T14News>> segue da pag 9Verso l’internetdelle coseErnesto Hofmann, docente di Economia e gestione delle imprese internazionali - Università Cattolica di Milanote dal campo elettromagnetico, ossia dai segnali che glipervengono dal sistema esterno.Sono stati definiti opportuni standard di trasmissione dall’organizzazioneISO suddivisi per classi di applicazioni. A frequenze più basse, e sudistanze più limitate, i tag possono essere utilizzati per chiavi, antifurti,libri, vestiti, controllo accessi, banconote… su distanze maggiori, e a piùelevate frequenze (e quindi energie), possono essere usati tag attivi peraltri tipi di applicazioni come controllo di container, di veicoli... È intuibileche con una simile tecnologia diventa possibile leggere e scrivere informazioniattinenti non solo un singolo prodotto, ma persino una singolaunità di prodotto. Tali letture/scritture possono avvenire automaticamentee senza visibilità ottica, e non solo per singoli elementi, ma anche per interilotti di prodotti.Fino a ora la tecnologia Rfid è rimasta confinata all’interno di una stessaazienda. Per esempio alcune aziende l’hanno utilizzata per fare il “tracking”dei prodotti all’interno dei loro centri di distribuzione.È necessario tuttavia creare un’infrastruttura distribuita che consental’utilizzo dei tag tra aziende diverse che collaborano. Ma per usare latecnologia Rfid al di fuori del perimetro di un’azienda sono necessarie almenodue cose. Innanzitutto occorre un sistema standardizzato per identificareunivocamente i prodotti lungo la catena di distribuzione. In secondoluogo serve unsistema, anch’essostandardizzato, perindividuare e condividerele informazioniche accompagnanouna singolaunità di prodotto. Ilprimo problema vienerisolto con latecnica dell’ElectronicProduct Code (Epc) che è in sostanza un’evoluzione dell’Universal ProductCode utilizzato nel codice a barre. Utilizzando l’Epc chi fa parte diuna catena distributiva può localizzare e leggere/scrivere le informazionirelative a una singola unità di prodotto. In funzione del tipo di tag, l’Epcpuò riconoscere fino a 268 milioni di costruttori diversi, ciascuno con 16milioni di prodotti. Ogni prodotto, a sua volta può contenere fino a 68miliardi di unità. Siamo quindi nell’ordine di migliaia di miliardi di unitàdi prodotto identificabili nell’ambito dell’infrastruttura Epc.Il secondo requisito richiede un meccanismo che consenta ai partnerdi una catena di distribuzione di individuare e condividere le informazionirelative alle singole unità di prodotto.Per supportare l’enorme numero di unità che transitano attraverso lacatena in un dato momento l’industria ha quindi bisogno di un’infrastrutturasu larga scala molto più raffinata di qualunque altra soluzione apparsafinora. Per fortuna esiste già un’altra infrastruttura, Internet, che rispondea un’esigenza simile, che è quella di movimentare un enorme numero diinformazioni per un grandissimo numero di utenti. L’infrastruttura di Internetè basata su di un meccanismo denominato Domain Name Systemche è attualmente uno dei più grandi elenchi (directory) mai esistiti e chegestisce diverse decine di miliardi di interrogazioni ogni giorno. Internetè un’infrastruttura costituita sostanzialmente da tre elementi che sonorispettivamente il sistema che distribuisce le richieste per i website e laposta elettronica (il Domain Name System), le entità che contengono specificheinformazioni (che sono appunto i website) e, infine, i motori di ricercache concorrono a ricercare in rete le informazioni necessarie. Analogamentela rete Epc è costituita anch’essa da tre elementi perfettamentecorrispondenti a quelli di Internet e che sono rispettivamente gli Ons (ObjectNaming Services), i servizi di informazione Epc e, infine, gli Epc DiscoveryServices.Ci si può allora chiedere quando questa nuova tecnologia si affermeràsul mercato mondiale. La risposta è che ormai il suo pieno utilizzo è veramentealle porte. Già l’11 giugno 2003 il gigante mondiale della grandedistribuzione, Wal-Mart, dopo aver studiato la tecnologia Rfid per <strong>oltre</strong>dodici anni, aveva annunciato un’agenda quanto mai aggressiva perl’utilizzo di un’infrastruttura Epc. Wal-Mart aveva chiesto ai suoi 100 “topsupplier”, ossia ai suoi fornitori principali, di essere pronti a usare i tag Rfidsu prodotti e contenitori spediti ai propri centri di distribuzione dal gennaiodel 2005. A novembre del 2003 altri 32 fornitori si erano volontariamenteaggiunti alla lista definita da Wal-Mart. Alla fine di aprile del2004 otto aziende hanno iniziato a eseguire una serie di test in alcuni Supercentere in un centro di distribuzione regionale di Wal-Mart, a Dallas/FortWorth. Le otto aziende che partecipano a questo progetto pilota sono laGillette Company, l’HP, la Johnson&Johnson, la Kimberly Clark, la Kraft Foods,la Nestlé Purina PetCare Company, la Procter & Gamble Company e la Unilever.Nella fase iniziale del progetto, un totale di 21 prodotti, tra gli <strong>oltre</strong>100.000 trattati in un tipico Supercenter, sono stati identificati. Nel centrodi distribuzione Sanger di Wal-Mart opportuni lettori Rfid, dispostipresso le porte di ingresso, consentono, sia a Wal-Mart sia ai fornitori dideterminare il momentoe le modalitàdi consegna del prodotto.Wal-Mart vuoleottenere il 100% dirisultati utili nell’identificazionedeiprodotti sia in entratasia all’interno delcentro. Nei sette centripilota (Dallas-FW,The Colony, Deactur, Denton, Hickory Creek, Lewisville e Plano) lettori Rfideseguono le stesse procedure.Le previsioni sono che Wal-Mart arriverà a risparmiare a regime finoa 8,4 miliardi di dollari l’anno. Sono cifre colossali, anche in rapporto all’enormevolume di affari di Wal-Mart, che indicano realmente l’avventodi una di vera e propria rivoluzione industriale.Ma ci sono anche aspetti potenzialmente negativi che vanno considerati,soprattutto per quanto concerne la salute delle persone e la riservatezzadelle informazioni personali. Dal punto di vista della salute si puòosservare che i tag generano campi elettromagnetici almeno tre ordini digrandezza inferiori rispetto a quelli utilizzati dai telefoni cellulari che, inun certo modo, già sono stati assolti da possibili rischi.Per quanto invece riguarda la riservatezza delle informazioni personali sipuò dire che è necessario fare molta attenzione non solo a livello governativo-amministrativo,ma anche a livello personale. In linea di principio i tagnon creano maggiori informazioni delle carte di credito e quindi sta all’attenzioneindividuale la capacità di proteggersi da tutte quelle anomalie chepossono sorgere da un uso incontrollato e disattento della tecnologia stessa.Ciò che può inquietare è piuttosto la possibilità che si possano correlareinformazioni differenti per molteplici possibili analisi e iniziative. Ma èanche intuibile che sarà e dovrà essere cura di chi entra in possesso di informazioniriguardanti i propri clienti il non diffonderle e piuttosto proteggerle,come già avviene con le carte di credito, i bancomat…Ogni tecnologia apre evidentemente la porta a possibili utilizzi fraudolentio pericolosi per la comunità, ma è anche vero che la stessa comunità èstata sempre in grado di controllare le tecnologie che andava a utilizzarecon normative progressivamente più attente e protettive, e ciò avverràdi certo anche per l’Internet delle cose.
NewsT15>> segue da pag 1rava circa quanto gli americani; oggi, in Francia e Germania,si è impegnati circa 400/500 ore all’anno in meno per persona in età lavorativa.In Italia si è occupati un po’ di più che in Francia e Germania, ma sempremolto meno che negli Stati Uniti. Lavorare meno è dunque possibile? Sì,se la produttività per ora lavorata aumenta in modo da compensare la riduzionetotale delle ore d’impegno. Purtroppo la produttività è aumentata, manon tanto da compensare la riduzione del numero di ore lavorate.Allora perché sono scese? Una risposta potrebbe essere che i Paesi europei,diventano più ricchi, decidono di lavorare meno per godere di maggiore tempolibero. In realtà ci sono due distorsioni che influenzano l’andamento delleore lavorate. Una sono le aliquote marginali sul reddito, che dai primi anni Settantain poi sono salite in tutti i Paesi europei. Il secondo aspetto è l’aumentodelle settimane non lavorative. L’alta correlazione tra ore lavorate in diversiPaesi europei, e in generale nei Paesi Ocse, sta nell’indice di sindacalizzazione.I sindacati hanno utilizzato la politica del “lavorare meno lavorare tutti”negli anni Ottanta e Novanta e questo ha comportato un aumento del costoorario. Cioè, lavorando meno a parità di salario complessivo. La Confindustriaconosce bene i problemi della rigidità del mercato del lavoro: l’Italia hauna flessibilità più bassa di quasi tutti gli altri Paesi.Il secondo punto è la composizione del Pil. Negli Stati Uniti tre quarti delPil è nel settore dei servizi, in Europa è circa due terzi. Questo fa sì che l’economiaamericanasia molto più indirizzataverso i serviziIl declino relativodi quanto lo siaquella europea. Partedei motivi derivanodalla maggio-dell’economia italianare regolamentazionedel settore deiservizi in Europa e in Alberto Alesina, economista e professore di economia alla Harvard Universityuna maggioreestensione della proprietà pubblica. Le barriere all’entrata sono scese in quasitutti Paesi, ma più in quelli anglosassoni. E sono cominciati a scendere moltopiù tardi, e molto meno, in sistemi come l’Italia e la Francia.Secondo gli indici Ocse l’Italia ha ancora il settore dei servizi più regolamentatoda un punto di vista delle barriere all’entrata. Il discorso dei servizi è importanteperché, in un momento in cui le esportazioni sono a rischio per colpa dell’andamentodel dollaro, credo che il settore dei “non-tradeables” sia importanteper la composizione industriale.Una parola sull’andamento del dollaro di cui si parla molto. Il deficit americanorimarrà e spingerà il dollaro al ribasso. Non dimentichiamo, quando critichiamogli Stati Uniti per il “twin deficit”, che una delle poche fonti di crescitaper le economie europee in generale, e italiana in particolare, sono stateproprio le esportazioni verso gli Stati Uniti, cioè il deficit americano ha sostenutola crescita in Europa negli ultimi anni. Se adesso l’Europa ne paga leconseguenze la colpa è anche sua.Il terzo punto è la “burocrazia e giustizia”. Alcuni dati sono straordinari. Unosi riferisce al tempo in giorni lavorativi necessari per registrare un’impresa inuna serie di Paesi, in questo caso Paesi Ocse: occorrono due giorni in Canadae Australia, tre in Nuova Zelanda, quattro negli Stati Uniti e 62 in Italia.In<strong>oltre</strong> costa circa 40 volte di più creare un’impresa in Italia che in NuovaZelanda, il 20% in più rispetto a Canada e Danimarca. Il sistema giuridico è incondizioni analoghe. Due esempi. Uno è il tempo necessario per sfrattare uninquilino insolvente: 44 giorni in Australia, 49 negli Stati Uniti, e 630 in Italia.L’altro è legato alla riscossione di un assegno emesso a vuoto: 54 giorninegli Stati Uniti, e 645 in Italia.Passiamo alla spesa per la ricerca. Secondo l’Ocse, l’Italia spende poco menodella media europea e la percentuale della spesa pubblica per la ricerca èrelativamente elevata. L’Ue investe meno degli Stati Uniti, ma il problema èche in Italia la spesa privata per la ricerca è particolarmente bassa. La ricercauniversitaria è un punto cruciale.La spesa per l’educazione terziaria, cioè l’università, in Italia è bassa, tra lepiù basse d’Europa, ma non molto più che in Inghilterra. Viene da chiedersi sela soluzione per l’università italiana sia dare più soldi all’università italiana. Nonè così evidente. La spesa per l’università, sia per studente sia per professore,in Italia non è inferiore a quella dell’Inghilterra, mentre la produttività dellaspesa universitaria è molto più contenuta. Dare più fondi all’università italiana,sia pubblica, sia privata, non è necessariamente la risposta completa. Nonmancano i soldi, manca la concorrenza del sistema universitario, c’è un’ assenzadi concorrenza all’interno del settore pubblico, e dal settore pubblico alsistema privato.La carenza di competizione è un po’ l’aspetto generale dell’economia italiana:significa difesa della lobby dei professori universitari e barriere all’entratadei privati.Sin qui gli aspetti strutturali. Vorrei concludere con alcune considerazioni.Primo. Si deve evitare il “marasma della concertazione”, cioè evitare di sedersial tavolo delle trattative con il governo per chiedere questo o quel favore.Esistono ancora vari sussidi alle imprese private o semiprivate, si aggiranotra i 30 e i 50 miliardi di euro nel 2003, a seconda di come li si conta. Sonopersuaso che l’industria italiana debba imparare a vivere senza sussidi pubblici.Invece di sussidi pubblici,la riduzione delle aliquote e laliberalizzazione dei mercati. Attenzione,però: tutti a parolesono a favore della liberalizzazione,ma questa significaanche e, soprattutto, eliminarele barriere all’entrata, cosa chenon fa piacere alle aziende giàsul mercato. La Confindustria,come rappresentante delleaziende già sul mercato, deve muoversi su questo punto con cautela, ma allostesso tempo con decisione, perché eliminare barriere all’entrata aumenta lacompetizione di chi non esiste ancora.Secondo. Gli sgravi fiscali. C’è molta discussione sul ridurre le aliquote alleimprese o alle famiglie. Mi pare sia eccessiva l’enfasi sulla differenza tra le due,perché mentre una riduzione sulle aliquote delle imprese ovviamente va a lorovantaggio, indirettamente una riduzione delle aliquote alle famiglie può ancheessere un beneficio per le imprese, non solo per l’effetto dal lato della domanda,ma anche per l’offerta. Al sindacato interessa il salario portato a casa,cioè al netto delle imposte. Una riduzione delle imposte sul reddito aumentail salario netto a parità di salario lordo, quindi riduce la pressione dal lato deicosti per le imprese. Per questo dico che nel dibattito spesso c’è un’eccessivaenfasi sulla differenza tra aliquote alle imprese e alle famiglie.Un altro aspetto interessante (o preoccupante) della struttura istituzionaleè la ridotta proporzione dei fallimenti in Italia, la più bassa dei Paesi Ocse,in parte anche causa di una legislazione sul fallimento punitiva. Apparentementequesto sembrerebbe un bene, ma non lo è. Si deve spostare l’enfasi dall’ideadel salvataggio al fatto di considerare normale che le imprese entrinoed escano dal mercato in una concorrenza quasi darwiniana, per cui resistonoi migliori e la concorrenza aumenta creatività, produttività e sviluppo tecnologico.Per concludere, pessimismo o ottimismo? Io credo che, per quanto riguardal’Europa, nel breve periodo sia difficile essere ottimisti, dati in nostro possessofanno prevedere tempi duri. Un maggiore ottimismo può venire per il medioe lungo periodo, almeno per i Paesi nordici, l’Irlanda e la Spagna. Per l’Italiasono preoccupato. Sono pessimista per il breve periodo. E anche nel lungoo medio, perché non vedo segnali di cambiamento o di scossa.(Sintesi di un intervento al centro studi Confindustria pubblicato dal quotidiano La Stampa)