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L'arte di fare impresa - Paolo Martini

Come e perché investire in economia reale

Come e perché investire in economia reale

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01 | Le prime luci dell’alba

chiusi: i primi di diritto italiano sono

arrivati soltanto nel 1996, dieci anni

dopo la nascita di AIFI, quando è entrata

in vigore la normativa ad hoc,

frutto di lungo confronto politico.

Comunque, alla fine, ce l’abbiamo

fatta. Non è stato facile convincere

i vari governi che si sono succeduti

e far accettare il concetto di fondo

mobiliare chiuso dedicato agli investimenti

in capitale azionario di

società non quotate. Il timore era

che si trattasse di un modo – sicuramente

stravagante- di eludere le

tasse e non un nuovo strumento per

investire nello sviluppo dell’economia

reale. In questo ci ha dato una

mano importante Confindustria, che

allora era guidata dal presidente

Luigi Abete e dal direttore generale

Innocenzo Cipolletta (che oggi è

presidente di AIFI, ndr).

Intanto in Italia iniziavano ad aprire

uffici anche i grandi operatori esteri.

Il primo è stato 3i. Allora già un colosso

che investiva in ottica paneuropea,

ma che in origine era partito

nel dopoguerra con focus soltanto

sul Regno Unito, con capitali messi a

disposizione dalla Bank of England

e dal governo britannico. I grandi

fondi internazionali utilizzavano già

la tecnica del LBO, che importarono

in Italia. Si affermò il mercato del

vero e proprio private equity. Alcuni

degli operatori italiani più grandi iniziarono

a loro volta a condurre LBO,

ma nel nostro Paese non si arrivò

mai agli eccessi di leva che si videro

altrove negli Stati Uniti e in Europa.

Certo, anche in Italia abbiamo avuto

delle operazioni andate male dopo

il 2008, ma per problemi legati alla

crisi mondiale che ha colpito interi

settori. Vero è che quel periodo critico

ha portato a un cambiamento

di logica e di approccio, che è tornato

ad essere più industriale e meno

finanziario, e ha inevitabilmente

comportato un ricambio nella compagine

degli operatori.

Anche nella storia del venture capital

italiano, quello dedicato alle

start up, a un certo punto abbiamo

avuto una cesura. Come dicevo

prima, in Italia è partito prima

il venture capital del private equity,

ma poi il venture ha lasciato il

passo ai grandi volumi del private

equity. Del resto i pionieri erano

pochi, alcune prime operazioni non

andarono come previsto, e ci fu un

cambiamento di rotta. Si è dovuto

attendere l’arrivo della cosiddetta

new economy per vedere la seconda

onda di entusiasmo. A fine

anni ’90 Elserino Piol si consacrò

come il vero guru del venture capital

all’italiana, fondando la sua Pino

Venture Partners e lanciando i fondi

Kiwi (Piol investì in quegli anni

anche tre miliardi di lire in Yoox e

quattro miliardi in Tiscali e fece risultati

straordinari, ndr). Poi la bolla

internet scoppiò nel mondo e in

Europa sparirono dal mercato decine

di operatori di venture capital.

Ricordo che nel 2001 l’associazione

tedesca vide dimezzarsi il numero

degli associati, semplicemente

perché avevano chiuso i battenti,

travolti dal crollo del mercato. Noi

in Italia accusammo il colpo, ma gli

operatori erano ancora pochi, quindi

perdemmo qualche operatore,

ma non fu una débâcle. In ogni caso

per una decina di anni di venture

in Italia non si è quasi più parlato.

Poi timidamente hanno fatto capolino

nuovi team, più strutturati e

soprattutto aperti a investimenti in

parecchi settori tecnologici, quindi

non solo Ict, ma anche life science,

nanotecnologie, nuovi materiali.

L’ARTE DI FARE IMPRESA: COME E PERCHÈ INVESTIRE IN ECONOMIA REALE | 32

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