia di fare niente – mi cimandavano entusiasti) nei campettidi periferia <strong>del</strong>l’Isontino.Assistevo in tribune improbabilia incontri combattutissimi dicategorie inferiori, tipo “palla ogamba, ma meglio gamba” e traun rinvio alla viva il parroco, unmoccolo alla Santissima Trinitàin dialetto bisiaco (tra le dueacque, i due fiumi: Isonzo e Timavo),e un goal da cineteca chein serie A si sognavano, io scrivevo.Poi riordinavo gli appuntisu Fontanafredda-Gradisca o suRonchi dei Legionari-Fiumicelloe telefonavo al dimafono. Edettavo trenta righe.Era giornalismo? Credo di sì. Albar sport (c’è sempre, ovunque,un bar sport) leggevano il miopezzo e lo commentavano. Chimi conosceva, mi faceva rilievicritici. “El ga arbitrà come uncan. Ti te ga scrito che l’xe stabravo. Ma che partita te gavisto ti?”. Annuivo: avevocertamente visto male. Laprossima volta il mio articolosarebbe stato assai piùsevero con la “giacchettanera” di turno: l’arbitro hada essere cornuto, suvvia,sennò che arbitro è?Ho nostalgia e tenerezzaper quel tempo pionieristico,in cui facendo questolavoro si poteva sbagliaree imparare, ogni giorno,apprendendo “umanamente”dai propri errori.Quel tempo in cui il miomondo, nell’istante brevee interminabile <strong>del</strong> calciodi rigore <strong>del</strong> centravantidi nome Di Lena, alto unmetro e cinquantacinque(che durante la settimanafaceva il postino in bici),era “il” mondo assoluto,che comprimeva tutti gli universipossibili, e le emozioni,le sfide, le passioni pugnaci, icampanilismi tribali e ruspanti,che sapevano di vino e ciccheNazionali senza filtro, e partite ascopa e ovi duri col sale e pepespruzzati sopra.Di quell’epoca – ahi ahi, mi sache sto invecchiando a vistad’occhio – mi sembra di risentireil sapore, semplice e artigianale,di cose fatte una ad una,belle perché imperfette, madidedi sudore e lucide di sogni, discontri feroci e zoppi, finiti conuna stretta di mano e di amicizieche grazie allo sport si credevanoimmortali.Io stesso, da ragazzo, giocavoal calcio. Ero tesserato per ilMonfalcone: una società gloriosa,che si cimentava nello storicostadio Cosulich, quartieredi Panzano, accanto ai cantierinavali.L’allenatore era una vecchiagloria <strong>del</strong>la Triestina di Grezar:“Gianluca – mi disse un giorno– io cerco di farvi capire chenon è importante diventare calciatoridi successo, ma uominidi valore”.Ci ho rimesso un braccio (frattura<strong>del</strong>l’omero: segue trafila,ortopedia, operazioni, gessi,punti, metti il ferro - togli il ferro),dopo ogni incontro avevo legambe conciate come una cartageografica. Ma mi piaceva. Mifaceva sentire vivo. Mi davagrandi emozioni. Il senso diuna impresa comune, di squadra.La famiglia era contraria:mi vedeva lì gracilino, di esilecostituzione, un fuscello che staper essere stritolato in mezzo amarcantoni di tredici anni grossicome Carnera, e temevano perla mia sorte.Facevo di necessità, virtù: sgusciavo,correvo più veloce, ladavo di prima. Imparavo a sopravviverema senza calare lebraghe. Io credo che l’impoverimentodi questa società siasoprattutto dei riti di iniziazioneche davano ai giovani la convinzionedi entrare - meritandoseloe per gradi - nel mondo degliadulti. Non ci sono più. E’ tuttoasettico, artificiale, fasullo, virtuale.Niente aiuta a crescere,attraverso le botte prese e date.A riconoscere cicatrici e rugheTarcisio Burgnichcome una geografia esistenziale.Un giorno Anna Magnani, lagrande attrice, bloccò il braccio<strong>del</strong>la truccatrice che la stava preparandoa una scena a Cinecittà,le stava nascondendo le rughe:“Signorì! Statti ferma! Che fai?Ho impiegato tutta la vita a farmelevenire!”.Lessi una cosa molto bella diFederico Nietzsche: bisognerebbeavere sempre la serietà deibambini quando giocano. Ecco.E’ tutto lì, il nocciolo <strong>del</strong>la verità<strong>del</strong> vivere.Poi smisi di giocare, lo studiomi prese tutto. E mi restò, appunto,il ruolo di cronista.Anche molti anni dopo, quandosento “La leva calcistica” di DeGregori - ...ma Nino non averpaura, di tirare un calcio di rigore,non è mica da questi particolari,che si giudica un giocatore,un giocatore lo vedi dalcoraggio, dall’altruismo, dallafantasia... -, beh, sento correreun brivido lungo la schiena egli occhi si inumidiscono a prescinderedalla volontà. Era ognivolta come se quel capolavoromusicale mi accusasse: perchéti sei arreso?Provo ogni volta a risponderecon Gozzano: ma io ho amatosempre e solo le rose che noncolsi. A volte funziona, a volteno.Quindi, smisi pure di scriveredi calcio. E riversai la passioneinteramente nella sfera intima,privata. Quasi avessi pudore,iniziando a fare per davvero ilgiornalista, di mostrarmi – occupandomidi calcio – un professionistadi serie B: superficiale,disimpegnato, un po’ cialtrone,parolaio, insomma perfettamenteinutile, dando voce alsuperfluo e al raffazzonato cheè la quintessenza <strong>del</strong> mondo <strong>del</strong>pallone e la tribù parassita chegli gira attorno.Da allora ho vissuto la dimensione<strong>del</strong> tifo unicamente all’internodi me stesso, quasivergognandomene, in modo carbonaro,segreto, con pochi amici,circondato tutt’al più dalle“comprensive e tolleranti” personecare. Più frequentemente epreferibilmente, da solo: ben sapendoche quel essere spettatoredi un evento calcistico tira fuorii miei spiriti animali, la volgarità,l’aggressività repressa,la voglia di vittoria a ognicosto e mi fanno apparirediverso dall’immagineconsueta che ho.Quest’anno è successauna cosa nuova, però. CanaleItalia ha mandato inonda un bel programma,“Lunedì Gol”. E’ statoun successo. Anche peril livello degli ospiti fissi:Ciccio Graziani, AntonioCabrini, Lorenzo Amoruso,Claudio Pea, GianfrancoMonti, GianniRivera, Giancarlo Antognonie molti altri. I dueconduttori, AlessandraChieli e Augusto De Megnicercavano un tifosointerista. Potevo dire dino? Ho accettato. E allafine mi sono divertito unmondo.E’ stato, per me, un rito liberatorio.Mi sono finalmente affrancato,emancipato, liberato dallaschiavitù <strong>del</strong>la seriosità <strong>del</strong> politologoche se parla di calcio sisputtana.Io sono interista, dicevo. Il calcioper me è poesia, fantasia erabbia allegra. So che in chi miascolta, scatta il riflesso condizionato:povero illuso, ma non tiaccorgi che vi prendono tutti peril culo, che si arricchiscono allevostre spalle di creduloni, che èun gioco sporco, artefatto, corrotto,mafioso, falso.Non li voglio sentire. Vogliocontinuare a cullarmi nelle mieillusioni che il gioco sia pulito,sia vero, sia autentico.Lo devo fare perché io penso chela nostra (la mia) vita sarebbe unpo’ più povera e grigia, stinta einsapore, senza la mia domenicadi pallone. Senza l’attesa, latrepidazione, il match, le polemiche,le chiacchiere <strong>del</strong> giornodopo, gli sfottò, le corbellerieannesse e connesse.Ma so che non è unicamente unadimensione soggettiva: raccontarela storia <strong>del</strong> calcio italianosignifica ripercorrere la nostrastoria di popolo. Con annessitrionfi e disgrazie. Vergogne eglorie. Perché il pallone è unapotente metafora <strong>del</strong>la nostravita. Della migliore e peggioregioventù. Del potere economico.Politico. Editoriale. Perfinobancario.Perciò, quando scoppiò “Calciopoli”io ebbi conferma di quantodentro di me avevo – pasolinianamente– sempre “saputo”.Io so. Sì, io sapevo. E non miservivano le prove per averneconferma.Avevano rubato la nostra eternafanciullezza. Avevano contaminatocome narcotrafficanti,come ecomafiosi spietati ilnostro campetto di pallone,truccando la partita, manipolandole regole <strong>del</strong> gioco.Esattamente come altri inpolitica si erano finanziatiillegalmente, alterando lecondizioni di concorrenza.Mi avevano rubato i sogni.Detto così, parrà ingenuoe un po’ ridicolo. Ma noisiamo ciò che amiamo, lenostre passioni, le nostreemozioni. I nostri giochi. Sece li calpestano, mettono sotto ipiedi la nostra libertà di esserenoi stessi.Io sono interista. E’ una fedespeciale e comprensibile solo aquelli come noi. E’ una appartenenzatormentata e – fino a ieri– autolesionistica. Un piacereun po’ perverso.A casa, mi guardavano con pietàe misericordia: “Ma chi te lo fafare?”. Io li guardavo a mia voltacon fierezza e pensavo: le solebattaglie che meritano di esserecombattute sono quelle perse.E poi, vincere facile è sciocco.I soli esami che ricordo sonoquelli difficili, tormentati, pienidi ostacoli e trabocchetti. Maledettaipocrisia degli adulti:lasciatemi almeno l’Inter!Ha ragione Beppe Severgnini(che ho premiato col Tomasellial teatro Aldo Rossi di Borgoriccosabato 29 maggio): siimpara molto dallo sport. Unapartita di calcio è una allegoria<strong>del</strong>la vita. E’ ricca di simbolismi.Di metafore potenti.Il calcio è un gioco apparentementesemplice. Basta avercura <strong>del</strong>la propria salute. Saperstare con gli altri (i compagni).Rispettare gli avversari (mai nemici).Il calcio, in Italia, però è ben altro:colma il vuoto pneumaticodi spazi politici di aggregazione.Tifosi sì, militanti politici nonpiù. Ma il calcio è “politico”anche nel senso di “parte”: Berlusconia lungo si è identificatoadesivamente col “suo” Milan:bastava vederlo scuro in voltoquando i rossoneri perdevano.Identificava le vittorie in Championse in politica.E quante volte ci scandalizziamoquando apprendiamo ciò che giàsappiamo: cioè che un mediocrecalciatore di serie B guadagnaSi impara moltodallo sport.Una partita di calcioè una allegoria<strong>del</strong>la vita. E’ ricca disimbolismi.Di metafore potenti.50 volte di più di un ricercatoreuniversitario che salva viteumane e lavora per il progresso<strong>del</strong>l’umanità?Ho visto, dopo il 2006, dopoMoggiopoli, cambiare tutto:quelli che prendevano in giro- “Non vincete mai!” -, all’improvvisosi erano fatti seri seri.Loro adesso perdevano. Ma nonavevano gli anticorpi per esserebuoni sconfitti abituali, decorosiperdenti. E noi ora maramaldeggiavamo,abituati però sempre esolo a perdere. E quindi senzal’aplomb, lo stile di chi vincesempre.Anche in trasmissione, in modicivilissimi, ho avvertito avversione,antipatia, odio sportivo.Ma l’odio, ho compreso, è laforma più raffinata e pigra <strong>del</strong>lastima. E <strong>del</strong>l’invidia subentrata.Lo so bene: in questa notte madrilena<strong>del</strong> 22 maggio, il mioorgoglio di “essere interista”,e quindi diverso da tutti gli altritifosi “normali”, è solo unpretesto struggente. L’Interè la mia “squadra <strong>del</strong> cuore”- “senza cuore saremmo solomacchine” dice una pubblicità-, perché, senza, le nostre vitesarebbero più tristi e disilluse.E al fischio finale, all’improvvisoil tempo mi si è attorcigliatoattorno, come un cavo spezzato,e ho rivisto in carrellata rapidale figurine Panini, la mia piccolatenuta di gioco, le mie primescarpette coi tacchetti (le chiamavamo“tretter”), i compagni<strong>del</strong>le elementari Duca D’Aostaa Monfalcone, il primo campetto<strong>del</strong>l’oratorio San Micheledove imparai a (non)giocare acalcio, e quel prete energico – ilmio parroco a Sant’Ambrogio -,che si sollevava la tonaca tuttaimpolverata e rincorreva la pallacome un forsennato e forse ciscappava pure qualche parolaccia– “Dio perdonami è iltuo mestiere...”.Ed ecco che - in controluce,c’era un sole accecante quelgiorno -, a bordo campo sistagliava una figura che miparve imponente, dalle spalleenormi. E subito il sacerdote,Don Burgnich, il mioparroco, si fermava, alzavale mani in alto come per arrendersi,il sorriso radiosoche gli illuminava il voltoe quel nome squillato convenerazione nella voce mentregli andava incontro, già prontoall’abbraccio forte da fratello afratello: “Tarcisio!”.Era il leggendario terzino <strong>del</strong>l’Inter,Tarcisio Burgnich.Suo amato e famoso fratello.Mi avvicinai, timido, perché eromolto timido. Poi, osai una cosaper me inusitata. Lo guardaidritto negli occhi. Non era sfida.Era desiderio sfacciato di rubargliun po’ di gloria, di fama, dicapacità, di talento.Lui, ricambiò lo sguardo, e miparve divertito, con quegli occhichiari e puliti degli uomini ecalciatori di una volta. E comericonoscendo un suo simile, solopiù piccolo, mi disse prendendomiper mano: “Vieni, andiamo agiocare assieme. Fammi vederequello che sai fare”.GianlucaVersaceGiornalistatelevisivo

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