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Incontenibile Mirella Un Campitelli indiavolato Vengo già ... - Teramani

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cinema<br />

Il<br />

rigetto<br />

del<br />

Fato<br />

Marco<br />

Bellocchio<br />

svela i<br />

meccanismi<br />

del Vincere<br />

Non si crede mai a quel che si crede.<br />

Parole, giustissime, di Franco<br />

Fortini, utilizzate a epigrafe di<br />

uno dei tanti film italiani non visti degli<br />

ultimi anni, Fascisti su Marte. Pensate<br />

a quello che credono i politici. O quello a<br />

cui credete voi, credendogli. Per questo<br />

si perde sempre, ritenendo di vincere.<br />

Non si vince nemmeno nell’ordine simbolico<br />

della messa in scena. Guardate il<br />

finale anti-chapliniano di Mein Fuhrer.<br />

Il nuovo film di Bellocchio, come quello<br />

di Guzzanti, coniuga genialmente e<br />

tragicamente futuro (anzi, futurismo)<br />

e tradizione cancerosa, fascismo e<br />

famiglia, tradotta eufemisticamente in<br />

melodramma (leggi: italici costumi).<br />

Esplosioni di pathos, dunque. Primissimi<br />

piani sonori che squarciano lo schermo.<br />

Come fossero colpi di cannone aggiornati<br />

al sound irresistibile (per i potenti, ma<br />

anche per le vittime: nuovo eros senza<br />

libido come mostra il Matthew Barney<br />

di Destrictred) di carne post-umana<br />

sfracellata dal neo-liberismo. La barbarie<br />

fascista è ora (non solo perché ci<br />

sono Berlusconi, Fini o Bossi o Brunetta,<br />

contro i quali niente possono i meteorici<br />

astro-zombi dell’opposizione: Prodi,<br />

Weltroni o Franceschini). Allo stesso<br />

modo in cui il futuro di allora, l’industrial<br />

luglio-agosto 2009<br />

design che involve le sequenze più affrescate<br />

di Vincere, impronterà per sempre<br />

gli strani e tristi giorni a venire. I nostri.<br />

Da non credere.<br />

Ida Dalser come Madama Butterfly.<br />

Affossa il suo stesso essere liberal -<br />

atea, femminista e borghese facoltosa:<br />

un’anomalia – nell’amplesso letale di<br />

Mussolini, horror e ammorbante come<br />

quello di Nosferatu, espresso in meravigliose<br />

sequenze di erotismo allucinatorio,<br />

il meglio del film. Al suo sguardo<br />

al-di-là, perso nel sangue e nel dolore<br />

delle future vittime, lei, interpretata da<br />

una Giovanna Mezzogiorno plurisenso,<br />

non sa dir di no. Proprio come, in un articolo<br />

cult, Indro Montanelli, che dichiarerà<br />

al duce tutta la sua fede omosessuale<br />

(etimologicamente: amo in lui lo stronzo<br />

che è in me, tipicissimo dell’italica stirpe,<br />

e segreto, neanche tanto, investimento<br />

per stravincere alle elezioni).<br />

Per lui la donna, giornalista e modista,<br />

si denuda francescanamente, consegnandogli<br />

tutti i suoi averi, in stile Senso,<br />

per permettergli di fondare Il Popolo<br />

d’Italia. Non è misoginia. Non lo erano<br />

neppure le cronache storiche di Visconti<br />

e di Rossellini (la stendhaliana Vanina<br />

Vanini). Si ritrova piuttosto, lì come qui,<br />

e qui è esplicita, nelle sequenze eros di<br />

cui sopra, la generosità archetipica del<br />

femminile/terra che prende in grembo<br />

di Leonardo Persia<br />

l’amante/figlio, che subito quest’ultimo<br />

ribalta in presa di possesso con occhi<br />

persi nel v(u)oto. Culto della dea trasformato<br />

in patriarcato. Fascista deriva da<br />

fascio che deriva da fascino che deriva<br />

da fallo. Il fallo è detto, più che esibito.<br />

Nelle parole fiere e false del futuro duce,<br />

un logos, la Dalser si perde, come poi<br />

l’Italia tutta. Sedotta e abbandonata,<br />

pure con bebé. Come la Edna Purviance<br />

de Il monello di Chaplin, citato in una<br />

proiezione per matti. Il nostro fardello<br />

di popolo tra i più conservatori e bigotti<br />

al mondo. Senza neppure credere e<br />

crederci.<br />

Eppure il duce credeva nella famiglia. E<br />

nei figli. Non credeva ai non-mariti, nonpadri,<br />

non-soldati, che neutralizzava al<br />

confino. Anche qui, in un certo senso,<br />

lui si esilia. E lei credeva nella donna<br />

emancipata. Giornalista e socialista.<br />

Il bimbo invece, poi cresciuto, crede a<br />

Freud e a Jean Vigo, nella ribellione contro<br />

il Padre, finendo però per esserne<br />

un clone stinto, satirico e sbeffeggiato.<br />

Come tanti sinistronzi di oggi, da cui è<br />

meglio sottrarre la pietas riservata al<br />

figlio sconfessato del duce. Oggi Fini<br />

crede nel multiculturalismo. E Berlusconi<br />

nelle libertà. Liberissimo Benito<br />

Albino Mussolini di morire a 27 anni, nel<br />

1942, in manicomio. Idem, cinque anni<br />

prima la madre, dopo un ventennio di<br />

elettro-choc e di vano tentativo di rigettare<br />

il fato, di cambiare le ultime note<br />

del melodramma. Ma come farlo quando<br />

ci si ostina a voler riconoscere chi non ti<br />

riconosce?<br />

Il leit-motiv di Marco Bellocchio (famiglia<br />

+ manicomio, contraltare di eros +<br />

massacro) si storicizza aprendosi al<br />

nostro immondo presente, dove ogni<br />

tentativo di opporsi alla storia <strong>già</strong> scritta<br />

appare vano. Attorno ad esso (e ad essi:<br />

Albino e Ida) sfila il festival vigliacco e<br />

ipocrita dell’italianità, dalla quale una<br />

discendente, Alessandra Mussolini, oggi<br />

nega i fatti, documentatissimi da Marco<br />

Zeni e poi da un docu di Fabrizio Laurenti<br />

e Gianfranco Norelli. Facciamoci i cazzi<br />

nostri. Proprio come i questurini, veri o<br />

per vocazione, che all’epoca fecero finta<br />

di non vedere e non sapere. Siamo o no<br />

› segue<br />

pag<br />

27

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