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ANNALI DELLA FACOLTÀ
DI LETTERE E FILOSOFIA
DELL’UNIVERSITÀ DI CAGLIARI
NUOVA SERIE XX (VOL. LVII), parte II - 2002
UNIVERSITÀ DI CAGLIARI
2003

ANNALI DELLA FACOLTÀ
DI LETTERE E FILOSOFIA
DELL’UNIVERSITÀ DI CAGLIARI
NUOVA SERIE XX (VOL. LVII) - 2002
II
SOMMARIO
RITA SAIU: L’insegnamento gesuitico della filosofia naturale all’Università di Cagliari
alla fine dei Seicento. Il caso di Antioco Sanjust (1657-1734) — ANDREA
CANNAS, Francesco Algarotti tra scienza e letteratura — GIORGIO PUDDU, La
crisi economica del 1812. Premesse, sviluppi di una congiuntura drammatica —
NICOLA GABRIELE: Vincenzo Todde e Lo Statuto. Proposte di istituzione di una
succursale della Banca Nazionale attraverso la stampa periodica — DANIELA
MURGIA: Verso una «science du concret». Su alcuni spunti interpretativi offerti
da L’Itinéraire philosophique de Maurice Blondel — GIUSEPPE PAULESU: Partito
e democrazia in Robert Michels: il confronto con la teoria politica weberiana —
GIANLUCA PITTALIS: L’eticizzazione dell’ecologia e l’ecologizzazione dell’etica nella
filosofia morale di Aldo Leopold — ENRICO BECCIU: Il messianismo di
ˇSabbetay Zevi in G. Scholem — MARTA CHESSA: Nichilismo e universo tecnologico
in Gianni Vattimo — PIETRO SALIS: Rorty e Habermas: un confronto sulla
ragione comunicativa — LAURA PALOMBA: La questione femminile nella cultura
ebraica contemporanea tra comunitarismo e liberalismo — GIUSEPPE SOLINAS:
L’opera di Tadeusz Kantor, pittore e regista di teatro d’avanguardia in Polonia
(1915-1990) — MARIA GIOVANNA TURUDDA: J. Lotman e I. Silone: lo spazio e
l’eroe in Vino e pane e La volpe e le camelie — MONICA CASSARINO: La Sicilia
babba di Gesualdo Bufalino — GIANNETTA MURRU CORRIGA: Perché l’orzo diventi
pane. I saperi femminili perduti.
EDIZIONI
AV
CAGLIARI - 2003

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RITA SAIU
L’INSEGNAMENTO GESUITICO
DELLA FILOSOFIA NATURALE ALL’UNIVERSITÀ
DI CAGLIARI ALLA FINE DEL SEICENTO
IL CASO DI ANTIOCO SANJUST
(1657-1734) (*)
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. «An cœlum sit ab intrinseco incorruptibile». – 3. «De
soliditate cœlorum».
1. Premessa. – Il rinnovamento storiografico degli studi sui Gesuiti
ha messo in luce negli ultimi decenni l’esigenza di contestualizzare le
attività della Compagnia di Gesù nelle specifiche realtà locali e ha
permesso così di rimettere in discussione quell’approccio storiografico
che considera l’ordine come un’istituzione centralizzata e gerarchizzata,
riducendo lo schema centro/periferia a una relazione di subordinazione.
Al contrario, gli studi locali mostrano, attraverso il
confronto tra fonti centrali e periferiche, l’inadeguatezza dell’immagine
di una Compagnia che avrebbe imposto universalmente l’uniformitas
et soliditas doctrinae ( 1 ).
(*) Desidero ringraziare la Prof.ssa Antonella Romano (C.N.R.S, E.H.E.S.S.)
per la sua grande disponibilità durante la mia permanenza a Parigi e per i suoi preziosi
suggerimenti.
( 1 ) «L’un des apports majeurs des études locales consacrées à la Compagnie est
d’en finir avec une interprétation des situations locales comme autant d’écarts par
rapport à la norme romaine. Les études de cas, s’appuyant sur un va-et-vient continu
entre sources centrales et sources périphériques, révèlent au contraire des processus
de négociation permanente et sur tous les terrains, qui rendent définitivement
caduque l’image d’un ordre monolithique et centralisé (image défendue tant
par les tenants que par les opposants de la Compagnie)», P.A. FABRE, A. ROMANO,
Présentation, in AA.VV., Les Jésuites dans le monde moderne. Nouvelles approches,
«Revue de Synthèse», n. 2-3, 1999, p. 253.

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RITA SAIU
La Sardegna, che faceva parte dell’Assistenza spagnola dell’ordine,
e nella quale esso svolse un ruolo importante per la formazione
della classe dirigente e del corpo docente delle Università di Cagliari
e di Sassari, offre un buon terreno per la verifica del rapporto centro/periferia.
Pur esistendo testi importanti sulla storia istituzionale
della Compagnia nell’isola e sulle sue attività religiose ed educative ( 2 ),
non sono numerosi gli studi volti a ricostruirne più specificamente
l’attività filosofico-scientifica. Lacuna tanto più evidente quando si
pensi che uno dei settori nei quali il rinnovamento storiografico è
stato più fecondo è quello della storia della scienza gesuitica ( 3 ). In
questa direzione, sollecitati anche da alcune affermazioni relative al-
( 2 ) Si vedano A. ARAMU, Storia della Compagnia di Gesù in Sardegna, Genova,
Ed. S.I.G.L.A., 1939; P. LEO, I Gesuiti nell’Università di Cagliari, «Atti del Convegno
di Studi Religiosi Sardi», 24-26 maggio 1962, Padova, A. Milani, 1963, pp. 127-145;
E. PUTZULU, La partecipazione dei Padri Gesuiti all’insegnamento nell’Università di
Cagliari in un documento inedito del 1626, «Studi Sardi», Vol. XII-XIII, parte II,
Gallizzi, Sassari, 1955, pp. 321-326, e in particolare gli studi di R. TURTAS, La nascita
dell’Università sarda, «La Sardegna. Enciclopedia», Cagliari, Ed. Della Torre,
vol. I, 1982, pp. 137-144; ID., La nascita del’Università in Sardegna. La politica
culturale dei sovrani spagnoli nella formazione degli Atenei di Sassari e di Cagliari
(1543-1632), Sassari, Università degli Studi, s.a., 1990; ID., Storia della Chiesa in
Sardegna dalle origini al duemila, Roma, Città nuova, 1999.
( 3 ) Si vedano U. BALDINI, Legem impone subactis. Studi su filosofia e scienza dei
gesuiti in Italia 1540-1632, Roma, Bulzoni, 1992; R. GATTO, Tra scienza e immaginazione.
Le matematiche presso il Collegio gesuitico napoletano (1552-1670 ca), Firenze,
Olschki, 1994. Ugo Baldini, analizzando l’attività del Collegio romano nel
periodo iniziale, caratterizzato dall’influenza del matematico Christophorus Clavius
(1537-1612), sottolineava la necessità di non considerare la produzione
scientifica dei gesuiti come un blocco conservatore che rifiutava le nuove scoperte,
ma al contrario di mettere in luce il ruolo della Compagnia nell’affermazione della
scienza moderna. Ma sono soprattutto le ricerche di Romano Gatto sul Collegio
di Napoli a mostrare le principali direzioni del rinnovamento storiografico: da un
lato, uno spostamento dell’interesse dal centro romano alle tradizioni scientifiche
locali, dall’altro, la considerazione dell’ordine, non come un’istituzione isolata,
ma come uno dei protagonisti del dibattito scientifico del tempo. Studi recenti
sottolineano i legami della storia della scienza gesuitica con la storia sociale degli
ambienti intellettuali, riconoscendo ai membri della Compagnia, accanto al tradizionale
ruolo di educatori, una partecipazione attiva alla sociabilité scientifique dell’epoca
moderna ai tre livelli della formazione del personale accademico, della produzione
e della circolazione del sapere. A questo proposito, si veda A. ROMANO,
Entre collèges et académies. Esquisse de la place des jésuites dans les réseaux européens
de la production scientifique (XVII e -XVIII e siècles), in Académies et sociétès savantes
en Europe, 1650-1800, «Actes du Colloque international de Rouen (14-17 nov.
1995)», Paris, Champion, 2000, pp. 387-407. ID., Les colleges jésuites, lieux de sociabilité
scientifique 1540-1640, «Bulletin de la Societé d’histoire moderne et contemporaine»,
1997/3-4, pp. 6-21.

L’insegnamento gesuitico della filosofia naturale all’Università di Cagliari
l’arretratezza culturale della Sardegna ( 4 ), si è intrapresa una ricerca
su alcuni gesuiti sardi che insegnarono all’Università di Cagliari nell’arco
di tempo compreso tra il 1628 e il 1693 e in particolare su
Antioco Sanjust (1657-1734) ( 5 ).
Sanjust cominciò i suoi studi all’Università di Cagliari, frequentando
per cinque anni la facoltà di diritto canonico. Nel 1675 si trasferì
a Salamanca per conseguire i gradi, immatricolandosi al quinto
anno della facoltà di leggi e di quella di diritto canonico. Ammesso
nella Compagnia il 12 gennaio 1676, conseguì il baccellierato in diritto
canonico il 13 febbraio 1677 e pronunciò i vota consueta il 13
gennaio 1678. La professione dei quattro voti che avveniva al compimento
di un lungo corso di studi (tre anni di filosofia e quattro di
teologia) ed era la condizione per accedere a incarichi di responsabilità
sia nell’insegnamento che all’interno dell’istituzione locale, data
15 agosto 1690.
Nella gerarchia dei poteri in seno alla Compagnia, il gesuita cagliaritano
ricoprì diversi incarichi importanti per il funzionamento
delle “case” gesuitiche, come quello di praefectus studiorum inferio-
( 4 ) Si veda U. BALDINI, La scuola galileiana e l’attività scientifica nel primo Settecento,
«Storia d’Italia», Annali III, Torino, Einaudi, 1980, pp. 383-462 e 467-
529. Baldini, analizzando l’attività scientifica tra la seconda metà del Seicento e i
primi decenni del Settecento, afferma che la situazione culturale nell’isola è “depressa”
e che una tradizione scientifica si costituirà solo nella seconda metà del
Settecento.
( 5 ) Le due date indicate si riferiscono rispettivamente alle opere dei gesuiti Salvator
Pala, Tratado de algunas sciensias matemáticas, e Antioco Sanjust, Triennii
philosophici annus tertius. Philosophiae naturalis partem alteram ad Aristotelis Stagiritae
mentem exponens in alma generali Sardiniae Universitate Calaritana […]. Per
quest’ultimo si veda la scheda biografica in appendice per la quale si sono utilizzati
i dati dei Catalogi Breves e dei Catalogi Triennales, conservati presso l’Archivum
Romanum Societatis Jesu. Oltre alle informazioni biografiche ricavate dal catalogus
primus (luogo di nascita, età, stato di salute, data d’ingresso nell’ordine, studi, impieghi
esercitati anteriormente, grado universitario, tipo di voti pronunciati nella
Compagnia), i Catalogi triennales comprendono un catalogus secundus, generalmente
compilato dal superiore locale, anche se firmato dal Provinciale, che forniva
per ogni gesuita delle osservazioni sul giudizio, la prudenza, l’esperienza, la cultura,
la complessione naturale, le capacità. Si vedano in appendice i giudizi sul
Sanjust riportati nei Catalogi secundi relativi agli anni 1678-1734. A proposito
dell’affidabilità di questi cataloghi, occorre sottolineare che «l’utilisation statistique
des renseignements biographiques est plus fiable que l’usage des renseignements
pontuels concernant un individu. Lorsqu’un renseignement particulier, une
date, un lieu de naissance, etc., est contredit par une autre source, le catalogue n’as
pas d’autorité particulière». A. DEMOUSTIER, La distinction des fonctions et l’exercice
du pouvoir selon les règles de la Compagnie de Jésus, in L. GIARD, Les Jésuites à la Renaissance.
Système educatif et production du savoir, Paris, PUF, 1995, pp. 6-7.
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RITA SAIU
rum e praefectus studiorum superiorum, di praefectus rerum spiritualium,
di praefectus sacristiae, et bibliothecarum ( 6 ). Nella Domus Probationis
( 7 ) svolse l’incarico di minister instructor philosophorum e di
instructor Patrum qui in tertio probationis anno versanti. Ricoprì,
inoltre, le funzioni di magister novitiorum, incaricato della prima
formazione religiosa, examinator dei candidati all’ingresso nella
Compagnia, confessarius nostrorum et externorum. Ancora, svolse
funzioni di consigliere del Provinciale in qualità di admonitor, col
compito di garantire la libertà di corrispondenza con i superiori, e di
consultor Provinciae, incarico che consisteva nell’informare il Provinciale
della situazione della casa. Sanjust ricoprì, infine, per dodici
anni la carica di rettore, per tre anni del seminario cagliaritano e per
altrettanti della Domus Probationis, per sei anni del collegio cagliaritano
( 8 ).
Per quanto riguarda la sua lunga carriera di docente, dopo aver
insegnato grammatica e humanae litterae, nel triennio 1690-1693 fu
lector philosophiae all’Università di Cagliari, nel 1694 lector philosophiae
moralis, quindi insegnò teologia scolastica per nove anni
(1695-1703), e dal 1707, per quattro anni, sacra scrittura. Al corso
di filosofia tenuto nell’anno 1693-1694 era destinato il manuale,
Philosophia naturalis et transnaturalis ad Aristotelis Stagiritae mentem,
sive physica et metaphysica che rispecchia i contenuti indicati nella
Ratio studiorum per il terzo anno del “triennio filosofico” ( 9 ). Benché
( 6 ) Sulle diverse funzioni all’interno della Compagnia, si veda A. DEMOUSTIER,
cit., pp. 3-33.
( 7 ) La Domus Probationis era il noviziato in cui i nuovi membri dell’ordine trascorrevano
normalmente due anni prima di pronunciare i voti. Nella prima probazione
si faceva un esame generale, la seconda era il noviziato di due anni, la terza
un ulteriore anno di noviziato prima dell’integrazione definitiva dei sacerdoti
nell’ordine. Si vedano le voci Domus e Probatio, in A. GRAMATOWSKI, Glossario gesuitico.
Guida all’intelligenza dei documenti, Roma 1992, p. 23 e p. 44.
( 8 ) Il rettore, nominato direttamente dal Generale, aveva l’intera responsabilità
della sua casa e la piena autorità, anche se il suo potere era limitato dalle Regole del
rettore. Si veda M. SALOMONE (a cura di), Ratio atque institutio studiorum Societatis
Jesu, Milano, Feltrinelli, 1979, pp. 37-41. Si veda inoltre la voce Rectores, in A.
GRAMATOWSKI, cit, p. 47.
( 9 ) Il testo normativo della Ratio, scritto tra il 1580 e il 1599, non è il risultato
di un’imposizione dall’alto ma, conformemente alla scelta iniziale del fondatore
della Compagnia, il prodotto di un lungo dialogo tra il centro romano e le periferie.
Una delle fonti che alimentarono questo dibattito sono le Constitutiones, in
particolare la parte IV. Cfr. IGNAZIO DI LOYOLA, Gli scritti, a cura di M. Gioia, Torino,
Utet, 1977, pp. 433-652. Della Ratio studiorum esistono tre versioni, la prima
del 1580, la seconda del 1591 e la terza, quella definitivamente adottata nel

L’insegnamento gesuitico della filosofia naturale all’Università di Cagliari
i documenti normativi, come le Costituzioni o la Ratio studiorum, restino
strumenti indispensabili, il confronto tra queste fonti ed altre,
quali i cataloghi del personale, i manuali e i manoscritti dei corsi, è
importante per ricostruire, al di là dei programmi ufficiali, le «pratiche
educative reali» messe in atto dalla Compagnia.
L’opera del Sanjust è divisa in due parti: la prima, sulla filosofia
naturale, comprende tre trattati, la seconda, dedicata alla metafisica,
consta di quattro disputationes ( 10 ). L’articolazione è complessa: i
1615, del 1599. Cfr. L. LUKACS (ed.), Monumenta paedagogica Societatis Jesu, vol. V,
Ratio studiorum 1586, 1591-92, 1599, Roma 1986 e per la traduzione italiana M.
SALOMONE (a cura di), cit. Salomone fa riferimento all’edizione definitiva del
1599. Si veda anche D. Julia, L’elaboration de la «Ratio studiorum», in A. DEMOU-
STIER, D. JULIA (présenté par) Ratio studiorum. Plan raisonné et institution des études
dans la Compagnie de Jésus, Paris, Belin, 1997, pp. 29-69. Le «Regole del Professore
di Filosofia» concernono i contenuti dell’insegnamento, largamente ripresi da
San Tommaso e da Aristotele e l’articolazione dei corsi annuali. Nel primo anno il
professore spiegava i fondamenti della logica sulla base dei commenti ad Aristotele
di Franciscus Toletus e di Pedro da Fonseca, il secondo libro del De interpretazione
e i due libri degli Analitica priora. L’ultima parte del programma, da trattare in
una dissertazione alla fine dell’anno, consisteva in un’introduzione alla Physica aristotelica:
«la suddivisione delle scienze, le astrazioni, la parte speculativa e quella
pratica, la subalternazione, il diverso modo di procedere in fisica e in matematica».
Alle lezioni di filosofia naturale si affiancavano, nel secondo anno, quelle di
matematica con la spiegazione degli Elementi di Euclide e «cenni di geografia e
sulla sfera celeste». Quanto alla physica, il programma prevedeva la lettura e la
spiegazione degli otto libri della Fisica di Aristotele. Del VI e VII libro doveva fornirsi
un compendio, il libro VIII doveva essere trattato limitatamente alle «cose
terrestri»: «non si deve dir nulla sul numero delle intelligenze, sulla libertà e sull’infinità
del primo motore», temi riservati al corso di metafisica. Ai libri della Fisica
seguiva la trattazione del De coelo, i cui libri II, III e IV dovevano essere riassunti,
«anzi per la maggior parte tralasciati». Quindi, l’esposizione e il commento
del primo libro del De generatione e la trattazione dei Meteorologica. Il terzo anno
era dedicato alla metafisica: il programma comprendeva il secondo libro del De generatione,
i libri del De anima, anticipati nei corsi di logica e di fisica, e infine la
Metafisica nella quale dovevano essere tralasciate le questioni propriamente teologiche,
che «dipendono in massima parte dalle verità insegnate dalla fede divina».
M. SALOMONE (a cura di), cit., pp. 65-67.
( 10 ) Il manoscritto del Sanjust, che proviene «ex libris Efisij Bonaventurae Massa
ex oppido Sanctae Justae» (Efisio Bonaventura Massa era stato auditore del corso), è
conservato nel Fondo Baille della Biblioteca Universitaria di Cagliari (d’ora in poi
B.U.C.). Consta di 577 pp. ed è diviso in due parti: una dedicata alla philosophia naturalis,
la physica («Triennii philosophici annus tertius. Filosophiae naturalis partem alteram
ad Aristotelis Stagiritae mentem exponens in alma generali Sardiniae Uniuersitate
Calaritana 14. kalendas 9mbris anno salutis reparatae 1693»), e l’altra alla philosophia
transnaturalis, la metafisica («Triennii phylosophici pars ultima. Transnaturalem
philosophiam ad Aristotelis Stagiritae mentem exponens in alma generali Sardiniae
Uniuersitate Calaritana. Die XI Iunij anno salutis reparatae 1694»). La prima parte si
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RITA SAIU
trattati comprendono diverse disputationes articolate in quaestiones
per ognuna delle quali si discutono varie conclusiones con le obiezioni
e le relative risposte ( 11 ).
Ci soffermeremo sulla prima e sulla seconda disputatio del trattato
De mundo et cœlo, consacrate rispettivamente al mondo e al corpo
celeste, perché nel Seicento è la cosmologia il terreno nel quale si realizzano,
in tempi e modi diversi in relazione ai contesti locali, complessi
intrecci tra le concezioni tradizionali e le posizioni dei novatores
( 12 ). La questione della uniformitas et soliditas doctrinae, perseguita
compone di tre trattati, numerati IV, V e VI. Il Tractatus IV. De mundo, et cœlo è articolato
in cinque disputationes: la prima, De mundo, è divisa in tre quaestiones che
trattano rispettivamente «de unitate et perfetione mundi», «resoluuntur aliqua de mundo»,
«an sint possibiles plures mundi». La seconda disputatio, De corpore cœlesti, tratta
nella prima quaestio «an coelum sit quinta substantia simplex», nella seconda «an materia
coeli sit eiusdem speciei cum sublunari», nella terza «an coelum sit ab intrinseco incorruptibile»,
nella quarta «an forma coeli sit creata vel educta», nella quinta «an coelum
sit animatum», nella sesta «de soliditate et numero coelorum», nella settima «de influxu
coelestium in sublunaria», nell’ottava «reliqua de coelo resoluuntur». La terza disputatio,
De corpore cœlesti (cœlesti sembrerebbe una svista per sublunari) è divisa in
quattro quaestiones che trattano rispettivamente: «Quid, et quotuplex sit elementum»,
«Quid, et quotuplex sit primaria qualitas», «Quomodo primariae qualitates conveniant
elementis», «Resoluuntur aliqua de elementis». La quarta disputatio, De corpore perfecte
mixto, tratta in due quaestiones, «Quid sit corpus perfecte mixtum» e «An elementa maneant
formaliter in mixto perfecto». La quinta, De mixtis imperfectis, sive metheoris è
divisa in sei quaestiones: «Quaenam sint causae metheororum», «De meteoris lucidis»,
«De meteoris igneis», «De meteoris aqueis», «De fontibus fluvijs, maris salcedine et estu»,
«De meteoris aereis et alijs mixtis perfectis». Il Tractatus V. De ortu et interitu e il
Tractatus VI. Animasticus, sono entrambi articolati in quattro disputationes, rispettivamente
intitolate «De generatione et corruptione substantialis», «De augmentatione et
diminutione», «De intensione et remissione qualitatis», «De activitate et resistentia qualitatum»,
e «De anima eiusque potentiis in comuni», «De anima et eius potentiis in particulari»,
«De specie impressa», «De anima rationali et eius potentiis». Nella pars ultima
del triennio filosofico, consacrata alla filosofia transnaturale, ad un proemio di metafisica
seguono quattro disputationes: «De natura et attributis entis», «De possibilitate
essentia et existentia entis», «De subsistencia», «De ente rationis».
( 11 ) I membri della Compagnia facevano ricorso ai termini del lessico universitario
medievale, quaestio, lectio, disputatio e al metodo della scolastica, la disputa,
che procedeva per quaestiones e conclusiones. Le conclusiones erano precedute dalle
opiniones storicamente sostenute ed erano seguite da objectiones, spesso assai articolate,
con corrispondenti responsiones.
( 12 ) Si veda G. BARONCINI, L’insegnamento della filosofia naturale nei collegi italiani
dei Gesuiti (1610-1670): un esempio di nuovo aristotelismo, in G.P. BRIZZI, (a
cura di), La Ratio studiorum. Modelli culturali e pratiche educative dei Gesuiti in
Italia fra Cinquecento e Seicento, Roma, Bulzoni, 1981, pp. 163-215. Nelle Costitutiones,
Ignazio di Loyola prescriveva di seguire nell’insegnamento della teologia
e della filosofia due autorità, S. Tommaso e Aristotele, ma il nuovo aristotelismo

L’insegnamento gesuitico della filosofia naturale all’Università di Cagliari
dalla Compagnia, non può nascondere il fatto che sui temi cosmologici
si fronteggiavano diverse posizioni: per esempio, la cosmologia di
Christophorus Clavius, di ispirazione aristotelico-tolemaica, non era
condivisa unanimemente dagli astronomi della Compagnia. D’altra
parte, la stessa formazione di un’ortodossia gesuitica non poteva prescindere
dalla consapevolezza di una tensione tra rispetto della tradizione
e volontà di rinnovarla.
Analizzeremo in particolare due quaestiones, «An cœlum sit ab intrinseco
incorruptibile» e «De soliditate coelorum», tentando di mettere
in luce le fonti del Sanjust, in particolare l’influenza dei Commentari
Conimbricenses ( 13 ), e gli aspetti conservatori e/o innovatori della
sua trattazione.
2. «An cœlum sit ab intrinseco incorruptibile». – Tra le quaestiones
di maggiore rilevanza nel dibattito filosofico-scientifico del Seicento,
troviamo quelle sull’incorruttibilità e sulla solidità dei cieli, due capisaldi
della concezione aristotelica ( 14 ). I Conimbricenses nel Commentario
al De coelo difendevano l’incorruttibilità dei cieli che rite-
insegnato nei collegi gesuitici non poteva essere una riproposizione dell’aristotelismo
cristiano medievale. Nell’«architettura concettuale fondata su Aristotele», occorre
allora districare gli intrecci tra vecchio e nuovo, sottolineando la flessibilità
mediante la quale contenuti “moderni” venivano inglobati nella physica e nello
stesso tempo si difendeva la continuità con la tradizione metafisica. Sulla filosofia
naturale dei gesuiti, si vedano anche U. BALDINI, Legem impone subactis, cit. e
C.H. LOHR, Les jésuites et l’aristotélisme du XVI siècle, in L. GIARD, cit., pp. 79-91.
( 13 ) Il Corso dei gesuiti di Coimbra, della cui redazione fu incaricato il Padre Pedro
da Fonseca (1528-1599), poi sostituito dal Padre Manuel de Góis, comprendeva
cinque volumi, il primo, il Commentario alla Fisica di Aristotele, fu pubblicato nel
1592, gli altri nell’arco di quindici anni. Per indicazioni bibliografiche sui Commentarii
Conimbricenses, si vadano C.H. LOHR, Latin Aristotle Commentaries. Renaissance
Authors, Firenze Olschki, 1988, pp. 98-99 e 150-151; J.S. DA SILVA DIAS, O Canone
filosofico Conimbricense (1592-1606), «Cultura-Historia e Filosofia», 4, 1985, pp. 257-
370; A. DINIS, Tradiçao e Transiçao no Curso Conimbricense, «Revista Portuguesa de
Filosofia», 47, 1991, pp. 535-560; ID., O Comentario Conimbricense à Fisica de Aristoteles,
«Brotéria», vol. 134, n. 4, 1992, pp. 398-406.
( 14 ) Sulle quaestiones in esame, si vedano C. DOLLO, Le ragioni del geocentrismo
nel Collegio Romano, in M. BUCCIANTINI, M. TORRINI (a cura di), La diffusione del copernicanesimo
in Italia 1543-1610, Firenze, Olschki, 1997, pp. 99-167; E. GRANT,
Planets, Stars, and Orbs. The Medieval Cosmos, 1200-1687, Cambridge Universities
Press, 1996, pp. 189-219 e 325-370; M.P. LERNER, Le problème de la matière céleste
après 1550: aspects de la bataille des cieux fluides, «Revue d’Histoire des Sciences», 42,
1989, pp. 255-280; ID., L’entrata di Ticho Brahe tra i gesuiti o il canto del cigno di
Clavio, in L. GIARD, cit., pp. 145-185; ID., Le monde des sphères, Paris, Les Belles
11

12
RITA SAIU
nevano dimostrata dalla costanza dei fenomeni osservati nella regione
celeste nel corso dei tempi ( 15 ). Questo argomento fu però messo
in discussione dalle nuove scoperte, quali le osservazioni della nova
del 1572 e della cometa del 1577, che sembravano, invece, provare
la corruttibilità dei cieli. Proprio l’analisi del movimento delle comete
costituiva, secondo Tycho Brahe, la prova che esse non erano
fissate ad orbi solidi, ma si spostavano liberamente attraverso un
mezzo fluido: «per Cometarum motus prius ostensum & liquido comprobatum
fuerit, ipsam Coeli machinam non esse durum & impervium
corpus varijs orbibus realibus confertum, ut hactenus a plerisque creditum
est, sed liquidissimum & simplicissimum» ( 16 ). D’altra parte, il rifiuto
delle sfere solide non comportava necessariamente l’ammissione
della corruttibilità del cielo che avrebbe implicato l’abolizione
della distinzione, che lo stesso Tycho Brahe continuava a difendere,
tra mondo celeste e mondo terrestre.
Le reazioni alle scoperte dell’astronomo danese e successivamente
a quelle di Galileo Galilei furono diverse: se alcuni cercarono di
adattare la teoria tradizionale alle nuove scoperte, ci fu anche chi
continuò a difendere l’immutabilità dei cieli: o affermando che i
nuovi fenomeni erano in realtà sublunari (e spiegandoli in generale
come risultato di inganni dei sensi o degli strumenti), o spiegando le
comete e le nuove stelle, per non dover ricorrere a una nuova generazione
di sostanza celeste, con la presenza di corpi sempre esistiti
nel cielo e perciò ingenerati, o ancora, invocando una loro origine
soprannaturale. In virtù di quest’ultima spiegazione, adottata dai
Gesuiti di Coimbra come la più probabile, e riproposta ancora nel
Settecento, le comete e le nuove stelle non potevano essere considerate
come naturali alterazioni dei cieli, la cui incorruttibilità non veniva
pertanto intaccata.
Se nella prima metà del Seicento si cercava una spiegazione dei
nuovi fenomeni celesti che salvasse l’incorruttibilità de facto, dopo la
metà del secolo era frequente l’ammissione della corruttibilità. E
tuttavia, nel 1693, Sanjust affermava come unica conclusio la tesi aristotelica,
secondo la quale «cœlum est ab intrinseco et ex natura sua
incorruptibile». Dopo un accenno all’opinione degli antichi filosofi,
Lettres., 1996-1997, 2 voll., pp. 3-72; E. ROSEN, The dissolution of the Solid Celestial
Spheres., «Journal of the History of Ideas», vol. 46, n. 1, 1985, pp. 13-31.
( 15 ) Cfr. Commentarii Collegii Conimbricensis Societatis Jesu in quatuor libros de
Coelo Aristotelis Stagiritae, Coimbra, 1592, libro 1, cap. 3, q. 1, art. 2.
( 16 ) T. BRAHE, De mundi aetherei recentioribus phaenomenis, in Opera omnia,
ed. J.L.E. Dreyer, Copenhagen, 1913-1929, vol. IV, p. 159.

L’insegnamento gesuitico della filosofia naturale all’Università di Cagliari
seguiti da alcuni neoterici, che negarono l’incorruttibilità dei cieli,
essa viene dedotta da un tradizionale argomento aristotelico-scolastico:
la mancanza nei cieli di qualitates antitetiche che possono manifestarsi
solo tra gli elementi sublunari. Il cielo non ha una causa intrinseca
di corruzione perché essa risiede in «dispositiones formae habentes
accidencia sibi contraria a quibus possit expelli», ma «dispositiones
formae coelestis non habent accidencia sibi contraria» ( 17 ).
La prima obiezione discussa dal gesuita sardo è quella secondo la
quale il cielo ha invece un’intrinseca radice di corruzione ed è dunque
corruttibile. La radice della corruzione, come sostiene Aristotele, è la
materia prima perché essa è indifferente alle forme da ricevere. Sanjust
risponde negando che la materia in sé sia radice della corruzione, e
concedendo che sia causa di corruzione solo la materia affetta da disposizioni
aventi un contrario: «Materia prima secundum se est indiferens
ut sit proxima radix corruptionis et incorruptionis per hoc quod possit
sucipere tum accidencia corruptibilia tum incorruptibilia» ( 18 ).
Se poi si adducono come prova alcuni passi della Scrittura dai
quali sembra concludersi che i cieli devono essere distrutti nel giorno
del Giudizio, i testi sacri, argomenta Sanjust, «esse inteligendos de
renovatione accidentali aut mundi purgatione» ( 19 ). Egli riprende la
concezione dei Conimbricenses i quali, armonizzando la concezione
aristotelica con la dottrina cristiana, sostenevano che i corpi celesti
sono per loro natura incorruttibili, e dunque nel giudizio finale non
saranno distrutti, né soggetti a mutazioni sostanziali, ma saranno illuminati
da Dio con una nuova luce. Ma la tesi dell’incorruttibilità
dei cieli era contraddetta soprattutto dai nuovi fenomeni astronomici,
come le apparizioni delle comete, a proposito delle quali «aliqui
respondent formas illarum cometarum fuisse introductas in materia de
novo producta ad fines nobis occultos; alij vero dicunt fuisse introducta
in materia coeli per miraculum» ( 20 ). Sanjust condivide la spiegazione
di coloro i quali, non ammettendo la possibilità di una mutazione
( 17 ) Triennii philosophici annus tertius. Filosophiæ naturalis partem alteram ad
Aristotelis Stagiritæ mentem exponens in alma generali Sardiniae Uniuersitate Calaritana
14. kalendas 9bris anno salutis reparatæ 1693. Autore Reverendo Patre Antioco
Saniust. Auditore Efisio Bonauentura Massa Santæ Iustæ, B.U.C., Fondo Baille, Ms.
n. S.P.6.7.65, Microfilm 936 pos. (852 neg.), p. 28.
( 18 ) Ibidem, p. 19.
( 19 ) Ibidem.
( 20 ) Ibidem, p. 20. Per il dibattito sulle comete si veda O. BESOMI, M. CAMERO-
TA, Galileo e il Parnaso Tychonico. Un capitolo inedito del dibattito sulle comete tra
finzione letteraria e trattazione scientifica, Firenze, Olschki, 2000.
13

14
RITA SAIU
sostanziale nella materia celeste, ricorrevano all’intervento miracoloso
di Dio.
Egli conclude, in primo luogo, che la forma del cielo non può essere
prodotta da un agente naturale creato: «cœlum non nisi á Deo esse naturaliter
producibile tamquam á causa principali», in secondo luogo, che il
cielo è incorruttibile perché «id quod á solo Deo tamquam á causa principali
potest pendere in esse et conservari est ab intrinseco incorruptibile»
( 21 ). L’ente che può esistere ed essere conservato solo da Dio come causa
principale non ha alcuna causa di corruzione, né intrinseca perché
non ha qualità che possono essere distrutte da un agente naturale, né
estrinseca perché causa estrinseca di corruzione è quella che può naturalmente
o far venir meno o produrre qualità corruttibili e contrarie.
3. «De soliditate cœlorum». – La seconda questione, «sulla solidità
dei cieli», ha dato origine a un lungo dibattito all’interno della
Compagnia. Ancora alla metà del Cinquecento, la dottrina cosmologica
dominante difendeva l’esistenza delle sfere celesti solide: essendo
i pianeti incapaci di muoversi attraverso i cieli «tamquam pisces in
aqua o aves in coelo», secondo una analogia frequentemente impiegata
nelle opere del tempo, essi dovevano essere trasportati da orbi nei
quali erano confissi. Tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento,
i nuovi fenomeni celesti misero in discussione le basi della cosmologia
aristotelica-tolemaica, portando a negare l’esistenza delle
sfere planetarie solide in cui gli astri si trovavano incastonati
«tamquam nodi in tabula aut clavi in rota».
Nei corsi tenuti a Lovanio tra il 1570 e il 1572, Roberto Bellarmino
(1542-1621), che fu uno dei protagonisti del processo di distruzione
delle sfere celesti solide, affermava che i corpi celesti si
muovevano liberamente attraverso un medio fluido «come gli uccelli
nell’aria e i pesci nel mare» ( 22 ). Le novae del 1572 e del 1604, le comete
apparse nell’ultimo quarto del secolo che Tycho Brahe dimostrò
essere fenomeni celesti e non sublunari come sosteneva Aristotele,
le osservazioni galileiane sulla irregolarità della luna, sui satelliti
di Giove, sulle fasi di Venere e sulle macchie solari, fornirono gli argomenti
più significativi in favore della fluidità dei cieli, anche se
( 21 ) Triennii philosophici …, cit., p. 20.
( 22 ) Cfr. The Louvain Lectures (Lectiones Lovanienses) of Bellarmino and the Autograph
Copy of his 1616 Declaration to Galileo, ed. U. Baldini e G.V. Coyne, Città
del Vaticano, 1984, pp. 8-23. Si veda anche M.P. LERNER, Le problème de la
matière céleste …, cit.

L’insegnamento gesuitico della filosofia naturale all’Università di Cagliari
non mancarono argomenti tratti dalle Scritture e dai Padri della
Chiesa. Nondimeno, la credenza nell’esistenza delle sfere solide era
ancora comune a cavallo tra Cinquecento e Seicento: i gesuiti di
Coimbra, nel Commentario al De Coelo, affermavano che «coelum
non est naturae fluidae sed consistentis et solidae» ( 23 ). Le orbite dure
erano difese ancora nel 1590 dal gesuita spagnolo Benedictus Pererius
(1535-1610), professore al collegio Romano ( 24 ) e nel 1614 il
generale Acquaviva scriveva a Christoph Scheiner che non si dovevano
pubblicare opere che, sulla base di osservazioni ancora incerte,
ammettevano la fluidità dei cieli ( 25 ).
Nonostante il graduale abbandono della dottrina della solidità
dei cieli a favore di quella della loro fluidità, a cui diede un contributo
decisivo la Rosa Ursina (1630) di Christoph Scheiner ( 26 ), vi
era ancora chi ne difendeva l’esistenza, o affermando che le nuove
scoperte non implicavano i cieli fluidi, o più radicalmente, negandole.
Anche gli argomenti scritturali giocavano un ruolo rilevante nella
difesa della solidità dei cieli, in particolare, il celebre passo di Giobbe
(37, 18) dove si trova la comparazione tra i cieli solidi e il bronzo
(«quasi aere fusi»). In realtà, alcuni passi biblici erano utilizzati come
supporto a entrambe le tesi: allo stesso passo di Giobbe si richiamavano,
per esempio, coloro che sostenevano la congruità tra Sacra
Scrittura e fluidità celeste, fondandosi sul commentario al libro di
Giobbe del gesuita spagnolo Juan de Pineda ( 27 ).
( 23 ) Commentarii …, cit., libro 1, cap. 3, q. 1, art. 4.
( 24 ) Il trattato del Pereira, De communis omnium rerum naturalium principiis
(1576) fu una delle più note sintesi gesuitiche di physica. Sul gesuita spagnolo si
veda Camb. Hist., pp. 228-229, 606-611, e 798-799.
( 25 ) La lettera di Acquaviva è citata in J. BRUCKER, La Compagnie de Jésus.
Esquisse de son Institut et de son histoire, 1521-1773, Paris 1919, p. 494.
( 26 ) Si veda C. DOLLO, Tanquam nodi in tabula – Tanquam pisces in aqua. Le
innovazioni della cosmologia nella “Rosa Ursina” di Christoph Scheiner, in U. BALDI-
NI (a cura) Christoph Clavius e l’attività scientifica dei gesuiti nell’età di Galileo,
«Atti del Convegno internazionale (Chieti 28-30 apr. 1993)», Roma, Bulzoni,
1995, pp. 133-158. Su questi temi il dibattito all’interno della Compagnia era
aperto, come testimonia la vicenda della censura delle tesi della fluidità e corruttibilità
dei cieli sostenute da Giuseppe Biancani, allievo di Clavio e professore di
matematica al Collegio di Parma. Se per il revisore generale dell’ordine, Giovanni
Camerota, le opinioni tychoniche del Biancani andavano censurate, al contrario,
alcuni anni più tardi il matematico Christoph Griemberger mostrava una concezione
della censura aperta al confronto con le innovazioni.
( 27 ) Il riferimento a Pineda è presente, per esempio, nella Rosa Ursina di Christoph
Scheiner e nel Tractatus astrologiae di Cristoforo Borri dove per spiegare il
15

16
RITA SAIU
Dal 1630, comunque, all’insegnamento della solidità dei cieli si
sostituì progressivamente nei collegi gesuitici, quello della loro fluidità.
Da questa data, i gesuiti spagnoli, e soprattutto quelli portoghesi,
accolsero la svolta di Tycho Brahe con la quale il cielo cessò di
essere costituito «di orbite reali, dure e impenetrabili» ( 28 ). Se in alcune
opere di filosofia naturale anteriori al 1630, come il Commentario
al De coelo dei Conimbricenses, il Commentario del De coelo di
Antonio Rubio (1548-1615), le Disputationes de Universa Philosophia
di Pedro Hurtado de Mendoza (1578-1651) si sosteneva che
la materia del cielo non era fluida, ma consistentis et solidae, in opere
posteriori a questa data, come i Collecta Astronomica di Cristoforo
Borri (1583-1632), il Cursus Philosophicus di Rodrigo de Arriaga
(1592-1667), il Cursus Philosophicus di Franciscus de Oviedo (1602-
1651), era invece comune la difesa della fluidità dei cieli.
Anche sui cieli fluidi, tuttavia, le posizioni all’interno della Compagnia
erano differenziate: alcuni gesuiti, come Giovanni Battista
Riccioli (1598-1671), ammisero la fluidità del cielo dei pianeti, che
benché non fosse matematicamente né fisicamente evidente, era ritenuta
più probabile della solidità perché in accordo con le osservazioni
astronomiche, ma continuarono a sostenere la solidità del cielo
delle stelle fisse. Altri, come Franciscus De Oviedo, ritennero che se
la solidità dell’empireo non era in discussione, il cielo delle stelle fisse
poteva essere fluido come quello dei pianeti ( 29 ).
passo dei cieli «solidissimi quasi aere fusi sunt» si ricorreva all’interpretazione pinediana
del termine solidissimi, che indicava la «perpetuitas et constantia aeris». Massimo
Bucciantini ha mostrato la rilevanza del dibattito anche nell’ambiente galileiano.
Nello scritto Della penetrazione e corruttibilità del cielo (1611), Giovanbattista
Agucchi, prendendo spunto dal celebre passo di Giobbe: «Hai tu forse disteso con
lui il firmamento, solido come specchio di metallo fuso», intendeva mostrare che
esso doveva essere inteso in senso figurato. La metafora dei cieli come «specchio di
metallo fuso» andava spiegata facendo riferimento alla loro «politezza o splendore»
e non alla loro durezza. Del resto, in altri luoghi della Scrittura si ammetteva che i
cieli erano soggetti a generazione e corruzione, come comprovavano le osservazioni
astronomiche. Si veda M. BUCCIANTINI, Teologia e nuova filosofia. Galileo, Federico
Cesi, Giovanbattista Agucchi e la discussione sulla fluidità e corruttibilità del cielo,
in Sciences et Religions. De Copernic à Galilée (1540-1610), École française de
Rome, 1999, pp. 411-442.
( 28 ) Si veda W.G.L. RANDLES, Le ciel chez les jésuites espagnols et portugais
(1590-1651), in L. GIARD, cit., pp. 129-144. Solidità non è sempre stato sinonimo
di durezza e impenetrabilità: solido significava qualsiasi corpo, fluido o duro,
che avesse una natura continua, cioè senza vuoto.
( 29 ) Cfr. G.B. RICCIOLI, Almagestum novum, II, libro IX, cap. 7, Bologna,
1651, p. 244. F. DE OVIEDO, Cursus Philosophicus, Lione, 1640, pp. 464-472.

L’insegnamento gesuitico della filosofia naturale all’Università di Cagliari
In sintesi, le principali posizioni sulla fluidità o solidità dei cieli
erano tre: tutti i cieli sono fluidi, alcuni cieli sono solidi e altri fluidi,
tutti i cieli sono solidi. Secondo la prima, scrive Sanjust, «coelos
non esse solidos sive compactos ex materia ferma, et quasi dura, sed fluidos,
sive costructos ex materia fluida et molli, quae facile cedit corporibus
obvijs, sicut noster aer, qui parum corporibus resistit» ( 30 ). Questa
posizione, condivisa da numerosi filosofi antichi tra i quali Platone,
da molti astronomi recentiores e da alcuni Santi Padri afferma che
«sydera moveantur in coelo sicut aves in aere, sive pisces in mari» ( 31 ).
La seconda, difesa con forza da astronomi e filosofi recentiores, «tenet
stellas non errantes fixas esse in suo coelo solido, errantes vero sive planitas
conficere suum cursum in quodam corpore liquido» ( 32 ). Infine, per
la terza posizione, che vantava tra i suoi sostenitori Aristotele, numerosi
astronomi e filosofi antichi e molti Santi Padri, tra i quali San
Tommaso, non solo l’empireo, come affermavano comunemente i
teologi, ma anche «firmamentum, in quo sunt stellae fixae sive non errantes,
et coelos stellarum errancium, sive planetarum esse solidos» ( 33 ).
Sanjust che difende la conclusio «Coeli sunt solidi», si richiama all’autorità
del passo di Giobbe (37,18): «tu forsitan cum eo fabricatus es coelos,
qui solidissimi quasi ex aere fusi sunt» ( 34 ). Se si obietta, scrive il gesuita
sardo, che quel passo significa solo che i cieli sono fermi, stabili e incorruttibili,
si può controbattere richiamando la comparazione tra solidità
dei cieli e solidità dell’aria: «soliditas aeris constat in duricie excludente
omne fluhibilitatem: ergo soliditas coelorum constat in duriciae
excludente omne fluhibilitatem» ( 35 ). E ancora, all’obiezione di chi sostiene
che il testo si riferisce al cielo empireo e al firmamento, egli risponde
che si parla dei cieli indiscriminatim e che non c’è alcun luogo della
Scrittura dal quale possa concludersi che i cieli dei pianeti sono fluidi.
( 30 ) Triennii philosophici …, cit., p.28.
( 31 ) Ibidem.
( 32 ) Ibidem.
( 33 ) Ibidem. Secondo il teologo Bartolomeo Amicus (1562-1649), il nome firmamentum
dato al cielo delle stelle fisse implicava durezza e solidità e doveva essere
esteso anche a tutti gli altri cieli e pianeti. Tuttavia, benché egli fosse uno dei
più convinti assertori dell’esistenza delle sfere solide, riconosceva che dall’osservazione
dei nuovi fenomeni appariva probabile la fluidità dei cieli. Si veda R. GAT-
TO, Tra scienza e immaginazione. Le matematiche presso il Collegio gesuitico napoletano
(1552-1670 ca), Firenze, Olschki, 1994, pp. 120-129.
( 34 ) Triennii philosophici …, cit., p. 28.
( 35 ) Ibidem, p. 29.
17

18
RITA SAIU
A coloro che affermano la fluidità dei cieli dei pianeti fondandosi
su alcuni passi delle Scritture: «nam Josuae decimo dicitur: Sol contra
Gabaon ne movearis et deinde: steteruntque sol et luna» et Isaiae 13 dicitur,
reversus est Sol decem lineis» ( 36 ), Sanjust risponde che quando
in un luogo delle Scritture viene concesso qualcosa (in questo caso la
solidità dei cieli) da cui non segue nulla di assurdo e che non viene
negato espressamente in un altro luogo, non esiste alcun fondamento
sufficiente per negare quanto si è concesso. E allora, poiché il
moto e la cessazione del moto che si attribuiscono al sole possono
benissimo essere salvati con la solidità dei cieli, «ergo motus et cessatio
motus, quam concedit soli non est suficiens fundamentum ad asserendum
coelos non esse solidos; et per consequens nullus scripture locus potest
adsignari ex quo colligatur coelos Planetarum esse fluidos» ( 37 ).
Come insegnano i Conimbricenses, sostiene Sanjust, la solidità dei
cieli è in accordo con le parole di Giosuè e può dunque essere salvata.
Da essa segue che «sydera moveantur ad motum coeli in quo sunt quasi
nodi in tabula» ( 38 ). Egli prosegue criticando la posizione di Pedro
Hurtado de Mendoza secondo il quale «immoto coelo moventur sydera
per canales vacuos» ( 39 ). Il gesuita spagnolo riteneva che i pianeti non
fossero trasportati da un epiciclo, ma si muovessero da sé all’interno di
canali che funzionavano come orbite deferenti. Ma, obietta Sanjust, se
restando il cielo solido immobile, le stelle si muovessero, «vel coelum
esset in continua fractione: quando enim transit planeta frangeretur ibi
coelum, vel daretur naturaliter vacuum: nam partes coeli solidi non possunt
acurrere ad replendum locum relictum a sidere» ( 40 ). Anche in questo
caso, egli ricorre ad uno degli argomenti usati dai Conimbricenses
per confutare la concezione di Hurtado de Mendoza: l’impossibilità
dell’esistenza del vuoto in natura ( 41 ).
( 36 ) Ibidem. Sottolineato nel testo.
( 37 ) Ibidem, p. 30.
( 38 ) Ibidem.
( 39 ) Ibidem.
( 40 ) Ibidem.
( 41 ) I gesuiti di Coimbra argomentavano che, se le orbite celesti fossero realmente
dei canali nel cielo attraverso i quali i pianeti si muovono di moto proprio, la sostanza
che li riempie o deve essere la stessa del cielo, o deve essere di natura sublunare.
Ma entrambe le alternative vengono respinte perché ne deriverebbero delle conseguenze
assurde quali l’esistenza del vuoto in natura, o l’introduzione di un elemento
corruttibile nella regione celeste. Cfr. Commentarii…, cit, libro 2, cap. 8,
q. 1, art. 1. Sull’importanza del dibattito sul vuoto nella prima metà dei Seicento, si

L’insegnamento gesuitico della filosofia naturale all’Università di Cagliari
La prima obiezione contro la solidità dei cieli discussa da Sanjust
è quella secondo cui essa non sembra in accordo con la sapienza divina:
«quod videt parum congruum divinae sapientiae non est admitendum;
sed ponere coelos solidos videtur parum congruum divine sapientiae:
ergo coeli solidi non sunt ponendi» ( 42 ). È l’argomento della semplicità:
poiché le orbite solide appaiono incongrue quando si pensi che
un pianeta è come un punto rispetto all’orbita che lo trasporta, ne
segue che Dio ha scelto la soluzione più semplice dei cieli fluidi. Ma,
risponde Sanjust, questo argomento può essere rivolto anche contro
i difensori della fluidità dei cieli: «Hinc si parum decet divinam sapienciam
ponere tantam molem materiae solidae, ut sydus, quod respectu
illius est veluti solum puntum ad illius motum moveatur, etiam
eamdem sapienciam parum decebit ponere tam materiae fluidae ut
sydus quod respectu illius est unicum puntum in eo moveatur» ( 43 ). In
conclusione, la sapienza divina nella fabrica dei cieli risplende di più
se essi sono solidi.
La seconda obiezione è che «si coeli sunt solidi non possunt salvari
plures observationes mathematicae», come le comete e le altre stelle, le
macchie solari, il fatto che Mercurio e Venere sono visti ora sopra ora
sotto il sole, e che Marte e Saturno descrivono movimenti complicatissimi.
Riprendendo la teoria di Clavius e dei Conimbricenses sulle comete
e sulle novae, si risponde che la loro origine è soprannaturale: «si
experienciae sunt verae illae stellae et illi cometae adscribendi sunt miraculis,
quae Deus identiter operatur ad fines ignotos» ( 44 ). Quanto alle
macchie solari, «dico illas pervenire ex quibusdam partibus coeli opacis,
quae sunt in sphaeris sole inferioribus et licet ob parvitatem a nobis non
cernantur tamen interpositae inter solem et nos tegunt exiguam illius partem,
sicque discernuntur benefizio tubi optici» ( 45 ). Infine, è falso che
Mercurio e Venere sono visti ora sopra ora sotto il sole, «cum id melioris
note adstrologi negant, sicuti etiam negant spiras et volumina, quae a
Marte et Mercurio describi dicuntur» ( 46 ).
veda G. NONNOI, Il pelago d’aria, Roma, Bulzoni, 1989; ID., Horror vacui: Galileo e
il mutamento di un paradigma, in P. CASINI (ed.), Alle origini della rivoluzione scientifica,
«Istituto dell’Enciclopedia Italiana», Roma 1991, pp. 179-197.
( 42 ) Triennii philosophici …, cit., p. 30.
( 43 ) Ibidem.
( 44 ) Ibidem. Cfr. Ch. CLAVIUS, In Sphaeram Joannis de Sacrobosco Commentarius,
Lyon, 1593, p. 210; Commentarii …, cit., libro 1, cap. 3, q. 1, art. 4.
( 45 ) Triennii philosophici …, cit., p. 31.
( 46 ) Ibidem.
19

20
RITA SAIU
La terza obiezione afferma che «si coeli sunt solidi, non salvatur
quomodo aliqui planetae aliquando sint propinquiores aliquando remotiores
a terra: ergo coeli non sunt solidi» ( 47 ). La prova che i cieli non
sono solidi è la conseguenza assurda che deriverebbe dall’avvicinamento
e dall’allontanamento dei pianeti dalla terra, cioé la distruzione
del cielo: «non potest planeta accedere et recedere a terra nisi intersecando
coelum, sed per nos coelum frangi et disrumpi est absurdum» ( 48 ).
Sanjust risponde all’obiezione affermando che l’avvicinamento e l’allontanamento
dei pianeti trovano una spiegazione sufficiente con
l’introduzione delle orbite eccentriche e concentriche: «Pro quo
sciendum quod quodlibet coelum planetarum non est unicis simplex orbis
sed constat ex tribus sphaeris, quarum duae extremae scilicet superior
et inferior sunt conscentrice et excentrice secundum quid, media vero est
excentrica simpliciter» ( 49 ). Egli aderisce dunque al sistema che derivava
dalla fusione delle orbite concentriche di Aristotele e di quelle
eccentriche di Tolomeo. Le sfere eccentriche e concentriche consentono
di salvare la solidità dei cieli e le osservazioni degli astronomi:
«nam quando sol vero est in auge maxime distat a terra, et maiorem distanciam
videtur minor; quando vero est in opposito augis maxime ad
terram accedit, et propter minorem distanciam videtur maior, cum certum
sit quod corpus aparet minor, quo magis distat, quo vero minus distat
aparet maior» ( 50 ).
A questo punto, egli avanza alcune possibili obiezioni: «orbes excentrici
et concentrici sunt impossibiles: ergo non dantur». Infatti, dalla loro
esistenza seguono o la penetrazione naturale dei corpi, o la distruzione
dei cieli o l’ammissione del vuoto: «nam cum non detur spacium suficiens
pro coniuntione utriusque partis crassioris, necessario vel orbes frangentur
vel pars crassior orbis inferioris penetrabitur cum parte crassiore
orbis superioris, aliunde dum conjunguntur partes subtiliores minus spa-
( 47 ) Ibidem.
( 48 ) Ibidem.
( 49 ) Ibidem.
( 50 ) Ibidem, p. 32. Anche se i termini medievali aux e oppositum augis, usati da Clavius
per indicare rispettivamente l’apogeo e il perigeo, erano stati sostituiti agli inizi del
XVII secolo dai termini moderni, Sanjust continua a ricorrere ad essi, spiegando così il
loro significato: «Pars crassior sphaerae inferioris correspondens parti subtiliori sphaerae
superioris dicitur aux; pars vero tenuissima sphaere inferioris correspondens crassisimae
sphaere superioris dicitur oppositum augis et quando planeta superponitur parti crassiori
sphaere inferioris, et suponitur subtiliori superioris dicitur esse in auge; quando vero superponitur
parti subtiliori sphaerae inferioris et suponitur parti crassiori superioris dicitur esse
in opposito augis». Ibidem, pp. 31-32. Sottolineato nel testo.

L’insegnamento gesuitico della filosofia naturale all’Università di Cagliari
cium ocupant quam ocupabat pars crassior unius orbis et pars subtilior alterius
sub conjunctione, et sic necessario dabitur vacuum» ( 51 ). A questa
obiezione che si fonda sull’impossibilità della penetrazione dei corpi e
dell’esistenza del vuoto, Sanjust risponde che poiché le orbite eccentriche
secundum quid non si muovono in modo che le parti più spesse di
entrambe debbano talvolta congiungersi, ma in modo che le parti più
spesse dell’orbita inferiore corrispondano sempre alle parti più sottili
dell’orbita superiore, non seguono né la penetrazione dei corpi, né la
distruzione del cielo, né il vuoto.
Se ancora si obietta che le orbite eccentriche e concentriche solide
non salvano le osservazioni astronomiche perché «planeta etiam in
punto augis existens non semper videtur eodem modo, sed aliquando minor
et remotior aliquando maior et propinquior terrae» ( 52 ), egli risponde
concedendo che non salvano le osservazioni da sole, ma introducendo
accanto ad esse l’epiciclo ( 53 ), un piccolo cerchio il cui
centro si sposta lungo l’eccentrico (chiamato perciò anche deferente,
dal latino deferre) e che a sua volta trasporta il pianeta lungo la sua
circonferenza. Come mostra la figura riportata nel testo: «In parte
huius episicli positus est planeta ita ut simul cum episceclo moveatur in
cavitate orbis medis, in qua cavitate imaginamur puntum augis secundum
parte superiorem, et oppositum augis secundum partem inferiorem,
et cum puntum augis magis distet a terra quam opositum augis, ideo
planeta, qui non ocupat totam crassiciem orbis deferentis, quando est in
auge episcicli est remotior a terra, et aparet minor, quando vero est in
opposito augis episcicli est propinquior et aparet maior» ( 54 ).
Sanjust difende ancora la teoria degli eccentrici e degli epicicli, seguendo
Clavius che nel Commentarius alla Sphaera di Sacrobosco spiegò
che gli eccentrici e gli epicicli, la cui esistenza fisica non fu seriamente
messa in questione fino alla fine del Cinquecento, non erano escogitazioni
assurde, ma erano stati introdotti dagli astronomi per spiegare i
movimenti celesti. Nonostante la conoscenza della nuova astronomia, il
gesuita sardo sostiene l’esistenza delle sfere planetarie solide e l’incorruttibilità
dell’universo sopralunare. Nella sezione sulla cosmologia del suo
manuale emerge dunque la volontà di salvare le basi dell’aristotelismo.
Egli neutralizza le nuove scoperte che mostrano la corruttibilità dell’uni-
( 51 ) Ibidem.
( 52 ) Ibidem.
( 53 ) «Episciclus est sphaerula solida imersa intra crassiciem orbis medi simpliciter
excentrici, et discontinuata ab illo». Ibidem.
( 54 ) Ibidem, pp. 32-33.
21

22
RITA SAIU
verso, o introducendo tradizionali cause metafisiche, come l’intervento
miracoloso di Dio, o negando la realtà delle macchie solari che si trovano
vicine al sole e non sul sole, o ancora, considerando le nuove stelle e
le comete come eventi preternaturali più che naturali.
Sanjust testimonia la resistenza delle vecchie dottrine soprattutto,
anche se non solo, nei Collegi periferici, per cui è in parte rappresentativo
della realtà isolana quanto è stato scritto più in generale: «molti
autori – non solo quelli dei centri più isolati – mantennero a lungo
moduli e contenuti tradizionali. Corsi filosofici del tardo ’600 o del
primo ’700 [ …] sono più arcaici di opere anteriori di trenta o quaranta
anni» ( 55 ). Il maggiore conservatorismo è forse anche da mettere
in relazione con la forma del manuale, vincolata alle norme della Ratio
studiorum e ai decreti dottrinali della Compagnia ( 56 ). La Ratio, come
le Costituzioni, prescriveva l’insegnamento della filosofia di Aristotele,
anche se con una restrizione, la sottomissione della filosofia alla fede e
la sua conformità all’opinione comune: «negli argomenti di una certa
rilevanza il professore di filosofia non si allontanerà da Aristotele, eccetto
che non capiti qualche affermazione in contrasto con la teoria
seguita generalmente nelle accademie. A maggior ragione qualora l’affermazione
ripugni alla retta fede: egli deve sforzarsi il più strenuamente
possibile di controbattere tali errori» ( 57 ).
Coerentemente con queste disposizioni, Sanjust che pure segue la
filosofia aristotelica, talvolta ne prende esplicitamente le distanze:
per esempio, sulla quaestio «An sint possibiles plures mundi», nonostante
le prove avanzate in difesa dell’unicità de facto del mondo ( 58 ),
egli sostiene, «nihili faciens Aristotelis autoritatem», la communis sententia
che difende la pluralità dei mondi: «Possibiles sunt plures mundi
non solum numero distinti, sed etiam specie diversi» ( 59 ). Alla dottri-
( 55 ) U. BALDINI, Saggi sulla cultura della Compagnia di Gesù (secoli XVI-XVIII),
Cleup Editrice, Padova, 2000, p. 249.
( 56 ) Si veda, per esempio, l’Ordinatio pro studiis superioribus (1651), pubblicata
sotto il generalato di Francesco Piccolomini, che conteneva un elenco di proposizioni
filosofiche non docendae, in G.M. PACHTLER, Ratio Studiorum et Institutiones Scholasticae
Societatis Iesu per Germaniam olim vigentes, Berlino 1887-1894, vol. III.
( 57 ) M. SALOMONE (a cura di), cit., p. 64.
( 58 ) «De facto unicus tantum est mundus. Ita Plato Aristoteles et D.Thomas. Probatur
primo autoritate sacre scripturae […]. Probatur secundo ratione: non debet adstrui
exixtentia alicuius rei sine aliqua ratione a priori vel a posteriori vel experiencia vel authoritate;
sed nulla est ratio vel experiencia, aut authoritas unde colligatur exixtentia alterius
mundi». Triennii philosophici …, cit., pp. 1-2.
( 59 ) Ibidem.

L’insegnamento gesuitico della filosofia naturale all’Università di Cagliari
na aristotelica, ripresa da San Tommaso, secondo la quale il mondo
è necessariamente uno, si sostituisce un’opinione flessibile che afferma
la sua unità de facto e la possibilità della molteplicità che non repugna
alla divina onnipotenza, «nam divina omnipotentia se extendit
ad omne id quod non inceduit contradictionem», ma trova il suo fondamento
nella libera volontà di Dio: «Et licet Deus in produtione
mundi operatus sit ut causa naturalis, tamen non est operatus ex necessitate
naturae, sed libere [ …] nec operatus est quidquid potuit, sed
quod voluit» ( 60 ).
Benché la nostra analisi sia stata qui circoscritta a una sezione del
manuale del Sanjust, l’indagine meriterebbe di essere estesa anche
alle restanti parti e potrebbe essere il punto di partenza di una ricerca
più vasta sull’insegnamento gesuitico di filosofia naturale in Sardegna
tra la fine del XVII e gli inizi del XVIII secolo ( 61 ). È un periodo
della storia della Compagnia di Gesù, quello della seconda metà
del Seicento e del Settecento, che dopo essere stato a lungo trascurato
rispetto alla prima fase, sta ora progressivamente attirando l’interesse
dei ricercatori.
( 60 ) Ibidem, p. 7.
( 61 ) Il periodo a cavallo tra i due secoli demarca, secondo Baldini, due fasi:
una, dal 1650 al 1700, in cui la filosofia naturale gesuitica «rimase formalmente
ancora aristotelica, ma con contenuti anche largamente eclettici». E un’altra, dal
1700 fino alla soppressione dell’ordine, durante la quale si introdussero «modifiche
profonde nei contenuti, soprattutto per la penetrazione – da circa il 1720 –
della fisica newtoniana, ma ancora lasciando intatte larghe porzioni dell’involucro
esterno», U. BALDINI, Saggi …, cit., p. 241.
23

24
1657 ...................................... Nasce a Cagliari il 9 maggio
Scheda biografica di Antioco Sanjust (*)
RITA SAIU
1669/1674 ................. Frequenta per cinque anni la facoltà di diritto canonico all’Università di
Cagliari
1675 ...................................... Il 12 novembre si immatricola all’Università di Salamanca al quinto anno
della facoltà di leggi e il 13 novembre al quinto anno della facoltà di diritto
canonico
1676 ...................................... Il 12 gennaio entra in Società. Continua a immatricolarsi in leggi il 24
novembre
1677 ...................................... Il 13 febbraio consegue a Salamanca il baccellierato in diritto canonico
1678 ...................................... Il 13 gennaio pronuncia i vota consueta
1679/1681 ................. Insegna grammatica (tre anni) e in seguito lettere umane (due anni)
1683/1686 ................. Studia teologia quattro anni
1690 ...................................... Il 15 agosto pronuncia la Professio quatuor votorum
1690/1692 ................. Svolge la funzione di minister instructor philosophorum nella Domus Probationis
(due anni)
1691/1693 ................. Insegna filosofia (tre anni)
(*) La biografia del Sanjust è stata ricostruita sulla base dei dati dei Catalogi Breves
e dei Catalogi Triennales conservati presso l’Archivum Romanum Societatis Jesu (d’ora
in poi ARSJ) e delle fonti consultate presso l’Archivio dell’Università di Salamanca
(d’ora in poi AUS). Cfr. ARSI, Sard. 2, Sard. 5-8 e AUS, Libro 383, 29 v. - 30 r., 69
v. - 70 r.; Libro 384, 71 v. - 72 r.; 668, f. 122 r; 752, f. 168. Il nome del Sanjust
compare prevalentemente nei Catalogi del Collegium Calaritanum (anni 1678, 1682,
1685, 1693, 1696, 1700, 1711, 1717, 1720, 1723, 1726, 1730, 1734), solo per gli
anni 1690 e 1705 è citato nei Catalogi del Seminarium Calaritanum, e per il 1714 in
quelli della Domus Probationis Calaritana. Notizie sul gesuita sardo si trovano anche
in: P. MARTINI, Catalogo della Biblioteca sarda del cavalier Ludovico Baille, Cagliari,
Tipografia di A. Timon, 1844; C. SOMMERVOGEL, Bibliothèque de la Compagnie de Jésus,
Bruxelles, Schepens – Paris, Picard, vol. VII, 1895; A. RUNDINE, Gli studenti sardi
all’università di Salamanca (1580-1690), in R. TURTAS, A. RUNDINE, E. TOGNOTTI,
Università, studenti, maestri. Contributi alla storia della cultura in Sardegna, Sassari,
Chiarella, 1990, pp. 536-103.

L’insegnamento gesuitico della filosofia naturale all’Università di Cagliari
1694 ...................................... Insegna filosofia morale
1695/1703 ................. Insegna teologia scolastica (nove anni). Nel 1696 svolge le funzioni di
examinator degli studenti e di praefectus studiorum inferiorum et congregationis
theologorum. Nel 1697 ricopre l’incarico di consultor. Nel 1700 è
praefectus studiorum inferiorum e consultor
1704/1707 ................. Ricopre per tre anni l’incarico di rettore del seminario cagliaritano (Rector
renunciatus a die 20 Junij 1704)
1707/1711 ................. Insegna Sacra Scrittura (quattro anni) e dal 1707 svolge la funzione di
praefectus studiorum superiorum. Nel 1709 è inoltre praefectus sacristiae,
consultor e operarius, nel 1711 examinator degli studenti, consultor provinciae,
confessarius nostrorum e operarius
1712/1715 ................. Ricopre per tre anni l’incarico di rettore della Domus Probationis (Rector
renunciatus 29 septembris 1712). Nel 1712/1713 svolge inoltre le funzioni
di maestro dei novizi, examinator dei candidati che devono essere ammessi
in Società e instructor dei Padri nel terzo anno di probazione. Nel 1713/
1714 è consultor provinciae
1713/1716 ................. Ricopre per tre anni l’incarico di rettore del collegio cagliaritano (Rector
renunciatus 3 Juanuari 1713)
1720 ...................................... Svolge le funzioni di admonitor, di praefectus rerum spiritualium, sacristiae,
et bibliothecarum, di consultor provinciae et collegij e di confessarius nostrorum,
et externorum
1723/1724 ................. Svolge le funzioni di admonitor, di praefectus studiorum superiorum, e di
consultor Provinciae. Nel 1724 è inoltre praefectus ecclesiae ed examinator
nostrorum scholarium
1725-27 .......................... Ricopre l’incarico di rettore del Collegio cagliaritano (Rector renunciatus
10 Octobris 1725) e quello di consultor provinciae
1729/1731 ................. Nel 1729 svolge le funzioni di operarius e di consultor provinciae, nel 1730
quelle di praefectus sacristiae e di operarius, nel 1731 è praefectus bibliothecarum
e confessarius
1733/1734 ................. Nel 1733 non ricopre incarichi (Pr. Antiochus Sanjust ob senium vacat).
Muore a Cagliari il 18 maggio.
25

26
Riproduciamo le informazioni su Antioco Sanjust così come riportate nel Catalogus secundus, disponibile per gli anni
1678, 1682, 1685, 1690, 1693, 1696, 1700, 1705, 1711, 1714, 1717, 1720, 1723, 1726, 1730, 1734 (A.R.S.J., Sard. 5-8).
Ingenium Iudicium Prudentia Experientia Profectus in Complexio Talentum ad
rerum litteris ministeria
RITA SAIU
1678 bonum bonum mediocris nulla non aggerat colericus videtur habere
sanguineus talentum ad
quamvis gubernandum
flematicus
videatur
1682 bonum bonum plusquam exigua plusquam colericus habet talentum ad
mediocris mediocris sanguineus et legendum et forte
forte adustus ad alia
1685 optimum simile similis nulla plusquam cholerica videtur habere ad
mediocris melancholica legendum
1690 optimum simile similis exigua plusquam cholerica habere videtur
mediocris biliosa bonum ad
legendum ad
confessiones,
ad missiones et
conciones
mediocre, optimum
ad gubernandum
1693 bonum par similis exigua bonus cholerica ad docendum et
gubernandum
bonum, non ad
concionandum
1696 bonum bonum plusquam adhuc non plusquam cholerica et habet ad legendum
mediocris apparet mediocris ardens et confessiones
audiendas

L’insegnamento gesuitico della filosofia naturale all’Università di Cagliari
1700 bonum bonum similis mediocris plusquam cholericus habet ad legendum
mediocris sanguineus et confessiones
sed audiendas, non ita
temperatus ad concionandum
1705 bonum simile mediocris exigua plusquam biliosa habet ad docendum
mediocris et confessiones
audiendas
1711 bonum par similis mediocris plusquam colerica habet ad legendum,
mediocris sanguinea sed et ad audiendas
moderata confessiones et ad
gubernandum
mediocre
1714 bonum bonum mediocris nonnulla supra colerica bonum ad
mediocritati sanguinea docendum et
adusta reliqua mediocre
1717 bonum bonum par mediocris supra colerica bonum ad
mediocritatem sanguinea docendum, ad
reliqua mediocre
1720 bonum par mediocris similis plusquam colerica habet ad legendum
mediocris sanguinea, et gubernandum ad
sed temperata reliqua mediocre
1723 bonum simile par sufficiens plusquam colerica, sed habet ad legendum
mediocris moderata et gubernandum
1726 bonum simile par aliqualis plusquam colerica habet bonum ad
mediocris flematica docendum, et
gubernandum
1730 bonum simile par plusquam plusquam cholerica et habet ad docendum
mediocris mediocris ardens et gubernandum
1734 bonum simile par plusquam similis cholerica habet ad docendum
mediocris et gubernandum
27

28
RITA SAIU
TRIENNII PHILOSOPHICI ANNUS TERTIUS. FILOSOPHIÆ NATURALIS PARTEM
ALTERAM AD ARISTOTELIS STAGIRITÆ MENTEM EXPONENS IN ALMA
GENERALI SARDINIAE UNIUERSITATE CALARITANA 14. KALENDAS 9BRIS
ANNO SALUTIS REPARATÆ 1693. AUTORE REVERENDO PATRE ANTIOCO
SANIUST. AUDITORE EFISIO BONAUENTURA MASSA SANTÆ IUSTÆ (*)
B.U.C., Fondo Baille, Ms. n. S.P.6.7.65, Microfilm 936 pos. (852 neg.), pp. 577, di
cui bianche le pp. 407, 555-558, 570-572, 574-577.
Dal Tractatus IV. De mundo et cœlo, Disputatio II, De corpore cœlesti, Quæstio III. An
cœlum sit ab intrinseco incorruptibile, pp. 18-21.
[p. 18] [ …]
Quæstio III. an cœlum sit ab intrinseco incorruptibile
Antiqui philosophi, quos sequuntur aliqui Neoterici negarunt cœlij incorruptibilitatem.
Verum contraria sentencia facta est iam communiter in scolis cum ergo hac sentencia
sit. Unica conclusio.
Unica conclusio
Cœlum est ab intrinseco et ex natura sua incorruptibile. Ita Aristoteles. Probatur: incorruptibile
ab intrinseco est quod suæ desitionis nullam habet causam naturalem intrinsecam;
sed cœlum nullam suæ desitionis habet causam naturalem intrinsecam: ergo cœlum est ab
intrinseco corruptibile. Maior est definitio entis ab intrinseco incorruptibilis, aliquando
illam assignant aduersarij. Præterea ut negetur debent assignare aliquod quod sit corruptibile
ab intrinseco et nullam suæ desitionis habeat causam naturalem intrinsecam. Probatur
ergo minor: causa intrinseca desitionis sive corruptionis sunt dispositiones formæ habentes
accidentia sibi contraria, á quibus possit expelli; sed dispositiones formæ cœlestis non habent
accidentia sibi contraria, á quibus possint expelli: ergo cœlum nullam suae desitionis
habet causam naturalem intrinsecam. Minor ex inde constat, quod cœlum ut diximus est
(*) La trascrizione del testo è fedele all’originale. Le abbreviazioni sono state
sciolte sottolineando nel testo le lettere mancanti (nel caso che il testo sia
sottolineato dall’autore, le lettere mancanti sono in grassetto). Tra parentesi
uncinate e parentesi quadre [...] si sono introdotte, rispettivamente, le lettere
o parole integrate, e quelle espunte. Tra parentesi tonde (?) si è inserito il punto
interrogativo per indicare la lettura incerta.

L’insegnamento gesuitico della filosofia naturale all’Università di Cagliari
corpus simplex diuersum á quatuor elementis [diuersum]: ergo dispositiones formæ cœlestis
non habent contrarium; si non haberent contrarium vel haberet accidentia contraria refracta,
et iam esset mixtum vel haberet accidentia alijs contraria et inter se simila, et iam esset
unum ex quatuor elementis quod est falsum.
Probatur ergo maior primo qua Aristoteles de sensu et sensibili cap. de suposito habetur:
qua inest contrariatas omnia agunt et patiuntur ( 1 ): ergo ut passus paciatur siue corrumpatur
ab agente naturali debet habere dispositiones contrarias alijs accidentibus, á quibus
possint expelli: ergo corruptibilitas, siue causa intrinseca corruptionis sunt dispositiones
formæ habentes contrarium, a quo possint expelli: ergo quod caret talibus dispositionibus
non est ab intrinseco corruptibile sed incorruptibile. Probatur secundo: immo praecise
quantitas est ab intrinseco incorruptibile, qua iuxta Aristotelem cap. de quantitate quantitas
non habet contrarium: ergo causa intrinseca corruptionis est accidentia contraria. Præterea
commune proloquium est, quod cotidiana qualitatum pugna est causa intrinseca, cur homines
intereant et corrumpantur: ergo causa intrinseca desitionis et corruptionis alicuius tocius
sunt dispositiones formæ habentes contrarium, á quo possint expelli. // [p. 19] Objcitur
primo: quod habet intrinsecam radicem corruptionis est corruptibile ab intrinseco; sed
cœlum habet intrinsecam radicem corruptionis: ergo est ab intrinseco corruptibile. Nego
minorem. Probatur: materia prima iuxta Aristotelem est radix corruptionis eo quod sit indiferens
ad habendas formas; sed cœlum habet sibi intrinsecam materiam primam: ergo
cœlum habet intrinsecam radicem corruptionis. Disiungo maiorem: materia secundum se
est radix corruptionis, nego; materia prout affecta dispositionibus habentibus contrarium,
concedo maiorem et disiungo minorem; habet sibi intrinsecam materiam primam, non affecta
dispositionibus habentibus contrarium, concedo; affecta dispositionibus habentibus
contrarium, nego minorem cum consequentia. Materia prima secundum se est indiferens ut
sit proxima radix corruptionis et incorruptionis per hoc quod possit sucipere tum accidencia
corruptibilia tum incorruptibilia. Est proxima radix corruptionis si habeat accidentia
corruptibilia. Est proxima radix incorruptionis si habeat accidentia incorruptibilia, quod
patet in Beatis, qui habent sibi intrinsecam materiam primam, et tamen sunt incorruptibiles
ex eo praecise quod accidencia quæ habet illa materia prima sint incorruptibilia.
Objcitur secundo: lux non habet contrarium, et tamen est corruptibilis: ergo falsum est
quod incorruptibile sit id, quod caret contrario. Nego secundam partem antecedentis. Probatur:
quod corrumpitur est corruptibile; sed lux corrumpitur singulis diebus: ergo lux est corruptibilis.
Nego minorem. Probatur: quod desinit dependenter á subjecto corrupitur; sed
lux desinit dependenter á subjecto, scilicet aere, ex quo educitur: ergo lux corrumpitur. Disiungo
maiorem: quod desinit esse dependenter á subjecto ex vi contrarij, concedo; non ex vi
contrarij nego maiorem. Disiungo etiam minorem: lux desinit esse dependenter a subjecto,
non ex vi contrarij concedo; ex vi contrarij nego minorem cum consequentia. Ad hoc ut aliquid
vere et proprie dicatur corrumpi, debet desinere esse ex vi contrarij; lux vero cum sit
proprietas corporis incorruptibilis non habet contrarium; et sic est incorruptibilis. Unde ex
praecisa entis destrutione ens non dicitur corruptibile ab intrinseco; nam si per impossibile
( 1 ) Sottolineato nel testo.
29

30
RITA SAIU
Deus desineret esse perirent Angeli, et tamen Angeli sunt incorruptibiles. Ex eo ergo quod lux
quotidie pereat in nostro emisphærio non bene infertur quod sit corruptibilis; nam hoc oritur
ex eo quod sol non perseueret in loco apto ad conseruandam lucem, cum circulariter moueatur
ab inteligencia.
Si afferantur aliqui textus scripturæ, ex quibus videtur colligi cœlos in die Juditij esse
destruendos, vel dic hoc praestaturum esse miriculose, ex quo non sequitur cœlos esse ab
intrinseco corruptibiles sicuti ex eo quod scriptura dicat demones et animas damnatorum
esse in æternum ab igne comburendas, non sequitur demones et animas damnatorum esse
ex natura sua combustibiles. Vel melius et iuxta nostra principia dic textus illos esse inteligendos
de renouatione accidentali aut mundi purgatione. Tamen si afferantur aliqui cometæ,
qui visi sunt supra cœlum lunae (?) ex quo videtur colligi cœlum esse corruptibile, //
[p. 20] aliqui respondent formas illarum cometarum fuisse introductas in materia de nouo
producta ad fines nobis ocultos; alij vero dicunt fuisse introducta in materia cœli per miraculum
tantum, quæ conuersio non fuit propria corruptio cœli tum non acciderit vi contrarij
et agentis naturalis. Dicite quod volueritis.
Ex dictis colliges primo cœlum non nisi á Deo esse naturaliter producibile tamquam á
causa principali; et ratio est, qua ut constat experiencia agens principale naturale creatus
non producit affectum substantiale nisi per qualitates contrarias ijs quæ sunt in passo; sed
cœlum non habet qualitates contrarias: ergo a nullo agente principali naturali creato potest
produci. Colliges secundo, quod id quod á solo Deo tamquam á causa principali potest
pendere in esse et conseruari est ab intrinseco incorruptibile, et cum cœlum á solo Deo
tamquam á causa principali possit pendere in esse et conseruari, fit quod sit ab intrinseco
incorruptibile. Et ratio est qua eo ipso quod ens a solo Deo tamquam á causa principali potest
pendere in esse et conseruari, nullam suæ desitionis habet causam intrinsecam et extrinsecam.
Non intrinsecam, qua eo ipso, quod á solo Deo tamquam a causa principali potest
pendere in esse et conseruari non habet qualitates, quæ possit destrui ab agente naturali.
Non extrinsecam, qua causa extrinsecam desitionis et corruptionis est illa, quæ potest naturaliter
vel deficere, vel producere qualitates corruptiuas et contrarias. Hinc colliges tertio
cur Angeli et anima rationalis sint ab intrinseco incorruptibiles, qua nimirum dependent á
solo Deo in esse et conseruari, et non possunt ab alio dependere, nec habent qualitates corruptibiles
requisitas ad sui existentiam. Sed contra primo
dices: quælibet forma materialis substantialis est educibilis á causa secunda principali;
sed forma cœli est materialis: ergo est educibilis á causa secunda principali: ergo falsum est
quod coelum sit producibile á solo Deo tamquam á causa principali. Disiungo maiorem:
quælibet forma materialis substantialis est educibilis á causa secunda principali, vel habet
contrarium, et sic concedo vel non habet contrarium et sic nego maiorem cum utraque consequentia:
cum agencia naturalia principalia agant substantialiter secundum quid eis inest
contrarietas, fit ut cum in cœlo non sint dispositiones habentes contrarium, á quibus possint
expeli, nec potest cœlum produci nec corrumpi ab agente creato principali. Si dicas
quod lux et quantitas sint formæ materiales incorruptibiles nullum contrarium habentes, et
tamen sunt producibiles ab agente naturali principali creato: ergo licet cœlum sit incorruptibile
et nullum habeat contrarium, a quo eius forma possit expelli, tamen cum eius forma

L’insegnamento gesuitico della filosofia naturale all’Università di Cagliari
sit materialis erit producibile ab agentia naturali creato principali. Nego consequentiam et
paritatem. Disparitas est, qua lux et quantitas sunt formæ accidentales, et cum experiencia
constet has produci ab agentibus naturalibus principalibus cogimur dicere, quod accidencia
possint produci ab agente naturali principali quamuis non habeant contrarium; qua vero
forma cœli sit substantialis non habens contrarium et experiencia constet, quod forma substancialis
educibilis // [p. 21] á causa secunda principali semper habeat contrarium, cogimur
dicere, quod forma cœlestis non sit educibilis ab agente naturali principali creato.
Quaestio 4 an forma cœli sit creata vel educta.
Dal Tractatus IV. De mundo et cœlo, Disputatio II, De corpore cœlesti, Quæstio VI. De soliditate,
et numero coelorum, pp. 28-35.
[p. 28] [ …]
Quæstio VI. De soliditate, & numero coelorum
Circa soliditatem cœlorum triplex est opinio. Prima docet cœlos non esse solidos, siue
compactos ex materia ferma, et quasi dura, sed fluidos, siue constructos ex materia fluida et
molli, quæ facile cedit corporibus obuijs, sicut noster aer, qui parum corporibus resistit.
Hinc asserit hæc opinio, quod sydera moueantur in cœlo sicut aues in aere, siue pisces in
mari, et quod locus ab astris transeuntibus relictus denuo instar aeris vel aquæ repleatur. In
hac sentencia sunt plures ex antiquis philosophis, inter quos enumeratur Plato, non pauci
ex astronomis recensioribus, et nonnuli Sancti Patres, qui licet expresse non dicant cœlos
esse fluidos, tamen Patroni huius sentenciæ creduntur, eo quod dixerint stellas moueri non
cœlum.
Secunda sentencia quam acriter defendunt recensiores astronomi et philosophi tenet
stellas non errantes fixas esse in suo cœlo solido, errantes vero siue planitas conficere suum
cursum in quodam corpore liquido. Tertia demum sentencia docet non solum emperium,
de quo non quærimus, sed suponimus cum communi Theologorum sentencia solidum esse
saltem quoad partem extimam, sed etiam firmamentum, in quo sunt stellæ fixæ siue non errantes,
et cœlos stellarum errancium, siue planetarum esse solidos. Hanc tenet Aristoteles et
plures ex antiquis tum astronomis tum philosophis. Item Sancti Patres non Pauci citati á (?)
inter quos est Divus Thomas. Cum hac ergo sentencia sit Prima conclusio.
Prima conclusio
Cœli sunt solidi. Probatur primo autoritate scripturæ: Jobi 37 dicitur: tu forsitan cum
eo fabricatus es cœlos, qui solidissimi quasi ex // [p. 29] ære fusi sunt: ergo cœli sunt solidi.
Si respondeas per hæc verba solum significari cœlos esse firmos, stabiles et incorruptibiles,
contra est, qua ibi comparat soliditatem cœlorum cum soliditate æris; sed soliditas æris constat
in duriciæ excludente omne fluhibilitatem : ergo soliditas cœlorum constat in duriciæ
excludente omne fluhibilitatem. Si iterum respondeas textum hunc debere inteligi de cœlo
empireo et firmamento, contra est, qua hic textus loquitur de cœlis indiscriminatim; et
aliunde nullus potest assignari scripture locus, ex quo colligatur, cœlos Planetarum esse
fluhidos: ergo textus alatus debet inteligi omni de istis.
Si dicas ex scriptura colligi cœlos planetarum esse fluhidos, qua in sacris litteris motus
tribuitur planetis non cœlis nam Josuæ decimo dicitur: Sol contra Gabaon nmouearis;
31

32
RITA SAIU
et deinde: steteruntque sol et luna et Isaiæ 13 dicitur: reuersus est Sol decem lineis ( 2 ), contra
est, qua quando sacra scriptura in uno loco concedit aliquid alicui, ex cuius concessione
nullum sequitur absurdum, si id expresse in alio loco non negat, et id quod in ipso dicit optime
saluari potest cum eo quod in alio concessit; quod in ipso adstruit non est suficiens
fundamentum ad asserendum aliquid contra id, quod concessit; sed sacra scriptura concedit
cœlis soliditatem, quam in nullo loco expresse negat et ex eius concessione nullum sequitur
adsurdum, et motus et cessatio motus, quam concedit soli optime saluari potest cum soliditate
cœli: ergo motus et cessatio motus, quam concedit soli non est suficiens fundamentum
ad asserendum cœlos non esse solidos; et per consequens nullus scripture locus potest adsignari,
ex quo colligatur cœlos Planetarum esse fluidos.
Quod ex soliditate cœlorum nullum sequatur adsurdum patet, aliquando illud assignent
aduersarii. Quod optime saluari possit soliditas cœlorum cum locutione Josue docent
conimbricenses ex Abulensi questione immo in illud caput Josue dicente, quod cum sol
diuino imperio quæuit tota cœlestis machina pariter quieuit. Similiter dicendum est, quando
sol tempore Ezechiæ Regis retrogressus est decem lineis; tota enim cœlestis machina ad
illius cursum sese acomodauit, ut notauit idem Abulensis in libris Regum loco citato questione
32. Preterea immo scriptura adsignat locum stellis non cœlo, qua motus in eis aparet,
non tamen negat motum cœlis in textibus alatis.
Suposita ergo soliditate cœlorum sequitur quod sydera moueantur ad motum cœli in quo
sunt quasi nodi in tabula; non etiam immoto cœlo mouentur sydera per canales vacuos ut vult
Urtadus; nam si immoto cœlo solido mouerentur sydera vel coelum esset in continua fractione;
quando enim transit planeta frangeretur ibi cœlum vel daretur naturaliter vacuum nam
partes cœli solidi non possunt acurrere ad replendum locum relictum a sidere. Præterea qui
docent sydera moueri per canales asserunt Angelum esse in continuo motu locali, qua simul
cum sidere transit per canales cœlestes, quod videtur incongruum, dumodo comode saluari aliter
potest; potest etiam saluari si dicatur, quod sydus mouetur ad motum cœli. // [p. 30]
Objcitur primo: quod videtur parum congruum diuinæ sapientiæ non est admitendum; sed
ponere cœlos solidos videtur parum congruum diuine sapientiæ: ergo cœli solidi non sunt ponendi.
Nego minorem. Probatur: parum congruum diuinæ prouidenciæ videtur ponere magnitudinem
solidam prope infinitam ad mouendum aliquid, quod respectu talis magnitudinis
est veluti solum puntum; sed magnitudo setimi cœli est prope infinita, respectu cuius Saturnus
illi afixus est veluti unicum solum puntum: ergo ponere cœlos solidos est parum congruum
diuinæ sapientiæ. Verum hæc indecentia non euitatur ab asserendibus cœlum planetarium esse
fluidum; ipsi enim docent hoc cœlum diuidi in septem veluti cœlos. Hinc si parum decet diuinam
sapienciam ponere tantam molem materiæ solidæ, ut sydus, quod respectu illius est veluti
solum puntum ad illius motum moueatur, etiam eamdem sapienciam parum decebit ponere
tam materiæ fluidæ ut sydus quod respectu illius est unicum puntum in eo moueatur.
Quare nego maiorem: magis enim elucet sapiencia Dei in fabrica cœlorum si omnes orbes
sint solidi, quamsi sint fluhidi; cœli enim solidi aptiores sunt (?) et constancius, et cum
minori periculo errandi ad sequendum finem a Deo illorum artifice, scilicet ad repetendas
( 2 ) Sottolineato nel testo.

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singulis annis easdem astrorum circulationes, ad eosdem ocursus et recursus planetarum, ad
eamdem constantem varietatem et vicissitudinem diei et noctis, humis et æstatis et aliorum
anni temporum. Si enim sol sit fixus in certa parte suæ spaeræ, semper seruat eumdem tenorem
nec eius motor exponitur periculo errandi, nam si is qui moueret sphæram solis haberet
tantas vires quantas habet Angelus, qui de facto illam mouet, licet non haberet tantam
sapienciam et inteligentiam, posset illam mouere, quin exponeretur periculo errandi sicuti
exponeretur si cœli essent fluidi, si enim tales essent, cum sphæra solis vero sit multo maior
sole, posset sol quantum est ex vi machinæ ( 3 ) eque esse in supremo aut medio aut infimo
circulo suæ sphaeræ; imo uno die [uno die] aut posset esse in una parte suæ spheræ, et alio
in alia, sicque nihil certum haberemus, sed omnia confunderentur. Dixi ex vi machinæ ( 4 )
nam quod seruaretur ordo et constantia [constantia] pro suma cura et pericia Angeli
mouentis, non est tribuendum præstanciæ machinæ, sed motoris.
Objcitur secundo: si cœli sunt solidi non possunt saluari plures obseruationes mathematicæ,
quarum prima sunt varij cometæ et aliae stellae sæpe visæ ab astronomis luna altiores,
quæ ad tempus apparuerunt, et postea disparuerunt. Secunda sunt quæsdam maculæ
solares in (dies?) deprehensæ, quæ similiter post aliquod tempus disparent. Tercia quod
Mercurius et Venus nun supra nunc infra solem conspiciuntur. Quarta quod Mars et
Mercurius describunt quasdam spiras, et volumina textuosissima et implicatissima: ergo
cœlum saltem planetarum nequit esse solidum, sed fluidum. Nego antecedens. Ad id de cometis
et stellis aparentibus et disparentibus extra lunam et in firmamento, dico quod si
experienciæ sunt veræ illæ stellæ et illi cometæ adscribendi sunt miraculis, quæ Deus identiter
operatur ad fines ig // [p. 31] notos, ad id de maculis solaribus dico illas pervenire ex
quibusdam partibus cœli opacis, quæ sunt in sphæris sole inferioribus et licet ob paruitatem
á nobis non cernantur tamen interpositæ inter solem et nos tegunt exiguam illius partem,
sicque discernuntur benefizio tubi optici. Ad id Mercurio et Venere quod scilicet nunc supra,
nunc infra solem conspiciantur, respondeo esse falsum, cum id melioris note adstrologi
negant, sicuti etiam negant spiras et volumina, quæ á Marte et Mercurio describi dicuntur.
Objcitur tercio: si cœli sunt solidi, non saluatur quomodo aliqui planetæ aliquando sint
propinquiores aliquando remotiores á terra : ergo cœli non sunt solidi. Nego antecedens.
Probatur: non potest planeta accedere et recedere a terra nisi intersecando cœlum; sed per
nos cœlum frangi et disrumpi est absurdum: ergo si cœli sunt solidi non saluatur quomodo
aliqui planetæ aliquando sint propinquiores, aliquando remotiores a terra. Nego maiorem.
Probatur: si cœli sunt solidi non potest explicari quomodo planetæ accedant et recedant
cœlo infracto: ergo si cœli sunt solidi non potest planeta accedere et recedere nisi intersecando
cœlum. Nego antecedens; accesus etiam et recessus planetarum suficienter explicatur
et saruatur per orbes exentrincos et conscentricos, pro quo sciendum quod quodlibet
cœlum planetarum non est unus simplex orbis sed constat ex tribus sphæris, quarum duæ
extremæ scilicet superior et inferior sunt conscentrice et excentrice secundum quid, media
vero est excentrinca simpliciter.
( 3 ) Sottolineato nel testo.
( 4 ) Sottolineato nel testo.
33

34
RITA SAIU
Sphæra conscentrinca est illa cuius centrum est idem cum centro terræ per hoc quod secundum
superficiem quæ est concentrinca equaliter distat á cetro mundi. Sphæra excentrinca
est illa, cuius centrum non est idem cum centro terrae, hoc est cuius partes non equaliter
distant ab eodem centro. Sphæra quæ secundum utramque superficiem est excentrinca, dicitur
excentrinca simpliciter, quæ vero est excentrinca secundum unam superficiem tantum
dicitur excentrinca secundum quid, et secundum quid concentrinca. Cœlum (?) planetæ sic
componitur, ut duæ extreme sphaeræ sint inter se inequales et excentrice secundum quid, siue
secundum unam superficiem tantum, ita tamen ut sphæra superior sit excentrinca secundum
superficiem concauam, inferior vero secundum conuexam; sunt etiam concentrice secundum
alias superficies, taliter ut una illarum medietas sit crassior, altera subtilior, quæ spersit sub
medietate crassiori alterius. Media etiam sphæra est excentrinca simpliciter secundum
utramque superficiem concauam scilicet et conuexam, et hæc sphæra defert planetas.
Pars crassior sphære inferioris correspondens parti subtiliori sphæræ superioris dicitur
aux ( 5 ); pars vero tenuissima sphære inferioris correspondens crassisimæ sphære superioris
dicitur oppositum augis ( 6 ). Et quando planeta superponitur parti crassiori sphære inferioris,
et suponitur subtiliori superioris dicitur esse in auge ( 7 ); quando vero superponitur // [p.
32] parti subtiliori sphære inferioris et suponitur parti crassiori superioris dicitur esse in opposito
augis ( 8 ). Ex dictis patet quomodo planeta aliquando sit propinquior, aliquando remotior
a terra sine fractione cœli, nam quando sol vero est in auge ( 9 ) maxime distat a terra,
et propter maiorem distanciam videtur minor; quando vero est in opposito augis maxime
ad terram accedit, et propter minorem distanciam videtur maior, cum certum sit quod corpus
aparet minor, quo magis distat, quo vero minus distat aparet maior. Bene ergo saluatur
soliditas cœli et adstronomorum obseruationes cum orbibus excentricis et concentricis.
Instabis primo: orbes excentrici et concentrici sunt impossibiles: ergo non dantur. Nego antecedens.
Probatur: illi orbes sunt impossibiles ex quibus sequitur naturalis penetratio, vel cœlorum
fractio vel admetendum esse vacuum; sed ex orbibus excentricis et concentricis sequitur
naturalis penetratio vel cœlorum fractio, vel admetendum esse vacuum: ergo orbes excentrici et
concentrici sunt impossibiles. Nego minorem. Probatur : orbes excentrici secundum quid
mouentur motu diurno; orbis vero deferens planetas, siue medius mouentur ab ocasu in ortum:
ergo dum sic mouetur, necesse est quod partes crassiores utriusque orbis excentrici secundum
quid aliquid conjungantur, simul et subtiliores; sed facta hac conjuntione necessario sequitur penetratio
vel fractio vel vacuum, nam cum non detur spacium suficiens pro conjuntione utriusque
partis crassioris, necessario vel orbes frangentur vel pars crassior orbis inferioris penetrabitur
cum parte crassiore orbis superioris, aliunde dum conjunguntur partes subtiliores minus spacium
ocupant quam ocupabat pars crassior unius orbis et pars subtilior alterius sub conjunctio-
( 5 ) Sottolineato nel testo.
( 6 ) Sottolineato nel testo.
( 7 ) Sottolineato nel testo.
( 8 ) Sottolineato nel testo.
( 9 ) Sottolineato nel testo.

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ne, et sic necessario dabitur vacuum: ergo ex orbibus excentricis et concentricis sequitur naturalis
penetratio vel cœlorum fractio vel vacuum. Nego prima consequentia: orbes excentrici secundum
quid non ita mouentur, ut partes crassiores utriusque debeant aliquando conjungi, sed ita
(personaliter?) simul mouentur, ut partes crassiores orbis inferioris semper correspondeant partibus
subtilioribus orbis superioris. Unde nec [nec] sequitur penetratio nec fractio nec vacuum.
Instabis secundo: planeta etiam in punto augis ( 10 ) existens non semper videtur eodem
modo, sed aliquando minor et remotior, aliquando maior et propinquior terræ: ergo orbes
excentrici et concentrici solidi non saluant obseruationes abstronomicas. Disgjungo consequens:
orbes excentrici et concentrici sine episciclo concedo quod non saluant obseruationes
abstronomicas; cum episceclo nego consequentia. Episceclus est sphærula solida imersa
intra crassiciem orbis medi simpliciter excentrici et discontinuata ab illo. In parte huius episicli
positus est planeta, ita ut simul cum episceclo moueatur in cauitate orbis medis, in qua
cauitate imaginamur puntum augis secundum partem superiorem, et oppositum augis secundum
partem inferiorem, et cum puntum augis magis distet á terra, quam opositum augis,
ideo planeta, qui non ocupat totam crassiciem orbis deferentis, quando est in auge episcicli
est remotior á terra, et aparet minor, quando vero est in opposito augis episcicli // [p. 33]
est proprinquior et aparet maior. Hæc omnia sequens figura demonstrat ( 11 ).
Circa secundum questionis scilicet de numero cœlorum prima opinio docet cœlos esse
tres, ita tamen, ut primum sit aer, in quo sensu aues dicuntur volucres cœli, ita pluuia dicitur
discendere de cœlo, et catharactæ cœli dicuntur aperiri. Secundum dicitur esse ætereum
a concauo Lunæ usque ad firmamentum inclusiue, et continere in se omnes stellas tam fixas
quam errantes. Tercium vero empireum. Secunda sentencia docet cœlos esse tres, quorum
primum est fluidum, in quo sunt planetæ, qui ibi mouentur sicut pisces in mari. Secundum
est solidum et dicitur firmamentum, in quo sunt stellæ fixæ. Tercium est empireum. Tercia
sentencia docet cœlos esse nouem, quorum septem sunt pro septem planetis, octauum est
firmamentum, in quo sunt stellæ fixæ, nonum est empireum. Sed his opinionibus omissis
cum melioris notæ adstronomis sit secunda conclusio.
Secunda conclusio
Cœli sunt undecim Item Noster Clauius inter primo nostri temporis adstronomos secutus
Ptolomeum, et alios antiquos est etiam ordo cœlorum sequens. Primum cœlum est
lunæ, secundum mercurij, tercium veneris, quartum solis, quintum martis, sextum jouis,
septimum saturni, octauum firmamentum siue stelatum, nonum cristalinum siue aqueum,
decimum primum mobile, undecimum empyreum. Probatur: diuersi motus localis non
possunt primo et per se naturaliter simul conuenire eidem corpori; sed motus septem planetarum
sunt diuersi et simul fiunt: ergo cum planetæ moueantur ad motum cœli, diuersi //
[p. 34] motus septem planetarum non possunt naturaliter simul conuenire eidem cœlo sed
diuersi; et per consequens cœli planetarum sunt septem inter se distinti et diuersi.
Probatur minor ex obseruationibus adstronomorum, nam Saturnus conficit proprium
motus et circulationem ab occidente in orientem annis triginta. Iupiter annis duodecim,
( 10 ) Sottolineato nel testo.
( 11 ) Segue la figura recante il titolo: Cœlorum typus atque figura.
35

36
RITA SAIU
Mars annis duobus. Sol diebus trecentis sesaginta quinque oris quinque minutis 39, quod
spacium appelatur annus solaris. Sol singulis diebus conficit minuta 59 ( 12 ) Venus eodem
fere tempore cum Sole complet suam circulationem, nam singulis diebus conficit fere 59 ( 13 )
minuta. Mercurius eodem fere tempore cum Venere suum circulum absoluit. Luna (denique?)
totum zodeacum percurrit in 27 diebus horis fere octo; deiende ut asequitur solem
quasi bidum consumit: ergo motus septem planetarum sunt valde diuersi, et simul fiunt:
ergo quilibet planeta proprium sibi cœlum vendicat; sed praeter hos planetas dantur stellæ
fixæ eamdem semper distanciam seruantes: ergo non possunt esse in eodem cœlo cum planetis;
sed necessario debent esse in octauo cœlo; sed aliunde in firmamento reperiuntur tres
motus iuxta obseruationes adstronomicas, diurnus scilicet retrogradus et trepidationis: ergo
preter firmamentum ponendi sunt alii duo cœli.
Probatur minor subscripta: firmamentum mouetur ab oriente in ocidentem qui motus
dicitur diurnus; ab occidente in orientem, qui motus dicitur retrogradus, et a polo ad Polum,
qui motus dicitur trepidationis: ergo in firmamento reperiuntur tres motus diuersi;
sed omnes isti motus non possunt primo et per se conuenire uni corpori cœlesti: ergo unus
ex his tribus motibus erit proprius firmamenti scilicet motus retrogradus. Alij vero duo
proueniunt a duabus alijs cœlis superioribus: ergo ponendum est nonum cœlum, quod
motu sibi proprio rapiat firmamentum a Polo ad Polum; et hoc nonum cœlum propter nimiam
perspicuitatem dicitur cristalinum, glaciale et aqueum, de quo potest verificari dictum
scripturæ: fiat firmamentum in medio aquarum, et diuidat aquas ab aquis ( 14 ). Item
ponendum est cœlum decimum siue primum mobile, quod motu sibi proprio secum rapiat
omnes cœlos inferiores ab oriente in occidentem: ergo cœli mobiles sunt decem; sed præter
hos datur cœlum empireum quod est sedes Beatorum: ergo cœli sunt undecim, quos sequens
sistema ostendit. // [p. 35] Quæres quinam sit numerum stelarum? Respondent
communiter adstronomi stellas notas esse millevigintiduas, ignotas vero et minoris magnitudinis
esse longe plures. Constat primo ex circulo lateo, quem communis opinio tenet esse
compactum ex inumeris stellis. Constat secundo ex quibusdam scripturæ locis, nam Genesis
decimo quinto, Deus Abrahæ dixit : suspice cœlum, et numera stellas, si potes ( 15 ). Item
cap 22 et 26 multiplicabo semen tuum sicut stellas cœli, et sicut arena, quæ est in litore
maris ( 16 ): ergo dantur plures aliæ stellæ præter asignatas ab adstronomis. Quaestio 7 de influxu
cœlestium in sublunaria.
( 12 ) Sottolineato nel testo.
( 13 ) Sottolineato nel testo.
( 14 ) Sottolineato nel testo.
( 15 ) Sottolineato nel testo.
( 16 ) Sottolineato nel testo.

L’insegnamento gesuitico della filosofia naturale all’Università di Cagliari
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ANDREA CANNAS
FRANCESCO ALGAROTTI TRA SCIENZA E LETTERATURA
Francesco Algarotti intendeva contrapporre un’arcadia di filosofi
– e letterati capaci di elaborare immagini del mondo che fossero
scientificamente plausibili – a quella ufficiale dei poeti. Scrutando in
tale direzione possiamo spiegarci la genesi di un’opera come Il
newtonianismo per le dame, comprese le successive edizioni o, per
meglio dire, riscritture – io farò riferimento soprattutto ai Dialoghi
sopra l’ottica neutoniana. Dall’Arcadia
L’Algarotti si distacca per la sua considerazione, comune a tutta la schiera
degli innovatori, del fatto letterario non più in se stesso ma «nella connessione
con tutta la vita», al fine di mostrare non tanto i difetti della nostra
letteratura, ma le cause di quei difetti. Tutta l’opera dell’Algarotti veniva
inserita, con sintetico giudizio, in quel ricco sviluppo di motivi che s’inarca
dall’Arcadia al Romanticismo ( 1 ).
Per l’Algarotti il Seicento in Italia non esprime soltanto una predilezione
per il gusto barocco, o per le costruzioni stupefacenti dell’ingegno,
ma innanzitutto l’epoca in cui sono state gettate le fondamenta
della scienza moderna: Galileo Galilei costituisce il punto di
abbrivo dal quale non si può prescindere, mercé la precisione ed eleganza
raggiunta dalla sua prosa scientifica. Potremmo fare una rapida
carrellata dei titoli di merito acquisiti dallo scienziato toscano dal
punto di vista del discepolo settecentesco: fitti e puntuali sono i riferimenti
nelle pagine dei Dialoghi. Intanto voglio soffermarmi sulla
scelta come interlocutore, nell’opera che tratta dell’ottica e della cosmologia
newtoniana, di un poeta (capace di mutare pelle per diventare
filosofo cartesiano) dal nome di Simplicio, ovvia reminiscenza
dal Dialogo dei Massimi Sistemi:
( 1 ) Si veda la nota critico-bibliografica in F. ALGAROTTI, Saggi; a cura di Giovanni
Da Pozzo, Laterza, Bari 1963.

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ANDREA CANNAS
Chi veggo io là nel giardino? Il signor Simplicio, che viene alla volta di noi.
Che partito prendere per difenderci da quella noia di sonetti, con che egli
mi rifinisce […] Ché non viene un qualche vortice a seco rapirlo, e a torlo
via dal nostro sistema? ( 2 )
Al tono da commedia veneziana dovremo abituarci, è l’intercalare
caratteristico, segna quasi ogni cambio di scena all’interno dei Dialoghi.
Tempo un paio di battute, e l’Algarotti prende a bersaglio il
Simplicio galileiano, rassicurante esponente della scienza scolastica,
quindi il poeta arcade al quale contrappone la sua personale costruzione
filosofica, e infine Cartesio stesso, nel riferimento ironico alla
concezione cosmologica dei “vortici”. Dopo quella prima fugace apparizione,
Simplicio ricompare nel Dialogo sesto ma «di gran petrarchista
è divenuto un valorosissimo antineutoniano», pare quasi che
nel frattempo abbia frequentato un corso accelerato che lo tenesse al
passo con le teorie scientifiche più in voga; ad ogni modo, è in grado
di fronteggiare le argomentazioni dell’Algarotti, e di confutare punto
per punto il sistema newtoniano: seppure in definitiva dovrà abbandonare
il campo sconfitto, adducendo come pretesto per la ritirata
futili motivazioni familiari. La disfida non lesina colpi di scena, e tocchi
di fioretto a base di citazioni dotte e preziose incastonate nel bel
mezzo della trama del ragionamento. Simplicio s’impegna a richiamare
i versi del Petrarca, Algarotti risponde ironicamente col Berni – tuttavia
non mancano altri autorevoli interventi, Dante in primo luogo.
La “resurrezione” di Simplicio rientra nel fenomeno più generale
che riguarda il recupero nel Settecento del dialogo nella sua funzione
didattica e divulgativa: «la pericolosa arma galileiana diventerà strumento
di diffusione della cultura scientifica, si offrirà alle “dame”» ( 3 ).
Anche se, continua Maria Luisa Altieri Biagi, Simplicio barcamenandosi
tra il protagonista e la Marchesa appare un poco incipriato,
oltreché essere alquanto scopertamente invaghito di Cartesio. Da
questa prospettiva, egli muove le critiche consuete, istituzionalizzate,
mirate a destabilizzare il sistema newtoniano; ma non manca
qualche stoccata che affonda su questioni personali, per quanto concerne
ad esempio l’accusa di anglofilia mossa a Francesco Algarotti.
In effetti, il Nostro aveva una profonda conoscenza (e ammirazione)
delle cose inglesi. A partire da Newton evidentemente. Pur tutta-
( 2 ) F. ALGAROTTI, Dialoghi sopra l’ottica neutoniana, a cura di E. Bonora, Einaudi,
Torino 1977, p. 48.
( 3 ) M.L. ALTIERI BIAGI, Scrittori di scienza e generi letterari, in Scienza e letteratura
nella cultura italiana del Settecento, a cura di R. Cremante e W. Tega, il Mulino,
Bologna 1984, p. 332.

Francesco Algarotti tra scienza e letteratura
via nel Saggio sopra il Cartesio Algarotti chiarisce una volta per tutte
come Newton non si sia discostato punto dal metodo e dalla strada
inaugurata dal Galilei, al punto che «se la Italia non avesse avuto un
Galilei, forse la Inghilterra mancherebbe del suo Neutono» ( 4 ). L’esaltazione
di Newton passa sempre per il riconoscimento di Galilei: i più
lucidi intelletti italiani ebbero torto a disertare rispetto a quel tipo di
impegno speculativo, cosicché ora la scienza ha imboccato la strada
del settentrione – «Se persona nel suo filosofare non si dipartì punto
dalle vie del Galilei, il Neutono è desso» ( 5 ). Ci spiega A. Rupert Hall:
Con un grande balzo in avanti, Newton aveva completato ciò che Galileo e
Huygens, prima di lui, avevano solo cominciato, la matematizzazione della
filosofia naturale. Newton aveva effettuato una sintesi delle due diverse tradizioni
matematiche preesistenti, quella di Galileo e Huygens nella meccanica
e quella di Kepler ed altri astronomi, collegandola ad una nuova filosofia
naturale della forza e del moto ( 6 ).
C’è piena sintonia tra l’astronomo toscano e il nostro Algarotti,
lungo la linea evolutiva di una «letteratura galileiana che dal maestro
linceo ai discepoli non lascia mai, anche nei momenti di polemica più
contingente, un progetto di lettura del libro del mondo» ( 7 ). Parole
che ci ricordano quelle di Italo Calvino, quando afferma, a mo’ di
provocazione, che Galilei è il più grande autore italiano in prosa, che
esiste una linea di forza che collega Galilei a Leopardi all’interno della
nostra letteratura, scorrendo la quale viene praticata una scrittura capace
di fondere il linguaggio della poesia e quello della scienza, per costruire
un’immagine complessiva dell’Universo, un universo fruibile e
godibile per gli spettatori-lettori. Calvino ci ricorda che la
metafora più famosa nell’opera di Galileo – e che racchiude in sé il nocciolo
della nuova filosofia – è quella del libro della natura scritto in linguaggio
matematico […] L’immagine del libro del mondo aveva già una lunga storia
prima di Galileo, dai filosofi del Medioevo a Nicolas de Cues, a Montaigne,
ed era usata da contemporanei di Galileo come Francis Bacon e
Tommaso Campanella ( 8 ).
( 4 ) In F. ALGAROTTI, Saggi, cit., p. 427.
( 5 ) Dialoghi, cit., p. 145.
( 6 ) A. RUPERT HALL, La matematica, Newton e la letteratura, in Scienza e letteratura
nella cultura …, cit., pp. 34-35.
( 7 ) B. BASILE, L’invenzione del vero, Studi sulla letteratura scientifica da Galilei
ad Algarotti, p. 7.
( 8 ) I. CALVINO, Il libro della natura in Galileo, in Perché leggere i classici, Mondadori,
Milano 1995, p. 90.
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44
ANDREA CANNAS
Altri punti di orientamento, dunque, per inquadrare meglio
l’ambizione di Francesco Algarotti, uomo di solidissima preparazione
scientifica, che si formò presso l’Istituto delle Scienze di Bologna
sotto la guida di maestri come Eustachio Manfredi, il chimico Bartolomeo
Beccari e il filosofo Francesco Maria Zanotti. Ricordiamo
che, laddove il tentativo di Zanotti di verificare l’esperimento cruciale
di Newton «cioè l’esperienza della doppia rifrazione dei raggi
componenti la luce solare per mezzo di prismi ottici, tendente a dimostrare
la costanza del grado di rifrazione di ogni singolo raggio
omogeneo» ( 9 ) fallì del tutto, l’Algarotti dopo alcuni tentativi (verificando
puntigliosamente che non vi fossero infiltrazioni di luce nella
camera oscura, e utilizzando prismi ottici di qualità migliore) portò
a compimento l’impresa, poi puntualmente descritta nei Dialoghi sopra
l’ottica neutoniana.
Algarotti dunque si presenta al suo pubblico come uomo di lettere
e come cultore delle scienze: la sua prova d’esordio, Newtonianismo
per le dame, è un testo ricco di riferimenti letterari ed è anche
tra i primi in Italia a promuovere il sistema newtoniano: l’ottica, le
concezioni sulla percezione dei colori, sulla propagazione della luce;
nonché l’attrazione gravitazionale universale come forza in grado di
assemblare e tenere insieme tutto il Cosmo. Opera capace di «far
uscire la filosofia newtoniana dai gabinetti degli specialisti per mostrarla
agli occhi del grand public» ( 10 ), vide la luce in Italia (1737)
in un frangente denso di stimoli: quando per esempio Scipione Maffei
si lamentava dei matematici italiani, che si estenuavano a scrivere
in latino per una cerchia di pochi intimi, mentre i colleghi francesi
dal canto loro si cimentavano da tempo, e con ottimi risultati, nella
lingua volgare. Coltivando l’ambizione di rivolgersi ad un pubblico
di non addetti ai lavori. Si manifestava insomma un’esigenza di colmare
la distanza che separava la penisola dalla Francia e dall’Inghilterra,
paesi con i quali nel contempo si moltiplicavano gli scambi di informazioni
( 11 ). Non è un caso che il nostro divulgatore della scienza
per le dame costituisca il prototipo del “viaggiatore”, in contatto con
ambienti illuministi francesi, e circoli culturali d’oltremanica:
( 9 ) M. DE ZAN, La messa all’indice del «Newtonianismo per le dame» di Francesco
Algarotti, in Scienza e letteratura nella cultura …, cit., p. 134.
( 10 ) A. RUPERT HALL, La matematica, Newton e la letteratura, in Scienza e letteratura
nella cultura …, cit., p. 39.
( 11 ) Si veda in proposito l’introduzione di Ettore Bonora ai Dialoghi sopra l’ottica
…, cit.

Francesco Algarotti tra scienza e letteratura
I viaggiatori, prima degli altri, si sentono cittadini del nuovo regno della
ragione e più o meno tutti, anche i nostri, i Baretti, I Bianconi, i Gozzi, i
Bettinelli, i Rezzonico, con umori e limiti diversi, avvertono l’esigenza di
instaurare contatti frequenti e vivi. Di questa schiera l’Algarotti è la punta
forse più avanzata, proprio perché sente l’urgenza di toccare con mano e in
loco la ricchezza della tematica illuministica e perché sconta di persona, più a
lungo e vivamente, l’impossibilità di uno stabile inserimento presso quei centri
di vita culturale ai quali guardava l’avanguardia intellettuale d’Europa ( 12 ).
L’opera prima esordisce a Milano sul finire del 1737, in un’edizione
semiclandestina con la falsa indicazione editoriale di Napoli.
Seguono una serie di ristampe e di modifiche più o meno significative,
fino all’edizione del 1750 – che si può considerare definitiva –
dal titolo Dialoghi sopra la luce, i colori e l’attrazione, ormai piuttosto
differente rispetto alle prime due edizioni: tanto per quel che riguarda
il contenuto, quanto per la distribuzione della materia nei diversi
dialoghi. Leggo da Mauro De Zan ( 13 ): se si sfogliano le pagine dell’Index
librorum prohibitorum del 1774, si può constatare come il
Newtonianismo sia l’unico testo di divulgazione newtoniana ad essere
incappato nella censura ecclesiastica. I trattati di Newton e discepoli
circolavano piuttosto liberamente nei paesi dell’Europa cattolica;
tuttavia in Italia, almeno fino all’elezione di papa Benedetto
XIV, la diffusione di testi dai contenuti eccessivamente devianti rispetto
all’ortodossia era sorvegliata: gli ambienti accademici bolognesi,
dove si formava l’Algarotti, si sottoponevano ad una sorta di
autocensura ( 14 ) per quanto riguarda le pubblicazioni scientifiche,
mentre le opere di Copernico, Galileo, Kepler, Descartes e Fontenelle
nel 1758 erano ancora iscritte nel libro nero della chiesa di Roma. La
Terra girava attorno al Sole, e va bene, questo lo si poteva ancora tollerare:
tuttavia non era consentito porre questioni di principio.
Manfredi e Zanotti subito si provarono a persuadere l’allievo affinché
apportasse le opportune correzioni; si voleva che il Newtonianismo
per le dame superasse le maglie della censura, ma forse soprattutto
si temeva un giro di vite delle autorità nella supervisione di
quegli ambienti scientifici dove fervevano i dibattiti e le verifiche
sperimentali del nuovo complesso di idee.
Newton “rilanciava” un sistema – appunto quello eliocentrico copernicano
– che era in realtà pane quotidiano per la maggioranza degli
( 12 ) Nota critico-bibliografica in Saggi, cit., p. 518.
( 13 ) M. DE ZAN, op. cit., p.139.
( 14 ) Si confronti il De Zan con A. RUPERT HALL, op. cit., p. 44.
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ANDREA CANNAS
scienziati cattolici (trionfo postumo di Galileo: separare le acquisizioni
della scienza dagli articoli della fede) seppure ancora formalmente disapprovato
dai vertici ecclesiastici. La censura colpisce Algarotti mentre
gli sperimentatori (ripeto: anche quelli cattolici) si confrontano e si
infervorano con le vicende della gravitazione universale, per non essere
tagliati fuori dall’elaborazione del progetto che riscrive la fisica del
nuovo Universo. È chiaro che il problema del Newtonianismo non era
Newton. Piuttosto, il nostro eclettico veneziano proponeva con coerenza
un modello culturale inglese, che mirava tra l’altro ad intrecciare
la fisica di Newton con l’empirismo di Locke, altro autore che non
scampò alla riprovazione della Chiesa a causa del Saggio sull’intelletto
umano – aspetto sul quale ritorneremo in seguito. In tal modo confermava
una esplicita dichiarazione d’intenti della Massoneria, all’epoca
oggetto di dure repressioni da parte delle autorità di mezza Europa.
Algarotti non faceva mistero delle sue simpatie, mentre la messa all’Indice
si risolse (oltralpe) in una efficacissima campagna pubblicitaria.
Il rischio in definitiva era ritrovarsi isolato rispetto ai gruppi di
studiosi che in Italia sostenevano lo sperimentalismo, e che intendevano
agire con prudenza e senza suscitare risentimenti o scalpore
(senza pubblicità, appunto). Algarotti nelle edizioni del ’46 e del ’50
opera gli interventi più significativi per superare le obiezioni già
mosse a suo tempo dai colleghi di Bologna. Per esempio si fanno
meno espliciti i riferimenti alla gnoseologia sensista, e si attenua
l’esaltazione dello sperimentalismo in funzione antioscurantista:
Algarotti tentò nelle due ultime edizioni, e in modo certamente più completo
e coerente in quella del ’50, di ridurre la sua opera ad una esposizione volgarizzata
e nel contempo neutra dei soli risultati scientifici di Newton, rinunciando
così al proposito iniziale di presentare la filosofia sperimentale
come una metodologia valida in ogni ambito, dalla ricerca naturale alla pratica
politica, e di affermare la superiorità dell’empirismo laico e immanentista,
prodotto originale della realtà inglese, nei confronti del trascendentalismo
proprio delle filosofie scolastiche e razionaliste imperanti in Italia ( 15 ).
I Dialoghi di Francesco Algarotti prendono spunto da modelli facilmente
rintracciabili: abbiamo parlato del Simplicio galileiano,
dobbiamo sottolineare ancora il rapporto con il Fontenelle (Entretiens
sur la pluralité des mondes), soprattutto per quanto riguarda il
tono e la struttura complessiva dell’opera. Addirittura Voltaire, bocciando
il Newtonianismo per le signore, l’accusava di aver grossomodo
plagiato il testo francese (peraltro, dopo un primo giudizio dove
( 15 ) M. DE ZAN, op. cit., pp. 141-142.

Francesco Algarotti tra scienza e letteratura
si era espresso positivamente). Al di là di questa celebre stroncatura,
a corrispondere è soprattutto la forma che ciascuno dei due autori ha
scelto per l’esposizione della nobile materia: il dialogo ruota sempre
attorno al ruolo di interlocutrice interpretato da una ineccepibile e
fascinosa figura femminile. Una chiacchierata reiterata per sei serate
nel caso del Fontenelle; sei incontri si susseguono invece per l’Algarotti,
distribuiti in maniera più irregolare nel tempo. Sentiamo direttamente
dall’autore ( 16 ) il debito contratto verso gli Entretiens sur la
pluralité des mondes:
Voi foste il primo ne’ vostri Mondi a richiamar la selvaggia filosofia da’ solitari
gabinetti e dalle biblioteche de’ dotti per introdurla ne’ circoli e alle
tolette delle dame. Voi primo interpetraste alla più amabil parte dell’universo
que’ geroglifici, che non erano altra volta che per gl’iniziati, e trovaste
il modo di ornare e di sparger di fiori ciò che parea pieno di difficoltà e
di spine […]
Voi avete abbellito il cartesianismo: io ho procurato di domar, per così
dire, il newtonianismo, e di rendere aggradevole la sua medesima austerità.
La dedica sottolinea dunque due aspetti: aver divulgato un’opera
scientifica a vantaggio di una platea più ampia della consueta e austera
cerchia di accademici – ma, badiamo bene, si tratta pur sempre
di un pubblico selezionato, che si intravede dietro la bella silhouette
della Marchesa – e aver compiuto l’impresa con l’ausilio di uno stile
elegante, piacevole, possiamo dire adatto alla conversazione: ma innanzitutto
preciso.
Tutto il brano, da me riportato solo in parte, si presenta come
una dichiarazione d’intenti, che illustra i principi a cui si atterrà
d’ora in avanti il nostro prosatore: i concetti difficili, che concernono
i problemi della fisica, devono essere mescolati sapientemente
con argomenti più leggeri, atti a «sollevar lo spirito»; viene bandita
l’erudizione vacua e i termini matematici, con poche eccezioni illustrate
con la mediazione degli oggetti più familiari; lo stile deve
adattarsi al dialogo: deve svilupparsi «netto, chiaro, preciso, interrotto
e sparso d’immagini e di sali»; bisogna schivare i periodi lunghi e
con il verbo alla fine «nemici de’ polmoni e del buon senso». Tutta
zavorra che viene lasciata
a coloro che hanno abbandonato il Saggiatore per la Fiammetta, insieme
colle parole antiche e rancide che fanno una gran parte del lor sapere e del-
( 16 ) Dalla dedica al signor Bernardo di Fontenelle che accompagna il Newtonianismo.
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ANDREA CANNAS
le loro delizie. Il conte di Castiglione dugento anni fa osò scrivere per esser
inteso da’ suoi contemporanei, e abbandonando nel suo Cortegiano i gotici
rancidumi seguì nello scrivere l’uso del parlare delle persone pulite e colte
del suo tempo, l’uso quel supremo giudice in tutte le altre lingue fuorché
per isventura nella nostra, e ci arricchì quanto allo stile del più bel libro di
cui l’Italia possa vantarsi.
Sulla questione della lingua Algarotti ritorna nei due interventi
Saggio sopra la lingua francese e Sopra le necessità di scrivere nella propria
lingua (molto apprezzati dal Leopardi), in un momento in cui
la Francia «imponeva il suo prestigio anche grazie a una lingua che
sembrava fatta per diffondere la cultura», e il suo intervento «non
aveva nulla di dilettentesco» ( 17 ). Volgendo la sua attenzione al Rinascimento,
sceglie di utilizzare come cartina di tornasole alcuni
passi particolarmente significativi del Dialogo delle lingue dello Speroni:
non gli interessano le diatribe attorno alla distinzione su quale
sia la lingua più elegante. Vuole invece impossessarsi dello strumento
più efficace sul piano della comunicazione, fino ad «inserirsi in
un discorso perfettamente al passo con le più avanzate teorie linguistiche
del sensismo» ( 18 ).
D’altra parte l’Algarotti lamenta che in Italia, a parte qualche traduzione
dal francese, siano facilmente reperibili solo i canzonieri e le
raccolte di rime: e le dame non sbattono le ciglia che su «sonetti pieni
d’un amor metafisico e platonico». A questi versi malcapitati, il
nostro eclettico uomo – che voleva applicare le scienze all’arte, e il
razionalismo dei suoi studi ad un ideale di imitazione della natura
che distillasse la letteratura fino ad un ideale di chiarezza e semplicità
– contrappone la leggerezza della sua prosa, quasi a voler controbilanciare
con un movimento sospeso la forza della gravitazione universale
oggetto delle sue disquisizioni. Da parte di alcuni commentatori
questa dote venne forse confusa con la superficialità, con cui
l’astrofisica e l’ottica sarebbero stati introdotti nei salotti meglio frequentati
d’Europa; eppure bisogna dare atto al Newtonianismo che i
punti cruciali e nevralgici delle teorie e dei sistemi, sempre inseriti in
un discorso globale, vengono affrontati con puntiglio e precisione.
Per quanto riguarda il pubblico italiano in particolare, bisogna
dire che esso concretamente si riduceva a un circolo ristretto di intellettuali:
mancava un auditorio “medio”, borghese, e «priva di questo
necessario appoggio anche molta polemica dell’Algarotti rischia
( 17 ) E. BONORA, op. cit., pp. 193-196.
( 18 ) Ivi, p. 96.

Francesco Algarotti tra scienza e letteratura
di apparire sospesa per aria» ( 19 ). Certamente, la volontà di riproporre
in Italia quanto accadeva in Francia o in Inghilterra svela una precisa
volontà di rinnovamento, una tensione civile: tuttavia, lo stesso
Algarotti in fondo «non si curò di approfondire l’intuizione illuministica
del nesso tra progresso civile e diffusione del sapere scientifico»
( 20 ). Ineluttabilmente, egli sentiva il limite “politico” della situazione
italiana, in quanto la mancanza di unità, l’assenza di una «comune
capitale» che rappresentasse anche un centro aggregante di
iniziative culturali (anche qui, in fondo, un centro di gravità) non
favoriva (certo il «traffico di cognizioni», ma piuttosto la dispersione
dei talenti e la frammentazione dell’informazione. Anche da questo
punto di vista l’Inghilterra faceva scuola (Algarotti l’argomenta profusamente
nel saggio Perché i grandi ingegni fioriscano insieme) in
quanto «sotto al medesimo governo» – una volta sedate le guerre civili
– le arti e le scienze trapiantate dall’Italia e dalla Francia trovarono
oltremanica ampia disponibilità di mezzi e piena espressione nelle
pagine dei vari Bacone, Milton, Locke, Addison e Newton.
I Dialoghi sopra l’ottica neutoniana esordiscono con una esposizione
della ipotesi del Cartesio sopra la natura della luce, e de’ colori.
Non senza aver ribadito, una volta di più, che fu Galileo ad atterrare
«l’arabesco edificio dell’aristotelismo» – mentre «con la sesta alla
mano pose i fondamenti del tempio del sapere» – per poi passare il
testimone e l’ingombrante eredità a Newton ( 21 ). Di seguito Algarotti
elogia il linguaggio di Galileo, articolato in maniera tale da veicolare
e trasmettere con agilità i risultati dell’esperienza scientifica, e
quindi esalta il suo metodo di lavoro: il ricercatore non deve esitare
a mettere in discussione i dati acquisiti, sottoponendoli senza sosta
alla verifica della sperimentazione. Percepiamo un moto di contrapposizione
rispetto a Cartesio. Già nel Saggio sopra il Cartesio, l’Algarotti,
pur riconoscendone (e dando un po’ per scontati) i meriti, non
vuole procacciargli alcuna ulteriore soddisfazione, e prima compila
un lungo elenco di precursori (Bacone, Niccolò da Cusa, Telesio,
Campanella) nella lotta contro gli scolastici, poi afferma l’indiscutibile
precedenza (non solo cronologica) dell’astrofisico toscano:
e se taluno in Francia, forse per non eclissare il suo compatriota, o lo trapassò
con silenzio dove più bisognava parlarne, o ne fece meschinamente
( 19 ) A. LEPRE, Nota sull’Algarotti, in «Società», 1959, I, pp. 84-99.
( 20 ) Si veda ancora il DE ZAN, op. cit.
( 21 ) Dialoghi sopra l’ottica …, cit., p. 15.
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ANDREA CANNAS
menzione, egli venne nel medesimo tempo quasi ricompensato da due
chiarissimi Inglesi che non temettero dargli quella lode che gli si conviene.
L’uno è David Hume […] L’altro è Colino Maclaurin… ( 22 ).
Insieme a un tocco di campanilismo registriamo l’enfasi che si dispiega
lungo il piano della continuità fra il lavoro di Galileo e quello
di Newton:
Dietro alla scorta della esperienza, con la Geometria sempre ‘a fianchi, egli
[Galileo] seguì passo passo la natura; e incominciando col metodo analitico,
che dagli effetti risale a poco a poco alle cause, coltivando indefessamente
la scienza dei particolari che soli possono fare scala agli universali,
tentò di avanzare all’acquisto della verità. Il Cartesio all’incontro lasciando
da banda la esperienza, e della Geometria non facendo uso niuno, nelle
materie fisiche incomincia col metodo sintetico, cotanto pericoloso in Filosofia,
se preceduto non è dall’analitico ( 23 ).
Insomma, Cartesio (letto dall’Algarotti) ha composto una filosofia
tutta «speculativa e fantastica», una cosmologia troppo metafisica,
al limite dell’inconsistenza e dell’impalpabilità, mentre il binomio
Galileo-Newton ha seguito la strada maestra della matematica e
della sperimentazione. C’è peraltro un’accusa di plagio:
Il bello e capitalissimo teorema del medisimo nostro accademico, che gli
spazi percorsi dai gravi in cadendo stanno fra di loro come i quadrati dei
tempi, come anche l’isocronismo de’ pendoli o delle corde che vibrano, il
Cartesio avrebbe voluto fargli credere invenzioni sue proprie […] ancoraché
in un’altra sua lettera egli protesti non avere niente veduto nei libri del
Galilei che lo movesse a invidia, e quasi niente ch’egli avesse voluto riconoscere
per suo ( 24 ).
Dunque è con parole soffuse appena di ilarità che (sempre nel
Cartesio) Francesco Algarotti descrive come le traiettorie bizzarre e
disordinate delle comete abbiano mandato in frantumi, con la loro
natura imprevedibile, la teoria cartesiana dei vortici, che spiegava
l’origine e il moto dei corpi celesti attorno al sole. Quelle stesse comete
che avevano incrinato i «cieli adamantini» degli aristotelici, pur
cessando di manifestarsi come presagio funesto per il blasone dei
principi, seguitano a portare disgrazia ai sistemi filosofici: questo il
caustico commento del veneziano.
( 22 ) Saggi, cit., pp. 408-409.
( 23 ) Ivi, p. 409.
( 24 ) Ivi, pp. 419-420.

Francesco Algarotti tra scienza e letteratura
Si susseguono nei Dialoghi gli attacchi al «palazzo magico del
Cartesio», alla concezione cartesiana della luce e dei colori, e a quella
dei vortici che, un po’ come fanno i mulinelli dei fiumi, porterebbero
a spasso i pianeti del sistema solare ( 25 ). Il culmine viene raggiunto
nella disputa (l’assalto, per adottare un termine che appartiene
alla scherma) con Simplicio, di cui ci siamo già occupati in precedenza.
Uno scossone alla fisica cartesiana, la quale non si è resa capace
di reggere alla prova dell’esperienza. E il crollo dell’edificio segue
alle grandi scoperte di Newton, le quali riscrivevano con cifre differenti
il libro del mondo.
Leggo da Leopardi copernicano ( 26 ) di Antonio Di Meo:
L’ammirazione sconfinata nei confronti di Newton e la sua quasi divinizzazione
hanno rappresentato un fenomeno diffuso e impressionante nella
scienza e nella cultura settecentesche e in quelle successive. Il termine
«newtoniano» era diventato sinonimo di «razionale» e il contenuto di questa
ragione era la rivelazione stessa dell’opera di Dio attraverso la mente del fisico
inglese […] Nel 1728, nel The newtonian system on the world, J. TH. Desaguliers
esclamava liricamente: «Si piega la Natura e obbedisce, costretta alla
sua mente penetrante […]». Nel 1735, Alexander Pope […] scrisse poi i celeberrimi
versi contenuti nell’Essay on man: «La Natura e le leggi di Natura
giacevano nascoste nella notte: / Sia Newton, disse Dio – e tutto fu luce».
Pope ci interessa in particolar modo, perché proprio i suoi versi
nei Dialoghi preannunciano e introducono sul palcoscenico la figura
dello scienziato inglese: la Poesia, irrobustita dalla Filosofia, accompagna
sulla scena la Scienza. L’Algarotti in particolare annota la parafrasi
di alcuni altri versi di Pope sempre dedicati a Newton («gli
angioli, vista tanta scienza in forma umana, lo guardano del medesimo
occhio che noi guardiamo quello animale tanto simile a noi»);
mentre mette in bocca al solito Simplicio (creando un effetto di distorsione,
forse involontario) i versi che egli stesso compose in onore
dell’eroe (rammentiamoci l’accusa di anglofilia):
Salve o beata oltremarina piaggia,
salve terra felice, o dagli dei
amata terra! A te produr fu dato
colui, cui diè di propria man natura
le immutabili leggi, ond’essa l’ampio
regge universo, a lui solo cortese,
ritrosa agli altri
( 25 ) Basta sfogliare le pp. 16-17, 25-26, 44-47, e via dicendo.
( 26 ) Vedi in proposito: A. DI MEO, Leopardi copernicano, Demos editore, Cagliari
1998, p. 97.
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ANDREA CANNAS
Troppo spazio sarebbe necessario per dar conto di tutti gli elogi destinati
al Newton, contenuti nei Dialoghi; egli è proposto come principale
esponente di quel movimento che aveva (e qui scorgiamo una soddisfazione
e un appagamento di sapore quasi illuministico) «esteso i
confini del nostro sapere». Appare talora agghindato nelle vesti del semidio;
come tale può fare il suo ingresso nel mito e, per bocca della Marchesa,
affiancare (non a caso) Prometeo nell’immaginario collettivo:
e se un tempo si favoleggiò di Prometeo ch’egli rubò il fuoco agli dei, si
può dire presentemente che il Neutono rubò loro il secreto della composizione
della luce, e ne fe’ parte agli uomini ( 27 ).
Ancora, assecondando una personale predilezione per gli aneddoti
esemplari, Algarotti ne riporta uno davvero significativo: Halley
scopre, vero e proprio talent-scout, la portata scientifica delle sconvolgenti
formule di Newton; a quel punto s’inventa un’equazione
per la quale egli stesso starebbe al Newton come Ulisse sta ad Achille
(mercé la guerra di Troia) ( 28 ). Di Algarotti medesimo invece il parallelo,
nei Pensieri diversi, tra Omero, re dei poeti, e Newton, re dei
filosofi (passo riportato nella Crestomazia del Leopardi).
Non c’è il rischio di smarrire il filo: Galileo apporta delle migliorie
al telescopio, strumento che gli consente di scrutare a fondo la
vastità del cielo, e permette all’uomo di specchiarsi nella meraviglia
di infiniti altri mondi e punti di vista; Newton perfeziona l’opera inventando
il telescopio riflettore (newtoniano, per l’appunto) che
gratifica l’osservatore di una inaudita compiutezza e definizione di
visione. Con gli studi sulla caduta dei gravi Galileo stabilì le prime
leggi sul movimento e le proprietà generali dei corpi («E per tali vie
principalmente egli entrò nel campo della vera filosofia, dove da tutti
è riconosciuto qual primo duce e maestro»), Newton rifinì una
legge più vasta ancora (già poeticamente intuita da Milton), che soggiogasse
anche il più piccolo granello di polvere dell’universo:
E scoprì dipoi come tutti i corpi, anche i più lontani dalla terra, sono dotati
di gravità gli uni verso gli altri; trovò di tale gravità universale le leggi
primitive; giunse a vederne sino alla causa; e si levò a così alto volo ( 29 ).
Si levò a così alto volo, a discapito dei vortici di Cartesio; insomma,
tale è il ritmo che scandisce il racconto dell’Algarotti alla sua bella
( 27 ) Dialoghi sopra l’ottica …, cit., p. 81.
( 28 ) Ivi, p. 125.
( 29 ) Ivi, p. 98.

Francesco Algarotti tra scienza e letteratura
Marchesa: si sviluppa lungo una linea di continuità (Galileo-Newton)
e si complica per un movimento di contrapposizione (principalmente
versus Cartesio) che culmina nel confronto con Simplicio. Una narrazione
che vuole essere piacevole e non manca dunque di creare effetti
di suspense, introducendo un contraddittorio fittizio che fornisce il
pretesto per chiosare la greve materia con moti arguti e battute di spirito.
Tutto come da copione.
Risulta evidente anche l’intenzione dell’autore di stupire e strabiliare
la propria incantevole ascoltatrice, quasi un retaggio del secolo
passato: dopo averla lusingata coi riferimenti e le citazioni dai versi
dei poeti, dopo averne stuzzicato la curiosità cogli aneddoti e i pettegolezzi
sulle diatribe tra gli accademici, prosegue articolando una serie
di immagini spettacolari tratte dalla geografia astronomica dell’Universo;
e rapportandole agli oggetti della vita quotidiana (muta
evidentemente il sistema di riferimento) ottiene delle similitudini
preziose ed efficaci. Al di là della spettatrice privilegiata si intravede
il pubblico più numeroso dei lettori, di palato fino e non digiuno di
cognizioni matematiche: il problema rimane sempre lo stesso, combinare
precisione e piacevolezza.
Ecco allora l’immagine delle acque marine che si sollevano per
l’attrazione della Luna nel fenomeno delle maree, proporzionata all’azione
che è in grado di suscitare l’ambra ben strofinata sugli oggetti
minuti. Oppure la definizione della velocità della luce ottenuta
per comparazione:
in un mezzo quarto d’ora, e non più, viene da esse [particelle della luce]
corso lo spazio di quasi cento milioni di miglia nel venire dal sole alla terra.
Vedete i più bravi corsieri d’Inghilterra, che in un minuto hanno già fatto
un miglio, essere al paragone più tardi che testuggini.
Le particelle della luce, che in sé contengono «gli smeraldi, i rubini
e i zaffiri», hanno ovviamente massa infinitamente piccola,
altrimenti la luce scagliata dal sole menerebbe qui in terra la rovina del
cannone, anzi che drizzare e aprire i fioretti nel loro stelo ( 30 ).
Con allusione a Dante.
I satelliti ebbero origine dal nucleo delle comete attratto nel campo
di forza dei pianeti; in particolare Saturno non si accontentò della
roccia gelida e spogliò invece della coda luminosa una cometa che
( 30 ) Ivi, pp. 122-124.
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ANDREA CANNAS
si allontanava dal sole. Da un ratto gravitazionale prende vita il più
celebre degli anelli
ben vi è noto, Madama, come vicino al sole le comete s’infuocano, e quasi
altrettanti vesuvi mandan fuori que’ torrenti di vapori e di fumo, che corrono
in cielo tanti milioni di miglia. Avvenne adunque che la coda di una
cometa costeggiò Saturno, intantoché la testa o il nocciolo di essa faceva
assai dalla lungi suo cammino. E però la coda soltanto venne a restar presa
nella sfera dell’attrazione di quel pianeta […] ella dovette cinger Saturno,
condensarsi, stiacciarsi, prendere la forma di quel maraviglioso anello che
gli sta sospeso d’intorno ( 31 ).
Il brano si conclude con un elogio della Marchesa rivolto al matematico
e filosofo francese Maupertuis, il quale era stato capace di
combinare nella sua teoria ragione e fantasia, pennellando una bella
immagine da associare al passaggio delle comete, ancora presagio nefasto
per i creduli e per i superstiziosi. In altri passaggi il tentativo di
Algarotti di conciliare l’esposizione delle dottrine newtoniane con la
scioltezza e scorrevolezza della lettura appare meno brillantemente
riuscito: Voltaire – ripeto, dopo un primo giudizio benevolo –
espresse un parere negativo su quel tentativo di introdurre la fisica di
Newton nei salotti. Scienza così ardua non si adattava alle brillanti
conversazioni delle dame (Voltaire dal canto suo risponde con gli
Eléments de la philosophie de Newton). Valutazione decisamente troppo
severa. L’ampia diffusione che l’opera fece registrare in Europa
testimonia del gradimento del pubblico; mentre il successo della formula
algarottiana si rispecchia nel titolo di un altro lavoro divulgativo
dell’astronomo Lalande: l’Astronomie des dames (1785). Ettore
Bonora, nell’introduzione ai Dialoghi sopra l’ottica neutoniana, individua
un limite (nella storia delle successive edizioni) nel momento
in cui l’Algarotti, laddove espone per esteso l’ottica newtoniana, della
teoria dell’attrazione invece dà soltanto quei cenni strettamente
necessari – riducendo di conseguenza il proprio impegno speculativo.
A dire il vero, mi sembra che proprio la sezione dedicata alla minuziosa
descrizione del nuovo sistema ottico e della teoria della luce
e dei colori sia discontinua, e lamenti delle cadute di tono nel ritmo
stesso della narrazione; difficilmente il nostro scienziato avrebbe saputo
tener desta l’attenzione dell’ascoltatrice per svariate pagine
dense di contenuti tecnici e specialistici. Invece nella parte dedicata
all’astrofisica, alla descrizione della cosmologia newtoniana (che non
si risolve affatto in poche battute, come si può desumere anche solo
dai passi qui riproposti in modo sparso), l’Algarotti – proprio nel
( 31 ) Ivi, pp. 146-150.

Francesco Algarotti tra scienza e letteratura
momento in cui offre una visione d’insieme – tiene fede ai suoi impegni,
riuscendo ad essere leggero (come chiedeva Voltaire) quanto
basta per raccontare in modo animato un Universo possibile e plausibile
che fosse anche (matematicamente) esatto.
A concludere idealmente la serie dei dialoghi scientifici, l’opera
che Algarotti volle intitolare Caritea – dal nome della nuova dama
interlocutrice. Riconosciamo il consueto contesto salottiero, questa
volta però trasposto in ambiente “veneziano” – quasi un ideale ritorno
a casa dopo tanto girovagare per le corti d’Europa – e una complicazione
in più: «un passaggio dalla fisica pura newtoniana […]
alla fisiologia dell’apparato visivo, connessa con ardue problematiche
d’anatomia» ( 32 ). Aspetti che erano stati messi in secondo piano
nelle precedenti occasioni:
i rapporti tra visione “periferica” e “centrale” (ossia tra la fisiologia dell’occhio
e del cervello che riorganizza gli stimoli luminosi capovolti della retina)
e ancor più la quaestio sulla visione “binoculare” sono problemi destinati
a porre dubbi a generazioni di scienziati ( 33 ).
Per risolvere la questione Algarotti in questo caso non si affida al
contributo dei “filosofi”: piuttosto dà credito alle esperienze concernenti
«taluni uomini, ciechi o bendati» e alla loro capacità «di riconoscere
certi colori al tatto»; un complesso di fenomeni di cui si era
già occupato Cartesio nei Dioptrique, Boyle negli Experiments and
Considerations Touching Colours, e lo stesso Lorenzo Magalotti in
Italia in una delle sue Lettere scientifiche ed erudite:
ma Algarotti si lascia decisamente alle spalle la scienza – e la divulgazione –
secentesca. Giuoca tutte le carte della sua informazione presentando la soluzione
delle quaestiones attraverso l’elegantissimo réportage di un intervento
oculistico di cataratta che […] rivela, col nome di un «chirurgo inglese»,
quali fossero gli orizzonti di questo scienziato da salotto ( 34 ).
Il nome in ballo è quello del celebre e celebrato chirurgo inglese
William Chesselden, e l’operazione viene descritta con grande cura
di dettagli; in effetti l’intervento all’epoca suscitò parecchio scalpore
in quanto risolveva una disputa decennale: poteva un cieco nato, in
grado di distinguere al tatto un cubo da una sfera, distinguere i due
( 32 ) B. BASILE, L’invenzione del vero, cit., p. 213.
( 33 ) Ivi, p. 215.
( 34 ) Ivi, p. 216.
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ANDREA CANNAS
solidi una volta riacquistata la vista (senza ovviamente accostarvi le
dita)? Locke, nel momento in cui negava la presenza di idee innate,
traendo le conseguenze del suo empirismo rispondeva «no». Il dibattito
coinvolse «le migliori menti speculative dell’epoca», da Leibniz a
Berkeley a Condillac. L’operazione di Chesselden, riportata dall’Algarotti,
confermò in pieno le argomentazioni degli empiristi:
il ragazzo non solo non ravvisò alcun oggetto familiare; ma accusò disturbi
percettivi di vario genere, fino a mettere in discussione le sue stesse coordinate
spaziali. William Chesselden dimostrò, dunque, che la «vista» è come
una «lingua» che si apprende solo con l’uso […] significava, in poche parole,
ammettere un’ottica “fisica” con le regole, poniamo, di Newton, ma
tale, una volta calata nella struttura umana, da dover costituirsi nei fenomeni
percettivi attraverso una consuetudine nel “giudizio” mai intermessa:
l’abitudine dei “sensisti” riprendeva in tal modo una vittoria sulla logica
dei dialettici […] dopo l’approccio empirista, credere, nei modi di un Leibniz,
a una mistica armonia tra anima e corpo, o cercare, cartesianamente,
i nervi responsabili delle connessioni tra res cogitans e res extensa, era collocarsi
fuori da un dibattito che già postulava, per la sensazione e per la visione,
un approccio comportamentale ( 35 ).
Di tutta questa faccenda Algarotti (con grande prontezza) approfitta
per dare un’altra scrollata all’edificio cartesiano, provandosi a
contaminare una volta di più la fisica newtoniana con Locke, cioè
con una fisiologia empirista:
Locke e Newton anche per l’Algarotti, come già per Voltaire, operarono in
campi diversi ma con intenti e metodi identici per l’affermazione della
nuova filosofia sperimentale ( 36 ).
Di più: si spinge fino ad affermare la preminenza del tatto rispetto
agli altri sensi, non solo per quanto concerne la realtà corporea,
ma anche per quel che riguarda l’ordinamento delle nostre idee e le
relative questioni filosofiche, come dire che il newtonianesimo è superato
a favore del sensismo ( 37 ).
Tuttavia l’Algarotti si muove anche nel dialogo Caritea con una
certa cautela, nel timore di toccare nervi scoperti e la sensibilità delle
autorità (ecclesiastiche) più suscettibili; e, se descrive puntualmente
l’intervento di Chesselden, non approfondisce il discorso fino a cita-
( 35 ) Ivi, p. 219-221.
( 36 ) W. TEGA, Mens agitat molem. L’Accademia delle Scienze di Bologna (1711-
1804), in Scienza e letteratura, cit., p. 95.
( 37 ) Vedi in proposito anche: M. DE ZAN, op. cit., p. 137.

Francesco Algarotti tra scienza e letteratura
re esplicitamente tra le sue fonti i «”libertini” Voltaire, Condillac, La
Mettrie». Ma soprattutto
la Lettre sur les aveugles à l’usage de ceux qui voient di Diderot, un saggio
materialista più volte condannato dalle autorità ecclesiastiche, ma di estremo
rigore scientifico, ammirato persino da Voltaire, che pure prese le distanze
dall’opera temendone l’ateismo di fondo ( 38 ).
La tesi di Bruno Basile, secondo la quale in fondo l’Algarotti
avrebbe composto una sorta di «Diderot pour les dames», quasi tradendo
le vecchie posizioni newtoniane, prende in considerazione un
testo intermedio fra Caritea e la Lettre. Nel quale viene in parte a
mancare quell’«acre sensismo materialistico» che avrebbe causato
non pochi problemi con la censura. Per altro, mentre mancano puntuali
riscontri di carattere filologico tra le due opere citate, questi si
possono rintracciare nella “riscrittura” della Lettre contenuta alla
voce aveugle dell’Encyclopédie di Diderot e d’Alambert. Di nuovo,
un’operazione di riscrittura corrisponde all’intento di cautelarsi da
iniziative intolleranti da parte di eventuali supervisori esterni. Era
stato il caso dell’Algarotti, nelle successive stesure del Newtonianismo:
lo stesso vale per Diderot, che sposta «tesi filosofiche eterodosse
da voces certo perseguibili e “lette”» a un lemma destinato a non attirare
la curiosità degli inquisitori, dopo aver eliminato le «inferenze
ateistiche» ( 39 ) contenute nella Lettre. Tuttavia egli conserva i dati e
le acquisizioni scientifiche con il riferimento a Chesselden.
Esistono molti documenti (rimando ancora una volta a una lettura
del saggio del Basile) i quali testimoniano che Francesco Algarotti
fu uno dei primi lettori (e commentatori) veneziani dell’Encyclopédie.
I tempi, fra l’uscita del primo tomo della voluminosa raccolta
e la composizione del dialogo, coincidono. Il panorama delle
letture del nostro scienziato e letterato, al momento della composizione
di Caritea (intorno al 1752) si arricchisce: non solo l’anglofilia
ma anche il peso (non solo materiale) dell’esperienza francese dell’Enciclopedia,
che trascritta con tempestività vertiginosa «stava diventando
preponderante». Percepiamo, ancora, l’ebbrezza timorosa
di sdrucciolare verso «un’etica dell’epicureismo» (e il riferimento
corre a L’art de iouir ou école de la volupté di La Mettrie) ( 40 ): Alga-
( 38 ) B. BASILE, L’invenzione del vero, cit., p. 227.
( 39 ) Ivi, p. 229.
( 40 ) Eventualità che possiamo scorgere nelle parole della dama, in alcune battute
del dialogo.
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ANDREA CANNAS
rotti lavora e media diversi suggerimenti e suggestioni, senza mai
raggiungere vette instabili e scabrose di pensiero, sempre smorzando
i toni e smussando gli angoli, con quel tanto di galanteria e squisitezze
che ricordano una «commedia amorosa del rococò veneziano».
Il giudizio conclusivo di Bruno Basile si estende anche agli altri
dialoghi divulgativi che hanno preceduto la Caritea:
L’accordo rapsodico delle meditazioni scientifiche non si è costituito in
trattato, rifluendo piuttosto in quesiti accademici, che promettono più di
quanto non mantengano. Vecchio problema, che lo stesso Algarotti affrontò
a proposito del Newtonianismo, valutando, contro i suoi detrattori affascinati
dal mito della summa, l’importanza di certe questioni di scienza
portate con garbo allettante alla riflessione di un gran pubblico, da anteporre,
in ogni caso, all’effimero – allora di moda – di una poesia d’occasione
( 41 ).
Abbiamo parlato di Galileo, ora ci spostiamo in avanti secondo la
linea temporale e approdiamo a Recanati: di Leopardi sfogliamo
l’opera giovanile, la Storia dell’astronomia, esaltazione illuminista
delle scienze astronomiche in quanto discipline utili a correggere gli
errori popolari. Ma dobbiamo poi rivolgerci con intenzione forse soprattutto
alle Operette morali, dove vengono messe in campo alcune
concezioni cosmologiche che ribaltano il tradizionale modo di guardare
all’universo delle cose. Intanto, l’Algarotti (ben rappresentato
nella Crestomazia italiana, cioè scelta di luoghi insigni o per sentimento
o per locuzione, raccolti dagli scritti italiani in prosa di autori eccellenti
d’ogni secolo) rappresenta una delle fonti del poeta recanatese per attingere
all’opera di Newton ( 42 ). Per esempio, nella Storia dell’astronomia
troviamo più che un accenno ad un concetto cardine della cosmologia
leopardiana: l’Universo che si regge e si mantiene in una
condizione di equilibrio che risulta dall’opposizione di due forze
contrarie. Idea che compare nelle antiche filosofie della natura, ma
anche punto nevralgico del newtonianesimo (come lo stesso Algarotti
ci spiega profusamente): il perfetto bilanciamento fra la forza di
attrazione universale e la forza di repulsione o centrifuga. Quelle che
Poe (in una sorta di poema in prosa che racconta l’origine e la distruzione
del cosmo, Eureka) avrebbe definito il corpo e l’anima del
mondo: «l’una è il principio materiale dell’universo; l’altra quello
spirituale».
( 41 ) Ivi, pp. 232-233.
( 42 ) Leopardi copernicano, cit., p. 96.

Francesco Algarotti tra scienza e letteratura
Ma torniamo ad Algarotti:
se dominasse soltanto la forza attrattiva senza che ninun’altra imbrigliata la
tenesse […] ogni cosa andrebbe ad unirsi insieme; in una picciolissima mole
ristringerebbesi l’aria, l’acqua e la terra; quanto costituisce e forma questo
nostro globo terraqueo si ridurrebbe in una picciola pallottolina, in quella
guisa che ridurrebbesi in una massa il sistema solare, se i pianeti, oltre alla
forza che hanno di tendere verso il sole, dotati non fossero di quell’altra ancora
di allontanarsi per linea diritta da esso. E dal giusto temperamento di
tali contrari, o sia dalla discordante concordia delle cose, ne risulta l’ordine e
la forma del mondo ( 43 ).
Le leggi della fisica sembrano dilatarsi nelle pagine di un libro (il
libro del mondo, appunto), e la lettura che ne vien fatta è una lettura
filosofica.
Sulla scorta dell’opera di Fontenelle, Entretiens sur la pluralité des
mondes, Francesco Algarotti nei Dialoghi ritorna in diverse occasioni
sulla questione dell’esistenza di altri mondi abitati, basandosi sul
procedimento – che assume valore e consistenza anche per le discipline
scientifiche – dell’analogia:
… il gran principio dell’analogia, che è quasi la pietra angolare degli edifizi,
che va innalzando qua e là la scienza della fisica, o per meglio dire la ragion
dell’uomo. Se due o più cose noi le conosciamo esser simili in molte e molte
loro proprietà, sicché ne sembrino come della stessa famiglia, noi dovremo
inferirne, e non a torto, che simili sieno ancora in ciò che sappiamo appartenere
all’una, e non è così manifesto appartenere anche all’altra. Con tale
principio si governa, quasi che in ogni cosa, la umana prudenza; e arrivano
per tal via i filosofi a conoscere la natura di quelle cose che da noi maneggiare,
a dir così, non si possono, o per la immensa loro distanza o per la incredibile
loro picciolezza. E dove con la scorta di esso non conduce egli la sua
Marchesa il grazioso Fontenelle? Mostrandole, che la luna è illuminata dal
sole, che ha il giorno e la notte, che ha delle valli e delle montagne, e tali altre
cose, né più né meno, come la nostra terra; giugne a persuaderle ch’ella pure
come la nostra terra ha i suoi abitanti […] In somma le fa vedere con questa
analogia alla mano popolato tutto l’universo quanto egli è ( 44 ).
Si parla dunque di astri circondati dal proprio «corteggio» di pianeti
al di fuori del nostro sistema solare, oppure di corpi celesti più
familiari e prossimi a noi come Giove o la Luna. Il relativismo leopardiano
trova fondamento sull’esistenza di una molteplicità di
mondi ciascuno provvisto di un proprio differente sistema di valutazione
e comparazione: non esisteva più un punto di vista esclusivo,
( 43 ) F. ALGAROTTI, Dialoghi sopra l’ottica …, cit., p. 119.
( 44 ) Ivi, pp. 83-84.
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ANDREA CANNAS
quello della specie umana, l’occhio privilegiato che fissa lo Spazio
sconfinato. Leopardi sperimenta una visione mentale che procede
transitando per le più differenti prospettive spaziali «dagli oggetti
comuni, terrestri, alla dimensione astronomica, alla relatività cosmologica»
( 45 ). Sulla questione della pluralità dei mondi Leopardi ritorna
in diverse operette (Dialogo della Terra e della Luna, Il Copernico…),
e in particolar modo nel Frammento apocrifo di Stratone da
Lampsaco, dove rintracciamo, ed è ancora operante, il principio dell’analogia,
fino alla perentoria e laconica considerazione finale:
Ora quel cangiamento che noi sappiamo essere intervenuto e intervenire
ogni giorno alla figura della terra [vale a dire il rigonfiamento attorno all’equatore
e la relativa depressione dei poli], non è dubbio alcuno che per le
medesime cause non intervenga somigliantemente a quella di ciascun pianeta
[…] Né solo a quelli che a similitudine della terra si aggirano intorno
al sole, ma il medesimo senza alcun fallo interviene ancora a quei pianeti
che ogni ragion vuole che si credano essere intorno a ciascuna stella.
Vorrei far notare come per entrambi l’astronomia, lo studio dei
corpi celesti, costituisca un importante serbatoio di immagini e suggestioni,
al quale attingere di volta in volta quando si vuole costruire
una sorta di supporto poetico oppure semplicemente un disegno
fantasioso che accompagni o incastoni il proprio ragionamento filosofico.
Per esempio Leopardi, sempre nel Frammento apocrifo, introduce
la sua disquisizione sulla fine del mondo – in un momento in
cui non esisteva ancora una compiuta elaborazione teorica di un
universo a termine ( 46 ) – coll’immagine della terra che si rivolge attorno
al proprio asse: questo moto di rotazione determina un assottigliarsi
della materia che fugge dal proprio centro; la Terra si gonfia
vieppiù lungo la linea dell’equatore, diventa esorbitante e insostenibile
il suo rigurgitare materia verso la periferia, e lo schiacciamento
relativo dei poli: fin quando non avrà raggiunto lo spessore di una
tavola e infine di una ciambella traforata nel mezzo. Sembra una costruzione
fatta per scenette successive, quasi fumettistica: una cosmicomica,
un gioco molto serio. Il procedimento si estende infatti per
analogia ad ogni altro corpo celeste che ruoti nello Spazio, ciascuno
destinato a dissiparsi nel vuoto senza memoria, e l’anello di Saturno
costituisce una prova tangibile del logorio universale della materia.
( 45 ) A. DI MEO, op. cit., p. 90.
( 46 ) La morte finale dell’Universo è stata teorizzata in maniera compiuta solo a
metà dell’Ottocento, come estrapolazione cosmologica del secondo principio della
termodinamica. Vedi A. DI MEO, op. cit., p. 109.

Francesco Algarotti tra scienza e letteratura
Non mancavano anche nei Dialoghi sopra l’ottica le dissertazioni
sull’origine degli anelli di Saturno (l’abbiamo visto), dei pianeti, dei
soli e dei satelliti, e sul reciproco moto condizionato: il tono si fa
particolarmente divertito nel Dialogo Primo, quando si elabora una
sorta di cronistoria delle più disparate cosmologie. L’attacco al sistema
tolemaico portato da Copernico è descritto con piglio eroico
(screziato di sfumature eroicomiche):
non mi cadranno mai di mente le ragioni, ch’ebbe quel Prussiano, di far
man bassa sopra il sistema degli antichi, quando spirato da un nobile estro
astronomico, diè di piglio alla terra, cacciolla lungi dal centro del mondo,
dove s’era intrusa, e a punirla dell’ozio, in cui da tanto tempo avea quivi
marcito, le addossò quasi tutti quei movimenti che venivano da noi attribuiti
a’ corpi celesti che ne sono d’attorno ( 47 ).
Insomma, mi sembra che assomigli alquanto all’operetta Il Copernico,
dialogo, dove assistiamo alla straordinaria presa di posizione del
Sole che, di punto in bianco, stanco di «andare attorno per far lume
a quattro animaluzzi», manda a chiamare Copernico affidandogli il
compito di persuadere la Terra «di darsi a correre, in cambio di sedere
agiatamente»; ad infervorarsi invece di cullarsi languidamente
nella propria rassicurante centralità.
C’è un’altra scenetta interessante nei Dialoghi algarottiani. Siamo
nel quinto capitolo, il gentiluomo scambia spiegazioni con la Marchesa
a proposito della legge che definisce l’attrazione gravitazionale
e la caduta dei corpi: stando ai calcoli matematici, la forza di gravità
è maggiore sulla Terra che non sulla Luna; tuttavia, la prova definitiva
e insindacabile gli scienziati potrebbero ottenerla solo se la Luna
rotolasse fin quaggiù, sulla Terra:
ed egli mi pare proprio un danno che non sia possibile che la luna venga a
cadere sopra la terra. Potrebbono dare in tal modo quasi l’ultima mano a’
loro computi, o vedergli confermati più che mai. E che bella occasione non
sarebbe anche cotesta per gli altri filosofi? Potrebbono poggiare a lor diletto
per quei monti e scendere per quei valloni, che vi veggono per entro col
cannocchiale: e a moltissimi poi sarebbe dato di riavere, senza fare il viaggio
di Astolfo, l’ampolla del loro senno, che perdettero qui in terra in tante
vane speculazioni ( 48 ).
Di viaggi sulla Luna è piena la Letteratura. Cyrano descrisse svariati
sistemi, i più audaci e strampalati, per arrivare fin lassù. Qui
( 47 ) F. ALGAROTTI, Dialoghi sopra l’ottica …, cit., p. 152.
( 48 ) Ivi, p. 105.
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ANDREA CANNAS
vien dato di sognare che la Luna si appropinqui tanto alla Terra da
poterci saltare sopra, e allora io pesco dalle pagine di un altro bel libro:
voi non ve ne potete ricordare ma io sì. L’avevamo sempre addosso, la Luna,
smisurata: quand’era il plenilunio – notti chiare come il giorno, ma d’una luce
color burro –, pareva che ci schiacciasse […] C’erano delle notti di plenilunio
basso basso e d’altamarea alta alta che se la Luna non si bagnava in mare ci
mancava un pelo; diciamo: pochi metri. Se non abbiamo mai provato a salirci?
E come no? Bastava andarci proprio sotto con la barca, appoggiarci una scala a
pioli e montar su
Questa è una cosmicomica di Italo Calvino, La distanza della
Luna.
Dunque Ariosto e Astolfo che viaggiano sulla Luna, poi Leopardi,
il più grande cantore della Luna: ma in mezzo ci sta ancora una
volta Galileo Galilei:
è la prima volta che la Luna diventa per gli uomini un oggetto reale, che viene
descritta minutamente come cosa tangibile, eppure appena la Luna compare,
nel linguaggio di Galileo si sente una specie di rarefazione, di levitazione: si
s’innalza in un’incantata sospensione […] L’ideale di sguardo sul mondo che
guida anche il Galileo scienziato è nutrito di cultura letteraria. Tanto che possiamo
segnare una linea Ariosto-Galileo-Leopardi come una delle più importanti
linee di forza della nostra letteratura ( 49 ).
C’è il filo che collega la Luna, Leopardi, Newton, la gravitazione e la levitazione…
( 50 ).
Non c’è bisogno di aggiungere che a quella linea di forza creativa,
soprattutto con le Cosmicomiche, Italo Calvino si sentiva di appartenere.
Costruire immagini del mondo radicate nella parola scritta:
vuol dire che l’opera letteraria si trasforma in una mappa del mondo.
( 49 ) I. CALVINO, Due interviste su scienza e letteratura, in Una pietra sopra.
( 50 ) I. CALVINO, Leggerezza, in Lezioni americane.

GIORGIO PUDDU
LA CRISI ECONOMICA DEL 1812. PREMESSE, SVILUPPI
DI UNA CONGIUNTURA DRAMMATICA
1. Un’analisi attenta della crisi economica che mise in ginocchio il regno
di Sardegna nel 1812 non può trascurare quelle marcate influenze
di carattere economico-internazionale che, pendente ancora l’immane
lotta tra Gran Bretagna e potenze coalizzate da un lato e Francia
napoleonica dall’altro, in misura altamente condizionante veicolarono
nell’isola gli effetti devastanti di tale alterazione economica.
Tuttavia, occorre chiedersi se la vistosa incrinatura nell’economia isolana
trovasse la sua causa unicamente nelle irresistibili pressioni imposte
dal conflitto economico-militare tra i due grandi blocchi europei,
oppure, in misura non secondaria, tale crisi si esprimesse anche
all’interno di motivazioni legate agli squilibri e alle perversioni interne
di un’economia condizionata dalle strutture ancora prevalenti
d’Ancien Régime? Il presente lavoro tenta, pur nei limiti immancabili
che spesso sottendono la ricerca storica, di dare una risposta a questi
interrogativi, allargando pertanto la speculazione al complesso dei
fatti economico-internazionali di quegli anni, per poi privilegiare lo
studio sul caso interno Sardegna.
Sul piano internazionale indubbiamente, incentrare lo sguardo sui
fatti economici del 1812 significa tener conto, a livello europeo, degli
effetti sconvolgenti prodotti dal Blocco continentale ad opera di Bonaparte
e dei non meno condizionanti sconvolgimenti inglesi prodotti dagli
“Orders in Council”; quell’anno, in proposito, segna il più alto punto
d’attrito provocato dai rispettivi inasprimenti francesi e inglesi ( 1 ).
( 1 ) Se col Blocco continentale la Francia napoleonica accentuò la sua pressione
economica contro la Gran Bretagna, allargando la compartecipazione dei paesi europei
alla linea di chiusura antinglese, col Sistema continentale si introdusse qualcosa
di più complesso. Imperniandosi su un programma di più ampio respiro, il
Sistema intendeva introdurre nuovi elementi strutturali per l’intero continente eu-

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Nel corso della lotta tra Francia e Europa coalizzata, le prime manifestazioni
di una forte incrinatura nel commercio europeo si rile-
ropeo sul piano economico e sociale, come politico-istituzionale. I suoi intenti, al
di là del perseguimento di obiettivi federativi da impiantare in Europa, tendevano
in particolare a fare di quest’ultima un immenso mercato al servizio della politica
economico-industriale della Francia.
Peggiorando la situazione per i paesi neutri, alle iniziative di Bonaparte, la
Gran Bretagna reagì allineando i suoi Orders in Council, ossia un complesso normativo
che, in ossequio ai principi della supremazia degli imprescindibili diritti
navali, imponeva lo stato di blocco a tutti quegli scali che avessero interdetto i
prodotti inglesi.
Il rigore normativo dei rispettivi programmi economico-commerciali, tuttavia,
non si tradusse in altrettanta irreprensibilità sul piano operativo e tanto il decreto
di Berlino, quanto gli Orders in Council non furono in grado di rinchiudere le rispettive
aree commerciali in compartimenti stagno. L’Europa intera infatti insorse
ricorrendo ad autentici escamotages pur di non ottemperare alle relative prescrizioni
che avrebbero letteralmente condotto all’asfissia economica. Del resto gli stessi
Orders furono sottoposti a delle deroghe, e l’introduzione del sistema delle licenze
(come le rispondenti modifiche della normativa francese) permise qualche opportuna
breccia commerciale e marittima. Cfr. F. FRANCIONI, Gli inglesi e la Sardegna:
conflitti e progetti politici nella prospettiva del crollo dell’Impero napoleonico, in “All’ombra
dell’aquila imperiale”. Trasformazioni e continuità istituzionali nei territori
sabaudi in età napoleonica (1802-1814). Atti del convegno, vol. I, Torino 15,
18 ottobre 1990, Roma 1994, pp. 236-237 e 238-239.
Bonaparte, nell’intento di salvaguardare la struttura economica della Francia e
di conseguire le finalità della guerra, non mancò di ridurre il rigore del decreto di
Berlino e, inizialmente Stati Uniti, per il commercio in alto mare, e Danimarca
furono privilegiati nei loro traffici. Fu lo spirito di Tilsit a riaprire le porte ad un
nuovo irrigidimento tra Francia e Gran Bretagna. La prima col decreto di Fontainebleau
(13 ottobre 1807) e col I decreto di Milano (23 novembre dello stesso
anno) inasprì i contenuti di quello di Berlino. In sostanza, per la Francia, l’introduzione
degli Orders sembrò aver spinto Bonaparte ad elevare nuove barriere. Infine
il II decreto di Milano (17 dicembre 1807) peggiorò ulteriormente la situazione,
a tutto carico dei paesi neutrali. Si ritornò così alle posizioni del 1798. G. LE-
FEBVRE, Napoleone, Roma-Bari 1982, p. 290.
Gli effetti sconvolgenti di questa lotta possono essere compresi maggiormente
nel tener conto della natura di questo modello di guerra. Dopo tutto, la politica
economica bonapartista, al di là di ogni considerazione, è prevalentemente una
politica di guerra, che trova i suoi stimoli più vivaci nelle esigenze militari. Sulla
base di ciò le iniziative francesi, che notoriamente sembrano partire dal decreto di
Berlino, in realtà trovano le loro origini nel riesumato protezionismo del 1791,
per proseguire con l’atto di navigazione del 1798 contro i prodotti inglesi su vascelli
neutrali e approdare, infine, alle note disposizioni restrittive del 1806, 1807.
A Parigi si era perfettamente consapevoli che l’onnipotenza navale britannica
era in grado di congelare non solo i porti del continente europeo, ma pure di allestire
una rete di relazioni con le colonie e con gli Stati Uniti d’America; programmi
navali che inutilmente Bonaparte tenterà di invalidare. In mezzo a tanto sconvolgimento
e ai reiterati tentativi di soffocare l’avversario, sorse uno strumento
che pur inviso ai governi, soprattutto nella precedente temperie politica settecen-

La crisi economica del 1812. Premesse, sviluppi di una congiuntura drammatica
vano già nel 1808 e, in quell’occasione, Parigi tenta con ogni mezzo
di congelare nel mondo il commercio inglese che, nella sostanza, accusa
contraccolpi modesti. Paradossalmente le iniziative belliche e
commerciali francesi più che danneggiare l’Inghilterra colpiscono i
vari paesi d’Europa in ossequio a quei principi autarchico-unitari
con cui la Francia intende omologare il mercato continentale alle
sue esigenze economico-industriali.
Tuttavia alcuni paesi dalla solida struttura economica, come
l’Olanda, riescono a conservare con gli scali inglesi una libera rete di
rapporti commerciali; altri ancora, economicamente più fragili – è il
caso della Spagna e del Portogallo – resistono nonostante tutto alle
spire soffocanti dei controlli imposti da Parigi ( 2 ). Sul piano commerciale
è doveroso sottolineare che i fatti internazionali, sollecitati dagli
impulsi bellici, riverberavano inevitabilmente le loro conseguenze sullo
stato della libera percorribilità dei mari: e così, gli accordi di Schönbrunn
(14 ottobre 1809), che denunciavano per l’Austria una serie di
tesca, come apprezzato dalla classe mercantile, contribuì a non far spegnere il
commercio europeo: il contrabbando. Cfr. I. WALLERSTEIN, Il sistema mondiale
dell’economia moderna. L’era della seconda grande espansione dell’economia-mondo
capitalistica (1730-1840), vol. III, Bologna 1995, p. 139; G. LUZZATO, Storia economica
dell’età moderna e contemporanea, parte II, l’Età contemporanea, Padova 1960,
pp. 216-217; S.J. WOOLF, Napoleone e la conquista dell’Europa, Roma-Bari 1990,
pp. 34-35; C. ZAGHI, L’Italia di Napoleone dalla Cisalpina al Regno, in “Storia
d’Italia”, diretta da G. Galasso, vol. XVIII, tomo I, Torino 1986, p. 570.
Al di là dell’introduzione degli Orders in Council, che rappresentano una misura
straordinaria introdotta rapidamente dal governo di Giorgio III, pare senza attendere
l’approvazione del parlamento, gli inglesi, ancora una volta, intervennero
nella lotta antinapoleonica, non abbandonando il loro abituale pragmatismo che,
in quelle circostanze, attraverso il commercio clandestino, consentì loro di giungere
al dominio del mercato italiano, eliminando poco per volta il concorrente francese.
Il contrabbando non risparmiò nessun paese europeo, ma nelle relazioni
commerciali – è il caso del regno di Sardegna – non sempre gli inglesi trovarono
facile gioco, come dimostrano alcune testimonianze nei litorali della Maddalena.
In conclusione, le iniziative napoleoniche sembrarono conseguire l’agognato
successo nel 1811, punto più alto della crisi europea, ma in quella circostanza la
classe mercantile inglese, che non sempre aveva caldeggiato l’introduzione degli
Orders, constatata invero la loro pericolosità nei confronti del partner commerciale
privilegiato, gli Stati Uniti, finì per chiederne il ritiro. E.V. TARLE, La vita economica
dell’Italia nell’età napoleonica, Torino 1950, p. 134; F. BORLANDI, Relazioni
politico-economiche fra Inghilterra e Sardegna durante la Rivoluzione e l’impero, in
“Rivista storica italiana”, IV, fasc. II, Torino 1933, p. 181; G.M. TREVELYAN, Storia
dell’Inghilterra nel secolo XIX, Torino 1971, pp. 137-139.
( 2 ) V.E. GIUNTELLA, L’Italia dalle repubbliche giacobine alla crisi del dispotismo
napoleonico (1796-1814), in “Storia d’Italia”. Dalla pace di Aquisgrana all’avvento
di Camillo Cavour, vol. III, Torino 1965, p. 340.
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mutilazioni territoriali piuttosto estese, segnarono per la Francia,
trionfante sui campi di Wagram, la sua inquietante presenza sui litorali
dalmati, facendo dell’Adriatico un ampio deserto liquido controllato
dal presidio di Corfù. Il dominio sull’antico mare veneziano
assicurava a Parigi il persistere dei suoi rapporti politico – commerciali
con i centri dell’Oriente e la confortava della perdita di controllo
del centro – Mediterraneo; in questo scacchiere la supremazia inglese,
ormai, attraverso il dominio di Malta, divideva in due il grande
bacino, garantendo a Londra la costante sorveglianza su Sicilia e
Sardegna.
La presenza francese in Adriatico, tra gli altri scompensi, determinò
la forte contrazione nei traffici dello scalo triestino, in verità non
meno di quanto sia accaduto per altri porti dell’intero Mediterraneo,
come testimonia il caso di Livorno ( 3 ).
Questo quadro economico-commerciale poco incoraggiante finiva
per influenzare la fragile struttura economica del regno di Sardegna.
Inevitabilmente l’isola, crocevia privilegiato degli scambi nel
Mediterraneo centro-occidentale, fin dall’inizio dello scontro tra
Francia ed Europa coalizzata, aveva registrato ogni minima variazione
di quello stato di guerra, aggravato dalla perdita della componente
degli stati continentali, ormai pienamente entrati nell’orbita francese,
e dal conseguente allontanamento della corte, raminga prima
negli stati italiani e, più tardi, ospite nel sicuro rifugio isolano.
Sul piano economico-commerciale occorre tracciare una doverosa
premessa che illustri i tratti più salienti di un percorso contrassegnato
dalle tappe che preparano la crisi di quell’anno fatale.
In proposito, un’analisi pur sommaria del volume degli scambi e,
in particolare, delle esportazioni registrate dall’isola fin dal 1796 –
in un quadro tutto sommato meno fosco di quello degli anni succes-
( 3 ) V.E. GIUNTELLA, L’Italia dalle repubbliche giacobine, cit., p. 344. Fra i porti
italiani maggiormente penalizzati dalle imposizioni prodotte dallo scontro francoinglese
erano Trieste, Livorno, Ancona e Venezia. Per Livorno, prima di essere annessa
all’Impero, la situazione commerciale del suo scalo è ancora incoraggiante,
data la permanenza di una rete di scambi apprezzabile. Ma allorché sul Regno d’Italia
cominciarono ad addensarsi le prime nubi della crisi economica del 1810-1812,
anche il porto toscano rischiò l’asfissia.
Una sorte non diversa subì Ancona dopo il suo incorporamento nel Regno nel
1808 con alcuni territori della Romagna. Il porto adriatico, che in prevalenza veicolava
verso Trieste materie prime e grano in cambio di manufatti provenienti dagli
stati tedeschi, dal 1808 insieme a Trieste, associata all’Impero, subì delle contrazioni
marcate nei propri traffici, prodromi di una crisi più ampia che in misura
estesa colpirà l’intera Europa poco più tardi. E.V. TARLE, La vita economica, cit.,
pp. 135-136.

La crisi economica del 1812. Premesse, sviluppi di una congiuntura drammatica
sivi al decreto di Berlino – offre un’immagine delle differenziazioni
forzatamente prodotte dal persistente stato di guerra. Nell’anno in
cui casa Savoia chiudeva la sua infelice campagna militare col condizionante
armistizio di Cherasco (28 aprile 1796), ad esempio, il volume
dei “permessi d’imbarco” dalla Sardegna per paesi “amici della
Corona” di migliaia di starelli tra grano in prevalenza, fave ed orzo,
evidenzia, pur nei limiti di un’economia non propriamente prospera,
l’apporto fornito dall’isola al commercio con gli stati aderenti
alla causa antifrancese ( 4 ). L’anno successivo che sembrava aprirsi all’insegna
di una crescita degli scambi commerciali, con la concessione
di 37 “permessi d’imbarco” nel solo mese di gennaio, nella realtà
non poteva non risentire dell’influenza degli avvenimenti sviluppati
in conseguenza dei successi francesi in Val Padana e negli stati italiani
che preparavano l’istituzione delle repubbliche giacobine e, al
tempo stesso, avviavano la capitolazione del Piemonte e la fuga della
corte ( 5 ). Dopo quel promettente avvio, infatti, nell’aprile 1797 iniziarono
a non comparire più “permessi d’imbarco” e la loro eclisse
tenderà ad estendersi fino al dicembre 1799, per poi ricomparire timidamente
nei primi tre mesi dell’’800 e, infine, riprendere consi-
( 4 ) I “permessi d’imbarco” per partite consistenti di derrate agricole sono prevalentemente
concentrati nei mesi estivi, registrando le punte più alte tra il mese
di agosto e quello di ottobre del 1796. Archivio di Stato di Cagliari (in seguito indicato
A.S.C.), Intend. gen., vol. 1345. Dichiarazioni per ottenere il permesso
d’imbarco.
( 5 ) Se in conseguenza degli impulsi francesi la nascita delle repubbliche si manifestava
all’insegna di una competizione sfrenata fra città ansiose di allargare la
loro forza economica su altre più deboli, come registra il caso di Bologna su Ferrara
e Ancona, o della stessa Ferrara su Cento e Pieve, ben diversamente si evolvevano
i fatti in Piemonte. Qui, era ormai evidente anche agli occhi del profano, non
solo l’inizio del disfacimento dello Stato sabaudo ma, in aggravamento, lo sfaldarsi
della società piemontese sotto gli impulsi, da un lato, del nuovo movimento ideologico
che ormai si era impossessato di vasti ranghi dell’intellighentia e, dall’altro,
delle pressanti esigenze economiche. L’aumento dei prezzi delle derrate spingeva al
malcontento, e alcuni centri del Piemonte – è il caso di Mondovì – erano pervasi
da un’atmosfera insurrezionale. In questo clima non era paradossale il riscontro di
atteggiamenti di contrapposizione netta del mondo contadino a quello intellettuale.
Da parte del primo non si era ancora registrata la percezione che era proprio il
secondo ad impegnarsi, tra mille difficoltà, col governo per l’abolizione di quell’opprimente
struttura giuridica feudale sul mondo delle campagne, che ancora teneva
in piedi i residui dell’Ancien régime. Cfr. S.J. WOOLF, La storia politica e sociale,
parte III, rivoluzionari e moderati (1789-1814), la rottura rivoluzionaria con
il passato (1789-99), p. 176; F. VENTURI, L’Italia fuori dall’Italia, la Rivoluzione
francese in Italia, pp. 1151-1152, entrambi in “Storia d’Italia”, dal primo Settecento
all’Unità, vol. III, Torino 1973.
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stenza nell’anno successivo con ben 59 “permessi” nel solo mese di
luglio ( 6 ).
La valutazione della consistenza dei “permessi d’imbarco” è indubbiamente
un fatto parziale nell’ampio contesto commerciale, eppure
evidenzia la condizione economica fragile di un’intera regione,
le sue stasi, le sue contrazioni spinte da una congiuntura internazionale
condizionante.
Indubbiamente, la presenza nell’economia isolana di un’alternanza
inquietante tra crisi recessive, modeste riprese, carestie e aneliti al
perseguimento di un’affidabile crescita, deve fare i conti, in età napoleonica,
con le prevalenti spinte prodotte dalla congiuntura politico-internazionale
che fece del fatto economico un’arma non meno
efficace degli eserciti e delle flotte. In questo contesto, e tenendo
conto della globalità dei problemi che gravavano sull’intero regno, la
pace di Amiens (25 marzo 1802) marca profondamente il futuro del
casato sabaudo, segna la permanenza di una sovranità sempre più
precaria, mentre altrettanta incertezza incupisce la condizione dell’economia.
Amiens, infatti, sotto il profilo economico, per molti aspetti non
prospettò delle condizioni soddisfacenti per il casato sabaudo. Quel
trattato, se nello spirito della politica inglese non doveva costituire
una remora imposta dalla Francia al Piemonte, che per la produzione
della seta da solo avrebbe potuto fornire ampie partite di materia
grezza alle manifatture inglesi, per contro non fornì niente di buono
alla Sardegna, sempre più abbandonata al suo destino ( 7 ). L’isola in
quella circostanza poté contare su alcune iniziative legate alla timida
politica economica promossa da Carlo Felice, che favorì l’instaurazione
di nuove reti di traffico commerciale, curò particolarmente la
crescita del comparto agricolo e stimolò lo sviluppo della tabacchicoltura.
Ma la difficoltà nelle relazioni politico-diplomatiche con le due superpotenze
contrapposte si riverberava sul piano commerciale. E se rispetto
alla Francia l’incomprensione si misurava ancora in termini di
prevalenti interessi politici, data la frattura degli accordi del 1797,
( 6 ) A.S.C., Intend., gen., vol. 1345. Dichiarazioni per ottenere il permesso
d’imbarco.
( 7 ) F. BORLANDI, Relazioni politico-economiche, cit., pp. 165-167. Occorre precisare
che per la produzione e il commercio della seta le contrazioni più profonde
si manifestarono in Piemonte all’indomani dell’introduzione del Blocco continentale.
P. NOTARIO-N. NADA, Il Piemonte sabaudo dal periodo napoleonico al Risorgimento,
Torino 1933, p. 72.

La crisi economica del 1812. Premesse, sviluppi di una congiuntura drammatica
successiva quindi alla pace di Cherasco, nei confronti dell’Inghilterra
l’incompatibilità era frutto di un impensabile allineamento tra le
differenti esigenze di accettazione dei prodotti sardi sui mercati inglesi
e, per contro, di quelli inglesi sui mercati isolani ( 8 ).
Fu nella circostanza successiva agli accordi di Amiens, e precedente
la piena ripresa delle ostilità tra Francia e Inghilterra (primavera
1804), che il regno di Sardegna, nell’intento di evitare l’asfissia
economica, ricorse all’opzione della perfetta neutralità con il pregone
dell’ottobre 1803, a cui seguì quello del 20 aprile 1804. In quest’ultima
occasione il regno sardo contava di poter assicurare ai ceti
mercantili interessati la piena libertà di commercio, ribadendo la
propria condizione di imparzialità, e auspicando che l’iniziativa potesse
garantire la ripresa economica, constatata la gravità dello stato
del disavanzo pubblico, il fallimento del ricorso al prestito forzoso,
la precarietà dei raccolti nel comparto agricolo, il peso dei finanziamenti
per le prime opere di difesa. Fin d’allora, pertanto, il regno
sardo auspicava di poter affidare il suo futuro ad un’unica iniziativa
per rilanciare la propria economia: quella di riavviare su larga scala
una duratura rete di traffici commerciali ( 9 ).
Nell’incertezza di quella situazione politica non era sufficiente far
appello ad un semplice atto di volontà, pur nell’invocazione di una
politica economica aperta al riavvio esteso delle relazioni commerciali.
La brutalità del decreto di Berlino (20 novembre 1806), che
proclamava il Blocco continentale, doveva infatti spingere le autorità
regie a Cagliari ad introdurre misure più rigide a tutela della propria
neutralità da far rispettare, e così si giunse all’Editto del 31 dicembre
1807, ben più rigoroso dei precedenti, nello sforzo di assicurare un
minimo di vitalità alle vie commerciali minacciate ( 10 ).
( 8 ) F. BORLANDI, Relazioni politico-commerciali, cit., p. 167.
( 9 ) Ibidem, pp. 176-177. Nell’intento di stimolare la riapertura delle relazioni
commerciali con gli scali degli stati europei, il regno sardo aveva rifiutato il sostegno
militare di una delle grandi potenze in guerra e, al tempo stesso, aveva stabilito di
non intercedere ad alcuna propensione preferenziale tra Francia e Gran Bretagna a
proposito del riconoscimento universalmente accettato: i “rinfreschi di etichetta”. Il
pregone feliciano del 1804, al di là dello spirito che lo pervadeva, finiva per non assicurare
alla Sardegna la sicurezza da eventuali rappresaglie assestate da Francia o
Gran Bretagna e, pertanto, era stato impossibile evitare quella condizione conflittuale
portata avanti dalle due grandi antagoniste. Cfr. M.L. PLAISANT, Timori d’invasione
e progetti di difesa in Sardegna dal 1806 al 1808, in “Annali della Facoltà di Lettere
e Filosofia”, nuova serie, vol. II, XXXIX, Cagliari 1981, pp. 260-261.
( 10 ) T. ORRÙ, La Sardegna Stato a sé nell’età napoleonica, in “Annali della Facoltà
di Scienze politiche”, vol. II, serie I, A.A. 1983/84, Cagliari 1984, p. 340; P.
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GIORGIO PUDDU
Nonostante le prescrizioni dell’art. 20 dell’Editto dichiarassero che
le “… Potenze belligeranti riconosceranno e rispetteranno verso Noi
tutti i diritti, e facoltà convenienti ad un Regno neutrale …” gli effetti
presso Francia e Gran Bretagna non si espressero all’insegna di una forma
di rispetto per la condizione di neutralità del regno, malgrado i
contenuti della normativa fossero sostanzialmente ribaditi nel successivo
Editto del 3 gennaio 1808 ( 11 ). Dal canto suo il governo di Parigi
accusò il colpo, non indugiando a troncare ogni relazione commerciale
con gli scali dell’isola, e ponendo i vascelli sardi sotto sequestro nei porti
francesi. In quei mesi, all’iniziativa francese il regno di Sardegna reagì,
imponendo l’embargo sui bastimenti battenti ogni bandiera. Poco
dopo il nuovo decreto napoleonico del 20 aprile 1808 ribadiva ancora
la rottura dei rapporti con l’isola che, a sua volta confermò la sua condizione
di neutralità con la normativa del 4 luglio dello stesso anno,
impartendo l’ordine di catturare le unità francesi nei porti sardi ( 12 ).
Con queste ultime iniziative, ogni forma di titubanza e di perplessità
fra le parti contendenti era superata, e l’interruzione della
guerra diretta del 1796, all’insegna dello spirito della pace di Parigi,
era accantonata; si apriva una nuova fase del conflitto, non più affidata
alla forza degli eserciti, ma basata su una lotta senza regole, su
un commercio gravato dalle proibizioni, dagli ostacoli doganali e soprattutto
dal ricorso spregiudicato al contrabbando.
Per riportare ad uno stato di accettabile prosperità le finanze del
regno, vista la profonda difficoltà di “estrarre”, occorreva pratica-
MARTINI, Storia di Sardegna dall’anno 1799 al 1816, Cagliari 1852, p. 184; G.
SIOTTO-PINTOR, Storia civile dei popoli sardi dal 1798 al 1848, Torino 1877, pp. 44-
45; F. BORLANDI, Relazioni politico-economiche, cit., p. 183; F. FRANCIONI, Gli inglesi
e la Sardegna, cit., pp. 236-238.
( 11 ) Se nel pregone feliciano del 20 aprile 1804, all’art. IV, si caldeggiava la libertà
di commercio, consentendo di “conseguenza le importazioni, ed esportazioni
ai Porti appartenenti alle due Potenze in guerra”, non meno veniva espresso all’art.
VI dell’Editto regio del 31 dicembre 1807. Mentre in quest’ultimo il regno
di Sardegna ribadiva il proprio stato di neutralità “tra le potenze belligeranti, onde
assicurare la tranquillità, e la libertà del commercio di queste isole”, nell’art. XVI
rafforzava ancora questo concetto sostenendo: “Sarà … libero il commercio delle
Potenze belligeranti in questo Regno, ed i Bastimenti delle medesime goderanno nei
Porti di Cagliari, Carloforte, Alghero, Porto Conti, Porto Torres, e la Maddalena,
della Nostra Regia protezione e d’una perfetta sicurezza …” A.S.C., Atti governativi.
e amm., vol. 10, n. 743. Pregone di S.A.R. il duca del genovese, 20 aprile 1804;
vol. 11, n. 821 al suo porto. Editto di S. M., 31 dicembre 1807; F. BORLANDI, Relazioni
politico-economiche, cit., p. 184.
( 12 ) I. CALIA, Francia e Sardegna nel Settecento, economia, politica, cultura, Milano
1993, p. 252; F. BORLANDI, Relazioni politico-economiche, cit., pp. 184-185.

La crisi economica del 1812. Premesse, sviluppi di una congiuntura drammatica
mente un compromesso: accettare l’appoggio del governo inglese,
affinché il regno sardo potesse esportare in Francia, antico affidabile
interlocutore commerciale, in Spagna e negli Stati italiani, in cambio
delle importazioni dalla Gran Bretagna di quei prodotti che
l’isola acquistava prima dai paesi nemici ( 13 ). Quell’opportunità di
poter disporre dell’aiuto britannico sembrò concretizzarsi con l’accreditamento
a Cagliari del console Hill, a cui il governo sardo parve
rivolgere le sue residue speranze. Ma, come spesso avviene in simili
circostanze, l’appoggio richiede un prezzo, e così, alla Sardegna veniva
praticamente interdetta la comunicazione con Napoli, Marsiglia,
Genova e Livorno, mentre al tempo stesso, Malta, Gibilterra, Maone
e gli altri scali soggetti a controllo britannico divennero i referenti
privilegiati nel commercio marittimo ( 14 ).
Per ovviare alle conseguenze della “protezione” inglese e alla successiva
invasione dei suoi manufatti nei mercati isolani, le autorità
regie, anche con l’appoggio dei ceti mercantili interessati decisero di
spingere al massimo le esportazioni di grani e legumi, particolarmente
abbondanti nel 1808, ma la paralizzante difficoltà di “estrarre”
finì per lasciar stoccata ogni derrata nell’isola ( 15 ).
Lo stato d’animo relativo a quel congelamento nelle esportazioni e
all’invocazione ad allargarle sembra esprimersi già nell’Editto regio del 3
gennaio 1808 che nelle sue intenzioni doveva maggiormente disciplinare
il regolamento del 26 dicembre 1806 “concernente le spedizioni dei
Legni mercantili ed Armamenti”. Se quest’ultimo intendeva sanare abusi
e violazioni del diritto internazionale marittimo perpetrati da proprietari,
capitani e patroni di unità mercantili, nel tentativo di razionalizzare
la concessione dei passaporti, con l’iniziativa del 1808 si evidenzia un
inasprimento della norma allorché da parte governativa si giunge alla
constatazione che gli stessi operatori commerciali, titolari di “passavanti”
per “un solo viaggio di andata e ritorno … non solamente non li restituiscono”
a viaggio concluso, “come si doveva, … ma eziandio li ritengono
e continuano a navigare cogli stessi passavanti” ( 16 ).
( 13 ) F. BORLANDI, Relazioni politico-economiche, cit., pp. 185-186.
( 14 ) D. CARUTTI, Storia della corte di Savoia durante la Rivoluzione e l’Impero
francese, vol. II, Torino 1892, p. 161; F. BORLANDI, Relazioni politico-economiche,
cit., p. 186; P. MARTINI, Storia di Sardegna, cit., p. 188; G. SIOTTO-PINTOR, Storia
civile, cit., p. 45.
( 15 ) F. BORLANDI, Relazioni politico-economiche, cit., p. 191.
( 16 ) La distanza tra il Regolamento del dicembre 1806 e l’Editto del gennaio
1808 è più che mai riscontrabile attraverso una lettura attenta del contenuto delle
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La volontà di esportare ad ogni costo, tuttavia, spingeva “patroni”
e proprietari di legni mercantili a ricorrere a qualunque espediente,
pur di portare a compimento i loro programmi di traffico
marittimo.
Nel luglio del 1809, il timore di un ulteriore peggioramento nel
volume delle esportazioni del grano e lo sconcerto per la crescita del
ristagno della derrata all’interno, indusse il governo di Cagliari ad
una iniziativa singolare, favorendo gli operatori commerciali interessati
ad estrarre ben duecentomila starelli di grano vecchio con una
tariffa ridotta dei diritti di sacca ( 17 ).
Tuttavia l’euforia per l’abbondanza del raccolto del 1808 doveva
più tardi venir meno e indurre ad un doveroso riesame della situazione.
Il raccolto del 1809 e quello del 1810 si rivelano magri e l’intero
comparto agricolo appesantito dalle “copiose estrazioni seguite”,
per cui risulta consequenziale “che esiste appena nel Regno la
quantità di granaglie necessaria per la sua manutenzione, e seminerio”.
Il pericoloso squilibrio spinge il governo a “rinnovare l’assoluto
divieto delle tratte per l’estero” e, per evitare che la drasticità della
misure si traduca in “clandestine estrazioni”, affida ai comandanti
rispettive disposizioni. Se nel primo provvedimento, ad esempio, si ritiene di dover
concedere “dei passaporti ai sudditi che li richiederanno”, nel secondo si sottolinea
che “verun bastimento potrà navigare senza le lettere di congedo, e senza gli
altri documenti … sotto pena … della perdita del bastimento”. Nella prima normativa
si dichiara che, agli effetti della proprietà del vascello, “i due terzi del valore
totale appartengano ai nostri sudditi”, mentre la seconda afferma con rigore che
“la società componente l’armamento dovrà essere formata tutta da sudditi”. Analoga
distanza, infine, è rilevabile nell’imposizione della componente dell’equipaggio:
nella prima iniziativa, infatti, si rileva che i tre quarti di quest’ultimo “potranno
per ora essere composti di Marinai Esteri, ed il restante dovranno essere sudditi
nati, o domiciliati da due anni consecutivi in questo Nostro Regno, o maritati con
una Sarda”, mentre nella seconda si impone che l’equipaggio dovrà essere “almeno
di due terzi di essi o di domiciliati”. A.S.C., Atti governativi e amm., vol. 11. Rispettivamente:
Regio regolamento, n. 801, Cagliari, 26 dicembre 1806, e Editto
di S. M., n. 822, Cagliari, 3 gennaio 1808.
( 17 ) L’iniziativa regia, secondo il dettato della disposizione, veniva introdotta
tra l’altro “per temperare in qualche modo i gravissimi inconvenienti nati dalla
viltà del prezzo, a danno dell’agricoltura” e prescriveva una razionalizzazione delle
estrazioni. Per coloro che avessero estratto partite di grano vecchio, dalla pubblicazione
della normativa fino a tutto il successivo mese di agosto, si stabiliva di
concedere un “condono di reali tre per ogni starello sui diritti di sacca”. Gli interessati,
invece, ad estrazioni “in tutto il mese di settembre successivo” erano gratificati
con un “condono di un reale e mezzo su ogni starello”. A.S.C., Segr. di Stato,
II S., fasc. 2275. Manifesto della R. Segr. di Stato e di guerra, n. 849. Cagliari,
8 luglio 1809.

La crisi economica del 1812. Premesse, sviluppi di una congiuntura drammatica
delle torri, suddelegati e ministri patrimoniali l’incarico di vegliare
“sullo stato dei litorali” ( 18 ).
Il disagio dei ceti mercantili in circostanze così vincolanti si affianca
all’esosità dell’erario che, per scongiurare ulteriori assottigliamenti
della sua consistenza, riesuma il pregone del 3 dicembre
1794, con cui si vietava, per evitare il mancato pagamento dei diritti
di dogana, l’acquisto sulle navi all’ancora di merci non ancora sbarcate
( 19 ).
Nel contesto delle difficoltà prodotte dalla guerra commerciale in
atto, il governo regio a Cagliari, se da un lato tenta di prevenire e
punire quelle frange mercantili più votate al ricorso al contrabbando,
dall’altro interviene a favore degli operatori commerciali minacciati
dalla recessione. E così, nel dicembre 1809, un manifesto predisponeva
una serie di misure volte a tutelare sudditi e forestieri domiciliati
nel regno di Sardegna, vittime di confische di fondi o di
merci presso i paesi coi quali abitualmente commerciavano; senza
trascurare il caso di quei capitali depositati nell’isola “e spettanti ai
sudditi di Nazioni li di cui Porti sono chiusi alla bandiera di S. M.”
Per i casi in questione, l’intervento regio riteneva “opportuno ed a
seconda delle circostanze provvedere ad una giusta compensazione,
che sarebbe stata introdotta tra le perdite dei sudditi sardi e quelle
dei forestieri di stanza nell’isola” ( 20 ).
La consapevolezza della molteplicità degli impegni finanziari, in
ogni caso, unita al riscontro dell’esiguità delle risorse disponibili,
non impedivano alle autorità sabaude di inserire nel bilancio la potenzialità
di nuovi capitoli di spesa: quelli relativi alla difesa e all’allestimento
di reparti militari da inviare nei vari teatri d’operazione
europei.
Nel 1809, la contingenza internazionale chiamava in causa ancora
una volta lo Stato sabaudo per la sua partecipazione alla campagna
che, contrapponendo Austria e Impero francese, riservava a Vit-
( 18 ) A.S.C., Atti governativi e amm., vol. 12. Manifesto, n. 860. Cagliari, 2 dicembre
1810.
( 19 ) A.S.C., Atti governativi e amm., vol. 11. Nota della Segr. di Stato e di
guerra sull’introduzione di merci nel porto di Cagliari, n. 852. Cagliari, 13 dicembre
1809.
( 20 ) Il manifesto in questione ordinava a “tutti di denunciare perdite e confische”,
compresi ancora “quei Fondi che si avessero in detti paesi quantunque non sequestrati,
per mezzo di una dichiarazione … del Denunziante, da consegnarsi desiderandosi
alla Regia Segreteria di Stato la quale desiderandosi la terrà segreta”. A.S.C., Atti governativi
e amm., vol. 11. Manifesto, n. 853. Cagliari, 15 dicembre 1809.
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GIORGIO PUDDU
torio Emanuele I l’opportunità di concorrere con un supporto di alcuni
reggimenti. In verità quell’intervento a fianco dell’Austria e di
Ferdinando IV di Borbone si inceppò per l’eccessivo temporeggiare
britannico, e Wagram congelò ogni iniziativa.
Pendente l’armistizio, l’opportunità di intervenire a fianco degli
inglesi si manifestò ancora, ma in termini estremamente gravosi:
Londra aveva sospeso gli aiuti finanziari senza i quali per re Vittorio,
con i suoi magri bilanci, ogni impegno nel continente si sarebbe rivelato
arduo. La pace di Schonbrunn (14 ottobre 1809) infine mortificava
ogni residua speranza d’intervento ( 21 ).
La precarietà delle finanze sabaude in quei frangenti era nota e,
per esempio, sempre per la componente militare, negli anni tra il
1809 e il 1812, la Cassa della Marina veniva sostenuta dai sussidi
della Bolla della Crociata. Pure le voci di spesa per i reparti di fanteria
e cavalleria denunciavano una condizione non confortante con
un modesto incremento nel 1807, per poi scendere a quote inferiori
negli anni successivi; il tutto a fronte dell’impegno più oneroso, il
donativo straordinario ( 22 ).
Per la Sardegna, inesorabilmente avviata alla crisi che doveva travolgerla
nel 1812, sembrava non esistessero rimedi per la sua economia,
nonostante le aperture della Francia nel 1810 con l’introduzione
dei suoi salvacondotti e l’apertura dei suoi porti. La classe mercantile
isolana, infatti, oberata dalla gravosità dei noli ed impaurita
( 21 ) Fin dall’inizio di quella campagna gli aiuti inglesi a Vittorio Emanuele I sia
in denaro che in truppe si erano fatti desiderare, e il cav. Ignazio di Revel, latore di
alcune missive del re e del console Hill a Cagliari presso il gen. inglese Stuart, che
dalla Sicilia avrebbe dovuto dirigere le operazioni con l’appoggio anche di truppe siciliane,
non ottenne grande successo. Forte dell’assenza di specifiche istruzioni da
Londra e dell’impegno dell’ammiraglio Collingwood nel controllo della flotta francese
a Tolone, lo Stuart si mostrò irremovibile. F. CORRIDORE, Vittorio Emanuele i e
i suoi piani di guerra (1809), Torino 1900, pp. 4-5. Del resto, prima di Wagram, S.
M. sarda era consapevole che se voleva intervenire al fianco dell’Austria occorrevano
mezzi difficilmente disponibili. Quelle poche migliaia di soldati acquartierati nell’isola
non erano del tutto bastevoli all’impresa del continente, dove, per trasferirle,
sarebbero occorsi denari e unità navali di non facile reperimento senza l’intervento
della Gran Bretagna, in quell’occasione non troppo disponibile verso casa Savoia. N.
BIANCHI, Storia della monarchia piemontese dal 1773 al 1861, vol. IV, Torino 1885,
p. 449. Sull’intento da parte sarda di partecipare alla campagna del 1809, cfr. pure
A. SEGRE, Vittorio Emanuele I (1759-1824), Torino 1928, pp. 131-137; D. CARUT-
TI, Storia della corte di Savoia, cit., pp. 169-174; F. HAYWARD, Storia della casa di Savoia,
vol. II, Rocca S. Casciano 1955, pp. 136-137.
( 22 ) A. BERNARDINO, La finanza sabauda in Sardegna (1741-1847), Torino
1924, p. 111 e pp. 124-125.

La crisi economica del 1812. Premesse, sviluppi di una congiuntura drammatica
dalla morsa imposta dagli inglesi sul mare non poteva trovar giovamento
in tali timide iniziative ( 23 ).
Dal canto suo il governo sardo immetterà in misura allargata i
suoi salvacondotti, anche nell’intento di instaurare per l’isola un
commercio di deposito nel Mediterraneo, ma più tardi l’introduzione
di alcuni provvedimenti fiscali sull’interscambio con i paesi nemici
e sui prodotti coloniali mortificherà l’iniziativa. Solo l’intervento
regio finirà per abolire i diritti fiscali e per istituire magazzini di
deposito in tutti i porti del regno ( 24 ).
Tuttavia, era l’influenza economico-commerciale inglese che incideva
pesantemente sui fragili equilibri interni della Sardegna e sulle
sue frange mercantili inutilmente garantite dai salvacondotti forniti
dalla Segreteria di Stato che, di fatto, risultavano non validi alla verifica
degli inglesi, patrocinatori di quelli forniti esclusivamente da loro.
E così quei pochi vascelli protetti dalla garanzia di S. M. sarda s’inceppavano
nelle strette maglie imposte dal controllo britannico sul mare,
e catturati come preda. Ovviamente la legittimità imposta da Londra
ai suoi salvacondotti comportava il totale dominio dei traffici nel Mediterraneo
e, in misura maggiore, la conseguente invasione di prodotti
britannici nell’isola. Con sorprendente lucidità Pietro Martini aveva
evidenziato il disappunto dei commercianti isolani a proposito della
penetrazione commerciale avviata da Londra, ma aveva sottolineato
che “pure il circolante oro inglese ed il poco d’industria e di commercio
con esso alimentato, erano l’unico temperamento ai mali” ( 25 ).
In proposito, il 1811 dà la misura della forza di penetrazione
commerciale britannica nell’isola: un’analisi dello stato doganale di
quell’anno per il porto di Cagliari rivela che Malta, in particolare,
seguita dagli altri scali dominati dagli inglesi, come le piazze siciliane,
risultano prevalentemente i centri dai quali la Sardegna incamera
le importazioni, a fronte di un complesso di 43 sacche concesse, concentrate
in buona misura tra marzo e luglio, ma non comprendenti
alcuna partita pur minima di grano ( 26 ). Per quest’ultimo, “nella cir-
( 23 ) P. MARTINI, Storia di Sardegna, cit., pp. 206-207.
( 24 ) F. BORLANDI, Relazioni politico-economiche, cit., p. 199.
( 25 ) F. BORLANDI, Relazioni politico-economiche, cit., p. 200; P. MARTINI, Storia
di Sardegna, cit., pp. 230-231.
( 26 ) A partire dal mese di marzo, le voci più ricorrenti per le merci esportate riguardano
prevalentemente lardo, lana, pelli d’agnello e di capretto. Archivio comunale
di Cagliari (in seguito indicato A.C.C.), Dogane, sez. antica, libro mastro,
vol. 784.
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GIORGIO PUDDU
costanza di essere piuttosto scarsa che ubertosa la messe in quest’anno”
si predisponevano, ancora una volta, tutte quelle precauzioni e
quelle misure rigorose atte a “rendere a conservare nel regno il genere
di prima necessità” ( 27 ).
2. La precarietà di quell’anno legata ai magri raccolti immette direttamente
nelle ristrettezze del 1812, e pure segnala malauguratamente
l’estendersi su vasta scala di quei comportamenti anomali nel commercio
che chiamano in causa i grossi mercanti titolari di traffici con
gli scali del Mediterraneo, sostenuti da compiacenti funzionari del Regio
Patrimonio. I riscontri negativi prodotti dalla guerra commerciale
marittima e le ristrettezze di un’economia sull’orlo del collasso disegnano
nell’isola una mappa sconcertante fatta di collusioni, accaparramenti,
traffici clandestini nei porti e all’interno dell’isola ( 28 ). Non si
va lontano dalla realtà se si sostiene che nell’esasperazione prodotta
dalla carestia ormai in rapida diffusione, la responsabilità della situazione,
al di là della contingenza internazionale, richiama le opzioni
della politica economica del governo, come quelle commerciali dei
grandi trafficanti di derrate e di prodotti di ogni genere.
Per costoro, il caso legato alla figura del negoziante Giorgio Filippi,
responsabile del contrabbando di grano nella località di Siniscola,
è emblematico di una condizione in cui l’esasperato ricorso all’affermazione
dell’interesse personale si affianca alla contrapposizione
ad una struttura statale opprimente, responsabile di un regime agrario
già inviso da tempo al mondo delle campagne.
( 27 ) A.S.C., Atti governativi e amm., vol. 12. Editto di S. M. sul commercio e
sulle “denuncie” dei grani, n. 865. Cagliari, 25 luglio 1811.
( 28 ) Indipendentemente dalla posizione di alti esponenti del mondo mercantile,
il malcostume nell’allestimento dei traffici chiama in causa anche personaggi
all’apparenza irreprensibili, provenienti dagli ambienti degli apparati doganali e
delle istituzioni in genere. Nel settembre del 1811, ad esempio, ma i casi si sprecano
nel lungo periodo dell’epoca napoleonica, i richiami e le ammonizioni, accompagnati
da sanzioni, evidenziano gli interventi del Regio Patrimonio, allarmato
per le inadempienze compiute dai suoi esponenti, volutamente latitanti, nei
vari porti dell’isola per consentire introduzioni o estrazioni clandestine. Il fenomeno
si concentra non solo alla Maddalena o nel Dipartimento della Gallura, già attraversato
dalla crisi economica, o nelle spiagge di Orosei, ma tocca pure il mezzogiorno
dell’isola dove, a S. Antioco, i fratelli Biggio, di cui uno Deputato di Sanità,
sembrano fondatamente sospettati di violenza e di organizzare operazioni di
contrabbando. A.S.C., Intend. gen., vol. 1327. Lettere dell’Ufficio del R. Patrimonio
ai suoi funzionari alla Maddalena, ad Orosei e a S. Antioco. Cagliari, rispettivamente,
1, 10, 14 settembre 1811.

La crisi economica del 1812. Premesse, sviluppi di una congiuntura drammatica
Il caso Filippi, data l’entità del danno recato all’erario regio, chiamò
direttamente in causa il governo, allarmato perché “in quest’anno
particolarmente di penuria di grano gli stà molto a cuore che non
sorta dal Regno la benché minima quantità dei generi di sussistenza”.
Nell’allestimento dell’istruttoria, le responsabilità per il reato
commesso finirono per gravare non solo sul negoziante, primo incriminato,
ma in ossequio ad un cliché ormai tristemente consolidato,
toccarono in modo esteso anche personaggi minori ( 29 ).
La crisi ormai imperversante, che richiamava tristemente le esperienze
del 1728 e del 1780, faceva chiaramente intravedere tutti quegli incontrollabili
trasferimenti di ricchezza prodotti dalla corsa sfrenata all’accaparramento,
all’occultamento di derrate alimentari, in particolare
del grano, al contrabbando. Proprio nell’allestimento dei traffici di grano
si manifestavano le speculazioni più sfacciate dirette ad arricchire ulteriormente
la nomenclatura di coloro che si facevano protagonisti di simili
costumi. Il fenomeno che sollecitava fortemente la struttura sociale,
modificandola, portava contrabbandieri ed incettatori a privilegiare
l’impiego delle loro illecite risorse nella proprietà, anche in Sardegna,
pur in misura non estesa come in altre regioni d’Italia, bene di rifugio
sicuro e garante affidabile di ricchezza e stabilità sociale, in tempi calamitosi
in cui precarietà politica, guerra commerciale e costante deprezzamento
della moneta rappresentavano delle tragiche costanti ( 30 ).
La corsa alla proprietà determinava la sua concentrazione in poche
mani privilegiate e disegnava con sconcertante rovesciamento di
fortune la nuova geografia della miseria, tanto lucidamente delineata
da Pietro Martini così come efficacemente chiamata in causa da
Giovanni Siotto-Pintor ( 31 ).
La corona era intervenuta già da tempo anche sul piano fiscale
nel tentativo di colpire le cospicue e improvvisate fortune non solo
di nobili, ma anche di ricchi borghesi, tempestivamente pronti a pa-
( 29 ) Per il contrabbando sulle spiagge di Siniscola, oltre ad abitanti della villa e
“carratori”, che trasferirono il grano sul litorale, concorsero il capitano e il sottocapitano
dei barracelli, il delegato di giustizia, l’alcaide della torre e il “soldato torraro”.
A.S.C., Intendenza generale, vol. 1327. Lettere dell’Ufficio del R. Patrimonio
ai suoi funzionari a Siniscola e a Nuoro. Cagliari, rispettivamente 15, 22 ottobre
e 5 novembre 1811.
( 30 ) G. SOTGIU, Storia della Sardegna sabauda, Roma-Bari 1984, pp. 248-251;
C. ZAGHI, Proprietà e classe dirigente nell’Italia giacobina e napoleonica, in “Istituzioni
e società nella Storia d’Italia” – Dagli Stati preunitari d’antico regime all’unificazione,
a cura di N. Raponi, Bologna 1981, pp. 257-258.
( 31 ) P. MARTINI, Storia di Sardegna, cit., p. 222; G. SIOTTO-PINTOR, Storia civile,
cit., p. 121.
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rare il colpo e ad evitare che l’intervento regio intaccasse le loro consistenze
patrimoniali. Del resto, nel tentativo di evitare perdite di
numerario e vuoti nelle casse dell’Erario, anche l’editto regio del luglio
1806 sul contrabbando può essere inquadrato nell’ottica di una
iniziativa mirante a scongiurare la formazione di facili ed intoccabili
fortune. Eppure, tanto impegno non sembra ripagato dal dissolvimento
dei mali e il governo è spinto ancora al ricorso di precise misure
draconiane che impongono agli agenti del R. Patrimonio, nei
punti di maggior rischio, di stazionare giorno e notte sui bastimenti
sotto carico per inibire il ricorso al contrabbando ( 32 ).
Le iniziative regie misurano eloquentemente le difficoltà e le ristrettezze
del 1812 fin dai primi mesi, allorché si rende inevitabile la
riduzione a metà delle stesse provviste destinate ai “rinfreschi di
etichetta”e s’impone pertanto alle Suddelegazioni patrimoniali di vigilare
in proposito sulle forniture ai bastimenti ( 33 ).
Poiché, sul piano economico-internazionale, le interazioni non potevano
non aver riflessi diretti in Sardegna, e influire sulla sua crisi in corso,
il governo regio veniva spinto al tentativo di disciplinare rigorosamente
il commercio da e per l’isola, richiamando ad un impegno più assiduo
i suoi consoli e vice-consoli, tutelandone le funzioni e il ruolo. Per
quella circostanza, un’analisi del momento consente di rilevare che se da
un lato ci si sforzava di regolare con maggior equità i “privilegi” del console
e dei vice-consoli di S. M. siciliana – importanti interlocutori commerciali,
pur sotto controllo inglese – al fine di equiparare la loro posizione
a quella dei loro colleghi sardi nell’isola, dall’altro risulta inevitabile
il riscontro della subalternità del commercio isolano rispetto a quello
proveniente in larghissima misura da scali sottoposti all’onnipotenza
britannica. Tra l’altro, per scongiurare ancora il ricorso al contrabbando
si decideva di far controllare “dai rappresentanti sardi” le polizze di carico
di tutte le merci da introdurre in Sardegna, coperte da “qualunque
bandiera”. Il controllo s’imponeva necessariamente “non essendo fattibile
eseguirsi la visita del carico … poiché navigano i Bastimenti con
Bandiera che noi non abbiamo verun diritto di farle delle visite, e solo si
può restringere ai Bastimenti con Paviglione Sardo” ( 34 ).
( 32 ) A.P. BRANCA, La politica economica del governo sabaudo in Sardegna (1773-
1848), Padova 1928, p. 38; A.S.C., Intend. gen., vol. 1327. Lettera al Sig. Luigi
Piras a Tortolì. Cagliari, 3 marzo 1812.
( 33 ) A.S.C., Intend. gen., vol. 1327. Lettera a don Giovanni Santus a Orosei.
Cagliari, 31 marzo 1812.
( 34 ) Queste proposte avanzate dal rappresentante consolare sardo a Palermo, Pietro
Barbieri, contemplavano anche alcune norme di natura precauzionale a tutela dell’or-

La crisi economica del 1812. Premesse, sviluppi di una congiuntura drammatica
Il complesso degli incarichi affidati alle missioni consolari evidenzia
l’importanza della loro funzione nel momento di più alta tensione
bellica e commerciale tra Francia e Inghilterra. In quell’occasione,
le istruzioni impartite prevalentemente ai viceconsoli danno la
misura dell’estensione di quei compiti, ma al tempo stesso offrono
ancora un quadro delle ristrettezze del regno di Sardegna e del suo
commercio “… essendo la Bandiera Sarda soggetta alla visita e per
non dare motivo alcuno di querela contro la Nazione …” ( 35 ).
Del resto come già parzialmente esposto, lo scontro con la Francia
napoleonica spingeva l’Inghilterra ad incrementare gli sforzi in funzione
antifrancese e a monopolizzare il commercio soprattutto nel Mediterraneo
occidentale, inducendo il piccolo regno di Sardegna ad accettare
imposizioni gravose, evidenziate dalle note doganali, denuncianti
l’invadenza del prodotto inglese o di quello proveniente da centri sottoposti
a controllo britannico. Già alla fine del gennaio 1812 si ripropone
una crescita di presenze mercantili a Cagliari di provenienza maltese,
e la tendenza si mantiene pressoché costante fino a maggio, con vascelli
che giungono poi non solo da Londra, ma pure da Napoli, Genova
e Tunisi. In quest’ultimo mese Malta vanta ben 26 arrivi, seguita da
Gibilterra e Palermo. I prodotti introdotti nell’isola spesso sono di largo
consumo, ma non mancano introduzioni di articoli di lusso pur nel
pieno imperversare della crisi e della miseria dilagante ( 36 ).
Eppure la consapevolezza delle difficoltà economiche e delle ristrettezze
dell’Erario non sembrava far avvizzire l’antica vocazione
militare sabauda, pur nell’imprevedibilità di un fatto che chiamava
ancora in causa non solo il potenziale reclutamento di nuovi reparti,
ma anche, paurosamente, l’accensione di nuove voci di spesa. Lo
dine interno, prescrivendo in particolare che ogni “Forestiere … di qualunque grado e
condizione … non possa introdursi nei Stati di S. M. sarda … se pria non si presentasse
al Console o Rappresentante di S. M. sarda a prendere un Passaporto”. Ciò veniva
ovviamente rilasciato dall’autorità consolare chiamata in causa per “prendere le dovute
informazioni ed accertare, per quanto è possibile, il carattere della Persona, ed il motivo
del suo viaggio”. A.S.C., Segr. di Stato, II S., fasc. IX. Nota dell’agente Pietro Barbieri
alla Segreteria di Stato e di guerra. Palermo, 17 marzo 1812.
( 35 ) Il tenore di queste considerazioni viene da un complesso normativo che
impartiva ai vice-consoli istruzioni particolareggiate sul commercio, prescrivendo
nella fattispecie che ogni “Padrone o Capitano” era tenuto a denunciare presso
ogni sede vice-consolare “le sue merci condotte genere per genere, articolo per articolo,
per farsene il Manifesto da codesto Vice-console in Dogana … comprendendovi
le Pacotiglie del Capitano, Marinai e Passeggeri”. A.S.C., Segr. di Stato, II
S., fasc. 9. Istruzioni per i vice-consoli. S. D.
( 36 ) A.C.C., Dogane, sez. antica, libro mastro, vol. 785.
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scioglimento di alcuni corpi militari di Ferdinando IV di Borbone,
costituiti in parte da elementi sardi e piemontesi, impensieriva il governo
regio a Cagliari come il suo rappresentante a Palermo, Pietro
Barbieri, preoccupato e dubbioso se “fare a spese di S. M. Nostro
Augusto padrone vestire alla meglio economicamente l’Individui
Sardi licenziati o che vengono dalle Spagne per farli passare sotto il
servizio di S. M. sarda” ( 37 ). Le perplessità espresse sia a Cagliari che
a Palermo erano giustificate dalla congiuntura sfavorevole in atto,
ma nel momento si convertivano in difficoltà insormontabili poiché
anche i piemontesi premevano per un nuovo reclutamento e, inoltre,
si navigava nell’incertezza assoluta sul destino di coloro che
“non si vuol accettarli al servizio” ( 38 ).
Non è dato sapere con certezza se quei reduci abbiano trovato
l’arruolamento sotto le bandiere di S. M. sarda, poiché le istruzioni
impartite al Barbieri a Palermo sembrano escluderlo. All’insegna
dell’esasperata ricerca di economizzare a tutti i costi, infatti, si dichiarava
inizialmente che per i commilitoni sardi, soltanto coloro
che fossero stati in grado di guadagnare a proprie spese la Sardegna
avrebbero, eventualmente, trovato arruolamento, per concludere più
tardi che ... “S. M. però non è in grado di soccombere ad una spesa
di qualche riguardo per tale oggetto”. Altrettanto liquidatorie sono
le disposizioni per i piemontesi, dato che S. M. sarda “non volendo
per ora trascurare le sue truppe non è in caso di comprenderli”. Relativamente
alla sorte di coloro che, pur sudditi sardi, non fossero
stati cooptati nei nuovi reggimenti, “potrà regolarsi il sig. Barbieri,
secondo le circostanze delle persone e del paese” ( 39 ).
Come si può constatare da queste brevi note, l’interesse regio di
poter incrementare i propri organici per un impegno a fianco dei
coalizzati nei teatri d’Europa, al fine di un’auspicata restituzione de-
( 37 ) Il caso denunciato dal Barbieri riguardava espressamente lo scioglimento del
corpo dei Cacciatori albanesi, soprannominati “Cammicciotti”, quello del Reggimento
estero e un terzo reparto detto dei “Cacciatori di mare”, noto anche come
Reggimento carolino. Le difficoltà economiche sembra abbiano indotto la corte borbonica
a ricorrere a misure necessarie, delle quali il rappresentante sardo lamenta le
conseguenze, poiché “un tal ordine ha riempito la mia Cancelleria di molti individui
naturali … i quali vogliono da me assistenza”. Parte di questi reparti avevano operato
in Spagna e, nella prospettiva di un rifiuto di impiego da parte sarda, intendevano
arruolarsi nelle truppe di S. M. britannica. A.S.C., Segr. di Stato, II S., fasc. 9. Nota
dell’agente Pietro Barbieri alla Segr. di Stato e di guerra. Palermo, 11 maggio 1812.
( 38 ) A.S.C., Idem. Palermo, 11 maggio 1812.
( 39 ) A.S.C., Segr. di Stato, II S., fasc. 9. Promemoria della Segr. di Stato. Cagliari,
26 maggio 1812.

La crisi economica del 1812. Premesse, sviluppi di una congiuntura drammatica
gli antichi possedimenti continentali, doveva affievolire dinanzi alle
restrizioni economiche e alle necessità imposte dalla crisi. La dinamica
di quest’ultima lasciava intravedere sempre più chiaramente
come le traversie interne del regno non fossero disgiunte dai fatti internazionali,
in uno stretto rapporto tra causa ed effetto in cui i secondi
non potevano non riversare sulle prime il loro carico di costrizioni
e di condizionamenti sulla società e sull’economia.
Del resto il monopolio commerciale inglese nel Mediterraneo era
dominante e, di conseguenza, in termini di rispetto delle “licenze” e
delle bandiere, risultava difficile che le unità britanniche consentissero
a quelle sarde, o straniere dirette in Sardegna, il libero transito
sul mare nell’ipotesi del riscontro di un carico sospetto. Ne conseguiva
che anche il fermo o la visita di un solo vascello, spesso seguiti
dal sequestro, inibendo la frequenza nella regolarità dei traffici e nei
rifornimenti, incidesse negativamente sull’economia di una regione
già provata. Già da tempo i controlli inglesi, anche in acque territoriali,
venivano sistematicamente improntati al consueto rigore e, nel
1812, il fenomeno doveva trovare ulteriore espansione.
Il caso dell’equipaggio e del comandante dell’unità francese in transito
da Genova alla Sardegna, predati in acque territoriali sarde e condotti
a Malta per essere giudicati dal tribunale del Vice-Ammiragliato
locale, dà ancora una volta la misura dell’intransigenza britannica. Sul
piano delle prove emerse in ambito processuale, l’unità navigante sotto
licenza sarda e protetta da eventuali “molestazioni dalle autorità o bastimento
da guerra di S. M. Sarda” in alto mare, guadagnate le acque
territoriali dell’isola, veniva protetta dall’ostensione della bandiera sarda,
in conseguenza del deposito della licenza per il controllo nel primo
scalo isolano. Pur sotto questa tutela, garantita dalla norma del governo
sardo, sul vascello si abbatteva la rapacità britannica che immediatamente
predisponeva il sequestro della malcapitata unità.
L’agente di Vittorio Emanuele I a Malta, Giuseppe Styche interveniva
sulla vertenza nell’estremo tentativo di far rispettare i “Sovrani
Diritti di S. M.”, ma inutilmente. In particolare, il console proponeva
la sostituzione di una formula giuridica in uso con una nuova,
che garantisse maggiormente sul piano della reciprocità dei rapporti
commerciali i vascelli sardi, suggerendo per di più al Rossi, titolare
della la Segreteria di Stato, di informare tempestivamente dell’accaduto
l’ambasciatore sardo a Londra ( 40 ).
( 40 ) L’unità francese “San Giuseppe”, predata e condotta a Malta, apparteneva
al capitano Moro e recava un carico di proprietà del Sig. Alimonda, di nazionalità
genovese. Nel possedimento inglese, l’agente Styche aveva dichiarato ai giudici del
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La posizione della Sardegna pertanto era quanto mai vulnerabile,
dato che già dal 1810 – anno in cui la Francia napoleonica registrava
sul piano economico le prime incrinature e apriva i suoi scali ai prodotti
coloniali – una porzione notevole del commercio sul mare era
“disciplinata” dalle licenze inglesi, in ossequio alle direttive del gabinetto
di Spencer Perceval, contrario ad ogni divieto che inibisse l’interscambio
dei paesi neutrali. Era consequenziale, pertanto, la difficoltà
in cui versava il casato sabaudo, colpito da una sfavorevole
congiuntura economica ed alimentare ( 41 ).
All’interno dell’isola i riscontri della crisi erano evidenti e la capillarizzazione
del contrabbando spingeva il governo regio a Cagliari
a misure più strette e circostanziate. Nella fattispecie i provvedimenti
e le visite richieste ai Delegati e Suddelegati patrimoniali da farsi
“improvvisamente” e “con frequenza” nelle osterie e in occasione della
celebrazione delle feste testimoniano come il fenomeno dei traffici
clandestini di ogni genere di merce, nella primavera di quel 1812, non
trovasse la sua localizzazione nei soli porti, ma si estendesse paurosamente
anche all’interno, sfruttando astutamente le opportunità che
la vita sociale offriva per la consumazione del quotidiano ( 42 ).
L’imposizione del rigore nel controllo dei prodotti sbarcati negli
scali isolani, o venduti all’interno, non esimeva poi l’Erario regio in
crisi dall’applicazione drastica di quelle normative legate alla disciplina
Vice-Ammiragliato che rientrava nella consuetudine del governo sardo far ritirare
la licenza rilasciata dal console operante nello scalo di partenza del bastimento, per
farla sottoporre al controllo della Segreteria di Stato a Cagliari; in assenza del documento
la garanzia per l’unità era assicurata dalla bandiera.
Nelle fasi del processo lo stesso Styche non aveva lesinato iniziative di ogni genere
nel difendere le posizioni di S. M. sarda, così sottolineando il fallimento dei
suoi interventi: “... ho la soddisfazione di assicurare che non è dipeso da alcuna
mancanza di attività o d’energia da parte mia”.
A proposito della sostituzione della norma contenuta nel retro delle licenze,
osservava: “Se S. M. Sarda fa rispettare le licenze inglesi non so come S. M. Britannica
possa far a meno di far rispettare le Licenze Sarde, qualora S. M. Sarda insistesse
sopra un punto tanto giusto e ragionevole”. A.S.C., Segr. di Stato, II S.,
fasc. 9. Nota dell’agente Giuseppe Styche alla Segr. di Stato. Malta, giugno 1812.
Cfr. sullo stesso fasc. la “Memoria” dell’agente, datato: Malta, 27 giugno 1812 e,
pure la nota dello stesso rappresentante in data: Malta, 24 luglio 1812.
( 41 ) Cfr. F. FRANCIONI, Gli inglesi e la Sardegna, cit., pp. 244-245; I. WALLER-
STEIN, Il sistema mondiale dell’economia moderna, cit., p. 141; G. LEFEBVRE, Napoleone,
cit., p. 390.
( 42 ) A.S.C., Intend. gen., vol. 1327. Lettera a don Vincenzo Cordiglia ad Oristano.
Cagliari, 11 aprile 1812; circolare alle Suddelegazioni. Cagliari, 11 aprile 1812;
lettera a don Giuseppe Delitala a Bosa. Cagliari, 18 aprile 1812.

La crisi economica del 1812. Premesse, sviluppi di una congiuntura drammatica
del transito interno delle merci. Qui, l’accertamento del rispetto dei
diritti dovuti a S. M. sarda si faceva più rigido per le merci in transito
destinate ai mercati esteri, più che al consumo interno, per le quali era
richiesto il pagamento delle quote previste; nel caso di merci estere
“denunziate per transito” il diritto richiesto era fissato al 2%. Relativamente
ai prodotti destinati al consumo interno, in transito da un porto
all’altro della Sardegna, i Suddelegati patrimoniali dovevano “munire
il capitano del bastimento o il proprietario delle merci d’un certificato
… denunziato costì per transito ad altro porto del Regno, purché
però nel porto che devono transitare vi sia stabilita Dogana Reale” ( 43 ).
Tuttavia anche in questi casi, come in altri rilevabili nel passato, lo
iato tra volontà politica di correre ai ripari – pur di otturare le falle
nelle finanze pubbliche – prassi commerciale e applicazione delle prescrizioni
regie, risultava rilevante e, nel 1812, sembrava addirittura incolmabile.
Diventava per di più costume, in uno sconcertante gioco di
connivenze, in buona misura reali, la disinvoltura truffaldina di numerosi
operatori commerciali, sorretta dalla superficialità dei responsabili
delle Suddelegazioni patrimoniali nel disciplinare le operazioni
di carico, il controllo sulle merci, l’esazione dei diritti nei casi previsti.
Da Cagliari non erano infrequenti i provvedimenti disciplinari e
le sanzioni comminati in occasione di flagranti violazioni, allorché si
consentiva l’esecuzione di un carico di …“articoli del Regno e di
transito …” poi destinati ai mercati esteri “… senzaché vi fosse la
necessaria tratta”. E non risultava altrettanto infrequente il caso di
prodotti isolani in transito per il consumo interno, privi del prescritto
“certificato di Dogana”, senza contare, infine, la concessione di
sacche rilasciate dall’Intendenza generale dopo la partenza del vascello.
Altrettanto paradossale si rivelava il caso di funzionari delle
Suddelegazioni che, pur pienamente consapevoli della partenza di
un bastimento, finivano per firmare, in totale malafede quindi, l’atto
di “esecuzione d’un caricamento già eseguito” ( 44 ).
Le inadempienze ad opera di un organo come la Suddelegazione
non si limitano ai casi illustrati, ma in ottemperanza al ricorso di un
( 43 ) Le merci estere in transito nell’isola, in attesa di essere imbarcate per i
mercati stranieri, dovevano corrispondere all’Erario regio il diritto di “ostellaggio”.
Il diritto veniva versato dall’estraente al momento dello sdoganamento ed
era previsto dalle prescrizioni della Carta reale dell’agosto 1781. A.S.C., Intend.
gen., vol. 1327. Circolare ai Suddelegati di Carloforte, Oristano, Iglesias. Cagliari,
25 aprile 1812; lettera al Sig. Pasella ad Iglesias. Cagliari, 9 maggio 1812.
( 44 ) A.S.C., Intend. gen., vol. 1327. Lettera a don Francesco Ballero ad Alghero.
Cagliari, 6 giugno 1812.
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84
GIORGIO PUDDU
malcostume diffuso, ormai senza confini, toccavano ogni settore del
mondo economico-commerciale. In questo contesto, ogni disposizione
normativa trovava il suo corrispettivo nella frode, e lo stesso
“passavanti”e il diritto di visita sui vascelli non facevano eccezione.
Era diffusa la pratica abituale di consentire imbarchi e spedizioni di
qualunque tipo di merce senza accompagnamento di alcun “passavanti”,
oppure trovava radicamento l’uso di non effettuare alcuna visita a
bordo di una unità in partenza senza incamerare i prescritti diritti,
come richiedevano i regolamenti regi che disciplinavano l’attività delle
Suddelegazioni ( 45 ). Non è facile dedurre con chiarezza quale percorso
trovasse l’enorme flusso di denaro sottratto al regio Erario, ma constatata
la congiuntura in corso e i suoi risvolti inquietanti, non è difficile
ipotizzarne le dovute conseguenze e scoprirne la destinazione finale.
Naturalmente non era solo il denaro a disertare le sedi predestinate,
ma anche gli stessi prodotti commerciali, in particolare quelli agricoli,
spesso convogliati fuori regno ben al di là delle esigenze dei suoi sudditi.
E così grano, orzo, legumi e altre derrate imboccavano percorsi oscuri
per destinazioni ignote, privando i ceti economicamente più fragili
dei beni indispensabili alla sopravvivenza e provocando spesso le loro
vibratissime esplosioni di collera ( 46 ). Non era escluso che i responsabili
di queste sottrazioni fossero sudditi inglesi, o corsari operanti sotto la
protezione della bandiera britannica, non certo esemplari in verità nella
conduzione di traffici di bestiame o di qualunque altro prodotto. Paradossalmente,
quando la negoziazione percorreva canali regolari, come
nel caso dei noti “rinfreschi di etichetta”, e la contrattazione si chiudeva
col pagamento dei diritti spettanti alla regia Cassa e alla Segreteria
del real Patrimonio, erano i titolari delle varie Suddelegazioni a trattenere
più del tempo dovuto le somme incassate, richiamando le più
aspre sollecitazioni da Cagliari. Non sempre è agevole scoprire, come in
questo caso, se quelle somme siano state trafugate o, nel caso più fortunato,
versate tardivamente presso la Tesoreria reale, ma constatata
l’asprezza dei toni e la minaccia di sanzioni lanciate come anatemi dagli
organi centrali, è più facile propendere per la prima ipotesi ( 47 ).
( 45 ) A.S.C., Intend. gen., vol. 1327. Lettera a dr. Gioachino Porcu a Carloforte.
Cagliari, 6 giugno 1812.
( 46 ) A.S.C., Intend. gen., vol. 1327. Lettera a Salvatore Marcialis a S. Antioco.
Cagliari, 13 giugno 1812.
( 47 ) Le sollecitazioni spiccate da Cagliari contro il Sig. Belisai di Pula insistono
su una procedura a lungo disattesa dallo stesso responsabile. Nell’intervenire su di
lui per rimediare a tali inadempienze, gli si chiedeva oltre alla corresponsione “di
tutti i diritti che avesse esatto a questo ufficio del R. Patrimonio”, anche …“una

La crisi economica del 1812. Premesse, sviluppi di una congiuntura drammatica
Le sedi presso le quali venivano consumate le pratiche più truffaldine
erano le più disparate, toccando le coste orientali, quelle a settentrione e
le meridionali, dove con una certa frequenza comparivano, ad esempio,
i richiami per la sede di Pula. Ad oriente le attenzioni spesso vengono rivolte
a Tortolì: qui nel giugno del 1812, con forte sospetto su responsabili
inglesi a bordo di un vascello che ufficialmente doveva “estrarre”
vino, viene “estratta” clandestinamente anche una mandria di buoi. Per
il caso, da Cagliari si preme sul responsabile della locale Suddelegazione
per “non abbandonare affatto le opportune indagazioni” ( 48 ).
Era in prevalenza per il grano che montavano da parte del governo
preoccupazioni profonde ed iniziative dirette a dissolverle. Un
prodotto così fondamentale per l’alimentazione di intere schiere di
infelici, del resto non poteva che godere di particolari attenzioni e di
una normativa rigorosa che ne disciplinasse il consumo, ne regolamentasse
il commercio interno ed estero e soprattutto ne scongiurasse
il ricorso agli accaparramenti e ai traffici occulti. Le peggiori forme
di reato, tuttavia, non trovavano espressione direttamente nei
punti d’imbarco noti o in cale nascoste opportunamente prescelte
per le esportazioni fraudolente, ma si consumavano spesso all’origine
nelle ville, dove il fenomeno diffuso degli accaparramenti, delle
denuncie mancate o parziali ritagliavano a carico di numerosi produttori
il profilo di un costume inquietante. Per stornare ancora una
volta gli effetti pericolosi di un tale fenomeno, a Cagliari nel giugno
del 1812, veniva emanato un Editto regio che, richiamando lo spirito
di quelli del 1764 e del luglio 1811, intendeva giungere ad una
sanatoria. La carta in questione mirava ad impedire gli occultamenti
di grano del nuovo raccolto, in un’annata certamente non generosa,
e ad evitare che si riproponesse, analogamente, il complesso degli
occultamenti del 1811. In ottemperanza alle sue direttive rigorose,
l’Editto intimava a “Chiunque avesse già accaparrato od incettato
granaglie del nuovo raccolto dovrà farne la denuncia ai rispettivi
Prefetti e Ministri di giustizia delle Città e Ville, nelle quali ne avesse
fatto l’accaparramento od incetta” ( 49 ).
nota distinta del numero e qualità del bestiame accordato, i nomi dei venditori e
dei comandanti dei legni da guerra e le somme che ne avrà esatto, ad oggetto d’introitarle
nella R. Cassa”. A.S.C., Intend. gen., vol. 1327. Lettera al Sig. Belisai a
Pula. Cagliari, 18 giugno 1812.
( 48 ) A.S.C., Intend. gen., vol. 1327. Lettere a Giuseppe Guiso Minutili a Tortolì.
Cagliari, rispettivamente 16 e 23 giugno 1812.
( 49 ) A.S.C., Segr. di Stato, II S., fasc. 2275. Editto regio sulle “denuncie” e sul
commercio del grano. Cagliari, 26 giugno 1812.
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GIORGIO PUDDU
Sotto il profilo della commercializzazione si imponeva ai proprietari
di grani che “… volessero estrarne per venderne o rimetterne ad
altri nelle Città e Ville del Regno …” che “… dovranno denunciarle
…” ai responsabili del luogo, i quali saranno tenuti ad “… accertarsi
d’essere le granaglie introdotte nella stessa quantità e qualità portata
dal certificato” ( 50 ).
Sullo stoccaggio e sull’immissione del grano nei mercati, e sulla
sua successiva commercializzazione all’interno e all’estero, già in passato,
in temperie ben diverse da quelle critiche del periodo delle
guerre napoleoniche, il governo regio, spesso in maniera poco brillante,
era intervenuto per tentare di disciplinare una materia così
complessa per il forte scontro degli interessi contrapposti che la caratterizzava,
con risultati pressoché fallimentari. Il sec. XVIII infatti
aveva segnato drammaticamente per il problema del grano un’intera
epoca, a causa dell’attuazione di una politica insensata che, nel lungo
periodo, aveva prodotto soltanto profondi squilibri tra campagna
e città, tra comparto produttore e comparto consumatore. Com’è
noto, per un fenomeno del resto altrettanto diffuso in Europa, la ricaduta
dell’impegno del duro lavoro contadino si traduceva nei benefici
goduti dalle città.
La politica economica perseguita dai Savoia, in realtà, non solo
voltava le spalle al mondo contadino, mortificandone lo sviluppo,
ma nel contempo non garantiva sul piano economico a quello urbano
il frutto pieno delle risorse delle campagne e, di conseguenza, anche
i ceti delle città finivano per subire un ritardo nella loro crescita.
Nelle campagne gli squilibri maggiori erano stati incoraggiati dalla
persistenza di un regime giuridico prevalentemente discriminante
e vessatorio che insisteva su un assetto terriero antiquato, teatro di
una concezione produttiva altrettanto arcaica, la quale in definitiva
non poteva che introdurre un diffuso stato di povertà.
Sul piano della commercializzazione del grano, anche nel secolo
precedente, come negli anni dell’età napoleonica, il governo regio e
gli apparati amministrativi disciplinanti il commercio non si erano
peritati di praticare costumi di comportamento pressoché truffaldini,
consentendo che negli anni di carestia, mercato nero e speculazione
ritagliassero per il comparto contadino privazioni e spoliazioni
a tutto vantaggio delle città. In sostanza il sistema di commercializzazione
del grano finiva per impiantarsi su rigide pratiche protezionistiche
che, garantite da una intransigente supervisione statale taglieggiante
non solo gli introiti dei gradi superiori del ceto mercanti-
( 50 ) A.S.C., Segr. di Stato, II S., fasc. 2275. Idem.

La crisi economica del 1812. Premesse, sviluppi di una congiuntura drammatica
le – sempre pronto poi a cannibalizzare quelli delle fasce subalterne –
ripartiva infine un ampio fiume di risorse o alla corona o alla speculazione
più diffusa ( 51 ).
Instaurare un raffronto tra la situazione economico-agraria del
XVIII sec. e la crisi del 1812 significa mettere in evidenza un’estensione
dei mali di quel secolo che, approdando all’attuale carestia ed
esasperandone i toni, rispetto al passato, finì per non risparmiare
neppure la stessa Cagliari.
Il decennio precedente la crisi, dopo tutto, aveva registrato accanto
alla flessione nella produzione granaria, lo spopolamento delle campagne,
entrambi conseguenze dei recenti moti popolari e contadini.
Casa Savoia, responsabile dell’assetto ormai in dissesto, nella realtà
non era intervenuta d’impulso per modificare un comparto come
quello agrario, ormai in pregiudizio agli occhi delle masse contadine.
Se lo slancio teso al perfezionamento di strutture come i Monti
frumentari prima, e quelli Numari più tardi era apparso agli occhi
dei più la soluzione adeguata, in realtà, al di là delle flessioni prodotte
dalle agitazioni antifeudali, era stato ancora una volta il governo
regio, spinto più tardi dalla congiuntura napoleonica, a dar fondo
alle risorse delle strutture agrarie con un forte drenaggio di numerario
a sostegno delle fragili finanze regie ( 52 ).
In tempi dominati dal timore della persistente carestia, il governo,
pur gravando con i prelievi sulla consistenza patrimoniale dei
Monti, più tardi nell’agosto 1812, sembra abbia provveduto ad una
reintegrazione delle partite prelevate, in particolare nei tre anni precedenti
la crisi ( 53 ).
L’incertezza, il prolungarsi delle calamità, con in testa il fenomeno
del contrabbando, difficilmente potevano arrestarsi nel regno di
Sardegna per iniziativa di quelle fragili e inadeguate misure messe a
punto dal governo regio; dopo tutto, sempre chiamando in causa il
contrabbando, cosa poteva mettere in campo casa Savoia di efficace,
quando la Sardegna altro non era se non una modesta porzione
d’Europa vittima del traffico clandestino dominante in modo ferreo
( 51 ) G. SOTGIU, Storia della Sardegna sabauda, cit., p. 70.
( 52 ) Ibidem, p. 250.
( 53 ) I prestiti erogati vennero “reintegrati quasi intieramente … del tanto, che
si prelevò per somigliante motivo nell’ultimo prestato contributo”. Le ristrettezze,
tuttavia, erano tali che le restituzioni ai Monti di soccorso vennero effettuate col
“grano necessario per la provvista in quest’anno della R. Truppa … bilanciato in
st. 20.700”. A.S.C., Segr. di Stato, II S., fasc. 2275. Lettera sulle reintegrazioni ai
Monti di soccorso. Cagliari, 12 agosto 1812.
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GIORGIO PUDDU
ad opera degli inglesi l’intero continente da Settentrione a Mezzogiorno?
Le difficoltà in atto del resto difficilmente potevano trovare soluzione,
allorché il persistere di strutture normative ormai superate inceppavano,
attraverso vetuste istituzioni doganali, il regolare flusso
di merci e derrate. Da parte sabauda era inutile appellarsi alla norma
e chiamare in causa modelli di comportamento irreprensibili di
fronte ad una gerarchia di istituti che appesantiva la macchina statale,
che avrebbe dovuto, invece, agevolare il flusso commerciale ( 54 ).
Sulla figura della dogana, infatti, e sulla sua funzionalità insisteva
ancora una condizione di diversità che faceva sì che quelle cosidette
baronali non potessero ricevere merci precedentemente sdoganate,
con la relativa corresponsione dei diritti previsti, presso le dogane reali.
Queste, dove venivano versati i diritti di transito, dovevano provvedere
anche allo stoccaggio delle merci opportunamente custodite in
magazzini adeguati ( 55 ).
La pesantezza e, in tempi di rapido mutamento, l’assenza di apparati
giuridici snelli che facilitassero gli scambi, in uno Stato irto di
barriere interne, aggravavano la situazione del regno e moltiplicavano
le difficoltà nei rifornimenti – per di più esigui – indispensabili
alle moltitudini ridotte alla fame. Il caso delle forniture di grano per
la Maddalena, richieste nella misura di 10.000 starelli, mentre potevano
esserne garantiti poco più di 5.000, dà ancora una volta la misura
delle ristrettezze ( 56 ).
Si trattava, come si può constatare, di limitazioni gravi che ad
ogni buon conto trovavano riflesso anche nel Mezzogiorno dell’isola,
allorché la minaccia algerina su Carloforte imponeva, pur nell’imminenza
dell’aggressione, il ricorso alle opportune cautele nei rifornimenti
di grano, che dovevano essere erogati senza sprechi ( 57 ).
( 54 ) Nel contesto del malcostume diffuso, del disordine e della estesa disinvoltura
all’interno delle Suddelegazioni patrimoniali, ad esempio, non mancavano i
casi di funzionari che “… dopo di aver accordato tante estrazioni … e di aver esatto
i diritti …” inoltrassero a Cagliari richieste specifiche per venire a conoscenza
delle legittime spettanze da riscuotere. A.S.C., Intend. gen., vol. 1327. Lettera inviata
al Sig. Giuseppe Belisai a Pula. Cagliari, luglio 1812.
( 55 ) A.S.C., Intend. gen., vol. 1327. Lettera inviata al Sig. Santus Guiso ad
Orosei. Cagliari, 4 luglio 1812.
( 56 ) A.S.C., Intend. gen., vol. 1327. Lettera inviata al Consiglio comunitativo
della Maddalena. Cagliari, 1 agosto 1812.
( 57 ) A.S.C., Intend. gen., vol. 1327. Lettera inviata al dr. Pasella ad Iglesias.
Cagliari, 5 settembre 1812.

La crisi economica del 1812. Premesse, sviluppi di una congiuntura drammatica
Le difficoltà del commercio interno, inevitabilmente speculari a
quelle internazionali, spingevano a sfruttare ogni canale di informazione
che potesse offrire una via commerciale attraverso cui approvvigionarsi
– in verità non sempre percorribile – data la persistenza
del conflitto europeo. E così, nell’autunno del 1812, per la Sardegna
si faceva più arduo il complesso dei rifornimenti a causa delle ostilità
appena concluse tra Russia e Impero Ottomano, che impedivano
l’accesso al Mar Nero e, di conseguenza, la possibilità di guadagnare
le rotte per gli scali orientali ( 58 ).
D’altra parte il controllo inglese sul Mediterraneo se gravava sulla
Sardegna, non di meno interferiva con l’attività economica delle regioni
costiere o di altre isole del bacino e, ad esempio, il caso di alcuni
operatori commerciali corsi, impediti nell’intento di aprire una
rete di traffici autonoma con Malta, fa intravedere il sistema forzato
di imporre le onnipotenti licenze inglesi, accordate in quell’occasione
“per viaggi che abbiano principio o fine” nell’isola ( 59 ).
Sul piano dei rapporti non solo commerciali, per la Sardegna, restando
l’Inghilterra il partner forzatamente privilegiato, non era infrequente
il caso di forniture di grano ai suoi reparti militari e in
particolare alle sue flotte. In occasione della crisi del 1812 alla marina
inglese venne concessa da parte sarda una tratta di 10.000 starelli
di grano, successivamente ritardata, e infine in parte ritrattata e sostituita
con mandrie di buoi da inviare a Malta. In questo caso sembra
accertato che al di là del cambio della fornitura, i rifornimenti
fossero inferiori al complesso previsto, restando dominante il persistere
della carestia in Sardegna ( 60 ).
Del resto, nonostante la crisi, non si possono negare quei casi di
estrazioni, magari modeste di buoi, montoni e prodotti alimentari che
venivano concesse oltre agli inglesi, ad unità da guerra “di nazione
amica”, ospiti nelle marine isolane nel settentrione, nel mezzogiorno o
( 58 ) Le notizie fornite dall’agente sardo a Malta confermavano l’avvenuto accordo
tra Pietroburgo e Costantinopoli, ma precisavano pure che essendo ancora
la Moldavia e la Vallacchia occupate da truppe russe, “… l’apertura del Mar Nero
è finora incerta, e quandanche questa si verificasse, sino alla Primavera ventura il
commercio non sarebbe mai praticabile in quelle parti per rigore del clima”.
A.S.C., Segr. di Stato, II S., fasc. 9. Nota dell’agente Giuseppe Styche alla Segr. di
Stato. Malta, 2 ottobre 1812.
( 59 ) A.S.C., Segr. di Stato, II S., fasc. 9. Idem.
( 60 ) Nell’operazione della fornitura per la flotta inglese, i referenti in Sardegna erano
gli esponenti della famiglia Federici di Sassari. A.S.C., Segr. di Stato, II S., fasc. 9.
Nota dell’agente Giuseppe Styche alla Segr. di Stato. Malta, 20 ottobre 1812.
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GIORGIO PUDDU
nel centro dell’isola. In proposito, nell’ottobre del 1812, per gli approdi
di S. Antioco, da Cagliari si ordinava ai suddelegati patrimoniali
– pur non negando le concessioni – di non trascurare ogni aspetto legato
all’esazione dei diritti prescritti per le forniture a quei vascelli ( 61 ).
Tuttavia, non erano soltanto le merci o le derrate concesse alle potenze
alleate ad essere oggetto di controllo – constatata la voracità di
operatori senza scrupoli, non meno dei loro compiacenti gregari del
Regio Patrimonio – ma, paradossalmente, gli stessi bastimenti di cui
spesso non si denunciava la presenza nei porti o nei punti d’approdo
isolani. Il fenomeno di queste unità fantasma doveva essere alquanto
diffuso, se una nota inviata ai suddelegati patrimoniali in quasi tutta
l’isola denuncia il fenomeno in atto già da qualche anno, chiedendo il
ripristino del riscontro mensile delle unità approdate ( 62 ).
Il malcostume dominante, fedele referente del malessere socioeconomico,
imponeva al R. Patrimonio di abbandonare pratiche diffuse
nel costume commerciale, come le sacche in bianco – consuetudine
non proprio in sintonia con lo spirito dei regi regolamenti –
pur di sventare azioni di corrutela. Il fenomeno delle sacche in bianco,
frequente, ma utilizzato e accettato come prassi ordinaria, in realtà
offriva l’opportunità di guadagnare percorsi illegali, allorché “i vacui
in bianco”, ossia le parti del documento non compilate per poter essere
liberamente riempite con l’indicazione delle prescelte quantità
da esportare, consentivano l’abuso e il trasferimento di prodotti e
derrate eccedenti le misure consentite, versando di conseguenza all’Erario
regio i diritti dovuti in minor misura.
Nel corso della crisi del 1812, per le sacche legate all’esportazione
del vino nella scalo di Alghero, si stabilì di vietare tale pratica e di dichiarare
soprattutto la quantità da estrarre per gli scali stranieri ( 63 ).
( 61 ) Nella consapevolezza della gravità della carestia e delle carenze nelle finanze,
a Cagliari, gli ambienti regi avevano intimato di far pubblicare un pregone “in ambe
popolazioni di codesta penisola”, rivolto ai proprietari interessati a vendere le loro
derrate ai vascelli amici. I venditori erano rigorosamente tenuti a “pagare i diritti di
estrazione alla Regia Cassa e agli altri Uffici Regi”. A.S.C., Intend. gen., vol. 1328.
Lettera inviata al Sig. Ignazio Soggia a S. Antioco. Cagliari, 22 ottobre 1812.
( 62 ) Nella nota denunciante la presenza dell’unità all’ancora, le varie Suddelegazioni
patrimoniali dovevano precisare il porto o la spiaggia, il patrone, il giorno dell’approdo,
il carico, la provenienza, la portata e il tipo di unità (tartana, sciabecco,
leuto ecc.). Dall’ufficio generale veniva imposto che il complesso dei dati dovesse essere
inoltrato a Cagliari con la posta del primo giorno del mese. A.S.C., Intend. gen.,
vol. 1328. Circolare ai suddelegati patrimoniali. Cagliari, 14 novembre 1812.
( 63 ) In quell’occasione si insisteva piuttosto “di lasciare in bianco il patrone del
bastimento, la sua denominazione e portata, ed anche l’estraente”.

La crisi economica del 1812. Premesse, sviluppi di una congiuntura drammatica
Ma se le estrazioni nel settentrione dell’isola denunciavano falsamente
un minimo di vivacità, nel mezzogiorno alcune esportazioni venivano
vietate. Il caso del divieto di estrarre grano dalle marine di S.
Antioco e Calasetta “… per l’istessa ragione della nota scarsezza …” ci
richiama ancora alle raffigurazioni scarne imposte tragicamente dalla
carestia, allorché quel divieto diventava giocoforza estensibile ai legumi,
dato che questi possono … “servire di nutrimento a quell’individui
e supplire in parte la scarsezza del grano …” ( 64 ). Analogamente, il
blocco di operazioni commerciali per alcuni prodotti richiamava il divieto
di estrazione di altri ancora, in diversi scali isolani; le esigenze interne
legate agli improrogabili richiami imposti dalla sussistenza vietavano
per forza di cose di esportare le carni salate di suini “… data la
loro scarsezza nel Regno …” dal porto di Alghero. Nel centro catalano,
nel dicembre 1812, il divieto in realtà assumeva maggior rigore
poiché a quello della commercializzazione all’estero si sommava
quello di salare le carni all’interno. I fatti di Alghero avevano suscitato
le attenzioni della Giunta d’Annona per il carico di quelle partite di
carne, effettuato su un bastimento col concorso dello scarso controllo
praticato “… con indulgenza …” dai ministri patrimoniali ( 65 ).
Allo scadere dell’autunno 1812 la crisi imperversava ancora in
lungo e in largo nel regno, con riscontri più o meno marcati, più o
meno penetranti nel tessuto sociale isolano, accompagnata ovviamente
alla sofferenza diffusa in tutti i ceti. Paradossalmente quella
strana “comunanza” trovava espressione, date le ristrettezze dell’Erario,
anche in vesti normative estese a carico della nobiltà. E così, il
pagamento dei diritti di dogana, che aveva trovato sempre eccezione
in quel ceto, in occasione della crisi invece tende ad essere omologa-
Volendo favorire l’esportazione legale e inibire lo sviluppo di quelle clandestine,
da Cagliari si sosteneva di aver inoltrato “quattro sacche per la concorrente fra
tutte di Q.ri 6000 di vino, le quali dovrà Ella distribuire in modo che possano
profittarne diversi proprietari per non cadere in mani di particolari negozianti tutta
l’estrazione e la maggior parte di essa”.
Infine per un più affidabile riscontro dell’operazione si dichiarava: “Dopo che le
risulti d’aver pagato nella R. Cassa di Sassari il diritto Regio d’estrazione marcato in
esse sacche ed in codesta Suddelegazione i diritti dovuti a questi regi uffici riempirà
Ella di propria mano i vacui degli opportuni dati, e darà corso alle medesime sacche
colle solite precauzioni e annotazioni al dorso”. A.S.C., Intend. gen., vol. 1328. Lettera
a don Francesco Ballero ad Alghero. Cagliari, 14 novembre 1812.
( 64 ) A.S.C., Intend. gen., vol. 1328. Lettera a don Porcu a Carloforte. Cagliari,
21 novembre 1812.
( 65 ) A.S.C., Intend. gen., vol. 1328. Lettera a don Francesco Ballero ad Alghero.
Cagliari, 26 dicembre 1812.
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to al resto degli operatori del mondo commerciale. La disposizione,
estesa da Cagliari, toccava le altre città del regno e trovava inasprimento
nell’importazione di prodotti stranieri che gli aristocratici
perfezionavano per proprio conto e consumo personale ( 66 ).
Sulla base delle considerazioni inizialmente esposte, si ritiene di
poter azzardare un bilancio finale della crisi del 1812 nel regno di
Sardegna, alla luce, ancora una volta, delle influenze pressanti imposte
dalla particolare congiuntura internazionale e degli effetti che
sotto quelle sollecitazioni maturarono all’interno dell’isola.
Sul piano internazionale la crisi rappresentò il punto più alto dello
scontro, non solo armato, che, fin dal XVIIIsecolo, contrappose
Francia e Gran Bretagna per il conseguimento dell’egemonia mondiale,
ambita dalle due grandi potenze mentre era in atto un rinnovato
spiegamento dell’economia-mondo capitalistica. In quell’accesa
competizione globale, la Gran Bretagna trionfante sui mari durante
la guerra dei Sette anni, suggellò, proprio con gli accordi di Parigi
del 1763, il raggiungimento di un primo sogno maturato per circa un
secolo, ossia quello di poter raggiungere e superare la grande antagonista
continentale sul piano militare, politico ed economico; traguardo
che, non a caso, si perfezionerà definitivamente nel 1815 ( 67 ). Sempre
sulla base delle considerazioni iniziali, come delle motivazioni che
sottesero al rinnovato slancio espansivo dell’economia-mondo capitalistica,
occorre evidenziare che tale spinta dette vita, per dirla con
E. Labrousse, al “grande secolo di prosperità”, aperto negli anni ’30
del ’700 e chiuso pochi anni dopo la débacle di Waterloo ( 68 ).
Per spiegare qualche aspetto della iniziale contrapposizione commerciale
tra Francia e Gran Bretagna, precedente l’età napoleonica,
basterà ricordare che, se dopo la fine delle guerre di Luigi XIV i due
paesi poterono relativamente prosperare sotto l’impulso di un esteso
commercio estero, i commercianti inglesi non trovarono gran conforto
nei mercati continentali, bloccati dalla politica protezionistica
e dalla concorrenza francese ( 69 ).
( 66 ) A.S.C., Intend. gen., vol. 1328. Lettera a don Giuseppe Delitala a Bosa.
Cagliari, 5 dicembre 1812.
( 67 ) I. WALLERSTEIN, Il sistema mondiale dell’economia moderna, cit., p. 87.
( 68 ) Ibidem, p. 87. E. LABROUSSE, préface, in P. LÉON, La naissance de la grande
industrie en Dauphiné (fin du XVII siècle 1869), Paris 1954, p. VII. Sempre di E.
LABROUSSE, cfr. La crise de l’économie francaise à la fin de l’Ancien Régime et au
débout de la Révolution, vol. I, Paris 1944, p. 11.
( 69 ) F. CROUSET, England and France in the Eighteenth century: A comparative
analysis of two Economic Growths, in R.M. HARTWELL (a cura di), The causes of the

La crisi economica del 1812. Premesse, sviluppi di una congiuntura drammatica
Evitando per ragionevoli motivi di sintesi tutte le tappe dell’annosa
contrapposizione anglo-francese, per guadagnare infine gli ultimi
anni dell’età napoleonica, si può sottolineare che si giunse alla
crisi del 1812, nella sua dimensione continentale, dopo una prima
fase di modesta crescita dell’economia europea compresa tra il 1790
e il 1800, seguita da un secondo momento contrassegnato da una
spinta economica sostenuta tra il 1800 e il 1810. Ma fu soprattutto
la terza fase che apparecchiò la crisi del 1812, maturata all’insegna di
una marcata contrazione generale dell’economia europea, in un breve
periodo compreso tra il 1810 e il 1815 ( 70 ). Del resto, l’asprezza
della crisi non ebbe forse come manifestazioni estreme le rivolte,
esplose un po’ dappertutto, “paragonabili a ciò che era avvenuto nella
Francia prerivoluzionaria”, e culminate in Inghilterra in agitazioni
non contro lo Stato, ma contro il datore di lavoro? ( 71 ).
Ma se il luddismo rappresenta l’impronta di un malcontento tipico
di un mondo in crescita sul piano industriale, e quindi su quello
di un’economia nuova spinta dalle sollecitazioni del capitale – ma
non nel campo di uno sviluppo in senso sociale – non altrettanto si
può dire delle altre manifestazioni di quella crisi, esplose nelle aree
periferiche del continente, come quelle maturate nel regno di Sardegna.
L’avversa congiuntura e la carestia nell’isola, tipica di un’area dominata
prevalentemente da un’economia agricola, fa da contraltare a
quanto imperversò altrettanto duramente in altre porzioni d’Europa,
pur timidamente già aperte all’accoglimento di nuovi modelli economici,
quando queste ultime, come nel caso della Gran Bretagna,
non erano già una realtà crescente.
Per la Sardegna, ancora arroccata all’interno di strutture produttive
d’Ancien Régime, la congiuntura del terzo lustro dell’800 rappresentò
sul piano dell’incisività dei suoi effetti, qualcosa di più delle
tristi annate degli anni ’20 e degli anni ’80 e, al tempo stesso risultò
non propriamente assimilabile allo stereotipo delle crises d’Ancien
Régime. Agli effetti congiunturali interni, infatti, si sommavano
Industrial Revolution in England, London, Methuen 1967 (trad. it. Inghilterra e
Francia nel sec. XVIII. Analisi comparata dello sviluppo di due economie), in “La Rivoluzione
industriale”, Torino 1971, p. 198.
( 70 ) L. BERGERON, Problèmes économiques de la France napoléonienne, in “Revue
d’histoire moderne et contemporaine”, XVII (1970); (trad. it. Napoleone e la società
francese, Napoli 1975); I Wallerstein, Il sistema mondiale dell’economia moderna,
cit., p. 138.
( 71 ) I. WALLERSTEIN, Il sistema mondiale dell’economia moderna, cit., pp. 143-144.
93

94
GIORGIO PUDDU
quelli ben più condizionanti prodotti dagli impulsi della generale
crisi europea, di cui anche la Sardegna era vittima. Erano in prevalenza
le armi economiche, che con le loro conseguenze soffocanti
Francia e Gran Bretagna avevano apparecchiato con puntiglio, a determinare
ulteriormente un peggioramento della crisi, ora sotto il rigore
della normativa disciplinante il Blocco continentale, ora sotto
l’intransigenza britannica nella tutela dei diritti navali.
Pertanto, la contrapposizione tra le due superpotenze esasperava
la crisi interna, proprio col ricorso ad espedienti economici che riversavano
la loro tragica efficacia nell’isola, più di quanto non lo fossero
stati le armi e gli eserciti nel passato. Questi ultimi, è vero, non
avevano mai risparmiato alle società coinvolte carestie e conseguenti
contraccolpi economici, pur nel XVIII sec., notoriamente contrassegnato
dalle guerres en dentelle.
Ma se quelle incrinature erano il risultato di fatti bellici, erano le
crisi classiche dovute all’alternanza delle fasi cicliche legate a processi
produttivi in agricoltura a creare sconvolgimenti a livello sociale.
Nel caso del regno di Sardegna il fenomeno non era infrequente e si
esprimeva con estese conseguenze alla consistenza del Regio Erario,
poiché l’equazione scarsi raccolti e contratte estrazioni si accompagnava
all’ineluttabilità del mancato incasso dei diritti dovuti alla Regia
Cassa e alle penurie del mondo contadino.
La crisi del 1812 in Sardegna s’innesta pertanto su una realtà già
lesa da precedenti contraccolpi, ma in quell’anno nefasto gli effetti
negativi che richiamavano i ricordi delle antiche carestie trovarono
ulteriori moltiplicatori per espandersi. I casi altamente diffusi del
contrabbando lungo le coste isolane, a dispetto della volontà della
Corona di inibirne l’estensione, ne sono una prova e, al tempo stesso,
una denuncia ad una monarchia incapace di armonizzare potenzialità
del mondo produttivo con le esigenze del consumo interno e
le aspirazioni dei ceti mercantili troppo penalizzati.

NICOLA GABRIELE
GIUSEPPE TODDE E LO STATUTO.
PROPOSTE DI ISTITUZIONE DI UNA SUCCURSALE
DELLA BANCA NAZIONALE ATTRAVERSO LA STAMPA PERIODICA
1. I primi anni cinquanta dell’Ottocento segnano in Sardegna l’avvento
di una nuova era per la stampa periodica investita da una
maggiore libertà di espressione frutto delle riforme statutarie carloalbertine
entrate in vigore nel 1848. Per l’isola, che negli ultimi
vent’anni aveva visto una gestione dell’informazione monopolizzata
e strumentalizzata dall’Indicatore Sardo, i cui esclusivi privilegi in
merito alla possibilità di esprimere considerazioni di carattere politico
avevano causato la prematura scomparsa di fogli d’avanguardia
quali La Meteora e Il Promotore, si aprivano nuovi orizzonti da
esplorare. Si assistette alla nascita più o meno spontanea di numerosi
fogli d’opinione e d’intervento che, seppur dovendo fare i conti con
l’inevitabile fragilità dei tessuti organizzativi ed associativi e con un
bacino molto ristretto di potenziali lettori, incisero e trasformarono
radicalmente il rapporto tra pubblica opinione e pubblica informazione.
Quasi contemporaneamente proprio L’Indicatore Sardo, l’emblema
che aveva segnato l’età della censura e dell’oscurantismo, cessava
le proprie pubblicazioni, forse più per una opportuna scelta governativa
che aveva preso atto dell’incapacità manifesta da parte dei
suoi redattori di rapportarsi alle trasformazioni del presente e di reggere
un confronto con le tante nuove voci, che per l’attacco, peraltro
senza precedenti, mossogli da Giovan Battista Tuveri attraverso i
suoi Specifici.
Nel giugno del 1852 il governo di Torino, preso dunque atto dell’inopportunità
di continuare a sostenere le pubblicazioni di un foglio
ormai minato dalle accuse di codinismo, ritenne conclusasi l’esperienza
del giornale dei fratelli Martini, che nel frattempo a partire dal
1850 aveva cambiato la propria direzione, affidata «a due giovani

96
NICOLA GABRIELE
oscuri» ( 1 ). Ad una modifica della linea editoriale del vecchio giornale
fu preferita la nascita di un nuovo periodico che raccogliesse il testimone
dell’Indicatore. Sarebbe certo una forzatura individuare ne La
Gazzetta di Sardegna, diretto da Giuseppe Siotto Pintor, il successore
dell’Indicatore, benché sorprenda che il foglio nasca proprio all’indomani
della scomparsa dell’Indicatore ( 2 ). Siotto Pintor, non nuovo alla
direzione di un foglio periodico, aveva anche collaborato per diverso
tempo con l’Indicatore, malgrado i noti contrasti con Pietro Martini.
La sua precedente esperienza con L’Indipendenza Italiana (1848-1849)
si era interrotta in seguito all’elezione a deputato nella II legislatura nel
collegio di Isili. L’impostazione de L’Indipendenza, in un primo momento
liberal-moderata e filomonarchica, che sotto la direzione del
Pintor aveva manifestato totale e incondizionato appoggio alla politica
governativa sostenendo nell’isola l’elezione di Cavour che «farà con
zelo e con sincerità l’interessi della Sardegna» ( 3 ), si era presto trasformata
sotto la direzione di Efisio Contini, che aveva impresso alla testata
cagliaritana un indirizzo progressista e repubblicano, dando ampio
spazio sulle colonne del giornale alla voce di Tuveri e alla vena federalista
e antimonarchica, precedentemente imbavagliata dal Pintor ( 4 ).
( 1 ) Nei “due giovani oscuri” che “ardirono […] ripubblicare in più piccolo formato il
loro Monitore sotto lo stesso titolo, e col N. progressivo degli anni di sua esistenza” cui fa riferimento
Sanna Sanna nel suo articolo apparso su La Gazzetta Popolare dell’agosto
1860, è possibile individuare Antonio Santus ed Enrico Ceva, due giovani avvocati del
foro cagliaritano certamente legati alla camarilla isolana, ai quali fu affidato il fardello
di far rinascere l’Indicatore dopo la sospensione delle pubblicazioni avvenuta nel 1849
ed il conseguente abbandono della direzione da parte di Antonio e Michele Martini;
Pietro Martini, che aveva da tempo ceduto la direzione dell’Indicatore ai fratelli, si era
congedato nell’ultima pubblicazione del foglio con un lungo articolo, commentato
come segue da Manno che, a sua volta, si dimostra consapevole delle potenzialità che
l’emancipazione della stampa andrà ad assumere in Sardegna nella seconda metà del
secolo: “Gioverà alla tranquillità di questi suoi studi l’essersi ella disimpacciata dall’Indicatore.
La sua licenza nel foglio 29 dicembre è un capolavoro di senno e di buoni
consigli a chi vorrà prendere in Sardegna quella carriera. Possano almeno le sue parole
portar buon frutto, giacché in Sardegna specialmente il giornalismo può diventare una
benefica potenza”; cfr. S. LIPPI, Lettere inedite del barone Giuseppe Manno a Pietro Martini
(1835-1866), lettera LXXIII del 15 gennaio 1850, Cagliari 1902.
( 2 ) L’Indicatore Sardo cessa le proprie pubblicazioni il 29 giugno e La Gazzetta
di Sardegna fa la sua comparsa nei primi giorni del luglio 1852.
( 3 ) L’Indipendenza Italiana, n. 12, 1848; il giornale è legato alla giobertiana
Società Nazionale per la Confederazione Italiana (nn. 24, 26, 28, 1848), della
quale pubblica anche il programma e adotta il motto (nn. 26, 30, 1848),
( 4 ) Oltre al Siotto Pintor e al Contini, il giornale annovera tra i suoi redattori
alcuni dei principali e più illustri collaboratori dell’Indicatore: Giuseppe Pasella,

Giuseppe Todde e Lo Statuto
Mentre L’Indipendenza Italiana, senza mutare direzione né linea editoriale,
si trasformava nel 1849, attraverso la fusione con Il Merciajuolo
del mille ottocento quarantanove ( 5 ), nel Cittadino Italiano
sempre più improntato su posizioni liberal-democratiche ed antigovernative,
ponendo le basi per la fondazione de La Gazzetta Popolare,
Siotto Pintor, conclusa la parentesi parlamentare, riprese la sua attività
di pubblicista alla guida della citata Gazzetta di Sardegna che,
con atteggiamento dichiaratamente filocavouriano, si proponeva di
«far conoscere gli atti del potere, i doveri dei cittadini, gl’interessi del
paese e i veri principii costituzionali, non che combattere caldamente
lo spirito di partito, i pregiudizi e gli errori che ritardano il pieno sviluppamento
delle nostre libere istituzioni, e con esso la nostra felicità»
( 6 ).
Tuttavia La Gazzetta di Sardegna incorse in difficoltà di carattere
associativo, le stesse che, all’indomani della concessione della libertà
di stampa avevano minato il cammino dell’Indicatore Sardo, che per
anni aveva usufruito del privilegio governativo attraverso il quale veniva
garantito l’abbonamento al periodico da parte di comuni ed
enti controllati dall’autorità ( 7 ). Concluse le pubblicazioni del foglio
che ne fu anche direttore fino al 1836, Gavino Nino, Salvator Angelo De Castro e
lo stesso Giovan Battista Tuveri. Il foglio è probabilmente testimone di uno tra i
primi scontri politici verificatisi proprio tra Tuveri e Siotto Pintor sulla stampa
periodica, confronti che si fecero sempre più frequenti ed accesi condizionando
l’opinione pubblica isolana fino agli anni settanta. Siotto Pintor mal tollerava la
partecipazione del Tuveri all’esperienza de L’Indipendenza, arrivando fino ad assumere
atteggiamenti di concreta censura interna nei confronti degli scritti dell’ideologo
federalista: “[…] non si ammettono articoli che toccano l’origine del potere
monarchico ed i limiti dell’autorità del Principe [...] Non a noi pertanto che volenterosi
vi rinunceremo, bensì ad altri che s’abbiano ingegno migliore ed ozio più largo resti
il diletto di suscitare questioni, che forse non furono mai quanto sono adesso intempestive
e pericolose.”; cfr. L’Indipendenza Italiana, n. 5, 1848; il risentimento di
Tuveri nei confronti della posizione editoriale che il Siotto Pintor aveva imposto a
L’Indipendenza dovette pertanto esprimersi, almeno limitatamente al 1848, attraverso
altri canali di informazione quali La Rivista, in cui egli esprime il proprio disappunto
per veder tenuto per progressista uno scrittore, ch’io pregio per molti titoli,
ma di cui non v’ha forse tra noi chi propugni massime più retrograde” cfr. La Rivista,
n. 2, 1848.
( 5 ) Foglio diretto da Giovan Battista Tuveri.
( 6 ) La Gazzetta di Sardegna, n. 1, 1852.
( 7 ) Ricorda Giuseppe Della Maria che il 27 febbraio 1841 “il Ministero degli
Affari del Regno, «nella circostanza che il foglio periodico l’Indicatore Sardo manca
d’un competente numero di abbonati onde il medesimo possa continuare a sussistere»
«riconoscendo la necessità che sussista il foglio medesimo», indirizza l’invi-
97

98
NICOLA GABRIELE
di Pintor nel dicembre 1852, il governo rimase per un anno intero
sguarnito di un organo di stampa che sostenesse la politica cavouriana,
fenomeno questo quanto mai insolito per l’isola. Appare dunque
naturale che l’impegno dello statista piemontese si rivolgesse alla nascita
di un nuovo strumento editoriale capace di fronteggiare il monopolio
informativo in quel momento detenuto da La Gazzetta Popolare
( 8 ).
Questo il clima in cui si registra la fondazione de Lo Statuto pubblicato
a Cagliari dal 12 gennaio 1854 al 31 dicembre 1859 con periodicità
trisettimanale (solo negli ultimi mesi di vita divenne quotidiano).
Con una condotta non dissimile da quella che, ad opera del
governo sabaudo negli anni trenta e quaranta, aveva garantito la sopravvivenza
dell’Indicatore Sardo, lo stesso primo ministro piemontese
sottoscrisse fin dall’inizio dieci azioni per il giornale ( 9 ).
Appare interessante fermare l’attenzione sulla composizione della
direzione del giornale, che dovette essere senz’altro oggetto di accurata
selezione ad opera del governo. Il naufragio dell’Indicatore e della
sua redazione e le difficoltà cui era andato incontro Siotto Pintor,
dovettero convincere il governo di Torino della necessità di collocare
alla guida del nuovo periodico una figura di spicco dell’entourage
cagliaritano proveniente dagli ambienti moderati ma che apparisse
agli occhi dell’opinione pubblica isolana non ostile a velate posizioni
progressiste; in sostanza un esponente della borghesia culturale ed
economica che riuscisse a veicolare positivamente le trasformazioni
che la politica cavouriana intendeva proporre ed attuare di lì a poco
nell’isola. La scelta cadde sull’avvocato Giuseppe Todde, allora appena
ventiquattrenne e già dal 1853 docente di diritto pubblico nella Facoltà
di giurisprudenza di Cagliari, presso la quale ricoprì, l’anno successivo,
la cattedra di diritto costituzionale e di economia politica ( 10 ).
to alle ‘Aziende Civiche’ di Bosa, Nuoro, Oristano, Ozieri, Sassari e Tempio, perché
provvedano ad abbonarsi al settimanale”; cfr. G. DELLA MARIA, La stampa periodica
in Sardegna, in “Nuovo Bollettino bibliografico Sardo e Archivio Tradizioni
Popolari”, nn. 5-6 novembre 1955, p. 3.
( 8 ) Nata nel 1850 La Gazzetta Popolare rimase durante tutto il 1853 l’unico
foglio periodico pubblicato in Sardegna.
( 9 ) C. BELLIENI, La lotta politica in Sardegna dal 1848 ai giorni nostri, in La
Sardegna nel Risorgimento, a cura del Comitato sardo per le celebrazioni del centenario
dell’Unità, Sassari 1962, p. 443; cfr. anche L.C. BOLLEA, C. Cavour e due
giornali liberali, in «Rivista d’Italia», Roma 1912.
( 10 ) Todde fu affiancato nella direzione de Lo Statuto dal professor Giovanni
Manzini e dall’avvocato Vincenzo Dessì Magneti.

Giuseppe Todde e Lo Statuto
Proprio la sua giovane età e il non essere stato ancora contaminato
da scontri politici aspri sulla stampa periodica lo rendeva, agli occhi
dell’opinione pubblica, un “volto nuovo”, una figura attorno alla
quale Cavour avrebbe potuto ricostruire il consenso moderato nell’isola.
I timori del primo ministro non erano certo infondati; la clamorosa
affermazione alle elezioni politiche in un collegio di Cagliari
di Angelo Brofferio, in quel momento il più “rumoroso” oppositore
della politica cavouriana, la cui elezione venne vista come una totale
mancanza di fiducia da parte del capoluogo isolano nei confronti
della politica del Governo, e la contemporanea esclusiva presenza sul
fronte editoriale sardo de La Gazzetta Popolare, suscitarono il timore
che la Sardegna potesse trasformarsi in un “feudo democratico”.
2. L’individuazione di Todde quale valido interlocutore da parte del
ministero va ben al di là della semplice ricerca di una personalità di
facciata; in questo periodo all’impiego accademico Todde associava
un profondo impegno politico. L’impegno dell’illustre economista
sardo era in quegli anni finalizzato a far cogliere all’opinione pubblica
l’importanza del superamento della polemica creatasi intorno all’opportunità
o meno della “perfetta fusione”, con lo scopo di individuare
concretamente gli obiettivi che il governo costituzionale
avrebbe dovuto conseguire per il miglioramento delle condizioni
economiche e sociali isolane.
A questo proposito la “perfetta fusione” deve essere letta come un
atto politico più che economico e rientrava negli obiettivi del governo
fin dall’inizio degli anni quaranta ( 11 ); da un punto di vista squisitamente
economico essa fu lo strumento per l’unificazione del mercato
sardo con quello di terraferma, per l’eliminazione di tariffe doganali
presenti e future. La polemica tra i settori illuminati della cultura sarda
e la borghesia piemontese, accusata di essere poco attenta alle specificità
dell’economia e della società sarda, fu lunga e condotta con toni
aspri, anche se si fece sentire per lo più solo a fusione avvenuta. La posizione
di Todde è volta a superare queste divergenze e finalizzata ad
individuare i compiti che lo Stato deve assumersi nei confronti del-
( 11 ) A dimostrarlo è proprio l’impegno profuso, almeno a partire dal 1842, da
Pietro, Antonio e Michele Martini, i quali diedero vita ad una ampia e duratura
azione di propaganda avvalendosi dell’Indicatore Sardo quale valido strumento volto
a plasmare il consenso ad una unione dell’isola con gli stati di Terraferma; sull’argomento
cfr. N. GABRIELE, L’imperfetta “fusione”, in “Studi Sardi”, XXXIII (2000),
Cagliari 2003, pp. 499-520.
99

100
NICOLA GABRIELE
l’isola: «La fusione politica della Sardegna è un fatto compiuto, e
come tutti i fatti acquistò già la ragione della propria esistenza. A noi
che ne subiamo i doveri non resta che reclamarne i diritti che ne creò.
Inesorabili nella linea di questo principio, non domanderemo eccezioni
per la Sardegna; ma sapremo combattere con tutte le nostre forze
nel terreno in cui ci collochiamo per richiamarne alla lealtà del Re e
della Nazione, ove i nostri interessi fossero dimenticati» ( 12 ).
Lo Statuto, nel progetto dei suoi redattori, diventa dunque uno strumento
per proporre ed individuare «i mezzi di produzione per la facilità
delle comunicazioni, per l’affluenza dei capitali a fecondare l’industria,
per la concorrenza continua nei commerci […] per l’attività individuale
resa libera e svincolata da soverchi intralci burocratici e governativi» ( 13 ).
Benché si presentasse con il sottotitolo di «Giornale ufficiale per
l’inserzione dei bandi venali e degli atti giudiziari», Lo Statuto era un
giornale dalla chiara connotazione politica nato con la duplice funzione
di diffondere il programma di Cavour e di confrontarsi con il
giornale di Sanna Sanna.
Fin dall’inizio il periodico rende chiaro ai lettori il programma
che intende seguire: «Se noi, contemplando l’orizzonte politico in
cui gli uomini e i tempi ci hanno collocato fissiamo lo sguardo sulla
Sardegna, lo sconforto non trova forse meno il suo posto nel cuore.
La politica dei partiti fatta gara di privati rimproveri e di personalità
ingiuriose; la stampa, valvola di sicurezza nel sistema costituzionale,
divenuta arena di improperi e di calunnie; la sicurezza pubblica non
bene rassodata; la proprietà non proprio garantita a termini della
legge; una diffidenza generale; una sfiducia nei buoni quasi comune.
[…] Noi chiediamo l’attuazione politica, non come un grido di momentaneo
entusiasmo che sa disperdersi e dissiparsi come una vana
parola, ma chiediamo la libertà politica come il mezzo più naturale e
spontaneo del nostro economico e morale perfezionamento» ( 14 ).
( 12 ) Cfr. Lo Statuto, Programma pubblicato in previsione della stampa del n. 1
del 12 gennaio 1854 e firmato dai tre direttori. Un Todde più maturo nel 1892
sosterrà la tesi che una certa forma di proprietà privata “era già presente sia all’interno
del demanio feudale che regio sin dall’età spagnola, e come tale veniva riconosciuta
anche dalle alte corti di giustizia”; cfr. G. TODDE, Ademprivio, in “Enciclopedia
giuridica italiana”, vol. I/2, Milano 1892, p. 88; A. MATTONE, Le origini
della questione sarda. Le strutture, le permanenze, le eredità, in L. BERLINGUER e A.
MATTONE (a cura di), La Sardegna, Torino 1998, Einaudi, p. 110.
( 13 ) F. SPANU SATTA, Due economisti sardi negli scritti di W. Pareto, “Autonomia
Cronache”, n. 6, 1969, pp. 57 ss.
( 14 ) Lo Statuto, n. di saggio, 1854.

Giuseppe Todde e Lo Statuto
Anche i modelli politici ai quali rifarsi sono ben individuati e
presentati in maniera esplicita: «L’esempio è vivente; l’America e
l’Inghilterra hanno in questo momento l’egemonia del mondo. Esse
sono ricche perché sono libere, sono libere perché sono industriose.
[…] Il governo costituzionale è per noi lo strumento più adatto a
porre in azione la nostra attività individuale, a far svolgere gli elementi
della nostra ricchezza nella libertà […]. La libertà della stampa,
la libertà della persona, la proprietà perfetta e sicura, la indipendenza
del magistrato, l’individualità rispettata nella sua essenza e
nella sua esplicazione, sono tutte con noi. Noi siamo contro le censure
e il privilegio, contro il servilismo e l’illegalità» ( 15 ).
Tuttavia il giornale rifiuta l’appellativo di foglio ministeriale assumendo
un atteggiamento analogo a quello dell’Indicatore, il quale
soprattutto negli ultimi anni delle sue pubblicazioni si dichiarò ripetutamente
indipendente ed assolutamente estraneo al sostegno governativo,
benché fossero alla luce del sole i canali attraverso i quali
otteneva i finanziamenti governativi ( 16 ): «Lo Statuto protesta contro
il titolo di giornale ministeriale, che nel foglio n. 62 gli volle affibbiare
l’Ichnusa. […] Non si meraviglia per altro Lo Statuto che gli
uomini della fazione clericale siano giunti a tale. È proprio di loro il
mettere in mala vista gli avversari con bandirli ora atei, ora scismatici,
ora immorali, ora nemici del popolo, ora venduti ai governativi
[…]. Lo Statuto è libero ed indipendente nelle sue opinioni e non
riceve inspirazioni che dal proprio convincimento e da quel vero
onde sono informate le sue pagine […]. Lo Statuto batte la via della
moderazione e disdegna l’opposizione sistematica, come usano i neri
e rossi» ( 17 ).
Lo scontro tra Lo Statuto e La Gazzetta Popolare si sviluppò prevalentemente
nel 1854, periodo in cui la direzione del giornale democratico
fu assunta da Vincenzo Brusco Onnis ( 18 ): «Come ce lo
( 15 ) Ibidem.
( 16 ) Cfr. nota 7.
( 17 ) Lo Statuto, n. 94, 1856.
( 18 ) Vincenzo Brusco Onnis ne assunse la direzione il 13 maggio 1854, anche
se collaborava con il foglio già da alcuni anni, e il suo primo articolo, peraltro non
firmato, esce il 16 maggio. Egli cessa ufficialmente di svolgere le mansioni di direttore
il 2 gennaio 1855, ma probabilmente la sua collaborazione durò ancora
meno in quanto lasciò Cagliari già nell’estate del 1854 per recarsi in continente
dalla figlia Lina, con probabilità affetta dal colera; cfr. A. LEVI, Sardi del Risorgimento,
in L. DEL PIANO (a cura di), I problemi della Sardegna da Cavour a Depretis
(1849-1876), Cagliari, Fossataro, p. 84; è opportuno osservare che la direzione di
101

102
NICOLA GABRIELE
avevamo immaginato, il nostro giornale non ebbe ad aspettare gran
fatto da Monna Gazzetta il suo battesimo di contumelie. Sì Signori,
nove colonne furono consacrate dall’eteroclita Signora a malmenare
il nostro manifesto» ( 19 ).
Il giornale diretto da Todde veniva definito dalla stampa democratica
«un nuovo flagello per la Sardegna» ed inevitabilmente furono
proposti paragoni con la stampa prestatutaria: «Finora, dopo la
caduta dell’Indicatore di famigerata memoria, si era da noi goduto
un po’ di quiete, o per lo meno si ebbero meno motivi di fremere:
eravamo flagellati sì, ma almeno non v’era chi con pubblici applausi
facesse eco ai flagellatori. Ora poi siamo da capo: allo strazio delle
battiture si è aggiunto l’insulto di coloro che applaudono, gridando
batti, batti! E tali sono i compilatori di quel giornale che intitolasi
per antonomasia Lo Statuto, veri turiferari dei signori ministri» ( 20 ).
Agli esperti redattori che facevano capo a Sanna Sanna non risultò
difficile smascherare la strategia editoriale utilizzata dal foglio cavouriano
per attecchire ed ottenere consensi; mostrarsi all’opinione
pubblica velatamente critico nei confronti del ministero con posizioni
che talvolta lasciavano trasparire propositi progressisti, per poi
gradualmente assumere una visone sempre più condivisibile dei
provvedimenti ministeriali da adottare in Sardegna ( 21 ): «Per buttare
un po’ di polvere negli occhi e farsi meno disprezzare, presero essi da
principio un tono che affettava quello d’una opposizione, ma così
debole e stracca che, a volerla ben esaminare, risultava chiaro che la
Brusco Onnis fu mal tollerata da Tuveri che lo accusava di aver impresso a La Gazzetta
un carattere eccessivamente polemico nelle sue tendenze repubblicaneggianti
che costarono molteplici sequestri e processi al foglio democratico; cfr. R. CECARO,
G. FENU, F. FRANCIONI (a cura di), I giornali sardi nell’Ottocento. Quotidiani, periodici
e riviste della Biblioteca universitaria di Sassari. Catalogo (1795-1899), Cagliari,
Regione autonoma della Sardegna e Biblioteca universitaria di Sassari 1991, p. 127.
( 19 ) Lo Statuto n. 1, 1854; nel numero di saggio il giornale si era presentato ai
lettori con queste parole: “In un paese come la Sardegna, dove tutto è da fare, la
stampa deve essere educatrice del popolo. È necessario per il bene dell’isola un giornale
che ‘fermamente e con lealtà’ propugni i principi di un governo costituzionale”; ancora
prima della comparsa del giornale di Todde sul palcoscenico giornalistico cagliaritano
La Gazzetta, il 23 dicembre 1853 e il 6 gennaio 1854, ne critica il programma e
la linea additandolo come foglio ministeriale; a tale proposito l’articolo dal titolo
“Venti franchi ai poveri ignorantelli”; cfr. La Gazzetta Popolare n. 2, 1854.
( 20 ) La Gazzetta Popolare, n. 24, 1854.
( 21 ) Atteggiamento questo per altro non originale e già adoperato dall’Indicatore
Sardo all’indomani della concessione della libertà di stampa e per tutto il periodo
1848-1852.

Giuseppe Todde e Lo Statuto
era una lode, o per meglio dire una opposizione ipocrita. Vedendo
ciò, i padroni gli avranno forse sgridati e dato loro in sulla voce, perché
essi son di tal tempra che non soffrono contraddizione di sorta,
fosse anche per celia: e gli umilissimi servitori chinarono il capo, soffiarono
nel turibolo, e ripresero quel posto che loro si addice, e pel
quale madre natura li ha fatti» ( 22 ). L’attacco che la stampa democratica
muove agli Statutali non si limita alla sfera politica ma adopera registri
ben più bassi che conducono a schernire individualmente lo
stesso Todde e i condirettori del foglio, Dessì Magneti e Manzini ( 23 ):
«Ci recò sempre stupore come possano esservi deputati che dicono
d’amar la patria, e che tuttavia ardiscono far coro coi ministeriali;
ma ci fa proprio strabiliare vedere certi ragazzacci non saper muovere
per la prima volta la mano che per lanciare una pietra contro la
patria, certi scribacchini e scrittoruzzi non saper tingere d’inchiostro
la penna che per iscrivere contro di essa. Non istupiremo poi di taluno,
che non nato, ma rifugiato in Sardegna, ricompensa con la ingratitudine
la fraterna e benefica ospitalità» ( 24 ).
L’aspro confronto tra le due testate non è il solo che si registra
nel panorama della stampa sarda di quegli anni. La nascita del foglio
cavouriano aveva infatti risvegliato la pubblicistica, negli ultimi tempi
fin troppo appiattitasi sulle posizioni de La Gazzetta Popolare; la
fertilità editoriale della seconda metà degli anni cinquanta è ben
espressa dai ricordi di Francesco Cocco Ortu: «Mai s’era vista tanta
abbondanza di periodici, mai tanto accapigliarsi di una stampa scapigliata
quanto tra l’anno 1855 ed il 1857» ( 25 ).
Le apprensioni suscitate dalla nascita de Lo Statuto in tutti coloro
che nutrivano timori di una reazione ministeriale non si esauriscono
dunque sulle colonne de La Gazzetta ma sono manifeste anche nei
pesanti attacchi rivolti dal Capricorno ( 26 ), che definisce il periodico
103
( 22 ) La Gazzetta Popolare, n. 24, 1854.
( 23 ) Cfr. nota 10.
( 24 ) La Gazzetta Popolare, n. 24, 1854.
( 25 ) F. COCCO ORTU, Le elezioni in Sardegna. Ricordi e profili, in L. DEL PIANO
(a cura di), I problemi della Sardegna …, cit., p. 466; la stampa periodica cagliaritana
si arricchì in quegli anni dell’esperienza di testate quali La Favilla (1855-
1856), Il Capricorno (1856-1857), La Cornamusa (1856), L’Ichnusa (1856-1860),
L’Eco de’ comuni della Sardegna (1856-1861), Il Flagello (1857).
( 26 ) Pubblicato a Cagliari tra il 1856 e il 1857 Il Capricorno, primo foglio
umoristico anticlericale nato in Sardegna, fu diretto in un primo momento da Demetrio
Ciofi e successivamente da Giovanni Sulliotti; gli attacchi a Lo Statuto, fat-

104
NICOLA GABRIELE
cavouriano «figlio scemo dell’Indicatore»; appena quindici anni dopo
Cocco Ortu, certamente con una forzatura, arriva a affermare che
«L’Indicatore che trasforma il nome odioso, ricordo di assolutismo,
come si era trasformato il partito che lo compilava, in quello di Statuto,
maschera dei nuovi tempi, loda il bollo, loda la gabella, loda le
aumentate imposte, loda torna a lodare e poi riloda il governo che
spoglia e non dà» ( 27 ). L’affermazione di Cocco Ortu, e quella ancora
precedente dell’anonimo redattore del Capricorno, che sostengono
la teoria di una semplice modifica nell’intestazione all’interno di una
medesima esperienza editoriale, non può certo essere accettata se
non come una provocazione. Tuttavia, su un piano sostanziale, pur
riconoscendo differenze essenziali tra Indicatore e Statuto, è innegabile
che i due giornali siano legati ad un unico gruppo moderato e
conservatore (leggi camarilla) espressione della politica dapprima governativa
e successivamente ministeriale facente capo a Francesco
Maria Serra. Questo aspetto è ben colto da Aldo Accardo il quale
cita contestualmente i direttori delle tre testate che, con alterne fortune,
sostennero per oltre un ventennio il riformismo sabaudo nell’isola:
«i liberali e i moderati […] riaffermano la necessità della concordia
nazionale volta unicamente al fine della indipendenza, accantonando
tutte le altre questioni che potessero essere fonte di divisione
a un momento successivo. Su queste posizioni si schierano risolutamente
Giovanni e Giuseppe Siotto Pintor, i fratelli Martini – Pietro
il più eminente con Antonio e Michele – e il gruppo che fa capo
allo «Statuto», giornale espressione della corrente cavouriana, nazionalista
e monarchica, diretto dall’economista Giuseppe Todde, esce
tre volte alla settimana» ( 28 ).
Le pesanti critiche che tutto il fronte della pubblicistica cagliaritana
aveva mosso al suo giornale non dovettero lasciare insensibile
tisi più frequenti sotto la direzione di Sulliotti (nn. 41, 57, 59, 64, 66, 1857) valsero
al giornale numerosi sequestri; proprio Sulliotti era stato espulso dal regno
insieme al fratello Anastasio in seguito alla vicenda che nel 1857 aveva portato al
sequestro, da parte del governo, dei periodici cagliaritani Il Capricorno ed Il Flagello
(1857), quest’ultimo diretto da Eugenio Besson, anch’egli esiliato. La vicenda
è raccontata dal foglio Il Credente, giornale repubblicano edito a Sassari, antipiemontesista
e anticavouriano, che espresse il suo sdegno per il sequestro dei periodici
e l’espulsione dei responsabili (nn. 24, 25, 26, 1857; n. 1, 1858); cfr. R.
CECARO, G. FENU, F. FRANCIONI, I giornali sardi dell’Ottocento …, cit., p. 109.
( 27 ) F. COCCO ORTU, Le elezioni in Sardegna. Ricordi e profili, in L. DEL PIANO
(a cura di), I problemi della Sardegna …, cit., p. 464.
( 28 ) A. ACCARDO, Dal fallimento dei moti angioyani alla Regione Autonoma, in
A. ACCARDO, Cagliari, Roma-Bari, Laterza, 1996, p. 51.

Giuseppe Todde e Lo Statuto
Todde. Inoltre l’evoluzione del suo pensiero in senso democratico
(pur rimanendo fedele alla sua ispirazione liberale) e gli impegni accademici
allontanarono il Todde, e con lui anche gli altri condirettori
( 29 ), dal giornale che a partire dal 10 febbraio 1855 passa nella
mani di Enrico Ceva e Antonio Santus. Appare significativo che
Todde, alcuni anni dopo, avvicinandosi al partito democratico, ebbe
modo di collaborare proprio con La Gazzetta Popolare, che tanto
aveva criticato le sue pubblicazioni con Lo Statuto e di cui ebbe
modo, nel 1863, di diventare perfino direttore. Questo cambio al
vertice della direzione assume una valenza particolare se si tiene conto
che in Ceva e Santus, come è possibile evincere da una lettera al
direttore apparsa su Lo Statuto n. 16 del 1856, sono da individuare
quei «due giovani oscuri» di cui parla Giuseppe Sanna Sanna in un
articolo apparso sulla Gazzetta Popolare nell’agosto 1860 ( 30 ), i quali
ebbero il compito di riprendere le pubblicazioni dell’Indicatore Sardo
nel 1850, in seguito ad una temporanea sospensione del foglio
ministeriale e di reggerne la direzione fino al 1852.
Nei primi giorni di vita il giornale dedica ampio spazio alla politica
nazionale e locale, con una serie di editoriali che sottolineano
l’importanza dei provvedimenti che la maggioranza governativa si
propone di realizzare soprattutto nell’isola, come quelli dedicati alla
Pubblica istruzione ( 31 ); alla coltivazione del tabacco ( 32 ); alla Cassa
di risparmio e di sconto di Cagliari ( 33 ); alla questione catastale e
sull’applicazione in Sardegna della legge 15 aprile 1851 che abolisce
la servitù del pascolo nelle terre aperte dei privati ( 34 ).
Ma è su due argomenti che si concentra in quel periodo lo scontro
politico in Sardegna: il primo è la nascita a Cagliari di una suc-
105
( 29 ) Todde abbandona la direzione precisamente il 24 gennaio 1855, come egli
stesso dichiara sulle colonne del periodico (n. 11, 1855); Dessì Magneti cessa di
collaborare nel marzo 1854: “Le molteplici occupazioni alle quali la mia posizione
m’impedisce di accudire non mi permettono di prendere più parte alla Direzione dello
Statuto. Vogliate adunque accettare le mie demissioni” in data 28 marzo 1854; cfr.
Lo Statuto n. 33, 1854; rimane incerto il momento in cui si esaurisce l’impegno
editoriale da parte dell’avvocato Manzini.
( 30 ) La Gazzetta Popolare, nn. 182, 189, 193, 199, 208, 215, 250, 1860; il
lungo articolo, dal titolo Schizzi storici sulla camarilla di Cagliari, è riportato integralmente
in L. DEL PIANO, I problemi della Sardegna …, cit., pp. 360-392.
( 31 ) Lo Statuto, nn. 13, 15, 28, 29, 30, 32, 1854.
( 32 ) Lo Statuto, n. 15, 1854.
( 33 ) Ibidem.
( 34 ) Lo Statuto, nn. 18 e 28, 1854.

106
NICOLA GABRIELE
cursale della Banca Nazionale, tematica che sarà oggetto di approfondimento
nel presente lavoro; il secondo, la questione ademprivile,
sarà oggetto di trattazione in altra sede.
3. Ancora all’inizio della seconda metà del secolo si riscontrava in
Sardegna la presenza di monete di diverse epoche; inoltre la contemporanea
presenza di moneta coniata nell’isola e fuori dall’isola ne
svalutava e ne rendeva assolutamente instabile il valore. Va precisato
che la presenza sul territorio sardo di capitali esterni si avrà solo
dopo il 1859, con lo sfruttamento delle miniere, e fino a quel momento
in Sardegna la disponibilità di moneta risultava essere decisamente
scarsa se si pensa che gli stessi tributi feudali erano ancora pagati
prevalentemente in natura.
Nell’isola non si registra presenza di istituti bancari almeno fino
agli anni quaranta dell’Ottocento e l’unica forma di credito che possa
essere annoverata come tale è quella esercitata dai monti frumentari
che, pur dovendo alleviare le difficoltà dei contadini poveri anticipando
il grano per la semina, «arricchiscono con operazioni vantaggiose
i grossi agricoltori, sono di piccolo vantaggio alla media
agricoltura, e rovinano gli agricoltori poveri» ( 35 ). Molto diffusa era
invece l’usura se proprio Todde riscontrerà, nel 1895, lo sconto di
cambiali da parte di privati a tassi tra il 10% e il 20%.
Una prima Cassa di risparmio viene istituita a Cagliari nel 1844 ( 36 )
e solo nel 1857, per iniziativa di Cavour, fu fondata una succursale
della Banca Nazionale ( 37 ). La politica dello statista piemontese si
era indirizzata, negli anni precedenti, a potenziare l’istituto di credito
mediante la realizzazione, in Piemonte, di una Banca Nazionale,
dunque una banca statale, che fosse base di tutto il sistema creditizio;
rientrava in questo quadro la nascita di istituti satelliti nelle di-
( 35 ) I. AYMERICH, Stato della Sardegna e dei suoi bisogni specialmente riguardo
alla proprietà e all’agricoltura, Cagliari, Tipografia Timon, p. 22 ss.
( 36 ) Ne sorsero anche una ad Alghero nel 1845 ed una a Sassari nel 1847. La
situazione si trasformerà solo nella seconda metà del secolo con lo sviluppo nell’isola
di numerose banche ed istituti di credito: Banco di Cagliari (1869), Banco
di Sassari (1869), Banca Agricola Sarda (1871), Credito Fondiario presso la Cassa
di Risparmio di Cagliari (1872), Banca Agricola industriale arborense (1872),
Banca Commerciale Sarda (1873), Credito Agricolo industriale Sardo (1873),
Banca Agricola della Gallura (1877), Cassa di Risparmio di Sassari (1883).
( 37 ) P. MURIALDI, La cultura economica in Sardegna nella prima metà dell’Ottocento,
in G. SOTGIU, A. ACCARDO, L. CARTA (a cura di) Intellettuali e società in Sardegna
tra Restaurazione e Unità d’Italia, Oristano, S’Alvure, vol. I, p. 299.

Giuseppe Todde e Lo Statuto
verse province. È proprio in relazione a questa vicenda che ci si propone
di analizzare non solo le posizioni assunte da Todde e da Lo
Statuto, ma anche da La Gazzetta Popolare e da un altro periodico
che si occupò a fondo del problema, L’Economista di Francesco Ferrara.
Per Cavour non fu facile attuare il proprio disegno a causa dell’opposizione
tanto dei conservatori che dei liberali democratici che
si ispiravano al principio del liberalismo puro. In quegli anni le
maggiori critiche, non solo sul piano della politica economica inaugurata
dal governo, ma anche relativamente all’assetto politico-amministrativo
che si cercava di impiantare nel regno, giungevano dall’economista
siciliano Francesco Ferrara ( 38 ). Nel 1856, dimostrando
in pieno la sua ostilità alla “perfetta fusione” e contro i tentativi di
assimilazione della legislazione piemontese alla Sardegna, scriveva:
«La Sardegna è una specialità e ciò che l’accomuna all’Italia è lo spirito
di libertà e di progresso, l’onore alla Dinastia; poi tutto è diverso.
La diversità implica che il processo di unificazione o della fusione
ad ogni costo, cioè l’assoggettare ogni cosa alla unità di forme a
dispetto d’ogni interesse e d’ogni località per modo che si perviene
alla centralizzazione del meccanismo amministrativo, qualora sia attuato
in modo rapido e immediato, si traduce in modi e circostanze
negative per la Sardegna. Esso può essere solamente il risultato di un
lungo processo e di una efficace partecipazione dei Sardi alla soluzione
della loro «desolante condizione». A questa opera di educazione e
di partecipazione il Governo piemontese può contribuire fortemente
restituendo alla Sardegna la sicurezza delle proprietà della persona,
l’istruzione e la giustizia» ( 39 ).
107
( 38 ) Per un quadro esauriente della personalità di Ferrara si rimanda a G. CIAMPI,
I liberali moderati siciliani in esilio nel decennio della preparazione, Edizioni
dell’Ateneo e Bizzarri, Roma 1979; F. CAFFÈ, Il neoliberismo contemporaneo e l’eredità
intellettuale di F. Ferrara, in In difesa del «Welfare State», Rosenberg e Sellier,
Torino 1986; A. MACCHIORO, Studi di storia del pensiero economico e altri saggi; G.
PRATO, Francesco Ferrara a Torino (1849-1859), in “Memorie della R. Accademia
delle Scienze di Torino”, serie II, vol. LXVI, n. 2, 1922-1923. Sul giornale L’Economista
cfr. G. PISU, Francesco Ferrara, Giuseppe Todde e la Sardegna attraverso il
giornale «L’Economista» (1855-1856), in G. SOTGIU, A. ACCARDO, L. CARTA (a
cura di), Intellettuali e Società in Sardegna …, cit., pp. 311-342; C. PISCHEDDA, F.
Ferrara a Torino. La Società di Economia politica e un discorso sconosciuto di Cavour,
in “Studi Piemontesi”, vol. XIV, 1985, n. 1; C. PISCHEDDA, F. Ferrara e la Società
di Economia politica a Torino, in “Studi in memoria di Mario Abrate”, vol. II, Torino
1986.
( 39 ) L’Economista, 27 gennaio, 1856.

108
NICOLA GABRIELE
Ferrara non critica le premesse della politica cavouriana, bensì gli
scopi ed i disegni mediante i quali essa si va a definire. È fermamente
convinto, infatti, della necessità e dell’opportunità di realizzare
nell’isola una succursale della Banca Nazionale in quanto riteneva
che una delle funzioni di tale estensione potesse essere il ritiro in
Sardegna della grande quantità di antica moneta cartacea ( 40 ). Le sue
perplessità espresse su L’Economista sono invece relative alla mancanza
di libera concorrenza; la nascita di un istituto di credito nell’isola
non avrebbe dovuto avvalersi della copertura governativa. Ferrara
nota così che la funzione che la Banca verrebbe ad avere nell’isola
non sarebbe quella, indispensabile, di agevolare i prestiti, ma
di attirare i capitali nelle sua casse, soprattutto i piccoli capitali, i
quali una volta ingrossati, si sarebbero potuti riversare nell’industria.
Il Ferrara intendeva dunque mostrare la necessità di istituti di credito
al di fuori dell’intreccio tra Banco e Governo.
Le posizioni di Ferrara sono criticate da due fogli continentali: Il
Piemonte e L’Opinione.
L’Opinione ritiene che dal monopolio tanto criticato da Ferrara
non si possa che trarre «tutto il bene, tutti i vantaggi, tutti i benefici
che il paese può attendersi» ( 41 ). L’Opinione arriva ad auspicare una
Banca unica nel paese, che abbia «la funzione di regolare la circolazione
e la trasmissione del credito per cui le casse di sconto e i banchieri
privati dipendono da essa, largheggiano quando essa largheggia,
restringono quando essa restringe» ( 42 ). La posizione de L’Opi-
( 40 ) Secondo l’accordo che viene sancito la banca potrà emettere biglietti da 20
lire per la circolazione interna all’isola e biglietti da 50 lire nel continente, dotando
i primi di corso legale. La banca si sarebbe dovuta occupare del ritiro della vecchia
moneta cartacea che aveva un ammontare di 450 mila lire. Ma essa avrebbe
fornito allo Stato un prestito di 450.000 lire e avrebbe percepito dallo Stato, per il
suo servizio, 189.000 lire, 32.000 all’anno per 20 anni. Secondo Ferrara il tempo
per il ritiro della moneta cartacea in Sardegna (20 anni) era troppo esteso e propone
non solo di realizzare l’operazione in soli 14 anni ma anche con un onere inferiore
per lo Stato; cfr. G. PISU, Francesco Ferrara, Giuseppe Todde e la Sardegna attraverso
il giornale «L’Economista» …, cit., pp. 324-325.
( 41 ) L’Opinione, a. IX, n. 251, 1856. Il foglio, sorto nel 1848 sotto la direzione
di Giacomo Durando annoverava tra i suoi più illustri collaboratori Aurelio Bianchi
Giovini, che seppe assumere nella sua carriera e all’interno delle numerose testate
per le quali collaborò, posizioni fortemente polemiche nei confronti del Ferrara.
Nel 1856 la direzione de L’Opinione era stata assunta da G. Dina, allievo del
Bianchi Giovini, che aveva impresso al giornale un inequivocabile ruolo di fiancheggiatore
dei progetti di Cavour.
( 42 ) L’Opinione, a. IX, n. 308, 1856.

Giuseppe Todde e Lo Statuto
nione è ripresa da Il Piemonte attraverso la polemica condotta dalle
colonne del foglio di Torino da parte di Antonio Scialoja nei confronti
dell’economista siciliano e delle posizioni assunte dal suo giornale
( 43 ).
I due giornali dunque rappresentano, in quanto espressamente filocavouriani,
i maggiori punti di riferimento per Lo Statuto ( 44 ).
Tuttavia, in merito alla nascita della Banca nell’isola, la posizione
del foglio diretto da Todde, nel 1854, non è limpida come ci si dovrebbe
aspettare da un giornale ministeriale. È questo il periodo in
cui Todde segue attivamente le lezioni di Ferrara, del quale condivide
gli assunti e con il quale, fin dall’inizio del 1855, inizia una assidua
collaborazione giornalistica. A questo proposito interessante si
rivela la posizione assunta da Todde sull’Economista ( 45 ), attraverso
la sua corrispondenza con il periodico continentale, relativamente ai
rapporti tra amministrazione centrale e amministrazione periferica.
La posizione dell’allievo non è difforme da quella di Ferrara, profondamente
critico nei confronti della fusione e decisamente convinto
dell’unicità e della “specialità” dell’isola. Todde lamenta la mancanza
in primo luogo di capitali e di istituti in grado di attirare i capitali
stessi. La corrispondenza del Todde su L’Economista evidenzia una
stretta vicinanza con le idee del Ferrara soprattutto per quanto riguarda
il monopolio: «L’avversione dei sardi non è tanto contro la
penetrazione di istituti di credito nell’isola, quanto contro i banchi
privilegiati» ( 46 ).
La critica di Todde nei confronti dei banchi privilegiati va letta
all’interno di una più estesa polemica che l’economista sardo rivolgeva
in quegli anni al governo piemontese. Egli accusava il governo
di Torino di non aver operato più, all’indomani della fusione, attraverso
metodi aperti, ma tramite concessioni (miniere, saline, colonie
e banche), strategia questa che, lasciando inalterata la legislazione fiscale
e non intraprendendo riforme nei settori cardine, quali la via-
109
( 43 ) Il Piemonte, 7, 9 Ottobre 1856; supplemento al n. 272 de Il Piemonte,
1856; Il Piemonte, diretto da Farini, sosteneva con vigore il programma ministeriale.
( 44 ) Occorre ancora una volta far notare che gli stessi fogli erano stati la principale
fonte, al pari de La Gazzetta Piemontese, cui l’Indicatore Sardo aveva attinto
dopo il ’48.
( 45 ) Todde cominciò a corrispondere con L’Economista dal n. 3 del 1855 e
continuò con costanza nei numeri successivi.
( 46 ) G. PISU, Francesco Ferrara, Giuseppe Todde e la Sardegna attraverso il giornale
“L’Economista” …, cit., p. 329.

110
NICOLA GABRIELE
bilità o l’istruzione, non modificavano le reali condizioni economiche
dell’isola ( 47 ). Queste società, a detta di Todde, altro non erano
che «potenti meccanismi politici e macchine elettorali […] strumenti
di conquista del consenso al fine di riaffermare il centralismo amministrativo
del Governo Piemontese» ( 48 ).
Come si concilia tutto ciò con la direzione di un periodico di
stampo cavouriano che tentava di promuovere, atto quanto mai di
dirigismo economico, l’istituzione nell’isola di una succursale della
Banca Nazionale?
Durante il 1854 l’economista sardo pubblica su Lo Statuto una
serie di lunghi articoli attraverso i quali racconta la storia dei banchi
e degli istituti di credito, il loro funzionamento e le diverse forme di
credito allora funzionanti in Europa e in America, limitando il più
possibile i riferimenti al progetto cavouriano ( 49 ). La contrarietà di
Todde per una gestione monopolistica è espressa nel paragone tra il sistema
bancario anglo-francese da una parte e quello scozzese e americano
dall’altro: «Eccovi o lettori i diversi effetti delle diverse operazioni
bancarie, della diversa estensione del credito. Da un lato il monopolio
dei più ricchi, depositi senza interesse, e non conti di cassa; dall’altro
libertà bancaria, depositi ad interesse, crediti allo scoperto: dall’uno
difficoltà di possedere capitali, e di riabilitarsi col lavoro; dall’altro
ogni facilitazione accordata all’industria ed alla accumulazione della
ricchezza, e ciò che più importa e che ne è sua conseguenza, il trionfo
del principio liberale. Concittadini, quale dei due sistemi voi preferireste
lo scozzese e l’americano, o l’inglese e francese …? Noi non ne
dubitiamo che la scelta cadrebbe sul primo» ( 50 ).
Dalla lettura integrale di tutti i pezzi pubblicati tra il 1854 e le
prime settimane del 1855 è indiscutibile il valore che l’autore attribuisce
alla nascita di un banco in Sardegna e l’importanza che i sardi
vedano di buon grado la nascita di una tale istituzione sul territorio:
«Ciò di cui il Banco abbisogna è la fiducia che costituisce essa sola
l’essenza del credito, e rende possibili i depositi: e l’interesse che si
accorda ad essi l’accresce per il banco e per i deponenti – per quello
estendendo le sue ramificazioni sulla intiera superficie del paese,
dove vi rinversa con lo sconto ed altre operazioni – per i deponenti,
infiltrando in loro le abitudini del risparmio e dell’economia. Il de-
( 47 ) Ibidem.
( 48 ) L’Economista, n. 8, 1856.
( 49 ) Lo Statuto, nn. 67, 86, 88, 89, 93, 97, 99, 109, 122, 1854.
( 50 ) Lo Statuto, n. 99, 1854.

Giuseppe Todde e Lo Statuto
posito ad interesse è quindi l’espediente il più morale, il più giusto
ed il più economico, poiché quello, come abbiamo detto, che servì a
facilitare in principio la circolazione monetaria divenne poscia nuova
sorgente di prestiti […]» ( 51 ); d’altro canto filtra il timore di Todde
che l’operazione venga gestita direttamente dal ministero, attraverso
un sistema di privilegi che limiterebbe il campo d’azione della
banca, e che pochi spazi vengano lasciati aperti all’iniziativa dei sardi:
«Se in Sardegna si farà un Banco, la circolazione dipenderà non
da quel limite che piacerà assegnare ad un ministro – il credito è
anarchico, non sa di ministri – ma la sua estensione dipenderà dalla
fiducia che il banco saprà spirare, dalla sua poca intimità con cui starà
col governo, e dalla estensione che prenderanno gli affari. Persuadiamocene
dunque anche qui, che i limiti dell’emissione e l’entità
dei biglietti bancari non dipendono che dalla libertà intiera, assoluta;
e che se noi faremo un banco poco libero, i contraccolpi dei privilegi,
delle restrizioni, verranno ad avvisarci tosto che abbiamo sbagliato
la strada, e protesteranno in favore di quella certa anarchia di
credito della libertà bancaria» ( 52 ).
Benché non sia possibile affermarlo con certezza, non è difficile
credere che l’abbandono della direzione de Lo Statuto da parte di Todde,
all’inizio del 1855, si debba all’inconciliabilità tra le sue posizioni
che andavano trasformandosi sempre più in senso ferrariano e la linea
imposta al foglio da Cavour ( 53 ). Il liberismo di Todde, così come si
definirà più chiaramente nell’età della piena maturità, escludeva ogni
intervento diretto dello stato e, partendo dalla consapevolezza dell’incapacità
da parte dell’economia isolana di inserirsi nel mercato internazionale,
auspicava una irrealistica trasformazione della Sardegna in
zona franca, non sottoposta a fiscalismo statale per un ventennio, durante
il quale si sarebbe dovuta reggere autonomamente ( 54 ).
Un altro aspetto della vicenda è quello che riguarda l’atteggiamento
assunto da La Gazzetta Popolare, che, benché accusata proprio da
111
( 51 ) Lo Statuto, n. 93, 1854.
( 52 ) Lo Statuto, n. 122, 1854.
( 53 ) Non va dimenticato che nel 1855 Todde aveva appena 25 anni ed è quindi
lecito pensare che fosse ancora in fase di formazione una propria coscienza politica.
( 54 ) G.G. ORTU, Tra Piemonte e Italia, La Sardegna in età liberale (1848-96),
in L. BERLINGUER e A. MATTONE (a cura di), La Sardegna, cit., pp. 287-288; per
una puntuale analisi del progetto dell’economista sardo (contenuto in G. TODDE,
La Sardegna, Firenze-Roma, Bencini, 1895) si veda anche P. MAURANDI, Giuseppe
Todde. Un economista alla scuola di Francesco Ferrara, Milano 1896, pp. 106-115.

112
NICOLA GABRIELE
Lo Statuto di essere affetta da «lebbra antisavoina», accoglie con favore
il progetto di Cavour, affermando che «la materia è della massima importanza,
ai deputati sardi non isfuggano questi cenni» ( 55 ). Che il
progetto del Cavour piacesse a La Gazzetta è dimostrato da una lettera
del conte al Magenta, intendente cagliaritano: «Mi lusingo che
la Gazzetta Popolare, in quantunque avversa al ministero e a chi
scrive in particolare, non si ricuserà di concorrere in cose di evidente
pubblico vantaggio» ( 56 ). Probabilmente non più soddisfatto del sostegno
apportato alla causa da Todde su Lo Statuto Cavour si rivolge
al Sanna Sanna, conscio di trovare nel proprietario del giornale democratico
un valido interlocutore, chiedendo, in una lettera, «[…]
di usare la sua influenza per la promozione del progetto o quanto
meno di non muovere guerra all’argomento».
Si arriva perfino a situazioni paradossali quando Todde dalle colonne
de Lo Statuto accusa La Gazzetta di sostenere la proposta ministeriale
per interessi personali: «si sa che quelli sono proprietari
fondiari, e come tali possono avere anche interesse alla creazione di
un banco» ( 57 ).
L’impegno del foglio democratico si palesa da subito nella pubblicazione
degli Statuti della Banca addirittura in anticipo rispetto
( 55 ) La Gazzetta Popolare, n. 73, 1854.
( 56 ) M.A. CADAU, La Gazzetta Popolare di Cagliari nel 1854-55, Tesi di Laurea,
relatore L. Ortu, a.a. 1989-1990, p. 66.
( 57 ) Lo Statuto, n. 105, 1854; in modo particolare il giornale si era precedentemente
soffermato su questo aspetto (nn. 75, 80, 1854) facendo riferimento all’atteggiamento
contraddittorio assunto da La Gazzetta già in occasione del primo
progetto per l’istituzione di una “Banca di circolazione di sconto e di deposito”,
proposta approvata dalla Camera me rigettata dal Senato nel 1853. In un primo
momento nel n. 50 del 1853 (24 giugno) il giornale di Sanna Sanna scriveva: “Ci
è grato annunziare che la Camera dei Deputati ha approvato la legge che stabilisce
a Cagliari una Banca di circolazione di sconto e di deposito con una succursale a
Cagliari. Appena approvata dal Senato e pubblicata, riporteremo nelle nostra colonne
questa legge destinata a dar vita e progresso al nostro commercio e a diffondere
quello spirito di associazione che per nostra sventura mancò finora nell’isola.
Siamo persuasi che ciò varrà a che i nostri concittadini rispondano all’appello che
fanno il Governo ed il Parlamento, perché anche i sardi concorrano col loro obolo a
fondare questa per noi benefica istituzione”; ma appena un anno dopo in merito alla
medesima vicenda le posizioni de La Gazzetta sono le seguenti: “Così l’anno scorso
il ministero riusciva a carpire l’approvazione della legge sulla Banca, che nel 1852
dopo lunga e soda discussione non potè votarsi per mancanza di deputati in numero
di legale. E tale disastrosa legge il paese avrebbe, se per opera di distinte intelligenze
e del chiarissimo Signor Giulio in particolare il Senato del Regno non la
avesse respinta”; cfr. La Gazzetta Popolare, n. 51, 1854.

Giuseppe Todde e Lo Statuto
allo stesso Statuto ( 58 ). Ma Sanna Sanna si spinge dove Todde non
era giunto, e cioè a soddisfare dubbi e preoccupazioni dei lettori
eventuali futuri utenti ( 59 ), a partire dal n. 6 è pubblicato, in testa all’editoriale,
l’avviso di apertura delle sottoscrizioni (non presente su
Lo Statuto). I personali interessi economici della dirigenza de La
Gazzetta, Sanna Sanna su tutti, e di una parte della borghesia terriera
che sosteneva e finanziava il quotidiano, sono manifesti e mettono
in mostra quel dualismo che legava interessi privatistici di gruppi
finanziari con pubblici movimenti d’opinione; fenomeno che diverrà
più o meno comune a buona parte della stampa isolana nella seconda
metà del secolo e che troverà il suo maggior campo di diffusione
in fogli quali La Gazzetta Popolare, il Corriere di Sardegna,
l’Avvenire di Sardegna e L’Unione Sarda.
Ad ogni modo la vicenda mette in luce anche un’altra delle tante
anime del giornale democratico. In relazione alla vicenda della succursale
della Banca Nazionale viene introdotto, attraverso una serie
di articoli, il concetto di regionalismo, che però non era un regionalismo
«gretto e provinciale»: certo i redattori de La Gazzetta si sentono
sardi, ma prima di tutto «italiani trascurati» e se vi erano iniziative
unitarie, come era interpretata questa, «La Gazzetta era ben lieta
di accoglierle anche senza l’influenza di Cavour» ( 60 ).
113
( 58 ) La Gazzetta pubblica gli Statuti nei nn. 1 e 4, precisamente il 2 e 9 gennaio
1855, mentre Lo Statuto si limita ad offrire un commento degli Statuti nei numeri
2, 3, 6 del 1855.
( 59 ) La Gazzetta Popolare, nn. 6, 7, 10, 12, 13, 16, 17, 18, 1855; tutti gli articoli
sono firmati da Sanna Sanna.
( 60 ) La Gazzetta Popolare, nn. 79, 80, 81, 94, 99, 1855.

DANIELA MURGIA
VERSO UNA «SCIENCE DU CONCRET».
SU ALCUNI SPUNTI INTERPRETATIVI OFFERTI DA
L’ITINÉRAIRE PHILOSOPHIQUE DE MAURICE BLONDEL
SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. «Critique de la vie» e «science de la pratique»:
l’esigenza di un nuovo canone logico. – 3. La «scienza» tra conoscenza e
«pratique de l’action-pensée». – 4. La «science du concret» e L’Itinéraire philosophique
de Maurice Blondel
1. Introduzione. – In questo lavoro ci proponiamo di analizzare la genesi
e lo sviluppo dell’idea di una scienza del concreto in Maurice
Blondel con riferimento ad alcuni significativi scritti degli anni compresi
fra il 1893 e il 1928 nei quali il filosofo delinea le coordinate
fondamentali della sua «science du concret» e il quadro di riferimento
logico-concettuale valido a supportarne la costituzione ( 1 ). Alla luce
( 1 ) Gli scritti cui si fa riferimento sono i seguenti: M. BLONDEL, L’Action. Essai
d’une critique de la vie et d’une science de la pratique, P.U.F., Paris 1973 [tr. it.
L’azione, saggio di una critica della vita e di una scienza della prassi, a cura di S. SOR-
RENTINO, Milano, Edizioni Paoline, 1993]. Nel testo farò sempre riferimento all’edizione
francese dell’Action del 1893, indicando tra parentesi quadre le pagine della
suddetta edizione italiana. M. BLONDEL, L’illusion idéaliste, Revue de métaphysique
et de morale, t. 6, novembre 1898, pp. 726-745; oggi in: M. BLONDEL, Oeuvres complètes,
t. II, 1888-1913 – La philosophie de l’action et la crise moderniste, texte établi
et présenté par C. Troisfontaines, P.U.F., Paris 1997, pp. 197-216; M. BLONDEL,
Principe élémentaire d’une logique de la vie morale, in Bibliothèque du Congrès internationale
de Philosophie de 1900, T. II, Paris, A. Colin, 1903, pp. 51-85 [tr. it. di E.
Castelli, Principio di una logica della vita morale, a cura di P. Piovani, Napoli, Guida,
1969]. M. BLONDEL, Le point de départ de la recherche philosophique, in Annales
de la Philosophie chrétienne, janvier, 1906 pp. 337-360, juin, 1906 pp. 225-249.
Lo scritto è stato ripubblicato in: M. BLONDEL, Oeuvres complètes, Tome II 1888-
1913, cit., pp. 525-568 e a questa edizione si farà riferimento. M. BLONDEL, Le
procès de l’intelligence, La Nouvelle Journée, 1921, juin pp. 409-419; juil pp. 30-49;

116
DANIELA MURGIA
di una considerazione attenta della produzione blondeliana volta in
questa direzione, è emerso come decisivo il ruolo de L’Itinéraire philosophique
de Maurice Blondel ( 2 ). Nello scritto del 1928, infatti, il filosofo
non solo individua la «science du concret» come luogo di confluenza
del rigore scientifico espresso da una «scienza del generale» e
della necessità da lui riconosciuta di considerare la singolarità che caratterizza
la «scienza dell’individuale». Ne L’Itinéraire, soprattutto,
Blondel definisce con precisione l’elemento che più di qualsiasi altro
qualifica sul piano teoretico la «scienza del concreto» e, cioè, la reciproca
comunicazione al suo interno di singolare e di universale, nel
pensiero e nell’azione ( 3 ).
L’idea di una scienza del concreto si sviluppa nella speculazione
blondeliana nell’arco di quasi quarant’anni, secondo un percorso
che potremmo definire “circolare”, in riferimento soprattutto al fatto
che esso appare come il risultato di un continuo e fruttuoso arricchimento
di alcuni nuclei concettuali presenti e radicati nella speculazione
di Blondel sin da L’Action del 1893.
La science du concret, nell’arco del periodo indicato, assume accenti
e sfumature teoriche diverse che testimoniano, da un lato, un
suo continuo e dialettico sviluppo che segue da vicino l’articolarsi
del pensiero di Blondel nella sua globalità, dall’altro, un suo costan-
aout-sept. pp. 115-133. Gli scritti, l’anno successivo, vengono stampati unitariamente
da Bloud et Gay, 1922. M. BLONDEL, L’Itinéraire philosophique de Maurice
Blondel. Propos recueillis par Frédéric Lefèvre, Editions Spes, Paris 1928.
( 2 ) Il testo comparve a Parigi nel 1928, all’interno del quinto numero della
‘belle collection’ La Neuf delle edizioni Spes. Nel Maggio del 1927, grazie alle mediazioni
di Henri Bremond, cui il testo è dedicato, Frédéric Lefèvre, redattore
capo delle Nouvelle Littéraires, riuscì ad avere per le sue «entretiens» dal titolo Une
heure avec…, un ospite d’eccezione quale Maurice Blondel. Poiché le colonne del
settimanale non potevano ospitare l’intervista, date le sue vaste dimensioni, questa
fu stampata a parte con il titolo L’Itinéraire philosophique de Maurice Blondel. Nel
1966, Henri Bouillard ripropone l’opera in una nuova edizione, (Aubier Editions
Montaigne, Paris) invariata rispetto alla prima per quanto riguarda il testo, ma
nella quale viene omessa la Lettre préface de Maurice Blondel à Frédéric Lefèvre. Del
testo ho curato una traduzione in lingua italiana, alla quale farò riferimento nelle
citazioni.
( 3 ) Come vedremo nel corso del presente lavoro, la «scienza del concreto» può
venire interpretata come un “superamento” della «scienza dell’individuale» anche
se tale superamento non limita di fatto la rilevanza riconosciuta all’individuale
stesso. Relativamente al problema della «science de l’individuel» sia consentito il
rinvio a un mio precedente lavoro: D. MURGIA, L’universale singolare e la «science
de l’individuel» in Maurice Blondel, Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università
di Cagliari, Nuova Serie XIX, vol. LVI, Cagliari, 2001, pp. 77-113.

Verso una «science du concret»
te riferimento a punti focali, quali quelli connessi alla critique de la
vie e alla science de la pratique, ai complessi rapporti fra pensiero e
azione, al concetto di razionalità e alla poliedrica concezione della
conoscenza, che costituiscono i suoi fondamentali e duraturi punti
di convergenza. Proprio su questi vorremmo soffermarci a riflettere
in particolare, analizzandone le ricadute nella delineazione dei caratteri
della «scienza del concreto», per tentare di offrire una quanto
più esaustiva interpretazione circa gli sviluppi di questo segmento
della speculazione del filosofo d’Aix. Con questo proposito, a partire
dalla critica rivolta da Blondel ai presupposti metodologici della
scienza positivista – una critica, come è noto focalizzata intorno ai
procedimenti di costruzione delle conoscenze che non concedono
abbastanza spazio al soggetto ( 4 ) – analizzeremo il graduale delinearsi
di una critique de la vie e di una science de la pratique, la cui rilevanza,
nel nostro percorso, è riconducibile a un duplice quadro di riferimento.
Appare rilevante, cioè, per un verso, il fatto che la via aperta
nel 1893 dalla «critica della vita» e dalla «scienza della pratica» operi
in direzione di una rivisitazione del concetto di scienza in generale,
al fine di garantire un maggior coinvolgimento del soggetto conoscente.
Per un altro verso, risulta essere ricco di conseguenze l’assunto
filosofico sul quale s’innesta la riconosciuta centralità, per la filosofia,
di elementi connessi all’azione, alla vita, al destino dell’uomo,
all’uomo stesso considerato nella sua complessa articolazione di volontà,
sentimento e passione ( 5 ).
( 4 ) L’attenzione nei confronti della soggettività è un elemento centrale della critica
blondeliana ai presupposti metodologici della scienza positivista. Non mancano
indicazioni per connettere l’impostazione del filosofo da un lato – per quanto concerne
più direttamente il ruolo della volontà, della libertà e del soggetto – allo spiritualismo
a lui contemporaneo, dall’altro, per quanto attiene alla critica alle condizioni
e ai presupposti metodologici della scienza positivistica, al kantismo francese
ottocentesco. Cfr.: P. HENRICI, Les structures de «L’Action» et la pensée française, in:
D. FOLSCHEID (ed.), Maurice Blondel. Une dramatique de la modernité. Acte du colloque
Maurice Blondel Aix en Provence mars 1989, Paris, Editions Universitaires,
1990, pp. 32-43; P. HENRICI, «Unir l’ascétique très chrétienne à la psychologie très
psycologique» Les Notes-Semaille de Blondel, in: L’Action. Une dialectique du salut.
Colloque du Centenaire Aix-en-Provence mars 1993, Paris, Beauchesne, 1994, pp. 17-
42; M. RENAULT, Déterminisme et liberté dans “L’Action” de Maurice Blondel, Lyon,
Editions Vitte, 1965.
( 5 ) Il tema del destino e del ruolo dell’azione nella quête du sens, è stato al centro
di un importante colloquio internazionale organizzato dall’«Association des
Amis de Maurice Blondel», i cui interventi sono riuniti in un testo curato da J.M.
COUTAGNE, Maurice Blondel et la quête du sens, Paris, Beauchesne, 1998. In direzione
delle tematiche relative all’interrogazione sul destino umano, emerge una
117

118
DANIELA MURGIA
Sono questi alcuni interessi fondamentali intorno ai quali si sviluppa
nella sua complessità la «scienza del concreto» blondeliana; interessi
rispetto ai quali, l’intento del filosofo non è da considerarsi
unicamente come teorico-speculativo – troppo “limitato” per una
conoscenza che sia veramente conoscenza per la vita – ma anche pratico-operativo,
ovvero, connesso alla possibilità di una effettiva azione-pensata
secondo le articolazioni di cui la stessa si arricchisce all’interno
della dialettica di pensiero e azione nella speculazione
blondeliana.
In questo orizzonte, si prenderanno in considerazione i nessi teorici
fondamentali fra la scienza del concreto e il definirsi, negli anni
successivi a L’action, della poliedrica concezione blondeliana della
conoscenza, con particolare riguardo al ruolo che in questa esercitano
i concetti di intelletto, di ragione e di pensiero.
In relazione agli sviluppi della «science du concret», si sono rivelate
ricche di spunti interpretativi nuovi, le considerazioni svolte dal filosofo
alla fine degli anni Venti all’interno de L’Itinéraire philosophique,
un’opera la cui rilevanza, come si cercherà di argomentare nel
corso dell’ultima parte del presente lavoro, appare avvalorata anche
dal fatto che in essa il filosofo renda esplicite alcune articolazioni
concettuali relative alla «scienza del concreto» sulla base di indicazioni
puntuali, non rinvenibili in altre opere. E infatti, nel 1928, in
occasione degli incontri con Lefévre, grazie anche all’incalzante e direzionato
domandare del suo intervistatore, Blondel offre, relativamente
al suo pensiero, un quadro di riferimento centrato proprio attorno
all’esigenza di elaborare un’idea nuova di scienza della quale
egli indica la difficile collocazione, talvolta a suo giudizio apparentemente
contraddittoria, fra universale e generale, singolare e individuale,
fra aristotelismo da una parte e kantismo dall’altra. La science
possibile lettura in chiave esistenzialistica della filosofia blondeliana sulla quale non
mancano indicazioni bibliografiche rilevanti in: A. CARTIER, Pensée existentielle et
dialectique de l’Action, in Les Journées Blondeliennes, Les Etudes Philosophiques, n. 4,
1952, pp. 373-376; R. JOLIVET, Maurice Blondel et la pensé existentielle, in Les
Journées Blondeliennes, Les Etudes Philosophiques, cit., pp. 330-342; A. CARTIER,
Existence et Vérité. Philosophie blondélienne de L’Action et problématique existentielle,
P.U.F., Paris 1955; A. CARTIER, Une métaphysique existentielle: la philosophie de
l’action, Giornale di Metafisica, Settembre-Ottobre, 1961; C. D’ARMAGNAC, Blondel
et la problématique existentielle, in Archives de Philosophie, Tome XXIV, 1961,
pp. 185-187; A. CARTIER, La nature humaine d’après Maurice Blondel, Les Etudes
Philosophiques, 1961, pp. 257-260; P. COLIN, La vérité de la philosophie selon Maurice
Blondel, in: J. GREISCH (ed.), La vérité, Paris, Beauchesne, 1983, pp. 179-213; E.
GABELLIERI, Blondel et Heidegger, L’Action et la Vérité de l’être, in: L’Action. Une dialectique
du salut. Colloque du Centenaire Aix-en Provence mars 1993, cit., pp. 67-80.

Verso una «science du concret»
du concret, in questa occasione per la prima volta, trova una fisionomia
più definita. Il suo specifico portato si arricchisce di nuovi significati
e di linee di sviluppo meglio delineate. Sul piano critico
trova conferma la possibilità di una interpretazione che riconosca la
continuità del pensiero blondeliano, senza per questo negarne l’arricchimento
progressivo. In questa direzione è da accogliersi l’implicito
invito espresso dal filosofo proprio all’interno de L’Itinéraire ( 6 ),
a non incorrere nei fraintendimenti interpretativi di quanti, insistendo
su una netta scissione in due fasi della sua filosofia, sembrano
non cogliere la presenza al suo interno di una logica che, per usare le
significative parole di Henry Duméry, si sviluppa «par approfondissement
interne, non par adjonction externes.» ( 7 ). Seguire Blondel in
questo percorso partendo da un assunto unitario, appare così la sola
via utile per individuare la consistenza reale dell’idea di una «scienza
del concreto» nella sua speculazione, e per procedere, senza gratuite
generalizzazioni, a una interpretazione compiuta del suo itinerario
filosofico.
Non secondaria, in riferimento ai risultati offerti dalla nostra ricerca,
appare la singolare coincidenza tra il volgere della riflessione
blondeliana “verso una science du concret” e il tentativo costantemente
perseguito dal filosofo di agganciare questa esigenza alla delineazione
dell’idea de l’homme réel secondo indicazioni a partire dalle
quali si ritiene possibile, in una successiva ricerca, affrontare un’analisi
della proposta antropologica blondeliana.
Alla luce delle indicazioni che abbiamo espresso in questa parte
introduttiva, la «scienza del concreto», rappresenta una tappa fondamentale
della riflessione di Blondel, in riferimento alla quale gli im-
( 6 ) Sono diverse le occasioni nelle quali Blondel, all’interno de L’Itinéraire, ribadisce
l’unità del suo pensiero. Si rinvia in particolare alle pp. 17, 21-22.
( 7 ) H. DUMERY, La philosophie de l’action. Essai sur l’intellectualisme blondélien,
Aubier, Editions Montaigne, 1948, p. 15. È noto, a questo proposito, il dibattito
fra Bouillard e Dumery circa l’unità o meno della filosofia blondeliana. Nell’impossibilità
di approfondirne le specifiche articolazioni, in questa sede rinvio unicamente
agli scritti dei protagonisti del dibattito: H. DUMERY, La philosophie de l’action.
Essai sur l’intellectualisme blondelien, cit., pp. 15-16; H. DUMERY, La philosophie
catholique en France, in: AA.VV., L’activité philosophique contemporaine en
France et aux Etats-Unis, Etudes publiées sous la direction de Marvin Farber,
P.U.F., Paris 1950, (tome II: La philosophie française), pp. 233-264; H. DUMERY,
Raison e religion dans la philosophie de l’action, Paris, Seuil, 1963; H. BOUILLARD,
L’intention fondamentale de Maurice Blondel et la théologie, Recherches de Science
religieuse, juil.-sept. 1949, pp. 321-402; H. BOUILLARD, Blondel et le christianisme,
Paris, Seuil, 1961.
119

120
DANIELA MURGIA
prescindibili ingredienti del suo avanzamento ‘vers le concret’ ( 8 ) ci
sembrano offrire chiarimenti, oltre che ai problemi gnoseologico e
logico, anche a quello antropologico.
2. «Critique de la vie» e «science de la pratique»: l’esigenza di un nuovo
canone logico. – Il progetto filosofico di una science du concret, al
quale si lega il nome di Blondel, appare già rinvenibile ne L’Action
del 1893. All’interno del capolavoro blondeliano, infatti – che non a
caso reca come sottotitolo critique de la vie e science de la pratique ( 9 ) –
il filosofo pone le basi di quella curvatura verso il concreto che caratterizza
gran parte della sua speculazione successiva e che, soprattutto
in un primo momento, si sviluppa attorno al concetto di action. Il
passaggio verso una più definita science du concret sembra muovere
proprio da tali prime indicazioni che, per questa ragione, devono essere
assunte quali i referenti più diretti delle esplicitazioni rese dal filosofo
d’Aix in L’Itinéraire philosophique.
Il reciproco rinviare la «critica della vita» alla «scienza della pratica»,
secondo indicazioni non estranee al pensiero di Ollé-Laprune ( 10 ),
( 8 ) L’espressione ‘vers le concret’ si riferisce all’opera di Jean Wahl del 1932, nella
quale con specifico riferimento alle riflessioni di James, Whitehead e Marcel, viene
indicata quella che all’autore appare come la tendenza più significativa della filosofia
del primo Novecento: una particolare attenzione rivolta au réel i cui ingredienti fondamentali
sono costituiti da un ripensamento della scienza per ciò che concerne i
suoi metodi e da una rivisitazione critica dell’empirismo, dell’idealismo e del realismo
di fine Ottocento e inizi Novecento. Non trascurabile in questo contesto, il
ruolo svolto da Kierkegaard e da Heidegger, che, come è noto, costituiscono lo sfondo
del pensiero di Jean Wahl. Cfr. J. WAHL, Vers le concret, Vrin, Paris 1932.
( 9 ) Tale sottotitolo de L’Action del 1893 non fu il primo pensato da Blondel il
quale, originariamente, in una lettera datata Aix, 22 Marzo, 1887, propone al Preside
della Sorbonne il seguente titolo: L’Action, étude sur la nature de l’opération ad
extra et sur la valeur de la pratique littérale. Tale titolo venne rifiutato in quanto –
venne detto – ostentava una «forme vraiment barbare». Cfr. M. BLONDEL, Lettre
au Doyen de la Sorbonne, Aix, 22 Marzo 1887, in: Lettres philosophiques, Paris, Aubier
Montaigne, 1961, pp. 11-13.
( 10 ) È noto che Blondel mutuò dal suo maestro una spiccata attenzione soprattutto
per lo studio della vita e per la teoria della certezza morale. Tuttavia, come
ricorda Blondel ne L’Itinéraire philosophique, la ricezione di tali tematiche, avviene
secondo una «double vie […] une vie de docilité aimante, une vie d’indépendance
inaliénable». La doppia vita alla quale Blondel fa riferimento, segna l’originalità
della sua impostazione filosofica che, per quanto nelle «personali convinzioni» fosse
vicina a quella dei suoi «monitori», non poté esserlo, per l’assunzione, di un
punto di vista libero rispetto ai conflitti a lui attuali. Un punto di vista in grado,
secondo Blondel, di «soddisfare contemporaneamente alle esigenze totali della cri-

Verso una «science du concret»
si delinea parallelamente alla rivalutazione da parte di Blondel di
ambiti – come, appunto, quello della vita e della pratica – che, pur
non prestandosi, a suo avviso, a essere studiati mediante gli schemi
conoscitivi propri delle indagini scientifiche sistematiche ( 11 ), tuttavia
rappresentano oggetto di notevole interesse ai fini di un’analisi filosofica
qualificata secondo i parametri di una scientificità diversa ( 12 ).
L’attenzione rivolta a questi settori, infatti, secondo Blondel, poteva
rappresentare lo stimolo a ricercare una più completa considerazione
della scienza e dei procedimenti di cui essa si avvale e, nello stesso
tempo, a elaborare una nuova concezione della razionalità umana,
tale da fornire una più “vitale” collocazione filosofica all’azione. Per
quanto attiene al nostro interesse di ricerca, il carattere specifico dell’azione
è, sin da questa prima opera e in modo duraturo, quello di
121
tica e agli appelli permanenti del destino umano.». M. BLONDEL, L’Itinéraire philosophique
de Maurice Blondel, cit, p. 18. Sul rapporto tra Ollé-Laprune e Blondel si
rinvia a: L. OLLÉ-LAPRUNE, De la certitude morale, (1880); L. OLLÉ-LAPRUNE, La
Philosophie et le Temps présent, (1890); L. OLLÉ-LAPRUNE, Le prix de la vie, (1894);
M. BLONDEL, L’unité intellectuelle et morale de la France, anonimo in Annales de
Philosophie chrétienne, t. 123, févriere, 1892, pp. 421-443; M. BLONDEL, Léon
Ollé-Laprune: l’achèvement et l’avenir de son œuvre, Paris, Bloud et Gay, 1923 [tr. it.
di O. Arcuno, Vallecchi Editore, Firenze, 1925]; M. BLONDEL, Leon Ollé-Laprune.
Introduction a: L. OLLÉ-LAPRUNE, Le prix de la vie, Paris, Belin, 1894 [tr. it. Il valore
della vita, a cura di A. Codignola, Firenze, Vallecchi, 1922 pp. VII-XXXVII]. Sul
versante della letteratura critica francese è nota l’interpretazione di C. Troisfontaines
per la quale rimandiamo al commento delle voci relative agli scritti blondeliani in:
R. VIRGOULAY-C. TROISFONTAINES, Maurice Blondel. Bibliographie analytique et critique.
I. Oeuvres de Maurice Blondel, 1880-1973, Peeters, Louvain, 1975. Cfr.
inoltre, P. REIFENBERG, Ollé-Laprune dans l’interprétation de Maurice Blondel, in:
J.M. COUTAGNE, Maurice Blondel et la quête du sens, cit., pp. 87-100.
( 11 ) La lettura polemica da parte di Blondel delle indagini scientifiche sistematiche,
non è identificabile come rifiuto della scienza, bensì come reazione all’idea
che la scienza possa sottoporre l’intera realtà, compreso l’uomo, a principi e a leggi
di carattere deterministico che necessariamente estromettono dalle analisi condotte
il singolo, la volontà e la soggettività che lo contraddistinguono. Si rinvia a questo
proposito alla nota n. 4 del presente intervento.
( 12 ) Lo scritto giovanile su L’unité intellectuelle et morale de la France offre importanti
sollecitazioni con riferimento ai rapporti fra l’indagine filosofica e la scienza.
Cfr. M. BLONDEL, L’unité intellectuelle et morale de la France, cit. Nella direzione
della rivalutazione del legame fra gli studi filosofici e le scienze positive, a partire dal
1926, in qualità Presidente Onorario, Blondel si operò insieme a Gaston Berger all’interno
della Socété d’Etudes Philosophique du Sud-Est – dal 1928 semplicemente
Socété d’Etudes Philosophique – con la finalità primaria di promuovere gli studi filosofici
mediante l’organizzazione di conferenze e la pubblicazione del Bollettino, in
direzione dei legami tra filosofia e scienze positive. Cfr. Bulletin des Amis de Maurice
Blondel, Numéro Spéciale: Gaston Berger, Nouvelle Série, n. 12-13, Octobre 1997.

122
DANIELA MURGIA
essere luogo di «crocevia» rispetto a tutte le articolazioni nelle quali il
filosofo sembra strutturare la scienza del concreto: vita, pratica, pensiero,
ragione, scienza, conoscenza, logica. Tutte articolazioni, queste,
che lungi dall’essere fra loro separate, si richiamano vicendevolmente
e, a una lettura complessiva della speculazione blondeliana, ci
sembrano aprire nuove prospettive interpretative di una significativa
proposta antropologica da parte del filosofo.
In questo quadro, si rileva ricca di conseguenze l’accentuazione della
connessione fra azione e vita, azione e pratica, così come emerge nei
passaggi iniziali de L’Action ( 13 ). Risulta evidente, infatti, che sul piano
concettuale Blondel – nel 1893 come nel 1928 in L’Itinéraire – non
consideri come discorsi separati quelli relativi all’azione, alla pratica, all’individuazione
di una logica della vita morale e all’articolazione del
problema della conoscenza. Al contrario, Blondel mette in risalto la
concatenazione di queste problematiche riferendole all’elemento “decisivo”
della sua impostazione filosofica, rappresentato dalla scelta di volersi
collocare all’interno di una prospettiva in cui, a suo avviso: «nessuno
si era metodicamente collocato e mantenuto» ( 14 ). È questa la prospettiva
dell’azione, nella quale il filosofo – ponendo nell’azione «le
centre de la philosophie, parce que là se trouve aussi le centre de la
vie» ( 15 ) – intende condurre il suo percorso speculativo verso una prospettiva
filosofica costruita su un rinnovato modello di «scienza» ( 16 ).
( 13 ) La valenza della dialettica di pratica e pensiero, pensiero e pratica è da rinvenirsi,
secondo Blondel, nel fatto che solo al suo interno possono trovare una valida
collocazione l’origine volontaria e la necessità che contraddistinguono tanto le leggi
del pensiero quanto quelle della vita. Gli interventi blondeliani legati alla centralità
della dialettica di pensiero e azione non possono certamente essere circoscritti
all’interno di una singola opera. Il tema, infatti, è fondamentale in tutta la
speculazione blondeliana e, nell’arco di mezzo secolo, trova importanti sviluppi
non solo in riferimento a quanto più da vicino interessa il discorso metodologico
della scienza del concreto, ma anche rispetto a problematiche relative alla concezione
della ragione e del pensiero, al delinearsi di una logica della vita morale, all’analisi
dell’essere e del pensiero che il filosofo propone.
( 14 ) M. BLONDEL, L’Itinéraire philosophique de Maurice Blondel, cit., p. 22. Per
usare le significative parole di U. REDANÒ, Blondel muove alla riflessione da un
«assoluto bisogno di concretezza» che testimonia anche la sua reazione a inflessioni
a suo avviso poco rigorose di certo spiritualismo a lui contemporaneo. Cfr. U.
REDANÒ, Il valore dell’azione nello spiritualismo francese contemporaneo, in: AA.VV.,
Il problema dell’azione e le sue diverse concezioni, Fratelli Bocca Editore, Milano
1945, pp. 105-126.
( 15 ) M. BLONDEL, L’Action (1893), cit., p. XXIII [77].
( 16 ) Seppure in Blondel sia viva l’idea di costruire nuovi parametri di scientificità
proprio partendo da un diverso ruolo che nella filosofia acquista l’azione, di-

Verso una «science du concret»
“Il peso delle azioni” ( 17 ), infatti, non è circoscritto né circoscrivibile
a un lasso di tempo definito e, tanto meno, può essere previsto in
ogni sua conseguenza dal soggetto, il quale, evidentemente, pur essendo
– grazie all’azione – il principale protagonista del suo destino,
secondo Blondel, non è in grado di “comandarla” interamente ( 18 ).
Il chiaro emergere della problematicità cui si lega il discorso
blondeliano sull’azione è significativo ai fini della nostra ricerca non
tanto in relazione alla genesi dell’azione e al ruolo che in essa assume
la decisionalità del singolo, quanto in rapporto all’incidenza che
l’azione ha nel definirsi di tutta l’esistenza dell’uomo. Incidenza,
questa, che il filosofo mette in risalto attribuendo un valore irrinunciabile
a quegli atteggiamenti di vita che, oltre alla decisione, chiamano
in gioco l’impegno, la compromissione, il potere di scelta, la
messa a disposizione pressoché totale di se stessi, la libera dedizione
alla vita da parte dell’uomo, il cui destino appare insondabile ( 19 ). La
science de la vie, quindi, inizia a prendere forma non tanto su un piano
teorico-speculativo, o su un piano gnoseologico, quanto in rapporto
alla considerazione di quello che Blondel chiama un laboratoire
vivant, ovvero, un «organisme de chair, d’appétit, de désir, de pensées»,
quale è l’uomo: incomprensibile se non sottoposto alla prova
123
ventando essa stessa oggetto di scienza, nel contempo il filosofo mette in evidenza
anche le difficoltà di una simile costruzione, difficoltà che collega alla costituzione
stessa dell’azione. Per approfondimenti si veda: M. BLONDEL, L’Action (1893), p. 88
[181]; M. BLONDEL, Lettre a Albert Bazaillas, Dijon, le 15 mars 1894, in: Lettres
philosophiques, cit., p. 41. Sul problema della costituzione di un’indagine scientifica
filosofica in Blondel, molto significative le indicazioni offerte da Franco Polato
in relazione ai legami che tale prospettiva ha con la speculazione filosofica di Edmund
Husserl. Cfr. F. POLATO, Blondel e il problema della filosofia come scienza,
Zanichelli Editore, Bologna, 1965.
( 17 ) L’espressione trae spunto da: A. FUMAGALLI, Il peso delle azioni. Agire morale
e opzione fondamentale secondo L’Action (1893) di M. Blondel, Pubblicazioni del
Pontificio Seminario Lombardo in Roma 1997.
( 18 ) Afferma Blondel: «Mes décision vont souvent au delà de mes pensées, et
mes actes, au delà de mes intentions. Tantôt je ne fais pas tout ce que je veux; tantôt
je fais, presque à mon insu, ce que je ne veux pas. Et ces actions que je n’ai pas
complètement prévue, que je n’ai pas entièrement ordonnées, dès qu’elles sont accomplies,
présent sur toute ma vie et agissent sur moi, semble-t-il, plus que je agi
sur elle. Je me trouve comme leur prisonnier; elles se retournent parfois contre
moi, ainsi, qu’un fils insoumis en face de son père. Elles ont fixé le passé, elles entament
l’avenir.». M. BLONDEL, L’Action (1893), cit., pp. IX-X [67].
( 19 ) Sull’impossibilità di un’assoluta chiarezza circa il destino dell’uomo si vedano
i punti n. I e II dell’Introduction a M. BLONDEL, L’Action (1893), cit., pp. VIII-
XV [66-71].

124
DANIELA MURGIA
dell’azione, se considerato solamente sulla base di osservazioni, di discussioni,
o di teorie filosofiche fondate su principi astratti ( 20 ). Tuttavia,
sarebbe riduttivo ritenere che le argomentazioni blondeliane relative
al problema della conoscenza si esauriscano in una considerazione
tutta in negativo di un modello gnoseologico teorico-astrattivo,
senza nel contempo dare rilevanza al fatto che il filosofo mette in
evidenza anche gli elementi di un riscontro positivo che una science
de la pratique potrebbe avere dal far propri il rigore e la sistematicità
appartenenti proprio a quel modello e dall’assumere questi elementi
a principi guida del problema dell’azione:
«Et la force d’une vraie Critique de la vie, – afferma Blondel – ce doit être
de retrouver, sous les déviations superficielles et temporaires, cette logique
cachée de l’action dont les lois ne sont pas moins rigoureuses que celles des
sciences abstraites.» ( 21 ).
Nella prospettiva blondeliana, la scienza della pratica non si risolve
in una scienza pratica e, come quest’ultima, non trova il proprio fondamento
in una «culture du sens pratique par la pratique même» ( 22 ).
( 20 ) Ibid. p. XII [69]. L’impossibilità di «risolvere» il problema dell’uomo all’interno
della sola prospettiva teorico-astrattiva, costituirà negli anni Venti uno degli
assunti fondamentali della critica blondeliana all’intellettualismo. Scrive Blondel in
Le procès de l’intelligence: «Nous voulions, selon la défaveur attachée alors aux «intellectuels»,
stigmatiser sous le nom d’intellectualisme l’attitude de ces savants, de ces
abstracteurs, de cette «intelligentsia» russe, allemande ou française, de ces jacobins
de gauche ou de droit qui, volontiers oublieux ou dédaigneux des réalités concrètes
et toujours nouvelles, s’éprennent de leurs idées, et tranchent tout du haut de leurs
systèmes, comme si les théories étaient la mesure des hommes et de choses.». M.
BLONDEL, Le procès de l’intelligence, cit., pp. 228-229. Si rinvia, inoltre, all’interpretazione
che dell’importante studio blondeliano propose nel 1923 Jacques Maritain:
J. MARITAIN, L’intelligence et la philosophie de M. Blondel, in: Oeuvres complétes,
vol. III (1924-1929), Edition Universitaires, Fribourg, Suisse, 1984, pp. 93-161.
( 21 ) M. BLONDEL, L’Action (1893), cit., p. 471 [581].
( 22 ) Ibid., p. 476 [586]. A questo proposito, è opportuno ricordare il fraintendimento
che sin dalla prima comparsa de L’Action accompagnò la blondeliana
«scienza della pratica», fraintendimento, che, come nel caso di H. Marion, attribuiva
alla scienza della pratica un carattere morale. Cfr. a riguardo: M. BLONDEL,
Une soutenance de thèse, in M. BLONDEL, Oeuvres complètes, Tome I, 1893 – Les
Deux Thèse, cit., pp. 722-728. L’edizione delle Oeuvres, oltre che proporre la versione
della soutenance scritta per la pubblicazione negli Annales de Philosophie
chrétienne e sottoscritta da J. Wehrlé – mai 1907, pp. 113-143 – riporta anche il
manoscritto del 1893 e le differenze fra i due testi. Su la soutenance cfr.: J. FERRA-
RI, La soutenance de L’Action, le 7 juin 1893. Circonstances historiques et signification
philosophique, in Recherches Blondéliennes, a l’occasion du centième anniversaire
de la soutenance de L’Action, Dijon, le 7 juin, 1993, pp. 9-27.

Verso una «science du concret»
Al contrario, essa acquista rilevanza in relazione alla riflessione teorica
che ne supporta la costituzione e a un pensiero la cui efficacia,
lungi dall’essere direttamente e unicamente connessa a un sistema di
astrazioni analitiche, è rinvenibile nel pensiero stesso in quanto:
«synthèse concrète qui dans chaque disposition intérieure, peut résumer
à la conscience tout le travail de la vie.» ( 23 ).
Blondel sembra non voler eludere la duplice difficoltà legata, da
un lato, al voler risolvere il problema della pratica senza il riferimento
ad alcun supporto derivante da una prospettiva teorica, dall’altro,
al voler con i soli strumenti a disposizione della teoria, tentare di
comprendere e di dare una valida spiegazione dell’agire:
125
«La pratique qui ne tolère aucun retard, ne comporte jamais une entière
clarté; l’analyse complète n’en est pas possible à une pensée finie. Tout règle
de vie qui serait uniquement fondée sur une théorie philosophique et des
principes abstraits serait téméraire […]. Une pure connaissance ne suffit
jamais à nous mouvoir parce qu’elle ne nous saisit pas tout entiers […].» ( 24 ).
All’origine della costituzione di una science du concret, come si può
evincere anche da questi significativi passaggi, Blondel individua come
estremamente rilevante una questione di ordine metodologico che, a
nostro avviso, troverà più adeguati sviluppi e ulteriori chiarimenti soprattutto
in riferimento al delinearsi di un nuovo strumento logico e
al dettagliato definirsi delle nozioni di conoscenza intorno agli anni
compresi fra il 1896 e il 1930. L’analisi tesa a definire quale sia il metodo
più valido per studiare l’azione e la pratica in una prospettiva
scientifica, troverà nuove originali articolazioni non solo nel riconoscimento
dell’importanza della voie pratique, ma anche, e soprattutto,
( 23 ) M. BLONDEL, L’Action (1893), cit., p. 476 [586].
( 24 ) Ibid., p. IX [66-67]. A completamento di quanto espresso, con particolare
riferimento alla concezione della conoscenza filosofica, si rinvia al denso e molto
significativo scritto blondeliano del 1906, su Le point de départ de la recherche philosophique,
cit., in part. pp. 527-569. È rilevante il fatto che il filosofo consideri la
pratica come fondata su una rigorosa ed esatta dialettica e il suo studio derivante
dalla possibilità di una riformulazione dei rapporti fra teoria e pratica, in direzione
di un reciproco e fruttuoso coinvolgimento delle due dimensioni. Non è questa la
sola occasione nella quale il filosofo propone un radicale ripensamento di concetti
filosofici di non secondario rilievo per il dispiegarsi della sua speculazione, quali
quelli connessi alla ragione, al pensiero, alla conoscenza, alla logica. La direzione
verso cui Blondel orienta questo ripensamento, e quindi la propria scelta, inclina,
per quanto concerne la conoscenza diretta e quella indiretta o scientifica, verso la
proposta di soluzioni che mettano in risalto i nessi teorici fra i due poli del binomio
al fine di inserire gli stessi in una dialettica circolare di reciproche influenze.

126
DANIELA MURGIA
nella messa in evidenza della sua intrinseca insufficienza a fondare una
conoscenza scientificamente valida, qualora non venisse supportata da
un metodo «indiretto», o scientifico, destinato secondo il filosofo a illuminarla
e a giustificarla ( 25 ).
A questo proposito, riteniamo rilevante il fatto che l’insufficienza
del metodo pratico per la fondazione di un’indagine scientifica venga
posta in evidenza da Blondel con riferimento all’emergere di situazioni
problematiche. Blondel sottolinea come nei momenti in cui le tradizioni
risultano infrante il male eserciti un fascino persistente sugli
uomini e l’esperienza della vita sia viziata da persistenti mancanze.
Proprio in quei momenti, si rinviene un bisogno di discussione e di
scienza e si scopre all’interno di queste prospettive la sola opportunità
per cercare il necessario “supplemento” alla spontaneità morale, limitata
nella sua efficacia perché rivolta alle sole situazioni ottimali ( 26 ):
«C’est donc une science de l’action qu’il faut constituer; une science, qui
ne sera telle qu’autant qu’elle sera totale, parce que toute manière de
penser et de vivre délibérément implique une solution complète du
problème de l’existence; une science, qui ne sera telle qu’autant qu’elle
déterminera pour tous une solution unique à l’exclusion de toute autre.
Car il ne faut pas que mes raisons, si elles sont scientifiques, aient plus de
valeur pour moi que pour autrui, ni qu’elle laissent place à d’autres
conclusions que les miennes.» ( 27 ).
Il porsi del problema speculativo relativamente alla pratica, come
suggerisce il passaggio sopra riportato, viene ricondotto da Blondel alla
( 25 ) Su questo aspetto, si veda in primo luogo: M. BLONDEL, L’Action (1893),
Introduction, pp. XI-XXV [68-79]; Conclusion, pp. 469-470 [579-581].
( 26 ) Un passaggio degno di nota, a testimonianza di quanto espresso ci appare
il seguente: «Quand les traditions sont rompues, comme elles le sont; quand la règle
des mœurs est entamée presque sur tous les points; quand par une étrange corruption
de la nature, l’attrait de ce que la conscience populaire nomme le mal
exerce sur tous une sorte de fascination, est-il possible d’agir toujours avec l’heureuse
et courageuse simplicité que n’arrête aucune incertitude et que ne rebute aucun
sacrifice? […] Et si de continuelles défaillances gâtent l’expérience de la vie, si
la première sincérité est perdue, s’il se dresse devant la route l’irréparable passé
d’un acte, ne faudra-t-il pas recourir à une voie indirecte? Et la réflexion, provoquée
par l’obstacle même, n’est-elle pas nécessaire, comme une lumière, pour retrouver
la route égarée? Née souvent d’une curiosité orgueilleuse ou sensuelle, la
présence du mal, […] y produit a son tour un besoin de discussion e de science.
Ce complément ou ce supplément de la spontanéité morale, il faut donc le chercher
dans des idées aussi scientifique que possible.». M. BLONDEL, L’Action
(1893), cit., pp. XVI-XVII [72-73].
( 27 ) Ibid., p. XVII [73].

Verso una «science du concret»
necessità e all’urgenza vitale di perseguire un ideale di “scienza” che
conduca a soluzioni uniche per tutti. Soluzioni, la cui elaborazione,
tuttavia, non si avvalga di soli metodi operanti per esclusione – tali,
cioè, da eliminare qualsiasi falsa spiegazione di un fatto e da mettere lo
spirito di fronte alle sole condizioni che rendano possibile l’enunciazione
della legge ( 28 ). La scienza ideale blondeliana, dovrà, invece, avvalersi
di procedimenti che, facendo tesoro del rigore espresso dai primi
e con essi coniugandosi, siano in grado di «transporter dans la critique
de la vie ce que cette méthode indirecte a d’essentiel.» ( 29 ).
Alla base dell’inadeguatezza della science abstraite de la pensée a supportare
una science de la pratique o de la vie, quindi, viene posto il diverso
procedimento metodologico che le caratterizza in relazione alla
modalità con la quale l’una e l’altra costruiscono le proprie leggi. Per
quanto riguarda la scienza astratta, il filosofo individua tale procedi-
( 28 ) È palese, seppure implicito, il riferimento blondeliano a Descartes. Così, infatti,
si esprime Blondel: «[…] c’est cette voie indirecte qui seule est celle de la science,
parce que partant du doute et éliminant systématiquement toute chance d’erreur
et toute cause d’illusion, elle ferme toutes les issues sauf une: dès lors la vérité s’impose,
elle est démontrée.». M. BLONDEL, L’Action (1893), cit., p. XVIII, [74]. Seppure
Blondel non si riferisca spesso a Descartes, segnaliamo: M. BLONDEL, Le christianisme
de Descartes, Revue de métaphysique et de morale, t. 4, juillet 1896, pp. 551-567;
M. BLONDEL, L’illusion idéaliste, cit., in part. pp. 210-212; M. BLONDEL, Le point de
départ de la recherche philosophique, cit., pp. 566-569; M. BLONDEL, Cartesio, Malebranche,
Spinoza, Pascal. Saggi di storia della filosofia, a cura di O. Arcuno, La
Nuova Italia, Firenze, 1974. L’interesse del testo oltre che alla raccolta dei saggi
blondeliani, è da ricondurre alle lettere inedite riportante in Appendice e alla Lettrepréface
intitolata: Il metodo e la funzione della storia della filosofia.
( 29 ) M. BLONDEL, L’Action (1893), cit., p. XVIII [74]. È evidente che la proposta
metodologica blondeliana relativa alla «scienza del concreto» non mira a escludere
il metodo indiretto-scientifico o ad avvalorare unicamente quello pratico. Il
filosofo, contrariamente a quanto alcuni critici affermano, mal interpretando a
nostro avviso “l’antiscientismo” blondeliano, dopo aver messo a confronto i due
procedimenti e averne valutato in chiave critica la genesi e gli sviluppi in riferimento
alla science du concret, attribuisce valore alla prospettiva dell’integrazione
dei due metodi. Questi, nella loro imprescindibile diversità, se ben coniugati, contribuiscono
entrambi a risolvere, fin quanto è possibile, l’intricatissimo problema
del destino dell’uomo. Da un lato, quindi, Blondel si propone di mostrare che «il
y a une logique de l’action, et que l’enchaînement des opérations volontaires est
soumis à un rigoureux déterminisme», dall’altro, che «l’expérimentation pratique
comporte une suffisante clarté; qu’elle supplée à la science, sans que la science y
supplée; qu’elle offre une exactitude, scientifique à sa manière, même quand cette
discipline morale est destituée de toute justification théorique» e, cosa ancor più
complessa e centrale per supportare teoricamente quanto propone, di mostrare
«l’unité de la solution.». Cfr. Ibid., pp. 469-470 [580]. Cfr. inoltre: M. BLONDEL,
L’illusion idéaliste, cit.
127

128
DANIELA MURGIA
mento nella eliminazione della contraddittorietà mediante l’esclusione,
per quanto concerne, invece, la scienza pratica, nella perenne possibilità
di conciliare, sul piano dell’azione, i cosiddetti elementi contrari che
in questo modo permangono nella sintesi come contestuali.
Relativamente alla problematica che abbiamo indicato in questa
parte del lavoro, il discorso blondeliano acquista una complessa serie
di articolazioni che invitano a sottolineare il legame di fondo tra la fondazione
di una scienza della pratica, e l’assunzione da parte di questa di
un rinnovato strumento logico, la Logique de L’Action, anche definita
come Canonique generale e come Logique de la vie morale ( 30 ). La rilevanza
di questo nuovo strumento è connessa alla reciproca appartenenza
al suo interno di pensiero e azione che consente un’applicazione
meno restrittiva del principio di non contraddizione nella realtà, ben
oltre la scissione di logica formale e logica applicata ( 31 ). La totalità che
caratterizza la logica dell’azione rispetto a «les formes particulières de
la logique» ( 32 ) – totalità teorica che la rende appunto una canonique
générale le cui forme logiche particolari non sono che degli échantil-
( 30 ) I nessi fra il problema logico e la costituzione di una scienza del concreto –
trascurati da una pur vastissima bibliografia critica su Blondel – potrebbero rappresentare,
a nostro avviso, un’importante direzione in cui rileggere gli interventi
blondeliani che più da vicino interessano la costituzione di una logique du concret:
M. BLONDEL, Ebauche de logique générale. Essai de Canonique générale, 10 février
1894, pubblicato postumo in Revue de Métaphysique et de Morale, janvier-mars,
n. 1, 1960, pp. 7-18; M. BLONDEL, L’Action, cit., Conclusion, pp. 467-492 [577-603];
M. BLONDEL, Principe élémentaire d’une logique de la vie morale, cit.; M. BLONDEL,
L’Etre et les Etres. Essai d’Ontologie concrète et intégrale, P.U.F., Paris 1963, II ediz.
[tr. it. L’Essere e gli Esseri, Saggio di ontologia concreta e integrale, a cura di M.F.
Sciacca, Brescia, La Scuola Editrice, 1952] in particolare: Logique générale et normative
ontologique, pp. 468-485 [350-364].
( 31 ) Sull’opposizione fra logica formale e logica applicata in direzione della teorizzazione
di una logica del concreto, rinvio in particolare al breve e molto significativo
scritto del 1894 Ebauche de logique générale. Essai de canonique générale. Si
tratta, secondo Blondel, di un semplice abbozzo nel quale, a nostro avviso, è rinvenibile
come già matura la concezione di una logica dell’azione in riferimento
alla logica del pensiero. Il carattere puramente analitico della logica formale, rende
quest’ultima arbitraria in quanto non la rende capace di riconoscere la valenza dell’attività
mentale e dell’apporto offerto dallo spirito nella sintesi intellettuale.
( 32 ) M. BLONDEL, L’Action (1893), cit., p. 471 [582]. Sul particolare carattere
della logique générale e sulla posizione di privilegio che possiede rispetto alle singole
logiche si rinvia anche al contributo blondeliano datato 1910 al Vocabulaire technique
et critique de la Philosophie André Lalande sul termine Logique. Cfr. M.
BLONDEL, «Collaboration au Vocabulaire de Lalande» art. «Logique», in Bulletin de
la Société de philosophie, t. 10, juillet, 1910, pp. 177-178; anche in: Œuvres complètes,
Tome II 1888-1913, cit., p. 692.

Verso una «science du concret»
lons – consente alla stessa di operare in una prospettiva nella quale è
compreso e ammesso anche quanto viene eliminato nel normale delinearsi
del processo di costruzione delle conoscenze e delle leggi. Ci si
riferisce, in particolare, a quello che Blondel, nell’Ebauche de logique
générale. Essai de canonique générale, chiama il fondamento sintetico di
qualsiasi atto logico, a suo avviso, «intimement liée à l’exercice de
notre activité spécifique» ( 33 ), sempre legato a «une initiative de
l’esprit inventif et constructeur» ( 34 ), a una costruzione creatrice che
ha la propria origine direttamente nel soggetto, nei suoi desideri e
nella volontà. Tutti elementi, questi, che il filosofo, a pieno titolo considera
come nuclei centrali della complessa attività intellettuale e logica
dell’uomo. Quanto appena espresso, risulta un passaggio fondamentale
al fine di far emergere, insieme, la connessione e la peculiarità
della scienza del concreto rispetto alle scienze astratte grazie all’azione.
Quest’ultima, di fronte a elementi contrari, opera, infatti, in direzione
di «une synthèse expérimentale» ( 35 ) degli stessi, e funge, così, da elemento
di mediazione teorico-pratico fra il pensiero e la vita, rivalutando
nei procedimenti logici, l’istanza soggettiva e sintetica dello spirito:
129
«L’alternative qui s’impose à toute conscience d’homme – afferma Blondel –
et qui seule nous met, dans la pratique même, en face des contradictoires, ne
fait que révéler le jeu de ce dynamisme interne. D’autre part, comme la
volonté, – elemento determinante dell’azione – en optant selon les conditions
qu’elle impose a son propre développement, ne supprime pas le terme de l’alternative
qu’elle repousse, il en résulte que, quoi qu’elle ait choisi, elle garde
( 33 ) M. BLONDEL, Lettre préface alla prima edizione della traduzione di M.
BLONDEL, Principe élémentaire d’une logique de la vie morale, a cura di Enrico Castelli,
Roma, Angelo Signorelli Editore, 1924, pp. 5-11, citaz. p. 7. La presente
lettera si rinviene in traduzione italiana nell’edizione Guida del Principe élémentaire
d’une logique de la vie morale curata da Pietro Piovani nel 1969, in appendice,
pp. 37-42, citaz. p. 38.
( 34 ) M. BLONDEL, Ebauche de logique générale. Essai de canonique générale, cit.,
p. 11.
( 35 ) M. BLONDEL, L’Action (1893), cit., p. 472 [582]. Il ruolo dell’azione in
questi passaggi non è certamente secondario in relazione soprattutto al fatto che la
diversa costitutiva articolazione del punto di vista speculativo e del punto di vista
pratico portano Blondel a intendere diversamente la contraddizione e la conciliazione,
proprio mediante il concetto di azione. Laddove sul piano dell’azione –
quindi di fatto – acquista rilevanza la contestualità fra ciò che si fa e ciò che non si
fa e le tendenze contrarie vengono conciliate, nel versante formale, ciò che si rivela
impossibile è proprio questa conciliazione in quanto la logica formale esclude ciò
che non rientra nella sintesi finale. Per approfondimenti si veda: M. BLONDEL,
L’Action (1893), cit., p. 471 [582].

130
DANIELA MURGIA
en elle la présence du terme exclu comme un élément de la synthèse qu’elle
forme. Ce dont elle se prive, stevrhsi~, n’est pas absolument hors d’elle.
Voilà pourquoi le sacrifice qu’elle peut faire des phénomènes, par la
mortification, n’est qu’apparent» ( 36 ).
Alla luce del percorso finora svolto, ci sembra di poter rinvenire
in L’Action le basi fondamentali della blondeliana «science du concret»
nel loro primo articolarsi in riferimento alla critica della vita e
alla scienza della pratica le quali, come abbiamo messo in evidenza,
ne costituiscono l’iniziale caratterizzazione. In questa direzione, oltre
che la dialettica vitale di pensiero-azione e il tentativo di rispondere
al quesito esistenziale sul destino dell’uomo, svolgono un importante
ruolo il definirsi metodologico di una scienza della pratica
in relazione all’interazione di metodi diretti-pratici e metodi indiretti-speculativi.
Si attesta, infine, la necessità per una scienza della pratica
di approntare e utilizzare un nuovo strumento logico.
3. La «scienza» tra conoscenza e «pratique de l’action-pensée». – Nel
prendere in considerazione gli sviluppi più significativi della riflessione
blondeliana compresi tra anni 1893 e 1928 e relativi ai fonda-
( 36 ) Ibid., p. 473 [583]. In riferimento alla rivisitazione da parte di Blondel del
principio di contraddizione in rapporto alla costituzione di una logica del concreto,
rinvio in particolare alle articolazioni emerse, successivamente a L’Action, all’interno
di Le Principe élémentaire d’une logique de la vie morale. Rispetto all’incompatibilità
e alla contraddittorietà, che per loro stessa costituzione non ammettono
la possibilità di una qualche conciliazione e si fondano sulla négation o sull’affirmation,
Blondel predilige la contestualità e la conciliazione che si fondano sulla
prospettiva della possession e della privation e scrive a questo proposito: «La nozione
della stevrhsi~, come già sottolineava Aristotele, implicava la privazione di alcunché
di dovuto o naturale, e il cui possesso era acquisito o potrebbe o dovrebbe
esserlo. Ora, dal momento che un’esigenza è radicata nella natura di un agente, sia
che egli la soddisfi, sia che egli la respinga o la misconosca, sempre essa ha un seguito,
sempre essa svolge delle conseguenze correlative agli impieghi contrari dell’attività,
sempre serve da punto fisso di paragone e dell’assoluto termine di giudizio,
quando si tratta di apprezzare la soluzione del problema posto dalla vita secondo
una legge immanente alla vita stessa. Mentre l’ajpovϕasi~ sopprime il concetto
negato senza che gliene resti traccia, la stevrhsi~ lascia nella potenza che poteva
realizzarla le stigmate dell’atto che recide. E la e{xi~ che segue non è identica
alla e{xi~ che precede la stevrhsi~. I rapporti delle idee si troncano con un si ed un
no; è detto tutto: è come una geometria piana dove due linee si tagliano in un sol
punto. Le reali relazioni sono organiche all’infinito, sempre infallibilmente riflesse
e integrate». M. BLONDEL, Principe élémentaire d’une logique de la vie morale, cit.,
p. 26. Cfr., inoltre, F. SALVO, La logica della vita morale in Maurice Blondel, Ed.
Palumbo, Palermo 1942, pp. 117-149, 172-181, 207-212.

Verso una «science du concret»
menti filosofici del metodo d’indagine che la «scienza del concreto»
dovrebbe far proprio, ci sembra di poter assumere come punto di partenza
la questione circa la centralità del problema della conoscenza.
Un problema che, solo negli scritti successivi a L’Action ( 37 ), acquista
spazio fra gli interessi speculativi di Blondel e rilevante spessore teorico
in relazione al definitivo delinearsi della science du concret.
Come abbiamo già avuto modo di evidenziare a proposito della
«scienza della pratica» e della «critica della vita», l’interesse blondeliano
nei confronti del concreto è un interesse marcatamente “scientifico”,
teso cioè ad analizzare rigorosamente la realtà per spiegarne il
funzionamento mediante leggi. Si tratta del tentativo di rifondazione
della scienza sull’uomo, tentativo che appare, nel contempo, profondamente
antiscientifico se si considera il significativo ruolo al suo
interno riconosciuto alla volontà e alla soggettività umana. Pertanto,
risulta di fondamentale importanza chiarire la posizione che assume
la «scienza del concreto» all’interno della più generale concezione
blondeliana della conoscenza e, nella fattispecie, della conoscenza filosofica
( 38 ).
( 37 ) Gli scritti cui si fa riferimento sono quelli citati all’inizio del presente intervento,
noti per le valenze gnoseologiche che li contraddistinguono e pubblicati
da Blondel fra il 1898 e il 1930. Non si vuole certamente ridurre la considerazione
della teorizzazione blondeliana relativa a queste problematiche a questi soli interventi,
ma è pur vero che negli scritti gnoseologici, Blondel affronta in maniera
più diretta il problema della conoscenza e per questo motivo costituiscono materiale
privilegiato per l’analisi che ci proponiamo di sviluppare.
( 38 ) Sulla possibilità e i caratteri di un’autentica conoscenza filosofica, distinta
dalle altre forme di conoscenza, rinvio in particolare a Le point de départ de la recherche
philosophique, il solo lavoro comparso negli Annales de la Philosophie
chrétienne che porta la firma di Blondel. Dopo aver analizzato nel dettaglio i caratteri
della prospezione e della riflessione, due modalità conoscitive che Blondel rifiuta
di considerare come alternative, il filosofo s’interroga sull’esistenza, per la filosofia,
di una forma di conoscenza specifica. Scrive Blondel in riferimento alla
connaissance philosophique: «Y a-t-il une connaissance qui merite ce nom précis?
Et, si oui, où va-t-elle s’attacher? Sera-ce à la prospection? Sera-ce à la réflexion?
Partira-t-elle de la première, ou de la seconde? De l’une, à travers l’autre qui en serait
regardée comme le prolongement ou le complément? De l’une en face de l’autre
qui en serait regardée comme la parallèle, ou l’original? Ou bien la recherche
philosophique, après qu’elle en aura déterminé le rapport, sera-t-elle encore distincte
de l’une et de l’autre?». M. BLONDEL, Le point de départ de la recherche philosophique,
cit., p. 535. Di non secondario interesse, al fine di schiarire i caratteri
della conoscenza filosofica, è il contributo blondeliano al Vocabulaire Lalande, ai
termini Philosophie e Prospection, contributo per il quale rinvio, oltre che allo stesso
Vocabulaire technique et critique de la Philosophie, a: M. BLONDEL, Œuvres Complet,
II, cit., p. 803 e pp. 806-807.
131

132
DANIELA MURGIA
Quanto Blondel aveva messo in risalto ne L’Action riguardo allo
strutturarsi metodologico della science de la pratique – ovvero, l’insufficienza
del solo metodo diretto o indiretto – costituisce l’assunto
basilare sul quale il filosofo, a partire dal 1898 con L’illusion idéaliste,
innesta la discussione relativa al problema della conoscenza ( 39 ).
La risposta a P. Marie-Benoit Schwalm, il quale accusa Blondel di
phénoménisme kantien ( 40 ) in riferimento a la Lettre sur les exigences
de la pensée contemporaine ( 41 ), costituisce l’occasione per il filosofo
di porre in evidenza la rilevanza che assume sul piano teorico il nesso
fra la concezione del pensiero propria dell’idealismo e quella propria
del realismo e l’idea della conoscenza che da queste deriva. In
qualità di elemento più significativo emerge a questo proposito il
fatto che la proclamata sufficienza dell’analisi speculativa proposta
dall’idealismo abbraccia una concezione del pensiero deviante rispetto
a quella considerata da Blondel come la sola valida in relazione
( 39 ) In questa sede, la teorizzazione blondeliana relativa al problema della conoscenza,
verrà presa in considerazione in riferimento unicamente a quegli aspetti
che più da vicino interessano la costituzione della «science du concret», tralasciando,
quindi, tutta una serie di problematiche alle quali la tematica in questione
pure richiama.
( 40 ) Per un bilancio complessivo circa il rapporto fra la filosofia kantiana e il
pensiero blondeliano rinvio a: M. BLONDEL, Histoire de la Philosophie. Doctrine de
Kant sur la connaissance, comparée à celle de Hume et de Leibniz, pubblicato insieme
ad un altro inedito in Bulletin des Amis de Maurice Blondel, n. 15, novembre 2000,
pp. 13-20; C. TROISFONTAINES, Entre la force et la forme, l’action le parcours blondelien,
in: P. MAGNARD (ed.), Métaphysique de l’esprit, Paris, Editions Vrin, 1996,
pp. 235-248; P. HENRICI, Maurice Blondel di fronte alla filosofia tedesca, Gregorianum,
vol. 56, n. 4, 1975, pp. 615-638, in part. pp. 621-626; J. KOPPER, La signification
de Kant pour la philosophie française, Archives de Philosophie, n. 44, 1981,
pp. 63-83; F. MARTY, Le milieu Kantien, in: Dossier du Centenarie de L’Action de
Maurice Blondel, 17 mai 1993, Revue de l’Institut Catholique de Paris, n. 48, septembre-décembre,
1993, pp. 73-83; E. BASTIN, La norme ou la fin. La critique du
formalisme moral dans L’Action (1893) de Maurice Blondel, in: Droit et vertu chez
Kant, Actes du III Congrès de la Société Internationale d’Etudes Kantienne de Langue
Française, Athènes 14-17 mai, Union Scientifique Franco-Hellénique, 1997.
Non mancano valide indicazioni in relazione al rapporto di Blondel con Kant e in
particolare con il kantismo francese di fine Ottocento nel recente lavoro di J. Leclercq
al quale rimando: J. LECLERCQ, Maurice Blondel lecteur de Bernard de Clairvaux.
Préface de Jean Ferrari, Bruxelles, Lessius, 2001, in part. Chapitre IV, 2, pp. 178-
198.
( 41 ) M. BLONDEL, Lettre sur les exigence de la pensée contemporaine en matière
d’apologétique et sur la méthode de la philosophie dans l’étude du problème religieux
(1896), oggi in: M. BLONDEL, Oeuvres complètes, Tome II 1888-1913, cit., pp. 97-
173.

Verso una «science du concret»
alla possibilità di conoscere effettivamente la realtà concreta nella
sua completezza, senza misconoscere il ruolo assunto in questo processo
dalla soggettività umana ( 42 ). Un pensiero, questo, che si caratterizza
innanzitutto per essere: «un acte concret, vivant, plein» in
grado di fornire alla riflessione le «but à découvrir et le moyen progressif
d’y atteindre.» ( 43 ). Si tratta di un pensiero che non rifiuta il
contatto conoscitivo con le «conditions mêmes de notre vie mentale»
ma che si attiva per rivelarci «l’inadéquation toujours renaissante de
ce que nous connaissons et de ce que nous sommes […] pour tendre,
par l’action conforme à la pensée, à une adéquation progressive
de la pensée avec l’action» ( 44 ).
Alla luce delle considerazioni fin qui svolte, la teorizzazione blondeliana
della science du concret, seppur in assenza di legami diretti con
lo scritto del 1898, trova nei passaggi che abbiamo presentato non
pochi elementi atti a chiarirne la posizione in merito alla questione
relativa all’identificazione dell’azione con l’idea dell’azione, del concreto
con l’idea di concreto. Va osservato, infatti, che la proposta teorica
blondeliana di una science du concret, seppure si qualifichi in positivo
grazie all’interazione di pensiero e azione, trova un suo importante
assunto nella precisa distinzione sul piano teorico fra i due elementi
per quanto attiene al ruolo esercitato dagli stessi all’interno del processo
conoscitivo.
L’atto del pensare l’azione, quindi, non può autorizzare a non agire,
perché ciò equivarrebbe a negare che ogni pensiero si qualifichi
in positivo per essere insieme atto e conoscenza e che ogni conoscenza
teorica acquisti vitalità e valenza in funzione dell’azione che ne segue.
Afferma Blondel:
133
( 42 ) Sulla valenza che il soggettivo ha all’interno della problematica della conoscenza,
e sulla seguente apertura della scienza alla vita del mondo interiore cfr. M.
BLONDEL, L’Action (1893), p. 102 [196]. Si rinvia, inoltre, a: V. DELBOS, Philosophie
française, Avertissement de M. Blondel, Paris, Imprimeurs-Editeurs, 1921,
dove un punto centrale del discorso del filosofo è costituito dalla polemica anti
comtiana in riferimento proprio alla rivalutazione del soggettivo nel processo di
produzione della conoscenza. Sul discorso scientifico in riferimento alla soggettività
dell’uomo cfr. A. FABRIZIANI, “Vinculum substantiale” e fondazione scientifica
della soggettività umana in Maurice Blondel, in: Il problema dell’antropologia, Padova,
Ed. Gregoriana, 1980, pp. 113-121. Ci sembra indicativo che la studiosa metta in
risalto come l’attenzione blondeliana al soggettivo, ancor prima che in L’Action, di
cui è certamente un argomento peculiare, sembra trovare riscontro nel Vinculum
Substantiale.
( 43 ) M. BLONDEL, L’illusion idéaliste, cit., p. 208.
( 44 ) Ibid., p. 209.

134
DANIELA MURGIA
«Car, la représentation mentale étant toujours hétérogène à l’acte dont elle
est issue, la connaissance, […], n’est jamais qu’un moyen de passer outre, et
d’agir au-delà. Tout statique de la pensé est fausse; toute philosophie, murée
dans son autonomie intellectuelle est fermé aux exigences de la pratique, est
illégitime. Il semblait qu’il fallut ou bien que la pensée fut tout, […]. Non,
elle n’est ni tout, ni rien […]elle ne conserve sa vitalité et son prix qu’en
devenant lumière et force au service de l’activité qui la réalisera.» ( 45 ).
In relazione al legame posto dal filosofo fra la validità della conoscenza
e la sua applicabilità mediante l’azione, nei primi anni del
Novecento, la «scienza del concreto» si arricchisce di nuove articolazioni
derivanti dall’analisi della conoscenza come prospection e come
réflexion, concetti che Blondel svolge in Le point de départ de la recherche
philosophique. In particolare, si rileva un certo interesse nei
confronti di quanto il filosofo in quest’opera esprime a ulteriore
chiarimento dei rapporti fra pensiero e azione e al seguente delinearsi
della conoscenza filosofica.
Contro l’impostazione tipicamente bergsoniana – espressione di
un «intuizionismo sistematico» non meno «chimerico» né meno «ingannevole»
dell’intellettualismo ( 46 ) – che si limita a dire «in abstracto
e in genere, que la “pensée est un instrument d’action et cela
seulement”, comme si l’idée de la pratique suppléait à la pratique
même», Blondel mette in risalto l’urgenza di procedere a ricercare
«dans l’action un moyen de vérifier et d’enrichir la connaissance», e
a rinvenire «dans la connaissance un moyen d’éclaires et de préparer,
d’inventorier et de promouvoir l’action;» ( 47 ).
A partire da queste affermazioni, ci sembra lecito osservare che il
riportare la vera conoscenza alla prospettiva concreta non è opera-
( 45 ) Ibid., pp. 211-212.
( 46 ) In relazione al pensiero di Henri Bergson cfr. la lunga e significativa nota
di M. Blondel in Le point de départ de la recherche philosophique. Come emerge
dalle parole di apertura della nota, Blondel sente l’esigenza di non essere travisato
dal lettore a proposito della critica che si appresta a fare al filosofo a lui contemporaneo,
critica, che afferma non riguardare la speculazione bergsoniana nella sua
completezza, bensì unicamente il ruolo assegnato da Bergson all’intuizione. Cfr.
M. BLONDEL, Le point de départ de la recherche philosophique, cit., p. 542. Un altro
dei rari interventi blondeliani concernenti la speculazione di Bergson, lo si può ritrovare
in: M. BLONDEL, Il metodo e la funzione della storia della filosofia. Lettrepréface
a: M. BLONDEL, Cartesio, Malebranche, Spinoza, Pascal. Saggi di storia della
filosofia, a cura di O. Arcuno, cit., p. 5. Cfr. inoltre: C. BRUAIRE, Le droit du concept
chez Blondel et Bergson, in: Journées d’études Blondel-Bergson-Maritain-
Loysy, Centre d’Archives Maurice Blondel, 9-10 novembre 1974, cit., pp. 31-36.
( 47 ) M. BLONDEL, Le point de départ de la recherche philosophique, cit., p. 544.

Verso una «science du concret»
zione sufficiente al fine di individuare il proprio della vera conoscenza,
senza il completamento di quella che Blondel chiama «la pratique
de “l’action-pensée”» ( 48 ).
In questi passaggi è chiaramente delineata una concezione ben precisa
del pensiero e dell’azione, e, allo stesso tempo, un’idea, o forse un
ideale di conoscenza che, seppur privo di collegamenti espliciti con la
science du concret, sembra già comprendere in sé uno dei suoi tratti più
significativi. Una conoscenza, quella proposta, il cui elemento centrale
è rinvenibile ancora una volta nella possibilità di una vitale interconnessione
fra pensiero-azione, lungo la direzione di una dialettica circolare
fra i due termini che scopre la sua efficacia, non solo sul piano
speculativo ma nel continuo rinvio, oltre questo, alla vita.
L’aspetto che vorremmo mettere in evidenza e che appare un elemento
utile al fine di analizzare le ricadute di queste considerazioni
nella delineazione della science du concret, è rappresentato dal fatto che
l’apertura all’azione, al contatto con la vita e con la realtà, si rivela indispensabile
alla science du concret. E questo può venire attestato sia
sul piano metodologico – come abbiamo visto nella seconda parte di
questo lavoro – e, cioè, nel corso della costruzione della conoscenza,
sia anche, e soprattutto, sul piano pratico in riferimento alla concezione
dell’agire come elemento di ritorno nei confronti della realtà. Rapportando
questi presupposti alle indicazioni offerte da Blondel nella
discussione sulle concezioni dell’idealismo e del realismo, possiamo rilevare
che, tali concezioni non rappresentano validi modelli per la
«scienza del concreto» in quanto “ibridi” del più generale intellettualismo
e come quest’ultimo cristallizzate su posizioni che scindono «le
fait de pensée» dalla realtà e che sradicano l’idea da «ses origines vitales»
e dalla «vie subjective d’où elle procède» ( 49 ).
Tuttavia, non si vuole in questo modo dar valore al fatto che Blondel
dia indicazione di un modello definito della sua «scienza del con-
( 48 ) Ibid. Questo, anche il senso verso il quale Claude Troisfontaines chiarisce il
compito della filosofia in Blondel. Cfr.: C. TROISFONTAINES, La tache de la philosophie
selon Maurice Blondel, in: Journée Maurice Blondel, Colloque Dijon-Mayence,
30 avril 1988, Université de Bourgogne, E.V.D., 1989, pp. 73-89. Sulla concezione
blondeliana della conoscenza teorica come non fine a se stessa, cfr. J. REITER, ‘De
la lettre a l’esprit…’ Quelques reflexions sur la conception blondelienne de la connaissance
réelle, in: Journée M. Blondel, Colloque Dijon-Mayence, 30 avril 1988, cit.,
pp. 53-71, in part. pp. 56-78.
( 49 ) Si vedano al riguardo i passaggi finali de L’illusion idéaliste; cfr. inoltre: M.
BLONDEL, L’illusion idéaliste, cit., pp. 210-216, citaz. p. 215; M. BLONDEL, Le
point de départ de la recherche philosophique, cit., in particolare il punto n. II dell’articolo
di juin, pp. 560-569.
135

136
DANIELA MURGIA
creto». Al contrario, sembra significativo proprio il fatto che il filosofo
delinei, semmai, una concezione generale radicalmente opposta a quella
di un certo dilagante intellettualismo ( 50 ), nella quale gli sembra confluire
tutto lo sforzo secolare esercitato dalla filosofia nel tentativo di
condurre il pensiero quanto più vicino al reale, al concreto e al vivente,
con una maggiore considerazione dei fatti particolari e dell’individuale
e con il riconoscimento di una più alta dignità della vita interiore:
«Quoi en effet de plus conforme à l’effort séculaire de la philosophie que
d’amener la pensée à serrer de plus près le réel, le concret, le vivent; à tenir
compte du fait particulier, de l’individuel, de la personne; à estimer plus haut
dignité de la vie intérieure; à reconnaître la supériorité de l’amour et de
l’action sur la théorie; à avérer l’irréductible originalité de la pratique?» ( 51 ).
Alla luce delle testimonianze derivanti da numerosi passaggi degli
scritti di Blondel, ci sembra di poter rinvenire in una concezione
che rivaluti il contatto con il reale, con la vita e con il soggettivo, la
collocazione più opportuna per la science du concret blondeliana che
si orienta, infatti, proprio in direzione di una forma di intellettualismo
che non limita «l’intelligenza al razionalismo astratto e sistematico»
e che non si preclude la possibilità di «sorpassare, a profitto
dell’intelligenza stessa, questo ordine di astrazione e di raziocinazio-
( 50 ) Sul problema dell’intellettualismo e dell’anti-intellettualismo blondeliano,
in questa sede, si può soltanto dare sommaria indicazione dei passaggi più rilevanti
nei quali il filosofo mette in evidenza la particolare caratterizzazione del proprio
intellettualismo. Cfr. M. BLONDEL, Le vrai et le faux intellectualisme, Revue du
Clergé français, septembre, 1919, pp. 383-387 [tr. it. Il vero ed il falso intellettualismo,
in: Principio di una logica della vita morale, a cura di E. Castelli, Signorelli,
Roma 1924, pp. 54-60]. Nelle citazioni si utilizzerà la traduzione italiana. M.
BLONDEL, Intellectualisme, Bulletin de la Société française de philosophie, t. 9,
août 1909, f. 12, p. 278; M. BLONDEL, Le procès de l’intelligence, cit. In quest’ultimo
scritto, nel 1921, Blondel in una incisiva nota specifica quanto segue: «Le mot
intellectualisme, très employé en ces dernières et de façon très variable, est d’origine
assez récente. Je me souviens de l’avoir proposé comme néologisme a M. Ollé-
Laprune vers 1890, alors que nous conversions sur le livre qu’il préparait: La Philosophie
et le temps présent. A l’Ecole Normale, ainsi que le rappelle M. Brunschvicg,
M. Ollé-Laprune s’est servi de ce terme, avec une nuance péjorative.» e,
dopo aver messo in evidenza l’elemento a suo avviso peggiorativo di tale intellettualismo
in relazione alla pretesa di risolvere il problema dell’uomo unicamente
mediante la teoria, il filosofo continua: «[…] Souvent, aujourd’hui ce terme […]
signifie une doctrine selon laquelle la pensée spéculative ne suffit à elle même, se
constitue intégralement en soi et à part d’influences morales, ou même devient capable
d’absorber en elle l’explication de toutes les formes de la vie affective et volontaire.».
M. BLONDEL, Le procès de l’intelligence, cit., pp. 228-229.
( 51 ) M. BLONDEL, L’illusion idéaliste, cit., p. 216.

Verso una «science du concret»
ne» ( 52 ). Un intellettualismo la cui considerazione dell’intelligenza
sia arricchita di «risorse ulteriori […] per actum, habitum, connaturalitatem
et unionem» ( 53 ), che sia in grado di coniugarsi agevolmente
con la filosofia dell’azione, operando in modo che il pensiero riflesso
non viva «unicamente di astrazioni e concetti» e l’intelligenza
sia anche «vita, amore, azione» ( 54 ).
4. La «science du concret» e L’Itinéraire philosophique de Maurice
Blondel. – Il percorso fin qui seguito, grazie agli spunti interpretativi
offerti da L’Itinéraire philosophique de Maurice Blondel ( 55 ), si arricchisce
di nuovi sviluppi in relazione soprattutto alla concezione
blondeliana della singolarità e alla relativa teorizzazione dei principi
logico-concettuali che ne caratterizzano lo sviluppo.
In relazione all’apporto offerto dal testo nella delineazione della
science du concret sarebbe opportuno, a nostro avviso, ripensare alla
collocazione de L’Itinéraire philosophique all’interno della vasta bibliografia
blondeliana, riscattando lo scritto del 1928 dalla posizione
del tutto marginale che occupa al suo interno ( 56 ). Infatti, l’opera,
pubblicata dopo un lungo periodo di ‘silenzio speculativo’, venne
quasi naturalmente messa in ombra dagli scritti successivi – La Pensée,
L’Etre et les Etres, L’Action ( 57 ) – molto ricchi sul piano teorico,
137
( 52 ) M. BLONDEL, Le vrai et le faux intellectualisme, cit., p. 56. Per quanto più da
vicino concerne la delineazione del concetto di intelligenza, si veda lo scritto blondeliano
su Le procès de l’intelligence, comparso nel 1921 in tre fascicoli de La nouvelle
Journée da giugno a agosto e successivamente ripubblicato sottoforma di saggio in
un volume in Le procès de l’intelligence, Bloud & Gay, Paris 1922, pp. 217-306.
( 53 ) Ibid., p. 59.
( 54 ) Ibid., p. 60.
( 55 ) È opportuno osservare che i nuclei teoretici che più da vicino interessano
il problema della «scienza del concreto» vengono argomentati da Blondel in
L’itinéraire in maniera non sistematica. Il filosofo, infatti, non solo non spiega
analiticamente quanto afferma in risposta a Lefèvre, ma nemmeno analizza le motivazioni
di fondo della diversa centratura che egli sembra dare alle proprie considerazioni
e sulla quale, invece, Lefèvre non manca di porre l’accento.
( 56 ) Si rinvia alla bibliografia più completa degli studi su Blondel sino al 1975 proposta
da R. VIRGOULAY-C. TROISFONTAINES, Maurice Blondel. Bibliographie analytique
et critique. II. Etudes sur Maurice Blondel, 1893-1975, Peeters, Louvain, 1976 alla quale
in particolare mi sono riferita. Per quanto concerne, invece, la bibliografia del periodo
successivo, questa è reperibile presso la Albert-Ludwigs Universität Freiburg.
( 57 ) M. BLONDEL, La Pensée. La genèse de la pensée et les paliers de son ascension spontanée,
I Tome, Alcan, Paris 1934; M. BLONDEL, La Pensée. La responsabilité de la pensée

138
DANIELA MURGIA
più corposi per contenuto e dimensioni, certamente più significativi
per lo strutturarsi e definirsi sul piano teoretico della filosofia di
Blondel. Tuttavia, non si può fare a meno di osservare che la rilevanza
de L’Itinéraire è da connettersi – sul piano concettuale, come
su quello storico – anche alla sua collocazione in una posizione centrale
all’interno della speculazione blondeliana, posizione nella quale,
l’opera non appare unicamente rivolta al passato e limitata a guardare
retrospettivamente alla compiutezza di una riflessione già conclusa,
bensì si rivela proiettata verso il futuro. Verso quegli scritti degli anni
Trenta, meglio noti come Trilogie. Seppure il destino storiografico de
L’Itinéraire sia attualmente legato a soli brevi e sporadici riferimenti e
commenti, per lo più in nota, lo scritto ci sembra meritare maggiore
attenzione per il significativo strutturarsi al suo interno di orizzonti
problematici costitutivi del pensiero blondeliano ( 58 ).
et la possibilité de son achèvement, II Tome, Alcan, Paris 1934; M. BLONDEL, L’Etre et
les être. Essai d’ontologie concrète et intégrale, Alcan, Paris 1935; M. BLONDEL, L’Action.
Le problème des causes secondes et le pur agir, Paris, Alcan, 1936; M. BLONDEL, L’Action.
L’action humaine et les conditions de son aboutissement, Alcan, Paris 1937.
( 58 ) I soli scritti esplicitamente dedicati a L’Itinéraire philosophique sono le recensioni
che seguirono la pubblicazione dell’opera nel 1928. Seppure spesso, siano questi,
testi di circostanza, riteniamo opportuno darne indicazione in questa sede in
quanto, molti fra questi scritti colsero da subito i nuclei tematici portanti dell’opera.
Cfr.: J. CHEVALIER, L’itinéraire philosophique de Maurice Blondel, Les Lettres, 1 avril
1928, pp. 403-404; L. BEAUDOU, L’itinéraire philosophique de Maurice Blondel, Le
Van n. 89, mai 1928, pp. 149-159; H. GOUHIER, L’itinéraire philosophique de Maurice
Blondel, Les Nouvelles Littéraires, 5 mai 1928; R. D’ETIVEAUD, Le livre dont on
parle, «L’itinéraire philosophique de Maurice Blondel», 15 mai 1928, p. 317; J. CHA-
BANNES, Penser est un sport, Carnet de la Quinzaine, 19 mai 1928; J. WEHRLÉ, Un
métaphysicien du catholicisme, Les Lettres, 1 juin, 1928, pp. 165-173 (più che di una
recensione al testo, si tratta di una presentazione del pensiero blondeliano nel suo insieme);
R. DOURNON, L’itinéraire philosophique de Maurice Blondel, Jeunesse catholique,
11° année, n. 165, 3 juin 1928; H. URTIN, L’itinéraire blondelien, Chronique, Les
Cahiers du Sud, juin 1928, pp. 462-466; R. FERNANDEZ, L’itinéraire philosophique de
Maurice Blondel, La Nouvelle Revue française, 1 septembre 1928, pp. 423-426; L.
ROURE, L’itinéraire philosophique de Maurice Blondel, Les Etudes, 20 octobre, 1928,
pp. 243-245; A. ETCHEVERRY, La philosophie de Maurice Blondel, Archives de Philosophie,
vol. VI, Cahier IV, 1928, pp. 33-42. Non priva di significato ci appare la lettera
di Henri Bremond a Blondel del 13 avril 1928 in: MAURICE BLONDEL ET HENRI
BREMOND, Correspondance, Combats pour la prière et pour la poésie (1921-1933), Editions
Aubier-Montaigne, Paris 1971, pp. 319-321. È doveroso, inoltre, seppur non
sia riuscita a reperire la completa indicazione bibliografica, fare almeno un cenno ad
altri interventi comparsi nel Maggio del 1928 che ho avuto modo di visionare presso
il Centre d’Archives Maurice Blondel a Bruxelles-Louvain-La-Neuve. Piccoli ritagli di
riviste, con la data scritta a penna in cui l’autore è segnalato con le sole iniziali, offrono,
al pari degli altri interventi, validi spunti critici di cui si è tenuto conto.

Verso una «science du concret»
Alla luce delle risultanze della nostra indagine, riteniamo utile
sottolineare, inoltre, che le indicazioni offerte da L’Itinéraire philosophique,
rappresentano il risultato più maturo di un percorso filosofico
che, alla fine degli anni Venti, per quanto attiene alla teorizzazione
delle coordinate fondamentali della «scienza del concreto»,
Blondel ci sembra aver già interamente percorso. Con questo, si
vuole mettere in risalto il fatto che, in questa fase della speculazione
blondeliana, alla particolare curvatura assunta dalla «scienza del concreto»,
non sono estranee le considerazioni svolte dal filosofo alla
fine dell’Ottocento e nei primi vent’anni del Novecento in relazione
alla dialettica di pensiero e azione, di conoscenza diretta e indiretta,
alla fondazione di un nuovo strumento logico e alla concezione di
una più vitale articolazione della razionalità, del pensiero, e di un
rinnovato intellettualismo ( 59 ).
( 59 ) Non vorremmo in questa sede trascurare gli apporti che alla teorizzazione
blondeliana provengono dal milieu filosofico-culturale in particolare degli anni Venti,
del quale, anche solo per accenni, il filosofo offre utilissime indicazioni in
L’Itinéraire philosophique. Furono, quelli, anni nei quali emerse un notevole interesse
da parte di eminenti rappresentanti della riflessione filosofica francese nei confronti
della possibilità di un nuovo approccio verso lo studio filosofico della realtà
concreta. Le analisi svolte in questa direzione, portano a mettere in risalto l’urgenza
dell’individuazione di una prospettiva interdisciplinare nella quale filosofia, logica,
scienza, linguaggio, psicologia ecc. costituissero le articolazioni di una possibile analisi
filosofica du réel. Nell’impossibilità di analizzare dettagliatamente gli studi cui si
fa riferimento, mi limito in questa sede a dare indicazione di quanti risultano più
importanti in relazione agli sviluppi del pensiero blondeliano di quegli anni. Cfr: J.
CHEVALIER, L’idée et le réel, B. Arthaud, Grenoble, 1932. L’opera è una raccolta di
importanti saggi, di cui l’autore fece donazione a Blondel, scritti da Chevalier fra il
1923 e il 1929. Cfr. in particolare: La connaissance de l’individuel. La science et le
réel, pp. 11-68; La valeur de l’individuel. Le concept et l’idée, pp. 113-145. Per quanto
concerne gli studi di logica: E. GOBLOT, Le système de sciences. Le vrai, l’intelligible,
et le réel, Librairie Armand Colin, Paris 1922; E. GOBLOT, La logique des jugements
de valeur, Librairie Armand Colin, Paris 1927; seppur in una prospettiva completamente
diversa rispetto a Goblot: L. LÉVY-BRUHL, La morale et la science des mœurs
(1903), Felix, Paris 1927; L. LÉVY-BRUHL, Les fonctions mentales dans les sociétés inférieures
(1910), P.U.F., Paris 1951; L. LÉVY-BRUHL, La Mentalité primitive, P.U.F.,
Paris 1922. M. JOUSSE, Etudes de psychologie linguistique. Le style oral rythmique et
mnémotechnique chez les Verbo-moteurs, Gabriel Beauchesne Editeur, Paris 1924. In
particolare vorremmo segnalare la rilevanza del numero speciale dei CAHIERS DE LA
NOUVELLE JOURNÉE: Où chercher le réel, n. 9, Paris, Bloud & Gay, 1927, al cui interno
vengono raccolti importanti contributi. Oltre allo scritto di Chevalier su La
science e le réel, successivamente ripubblicato in J. CHEVALIER, L’idée et le réel, cit., le
Cahier comprende: A. FOREST, L’idéalisme moderne et le sens du concret, pp. 49-74;
V. CARLHIAN, Indviduel et général, pp. 77-94; A. BOUYSSONIE, Vie et réalité, pp. 97-
117; A. BRIDOUX, Le point de vue du psychologue, pp. 141-153; A. ROUAST, L’abstrait
et le concret dans le droit, pp. 157-179.
139

140
DANIELA MURGIA
Su queste basi, grazie anche agli stimoli offerti dal domandare di
Frédéric Lefèvre, il filosofo, in L’Itinéraire philosophique, offre al lettore
tutte le coordinate essenziali del percorso seguito, teorizzando
una “science” intesa come punto d’incontro fra le “esigenze” della filosofia
del concreto, il rigore e la sistematicità dei processi scientifici,
e la rivalutazione della sfera inerente al soggettivo e all’individuale. È
ancora l’action a rappresentare il luogo cruciale del discorso blondeliano.
Se, come sostiene Blondel nel 1902 all’interno della lunga
nota inviata a Lalande sul termine Action, l’azione designa «quelque
chose ‘d’antérieur’ et par là meme à certaines égard de ‘superieur’ à
l’entendement réfléchi et à la pensée discursive» ( 60 ), è evidente che
secondo Blondel, non possa costituirsi una «scienza del concreto»
mediante il solo impiego del pensiero discorsivo. L’esigenza che sin
dai primi anni del Novecento ha animato la riflessione blondeliana,
ovvero quella di elaborare un trait d’union fra la scienza dell’azione e
le azioni particolari, in L’Itinéraire philosophique sembra svilupparsi
in un rinnovato esame del problema che palesa un particolare occhio
di riguardo da parte di Blondel nei confronti del ruolo assunto dal
soggetto agente. La singolare natura dell’azione, per la quale «elle
vient de l’universel, elle y retourne, mais en y introduisant du décisif»
( 61 ) e una sua considerazione come luogo geometrico d’incontro
fra il naturale, l’umano e il divino sono richiamati, nello scritto del
1928, come gli elementi costitutivi del redressement philosophique, al
quale Blondel auspica e la cui primaria ed essenziale tappa è costituita
dal passaggio «du monde des abstractions et des raprésentations au
monde des vérités présentes et de réalités substantielles.» ( 62 ). Il riconoscimento
dell’azione come «‘lien substantiel’ qui constitue l’unité
concrète de chaque être en assurant sa communion avec tous» ( 63 ),
( 60 ) M. BLONDEL, «Collaboration au Vocabulaire de Lalande» art. «Action», in
Bulletin de la Société de philosophie, t. 2, juillet, 1902, p. 190. Sugli interventi di
Blondel relativi alla parola Action cfr. inoltre: M. BLONDEL, Oeuvres complètes,
Tome II 1888-1913, pp. 338-345.
( 61 ) M. BLONDEL, L’Itinéraire philosophique de M. Blondel, cit., p. 36.
( 62 ) M. BLONDEL, L’Itinéraire philosophique de M. Blondel, cit., p. 41.
( 63 ) M. BLONDEL, L’Itinéraire philosophique de M. Blondel, cit., p. 36. Al concetto
di legame sostanziale, si lega la tesi di dottorato in latino del giovane Blondel:
De Vinculo substantiali et de Substantia Composita apud Leibnitium, alla quale,
nella versione francese elaborata e edita dallo stesso Blondel si rimanda: Une enigme
historique: le vinculum substantiale d’après Leibniz et l’ébauche d’un réalisme
supérieur, Paris, Beauchensne, 1930. C. Troisfontaines ha curato le successive edizioni
dell’opera: M. BLONDEL, Le lien substantiel et la substance composée d’après

Verso una «science du concret»
rappresenta, l’assunto fondamentale sul quale s’innesta la duplice esigenza
blondeliana di salvaguardare sia la prospettiva dell’individuo,
inteso come una unità concreta, sia la sua apertura, mediante l’azione,
a una prospettiva di riferimento che seppur a vasto raggio, non disperda
«ce qu’il y a de singulier, d’inédit, d’initiateur en chacun» ( 64 ).
A partire da questa esigenza, emerge agli occhi del filosofo l’inadeguatezza,
da parte di una scienza cristallizzata intorno alla «nozione
di generale», a garantire la salvaguardia dell’individuo, il quale all’interno
di una scienza «astratta» risulta fortemente compromesso
da procedimenti universalizzanti, viziati dalla fallacia dei loro stessi
meccanismi di base. Al fine di ovviare a questa conseguenza, s’impone,
secondo Blondel, l’urgenza di una riconsiderazione linguisticoconcettuale
di termini quali: generale, universale, individuale, singolare,
spesso confusi anche dai «tecnici della filosofia» che li trattano
talvolta come equivalenti e talvolta come opposti.
Dopo aver associato i termini generale e individuale alla sfera della
lingua astratta e della conoscenza nozionale, Blondel mostra i difficili
equilibri che sottendono i rapporti fra generale e individuale affermando:
141
«Riflettete un istante alle rappresentazioni mentali che evoca la parola individuo:
scorgete una sorta di sistema chiuso, estraneo a tutti gli altri, conosciuto
e delimitato da ciò che c’è di proprio e d’irriducibile, un unicum, una sorta di
atomo del fenomeno. Nessun modo di farlo entrare tale e quale nell’unità
della scienza, unum. Allora non si guarda all’individuale stesso se non come
trasformato e traditore del generale, della nozione; mentre si devia dagli ‘accidenti
individuali’ come da un luogo di perdizione per lo spirito.» ( 65 ).
Per intendere quanto Blondel esprime in questi passaggi, ci sembra
non debba essere perso di vista il fatto che la totale estromissione
dell’individualità in ambito scientifico sia rinvenuta dal filosofo in
riferimento a una concezione della conoscenza di tipo nozionale e
che, pertanto, potrebbe non considerarsi valida qualora, per esempio,
si assuma come punto di riferimento quello di una conoscenza
reale e concreta.
Leibniz. Texte latin (1893), introduction et traduction par C. TROISFONTAINES,
Louvain-Paris, Nauwelaerts, 1972; M. BLONDEL, Œuvres Complet, I, 1893, les
deux thèses, P.U.F., Paris 1995, pp. 531-687 e «Compte rendu de la soutenance de
la thèse latine», pp. 747-760.
( 64 ) Ibid.
( 65 ) Ibid., pp. 43-44.

142
DANIELA MURGIA
‘Le frane dell’individuale’, così Blondel definisce la presenza dell’individuale
nell’unità della scienza, sono «il non vitale per eccellenza»
che invita a rifugiarsi sulle terrazze a picco del generale, ma, afferma
significativamente Blondel: «quale arbitrarietà in questo sequestro;
[…] quale strana scappatoia dichiarare, dopo aver fondato la
scienza sull’osservazione dei fatti, che essa non può scientificamente
ritornare alla pratica, ai fatti e agli atti.» ( 66 ).
Non esiste, quindi, secondo Blondel, una scienza reale del generale.
Una rivoluzione? Si domanda Frédéric Lefèvre ( 67 ): per il filosofo,
niente di rivoluzionario è contenuto nelle sue affermazioni che, al
contrario, sembrerebbero trovare ampia conferma nella tradizione filosofica.
Anzi, in particolare, nella più profonda aspirazione aristotelica
a voler cercare «l’être subsistant dans le concret» ( 68 ) anche se,
afferma Blondel, tale aspirazione viene presto tradita dalla concezione
della scienza che il grande maestro greco elabora in direzione di
un suo forte restringimento intorno al generico e al generale ( 69 ).
«E si è oscillato da una pretesa scienza del generale a una pretesa scienza dell’individuale,
rivali o nemiche l’una dell’altra, quando in realtà non c’è, per parlare
rigorosamente, né scienza reale del generale, ne scienza veritiera dell’individuale.
Ciò che dobbiamo prendere di mira e raggiungere, è una scienza del concreto
in cui il singolare e l’universale comunichino nel pensiero e nell’azione.» ( 70 ).
«On se trompe sur le concret si on l’identifie à l’individuel, au fait isolé: il
suppose, pour rester lui-même, l’insertion, l’adaptation constante, –
théorique et pratique – à ‘l’universel’, lequel est tout autre chose que le
‘général’.» ( 71 ).
( 66 ) Ibid., p. 44.
( 67 ) Afferma Lefèvre: «Ecco, infatti, delle espressioni insolite? Non è una rivoluzione
che alla lettera non c’è una scienza del generale? Non ve lo si perdonerà,
anche se testimoniate una simmetrica severità per l’individuale, detestato dagli
uni, idolatrato dagli altri.». Ibid., pp. 42-43.
( 68 ) Ibid., p. 43. Per quanto attiene ai nessi fra la logica blondeliana e la logica
aristotelica si rinvia in particolare a: S. D’AGOSTINO, Dall’atto al’azione. Blondel e
Aristotele nel progetto de “L’Action” (1893), Editrice Pontificia Università Gregoriana,
Roma 1999, in part. capitolo VII, pp. 383-425.
( 69 ) A questo proposito, Blondel sostiene che la prospettiva dell’ipostatizzazione
del generale inaugurata da Aristotele, si fonda su «imbrogli intrinseci» dai quali
nessuno è riuscito completamente a «trarsi fuori». Ibid.
( 70 ) Ibid., p. 42.
( 71 ) M. BLONDEL, Réponse à l’enquête: «La psychologie et la pratique», Les Etudes
Philosophique, t. 2, novémbre 1928, pp. 81-84. Il breve intervento blondeliano
offre notevoli spunti di riflessione in relazione ai rapporti fra la filosofia e la psico-

Verso una «science du concret»
In questi efficaci passaggi, ci sembra emergere il motivo filosoficamente
più rilevante della riconosciuta superiorità teorica della «scienza
del concreto», sia nei confronti di una «scienza del generale» sia in
quelli di una «scienza dell’individuale». Risultano fondamentali a questo
proposito, i nessi fra la scienza del concreto e la concezione dialettica
di pensiero e azione che, nella reciproca interconnessione che ne
caratterizza la costituzione, viene intesa, in questa fase della riflessione
blondeliana, come luogo di comunicazione fra universale e singolare.
Proprio in riferimento alla delineazione blondeliana dello status
di singolare e universale quali ‘termini’ e ‘dati’ dell’ordine reale, assistiamo
a significativi sviluppi della «scienza del concreto» in direzione
della sua connessione con la prospettiva aperta dall’universale-singolare.
Afferma Blondel:
143
«Il singolare è la risonanza in un essere originale dell’ordine totale, come
l’universale è presente in ciascun punto reale che contribuisce all’armonia
dell’insieme. Essi si accordano, quindi, e si abbracciano nel concreto che
come la stessa parola indica significa contemporaneamente un’unità espressiva
e distinta e una molteplicità effettiva e sintetica.» ( 72 ).
Pertanto, per ciò che concerne universale e singolare – come si
evince agevolmente da queste considerazioni – non sono valide le rigide
antitesi rilevate per i termini di individuale e di generale fra i
quali, in quanto concetti rigidi e antitetici, nell’ordine nozionale non
era ammesso alcun legame. Il concreto, al contrario, è luogo d’incontro
di universale e singolare, e può esserlo perché esso stesso è
contemporaneamente unità e molteplicità. Il discorso sulla scienza
del concreto, a questo punto, si allarga agevolmente sino a comprendere
al suo interno l’articolazione stessa dell’ordine reale concreto
nella sua globalità, che sembra scoprire i suoi elementi costitutivi
proprio nel concreto, nel singolare e nell’universale.
Accedere all’autentica scienza del reale, – così talvolta è definita la
science du concret – non rappresenta secondo il nostro autore un’im-
logia e fra quest’ultima e la «scienza del concreto». Non solo il filosofo ritiene che
la psicologia sia «l’entré de la philosophie», ma a suo avviso sembra essere anche,
«par excellence, la science du concret». Una psicologia così intesa, «s’applique en
même temps à la connaissance analytique ou notionnelle et à la connaissance concret
et réelle», acquista l’importante compito di salvaguardare una vera science du
concret «au duble sens du mot concret, qui s’applique simultanément au singulier
et à l’universel.».
( 72 ) M. BLONDEL, L’Itinéraire philosophique de M. Blondel. cit., p. 44.

144
DANIELA MURGIA
presa facile né è esclusiva prerogativa della filosofia ( 73 ). Richiede paziente
e completa dedizione alle ragioni di una logica del concreto e
di un pensiero non astratto «senza mai deragliare nell’astratto pur
servendosene, senza mai perdere di vista la prospettiva e il contatto
con il concreto» ( 74 ). Richiede, inoltre, da un lato la non omissione
di nessuna chiave fra quelle che possano dischiuderne la reale efficacia
in qualsiasi ambito, dall’altro la non assolutizzazione di alcuna di
quelle chiavi:
«Questa scienza autentica del reale, che malgrado tanti fallimenti la filosofia
ha sempre tenuto d’occhio e alla quale la nostra generazione aspira attraverso
tante nuove vie, è come difesa da molte serrature; ma per entrarvi,
non è sufficiente aprirne una o guardare dal buco di qualche altra; bisogna
padroneggiarle metodicamente tutte senza ometterne nemmeno una, nell’ordine
richiesto e ciascuna con la chiave adatta.» ( 75 ).
A conclusione del percorso seguito, sulla base delle risultanze della
nostra ricerca ci sembra opportuno evidenziare che l’ideale blondeliano
di una science du concret pone le basi – sul piano tematico,
come su quello metodologico – per una più approfondita analisi della
concezione blondeliana dell’uomo. Quest’ultima, infatti, nelle articolazioni
fondamentali che la caratterizzano, ci sembra svilupparsi
e acquistare spessore proprio nel delinearsi a partire da L’itinèraire
philosophique di una prospettiva della science du concret, quale momento
sintetico, espressione dell’esigenza di un universale rispettoso
della singolarità. Una scienza che, in ultima istanza, riteniamo si caratterizzi
nella speculazione blondeliana per essere una scienza dell’uomo
applicata all’uomo.
( 73 ) Nella direzione vers le concret, nello scritto del 1928, Blondel accosta alla
filosofia altri campi del sapere fra i quali, l’arte, la poesia e la letteratura hanno, in
particolare, un posto di rilievo. Cfr.: BLONDEL, L’Itinéraire philosophique de M.
Blondel. cit., p. 45, pp. 68-69.
( 74 ) M. BLONDEL, L’Itinéraire philosophique de M. Blondel. cit., p. 80.
( 75 ) M. BLONDEL, L’Itinéraire philosophique de M. Blondel. cit., p. 69.

GIUSEPPE PAULESU
PARTITO E DEMOCRAZIA IN ROBERT MICHELS:
IL CONFRONTO CON LA TEORIA POLITICA WEBERIANA
SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Suffragio universale e ruolo delle masse. – 3. Democrazia
e pluralismo. – 4. Il confronto con il dopoguerra.
1. Introduzione. – Lo studio della produzione politica di Robert Michels,
ha sempre offerto notevoli contributi all’intento di definire alcuni
tratti del processo di modernizzazione e democratizzazione che
riguardano l’intero ambito dell’impresa politica tra il XIX e il XX secolo,
in seguito all’introduzione del suffragio universale e alla nascita
dei moderni partiti di massa. Il rapporto che – sia sul piano umano
che intellettuale – lo legò a Max Weber, ma, soprattutto, il confronto
fra le posizioni teoriche e ideologiche accolte dai due studiosi nell’ambito
di due ricche e senz’altro complesse carriere intellettuali,
può inoltre fornire ulteriori dati e un ulteriore campo di riflessione
adatto a qualificare con maggior chiarezza il significato assunto dal
principio democratico nelle contingenze storiche e sociali che hanno
contrassegnato i primi decenni dell’epoca contemporanea. L’analisi
della teoria democratica michelsiana pertanto, pur ricoprendo un
più ampio spazio nell’ambito del presente studio, verrà affiancata a
quella che considera il modo in cui lo stesso ordine di problemi viene
affrontato dalla teoria politica di Max Weber. Oltre a permettere
di definire i debiti teorici che fino alla sua tarda produzione Michels
contrae nei confronti del suo amico e maestro, la principale utilità di
tale espediente vuole essere quella di caratterizzare la sua immagine
della democrazia attraverso il raffronto con la concezione democratica
weberiana, mettere in luce le principali fasi in cui si è sviluppata e
i limiti della sua attuabilità.
Lo studio dei rapporti che intercorrono tra queste due concezioni
teoriche, tuttavia, rischia di incorrere nelle difficoltà e nei limiti in-

146
GIUSEPPE PAULESU
terpretativi propri di una analisi che riduca il proprio campo di indagine
al solo ambito concettuale, se non si definisce almeno a grandi
linee il contesto storico in cui maturarono. Si tenterà pertanto di
attribuire un adeguato rilievo a quell’insieme di esperienze storiche,
biografiche e intellettuali che portarono ciascuno dei due autori ad
elaborare e a rivedere il senso e i criteri di adattabilità di alcune loro
vedute teoriche rispetto all’avvicendarsi di quei contesti politici nei
quali e intorno ai quali si sviluppò la loro indagine.
Partendo da tale premessa, si considererà come la produzione politica
di Max Weber trovi fondamento su un esame delle prerogative
assunte dalle dinamiche socio-politiche interne alla Germania postbismarckiana
fino alla costituzione della Repubblica di Weimar,
muovendo da un’ottica riconducibile al liberalismo borghese che finisce
per interrogarsi sul significato assunto dalla modernità nel più
ampio sistema politico occidentale.
A partire dai saggi sulla rivoluzione russa e in tutti gli scritti politici
fino a Parlament und Regierung ( 1 ) – Weber elabora un’ipotesi di
parlamentarizzazione del meccanismo istituzionale interno allo stato
tedesco secondo il modello inglese. Egli era convinto che la monarchia
parlamentare (specie nel caso della Germania post-bismarkiana)
fosse la migliore risposta possibile al complesso dei problemi che
sorgono sul terreno della politica moderna, soprattutto perché contribuirebbe
ad affermare un solido e duraturo equilibrio di poteri.
Riguardo a un contesto più generale inoltre, riteneva che attraverso
la competizione tra i partiti sul terreno del suffragio universale, fosse
possibile fare emergere quelle figure di autentici leaders che, una
volta portata a compimento la propria formazione politica nell’ambito
delle attività parlamentari, sarebbero stati capaci di porsi positivamente
e responsabilmente alla guida di uno Stato. Solo così sarebbe
poi stato possibile opporre un valido contrappeso alle tendenze illiberali
che pervadono la modernità, e che trovano un considerevole
supporto nell’espansione del potere burocratico. È solo apparentemente
che – come si cercherà di mostrare – tale ipotesi subirà un
completo capovolgimento in seguito alle tragiche conseguenze che la
fine del primo conflitto mondiale produsse nella realtà sociale e politica
della nazione tedesca. Data la delicatezza delle circostanze, infatti,
non bastava il sostegno di una guida che legittimasse soltanto
( 1 ) M. WEBER, Parlament und Regierung im neugeordneten Deutschland. Zur politischen
Kritik des Beamtentums und Parteiwesens, in Gesammelte Politische Schriften,
Tübingen, Mohr 1958 2 ; trad. it. Parlamento e governo nel nuovo ordinamento
della Germania, Laterza, Roma-Bari 1993.

Partito e democrazia in Robert Michels
legalmente il suo ruolo: la gravità del momento richiedeva anzitutto
che le masse potessero confidare nella figura carismatica di un leader
capace di rivolgersi alla loro natura emotiva rassicurandole.
Come quella weberiana, anche la produzione politica di Michels
coglie nelle contraddizioni intrinseche alle vicende storiche e alla
struttura sociale della Germania post-bismarckiana un continuo elemento
di confronto e acquista di certo una maggiore dignità scientifica
quando l’amicizia che per quasi un decennio legò lo studioso di
Colonia allo stesso Weber si tradusse in un condizionamento riscontrabile
a livello teorico. L’apporto weberiano gli permise infatti di
riorganizzare organicamente i frammenti della riflessione elaborata
durante l’esperienza giovanile nelle fila del socialismo e del sindacalismo
rivoluzionario, e combinarli successivamente con quell’apparato
di categorie politiche e sociologiche riconducibili all’élitismo moscoparetiano
in uno studio che si proponesse di esaminare le prerogative
assunte dal principio democratico all’interno dell’ambito realizzativo
individuato nel microcosmo del partito politico, per poi estenderne
le conclusioni al più ampio orizzonte compreso nel sistema politico
moderno. Nel portare avanti tale indagine, si vedrà come Michels
stabilisca velatamente una distinzione marcata tra una concezione
“romantica” e una “realistica” del partito politico; egli individua,
cioè, da una parte quei partiti – come quello socialdemocratico tedesco
e quello socialista italiano – sorti per rappresentare una precisa
“visione del mondo” e precise aspirazioni di classe che avrebbero dovuto
appagarsi con lo “scavalcamento” del potere costituito tramite il
mezzo rivoluzionario fino alla conquista dello stesso potere statale,
mentre, dalla parte opposta, riconosce nel moderno partito politico
di stampo borghese un’organizzazione di massa, dal carattere interno
fortemente oligarchico e finalizzata al raggiungimento del massimo
numerico nel campo della competizione elettorale ( 2 ). Dal confronto
tra queste opposte concezioni, e di entrambe con un’immagine della
democrazia che è stata definita «etimologica» ( 3 ), intende dimostrare
( 2 ) «Nel periodo degli epigoni di Marx – scrive Michels nella Soziologie – il contrasto
con i partiti delle classi dirigenti non è più inteso come contrasto di principi
diversi, ma solo come lotta concorrenziale» (ROBERT MICHELS, Zur Soziologie des
Parteiwesens in der modernen Demokratie. Untersuchungen die oligarchischen Tendenzen
des Gruppenlebens, Leipzig, Dr. Werner Klinkardt, 1911. Seconda edizione tedesca
riveduta e accresciuta, Stuttgart, Alfred Kröner Verlag, 1925; trad. it. La sociologia
del partito politico nella democrazia moderna, Il Mulino, Bologna 1966, p. 496).
( 3 ) Cfr. G. SARTORI, Democrazia e definizioni, Il Mulino, Bologna 1959, pp. 15-
28.
147

148
GIUSEPPE PAULESU
l’inautenticità di quei contesti democratici che si realizzano tramite
l’azione rappresentativa prodotta dal moderno partito di massa in
ambito parlamentare e dal parlamentarismo stesso. Ciò risulta non
soltanto dalle pagine della Soziologie o dalle opere immediatamente
precedenti; l’idea che le democrazie reali vadano analizzate sulla base
di un confronto con la democrazia ideale porterà Michels al paradosso
per il quale scorse nel regime fascista la realtà più prossima a tale
ideale proprio in quanto «antidemocratico», ovvero «nemico delle
sue mende e delle sue manchevolezze» ( 4 ).
Il punto in cui la prospettiva teorica di Michels si differenzia
maggiormente da quella weberiana verrà individuato proprio in un
diverso modo di concepire il ruolo che rivestono i partiti nel definire
quel particolare tipo di impresa politica che è la democrazia moderna.
Se nell’ottica assunta da Weber questa si realizzava nella parteindemokratie,
ovvero nella lotta fra una pluralità di partiti condotta sul
terreno di battaglia dato dal suffragio universale, e che conduceva all’ascesa
di dirigenti capaci di porsi responsabilmente alla guida di
uno Stato, Michels individuava proprio in tale prospettiva una forma
degenerata di ciò che a suo modo di vedere dovrebbe essere la
«vera» democrazia, quella che porta a compimento la partecipazione
diretta del popolo al potere statale, e alla cui realizzazione dovrebbe
pervenire l’azione rivoluzionaria di un unico partito che realizza il
principio democratico già al suo interno, «uno stato nello stato che
dichiara di perseguire lo scopo di svuotare e distruggere lo stato presente
per sostituirlo con uno stato completamente diverso» ( 5 ).
Al di là del rilievo assunto da questa e altre differenze che risalteranno
dal confronto fra le posizioni teoriche prese in esame, si evidenzierà
ancora il fatto che, come Weber, Michels elabora la sua riflessione
sui partiti e la democrazia relazionandosi alla realtà vissuta
e osservata in un medesimo contesto: quello costituito dalle profonde
contraddizioni che contrassegnavano la società e la politica tedesca
tra la fine del diciannovesimo e gli inizi del ventesimo secolo, e
dagli sconvolgimenti che – specie sul piano politico e sociale – furono
innescati dal primo conflitto mondiale. È partendo dall’osservazione
di questo stesso quadro che Max Weber e Robert Michels non
smisero mai di definire quei fattori che avrebbero potuto realizzare
( 4 ) ROBERT MICHELS, Corso di sociologia politica, Istituto Editoriale Scientifico,
Milano 1927, p. 80.
( 5 ) ROBERT MICHELS, La sociologia del partito politico nella democrazia moderna,
cit., p. 488.

Partito e democrazia in Robert Michels
una prospettiva democratica all’interno del più ampio sistema in cui
si articolavano le complesse vicende della politica moderna. Contrariamente
a quanto avvenga nel corso dell’intera produzione weberiana,
tuttavia, si noterà come, in seguito all’adesione del suo autore al
fascismo, la concezione democratica di Robert Michels appaia meno
risoluta nel connettersi ad argomenti riguardanti la difesa dei valori
riposti nella dignità e nella libertà dell’individuo.
2. Suffragio universale e ruolo delle masse. – Il momento in cui per la
prima volta avvenne il contatto tra i percorsi biografici e le carriere
intellettuali di Max Weber e Robert Michels può essere collocato tra
il 1904 e il 1905, quando, commentando un saggio di Robert Blank
sull’«Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», Max Weber
tracciava un programma di ricerca sulle strutture sociologiche del
Partito Socialdemocratico Tedesco e del «partito moderno» in generale,
dubitando del fatto che un simile tema sarebbe potuto «presto»
diventare oggetto di uno studio scientificamente adeguato ( 6 ). Con
buona probabilità, fu proprio la lettura di queste Bemerkungen a fare
sorgere in Michels l’interesse per lo studio della struttura interna dei
partiti moderni, a partire dalla socialdemocrazia tedesca; tale interesse
cominciò infatti a concretizzarsi nel 1905, quando egli si rivolse a
Weber ritenendosi la persona più adatta a realizzare il progetto di ricerca
che quest’ultimo aveva tracciato sull’«Archiv». Prima d’allora,
Michels si era interamente dedicato alla militanza nei ranghi del
Partito Socialista Italiano e della socialdemocrazia tedesca, non solo
con la partecipazione come delegato ai congressi della SPD (Dresda
nel 1903, Brema nel 1904, Jena nel 1905 e Mannheim nel 1906),
del PSI (a Imola nel 1902, Bologna nel 1904 e Roma nel 1906) e
dell’Internazionale (ad Amsterdam nel 1904 e Roma nel 1906), ma,
soprattutto, tramite un’intensa attività come pubblicista e commentatore
politico, con la collaborazione a giornali e riviste che appartenevano
alle più eterogenee tendenze del movimento operaio ( 7 ). Il
( 6 ) Cfr. F. TUCCARI, I dilemmi della democrazia moderna. Max Weber e Robert
Michels, Il Mulino, Bologna 1993, p. 3; P.P. PORTINARO, Teoria del partito, elitismo
carismatico e psicologia delle masse nell’opera sociologica di Michels, in G.B. Furiozzi
(a cura di), Roberto Michels tra politica e sociologia, Centro Editoriale Toscano,
Firenze 1984, pp. 277-279.
( 7 ) Cfr. in proposito la Bibliografia degli scritti di Roberto Michels nel periodo
1900-1910, a cura di V. Ravasi, in ROBERTO MICHELS, Potere e oligarchie. Antologia
1900-1910, a cura di Ettore A. Albertoni, Giuffrè, Milano 1989, pp. 73-108.
149

150
GIUSEPPE PAULESU
modo in cui ora egli analizzava la struttura interna del partito politico
venne seguito con estremo interesse da Max Weber, e il primo
passo in direzione della più completa indagine che nel 1911 avrebbe
dovuto portare i suoi frutti più maturi con la pubblicazione della
Zur Soziologie des Parteiwesens in der modernen Demokratie, avvenne
nel 1906, quando, sempre sull’«Archiv», Michels pubblicò i primi
risultati di tale ricerca con il titolo Die deutsche Sozialdemokratie.
A partire da questo momento tra i due studiosi si instaurò un vivace
rapporto intellettuale, prevalentemente epistolare, che non tardò
a tradursi in una sincera amicizia, interrotta, tuttavia, nove anni
più tardi, all’inizio delle vicende belliche che diedero luogo al primo
conflitto mondiale. La complessità di tale rapporto non può però di
certo esaurirsi sul solo piano biografico; infatti, è possibile misurarne
meglio l’entità qualora se ne sposti la considerazione sul piano dell’opera,
dove più evidenti e sostanziali risultano essere le influenze
weberiane nella riflessione di Michels. All’interno di quest’ambito
può anzitutto essere utile precisare come sia possibile sviluppare un
confronto fra le posizioni teoriche e ideologiche assunte da Max
Weber e Robert Michels in relazione al tema della democrazia su un
piano regolato da coordinate comuni, che possono schematicamente
essere ricondotte a un nucleo di motivi entro cui e in relazione ai
quali è maturata l’opera di entrambi.
È infatti possibile notare come questa sia stata prodotta in un unico
ed eccezionale contesto caratterizzato dall’accresciuta rilevanza politica
acquisita dalle masse popolari, dall’emergere e consolidarsi dei nuovi
partiti di massa, strutturati in solide organizzazioni che competono sul
fronte del suffragio universale, dal diffondersi della burocrazia nei più
eterogenei settori della vita sociale e dalla particolare condizione storica
e sociale di uno Stato, la Germania post-bismarckiana, contraddistinta
dall’incongruenza fra una forte crescita economica e l’arretratezza
di un sistema politico incapace di dotarsi di una autentica guida che
sapesse assecondarne i bisogni e le ambizioni.
Le riflessioni di Weber e Michels si sono dunque sviluppate nel
confronto con gli stessi problemi, e molteplici sono gli aspetti sotto
cui possono essere accomunate. Occorre però riconoscere come tale
sviluppo sia passato attraverso una diversità di approccio e di metodo,
e finisca per condurre verso esiti differenti, così come, in fondo,
diverse sono le paure e le speranze che lo condizionarono.
Quei fenomeni che da Weber erano stati studiati con il distacco
tipico dello scienziato sociale, facevano parte dell’esperienza umana
del giovane Michels, e da quest’ultimo erano stati vissuti anche con
un certo coinvolgimento passionale; gli risultò dunque alquanto ar-

Partito e democrazia in Robert Michels
duo evitare l’«interferenza» di «giudizi di valore», «aspirazioni politiche»,
«speranze e illusioni» che quasi inevitabilmente tendevano ad
allontanarlo da uno studio «spassionato» di quegli stessi fenomeni
politici. Egli, infatti, «tenne sempre a sottolineare il carattere scientifico
dei suoi lavori, ma […] non nascose mai le spinte politiche e
ideali che animavano le sue scelte di ricerca: al punto da confessare,
nella prefazione alla Storia critica, di aver interrotto la trattazione
delle vicende del movimento socialista italiano in corrispondenza del
momento in cui il suo dissenso dalla linea del partito si era fatto
troppo accentuato» ( 8 ). Come si è visto, fu lo stesso Weber, in seguito,
a indirizzarlo verso un criterio metodologico più oggettivo nello
studio dell’organizzazione dei partiti politici e, in particolare, del
Partito Socialdemocratico Tedesco, cui aveva legato le proprie aspirazioni
democratiche ed egualitarie. Nonostante Michels dovesse poi
convincersi della validità di tale approccio, il procedimento da lui
seguito per avvalersene pretendeva però alquanto arbitrariamente di
ricavare leggi sociologico-politiche dotate di validità universale (leggi
«ferree») partendo da una serie di rilevamenti empirici – anche se
molto accurati – su problemi di carattere specifico, spesso senza interrogarsi
sulle particolari condizioni e sulle cause che incidevano
sulla gravità di questi ultimi; nel metodo seguito da Michels, «la specificità
delle varie situazioni storiche, insomma, era lasciata […] in
secondo piano, e i fenomeni analizzati erano tradotti automaticamente
in leggi generali» ( 9 ).
Rispetto a quello impiegato da Robert Michels, il metodo weberiano
permette di qualificare con un certo rigore le diverse forme assunte
dal principio democratico e da quello rappresentativo nelle
contingenze offerte dal sistema politico contemporaneo: «i suoi strumenti
metodologici […] sono assai più fini ed accurati e, grazie all’impiego
del “tipo ideale”, egli riesce a descrivere e comparare con
incisività una gamma svariatissima di eventi» ( 10 ). Ciò è vero soprattutto
in relazione al primo dei due livelli su cui si articola tale analisi;
la complessità del metodo seguito da Weber nel tentativo di determinare
le peculiarità proprie del sistema politico moderno è infatti
riconducibile a due diversi piani argomentativi: quello in cui, in
( 8 ) G. SABBATUCCI, Michels e il socialismo italiano, in G.B. Furiozzi (a cura di),
Roberto Michels tra politica e sociologia, cit., p. 61.
( 9 ) E. RIPEPE, Gli elitisti italiani, Pacini, Pisa 1974, vol. I, p. 530.
( 10 ) G. EISERMANN, Max Weber, la sociologia della burocrazia e lo stato moderno,
in R. Treves (a cura di), Max Weber e il diritto, Angeli, Milano 1981, p. 79.
151

152
GIUSEPPE PAULESU
Wirtschaft und Gesellschaft, fonda la propria teoria sociologica del potere
e quello dove articola una teoria politica vera e propria, che
muove dall’esame della particolare situazione politica, sociale ed
economica da lui vissuta nella realtà della Germania post-bismarckiana.
Appare pertanto improbabile riuscire ad assurgere a un buon
livello di completezza senza in qualche modo prendere coscienza
della compresenza e della complementarietà di questi due livelli.
Dal punto di vista sociologico, si può così considerare come
Weber esamini, sulla più ampia base della verstehende Soziologie, le
principali forme assunte dalla rappresentanza nelle epoche storiche e
all’interno delle configurazioni politiche in cui si è presentata, nonché
le diverse forme di legittimità su cui si fonda il potere di chi esercita
il ruolo di rappresentante all’interno di un gruppo sociale ( 11 ). Se
ne ricava così un concetto più ampio, che non circoscrive il significato
dell’agire rappresentativo all’ambito generale delle forme assunte
nella democrazia moderna; «entro i poteri di gruppo» Max Weber riconosce
infatti quattro «forme tipiche» di Repräsentation ( 12 ) la cui
esistenza presuppone necessariamente un particolare tipo di legittimazione
del potere. L’ultima di queste forme (freie Repräsentation), è proprio
quella riscontrabile nel moderno ordine politico occidentale ( 13 ),
caratterizzato da una legittimazione del potere di tipo razionale-legale;
nel caso specifico del potere esercitato dallo Stato moderno, infatti,
la sua legittimità deriva dalla credenza che i cittadini nutrono nella
validità di un sistema «legale» il quale, a sua volta, deve sottostare a
regole formali derivate da principi prefissati. Lo Stato moderno, secondo
Weber, può collocarsi al culmine di quel processo che ha portato
alla sostituzione del potere tradizionale con il potere «razionale»
( 11 ) Proprio in quest’ottica, Giuseppe Duso ha voluto sottolineare come: «tutto
il problema della legittimazione può nello stesso pensiero weberiano essere inteso
come problema dell’agire rappresentativo. Infatti l’accettazione del comando, e dunque
la credenza nella validità del potere, equivale ad intendere il volere del detentore
del potere come il volere di tutto il gruppo politico, e ciò sia nel caso di un fondamento
della legittimazione di tipo carismatico, sia di uno di tipo tradizionale o legale.
Il detentore del potere è legittimo […] in quanto è inteso dai sudditi come colui
che agisce per loro, compie le loro azioni ed è dunque rappresentante» (G. DUSO,
Tipi del potere e forma politica moderna in Max Weber, in M. LOSITO-P. SCHIERA,
Max Weber e le scienze sociali del suo tempo, Il Mulino, Bologna 1988, p. 505).
( 12 ) Cfr. M. WEBER, Wirtschaft und Gesellschaft, Tübingen 1922, ed. A cura di
J. Winkelmann, Mohr, Tübingen 19855 ; trad. it. Economia e società, a cura di P.
Rossi, Comunità, Milano 1981, vol. I, pp. 290-291.
( 13 ) «Non la rappresentanza in sé ma la rappresentanza libera e la sua riunione
in corpi parlamentari è propria dell’occidente» (Ivi, p. 291).

Partito e democrazia in Robert Michels
o «legale», in cui, appunto, «si obbedisce all’ordinamento impersonale
statuito legalmente e agli individui preposti in base ad esso», anziché
«alla persona del signore designata dalla tradizione» o, come nel caso
del potere carismatico, «al duce in quanto tale, qualificato carismaticamente»
( 14 ).
È proprio all’interno dei confini dettati dalla tematica relativa al sistema
politico moderno che intende svolgersi la presente analisi, la
quale subisce poi un sensibile arricchimento quando all’apparato concettuale
della Herrschaftssoziologie vengono integrati quegli aspetti della
teoria politica weberiana presenti nei Politische Schriften, riconducibili
soprattutto all’impossibile attuazione del governo popolare e all’immagine
di una burocratizzazione che, conquistando progressivamente
ogni aspetto della vita politica e sociale, partecipa diffusamente
all’incremento di quell’irresistibile tendenza illiberale tipica della modernità,
e che è possibile contrastare solo attraverso la formazione e la
selezione di autentici leader democratici all’interno di quelle strutture
istituzionali che nelle democrazie moderne sono destinate a svolgere
una funzione rappresentativa, ravvisabili nei partiti e nei parlamenti.
Al di là delle differenze metodologiche brevemente esposte, il punto
in cui è possibile ravvisare la prima analogia tra le teorie dei due autori
è dato dal fatto che entrambi si occupano di qualificare teoricamente
le modalità con cui avviene il coinvolgimento e la partecipazione
delle masse nella vita politica, principale esito dell’introduzione del
suffragio universale nei sistemi politici moderni. Di fronte a tale fenomeno
sia a Michels che a Weber appare con tangibile evidenza l’apatia
e l’incapacità delle masse nel far fronte al nuovo ruolo cui ora venivano
chiamate ( 15 ); entrambi valutano come esse siano «politicamente
passive», e lungi dal riuscire ad imporre «dal basso» la loro volontà e la
loro iniziativa, si limitano a rispondere a quelle che le provengono dall’alto,
sia per il loro «bisogno» di essere guidate ( 16 ), sia per la loro na-
153
( 14 ) Ivi, pp. 210-211.
( 15 ) «Le grandi lotte che i leaders conducono in merito alla linea politica o ideologica
o in merito alla supremazia del partito [...] non sono solo al di là della possibile
comprensione della massa, ma la lasciano indifferente» (ROBERT MICHELS, La
sociologia del partito politico nella democrazia moderna, cit., p. 86).
( 16 ) «Alle masse è proprio un profondo impulso alla venerazione delle persone.
Nel loro primitivo idealismo, esse han bisogno di divinità terrene, alle quali si attaccano
di affetto tanto più cieco, quanto più la durezza della vita le afferra» (RO-
BERT MICHELS, La democrazia e la legge ferrea dell’oligarchia, in «Rassegna contemporanea»,
III, 1910, 5, pp. 259-283, ora in ROBERTO MICHELS, Potere e oligarchie,
cit., p. 507).

154
GIUSEPPE PAULESU
tura impulsiva e facilmente suggestionabile, «sempre esposta agli influssi
puramente emozionali e irrazionali del momento» ( 17 ), che le
rendono particolarmente adatte ad essere “plasmate” con strumenti
demagogici. Nella teoria di entrambi gli autori tale convincimento si
traduceva nell’esigenza di ordinare in qualche modo il coinvolgimento
sregolato delle masse nella vita politica; nell’analisi weberiana
una simile urgenza poteva essere soddisfatta solo quando gli organi
istituzionali attraverso cui è in grado di realizzarsi la democrazia in
uno Stato moderno, generano la figura di un leader politicamente
abile e responsabile ( 18 ), capace quindi di adunare ordinatamente le
masse attorno al potere da lui esercitato, impedendo così l’irresponsabile
dominio della «politica della strada», e, in generale, i più deleteri
effetti che si accompagnano all’uso sconsiderato della demagogia,
che potevano tradursi soprattutto in una «dittatura fondata sullo
sfruttamento della natura sentimentale delle masse» ( 19 ). Anche Michels
avvertiva impellente la necessità di governare ordinatamente ( 20 )
e, soprattutto, di educare ed istruire le masse per facilitarne l’inserimento
nell’ambito delle dinamiche politiche; tuttavia, se l’assolvimento
di tale esigenza veniva inizialmente riposta nella funzione pedagogico-morale
dell’ideologia e del partito operaio ( 21 ) – dato che
«a guidare le masse colte non si hanno le mani così libere come a
guidare delle masse incolte» ( 22 ) – successivamente veniva ricondotta
( 17 ) M. WEBER, Parlamento e governo, cit., p. 117.
( 18 ) «Solo la guida ordinata delle masse attraverso politici responsabili può
rompere il dominio arbitrario della strada e il potere dei demagoghi occasionali»
(M. WEBER, Wahlrecht und Demokratie, in Max Weber Gesamtausgabe, I/15; trad.
it., Sistema elettorale e democrazia, in Scritti politici, Donzelli, Roma 1998, p. 83).
( 19 ) M. WEBER, Parlamento e governo, cit., p. 89
( 20 ) Nel saggio Die deutsche Sozialdemokratie Michels afferma esplicitamente:
«L’“idea della grande impresa” è l’idea della massa organizzata od organizzabile.
Essa domina il partito» (ROBERT MICHELS, Die deutsche Sozialdemokratie, in «Archiv
für Sozialwissenschaft und sozialpolitik», XXIII, 2, Tübingen 1906, pp. 471-
473; trad. it. La socialdemocrazia tedesca, in ROBERTO MICHELS, Potere e oligarchie,
cit., p. 210.
( 21 ) Come infatti afferma ne I pericoli del partito socialista tedesco, «le nostre masse
sono pigre e inette all’azione, perché l’educazione che ha loro impartito il partito
socialista tedesco è piuttosto politica e diplomatica che socialista e morale» (ROBERT
MICHELS, I pericoli cui va incontro il partito socialista tedesco, in ROBERTO MICHELS,
Potere e oligarchie, cit., p. 153).
( 22 ) ROBERT MICHELS, La democrazia e la legge ferrea dell’oligarchia, cit., p. 523.
Nella Soziologie Michels specifica che: «maggiore cultura significa maggiore spirito

Partito e democrazia in Robert Michels
al rapporto «sintonico» che era in grado di instaurare la figura carismatica
del duce con le masse “acclamanti”.
Nonostante tale affinità di vedute possa per certi versi essere fatta
risalire all’influenza esercitata dalle principali teorie di psicologia sociale
elaborate tra il XIX e il XX secolo – con buone probabilità, anche
per quanto riguarda l’ultima produzione weberiana – è nell’opera
di Michels che, maggiormente, «si avverte profonda l’influenza
della scuola positiva italiana, dei lavori di Lombroso e degli studi
sulla criminalità delle folle, da Ferri a Sighele a Colajanni», e dunque
«per quanto […] sia di dodici anni più giovane di Weber, Michels
resta legato ad un tipo di cultura positivistica che proprio Pareto
e Weber […] avevano reso improponibile» ( 23 ). Da questa prospettiva,
il suo può quindi essere considerato «niente di più che un
tentativo, molto datato, di fondere in un corpo organico storiografia
del movimento operaio, antropologia delle classi povere e psicologia
delle folle» ( 24 ).
Al di là di tali considerazioni, comunque, resta decisivo il fatto
che alla base delle riflessioni di entrambi stava uno stesso convincimento
di fondo: l’introduzione del suffragio universale aveva rafforzato,
anziché ridurre, «il principio del piccolo numero», vale a dire la
«superiore capacità di manovra dei piccoli gruppi dirigenti» che «domina
sempre l’agire politico». Affermando la «superiorità del piccolo
numero» (Vorteil der kleinen Zahl) Weber sosteneva che i meccanismi
della politica sono sempre controllati dall’alto e da un ristretto
gruppo di individui; ciò nelle moderne democrazie di massa doveva
essere inevitabile, se si chiedeva la garanzia che di fronte all’opinione
pubblica la responsabilità delle scelte politiche potesse ricadere su un
ben preciso numero di persone, anziché disperdersi ed annientarsi
155
critico, e ciò ci è confermato dal fatto che i leaders dei ricchi esercitano sui loro
compagni di classe un’autorità meno illimitata di quella esercitata dai leaders dei
poveri i quali, considerati come massa, sono completamente indifesi di fronte ai
propri capi» (ROBERT MICHELS, La sociologia del partito politico nella democrazia
moderna, cit., p. 531).
( 23 ) P.P. PORTINARO, Teoria del partito, elitismo carismatico e psicologia delle
masse nell’opera sociologica di Michels, cit., pp. 285-286. In una lettera datata 23
novembre 1911, Michels scrive a Gustave Le Bon: «J’ai simplement appliqué sur
le terrain des partis politiques et leur structure administrative et politique, les
théories que vous avez éstablies de manière aussi lumineuse sur le terrain de la vie
collective des foules» (citato in G. SOLA, La teoria delle élites, Il Mulino, Bologna
2000, p. 114, nota 10).
( 24 ) P.P. PORTINARO, Teoria del partito, elitismo carismatico e psicologia delle
masse nell’opera sociologica di Michels, cit. p. 286.

156
GIUSEPPE PAULESU
nella moltitudine di un’assemblea ( 25 ). In base a tale concezione, in
un moderno Massenstaat, il ruolo delle masse diviene perciò nient’altro
che quello di rispondere passivamente alle iniziative che provengono
dall’alto; “ecco pertanto – come puntualizza Karl Jaspers – il
quesito fondamentale del suo pensiero politico: come si possa trovare
un vivo accordo tra l’inevitabile democrazia e la guida autoritaria
degli uomini di Stato realmente competenti e responsabili” ( 26 ). Se,
una simile veduta, nel caso di Weber, derivava da una forma del tutto
spassionata di realismo, per Michels significava una «disillusione
radicale» ( 27 ), causata dall’acquisita consapevolezza di non poter mai
vedere realizzato il sogno della «vera democrazia», disinganno cui
giunse dapprima attraverso l’esperienza diretta, successivamente con
lo studio analitico dei processi degenerativi che coinvolgono la funzione
rappresentativa esercitata dai partiti; arrivò così a dover riconoscere
che «rappresentare significa spacciare la volontà del singolo
per volontà di massa. Ciò sarà possibile in casi singoli e con problemi
nettamente delineati e semplici. Una rappresentanza duratura,
però, significherà, in tutte le circostanze, il dominio dei rappresentanti
sui rappresentati» ( 28 ). In effetti, come si è visto e come si dovrà
ancora mostrare, dietro lo “smascheramento” del miraggio della
partecipazione attiva delle masse al controllo del potere politico vi è
una netta differenza relativamente al modo di concepire l’impresa
politica e la democrazia da parte dei due autori.
Per comprendere a fondo il significato di tale opposizione, è proprio
dalla riflessione di Michels e Weber sull’organizzazione e le funzioni
dei moderni partiti politici che conviene partire. Se infatti è
vero che entrambi esaminano le strutture e le dinamiche organizzative
dei moderni partiti politici di massa, in realtà si basano su due di-
( 25 ) «Il “principio del piccolo numero”, vale a dire la superiore capacità di manovra
di piccoli gruppi dirigenti, domina sempre l’agire politico. Questo risvolto
“cesaristico” è (negli stati di massa) ineliminabile. Soltanto esso garantisce realmente
che la responsabilità di fronte all’opinione pubblica, che si disperderebbe
completamente all’interno di un’assemblea in cui fossero molti a governare, gravi
invece su determinate persone. È proprio nella vera democrazia che ciò si manifesta»
(M. WEBER, Parlamento e governo, cit., p. 53).
( 26 ) K. JASPERS, Max Weber. Il politico, lo scienziato, il filosofo, Editori Riuniti,
Roma 1998, pp. 42-43.
( 27 ) E. RIPEPE, Roberto Michels oggi, in R. Faucci (a cura di), Roberto Michels:
Economia, sociologia, politica, Giappichelli, Torino 1989, p. 16.
( 28 ) ROBERT MICHELS, Democrazia formale e realtà oligarchica, in G. Sivini (a
cura di), Sociologia dei partiti politici, Il Mulino, Bologna 1971, p. 32.

Partito e democrazia in Robert Michels
verse tradizioni teoriche e si servono di differenti prospettive, da cui
pervengono a due diverse vedute.
3. Democrazia e pluralismo. – Nell’ottica adottata da Michels, almeno
fino alla sua esperienza accademica torinese, il partito politico,
come si è visto, – particolarmente quello socialista e socialdemocratico
– acquista la sua specifica valenza rappresentativa nel momento
in cui riunisce nella sua essenza la visione del mondo e le principali
istanze di una determinata classe sociale. Nell’accezione michelsiana,
il partito politico può così identificarsi con il concetto di «partito
classe», che Maurice Duverger attribuisce alla tradizione del pensiero
marxista ( 29 ) ma con quel valore ideologico che Michels riconosceva
ai «partiti moderni» in genere, i quali «non sono che soprastrutture
sintomatiche della costituzione economico-sociale della società.
Ogni classe sociale si crea autonoma la propria rappresentanza politica,
cioè il proprio Partito» ( 30 ). Rappresentando le istanze economiche e
politiche, ma anche la «mentalità» del proletariato, il partito operaio
diventa dunque il principale strumento con cui condurre quella lotta
di classe che avrebbe potuto e dovuto realizzare «la sovranità popolare
senza contrasti escogitata da Rousseau» ( 31 ). Il richiamo alla
sovranità popolare, oltre che a Rousseau, rende così esplicito come il
presupposto sostanziale su cui prende corpo l’adesione al socialismo
del giovane Michels risieda in una concezione della democrazia di
tipo classico ( 32 ): «la concezione alla quale egli rimase legato era in-
157
( 29 ) Cfr. M. DUVERGER, Les partis politiques, Librerie Armand Colin, Paris 1951;
trad. it. I partiti politici, Comunità, Milano 19702 , p. 11. Secondo Duverger «borghesia
e proletariato non costituiscono forse due classi definite in termini rigorosamente
economici, ma caratterizzano due mentalità, due atteggiamenti sociali, due modi di
vita, la cui separazione illumina taluni problemi riguardanti la struttura dei partiti».
( 30 ) ROBERT MICHELS, Il proletariato e la borghesia nel movimento socialista italiano.
Saggio di scienza sociografico-politica, F.lli Bocca, Torino 1908, p. 16.
( 31 ) ROBERT MICHELS, Violenza e legalitarismo come fattori della tattica socialista,
in «Il divenire sociale», I, 1905, 2, p. 27.
( 32 ) Le radici rousseauiane del pensiero politico di Michels sono state riconosciute,
anche se in diversi modi, da J.J. LINZ, Robert Michels e il suo contributo alla
sociologia politica, Introduzione a ROBERT MICHELS, La sociologia del partito politico
nella democrazia moderna, cit., p. LXXX; E. RIPEPE, Gli elitisti italiani, cit., p. 503;
G. SARTORI, Democrazia e definizioni, Il Mulino, Bologna 1959, p. 103; M. CAC-
CIARI, Pensiero negativo e razionalizzazione, Marsilio, Venezia 1977, pp. 106-115;
A. MITZMAN, Sociology and Estrangement. Three Sociologists of imperial Germany,
Transaction Books, New Brunswick (USA) and Oxford (UK) 1987 2 , pp. 281 ss.

158
GIUSEPPE PAULESU
fatti una concezione rousseauiana della democrazia come partecipazione
ed esercizio diretto della sovranità da parte del popolo» ( 33 ).
Il cammino che portava alla realizzazione di un simile ideale, tuttavia,
secondo Michels passava attraverso un’impresa rivoluzionaria
e antilegalitaria ( 34 ) dove il Partito Socialdemocratico, il sindacato e,
più tardi, il Partito Nazionale Fascista, avrebbero potuto costituire
gli strumenti più efficaci per condurre l’«eterna lotta con il potere
costituito», che avrebbe poi dovuto concludersi con il loro «fondersi
insieme alla nazione, nell’incorporarla» ( 35 ), e realizzare quindi, anche
se in modi differenti, l’ideale della democrazia a partecipazione
diretta. Nonostante questa aspirazione costituisca la costante di fondo
in ogni fase della produzione michelsiana, essa trova però, come
si è accennato, un robusto fondamento nella coscienza della particolare
situazione politica e sociale attraversata dalla Germania Imperiale
agli inizi del XX secolo, dove una borghesia economicamente potente
si scopriva incapace di contrastare e sostituire la nobiltà rurale
ai vertici del potere politico ( 36 ), e assecondare così quelle istanze di
modernizzazione che avrebbero dovuto creare i presupposti utili alla
realizzazione della «sovranità popolare». A giocare un importante
ruolo nell’adesione giovanile di Michels al socialismo e al sindacalismo
rivoluzionario, può dunque essere stata tale percezione, che lo
( 33 ) E. RIPEPE, Roberto Michels, oggi, in R. Faucci (a cura di), Roberto Michels:
Economia, sociologia, politica, Giappichelli, Torino 1989, p. 18.
( 34 ) In Les dangers du Parti socialiste allemand, Michels afferma infatti che «il
socialismo tedesco non può perseguire il suo scopo senza intaccare la legalità»
(ROBERT MICHELS, I pericoli cui va incontro il partito socialista tedesco, in ROBERTO
MICHELS, Potere e oligarchie, cit., p. 159).
( 35 ) ROBERT MICHELS, L’Italia di oggi. Storia della cultura politica ed economica
dal 1860 al 1930, in ROBERTO MICHELS, Socialismo e fascismo. (1925-1934), a cura
di G. Panella, Giuffrè, Milano 1991, p. 107.
( 36 ) Un’immagine esemplare della situazione sociale tedesca fornitaci da Michels
ai primi del Novecento, mi sembra si possa scorgere in Les dangers du Parti
socialiste allemand, dove si nota che «nonostante l’industria si sia sviluppata al
punto da fare una temibile concorrenza alla stessa Inghilterra, non è la borghesia
delle città che vi regna, ma la nobiltà rurale»; e ancora: «essa [la borghesia] dà un
potere crescente allo Stato, già così forte in sé, così brutale e così poliziesco. Il nostro
Stato non è, in effetti, lo Stato di una borghesia in decadenza; è ancora lo Stato
feudale dei tempi barbari. E dispone di due forze formidabili: da un lato una
borghesia intransigente che non è mai stata infettata da alcuna idea vagamente umanitaria
[…] e che vede nella monarchia non solo un’istituzione utile, ma ancora un
feticcio cui bisogna immolare delle vittime; d’altra parte, un innumerevole proletariato
inconscio e cieco, pronto ad avventarsi sui suoi fratelli in lotta» (ROBERT MI-
CHELS, I pericoli cui va incontro il partito socialista tedesco, cit., pp. 147-152).

Partito e democrazia in Robert Michels
portò a riconoscere nella classe operaia quella forza emergente dotata
del vigore necessario per riuscire a mutare in senso «autenticamente»
democratico la realtà politica tedesca, e nelle organizzazioni che la
rappresentavano non soltanto gli strumenti più adatti per compiere
tale rinnovamento, ma, soprattutto, nell’ambito della loro struttura
interna, il “microcosmo” e la prefigurazione dei risultati che avrebbero
dovuto realizzare. Si sa, però, come il contatto ravvicinato e
l’esperienza vissuta all’interno di tali strutture, lo portarono ben presto
a rivedere simili convincimenti, ovvero a scorgere anche nelle organizzazioni
dell’area socialista gli stessi vizi che la necessità di doversi
misurare sul terreno della competizione elettorale aveva indotto
nei partiti borghesi. Anziché rappresentare l’idea del progresso democratico
promossa dalla classe lavoratrice, tali organizzazioni finivano
così per ridursi a organismi simili al «partito-macchina» studiato
da Weber nel contesto politico americano, spinti cioè da meccanismi
di autoconservazione, dall’arrivismo e opportunismo che regnavano
ad ogni livello tra i suoi funzionari.
Perduta così la «purezza della classe» e l’«unità del pensiero» che
costituivano la linfa vitale della lotta del partito per l’avvento della
«sovranità popolare» e per la «creazione di una società senza classi»,
ora, il partito, sollecitato prevalentemente «da motivi di speculazione
egoistica in grande stile» ( 37 ), si riduce a una «macchina conservatrice»
fine al suo stesso mantenimento in vita:
159
perciò le ripugna tutto ciò che interferisce nell’ingranaggio del suo mulino e
può minacciare il suo organismo o almeno la sua forma esteriore, l’organizzazione.
[…] Non educa uomini, ma si sforza di coniare piccoli ingranaggi per la
sua complessa macchina organizzativa, compagni di partito disciplinati la cui
migliore qualità consiste nei grandi lati positivi – o negativi? – del carattere del
popolo tedesco: la capacità di organizzazione gregaria dell’essere ligio, la sottomissione
all’autorità amministrativa. Questa bienséance, rispettabilità ed arrendevolezza
della Socialdemocrazia tedesca hanno come conseguenza la già citata
mancanza di slancio e di idealismo ( 38 ).
Per il giovane Michels, il partito operaio finisce dunque per perdere
la sua «fondamentale omogeneità sociale» e quella tipica compattezza
che gli derivava dall’aver «compreso di doversi sottomettere
ad una grande idea» e ad una «grande classe» ( 39 ). Esso diventava
( 37 ) ROBERT MICHELS, La socialdemocrazia tedesca, cit., p. 269.
( 38 ) ROBERT MICHELS, La socialdemocrazia tedesca e l’internazionale. Una ricerca
critica, in ID., Potere e oligarchie, cit., pp. 375-376.
( 39 ) ROBERT MICHELS, La socialdemocrazia tedesca, cit., p. 283.

160
GIUSEPPE PAULESU
così, specie nei cinque anni che precedono la pubblicazione della Soziologie,
il principale campo di indagine in cui verificare come la corruzione
che inevitabilmente investe il principio rappresentativo porti
in via definitiva a relegare nella sfera dell’utopia l’ideale democratico
cui aveva prestato fede, e a riconfermare l’irreparabile scissione
che da sempre separava la massa dei governati dall’élite dominante.
Nonostante il dichiarato impegno profuso nello sforzo di «accogliere
l’imperativo di dare alla politica dignità di scienza» ( 40 ), facendo
apparire «l’imborghesimento di ogni movimento operaio come
conforme alle leggi della sociologia» ( 41 ), permangono dunque nella
riflessione michelsiana forti motivi ideologici, legati principalmente a
una concezione della democrazia, il cui principale archetipo viene individuato
dallo stesso Michels nel pensiero politico di Jean Jacques
Rousseau:
iniziatore di questo genere di critica alla democrazia […] può essere considerato
Jean Jacques Rousseau, che definì la democrazia “l’exercice de la volontè
générale» e da ciò trasse la logica conclusione che “elle ne peut jamais s’aliener,
et le souverain, qui n’est qu’ un être représentè que par lui-même”. Quindi: “à
l’istant qu’un peuple se donne des représentants, il n’est plus libre, il n’est plus”.
[…] Sebbene questa teoria […] sia stata svisata dai seguaci del filosofo di Ginevra
fino ad essere capovolta, essa venne generalmente riconosciuta, in campo
teorico, come incontrovertibile ( 42 ).
Se la “spinta” iniziale ad intraprendere l’indagine sui partiti era stata
fornita dalle indicazioni e dai suggerimenti di Max Weber, a partire
dal 1907, in seguito al suo trasferimento nell’Università di Torino
come libero docente di economia politica, Michels trova nell’élitismo
mosco-paretiano un ulteriore stimolo e un ulteriore ausilio teorico nel
tentativo di includere la vastità della documentazione accumulata all’epoca
della sua militanza socialista e socialdemocratica in una «indagine
analitica sul partito politico» che potesse contribuire ad arricchire
«un nuovo ambito della ricerca scientifica, una scienza di confine
(Grenzwissenschaft) che sta tra le discipline economico-sociali, quelle
filosofico-psicologiche e quelle storiche» ( 43 ). Sebbene l’entità di tale
( 40 ) F. BOZZI, Democrazia liberale, socialismo burocratico ed elitismo organico in
Roberto Michels, in G.B. Furiozzi (a cura di), Roberto Michels tra politica e sociologia,
cit., p. 307.
( 41 ) G. LUKÁCS, La distruzione della ragione, Einaudi, Torino 1959, p. 30.
( 42 ) ROBERT MICHELS, La sociologia del partito politico nella democrazia moderna,
cit., p. 189.
( 43 ) Ivi, pp. 6-7.

Partito e democrazia in Robert Michels
apporto abbia contribuito poi ad inserire la più nota opera di Michels
tra i classici dell’élitismo, appare però opportuno far risaltare
come l’avvicinamento del suo autore a tale dottrina fu tutt’altro che
deciso ( 44 ) e che, in definitiva, volendo fare un confronto tra la riflessione
michelsiana e quella di Gaetano Mosca, è facile notare come «le
differenze prevalgono sulle più facili analogie» ( 45 ). Considerando, tra
tali differenze, quelle che risaltano con maggiore nitidezza, è possibile
notare anzitutto come per Michels l’incessante lotta tra una pluralità
di élites di potere non si risolve in un loro alternarsi nell’ambito di posizioni
di vertice («circulation des élites»), ma, spingendosi oltre gli esiti
cui era giunta la teoria mosco-paretiana, egli giunge a scorgere in tale
competizione un meccanismo che inevitabilmente conduce all’amalgama
delle posizioni in lotta in un’unica élite di potere («fusion des élites»);
se inoltre per Mosca «l’oligarchia genera un’organizzazione per
consolidare e imporre il proprio potere; per Michels l’organizzazione
genera un’oligarchia per garantirsi la sopravvivenza in un ambiente
ostile e per assicurarsi il raggiungimento dei fini che si propone di
conseguire» ( 46 ). Sulla base di tali considerazioni si può sostenere, pertanto,
che «il lavoro di Michels non costituisce solo un’ulteriore verifica
del predominio di una minoranza dirigente sulla maggioranza diretta,
bensì rappresenta uno dei più rilevanti contributi della sociologia
politica europea di questo secolo» ( 47 ).
Se dunque non si vuole correre il rischio di ridurre la complessità
degli apporti teorici che hanno influito sull’opera michelsiana a quelli
provenienti dal solo élitismo, è bene chiarire come «la collocazione ormai
ripetitiva del Michels quale “allievo”, o esponente, della scuola
élitista italiana non solo rischia di velare l’originalità dell’opera michelsiana,
ma comporta sicuramente un arbitrario ridimensionamento
dei contributi e degli apporti che sono venuti alla ricerca del Michels
dai suoi stretti legami con la cultura tedesca, soprattutto con Weber e
con Sombart» ( 48 ).
161
( 44 ) Cfr. ROBERT MICHELS, L’oligarchia organica costituzionale. Nuovi studi sulla
classe politica, in «La Riforma sociale», XIV, 1907, vol. XVIII, p. 962, ora in ROBER-
TO MICHELS, Potere e oligarchie, cit. pp. 432-453.
( 45 ) E.A. ALBERTONI, Gaetano Mosca. Storia di una dottrina politica, Giuffrè,
Milano 1978, p. 54.
( 46 ) G. SOLA, La teoria delle élites, cit., p. 93.
( 47 ) Ibidem.
( 48 ) P. FERRARIS, Saggi su Roberto Michels, Facoltà di Giurisprudenza dell’Università
di Camerino, Jovene editore 1993, p. 170.

162
GIUSEPPE PAULESU
Alla luce di quanto si è appena detto, appare perciò problematico
condividere l’affermazione secondo cui «l’unico periodo fecondo e
fortunato della sua riflessione coincida con gli anni in cui matura la
crisi e si compie il distacco dal movimento socialista» ( 49 ), dal momento
che, con il suo avvicinarsi all’«universo concettuale» dell’élitismo
mosco-paretiano, l’originalità della produzione intellettuale di
Michels non finisce per perdere o abbandonare definitivamente la
sua componente marxista; si può anzi addirittura affermare che «Michels
è già élitista quando è ancora socialista, ma è ancora cripto-socialista
quando è dichiaratamente élitista» ( 50 ).
In sintesi, dunque, durante l’intero corso della sua produzione intellettuale,
Michels rileva la «falsità» delle democrazie «reali» fondate
sul principio rappresentativo e sui meccanismi del ciclo elettorale attraverso
il «raffronto» ( 51 ) con una concezione della democrazia che
faceva capo al pensiero rousseauiano, ancor prima che a quello
marxista o élitista, e si trova connaturata con l’azione di un unico
partito, il quale cerca di realizzarne il principio attraverso l’impiego
di un’azione sovversiva che deve condurre alla conquista dello Stato,
e a fondersi con quest’ultimo successivamente. Non poteva perciò
accordarsi con l’immagine sicuramente più realistica tracciata da
Weber, la quale, anzitutto, si concretizzava nella competizione elettorale
fra una moltitudine di partiti all’interno del più ampio contesto
dettato da una dinamica politica pluralistica, e che, in secondo
luogo, può a buon diritto inserirsi nella più ampia tradizione del
pensiero liberale.
Dopo essere approdato verso posizioni ideologiche autonome rispetto
al National-Liberalismus del padre o al Linksliberalismus dello
storico Baumgarten ( 52 ) e aver superato la malattia che per alcuni anni
gli fece sospendere ogni impegno intellettuale, a partire dalle cronache
della rivoluzione russa del 1905 e durante l’intero corso della sua produzione
anteriore a Politik als Beruf (1919), infatti, oltre al tentativo
di individuare i limiti entro cui si esercita il potere statale, Weber non
( 49 ) P.P. PORTINARO, Teoria del partito, elitismo carismatico e psicologia delle
masse nell’opera sociologica di Michels, cit., p. 275.
( 50 ) R. FAUCCI, Intorno alla “giusta” collocazione intellettuale di Roberto Michels,
cit., p. 35. A tal proposito il Faucci nota anche come «il passaggio dal marxismo
all’elitismo è in Michels assolutamente naturale, in quanto egli non vedeva nessuna
incompatibilità fra le due teorie» (ivi, p. 35, nota 17).
( 51 ) Cfr. G. SARTORI, Democrazia e definizioni, cit., p. 102.
( 52 ) Cfr. W.J. MOMMSEN, Max Weber e la politica tedesca, Il Mulino, Bologna
1993, pp. 42-59.

Partito e democrazia in Robert Michels
cessa mai di interrogarsi sugli strumenti più adatti a tutelare la libertà
individuale in un’epoca in cui lo sviluppo del principio organizzativo
e del potere burocratico tendevano a invadere ogni aspetto della vita
politica ed economica. Sebbene si possa concordare con le parole di
Ralf Dahrendorf quando sottolinea come Weber «non lasciò dubbi
sulla sua preferenza di principio per la “razionalità” del nostro mondo»
la quale «significava progresso» ( 53 ), non si può non riconoscere,
d’altra parte che «il suo incubo della “struttura di subordinazione”
in cui potremmo trovarci un giorno nel mondo razionale, burocratico,
della modernità, rimane ancora la formulazione più drammatica
del prezzo che la “classe”, la classe della maggioranza dei cittadini,
deve pagare per il suo dominio» ( 54 ).
Mentre infatti rilevava come «la superiorità tecnica del meccanismo
burocratico è evidente tanto quanto la superiorità tecnica delle
macchine utensili rispetto al lavoro manuale» ( 55 ), constatava anche
come il suo sviluppo producesse «uomini bisognosi di “ordine” e di
nient’altro»:
163
che il mondo non conosca nient’altro che tali uomini dell’ordine, questa è la
china sulla quale ci siamo avviati; la questione cruciale allora non è come poter
ulteriormente favorire questo sviluppo, bensì che cosa noi dobbiamo contrapporre
a questo meccanismo per tenere libero un briciolo di umanità da questa
parcellizzazione dell’anima, da questo dominio egemone degli ideali di vita burocratica
( 56 ).
Una prima, tenue soluzione nel tentativo di scongiurare i più nocivi
effetti che avrebbe potuto provocare la crescente burocratizzazione,
Weber la trovava in Zur Lage der bürgerlichen Demokratie in Russland:
«esse [la libertà e la democrazia] saranno possibili solo dove
esiste ed esisterà la decisa volontà di una nazione di non farsi governare
come un gregge di pecore» ( 57 ). È tuttavia in Russlands Übergang
zum Scheinkonstitutionalismus che viene formulata una soluzione più
concreta, che si attua in una nuova teoria «costituzionale» imperniata
sull’equilibrio fra il potere burocratico e quelli della monarchia e
( 53 ) R. DAHRENDORF, Fragmente eines neuen Liberalismus, Deutsche Verlags-
Anstalt GmbH, Stuttgart 1987; trad. it. Per un nuovo liberalismo, Laterza, Roma-
Bari 1993, p. 57.
( 54 ) Ibidem.
( 55 ) M. WEBER, Sulla burocrazia, in Scritti politici, cit., pp. 31-32.
( 56 ) Ivi, p. 33.
( 57 ) M. WEBER, Sulla Russia, 1905-6/ 1917, Il Mulino, Bologna 1981, p. 71.

164
GIUSEPPE PAULESU
del parlamento ( 58 ). Se una simile soluzione, nelle cronache della rivoluzione
russa del 1905, era volta al tentativo di «salvare qualche residuo
di una libertà di movimento in qualche senso “individualistica”»
( 59 ), in Parlament und Regierung im neugeordneten Deutschland,
con estrema preoccupazione, Weber connetteva lo sviluppo del processo
di burocratizzazione con un altro ordine di problemi: «sta di
fatto, e Weber non si stanca mai di rilevarlo, che la burocrazia tende
ad investire la società nel suo insieme e ad espropriare i politici della
loro funzione, routinizzandoli ed esautorandoli» ( 60 ).
Per interrompere la progressiva tendenza che inesorabilmente
porterebbe verso un «governo dei funzionari», in Parlament un Regierung
Weber elabora una teoria simile a quella «costituzionale»
che, come si è visto, in Russlands Übergang zum Scheinkonstitutionalismus
considerava il potere del parlamento e della monarchia come
l’unico contrappeso adatto ad opporsi allo «pseudocostituzionalismo»
e ai risvolti illiberali apportati dalla Bürokratisierung: «con ciò
siamo già alla discussione di quelle due potenze che sole sono in grado
di avere una parte importante nella vita del moderno stato costituzionale
come istanze di controllo e di direzione accanto alla onniavvolgente
burocrazia: la monarchia e il parlamento» ( 61 ). Una volta
esclusa l’efficacia della monarchia ( 62 ), o la direzione di un genio
politico («che ci si può attendere solo una volta ogni secolo», e in ciò
pensava inequivocabilmente a Bismarck), ora Weber identifica nell’azione
esercitata dal parlamento e dai moderni partiti di massa,
( 58 ) «In un sistema di pseudocostituzionalismo […] i ministri comanderebbero
a piacere un Parlamento-ombra, spogliato della sua funzione giuridicamente garantita
e fabbricato con uno dei loro meccanismi amministrativi. In modo del tutto
diverso, [… ] si potrebbe sviluppare il rapporto, se fosse pienamente sviluppato
il sistema «costituzionale»; in questo caso, la burocrazia dipenderebbe dal monarca,
schierandosi contro il parlamento e intrecciando con lui una comunità di interessi»
(Ivi, p. 97).
( 59 ) Ivi, p. 95.
( 60 ) F. FERRAROTTI, Max Weber. Fra nazionalismo e democrazia, Liguori, Napoli
1995, p. 113.
( 61 ) M. WEBER, Parlamento e governo, cit., p. 40.
( 62 ) «Il monarca, in quanto tale, nelle condizioni dello stato moderno, non è
mai e in nessun luogo un contrappeso e un mezzo di controllo contro la potenza
onnicomprensiva della burocrazia specializzata, né può assolutamente esserlo. Egli
non può controllare l’amministrazione, poiché questa amministrazione ha una
competenza specialistica e un monarca moderno, all’infuori tutt’al più del campo
militare, non è mai uno specialista» (ivi, p. 41).

Partito e democrazia in Robert Michels
quelle forze concrete che nel dare vita a una democrazia rappresentativa
possono realmente opporsi all’irrefrenabile accrescimento del
potere burocratico limitandone la progressiva tendenza a usurpare
funzioni «direttive» e produrre le soluzioni più idonee contro
«l’espansione di un sistema sempre più opprimente e sempre meno
rispettoso della libertà individuale» ( 63 ).
La concezione democratica di Weber dunque, rispetto a quella
michelsiana, è fortemente connessa con l’intento di produrre le soluzioni
più idonee a limitare e controllare quelle minacce illiberali che
sorgono principalmente con lo sviluppo della «potenza onnicomprensiva
della burocrazia specializzata»; soprattutto però se ne differenzia
quando reputa che, nelle condizioni sorte con la nascita dei
moderni stati di massa, la democrazia non può affatto coincidere con
una partecipazione attiva al governo da parte del popolo, ma si attua
grazie al sostanziale ruolo rivestito dai partiti e dal parlamento nell’esprimere
una attiva ed efficace rappresentanza popolare. Come si
può notare, anche in questo caso Weber non fa che riproporre
«l’idea già compiutamente elaborata in Parlament und Regierung –
secondo cui la democrazia moderna non può avere nulla a che fare
con una concezione mitologica della sovranità popolare, ma è (e non
può che essere) una competizione tra leader che aspirano a conquistarsi
un consenso di massa sul fondamento della scheda elettorale» ( 64 ); è
questo il principale dato che differenzia una concezione della rappresentanza,
come quella michelsiana, legata ai canoni classici della
democrazia, intesa propriamente come «governo del popolo», da una
che, messa realisticamente da parte la possibilità di una partecipazione
diretta delle masse al governo di uno Stato, può sortire effetti democratici
solo se congiunta alla lotta concorrenziale tra una pluralità
di partiti che, in ultima istanza, deve sfociare nella conquista del potere
da parte di quei leaders che riscuotono il pieno appoggio della
«macchina» di partito, e possiedono una autentica vocazione (Beruf )
per il “mestiere” della politica. Weber individua dunque nella lotta
il più tipico carattere assunto dall’attività politica moderna e – al
pari di Michels – riconosce come le necessità arrecate dall’aspirazione
a primeggiare nell’ambito delle sue vicende producano anche all’interno
del partito una struttura burocratica piuttosto articolata;
tuttavia, non sembra così deciso ad attribuire a quest’ultima gli stessi
( 63 ) C. SENIGAGLIA, Razionalità e politica. Fondamenti della riflessione di Hegel e
Weber sulla democrazia, Angeli, Milano 1993, p. 244.
( 64 ) F. TUCCARI, I dilemmi della democrazia moderna, cit., p. 299.
165

166
GIUSEPPE PAULESU
vizi e le stesse carenze riconosciutegli nel più vasto contesto della realtà
politica moderna ( 65 ).
La burocrazia di partito è anch’essa inserita in tale competizione,
e tende quindi a rispettare diligentemente le posizioni assegnategli
nell’ambito dell’organizzazione del partito, a tutto vantaggio di quest’ultimo.
La burocrazia e il potere dello Stato appartengono però a
due mondi separati, addirittura opposti; da una parte vi è lo strumento
amministrativo più razionale offerto dalla modernità, sempre
orientato a trascendere i limiti prescrittigli verso ruoli di responsabilità
che non possono competergli, principalmente servendosi della
sua «superiorità tecnica» e contando sul duplice ed esclusivo possesso
di un «sapere specializzato» e di un «sapere di ufficio»; dall’altra,
la sfera della direzione politica vera e propria, delle decisioni spesso
impegnative e responsabili nei confronti dell’elettorato che si rappresenta
e della comunità che si intende dirigere.
La stessa distinzione non si presenta in modo altrettanto netto
nell’ambito della riflessione michelsiana ( 66 ), dove nel concetto di
«élite dirigente» trovano posto non solo il potere gestito dalle autorità
statali e di partito, ma anche quello esercitato dai funzionari, sempre
grazie alla loro superiorità tecnica e culturale, oltre che per «l’immaturità
obbiettiva della massa»:
Non si può non riconoscere che tutti questi istituti di specializzazione per funzionari
di partito o dei sindacati hanno contribuito a selezionare artificiosamente
una élite operaia e a rafforzare, con la creazione di una casta di operai
cadetti-dirigenti, il potere della leadership sulla massa del partito. La specializzazione
tecnica […] crea l’esigenza della così detta direzione basata sulla competenza,
di modo che tutti i poteri decisori della massa per quanto riguarda
materie tecniche, vengono a trasferirsi nei soli dirigenti. Questi, che all’inizio
sono solo gli organi esecutivi del volere della massa, diventano indipendenti, si
emancipano dalla massa ( 67 ).
La concezione michelsiana della burocrazia finisce quindi per trovare
una definitiva sistemazione teorica nel valore che il suo autore aveva attribuito
alla «legge ferrea dell’oligarchia», dato che anch’essa rientra in
( 65 ) «Lo spirito degli impiegati di queste organizzazioni – quali sono i partiti
stessi e ad esempio i sindacati – in conseguenza dell’addestramento nella lotta con
il pubblico, è essenzialmente diverso dallo spirito degli impiegati statali che lavorano
pacificamente nell’archivio» (M. WEBER, Parlamento e governo, cit., p. 103).
( 66 ) Cfr. a tal proposito F. TUCCARI, I dilemmi della democrazia moderna, cit.,
p. 275.
( 67 ) ROBERT MICHELS, La sociologia del partito politico nella democrazia moderna,
cit., pp. 70-71.

Partito e democrazia in Robert Michels
quella serie di fenomeni che all’interno di un’organizzazione porta al
dominio di un piccolo gruppo dirigente sulle masse «inabili a prendere
da se stesse anche solo quelle risoluzioni che sono più necessarie» ( 68 ).
Al di la dei possibili punti di contatto e delle differenze più o
meno profonde sinora evidenziate, giova forse notare ancora una
volta, come entrambi gli autori abbiano fondato le proprie analisi su
un comune riferimento storico e sociale dato dalla singolare condizione
socio-politica in cui era venuta a trovarsi la Germania post-bismarckiana,
dove «il grosso della borghesia è ancora escluso dal potere
ad opera del feudalesimo» ( 69 ). Così come Michels, anche Weber
denuncia infatti l’incapacità e la codardia (Feigheit) della classe
borghese ad estendere sul campo politico l’importanza raggiunta sul
piano economico per sostituirsi così al ceto nobiliare degli Junker, i
quali rappresentavano una conduzione economica ormai superata,
in seguito all’avvento del capitalismo. Avendo perduto il ruolo propulsivo
dell’economia tedesca, e trovandosi così a dover competere
con le altre classi, gli Junker cessavano quindi di estraniarsi dalla lotta
tra gli interessi particolari di classe, e perdevano perciò ogni diritto
alla pretesa di poter fornire gli elementi più adatti alla guida politica
del Paese ( 70 ). Allo stesso tempo Weber doveva a malincuore ammettere
come, d’altra parte, un quarto di secolo in cui «è stato al vertice
della Germania l’ultimo e il più grande degli Junker» ( 71 ), aveva fortificato
nella borghesia – di cui si sentiva parte ( 72 ) – una certa «volontà
di impotenza», un forte desiderio di pace e di quiete ( 73 ).
167
( 68 ) Ivi, p. 62.
( 69 ) M. WEBER, Conferenza presso il Freies Deutsches Hochstift, citato secondo
il resoconto del «Frankfurter Volksbote» del 14.3.1896, cit. in W. MOMMSEN,
Max Weber e la politica tedesca, cit., p. 172.
( 70 ) Come infatti afferma nella Akademische Antrittsrede «in ogni epoca è stato
il conseguimento della potenza economica ciò che ha fatto nascere in una classe
l’idea della sua candidatura alla guida politica. È pericoloso e alla lunga inconciliabile
con l’interesse della nazione se una classe economicamente declinante conserva
il potere politico» (M. WEBER, Lo Stato nazionale e la politica economica tedesca,
in Scritti politici, cit., p. 22).
( 71 ) Ibidem.
( 72 ) Sempre nella Prolusione accademica del 1895 dichiara: «Io sono un membro
della classe borghese, mi sento tale e sono stato educato alle sue idee ed ai suoi ideali.
Tuttavia, […] quando mi chiedo se la borghesia tedesca sia oggi matura per essere la
classe politica dirigente della nazione, allora devo dire che attualmente non sono in
grado di rispondere in maniera affermativa a questa domanda» (ivi, pp. 23-24).
( 73 ) Ivi, pp. 23-25; Parlamento e governo, cit., p. 179.

168
GIUSEPPE PAULESU
Anch’egli, dunque, accusava la classe borghese di indolenza di
fronte alla necessità di promuovere il progresso politico della nazione
germanica, e ravvisava nel potenziamento di quelle componenti che
determinavano il funzionamento della democrazia rappresentativa
non solo la soluzione più adatta a contrastare la crescita del potere burocratico
o l’emergere dell’influenza del «dominio arbitrario della strada»,
ma, altresì, la soluzione migliore per colmare il vuoto di potere
creatosi in seguito all’uscita di scena del «genio» bismarckiano, e portare
avanti il processo di modernizzazione dello stato tedesco. Come
Michels, dunque, anche Weber sviluppa la sua riflessione sul valore e
il significato che può assumere il principio democratico nel sistema
politico moderno considerando i termini della sua possibile attuazione
nel frangente esperito dalla Germania post-bismarckiana. Senza con
ciò rimanere ancorata a una serie contingente di eventi, tale riflessione
si estende e si differenzia poi da quella michelsiana nei modi che sono
stati considerati, giungendo cioè a produrre delle concezioni molto distanti
dal vagheggiamento “romantico”. Quando tuttavia si considerano
gli esiti estremi cui entrambe pervengono nell’ultima fase della
produzione dei loro autori, è facile riconoscere una contraddizione insanabile,
un rovesciamento completo di valori in chiave antidemocratica
solo allorquando si minimizzano le ripercussioni che su di esse
hanno potuto avere le circostanze di tipo sociale e politico createsi al
termine del primo conflitto mondiale.
4. Il confronto con il dopoguerra. – Prima della guerra, oltre ad interrompere
bruscamente i rapporti con Weber, Michels rinuncia alla cittadinanza
tedesca, condannando la tendenza imperialistica della Germania,
considerata come «paese aggressore», e nel 1920, dopo essersi
trasferito a Basilea, ottiene quella italiana. Fino alla sua morte e per più
di quindici anni, egli osserverà le profonde trasformazioni che la fine
del conflitto bellico aveva arrecato agli equilibri sociali della sua nuova
patria, e tenterà di accordare i fondamentali presupposti della sua riflessione
precedente con il particolare contesto politico che vi era sorto.
Lo stesso Weber, in seguito alla sconfitta militare e alla profonda crisi
in cui era stata gettata la Germania, lungi dall’abbandonare – o quantomeno
sovvertire – la sua precedente fede liberale e democratica, si
trovò invece a doverla riadattare alla difficile situazione sociale e politica
cui dovette assistere negli ultimi due anni della sua esistenza.
Le particolari necessità del momento, legate alla ricostruzione
dello Stato tedesco, avevano ormai reso inattuali i capisaldi della teoria
politica sviluppata durante gli anni precedenti, e che trovavano la

Partito e democrazia in Robert Michels
più completa sintesi in Parlament und Regierung. Dato che, inoltre,
neppure prima della guerra gli era stato possibile vedere operante il
ruolo che aveva attribuito all’attività dei partiti e del parlamento,
non ritenne sensato, in una situazione tanto sfavorevole, mantenere
le stesse posizioni.
Pur continuando a scorgere nella democrazia rappresentativa la
configurazione politica più adatta a garantire un adeguato dialogo
tra il potere e le masse, oltre che una guida politicamente responsabile,
Weber constatava ora come «siffatte situazioni generano negli
uomini comuni un senso di profonda sfiducia nella loro cultura, o
comunque in valori, norme e istituzioni di importanza centrale, ma
accendono anche uno stato di “eccitazione” collettiva, che è una premessa
necessaria di ricettività al carisma e al mutamento che esso
porta» ( 74 ). Tale guida e tale dialogo dunque, dovevano ora rivestirsi
del carattere straordinario conferito loro dal carisma, in modo da
riuscire a far fronte alle avversità in cui versava la nazione tedesca in
seguito al primo conflitto mondiale.
Si apre così una nuova fase della sua riflessione politica la quale, oltre
che nella celebre conferenza Politik als Beruf, trovò espressione in
Deutschlands künftige Staatsform (novembre-dicembre 1918), Das neue
Deutschland (dicembre 1918) e Der Reichspräsident ( 75 ) (febbraio 1919).
In questi scritti, Weber si esprime a favore dell’istituzione di un presidente
del Reich eletto direttamente dal popolo, non dal parlamento
( 76 ), e quindi capace di rispondere del suo operato direttamente agli
elettori; posto a capo dell’esecutivo, doveva essere dotato di ampi poteri,
quali il veto sospensivo e il diritto di ricorrere al referendum, qualora
si prospettasse un conflitto tra diversi organi istituzionali ( 77 ).
All’elezione plebiscitaria del Reichspräsident, però, Weber ascriveva
lo stesso ruolo che in Parlament und Regierung avrebbe dovuto svolge-
169
( 74 ) L. CAVALLI, Il carisma come potenza rivoluzionaria, in P. Rossi (a cura di),
Max Weber e l’analisi del mondo moderno, Einaudi, Torino 1981, p. 173.
( 75 ) Ora rispettivamente in Max Weber Gesamtausgabe: Wissenschaft als Beruf
(1917-1919) – Zur Neuordnung Deutschlands. Schriften und Reden 1918-1920, a
cura di Wolfgang J. Mommsen e Wolfgang Schwentker, J.C.B. Mohr (Paul Siebeck),
Tübingen 1992, pp. 98-146; pp. 379-385 e pp. 220-224; trad. it. La futura
forma statale della Germania, in M. WEBER, Scritti politici, cit., pp. 131-174; La
nuova Germania, ivi, pp.169-174; Il presidente del Reich, ivi, pp. 231-236.
( 76 ) «L’unica valvola di sicurezza per la necessità dell’autorità di un capo potrebbe
aversi nel presidente del Reich, ove fosse eletto per plebiscito e non dal parlamento»
(ibidem).
( 77 ) Cfr. M. WEBER, La futura forma statale della Germania, cit., p. 166.

170
GIUSEPPE PAULESU
re un autentico sistema parlamentare tramite la partecipazione dei
partiti alla competizione per il raggiungimento di cariche di effettiva
responsabilità politica a favore dei loro capi: «solo l’elezione di un presidente
del Reich attraverso il popolo può essere l’occasione e il motivo
per una selezione dei capi e dunque per una nuova organizzazione dei
partiti e del parlamento» ( 78 ), che in tale frangente si mostravano ormai
inaffidabili rispetto alle funzioni che gli aveva attribuito in precedenza,
soprattutto in quanto influenzati dal potere di particolari gruppi
di interesse economico, oltre che dalla competizione nel «mercato
delle vacche» per il patronato delle cariche.
Anche svolgendo un’analisi non troppo accurata della produzione
relativa a questi ultimi scritti politici, è perciò possibile riconoscere
come, in definitiva, l’ipotesi della Führerdemokratie non rappresenta
un taglio radicale rispetto alle posizioni teoriche precedentemente
accolte ( 79 ), e nemmeno un ripiegamento ideologico del suo autore
verso posizioni meno intransigenti nei confronti di possibili risvolti
( 78 ) M. WEBER, Il presidente del Reich, cit., pp. 234-235. Come spiega Wolfgang
Mommsen, «Max Weber […] voleva evitare, possibilmente, un sistema centralistico
puro, e conservare agli Stati federali già esistenti una partecipazione al processo
decisionale, che avrebbe dovuto svolgersi secondo le regole della democrazia parlamentare.
Perciò rifletté con particolare attenzione al modo per trasformare il Bundesrat,
organo rappresentativo degli Stati, in una Camera alta di tipo federale che
consentisse alle forze federalistiche di esercitare un adeguato influsso sul governo.
Contemporaneamente egli propugnava l’elezione diretta del presidente del Reich,
in modo da creare una valvola per l’ascesa di grandi figure di capi politici. Sullo
sfondo c’era l’idea liberale di prevenire gli abusi di potere – dovuti, almeno in parte,
proprio a maggioranze parlamentari prive di guida politica – con una struttura
costituzionale pluralistica che dividesse fra istanze diverse l’esercizio effettivo del
potere statale» (W.J. MOMMSEN, Della superiorità della democrazia come ordinamento
dello stato, Introduzione a M. WEBER, Parlamento e governo nel nuovo ordinamento
della Germania e altri scritti politici, Einaudi, Torino 1982, p. XIV).
( 79 ) Francesco Tuccari osserva che, come la produzione politica degli anni precedenti,
anche «la nozione weberiana della Führerdemokratie appartiene […] all’universo
concettuale della cultura politica liberale. Con poche rilevanti eccezioni,
la letteratura critica è sostanzialmente concorde su questo punto e […] è un
fatto difficilmente contestabile che al centro del suo sistema di valori stia una versione
radicalmente aggiornata, ma ancora chiaramente riconoscibile, di alcuni dei
motivi classici che hanno segnato […] l’intera riflessione liberale, da Locke a
Montesquieu, da Kant a Humboldt, da Constant a Tocqueville e a John Stuart
Mill: l’esigenza di garantire all’individuo la maggiore autonomia possibile contro
le tendenze all’omologazione e all’uniformità che sono caratteristiche della modernità;
l’idea di limitare il potere con il potere, vale a dire di creare […] un sistema
di pesi e contrappesi che possa in qualche modo scongiurare, o perlomeno attenuare,
i rischi del governo dispotico» (F. TUCCARI, I dilemmi della democrazia moderna,
cit., p. 12).

Partito e democrazia in Robert Michels
dispotici e autoritari ( 80 ); quella del presidente plebiscitario, infatti,
si configura principalmente come una delle possibili forme che la
rappresentanza può assumere nell’ambito realizzativo del principio
democratico, sotto l’esigenza concreta di dover ricostruire la «futura
forma istituzionale della Germania» in un momento di profonda crisi,
dove, appunto, la soluzione rappresentata dalla repubblica presidenziale
si presentava come la più adatta a ricomporne la solidità
della struttura interna e la dignità sul panorama internazionale. Occorre
però sottolineare come, allo stesso tempo, lungi dal rivelare
qualsiasi temibile affinità con quelle affermazioni totalitarie del potere
che nei decenni successivi alla morte del suo autore avrebbero funestato
l’umanità e sconvolto ogni assetto politico e sociale, anch’essa,
non diversamente dall’ipotesi del parlamentarismo, era in grado
di costituire un’ulteriore, utile baluardo contro l’avanzata della minaccia
rappresentata dalla razionalità burocratica, il vero pericolo dispotico
paventato da Weber per il futuro delle società moderne.
La tesi del Reichspräsident pertanto, non sembra rivelare «l’allentarsi
di alcuni di quei vincoli di carattere liberale sui quali in passato
Weber aveva insistito» ( 81 ), ma si riconnette ai presupposti su cui si
basava la precedente riflessione sulla democrazia e il parlamentarismo,
e può piuttosto essere visto come il riconoscimento, da parte di
Weber, dei limiti su cui si scontra il potere razionale-legale di uno
Stato moderno allorquando si trova a dover affrontare particolari situazioni
di crisi; quando cioè la sua originaria fonte di legittimazione
può aver bisogno di un supporto di tipo carismatico (o tradizionale)
per continuare a infondere il sentimento della propria stabilità
e rassicurare la comunità che rappresenta ( 82 ). Il ruolo del carisma,
171
( 80 ) Basta ricordare le posizioni assunte al riguardo da W.J. MOMMSEN, Max
Weber e la politica tedesca, cit., pp. 600-602; G. LUKÁCS, La distruzione della ragione,
Einaudi, Torino 1959, pp. 607-627; Jürgen Habermas, in Otto Stammer (a
cura di), Max Weber e la sociologia oggi, Jaca Book, Milano 1967 pp. 99-107; D.
BEETHAM, La teoria politica di Max Weber, cit., p. 329; F. Ferrarotti, Max Weber.
Fra nazionalismo e democrazia, Liguori, Napoli 1995, pp. 73-74.
( 81 ) D. BEETHAM, La teoria politica di Max Weber, cit., p. 328.
( 82 ) Come afferma Reinhard Bendix, «Weber considerò il dominio legale e tradizionale
come strutture permanenti che provvedono alla soddisfazione dei bisogni
quotidiani della comunità. Tali strutture non sono troppo adatte alla soddisfazione
di bisogni che escono dall’ordinario. Quindi, in tempo di difficoltà il leader “naturale”
non è il funzionario […] ma l’uomo che è ritenuto in possesso di straordinari
doni fisici e intellettuali. Le difficoltà che inducono gli uomini a invocare tali leader
e i leader che rispondono a tale chiamata possono essere di molti tipi» (R. BENDIX,
Max Weber. Un ritratto intellettuale, Zanichelli, Bologna 1984, p. 218).

172
GIUSEPPE PAULESU
infatti, emerge particolarmente in quelle situazioni critiche dove
l’elemento emozionale delle masse ha bisogno di trovare appoggio in
una guida dotata di qualità straordinarie, essendo venuta meno la fiducia
nutrita in quelle cui faceva ordinariamente riferimento, anche
quando fondano la propria legittimità su un sistema legale razionalmente
costituito. Nell’insieme dato dalle congiunture storiche osservate
da Weber nel dopoguerra, l’elemento carismatico, tuttavia, tenderebbe
a unirsi, non a sovrapporsi, alle componenti che rendono
possibile il funzionamento della democrazia rappresentativa, prendendo
così forma antiautoritaria. In questo caso,
il riconoscimento viene considerato come fondamento anziché come conseguenza
della legittimità (legittimità democratica) […]. Il detentore del potere
legittimo in virtù del proprio carisma, diventa un signore per grazia dei sudditi;
e questi (formalmente) con piena discrezione lo eleggono, lo incaricano ed
eventualmente anche lo destituiscono […]. Il detentore del potere è ora il duce
liberamente eletto ( 83 );
dato che, inoltre, tale “riconoscimento” vuole come contropartita
una “conferma”, il potere conferito dal popolo al capo carismatico
diviene duraturo fintanto che riesce a dar prova di meritarlo con rinnovati
successi.
Poiché si è soliti far risalire la composizione della Herrschaftssoziologie
agli stessi anni in cui si consumava il dramma vissuto dalla Germania
nel suo tracollo politico e sociale, la teoria del potere carismatico
che vi si sviluppa può essere considerata come il punto della
produzione weberiana dove avviene l’incontro fra le suggestioni tratte
dall’esperienza vissuta e i risultati cui era giunta la sua riflessione
politica e sociologica. Di sicuro, però, è stata per Michels il mezzo
grazie al quale tentò di legittimare il potere esercitato da Benito
Mussolini, quando riconobbe nell’avvento del fascismo quella zona
della storia che meno di tutte si distanziava dall’iperuranio in cui
non smise mai di coltivare il suo forte ideale democratico. Così
come si è avuto modo di osservare a proposito della tarda produzione
politica weberiana, infatti, neppure l’adesione al fascismo da parte
dell’“ultimo” Michels può a buon diritto essere considerata come
il radicale sovvertimento di assunti teorici e concezioni ideologiche
cui aveva dato sostegno durante tutto il corso della precedente attività
pubblicistica e militante.
Tra i fattori che favorirono l’opera di «ringiovanimento» promossa
dal fascismo nei confronti della nazione italiana durante la crisi
( 83 ) M. WEBER, Economia e società, cit., vol. I, p. 238.

Partito e democrazia in Robert Michels
economica e morale attraversata nell’immediato dopoguerra, Michels
riconobbe il peso esercitato da forti contraddizioni. La prima di queste
può essere ricollegata alla riflessione svolta nel corso della produzione
precedente a proposito dei vizi degenerativi che colpivano indistintamente
ogni forma di rappresentanza e, in particolare, quella esercitata
dai partiti e dal sindacato. Oltre alle tendenze oligarchiche che inevitabilmente
si manifestano anche nelle organizzazioni facenti capo al
movimento operaio nel momento in cui si piegano alla logica della democrazia
parlamentare, Michels denunciava ora la fiacchezza rivoluzionaria
del Partito Socialista Italiano, che avrebbe spinto molti dei
suoi militanti di orientamento soreliano a «cercare nei loro avversari la
giusta connessione tra teoria e prassi politica (privilegiando l’azione
nei confronti del gradualismo e dell’attendismo)» ( 84 ); come afferma
lo stesso Michels in un passo di Italien von Heute, insieme con la loro
adesione, essi riversarono nel fascismo anche il loro «amore per il proletariato
e per la “rivoluzione”» ( 85 ).
La seconda contraddizione che Michels sembra aver ravvisato nel
panorama storico italiano successivo alla guerra, riguarda invece la
nuova condizione economica raggiunta dalla classe operaia in periodo
postbellico. I salari dei lavoratori dell’industria, che erano stati
esonerati dal servizio militare per poter contenere lo scontento popolare
con prezzi “politici”, dall’anteguerra fino ai primi anni successivi
al termine del conflitto avevano raggiunto dei livelli abnormi
rispetto allo stipendio degli intellettuali e degli appartenenti alle
classi medie in genere, sebbene questi ultimi «tributarono un grosso
sacrificio di sangue» alla patria. Per questo fatto «tra studenti e persone
che avevano studiato, da un lato, e lavoratori dall’altro si creò
un rapporto che si può definire […] come lotta di classe alla rovescia,
lotta di classe à rebours» ( 86 ), dove gli strati che erano stati maggiormente
danneggiati dalla guerra, gli intellettuali e gli impiegati,
trovarono nel fascismo quella forza politica che più di tutte poteva
rappresentare il loro desiderio di riconquistarsi la posizione sociale
ed economica di cui si erano sentiti spogliati.
Attraverso una attenta analisi delle dinamiche sociali e politiche
sviluppatesi in Italia nel dopoguerra, Michels cerca dunque di riconoscere
nel regime fascista quella componente storica che avrebbe
( 84 ) G. PANELLA, Le origini del fascismo nell’interpretazione di Robert Michels,
Postfazione a ROBERT MICHELS, Socialismo e fascismo, cit., p. 161.
( 85 ) ROBERT MICHELS, L’Italia di oggi, cit., p. 100.
( 86 ) ROBERT MICHELS, Socialismo e fascismo, cit., p. 30.
173

174
GIUSEPPE PAULESU
potuto annullare le incertezze e i contrasti sorti in tali contingenze, e
si adopera perciò a rielaborare gli elementi élitistici che aveva acquisito
nello sviluppo della produzione degli anni precedenti in una
sintesi che dotasse di un discreto spessore teorico le basi su cui l’avvento
del fascismo aveva cercato di costruire la propria legittimità; una
«nuova teoria dell’élite» che, per l’ammissione stessa di Michels, intendeva
presentarsi come una «dottrina dell’istituzione del duce» ( 87 ).
Nell’intento di erigere questo nuovo edificio teorico non poteva soltanto
limitarsi a riadattare gli assunti cui era pervenuto già a partire
dall’esperienza maturata con la militanza socialista e rivoluzionaria;
doveva ora introdurre almeno un elemento che potesse illustrare il
modo in cui il rapporto immediato che aveva visto instaurarsi tra le
masse e il «capitano nuovo» Benito Mussolini rispondesse all’ideale
rousseauiano della democrazia diretta. Il tratto che identifica tale
elemento può essere chiaramente percepito quando afferma che
Mussolini è il moderno modello di ciò che Max Weber intendeva sotto la categoria
di capo carismatico: libero e formatosi allo stato brado, egli si è procurato
il suo carisma senza alcuna eredità di sorta e senza una tradizione cresciuta su se
stessa, ottenendolo dalla fede delle masse e dalla propria energia sviluppata in
piena autonomia; una fede che per molti confina con il trascendentale ( 88 ).
Nonostante la grossolanità che può essergli attribuita nell’interpretazione
che in tal senso diede del concetto weberiano di carisma ( 89 ),
con questa nuova dottrina della «direzione carismatica della cosa
pubblica», Michels si preoccupava soprattutto di fornire una concreta
e definitiva risposta a «quella domanda di partecipazione popolare
che né la vecchia democrazia liberale di derivazione ottocentesca, né
un socialismo burocratico e sempre più prigioniero degli schemi della
lotta politico-parlamentare borghese avevano saputo raccogliere e
convenientemente soddisfare» ( 90 ). Con l’avvento del fascismo, infatti,
Michels aveva visto instaurarsi un rapporto tra il potere e l’elettorato
privo della necessità di dovervi introdurre qualsiasi forma di
intermediazione, ma che, come nel caso del potere carismatico teorizzato
da Weber, avveniva a livello intimo ed emotivo.
( 87 ) ROBERT MICHELS, Corso di sociologia politica, cit., pp. 96-99.
( 88 ) ROBERT MICHELS, L’italia di oggi, cit., pp. 113-114.
( 89 ) Cfr. ad esempio P.P. PORTINARO, Teoria del partito, elitismo carismatico e
psicologia delle masse nell’opera sociologica di Michels, cit., pp. 280-281.
( 90 ) F. BOZZI, Democrazia liberale, socialismo burocratico ed elitismo organico in
Roberto Michels, cit., p. 301.

Partito e democrazia in Robert Michels
Al fondo della riflessione michelsiana, continua così a persistere
la fede nella possibilità di vedere realizzato l’ideale rousseauiano della
democrazia diretta, estranea ai limiti che necessariamente porta
con sé il principio rappresentativo. Proprio per l’assenza di rappresentanza
che si accompagnava al rapporto «sintonico» tra il duce e le
masse («continuo tacito consenso») ( 91 ) egli scorse nella “democrazia
fascista”
175
una delle ultime possibilità rimaste a quel sogno della democrazia diretta cui
era stato ispirato il periodo più intenso della sua militanza politica. […] Un
movimento fondato sul rapporto Duce-masse, senza mediazioni burocratiche e
senza bisogno di rifiutare quella “legge ferrea” che era stato il punto d’approdo
della sua sociologia politica. Potrà sembrare illegittimo evocare il fantasma della
libertà e tornare indietro fino al Rousseau del Contrat Social […]. È questa
la costellazione in cui si inscrive il progetto michelsiano, il tentativo che lo
condurrà prima al mito della action directe e dello “sciopero generale” di ispirazione
soreliana […], poi al disincanto della teoria delle élites ed infine all’entusiasmo
per la Gemeinschaft totalizzatrice proposta dal fascismo ( 92 ).
Anche alla base dell’adesione di Michels al fascismo, dunque, stava
lo stesso ideale su cui si fondava la sua produzione giovanile, e
che ora vedeva realizzato nel rapporto semplice e diretto – privo dell’intermediazione
rappresentativa – che, come si è visto, lega le masse
al loro duce carismatico, il quale tenta così di porsi come l’antitesi
di un professionismo politico che, animato per lo più dai benefici
che può comportare il conseguimento di una carica elettiva, finisce
inevitabilmente per scindersi dai bisogni, dalle aspirazioni e dal controllo
delle masse, e per escluderle quindi dalla partecipazione alla
scena politica. Rispetto al ventennio precedente però, l’intensità con
cui ora anela l’attuazione di questo ideale lo porta quasi cinicamente
a sorvolare sulla restrizione delle libertà civili e sul facile uso della
violenza apportata dal regime fascista ( 93 ), quasi si tratti di un giusto
prezzo da pagare, e finisce così per perdere gran parte di quella tensione
morale che caratterizzava la riflessione del periodo che precedeva
la guerra.
( 91 ) ROBERT MICHELS, Corso di sociologia politica, cit., p. 94.
( 92 ) G. PANELLA, Origini e caratteri del fascismo italiano nell’analisi di Roberto
Michels, in Riccardo Faucci (a cura di), Roberto Michels: economia, sociologia, politica,
cit., pp. 158-159.
( 93 ) In Socialismo e fascismo, cit. pp. 44-46, Michels considera come nelle
espressioni del «fresco impeto giovanile» del fascismo «c’è il senso di un comico
grottesco, che si esprime ad es., nel tagliare le barbe e nel costringere i detestati
oppositori politici a bere olio di ricino ed in altre stupide ragazzate».

176
GIUSEPPE PAULESU
Se dunque si deve cercare un punto in cui l’ultima produzione
michelsiana si diversifica da quella precedente, non si può che individuarlo
nel fatto che, ora, sembra maggiormente orientata a isolare
il discorso sulle condizioni realizzative del principio democratico da
quello che riguarda i suoi possibili esiti libertari, quegli stessi elementi
che Weber, come si è detto, non cesserà di vedere inscindibilmente
congiunti.
Le ipotesi e le teorie elaborate da Max Weber e Robert Michels
sulle dinamiche che contraddistinguono la scena politica tra il XIX e
il XX secolo, sviluppate in quella che giustamente è stata definita
«un’evoluzione parallela», sembrano dunque volgere verso posizioni
opposte rispetto a quelle accolte in partenza solo quando le si astrae
dal complesso e tormentato contesto storico-sociale in cui ebbero
origine, e non le si vede invece come il tentativo di determinare e
comprendere una realtà che mutava volto vorticosamente, e spesso
in maniera contraddittoria, con strumenti concettuali tipici di una
tradizione di pensiero al contrario già consolidatasi. Il liberalismo
weberiano e l’ideale democratico di Michels affrontano così le problematiche
sorte con l’irrompere delle masse popolari sulla scena politica,
e gli effetti apportati da questo fenomeno sul carattere del potere
e degli organi rappresentativi, insieme con le contraddizioni interne
al sistema politico e sociale dello Stato tedesco e i rivolgimenti
causati dal primo conflitto mondiale. Se però si può osservare come
nel confronto con tali tematiche la tradizione del liberalismo venga
sensibilmente arricchita dalla realistica ottica weberiana, la concezione
democratica cui si richiama Michels, invece, non viene fatta oggetto
di sostanziali sviluppi, in quanto non gli riesce di adattarla ai
profondi mutamenti che vede incorrere nella realtà politica che lo
circonda; egli non cessa mai di giudicare quest’ultima alla luce della
possibilità di vedervi realizzato, un giorno, il sogno della partecipazione
uguale e diretta delle masse popolari alla gestione dell’attività
politica, fino a non preoccuparsi di immolare in suo nome quelle
fondamentali prerogative che dovrebbero fare del cittadino di uno
Stato un uomo libero.

GIANLUCA PITTALIS
L’ETICIZZAZIONE DELL’ECOLOGIA
E L’ECOLOGIZZAZIONE DELL’ETICA
NELLA FILOSOFIA MORALE DI ALDO LEOPOLD
SOMMARIO: 1. La concezione dell’etica secondo la tradizione occidentale. – 2. La
contraddizione della concezione dell’etica intesa come un “prodotto” della
razionalità umana. – 3. Il cominciamento dell’etica della terra. – 4. Il capovolgimento
dei primati ontologici operato dall’ecologia. – 5. L’essere dell’uomo
e l’essere della natura. – 6. L’eticizzazione dell’ecologia. – 7. L’ecologizzazione
dell’etica. – 8. Interdipendenza e cooperazione.
La filosofia morale di Aldo Leopold ha lo scopo dichiarato di conferire
una valenza morale intrinseca a tutti i singoli enti non umani
da un lato, e all’ecosistema considerato come un “Tutto” dall’altro
lato ( 1 ). L’etica, infatti, secondo Leopold, può essere raffigurata come
una circonferenza che tende progressivamente ad allargarsi: all’interno
della circonferenza sta tutto ciò che è considerato moralmente rilevante,
mentre all’esterno sta tutto ciò che è considerato moralmente neutro.
L’evoluzione storica dell’etica ha fatto sì che questa circonferenza
si allargasse fino ad includere al suo interno tutto il genere umano ( 2 ).
Si tratta, adesso, di far sì che la circonferenza si allarghi ulteriormente,
fino ad includere la totalità della natura ( 3 ). L’etica della terra è ciò che
dovrebbe rendere possibile questa estensione ( 4 ).
( 1 ) Cfr. A. LEOPOLD, A Sand County Almanac and Sketches Here and There,
Oxford University Press, New York 1989, pp. 202-203.
( 2 ) Ivi, p. 203.
( 3 ) Con il termine “natura”, “terra”, “ambiente non umano” ed “ente non
umano”, intendiamo tutto ciò che è diverso dall’uomo, quindi animali, piante,
montagne, suoli etc.
( 4 ) Cfr. A. LEOPOLD, op. cit., p. 204.

178
GIANLUCA PITTALIS
La necessità di un simile processo è dettata, secondo Leopold,
dalle recenti scoperte della scienza ecologica, che mette a nostra disposizione
tutta una serie di conoscenze atte a consentire l’allargamento
della “circonferenza etica”. Le istanze dell’ecologia, detto in
altri termini, dovrebbero essere in grado di fornire alla filosofia dei
paradigmi idonei per la costruzione di una nuova teoria etica che riconosce
la valenza morale intrinseca dell’ente non umano in quanto
tale. L’atteggiamento volto ad amare e rispettare la terra, allora, non
deve nascere, secondo Leopold, dalla crisi ecologica che opprime la
natura, quanto piuttosto dalle scoperte scientifiche circa il funzionamento
degli ecosistemi; sono queste nuove conoscenze, secondo il
nostro autore, a far nascere nell’uomo una coscienza ecologica che lo
spinge ad amare e rispettare la terra ( 5 ).
Queste argomentazioni, dal punto di vista della filosofia morale
tradizionale, sono quantomeno sconcertanti: l’ecologia, infatti, è una
scienza, e in quanto tale si limita a fornire una descrizione vera del suo
oggetto ( 6 ); la morale, al contrario, è una disciplina che fornisce delle
prescrizioni circa ciò che è giusto e ciò che è ingiusto. I risultati della
scienza ecologica, cioè, non possono essere utilizzati dalla filosofia,
poiché essi sono stati ottenuti grazie a delle categorie che – come vedremo
meglio – sono incommensurabili con quelle utilizzate dall’etica.
In ciò consiste la cosiddetta «fallacia naturalistica» di cui – secondo
la filosofia accademica internazionale – “soffrirebbe” l’etica di Leopold;
essa, cioè, attingendo per i suoi scopi dai risultati di una scienza
descrittiva, compirebbe una derivazione metodologicamente illegittima
( 7 ).
Per questa ragione – e per le conseguenze insite nel discorso teorico
di Leopold – molti filosofi che si occupano di etica ambientale
( 5 ) Cfr. A. LEOPOLD, op. cit., pp. 207-210.
( 6 ) E l’oggetto della scienza ecologica sono le relazioni che intercorrono tra le
varie specie e tra queste e l’ambiente.
( 7 ) Per quanto riguarda la problematica inerente la «fallacia naturalistica» della
filosofia morale di Leopold cfr. J. BAIRD CALLICOTT, “Hume’s Is/Ought Dichotomy
and the Relation of Ecology to Leopold’s Land Ethic”, Environmental Ethic, 4,
1982, pp. 163-174. Ed anche C. MEINE, Building “The Land Ethic”, contenuto in J.
BAIRD CALLICOTT, Companion to A Sand County Almanac. Interpretive & Critical Essays,
The University Of Wisconsin Press, Madison 1987, p. 177; J. BAIRD CALLI-
COTT, Beyond the Land Ethic. More Essays in Environmental Philosophy, State University
of New York Press, New York 1999, pp. 36, 228, 250, 254. Un quadro generale
del problema della «fallacia naturalistica» è fornito in S. DELLAVALLE, Per un
agire ecologico. Percorso di lettura attraverso le proposte dell’etica ambientale, Baldini
& Castoldi, Milano 1998, pp. 17-28.

L’eticizzazione dell’ecologia e l’ecologizzazione dell’etica ...
hanno ignorato o travisato l’etica della terra. Il filosofo canadese
L.W. Sumner, ad esempio, la bolla come un “pericoloso non senso”,
l’australiano H.J. McCloskey non coglie alcuni capisaldi della teoria,
dal momento che asserisce che: “c’è un problema fondamentale nell’attribuire
un significato coerente alle asserzioni di Leopold, più che
rappresentare un maggior avanzamento dell’etica, la sua etica della
terra esprime piuttosto una regressione ad una moralità del tipo di
vari popoli primitivi” ( 8 ). Ciò che manca all’etica di Leopold, secondo
la filosofia accademica internazionale, è un adeguato supporto teoretico,
che le garantirebbe di derivare da una serie di principi tutta
una scorta di precetti morali.
Secondo il filosofo americano John Baird Callicott queste “incomprensioni”
nascono da tre gravi lacune espositive del discorso teorico
di Leopold. Queste ultime, secondo Callicott, dal punto di vista
filosofico, rendono l’etica della terra “molto sbrigativa”, “poco familiare”
e “radicale nelle conclusioni” ( 9 ). La prima lacuna inerisce lo
stile della prosa estremamente condensata di Leopold, che comprime
in pochi periodi un intero complesso concettuale. La seconda,
invece, riguarda il cominciamento della sua filosofia morale. Questo
assume come punti di partenza i paradigmi delle etiche contemporanee
utilizzandoli, però, secondo l’ottica dell’etica della terra che –
come vedremo meglio più avanti – assume una base ontologica diversa
rispetto a quelle. La terza, ancora, riguarda le implicazioni moralmente
paradossali che impregnano l’etica della terra, che sembra
avere come sbocco una non chiara e problematica distinzione tra l’uomo
e la natura vanificando in questo modo qualsiasi teoria etica ( 10 ).
Il presente studio si propone di chiarire le linee teoriche principali
dell’etica della terra, allo scopo di mostrare i presupposti impliciti
sui quali Leopold fonda le sue argomentazioni. L’analisi di questi ultimi
dovrebbe consentirci di affermare che Leopold concepisce l’uomo
in un modo del tutto nuovo per la filosofia occidentale. Il nostro
autore, dunque, pur prendendo le mosse dagli assunti dell’etica tradizionale,
concepisce l’ente che solo può essere considerato agente
morale, in un modo diverso rispetto a come lo concepisce la tradizio-
( 8 ) Per quanto riguarda le posizioni di Sumner e McCloskey cfr. J. BAIRD CAL-
LICOTT, Companion to A Sand County Almanac., cit., pp. 186-187.
( 9 ) Per quanto riguarda queste osservazioni di Callicott e per i tre punti che seguono
cfr. J. BAIRD CALLICOTT, Companion to A Sand County Almanac., cit., p. 187.
( 10 ) Per quanto riguarda quest’ultimo punto cfr. anche S. BARTOLOMMEI, Etica
e ambiente. Il rapporto uomo – natura nella filosofia morale contemporanea di lingua
inglese, Guerini e Associati, Milano 1990, pp. 55-56.
179

180
GIANLUCA PITTALIS
ne filosofica. Quest’ultima, considerando l’agente morale come “io”
o come “soggetto”, intende l’etica come un “prodotto” della razionalità
umana. Dal punto di vista in cui si pone Leopold, al contrario,
questa concezione va a cozzare contro un insieme di contraddizioni
che la minano fin dalle fondamenta. Questo fatto, a nostro avviso,
è ciò che ha fatto sorgere le valutazioni negative che abbiamo
brevemente accennato sopra. Per questo motivo, prima di analizzare
l’etica della terra in se stessa, ci pare opportuno mostrare quelle contraddizioni
che ci permetteranno, al tempo stesso, di comprendere il
cominciamento della filosofia morale del nostro autore.
1. La concezione dell’etica secondo la tradizione occidentale. – La tradizione
occidentale ha sempre considerato l’etica come un prodotto
della ragione. In quanto tale, l’etica è definita come scienza della condotta.
Essa dovrebbe individuare ciò che deve essere inteso come il
bene al fine di indirizzare la condotta umana al suo perseguimento.
All’interno di questa tradizione, però, è possibile individuare due
orientamenti filosofici che, considerando l’etica nei termini sopra
esposti, raggiungono risultati divergenti poiché attribuiscono al termine
“bene” un significato diverso.
Il primo orientamento ( 11 ) intende il bene come una realtà perfetta
o una perfezione reale deducibile dalla natura razionale dell’uomo.
Poiché è deducibile da questa natura, il bene è in qualche modo inscritto
nella razionalità umana. Ciò significa che la ragione umana,
poiché partecipa in questo modo del bene, è in grado di coglierlo
così come esso è, ossia come una realtà perfetta. La funzione della
ragione, allora, oltre a determinare questa realtà perfetta, è quella di
orientare la condotta umana alla determinazione di tutti quei mezzi
atti a realizzare il bene ( 12 ). È evidente, però, che una volta realizzato,
( 11 ) In questo primo orientamento possono esser fatte rientrare le dottrine etiche
che Platone espone nella Repubblica e nel Filebo; la dottrina di Aristotele esposta
nell’Etica Nicomachea; l’etica degli Stoici; il misticismo neoplatonico; in generale, le
dottrine etiche elaborate in epoca medievale; i Neoplatonici di Cambridge; la dottrina
di Fitche e di Hegel; l’etica di Rosmini; le dottrine di Green e di Croce; una forma
più complessa e moderna dell’etica del fine la si può riscontrare nella dottrina di
Bergson etc. Per quanto diverse siano tra loro le dottrine degli autori sopracitati, la
loro impostazione formale è identica: esse determinano, innanzi tutto, la natura necessaria
dell’uomo, e deducono da questa il fine cui dev’essere indirizzata la condotta.
( 12 ) Con il termine bene intendiamo in questo luogo la definizione che di questo
termine ci fornisce Aristotele in Et. Nic., I, 2, 1094a 18, ossia come ciò che è
desiderato di per se stesso e non in vista di un bene ulteriore.

L’eticizzazione dell’ecologia e l’ecologizzazione dell’etica ...
il bene non può fungere da mezzo, ossia non può essere utilizzato a
sua volta per la realizzazione di un bene che sta al di là di se stesso.
Se così fosse, il bene in questione non sarebbe altro che un mezzo
atto alla realizzazione del bene oggetto dell’etica. Per questa ragione
l’esistenza del bene, o meglio, di ciò che la tradizione ha chiamato
sommo bene ( 13 ), è necessaria ( 14 ).
Dal momento che il sommo bene è deducibile dalla natura razionale
dell’uomo è evidente che non ci possono essere – secondo questa
concezione – diversi sommi beni. Se così fosse, infatti, si dovrebbe
presumere che gli uomini non possiedano la stessa natura razionale.
Affinché sia possibile l’esistenza di un sommo bene a diverso
da un sommo bene b, cioè, si dovrebbe ammettere che la natura razionale
dell’uomo A sia diversa dalla natura razionale dell’uomo B.
Se così fosse, però, o A o B non sarebbero l’uomo, giacché l’uomo è
quell’ente che ha una natura razionale così e così determinata. Il
sommo bene, allora, è uno, ossia uguale per tutti gli enti che hanno
una natura razionale conformata come quella umana.
Il secondo orientamento ( 15 ), invece, intende il bene come un oggetto
di appetizione. Un oggetto è appetibile quando suscita piacere
in colui che ha a che fare con esso; dall’altro lato l’uomo vuole avere
a che fare con quest’oggetto poiché esso suscita in lui piacere. Il piacere,
allora, è – secondo questa concezione – il movente abituale e costante
della condotta umana. Compito dell’etica sarà allora la determinazione
dell’oggetto appetibile e del movente che orienta la condotta
verso l’oggetto. Il movente di cui qui si parla, però, è il piacere:
ciò che è appetibile ( 16 ), allora, non è più deducibile dalla natura razionale
dell’uomo, bensì è determinabile solo sulla base del movente
che muove la condotta verso l’oggetto. Da questo punto di vista, il
compito dell’etica sarà la determinazione precisa del movente della
condotta verso l’oggetto appetibile.
Gli oggetti capaci di suscitare piacere in questo senso, però, sono
molti. Per questa ragione, a rigor di termini, non dovrebbe esistere
181
( 13 ) Cfr. Et. Nic., I, 2, 1094a 18.
( 14 ) Questa necessità ci consente di evitare un processo all’infinito.
( 15 ) A questo secondo orientamento possono esser fatte aderire le dottrine di
Protagora, Aristippo ed Epicuro. Questa concezione è rimasta, invece, assente per
tutto il medioevo per rifiorire nel Rinascimento con Lorenzo Valla che fu il primo
a riproporla nel De voluptate. Ancora le dottrine di Telesio, Hobbes, Spinoza,
Locke, Leibniz, Hume, Kant, Bentham, Russell, Dewey etc.
( 16 ) Ossia il sommo bene.

182
GIANLUCA PITTALIS
un sommo bene, bensì tanti sommi beni quanti sono gli oggetti appetibili.
La determinazione dell’appetibilità di un oggetto può essere
definita sulla base di una serie di elementi anticipatori e normativi,
quali, ad esempio, il progetto, la previsione e la scelta, che la ragione
umana dovrebbe elaborare al fine di disciplinare e orientare la condotta
verso l’oggetto appetibile. L’etica, allora, consisterà proprio in
questa elaborazione. Infatti, elaborando progetti, previsioni e scelte
l’etica determinerà il preciso movente che muoverà la condotta verso
l’oggetto che, grazie a questi elementi anticipatori e normativi, sarà
da essa determinato a priori.
Pur essendo impregnati delle tangibili differenze sopra esposte, i
due orientamenti filosofici imputano alla ragione la genesi e l’esplicazione
di ciò che intendiamo per etica. L’esercizio della ragione,
cioè, è ciò che rende possibile qualcosa come il comportamento morale.
Questa tesi nasce da un certo modo di concepire l’uomo: i due
orientamenti, infatti, concepiscono l’uomo come un essere razionale
che, in virtù di questa sua peculiarità, si distingue e trascende la natura.
2. La contraddizione della concezione dell’etica intesa come un “prodotto”
della razionalità umana. – Per comprendere la linea teorica principale
del pensiero etico di Leopold è necessario mettere in discussione
la precedente tesi. Questa necessità non nasce dal desiderio del
nostro autore di conferire immediatamente una valenza morale intrinseca
alla natura, quanto piuttosto da una serie di considerazioni
teoriche che intaccano fin dalle fondamenta quella concezione, evidenziando
come l’etica sia radicata, non nella razionalità umana,
bensì nella sfera irrazionale dell’uomo. In questa sede, pertanto, esamineremo
brevemente i risvolti salienti di questa teoria.
Alcuni studi antropologici hanno evidenziato il fatto che la razionalità
umana ha come presupposto fondamentale il linguaggio ( 17 ).
Gli uomini, in sostanza, dovrebbero aver sviluppato un linguaggio
che, elaborando concetti sempre più complessi, ha forgiato le caratteristiche
peculiari della razionalità umana così come oggi la conosciamo.
Ciò dovrebbe significare che l’essere umano è stato, innanzi
tutto, un “essere parlante”, e solo successivamente un essere razionale.
Da questo punto di vista, allora, il linguaggio deve essere inteso
come la causa, mentre la razionalità come l’effetto.
( 17 ) Su questo punto cfr. E. HARRISON, Le maschere dell’universo, Rizzoli, Milano
1989, pp. 37-38.

L’eticizzazione dell’ecologia e l’ecologizzazione dell’etica ...
Possiamo supporre, quindi, che allorché l’uomo si è riunito nelle
prime comunità, ha dovuto sviluppare un linguaggio che solo successivamente
ha forgiato la sua razionalità. La costituzione della comunità,
allora, secondo questo punto di vista, deve essere considerata
come uno dei presupposti fondamentali per la nascita e lo sviluppo
del linguaggio.
Se la comunità è ciò che rende possibile il linguaggio, è evidente
che essa deve rimanere, nel corso della sua storia, integra come comunità;
ossia, non deve essere soggetta a perturbazioni interne che
compromettano la sua sopravvivenza. In altri termini, la condotta
propria degli uomini che fanno parte della comunità, deve necessariamente
essere orientata a conservare l’unità di questa. Ma un
modo d’agire così fatto, presuppone da parte dell’uomo una condotta
che è già orientata moralmente ( 18 ). Secondo le istanze dei due
orientamenti filosofici sopra esaminati, però, in questa fase non dovrebbe
ancora esserci un comportamento etico, giacché la razionalità
non esiste ancora. Eppure, poiché, da questo punto di vista la razionalità
è dovuta al linguaggio e questo, a sua volta, presuppone la comunità,
pare che in questa fase possa essere postulato un comportamento
morale, piuttosto che un comportamento razionale. Sembra,
cioè, che l’uomo sia diventato un essere morale prima ancora di diventare
un essere razionale ( 19 ).
A questo punto non è più possibile indicare la razionalità come ciò
che ha reso possibile l’etica. Infatti, secondo questi assunti, la moralità
umana è condizione essenziale per la nascita del linguaggio, che solo
in un secondo momento ha potuto forgiare la razionalità. Bisogna individuare,
allora, quel qualcosa che ha reso possibile la moralità.
Allo stesso tempo, però, è necessario considerare l’uomo in un
modo diverso da come, in generale, lo considera la tradizione filosofica
occidentale. Questa tradizione considera l’uomo come io o come soggetto
perché ritiene che l’etica – e, in generale, tutte le forme dell’attività
umana – sia da imputare alla razionalità ( 20 ). Da questo punto di
vista, invece, pare che si possa parlare dell’uomo come soggetto solo
in un secondo momento, ossia quando il linguaggio ha forgiato la
razionalità. In questa fase, infatti, il linguaggio non ha ancora potu-
( 18 ) Cfr. T. TANNER, Aldo Leopold. The Man and His Legacy, Soil and Water
Conservation Society, Ankeny 1995, p. 95.
( 19 ) Cfr. J. BAIRD CALLICOTT, In Defense of the Land Ethic, State University of
New York Press, New York 1989, p. 79.
( 20 ) Che è ciò che consente di determinare l’uomo come io o come soggetto.
183

184
GIANLUCA PITTALIS
to sviluppare i concetti atti a forgiare una razionalità così e così caratterizzata;
conseguenza immediata di questo fatto è l’impossibilità
di riconoscere l’io soggettivo come separato e distinto dal non io oggettivo
( 21 ). Questo riconoscimento sarà possibile solo in un secondo
momento; ossia quando la razionalità avrà elaborato – grazie al linguaggio
– i concetti atti a stabilire quella distinzione. La filosofia, allora,
deve fare oggetto della sua indagine l’uomo inteso come essere
naturale reale e sensibile giacché, come si è visto, pare che l’uomo sia
immediatamente un essere naturale e sensibile, e solo mediatamente
un essere razionale o soggetto.
Questa pare sia la ragione profonda per la quale Leopold considera
l’uomo dal punto di vista evoluzionistico della teoria di Darwin ( 22 ).
L’essere naturale di cui qui si parla, in altri termini, dovrebbe essere
inteso come un organismo soggetto a quel fenomeno che i biologi
chiamano feedback ( 23 ).
La teoria dell’evoluzione di Darwin consente a Leopold di individuare
nei sentimenti o emozioni la causa di un comportamento atto
alla salvaguardia della comunità. L’essere umano, infatti, contrariamente
ad altre specie, è debole in tutta la sua infanzia ( 24 ); questa
debolezza ha fatto si che questo organismo sviluppasse – grazie al fenomeno
del feedback – alcune piccole variazioni organiche che hanno
fatto nascere i sentimenti ( 25 ). Da questo punto di vista, allora, i
sentimenti sono ciò che rende possibile l’etica. Non solo, essi, rendendo
possibile un comportamento morale, rendono altresì possibile
lo sviluppo di un linguaggio e quindi di una razionalità.
( 21 ) Cfr. E. HARRISON, Le maschere dell’universo, Rizzoli, Milano 1989, p. 36.
( 22 ) Su questo punto cfr. J. BAIRD CALLICOTT, Companion to A Sand County Almanac.,
cit., pp. 194-195.
( 23 ) Con il termine feedback si intende l’effetto retroattivo di un’azione sull’organismo
che ha prodotto questa stessa azione. Per quanto riguarda il termine feedback
si confronti anche C. DARWIN, Scritti antropologici, Longanesi & C., Milano
1971, G.G. SIMPSON, Genetica ed evoluzione, p. 44.
( 24 ) A questo proposito cfr. G. BARSANTI, La mappa della vita, Guida editori,
Napoli 1983, pp. 186-187.
( 25 ) Le ricerche di Darwin hanno fatto si che, nell’ambito della teoria dell’evoluzione,
i sentimenti debbano essere considerati secondo una logica evoluzionistica
cfr. a questo proposito R. CANESTRARI, Psicologia generale e dello sviluppo, Ed. Clueb,
Bologna 1990, p. 363. Alcune recenti ricerche neuropsicologiche confermano la deduzione
di Darwin, poiché individuano nei lobi frontali del cervello umano – che
essendo un organo del corpo è soggetto al fenomeno del feedback – la sede in cui si
generano i sentimenti. Su questo punto cfr. A.R. DAMASIO, L’errore di Cartesio.
Emozione, ragione e cervello umano, Adelphi Edizioni, Milano 1997, pp. 97-107.

L’eticizzazione dell’ecologia e l’ecologizzazione dell’etica ...
Andando indietro nella serie delle cause, e portando quindi alle
estreme conseguenze la tesi di Leopold, ciò che ha reso possibile
l’etica pare sia l’ente non umano in quanto tale. Il fenomeno del feedback
che ha fatto nascere i sentimenti, infatti, altro non è che l’interazione
che intercorre tra l’organismo e la natura. In altri termini,
allorché l’organismo interagisce con l’ambiente a lui circostante,
mette in movimento tutta una serie di effetti che si ritorcono su di
lui come altrettante cause, favorendo in questo modo la genesi di alcune
piccole variazioni organiche le quali, abbiamo visto, fanno nascere
in lui i sentimenti. Si potrebbe asserire, allora, che se non ci
fosse qualcosa come l’ente non umano l’etica, il linguaggio e la razionalità
sarebbero impossibili. La natura, in sostanza, è ciò che – da
questo particolare punto di vista – rende possibile l’etica.
3. Il cominciamento dell’etica della terra. – Sulla base delle precedenti
acquisizioni ci pare necessario analizzare l’accusa mossa all’etica della
terra di cadere nella cosiddetta «fallacia naturalistica». Essa nasce
dalla lettura dei primi passi della sezione di A Sand County Almanac
titolata The Land Ethic ( 26 ). In quel luogo Leopold intende costruire
una filosofia morale che conferisce una valenza morale intrinseca all’ente
non umano in quanto tale. A questo scopo, come abbiamo accennato,
il nostro autore intende avvalersi dei risultati della scienza
ecologica. La legittimità di questo modo di procedere – contestato
dalla maggior parte dei filosofi – è dovuta al fatto che l’etica per Leopold
è, in realtà, un processo di evoluzione ecologica. Per questa ragione,
secondo Leopold, è possibile definire l’etica sia in termini ecologici,
sia in termini filosofici. Scrive il nostro autore:
185
Questa estensione dei principi etici, studiata finora solo dai filosofi, è in realtà
un processo di evoluzione ecologica, i cui progressivi sviluppi possono
essere descritti in termini ecologici o filosofici. Da un punto di vista
ecologico l’etica è una limitazione della libertà d’azione nella lotta per l’esistenza;
dal punto di vista filosofico, invece, è la differenziazione di una
condotta sociale da una antisociale. Queste sono due definizioni di una
stessa cosa … ( 27 )
Questo è – secondo la filosofia accademica internazionale – il
grave “errore” commesso dall’etica della terra: non è lecito utilizzare
( 26 ) Cfr. A. LEOPOLD, A Sand County Almanac., cit., pp. 201-226.
( 27 ) A. LEOPOLD, op. cit., p. 202.

186
GIANLUCA PITTALIS
le categorie di una scienza descrittiva nell’ambito di una disciplina
prescrittiva. Cerchiamo di focalizzare meglio il problema.
La tradizione filosofica distingue, in generale, tra un mondo oggettivo
di fatti retti da nessi causali e un mondo delle norme ( 28 ) che devono
rimanere rigorosamente distinti, poiché in essi regnano categorie
diverse. Le categorie che si utilizzano all’interno del mondo oggettivo
sono quelle di vero e falso se l’uomo si limita a descrivere
questo mondo; oppure di efficace e inefficace se l’uomo, con un intervento
tecnico, manipola questo mondo. Si dirà, pertanto, nel primo
caso, che la descrizione del mondo oggettivo di fatti sarà vera se
ciò che si asserisce può effettivamente essere riscontrato in questo
mondo; si dirà, nel secondo caso, che l’intervento tecnico è stato efficace
se sarà realizzato nel mondo oggettivo ciò che quell’intervento
si prefiggeva di realizzare ( 29 ).
All’interno del mondo delle norme, al contrario, regnano le categorie
di giusto e ingiusto. Questo mondo, infatti, è costituito da tutta
la serie di norme vincolanti di tipo etico e giuridico proprie di una
società. Ciò significa che il vincolo imposto dalle norme in questione
è categorico solo all’interno di una società, ma può non essere
tale all’interno di altre società che, magari, utilizzano norme diverse.
All’interno del mondo delle norme, si dice che un’azione è giusta se
è conforme alla norma riconosciuta in quanto tale dalla società nella
quale l’azione è stata posta in essere; al contrario, si dice che l’azione
è ingiusta se non è conforme alla norma in questione ( 30 ).
A questo punto dovrebbe risultare chiaramente che non è lecito,
dal punto di vista logico e metodologico, utilizzare le categorie del
mondo oggettivo di fatti per cogliere le connotazioni del mondo delle
norme. All’interno di quest’ultimo, infatti, valgono delle categorie che
sono incommensurabili con quelle valide all’interno del primo. Allo
stesso modo, le categorie del mondo delle norme non riescono a spiegare
le connotazioni del mondo oggettivo, poiché esse non possono
cogliere il significato intrinseco di questo mondo. Colui che si serve
delle categorie del mondo delle norme, ad esempio, si chiederà unicamente
se l’azione del muratore che costruisce una casa è giusta o ingiusta,
ma non si chiederà mai – come invece dovrebbe, per comprendere
il significato intrinseco di quell’azione – se le procedure tecniche
( 28 ) A questo proposito cfr. J. HABERMAS, Teoria dell’agire comunicativo, (1981),
trad. it. di P. Rinaudo, cur. G.E. Rusconi, Il Mulino, Bologna 1986, pp. 70-79.
( 29 ) Ivi, pp. 62-63.
( 30 ) Ivi, pp. 70-79.

L’eticizzazione dell’ecologia e l’ecologizzazione dell’etica ...
del muratore sono efficaci o inefficaci. Per queste ragioni possiamo
concludere che le categorie di vero e falso non possono essere utilizzate
per definire ciò che è giusto o ingiusto, e viceversa.
Secondo la filosofia accademica internazionale la procedura metodologica
di Leopold implica proprio questo indebito utilizzo. La
scienza ecologica, infatti, come qualsiasi altra scienza, si serve proprio
delle categorie di vero e falso, poiché il suo oggetto – che ricordiamo
sono le relazioni che intercorrono tra gli esseri viventi e tra
questi e l’ambiente – può essere individuato all’interno di un mondo
oggettivo di fatti. L’etica che Leopold ha in mente si serve, come
tutte le teorie etiche, delle categorie di giusto e ingiusto ma, contrariamente
a quelle, pretende di dedurre queste categorie dalle asserzioni
vere della scienza ecologica. In ciò consiste – vista nei dettagli
– la presunta «fallacia naturalistica» dell’etica di Leopold.
Tenendo conto di queste argomentazioni, si dovrebbe forse pensare
ad una leggerezza teorica da parte del nostro autore, che pretende
di offrirci una definizione ecologica dell’etica? Eppure lo stesso
Leopold riconosce una chiara e netta distinzione tra l’etica e la scienza
allorché scrive:
Che la terra sia una comunità è il concetto base dell’ecologia, ma che essa
debba essere amata e rispettata è un’estensione delle etiche ( 31 ).
Dalla lettura di questo passo emerge chiaramente che l’ecologia,
utilizzando le categorie di vero e falso, concepisce la terra come una
comunità; l’etica, al contrario, utilizzando le categorie di giusto e ingiusto,
dovrebbe prescrivere l’amore e il rispetto per la comunità della
terra. Ci pare di poter affermare, allora, che sembra si possa accusare
l’etica della terra di cadere nella «fallacia naturalistica» sulla base delle
asserzioni di Leopold riportate all’inizio della presente sezione, ma
non sulla base di quest’ultimo passo. Per quale motivo, allora, il nostro
autore sostiene che l’etica è definibile in termini ecologici?
La ragione profonda di questo fatto è insita in ciò che è stata la
causa – secondo la teoria di Leopold – della genesi del comportamento
etico. Più sopra, infatti, abbiamo visto come questo non deve essere
imputato alla razionalità, quanto piuttosto al sentimento. Il sentimento,
come abbiamo detto, deve la propria genesi a tutta la serie di piccole
variazioni organiche determinate dal fenomeno del feedback che,
da quest’ottica, è ciò che ha reso possibile l’etica. Ora, con il termine
feedback noi abbiamo inteso l’effetto retroattivo di un’azione sull’or-
( 31 ) A. LEOPOLD, op. cit., pp. viii-ix.
187

188
GIANLUCA PITTALIS
ganismo che l’ha posta in essere; ma un siffatto effetto retroattivo è
il frutto delle relazioni che intercorrono tra gli esseri viventi e tra
questi e l’ambiente. Il fenomeno del feedback che ha reso possibile
l’etica, detto in altri termini, non è altro che l’oggetto della scienza
ecologica. Per queste ragioni, a nostro avviso, non è lecito accusare
la teoria di Leopold di cadere nella «fallacia naturalistica» in quanto,
da quest’ottica, diventa legittimo dal punto di vista logico e metodologico
offrire una definizione dell’etica in termini ecologici. La legittimità
di questa definizione è sancita dal fatto che è proprio l’oggetto
di questa scienza, in ultima istanza, a rendere possibile l’etica che,
in questi termini, può essere legittimamente considerata come un
processo di evoluzione ecologica.
4. Il capovolgimento dei primati ontologici operato dall’ecologia. – Avendo
appurato la legittimità di una definizione ecologica dell’etica, e prima
di affrontare le problematiche vere e proprie dell’etica della terra,
cioè quelle inerenti l’allargamento della “circonferenza etica” all’ente
non umano, ci pare sia necessario comprendere come l’ecologia concepisce
la totalità degli enti naturali; giacché è proprio la concezione
che l’ecologia ha dell’ecosistema, secondo la teoria di Leopold, a rendere
possibile quell’allargamento. Per questa ragione l’indagine filosofica
del nostro autore si fonde, per così dire, con un’indagine ecologica
della natura dell’essere di tutti gli enti, umani e non umani. Questa
indagine, che ci pare non sia contraddittorio definire “eco-filosofica”,
ha come scopo il ridimensionamento dei primati ontologici operati
dalla filosofia tradizionale.
La filosofia tradizionale, infatti, ha considerato gli oggetti facenti
parte della natura come una collezione di sostanze individuali ( 32 ).
Queste sostanze individuali hanno una specifica «natura» in sé e per
sé. Ciò che è una sostanza individuale, cioè, è determinato unicamente
dalla sostanza individuale in questione. Inoltre, l’essere della
sostanza individuale in se stessa è conservato da quest’ultima attraverso
il tempo ( 33 ).
( 32 ) Arriva a questa conclusione J. Baird Callicott ricordando Anthony Quinton:
“Nella concezione newtoniana il mondo consiste di tutta una serie di precise e demarcate
sostanze individuali …”, dopo una sintetica indagine storica sulle idee metafisiche
implicite nella scienza classica moderna. Cfr. J. BAIRD CALLICOTT, In Defense
of the Land Ethic., cit., pp. 102-105.
( 33 ) Su questi punti cfr. anche S. BARTOLOMMEI, Etica e ambiente, Guerini e Associati,
Milano 1990, pp. 59-60.

L’eticizzazione dell’ecologia e l’ecologizzazione dell’etica ...
L’ecologia, però, mette in discussione questo modo di concepire gli
oggetti della natura, mettendo in luce l’inadeguatezza di questa concezione
( 34 ). Le acquisizioni della scienza ecologica, infatti, mostrano
che l’essere di un oggetto naturale si può determinare unicamente sulla
base delle relazioni di quest’oggetto con tutti gli altri oggetti naturali.
Ciò significa che una specie è quella che è perché si è collocata in
uno specifico strato della piramide biotica ( 35 ). In altri termini, l’ecologia
suggerisce che il primato ontologico delle sostanze individuali rispetto
alle relazioni, implicito nella scienza occidentale, deve essere capovolto
( 36 ). Questo capovolgimento è necessario perché, secondo le
istanze ecologiche, sono proprio le relazioni tra gli oggetti a determinare
ciò che l’oggetto è. A prescindere da questo assunto, allora, non è possibile
sapere ciò che un oggetto è senza sapere cosa fa ( 37 ).
Ma allora, in natura non dovrebbe esistere nessuna sostanza individuale.
Quest’ultima, infatti, determina da se stessa il proprio essere ( 38 )
e così facendo si “stacca”, per così dire, dal resto della natura. Questa
“separazione” è dovuta proprio all’autodeterminazione che del
proprio essere fa la sostanza individuale: determinando da se stessa il
proprio essere, la sostanza individuale diventa una realtà separata dal
resto della natura. Se, dal punto di vista di un’indagine eco-filosofica,
ciò che è la natura in quanto tale ( 39 ), a rigor di termini le sostanze
individuali non sono oggetti di questo mondo, e in quanto tali
sono escluse da questo tipo di indagine ( 40 ).
Se l’essere di un oggetto naturale è determinato dall’essere di tutti
gli altri oggetti del mondo, è evidente che l’essere di tutti gli oggetti
189
( 34 ) Cfr. J. BAIRD CALLICOTT, In Defense of the Land Ethic., cit., p. 108.
( 35 ) La “comunità biotica” è il paradigma adoperato dall’ecologia per descrivere
l’ecosistema; quest’ultimo può essere concepito come una piramide costituita
da vari strati: il primo strato è costituito dal suolo, il secondo dalle piante, il terzo
dagli insetti, uccelli e roditori, e così via fino a quello più alto costituito dai grandi
carnivori. Cfr. A. LEOPOLD, op. cit., pp. 214-215.
( 36 ) Cfr. T. TANNER, Aldo Leopold. The Man and His Legacy., cit., p. 100.
( 37 ) Cfr. S. BARTOLOMMEI, op. cit., p. 60.
( 38 ) Nella misura in cui, secondo la concezione classica, è considerata come un
oggetto naturale.
( 39 ) Che secondo le istanze dell’ecologia è costituita da un insieme di oggetti il
cui essere è determinato dall’essere di tutti gli altri oggetti.
( 40 ) Da questo punto di vista, allora, per sostanze individuali si devono intendere
tutti i manufatti dell’uomo, comprese le opere d’arte. Infatti, ciò che è un
manufatto non è determinato dalla natura, bensì è determinato dall’uomo.

190
GIANLUCA PITTALIS
naturali è la relazione. In altri termini, ciò che è l’uomo è determinato
dall’essere di tutti gli altri enti facenti parte della natura ( 41 ). Allo
stesso modo, ciò che è un qualsiasi ente non umano è determinato
dall’essere di tutti quanti gli enti umani e non umani che fanno parte
dell’ecosistema. Dal punto di vista ecologico, allora, l’essere dell’uomo
coincide con l’essere della natura. Per questa ragione Leopold
asserisce che l’uomo è solamente un compagno di viaggio delle altre
creature nella lunga odissea dell’evoluzione ( 42 ). È evidente, allora,
che l’uomo non si distingue in nessun modo dal resto della natura,
giacché egli è ciò che è la natura.
5. L’essere dell’uomo e l’essere della natura. – Le considerazioni fatte
poc’anzi dovrebbero mostrarci come i risultati della scienza ecologica
siano rilevanti anche per la filosofia. Essi hanno questa “rilevanza filosofica”
poiché, come abbiamo visto, ridefiniscono lo status ontologico
dell’uomo e dell’ente non umano. Per questa ragione la filosofia morale,
secondo Leopold, dovrebbe utilizzare questi risultati secondo le
istanze che le sono proprie. Rileggiamo quanto scrive il nostro autore:
Questa estensione dei principi etici, studiata finora solo dai filosofi, è in realtà
un processo di evoluzione ecologica, i cui progressivi sviluppi possono
essere descritti in termini ecologici o filosofici ( 43 ).
Secondo il filosofo americano J. Baird Callicott questo passo
sembra contenere una nota di deprezzamento nei confronti dell’indagine
filosofica ( 44 ). Quest’ultima, infatti, almeno nella misura in
cui si serve delle categorie della metafisica classica, non è idonea allo
studio dell’uomo così come è inteso dall’ecologia; per questa ragione,
le argomentazioni necessarie a conferire un valore morale intrinseco
agli enti non umani devono essere fornite da una filosofia che
ha preso atto delle istanze della scienza ecologica ( 45 ). Una filosofia
( 41 ) A questo proposito ricordiamo che, dal punto di vista in cui si pone Leopold,
è necessario intendere l’uomo come organismo. Per questa ragione, all’interno
di un’indagine eco-filosofica, esso deve essere inteso come un oggetto naturale.
( 42 ) Cfr. A. LEOPOLD, A Sand County Almanac., cit., p. 109.
( 43 ) A. LEOPOLD, A Sand County Almanac., cit., p. 202.
( 44 ) Cfr. J. BAIRD CALLICOTT, Companion to A Sand County Almanac., cit., p. 188.
( 45 ) Ribadiamo, a questo proposito, che Leopold è consapevole che l’ecologia è
una disciplina esplicativa e in quanto tale non può essere adoperata per prescrivere

L’eticizzazione dell’ecologia e l’ecologizzazione dell’etica ...
siffatta, allora, sarà una filosofia che si serve di nuove categorie, costruite
sulla scorta degli elementi nozionali che l’ecologia mette a disposizione.
Queste nuove categorie mettono in evidenza che l’uomo, così
come è inteso dalla scienza ecologica, in se stesso non è. L’essere dell’uomo,
infatti, è la relazione che questo ente intrattiene con gli enti
non umani, e la relazione è qualcosa che non può essere individuata
nell’in sé dell’uomo, quanto piuttosto nei rapporti – riscontrabili in
un mondo oggettivo di fatti – che questo ente intrattiene con gli altri
enti naturali. Ciò dovrebbe significare che il substrato che sottende
ai sentimenti, al linguaggio e, successivamente, alla razionalità
dell’uomo, non è qualcosa come l’“io” o “soggetto” – che in quanto
tale sussiste in sé e per sé, – quanto, piuttosto, l’insieme delle relazioni;
ossia, l’ecosistema. Da questo particolare punto di vista, allora, si
potrebbe dire che l’uomo è quella “parte” dell’ecosistema capace di
pensare, oppure – il che è lo stesso – che l’ecosistema “pensa” tramite
quella sua relazione chiamata uomo. In questo senso, che rispecchia
totalmente la “visione” olistica che della realtà ha Leopold,
John Seed ha espresso la seguente metafora:
191
l’affermazione «proteggo la foresta pluviale» si sviluppa in «sono una parte
della foresta pluviale, e sto proteggendomi. Sono quella parte della foresta
pluviale recentemente risvegliata al pensiero» ( 46 )
Da quest’ottica, allora, l’uomo è quella “parte” della natura capace
delle attività che gli sono proprie le quali, evidentemente, differiscono
dalle attività che sono proprie di altri enti non umani ( 47 ).
Queste attività dovrebbero essere ciò che determina gli interessi umani,
così come le attività degli altri enti non umani determinano i loro
presunti interessi. Poiché, però, le capacità dell’uomo differiscono
dalle capacità peculiari di altre specie, ecco che non sussistono tra
quello e queste interessi comuni; ciò che sussiste, però, è l’interdipendenza
ontica e ontologica sancita dall’essere stesso dell’uomo che,
norme di comportamento. L’unica disciplina che può avanzare argomentazioni
prescrittive è la filosofia che, però, deve prendere atto delle istanze ecologiche. Per
questa problematica cfr. A. LEOPOLD, A Sand County Almanac., cit., p.viii-ix.
( 46 ) J. SEED, Antropocentrismo, contenuto in B. DEVALL, G. SESSIONS, Ecologia
Profonda, Ed. Gruppo Abele, Torino 1989, Appendice E, p. 224.
( 47 ) Con il termine attività intendiamo tutte quelle operazioni che la natura ha
stabilito per una determinata specie: la capacità di volare per gli uccelli, di vivere
sott’acqua per i pesci etc.

192
GIANLUCA PITTALIS
come abbiamo detto, coincide – da un punto di vista metafisico –
con l’essere degli altri enti. Ed è proprio da questa interdipendenza
che, secondo Leopold, dovrebbe scaturire l’obbligazione morale nei
confronti degli enti non umani giacché, in un certo senso, dovrebbe
esistere un particolare interesse comune a tutti gli enti ( 48 ). Cerchiamo
di analizzare brevemente questo problema.
Come abbiamo visto ciò che è l’uomo è determinato da ciò che
sono tutti gli altri enti non umani. Si potrebbe asserire, allora, che se
non fossero mai esistiti i leoni, ad esempio, adesso l’uomo potrebbe
essere in un modo diverso da come è. Ciò è verosimile poiché la conformazione
dell’ente uomo è così e così determinata perché questo
ente ha occupato una determinata nicchia all’interno dell’ecosistema.
A loro volta, gli enti non umani hanno occupato le loro rispettive nicchie.
La disposizione di un ente all’interno di una nicchia si giustifica
unicamente sulla base della disposizione degli altri enti nelle rispettive
nicchie. È evidente, allora, che se manca l’ente-leone, la disposizione
delle varie nicchie ecologiche come è da noi conosciuta subisce una
trasformazione: ciò potrebbe far sì che un ente non sia più come è, o
come lo abbiamo sempre conosciuto. Queste ragioni dovrebbero evidenziare
l’esistenza di un “interesse ontologico” comune a tutti gli enti –
umani e non umani – di continuare ad essere ciò che sono. Ed è proprio
questo particolare interesse – condiviso con gli altri membri dell’ecosistema
– a fare dell’uomo un semplice cittadino della comunità
biotica ( 49 ) che, in virtù delle capacità che gli sono proprie, si vede investito
della responsabilità di salvaguardare la terra ( 50 ).
Queste considerazioni, tra l’altro, impongono anche un mutamento
dell’ottica con la quale l’uomo osserva e manipola il mondo
( 48 ) Qui si nota la differenza che intercorre tra le tesi di Leopold e quelle di
Passmore. Il filosofo australiano sostiene che l’obbligazione nasce unicamente dai
comuni interessi che legano tra loro i membri della comunità umana. Poiché all’interno
della comunità biotica non è possibile riscontrare nessun comune interesse
tra i suoi membri e l’uomo, ecco che – per questa ragione – non nasce nessuna obbligazione
per l’agente morale che, oltretutto, poiché non condivide alcun interesse
con i suoi membri, non è neanche membro di questa comunità cfr. J. PASSMORE,
Man’s Responsability for Nature, Charles Scribner’s Sons, New York 1974, p. 116. Il
concetto di interdipendenza ontica e ontologica di Leopold, come cercheremo di
spiegare fra poco, mette in evidenza un particolare “comune interesse” dal quale
nessun ente naturale – uomo compreso – può prescindere; ed è sulla base di questo
particolare interesse che quella “parte” dell’ecosistema capace di pensare è investita
della responsabilità nei confronti dell’intera comunità biotica.
( 49 ) Cfr. A. LEOPOLD, op. cit., p. 204.
( 50 ) Ivi, pp. 221-223.

L’eticizzazione dell’ecologia e l’ecologizzazione dell’etica ...
oggettivo dei fatti. Abbiamo visto più sopra che gli atteggiamenti
fondamentali assunti dall’uomo nei confronti di questo mondo sono
essenzialmente due: il primo riguarda colui che si limita ad osservare
e descrivere il mondo oggettivo; il secondo, invece, si riferisce all’uomo
che, con un intervento tecnico, manipola questo mondo. Entrambi
gli atteggiamenti implicano un distacco di colui che osserva e
manipola da ciò che è osservato e manipolato. L’uomo si distingue
dal mondo oggettivo, in sostanza, perché quest’ultimo – secondo la
concezione classica – è qualcosa di diverso da lui.
I presupposti della teoria di Leopold annullano questa distinzione
– dal punto di vista logico e ontologico – in quanto sono proprio gli
oggetti del mondo dei fatti a determinare ciò che l’uomo è. Nella visione
ecologica della realtà, infatti, l’essere degli oggetti del mondo
oggettivo e l’essere dell’uomo coincidono; non è dunque più possibile
predicare una distinzione tra quelli e questo. Ammettendo, ad
esempio, che non ci siano più oggetti da osservare e manipolare, non
solo verrebbe meno la ragion d’essere dell’osservatore e del manipolatore
( 51 ), ma – fatto più importante per gli scopi dell’etica della
terra – verrebbe a mancare la stessa ragion d’essere dell’essere dell’uomo;
giacché sono proprio questi oggetti a determinare l’essere di
questo ente.
Tutti i concetti sopra esposti, secondo Leopold, dovrebbero esercitare
– una volta raggiunta la consapevolezza di essi – una certa influenza
a livello della coscienza umana. La consapevolezza, cioè, di
non poter in alcun modo trascendere o distinguersi dalla natura, dovrebbe
consentire all’uomo di riconoscere un valore morale intrinseco
a tutti gli enti dell’ecosistema e a quest’ultimo in quanto tale.
Questo riconoscimento, secondo il nostro autore, dovrebbe avvenire
partendo da due prospettive che, muovendosi per così dire parallelamente,
si compenetrano per realizzare in concreto l’etica della terra;
in sostanza, i due “movimenti” in questione dovrebbero trasformare
il modo in cui l’uomo sente e pensa la terra.
6. L’eticizzazione dell’ecologia. – Il sentire e il pensare di cui qui si
parla riflettono, appunto, i due “movimenti” presenti nell’etica di
Leopold: il primo – che sulla scia di Sergio Bartolommei definiamo
“eticizzazione” dell’ecologia – cerca di attribuire un valore normati-
( 51 ) Poiché, infatti, non ci sono più oggetti da osservare e manipolare, questi
due atteggiamenti sarebbero impossibili, e le due figure verrebbero meno.
193

194
GIANLUCA PITTALIS
vo agli elementi nozionali che questa scienza ci fornisce; il secondo –
che definiamo “ecologizzazione” dell’etica – assume come oggetto
della scienza ecologica la morale ( 52 ), cercando di derivare una proposta
normativa dalla sua natura intesa dal punto di vista ecologico.
Ora, il primo “movimento” è dovuto immediatamente al sentire: ciò
che ha reso possibile l’etica, infatti, è il sentimento che, secondo Leopold,
impregna tutte le manifestazioni dell’attività dell’uomo, comprese
quelle assimilabili alla razionalità ( 53 ); ed il “sentire” è qualcosa
che inerisce alla natura dell’essere dell’uomo. Il secondo movimento,
al contrario, poiché si concretizza grazie all’utilizzo di una scienza –
quella ecologica, appunto – inerisce all’esplicazione della capacità razionale
dell’uomo. Poiché, però, la razionalità – secondo i presupposti
della dottrina di Leopold – è, in ultima istanza, dovuta al sentimento,
ecco che i due “movimenti” si compenetrano reciprocamente
in quanto sono sorretti dal medesimo principio. In questa sede ci
occuperemo brevemente del primo “movimento” cercando di catturarne
le caratteristiche salienti ( 54 ).
Nell’ambito del “movimento” che abbiamo definito “eticizzazione”
dell’ecologia, l’uomo dovrebbe sentire ciò che è il suo vero essere. Il
sentimento dell’uomo dovrebbe essere in grado di cogliere ciò che è il
suo l’essere perché è stato suscitato proprio da questo stesso essere. Secondo
Leopold, infatti, ciò che ha determinato il sentimento nell’uomo
è il fenomeno del feedback, ma questo fenomeno – come abbiamo
visto precedentemente – non è altro che l’insieme delle relazioni che
sono, appunto, l’essere dell’uomo. Alcune considerazioni di Hume
possono, a nostro avviso, spiegare ciò che qui si intende sostenere:
Per parte mia – scrive Hume – quando mi addentro più profondamente in
ciò che chiamo me stesso, m’imbatto sempre in una particolare percezione:
( 52 ) Questa assunzione, dal punto di vista in cui si pone Leopold, è legittima
giacché l’oggetto dell’ecologia – ossia le relazioni che intercorrono tra gli enti non
umani e tra questi e l’ambiente – è ciò che ha reso possibile qualcosa come la morale.
( 53 ) E ciò si spiega giacché, secondo la concezione che Leopold ha dell’uomo,
questo ente è innanzi tutto un essere sentimentale e solo successivamente un essere
razionale.
( 54 ) A questo proposito si deve anche dire che entrambi i “movimenti” descrivono
il medesimo fenomeno, solo che lo “guardano”, per così dire, da due punti di vista
diversi: il primo punto di vista è essenzialmente “sentimentale”, il secondo punto
di vista è razionale ma, al tempo stesso, in certa misura, sentimentale. Le cose dovrebbero
essere in questi termini giacché, secondo la teoria di Leopold, non può esistere
un punto di vista o un atteggiamento unicamente ed essenzialmente razionale,
in quanto il sentimento impregna anche la sfera razionale dell’uomo.

L’eticizzazione dell’ecologia e l’ecologizzazione dell’etica ...
195
di caldo o di freddo, di luce o di oscurità, di amore o di odio, di dolore o
di piacere. Non riesco mai a sorprendere me stesso senza una percezione e a
cogliervi altro che la percezione. (…) E se tutte le mie percezioni fossero
soppresse dalla morte, sì che non potessi più né pensare né sentire, né vedere,
né odiare, e il mio corpo fosse dissolto, io sarei interamente annientato,
e non so che cosa si richieda di più per far di me una perfetta non-entità
( 55 )
Le parole di Hume, considerate dall’ottica di Leopold, dovrebbero
rendere evidente il fatto che alle sensazioni non sottende qualcosa
come l’“io” o “soggetto”, quanto piuttosto l’insieme delle relazioni
che, dal punto di vista dell’etica della terra, costituiscono l’essere
dell’uomo e di tutti gli altri enti naturali. Ciò dovrebbe essere confermato
anche dal fatto che Hume definisce l’uomo come una «nonentità»;
ebbene, l’uomo è una non-entità, secondo Leopold, nella
misura in cui si considera questo ente come una sostanza individuale.
Come abbiamo detto, infatti, non esistono in natura sostanze individuali
che sussistono in sé e per sé, al contrario ciò che esiste è
l’insieme delle relazioni che costituiscono l’essere di tutti gli enti; ed
è proprio l’insieme delle relazioni a sussistere in sé e per sé.
Questo particolare punto di vista, secondo Leopold, dovrebbe far
emergere nell’uomo una determinata coscienza ecologica ( 56 ) che dovrebbe
consentirgli di sentire che il suo essere coincide con l’essere
della natura. Ora, l’etica occidentale è arrivata alla conclusione che
l’uomo deve essere sempre considerato come fine e mai come mezzo.
Da questo punto di vista, allora, poiché l’essere dell’uomo coincide
con l’essere della natura, è legittimo dire che la totalità della natura
deve essere sempre considerata come fine e mai come mezzo, giacché
il suo essere coincide con l’essere dell’uomo. L’essere dell’uomo e
della natura, però, è l’insieme delle relazioni; secondo questo primo
“movimento”, allora, è l’insieme delle relazioni ad essere moralmente
rilevante. Ma l’insieme delle relazioni altro non è che l’ecosistema
considerato come un “Tutto”. Per questa ragione profonda, secondo
il “movimento” dell’eticizzazione dell’ecologia, deve essere riconosciuta
una valenza morale intrinseca all’ecosistema in quanto tale ( 57 ).
( 55 ) D. HUME, Trattato sulla natura umana, (1738), trad. it. di Carlini A., riv.
da Lecaldano E. e Mistretta E., Laterza, Roma-Bari 1993, Libro I, p. 264.
( 56 ) Cfr. A. LEOPOLD, op. cit., p. 221.
( 57 ) La stessa dicitura “eticizzazione dell’ecologia” suggerisce questa conclusione.
L’ecologia, infatti, è quella scienza che studia la totalità delle relazioni. Da questo
punto di vista, allora, essa è, per così dire, “eticizzata”, poiché si riconosce la
rilevanza morale intrinseca del suo oggetto.

196
GIANLUCA PITTALIS
Queste conclusioni, a nostro avviso, evidenziano non tanto che
l’agente morale si è “dissolto” nell’ambiente, così come alcuni filosofi
hanno sostenuto ( 58 ), quanto piuttosto che l’ecosistema considerato
come un “Tutto” si è “dissolto” nell’uomo ( 59 ). Il “corpo” dell’uomo,
infatti, secondo questa ottica, non si ferma dove finiscono i suoi arti,
ma “prosegue” per includere in se stesso l’intero ecosistema. Questa
inclusione è possibile grazie allo sviluppo della coscienza ecologica di
cui parla Leopold: l’uomo, cioè, sente che l’ecosistema è parte del suo
stesso “corpo”, e in quanto tale è moralmente rilevante. Poiché queste
argomentazioni possono essere avanzate unicamente da quell’ente che
ha lo status di agente morale, ecco che esse devono essere considerate
dal punto di vista di questo ente. Per questa ragione, ci sembra che è
l’ambiente ad essersi “dissolto” nell’uomo e non viceversa ( 60 ).
7. L’ecologizzazione dell’etica. – Se è l’ecosistema considerato come
un “Tutto” ad essere moralmente rilevante, le sue singole relazioni –
ossia, la totalità degli enti umani e non umani – non godono della
stessa rilevanza morale. Ad essere moralmente rilevante, infatti, dalla
prospettiva dell’“eticizzazione” dell’ecologia, è la totalità delle relazioni,
e non questa relazione. Dovremmo, allora, collocare l’ecosistema
inteso come un “Tutto” all’interno della “circonferenza etica”,
mentre dovremmo collocare all’esterno della circonferenza tutte le
sue singole relazioni. Il risultato di questa “operazione” sembra essere
paradossale: l’ecosistema, infatti, altro non è che l’insieme di tutte
le sue relazioni. Ora, se queste relazioni sono collocate all’esterno
della “circonferenza etica”, in quanto sono moralmente irrilevanti, a
rigor di termini anche l’ecosistema in quanto tale dovrà essere collocato
all’esterno, giacché le singole relazioni che lo costituiscono sono
moralmente neutre. Ciò sarebbe estremamente dannoso per i propositi
dell’etica della terra. Per questa ragione è necessario trovare delle
argomentazioni atte a sostenere la rilevanza morale delle singole relazioni
facenti parte della comunità biotica. Questo è ciò che si propone
il secondo “movimento”, presente nella teoria di Leopold, che
abbiamo definito “ecologizzazione” dell’etica.
( 58 ) A questo proposito cfr. S. BARTOLOMMEI, Etica e ambiente, Guerini & associati,
Milano 1990, pp. 55-56.
( 59 ) Considerato sempre come organismo.
( 60 ) Il punto di vista che qui si assume, infatti, coincide con il modo di sentire
questo stato di fatto di quell’ente che solo può avanzare queste argomentazioni.

L’eticizzazione dell’ecologia e l’ecologizzazione dell’etica ...
Per comprendere questo secondo “movimento” è necessario analizzare
quel processo che Leopold chiama sequenza etica ( 61 ). Questa consiste
in ultima istanza in una interpretazione ecologica della storia dell’etica
che dovrebbe mostrare, nei tre stadi che la costituiscono, come
la “circonferenza” etica si allarghi progressivamente. A rendere possibile
questo allargamento è il sentimento che si dispiega, o si dovrebbe
dispiegare, dalla considerazione dei soli enti umani fino a quella che
inerisce l’ente non umano in quanto tale. Cerchiamo di vedere come
ciò dovrebbe avvenire.
Secondo Leopold, l’etica al suo primo stadio “riguardava le relazioni
tra gli individui” ( 62 ). I Dieci Comandamenti dovrebbero costituire
un esempio di questa prima estensione della “circonferenza
etica”. Come abbiamo detto più sopra, la debolezza dell’uomo nella
sua infanzia ha fatto sì che nel suo organismo si sviluppassero determinati
sentimenti. Questi hanno consentito che il genitore restasse
per più tempo con la sua prole; questi sentimenti hanno altresì consentito
lo sviluppo di certe estensioni parentali che, a lungo andare,
hanno reso possibile la nascita delle prime comunità. In questo primo
stadio della sequenza etica – così come in tutti gli altri – si assiste
ad un certo dispiegarsi del sentimento umano dall’uomo all’altro
uomo. Questo dispiegamento è ciò che fa sì che – da questo punto
di vista – l’altro uomo possieda una rilevanza morale intrinseca.
Il secondo stadio della sequenza etica riguarda “le relazioni fra
l’individuo e la società” ( 63 ). In questo secondo stadio il sentimento si
è dispiegato ulteriormente in quanto si spinge ad abbracciare non
solo l’altro uomo, ma anche la società. È evidente, però, che l’uomo
non può avere a che fare con la società in quanto tale, ma solo con
tutti i membri che la costituiscono. In questa situazione “la regola
aurea cerca di integrare l’individuo nella società” e “la democrazia di
integrare l’organizzazione sociale con l’individuo” ( 64 ). In questo senso,
allora, l’azione dell’individuo conforme alle norme riconosciute
all’interno di una società, fa sì che la sua azione sia giusta e quindi
sociale; dall’altro lato, le norme elaborate da un gruppo di individui
democraticamente eletti tenderanno a far sì che l’organizzazione sociale
miri al raggiungimento del bene della società e del singolo individuo.
( 61 ) Cfr. A. LEOPOLD, op. cit., pp. 202-203.
( 62 ) A. LEOPOLD, op. cit., p. 202.
( 63 ) A. LEOPOLD, op. cit., pp. 202-203.
( 64 ) A. Leopold, op. cit., p. 203.
197

198
GIANLUCA PITTALIS
Questi due stadi della sequenza etica, secondo Leopold, si sono già
realizzati mentre il terzo, cioè quello riguardante l’etica della terra,
deve ancora venire. Da questi primi elementi, comunque, si può già
scorgere il fatto che Leopold interpreti i vari allargamenti della “circonferenza
etica” tenendo ben presente il concetto di comunità che è,
appunto, il concetto base dell’ecologia. Le relazioni che intercorrono
tra gli individui nel primo stadio della sequenza, ad esempio, sono effetto
dell’interdipendenza degli individui umani che – grazie al sentimento
– devono coltivarle necessariamente al fine di salvaguardare la
sopravvivenza della specie. Nel secondo stadio della sequenza la comunità
si allarga fino ad includere tutta la specie umana. Ciò che rende
possibile questo allargamento è ancora il sentimento ma il fattore determinante
che lo ha scatenato è la presa di coscienza dell’uguaglianza
di tutti gli uomini. Questa presa di coscienza è stata favorita dal sentimento
da un lato, e dalla ragione dall’altro lato; l’uomo cioè, detto in
altri termini, non solo sente di essere uguale all’altro uomo, ma sa anche
di esserlo. Ed il concetto che regola questo processo è, ancora,
quello della comunità che tende ad allargarsi fino ad includere il “Tutto”
( 65 ). Poiché sembra che il concetto di comunità sottenda all’interpretazione
leopoldiana dei due stadi della sequenza etica, ci pare di
poter asserire che l’impostazione dell’interpretazione storica dell’etica
operata da Leopold sia di natura ecologica; dovremmo essere di fronte,
cioè, ad una interpretazione ecologica della storia dell’etica.
Il terzo stadio della sequenza etica riguarda le “relazioni fra l’uomo
e la terra” ( 66 ). Secondo Leopold l’estensione dell’etica a questo
terzo elemento è una possibilità evolutiva e una necessità ecologica ( 67 ).
La razionalità occidentale si è evoluta in una certa “direzione” favorendo
un senso di scissione dell’uomo dalla terra. Questa direzione
evolutiva, però, ha consentito di sviluppare una scienza – l’ecologia
– che mette in risalto la nostra interdipendenza con la terra. Queste
nuove conoscenze mettono l’uomo di fronte ad una scelta che costituisce
il punto di snodo delle sue possibilità evolutive. Essa potrebbe
consistere in un rifiuto dell’apporto nozionale di queste conoscenze,
e in questo caso l’evoluzione della razionalità procederebbe in una
direzione che promuove la scissione uomo-terra; oppure potrebbe
( 65 ) Il concetto di comunità dell’ecologia racchiude, appunto, l’ecosistema
come un “Tutto”. In questa fase ciò non si è ancora verificato, tuttavia ci pare sia
chiaramente individuabile la tendenza in tal senso.
( 66 ) A. LEOPOLD, op. cit., p. 203.
( 67 ) Ivi, p. 203.

L’eticizzazione dell’ecologia e l’ecologizzazione dell’etica ...
consistere in un accoglimento di queste nuove istanze. Se si verifica
questa seconda possibilità lo sbocco evolutivo verso un’etica della
terra diventa una necessità ( 68 ). In questo caso, infatti, l’uomo si renderebbe
conto di essere necessariamente interdipendente dalla natura,
e comincerebbe a pensare la terra come una comunità ( 69 ). A questo
punto il suo sentimento si dispiegherebbe ulteriormente fino ad
abbracciare i nuovi membri della comunità allargata. Ciò dovrebbe
avvenire necessariamente, secondo Leopold, perché è la natura stessa
di questi sentimenti a richiedere che ciò accada. Questo è, appunto, il
“movimento” che abbiamo definito “ecologizzazione” dell’etica.
L’etica, da questo punto di vista, è ecologicamente considerata come
un “istinto di comunità nel suo farsi” ( 70 ).
A questo punto non ci resta che vedere come l’“ecologizzazione”
dell’etica riesce a conferire una valenza morale intrinseca ai singoli
membri facenti parte dell’ecosistema. Questa difficoltà nasceva dal risultato
del primo “movimento” che riconosceva come moralmente rilevanti
la totalità delle relazioni. Dal punto di vista dell’“eticizzazione”
dell’ecologia è l’ecosistema in quanto tale ad essere moralmente rilevante.
È evidente, però, che l’uomo non può avere a che fare con
l’ecosistema inteso come un “Tutto”. Egli, infatti, è una entità interna
all’ecosistema e non può prescindere da esso. L’unico modo che
l’uomo avrebbe per instaurare un simile rapporto, sarebbe quello di
porsi di fronte all’ecosistema come un’entità staccata da esso. Questa
relazione sarebbe possibile unicamente nel caso in cui l’uomo fosse
una sostanza individuale che sussiste in sé e per sé. Noi, però, abbiamo
appurato che non esistono in natura sostanze individuali e l’uomo
– in quanto ente naturale – non può essere considerato in questi
termini. L’uomo, allora, può avere a che fare con l’ecosistema inteso
unicamente come la totalità delle singole relazioni; ed è proprio nei
confronti di tutte le singole relazioni che si dispiegherà il suo sentimento
consentendo, in questo modo, di riconoscere il valore morale
intrinseco di ciascuna di esse. Il riconoscimento della rilevanza morale
dell’individuo umano o non umano, secondo Leopold, è necessaria
perché la specie cui appartiene l’individuo non si è estinta.
L’individuo in questione, allora, si è conquistato una sorta di diritto
199
( 68 ) Per questa ragione Leopold elabora un programma educativo che promuove
lo studio dell’ecologia in tutti gli ambiti e gradi delle istituzioni scolastiche.
Cfr. A. LEOPOLD, op. cit., pp. 223-226.
( 69 ) Cioè come l’ecologia dice che deve essere pensata la natura.
( 70 ) A. LEOPOLD, op. cit., p. 203.

200
GIANLUCA PITTALIS
biotico a perpetuare la propria esistenza, a prescindere dal vantaggio
o svantaggio economico che può derivare all’uomo.
8. Interdipendenza e cooperazione. – A questo punto dovrebbe emergere
chiaramente la profonda concezione ecocentrica che caratterizza
il pensiero di Leopold. È l’ecosistema in quanto tale ad essere moralmente
rilevante ed, altresì, sono tutti i membri della comunità biotica
a possedere un valore morale intrinseco. Da questo punto di vista,
allora, quella relazione dell’ecosistema che possiede una razionalità
conformata come quella umana, è chiamata in causa al fine di cooperare
con le altre specie per il buon “funzionamento” della comunità
biotica. Questa cooperazione, però, è unilaterale. All’interno della
comunità biotica, infatti, solo l’uomo possiede lo status di agente
morale, e per questa ragione egli non deve “affilare la spada” contro
la comunità biotica, ma deve “far luce sul suo universo” ( 71 ); l’uomo
non deve guardare se stesso come un conquistatore della comunità,
ma deve considerarsi come un suo cittadino.
Utilizzando una raffigurazione simbolica crediamo di poter mostrare
come Leopold, a nostro avviso, concepisca il dovere che l’uomo ha all’interno
dell’ecosistema. L’uomo, infatti, può essere considerato come
il “cervello” dell’ecosistema, i corsi d’acqua possono essere considerati
come il suo “sangue”, le foreste come i suoi “polmoni”, gli enti inanimati
come le sue “ossa”. Ebbene, come il “cervello” dell’uomo si “preoccupa”
di tutte le parti dell’organismo che lo compongono, così l’uomo
deve preoccuparsi di tutte le singole relazioni dell’ecosistema e di quest’ultimo
in quanto tale. Da una particolare angolatura si potrebbe considerare
l’uomo come il re della comunità biotica; ma non perché egli
sia superiore ad essa e ai suoi membri non umani, bensì perché è investito
di una simile responsabilità. Il ruolo nobile del re, infatti, dovrebbe
essere quello di preoccuparsi e di servire i suoi sudditi. Il mestiere più
nobile di tutti, dovrebbe essere quello del servo, giacché Dio stesso è il
primo servitore ( 72 ). Ci pare che con questo spirito Leopold riporti
l’esortazione che Robinson fa a Tristano rivolgendola all’Homo sapiens:
che tu lo voglia o no tu sei un re, Tristano, perché sei uno dei pochi, messi
alla prova dal tempo, che quando se ne vanno non lasciano il mondo uguale
a prima. Imprimi un segno su ciò che lasci ( 73 ).
( 71 ) Cfr. A. LEOPOLD, op. cit., p. 223.
( 72 ) Cfr. Gv 13, 12-16.
( 73 ) A. LEOPOLD, op. cit., p. 223.

L’eticizzazione dell’ecologia e l’ecologizzazione dell’etica ...
Se, da un lato, l’uomo è investito di una simile responsabilità perché
ha una razionalità così e così determinata, l’obbligazione nei
confronti dell’ente non umano nasce dalla coincidenza dell’essere
dell’uomo e dell’essere della natura. Ciò dovrebbe significare che le
obbligazioni che l’uomo ha verso se stesso e verso il suo simile, devono
esplicarsi anche nei confronti della natura. Dall’ottica di Leopold,
infatti, occupandosi della natura l’uomo si sta occupando di se
stesso, giacché il suo essere coincide con l’essere della natura. Inoltre,
poiché è in grado di cogliere – grazie alla particolare conformazione
della sua razionalità – la coincidenza del suo essere con quello
della natura, solo l’uomo è investito di una simile responsabilità, in
quanto egli è l’unico ente naturale a possedere lo status di agente
morale. Gli altri enti non umani – poiché non possiedono una razionalità
conformata come quella umana ( 74 ) – possono essere considerati
unicamente come pazienti morali, e in quanto tali non sono investiti
di una simile responsabilità.
Dovrebbe essere evidente, allora, che il punto di vista di Leopold è
fondamentalmente diverso da quello di Passmore ( 75 ). Questo punto
di vista riflette, a nostro avviso, una concezione dell’uomo che differisce
sensibilmente da quella del filosofo australiano e della filosofia occidentale
in generale. Poiché, dunque, il punto di partenza di Leopold
non coincide assolutamente con quello di Passmore, ci pare sia illegittimo
il tentativo di quest’ultimo di considerare l’interdipendenza leopoldiana
in termini di cooperazione. Gli interessi comuni – che secondo
Passmore fanno nascere l’obbligazione – dall’ottica di Leopold
possono anche non sussistere. Le argomentazioni precedenti, d’altronde,
ci pare abbiano evidenziato che per il filosofo americano l’obbligazione
non nasce dai comuni interessi, quanto piuttosto dalla coincidenza
dell’essere dell’uomo e dell’essere della natura: a prescindere da
qualsiasi tipo di interesse da parte dell’uno o dell’altra. Se proprio si
deve parlare di interessi comuni, ci pare che dall’ottica di Leopold si
possa postulare un solo comune interesse; stiamo parlando di ciò che
precedentemente abbiamo definito come “interesse ontologico” dell’uo-
( 74 ) Per quanto riguarda le differenze riscontrabili tra la conformazione della
razionalità umana e quella animale si faccia riferimento a M.T. MARCIALIS, Filosofia
e psicologia animale, STEF, Cagliari 1982, pp. 34-45.
( 75 ) Prendiamo in considerazione le tesi di Passmore degli “interessi comuni”,
contenute nel suo Man’s Responsability for Nature, cit., p. 116, poiché a detta di
H. Rolston III, sono le più emblematiche tra quelle che contrastano l’etica di Leopold.
Cfr. a questo proposito H. ROLSTON III, Duties to Ecosystems, contenuto in J.
BAIRD CALLICOTT, Companion to A Sand County Almanac., cit., pp. 246-272.
201

202
GIANLUCA PITTALIS
mo e dell’ente non umano di preservare il loro stesso essere. Preservando
il suo stesso essere – e questa è, appunto, l’obbligazione – l’uomo
che ha fatto propria l’etica della terra preserva anche l’essere della
natura, giacché il suo essere coincide con quello della natura.

ENRICO BECCIU
IL MESSIANISMO DI ˇSABBETAY ZEVI IN G. SCHOLEM
Tutta la creazione assumeva da capo,
nel suo genere, nuova forma, (…).
Difatti gli elementi scambiavano ordine
fra loro, come le note di un’arpa variano
la specie del ritmo, pur conservando
sempre lo stesso tono.
Sapienza 19, 6; 18
SOMMARIO: 1. Il movimento sabbatiano. – 2. Messianismo e rivoluzione. – 3. Il
mondo storico. – 4. La crisi della tradizione. – 5. Catastrofe e redenzione.
1. Il movimento sabbatiano. – Nello Zohar si legge che quando la Torah
venne data a Mosè migliaia di angeli si precipitarono su di essa
per incendiarla con le fiamme delle loro bocche, ma YHWH in persona
la protesse. Allo stesso modo adesso, allorché una nuova parola
viene pronunciata e sale al cielo Egli la ripara e protegge l’uomo che
l’ha pronunciata per evitare che gli angeli, scoprendola, diventino
gelosi. E ciò si ripete fino a che quella parola non dà origine ad un
nuovo cielo ed a una nuova terra ( 1 ). Il termine che ricorre frequentemente
in quei passi è il verbo hitchaddesh, rinnovarsi. Con esso si
dà espressione all’idea che l’alfabeto non sia soltanto uno strumento
di denominazione, ma anche il mezzo per controllare la realtà ed intervenire
in essa ( 2 ).
( 1 ) Cfr. Zohar I, 5a.
( 2 ) Per questa dimensione creativa delle lettere, cfr. G. BUSI, Introduzione a
AA.VV., Mistica ebraica. Testi della tradizione segreta del giudaismo dal III al XVIII
secolo, a cura di G. Busi e E. Loewenthal, Einaudi, Torino 1995, pp. XXXVI-
XXXIX. Sul medesimo tema, ma per sottolineare «l’evento sonoro» connaturato

204
ENRICO BECCIU
Il percorso redentivo, che per la dottrina ebraica è contenuto nella
struttura dinamica dell’alfabeto, diventa pertanto fondamentale al
fine di comprendere quella che Scholem – il maggior studioso di mistica
ebraica del novecento, nel suo libro su ˇSabbetay Zevi recentemente
tradotto in italiano – considera la «dialettica profonda, pericolosa
e distruttiva insita nell’idea messianica» ( 3 ). Per Scholem, infatti,
l’idea messianica è intimamente connessa all’esperienza storica
del fallimento sia in rapporto alla sua origine, sia in rapporto alle sue
conseguenze pratiche. Il messianismo nasce sempre da una frustrazione
storica e fa la sua comparsa nella coscienza collettiva come risarcimento
di una perdita, come promessa utopica destinata a compensare
la sventura attuale. Differenti catastrofi nazionali hanno costituito
lo sfondo per la diffusione di visioni escatologiche all’interno
della tradizione ebraica (la distruzione del Tempio, la cacciata
degli ebrei dalla Spagna nel 1492). E da un analogo schema Scholem
non si allontana nel dare conto della nascita, nonché della folgorante
diffusione del sabbatianismo nel XVII secolo:
«è ovvio che il messianismo ebraico, soprattutto nelle sue manifestazioni
più tarde, adempiva una precisa funzione sociale. Nelle condizioni particolari
dell’esistenza ebraica, il messianismo era l’espressione non tanto delle
lotte interne all’ebraismo – di classe o altro – quanto della situazione anomala
di una nazione di paria» ( 4 ).
Il movimento sabbatiano va pertanto riferito a pieno titolo all’esperienza
storica del popolo ebraico e del suo destino. Ciò fa capire
perché la tematica del messianismo, che pure aveva interessato
Scholem abbastanza presto, sia comparsa relativamente tardi nella
sua opera (come testimonia il libro su ˇSabbetay Zevi scritto nel
1957). Le ragioni di una simile scelta sono diverse e complesse. Particolarmente
rilevante è quella metodologica, dovuta al rifiuto del
materialismo storico come strumento di spiegazione della realtà e
alla parola creatrice, è tornata anche la critica più recente: pensiamo, ad esempio,
ad alcuni interventi sulla stampa di G. Ravasi.
( 3 ) G. SCHOLEM, ˇ Sabbetay Zevi we-ha-tenu‘ah ha-šabbeta’ it bi-yme chayyaw (tit.
dell’ed. inglese ampliata Sabbatai Zevi. The Mistical Messiah. 1626-1676), Suhrkamp,
Frankfurt am Main 1957, tr. it. di C. RANCHETTI, intr. di M. RANCHETTI, ˇ Sabbetay
Zevi. Il Messia Mistico. 1626-1676, Einaudi, Torino 2001, p. 6.
( 4 ) Ib., p. 450. Il tema dell’esilio come condizione costitutiva e ineliminabile
dell’esistenza ebraica è esposto in E. FUBINI, Gershom Scholem: un’alternativa all’esilio,
in AA.VV., Ritratti dell’altro. Figure di ebrei in esilio nella cultura occidentale,
a cura di M. Sechi, La Giuntina, Firenze 1997, pp. 167-170.

Il messianismo di ˇ Sabbetay Zevi in G. Scholem
del socialismo come soluzione dei contrasti sociali. Da essa discende
infatti l’esigenza di dar vita ad una prosa che compenetri le istanze
avanzate da diversi generi letterari, senza scadere nel semplice resoconto
cronachistico di contrasti tra sette e nell’autoesaltazione enfatica
nel momento in cui ricorre a testi rari e misconosciuti dalla tradizione
culturale ufficiale. Solo così è possibile proporre un’adeguata
soluzione soprattutto al complicato proposito di conciliare le stringenti
regole dell’analisi storiografica con l’idea di utilizzare il testo
storico quale verifica di tesi teoriche elaborate in precedenti libri o
sparse in scritti d’occasione. In virtù di questi accorgimenti Scholem
cerca di sfuggire al “facile” sociologismo per avvicinarsi ai fatti con
un approccio fenomenologico di maniera, con il quale procedere
nell’analisi istituendo tipi e tipicizzando fatti ( 5 ). Al contrario, egli
intende tener ferma quella preoccupazione per l’universale a cui la
teologia ha dato forma compiuta nell’immagine di YHWH «che ha
nascosto il volto alla casa di Giacobbe» (Is. 8,17). Essa manifesta
nella forma più drammatica l’angoscia che si accompagna all’evidenza
di una possibile indifferenza di YHWH per la storia. Per queste
ragioni la figura del messia, che si mostra come tale mediante una
sfida e tramite la violazione della Legge, non può essere ridotta ad
un semplice capitolo di storia delle eresie. È vero che «la leggenda
sabbatiana è la forma storica in cui la persona di ˇSabbetay Zevi influì
sulle generazioni successive» ( 6 ), ma questo non vuol dire che le vicende
di ˇSabbetay Zevi vadano ricondotte all’atto di costituzione di
un gruppo di esistenza esclusivo. Allo stesso tempo va sgomberato il
campo dal facile fraintendimento legato alla presentazione di quel
comportamento come un comportamento istintuale o sfogo spontaneo,
a cui va data la necessaria giustificazione all’interno di un’organizzazione
statuale intesa come sua seconda natura ( 7 ):
205
( 5 ) Sintomatica al riguardo è, ad esempio, la frequente utilizzazione della figura
di Giobbe anche da parte del movimento illuminista con la giustificazione di
una “naturale” insoddisfazione da parte di un’età che pure aveva fatto un proprio
vessillo della ragione ragionante; cfr. G. MORETTO, La religione dell’illuminismo e
la domanda di Giobbe, in Giustificazione e interrogazione. Giobbe nella filosofia,
Guida, Napoli 1991, pp. 46-51.
( 6 ) G. SCHOLEM, op. cit., p. 910.
( 7 ) Due fra le più eminenti formulazioni sociologiche di questi princìpi sono
quelle di G. SIMMEL, Das Geheimnis und die geheime Gesellschaft, in Soziologie,
Duncker & Humblot, Leipzig 1908, tr. it. di G. QUATTROCCHI, a cura di A. Zhok,
Il segreto e la società segreta, SugarCo, Milano 1992, pp. 72-73 e R. CAILLOIS, Instincts
et société, Gonthier, Paris 1964, tr. it. di D. GORRET, Istinti e società, Guanda, Milano
1983, pp. 7-10.

206
ENRICO BECCIU
«ci vuole tutta l’ingenuità moderna per credere che ogni aspettativa di trasformazione
dell’esistenza umana sia “essenzialmente” sociale perché ha
aspetti e implicazioni sociali. Le generazioni di cui qui ci occupiamo non
avevano una visione del mondo impoverita fino a tal punto, e nella loro
esperienza c’era ancora spazio per una dimensione spirituale che fosse qualcosa
di più del riflesso diretto o indiretto della realtà sociale. Era l’intrecciarsi
dei vari elementi nella realtà storica del movimento sabbatiano a
spiegare molto della sua carica esplosiva» ( 8 ).
2. Messianismo e rivoluzione. – Al fondo dell’analisi scholemiana sul
messianismo agiscono due distinte tendenze, due modi complementari
di rispondere alla “seduzione” del Regno: una restaurativa, l’altra
utopica. Entrambe vedono nel Regno non l’al di là del mondo,
ma il mondo a venire, questo mondo volto al futuro. Il primo di
questi due modelli pensa soprattutto al ritorno degli esuli e alla riunificazione
dei regni di Giuda e Israele. Si tratta, cioè, del ritorno ad
un ordine antico, ad una condizione di pienezza originaria perduta,
ma destinata ad essere ritrovata. Questo modello teorico interpreta il
compimento della storia come un ritorno all’origine, come il ristabilimento
dell’armonia primordiale momentaneamente perduta. A
fronte di questa tendenza restaurativa, la corrente utopica si nutre
invece del sogno di un radicale sovvertimento dell’intera realtà, dell’apparizione
di un mondo assolutamente nuovo:
«l’aspetto utopistico dell’escatologia tradizionale adempiva una particolare
funzione nel mondo dell’ebreo medievale, poiché implicava molto più della
sola speranza di una vita tranquilla di perfezione morale e libertà umana.
Conteneva tutte le caratteristiche di un’età dell’oro, comprese le manifestazioni
miracolose e una trasformazione radicale dell’ordine naturale» ( 9 ).
Com’è noto, molti passi del Talmud sono dedicati infatti alla descrizione
dell’epoca messianica, all’utopia politica della fine di ogni
persecuzione e alla visione di una Gerusalemme redenta. Ma Scholem
rileva come né l’una né l’altra corrente sussista mai allo stato
puro. In entrambe genesi e decadenza vengono ad intrecciarsi convertendo
il tema mitico dell’inizio in una psicologia storica in cui il
mondo è posto in uno stato di generale indeterminatezza. Quest’ultima
è il contrassegno più certo della teologia del patto, in cui – sebbene
l’idea di promessa limiti l’idea di fallimento – è tuttavia possi-
( 8 ) G. SCHOLEM, op. cit., p. 450
( 9 ) Ib., pp. 19-20.

Il messianismo di ˇ Sabbetay Zevi in G. Scholem
bile scorgere il fallimento del mondo come suo rischio ( 10 ). Questo
dualismo è radicato nell’idea stessa di creazione, la quale rinvia insieme
all’instaurazione di un dato, di un ordine, e alla comparsa sempre
nuova dell’inedito e dell’imprevisto. Creazione compiuta e creazione
continuata: sono questi i due aspetti determinanti dell’idea
ebraica del tempo storico:
207
«l’amara esperienza d’Israele era soltanto un simbolo – anche se un simbolo
dolorosamente concreto – di un conflitto nel cuore della creazione. L’esistenza
stessa degli ebrei era profondamente simbolica, sia nelle sue attuali
sofferenze che nella sua redenzione futura. Con le sue opere l’ebreo curava
la malattia del mondo e riuniva i frammenti sparsi» ( 11 ).
Per queste ragioni si comprende come mai l’escatologia ebraica si
sia continuamente interrogata sulla natura della temporalità storica e
sui segni identificativi della redenzione. Al centro delle sue osservazioni
l’attenzione è stata volta, in particolare, ad osservare se il cammino
verso la redenzione avvenga nei tempi storici oppure nella metastoria;
se, quindi, il messia si presenterà al termine delle vicende
umane, o comparirà all’improvviso, all’interno della storia stessa. La
tesi di Scholem al riguardo consiste nel dissociare radicalmente – per
il messianismo ebraico – l’idea di redenzione dalla nozione di progresso
storico. La critica di una Ragione storica, con la contemporanea
messa in questione di un suo senso teleologico, diventa la via per
la definizione di un modello di storia aperto all’irruzione imprevedibile
del nuovo. Da ciò discende che la restitutio in integrum si accompagni
a due momenti nodali: da una parte la redenzione può sopraggiungere
ad ogni istante, dall’altra parte essa non dipende necessariamente
dagli uomini:
«non c’è alcuna continuità tra il presente e l’era messianica: quest’ultima
non è il frutto di sviluppi precedenti, tanto meno di un’evoluzione graduale.
Anziché essere il risultato di un processo storico, la redenzione sorge
sulle rovine della storia, che crolla tra “le doglie” dell’età messianica» ( 12 ).
Il Sefer ha-temunah (Il libro della figura), ad esempio, sviluppa
una complessa teoria degli eoni cosmici, i quali corrispondono alle
diverse epoche dell’umanità. La successione di questi eoni segna il
( 10 ) Questi temi sono ampiamente discussi in S. NATOLI, L’esperienza del dolore.
Le forme del patire nella cultura occidentale, Feltrinelli, Milano 1999, pp. 159-217.
( 11 ) G. SCHOLEM, op. cit., p. 53.
( 12 ) Ib., p. 19.

208
ENRICO BECCIU
progressivo disvelarsi della redenzione nel mondo ( 13 ). È questa storiografia
mistica a far da sfondo a quei calcoli escatologici a cui si
dedicarono un gran numero di cabbalisti nel tentativo di prevedere
la data della redenzione. Ma è evidente che se il messia può irrompere
in ogni istante, calcoli di questo genere non hanno alcun senso.
Non si tratta di condannare il prematuro disvelamento del momento
in cui la redenzione si compirà, quanto semmai di ribadirne l’imprevedibilità.
Scholem presta particolare attenzione allo «stato di
febbrile esaltazione» che coinvolse le masse per tutto il 1666. Apparentemente
lo sviluppo del movimento messianico si mostrò conforme
ai canoni tradizionali, ma in realtà esso esprimeva, seppure a volte
inconsapevolmente, la nascita di un nuovo «senso di vita». E la testimonianza
più concreta del carattere repentino della rivoluzione veniva
documentato in particolare da aspetti prettamente marginali come la
modifica del calendario liturgico e l’istituzione di nuove festività:
«l’atteggiamento di ˇ Sabbetay riguardo al tempo era certamente sorprendente
per un ebreo di quell’età. Il ritmo armonioso e la struttura solida dell’anno
liturgico tradizionale avevano cessato di esistere per lui. Dal momento
in cui aveva saputo di essere l’unto del Signore, il tempo aveva assunto per
lui una nuova qualità e un nuovo ritmo. La sua instancabile ricerca di un
nuovo senso del tempo non era priva di significato simbolico: esprimeva la
sua consapevolezza che il calendario dell’era messianica fosse diverso da quello
dell’esilio» ( 14 ).
Ma fu soprattutto il messaggio di Natan, non appena questi riconobbe
in ˇSabbetay il messia e divenne il suo profeta (prima ancora
cioè che la sua predicazione teologica diventasse una sorta di scolastica
ebraica, rientrando a pieno titolo nella tradizione cabbalistica)
a far passare anche nei più ferrei seguaci della mistica l’idea dell’irruzione
istantanea della redenzione nel corso della storia:
«la presenza di un “vero” profeta riconosciuto, i cui messaggi – diversamente
dalle azioni del messia – erano comprensibili a tutti, aveva un peso
maggiore del bando rabbinico di scomunica. Il profeta dimostrava una notevole
forza spirituale. Da una parte, si appellava al tradizionale anelito alla
redenzione, riuscendo a indirizzarlo in canali che per il popolo avevano un
significato immediato: penitenza e mortificazione. Dall’altra sapeva spiegare
a individui scelti (…) il significato mistico degli aspetti strani e ripugnanti
della personalità del messia. (…). L’assenza di un’immagine del messia
nettamente delineata dalla tradizione cabbalistica ora si vendicava. Gli en-
( 13 ) Cfr. Sefer ha-temunah, in AA.VV., Mistica ebraica, cit., pp. 289-298.
( 14 ) G. SCHOLEM, op. cit., p. 607.

Il messianismo di ˇ Sabbetay Zevi in G. Scholem
tusiasti potevano sostenere che, nelle questioni messianiche, il più inaspettato
era in realtà il più naturale» ( 15 ).
Tuttavia, e Scholem sottolinea il carattere cruciale della questione,
l’idea dell’assoluta imprevedibilità della redenzione pone e amplia
i problemi. In particolare si tratta di capire in quale modo questa
estrema generalità si coniughi col fatto che, pur nel profondo, la
storia umana sia guidata dalla legge invisibile di un progetto originario.
E come, inoltre, l’idea della discontinuità storica, la quale dà
modo a ciascuno di intervenire nella storia, si concilii con la partecipazione
del popolo ebraico alla storia universale. Il movimento sabbatiano
dava infatti la possibilità di colmare il divario fra «l’esperienza
interiore» e la «realtà storica» che esso simbolizzava. Esso mantenne
per di più viva nei credenti «la crescente tensione tra verità interna
ed esterna fornendo loro un sistema teologico la cui origine era
una crisi profonda e la cui natura era paradosso» ( 16 ). Ma in realtà si
trattava di un «processo dialettico» inerente alla natura stessa del
messianismo, il quale è aspirazione all’impossibile e ne esprime in
pieno la sua fondamentale aporeticità. Vi è infatti “troppo senso”,
all’inizio della storia, perché essa possa essere assolutamente imprevedibile,
ma non ve n’è abbastanza affinché sia completamente determinata.
Il messianismo può allora realizzarsi, però appena si realizza
si nega da sé. Di qui la sua tragicità: la tensione messianica del
popolo ebraico ha sempre fatto vivere quest’ultimo nel convincimento
di uno sconvolgimento totale della vita sulla terra, che invece
gli si è mostrato illusorio. È per questa ragione che la mistica ebraica
mette costantemente in guardia contro la tentazione dell’impazienza,
dell’intervento prematuro nello svolgimento della storia, ed educa
il popolo ebraico all’attesa. La redenzione è infatti sempre imminente,
ma se avvenisse, verrebbe immediatamente revocata in dubbio
in virtù di quella stessa istanza di assoluto che essa pretende di
adempiere. E questo è quanto i credenti scontano non appena si diffonde
la notizia dell’apostasia di ˇSabbetay Zevi. Essa frantumò sia la
continuità di una prospettiva escatologica, sia la semplice fede di
ogni fedele. Questi aveva ora davanti a sé il dilemma di dove si udisse
la voce di YHWH: o nel verdetto storico, che smascherava l’illusorietà
dell’esperienza mistica, o nella «realtà della fede», che albergava
nella sua anima. In realtà si diffuse, ed era una novità, anche la
( 15 ) Ib., p. 251.
( 16 ) Ib., p. 679.
209

210
ENRICO BECCIU
fede in un messia apostata, con tutta l’antinomicità che una simile
scelta comportava:
«credere in un messia apostata voleva dire costruire le proprie speranze su
fondamenta di paradosso e assurdità, che potevano solo portare a ulteriori
paradossi. L’unità e la coerenza del giudaismo rabbinico non furono intaccate
dall’unico paradosso inevitabile insito in esso, come d’altronde in tutte
le religioni e nell’esperienza umana stessa: quello della teodicea e delle sofferenze
dei giusti. Il carattere universale di questo paradosso angosciante
non attenuò in alcun modo la sua gravità, ma lo rese meno distruttivo.
(…). Una fede basata su questo paradosso distruttivo ha perduto la sua innocenza;
la sua premessa dialettica suscita necessariamente conclusioni che
sono ugualmente segnate dalla dialettica del paradosso» ( 17 ).
3. Il mondo storico. – Quando scrive il libro su ˇSabbetay Zevi, Scholem
ha alle spalle le vicende della seconda guerra mondiale e lo sterminio
degli ebrei. Contemporaneamente si trova a dover scontare le difficoltà
insite nel tentativo di trasformare la mistica in politica secondo
il “progetto per il mondo” del movimento sionista, del quale però egli
riconosce la piena fedeltà allo spirito del messianismo ( 18 ). Questi avvenimenti,
nonostante tutto, lungi dall’essere semplici casi isolati, testimoniano
per l’autore il generale naufragio di ogni esperienza fondativa
del Senso della storia ed in particolare di ogni ottimistico tenta-
( 17 ) Ib., pp. 678-679. Queste osservazioni segnano una forte distanza fra la posizione
di Scholem e quella di H. Arendt. Per quest’ultima, infatti, il fallimento
del movimento sabbatiano aumentò la consapevolezza per gli ebrei della loro
estraneità alla storia, ma, nel contempo, mostrò pure l’impossibilità di far ricorso
alla religione come idea regolativa con cui far coincidere pensiero e azione. Essi
dovevano così muoversi, da quel momento in poi, verso un «remoto futuro» senza
la speranza di una guida: «il presente cui gli ebrei si trovarono a far fronte, dopo il
disastro di Sabbatai Zevi, era il disordine di un mondo ormai privo di senso, nel
quale, di conseguenza, gli ebrei non potevano più trovare un posto». Cfr. H.
ARENDT, The Jewish State: Fifthy Years After: Where Have Herzl’s Politics Led?, in
“Commentary”, 1, maggio 1946, pp. 1-8, tr. it. di G. BETTINI, Lo stato ebraico:
cinquant’anni dopo dove ha portato la politica di Herzl?, in Ebraismo e modernità,
Unicopli, Milano 1986, p. 127.
( 18 ) Significativa al riguardo è la lettera del 1° agosto 1931 spedita a Benjamin
e raccolta in G. SCHOLEM, Walter Benjamin - die Geschichte einer Freundschaft,
Suhrkamp, Frankfurt am Main 1975, tr. it. e note di E. CASTELLANI e C.A. BONA-
DIES, Walter Benjamin. Storia di un’amicizia, Adelphi, Milano 1992, p. 265. Per
un’introduzione a questa tematica rimandiamo comunque a S. QUINZIO, Gershom
Scholem (1897-1982). Il negativo e la nuova spiritualità ebraica, in AA.VV., Dio
nella filosofia del Novecento, a cura di G. Penzo-R. Gibellini, Queriniana, Brescia
1993, pp. 288-290.

Il messianismo di ˇ Sabbetay Zevi in G. Scholem
tivo di conciliare quella con una teodicea. Nel momento in cui volge
lo sguardo al futuro, Scholem recupera dalla sua peculiare “coscienza”
del presente (benjaminianamente definibile come «oggetto (intenzionale)
di una profezia») ( 19 ) quegli elementi alla luce dei quali ogni
particolare esperienza tramandata dal passato si offre nella sua unicità.
Ma questa forma di «comprensione storica» – per quanto sia tale da
negare ogni immediata continuità nella storia stessa – viene comunque
vissuta da Scholem nel modo più pressante e colta con la consapevolezza
hegeliana che la verità si mostra anche nella «lacerazione».
Conseguentemente il suo interesse per la tradizione ebraica anzichè
essere inteso come un semplice momento di catalogazione di
storia delle idee, va considerato in tutta la sua pregnanza. Quella tradizione,
con la sua ermeneutica dell’assoluto vissuta tra l’apparire
del non-senso e la parola che origina l’eterno e il significato – avendo
sperimentato l’assenza del sacro e la sua morte in maniera lancinante
– concepisce il proprio esistere alla stregua di un disperato sopravvivere
al cospetto dell’assurdo. Allo stesso tempo offre anche il
modo di accogliere la potenza del negativo dopo la catastrofe. È vero
che l’esigenza di assoluto ha impedito a lungo al popolo ebraico di
impegnarsi nella storia per lavorare concretamente alla realizzazione
di quell’utopia che esso porta con sé. Ma proprio quella distanza rispetto
alla storia – che ha assicurato la propria perennità al popolo
ebraico – può diventare la base per una «rinascita nazionale» che
non sia astratta pacificazione con la storia, quanto, semmai, ricomposizione
di un’identità andata in frantumi:
211
«Era inevitabile che il tentativo di formulare un ebraismo postmessianico
fallisse, poiché non è possibile alcuna definizione precisa di libertà sin tanto
che la libertà a cui si fa riferimento rimane astratta e non è effettivamente
e pienamente realizzata. Soltanto colui che vive la vita della libertà può
dire qual sia il contenuto della libertà. I sabbatiani vivevano una finzione
che avevano trasformato in una realtà psicologica, e quindi i loro tentativi
di definizione dottrinale erano destinati al fallimento. Benché si presentassero
sotto forma di asserti nuovi e positivi, queste imprese dottrinali erano
sostanzialmente negazioni dei vecchi valori, e anche in questo il destino del
sabbatianismo assomiglia sia a quello del cristianesimo sia a quello del movimento
socialista» ( 20 ).
( 19 ) W. BENJAMIN, Anmerkungen zu ‘Über den Begriff der Geschichte’, in Gesammelte
Schriften, hrsg. v. R. Tiedemann und H. Schweppenhäuser, Bd. I, 3, Suhrkamp,
Frankfurt am Main 1974, tr. it. Materiali preparatori delle tesi, in Sul concetto di storia,
a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997, p. 85 Ms 472.
( 20 ) G. SCHOLEM, ˇ Sabbetay Zevi, cit., p. 779.

212
ENRICO BECCIU
A differenza del messia cristiano, il cui sacrificio redime la storia,
l’apostasia di ˇSabbetay permette di inglobare l’adempimento della
promessa messianica nella costruzione di una comunità che sia
un’unità nella differenza, e quindi di conciliare tra loro l’attesa storica
e l’appartenenza metastorica. La ragione di questo fatto dipende
da una singolare coincidenza. E cioè dalla circostanza che nella paradossale
eternità dell’ebraismo agisce una percezione della storia in
cui sono integrati assieme il modello della continuità e quello della
discontinuità, la logica dei processi generali e l’imprescindibilità delle
rotture. Se è vero che la tradizione ebraica non ha mai pensato la
storia in termini di causalità meccanica, ha comunque sempre sottolineato
l’esistenza in essa di discrepanze, di sequenze di eventi che si
potrebbero qualificare come concatenazioni di serie aperte. È quanto
si ricava, per esempio, dall’esegesi delle tre “alette” che compongono
la lettera ˇSin nell’Alfabeto di rabbi ‘Aqiva. In seguito a quell’analisi,
infatti, l’unità temporale è disarticolata «nei giorni del messia» e nei
giorni «del mondo a venire» ( 21 ). Ma poter pensare questa differenziazione
non equivale a trovarsi davanti ad una totale parcellizzazione
della storia con la conseguente rinuncia a poterne dedurre concezioni
sul mondo. Se così fosse si avrebbe di nuovo a che fare con una
sorta di laskiana distinzione tra «realtà» e «valore».
In questo modo ad esempio in Lask si ha un superamento della
simmeliana contrapposizione tra «forma» e «vita», nonché dell’irrisolta
contraddizione ad essa connessa di un vitalismo formalista fine
a se stesso. Però, per quanto egli giunga anche a prospettare un qualche
tipo di organizzazione del reale nella separazione tra «categorie»
e «storia», in definitiva viene comunque preclusa ogni possibilità
d’incontro tra i due mondi a causa della totale sovrastoricità delle
prime. Appare pertanto indubbio che i temi del misticismo ebraico,
che pure attraversano il pensiero di Lask, conducono quest’ultimo
ad accentuare la condizione tragica della coscienza storica dell’uomo
e del suo esistere contemporaneo. Infatti una concezione del mondo
– in una realtà storicamente conflittuale – si impone assai più per la
sua “utilità” che per la sua “verità”. E questo è ancora più certo se si
pensa che la Verità è confinata in una sfera oltre il nostro mondo,
come «Archetipo» inconoscibile o «Paradiso perduto» ( 22 ). Al contrario
con Scholem sia ha l’impressione di stare all’interno di un’elabo-
( 21 ) Cfr. Alfabeto di rabbi ‘Aqiva, in AA.VV., Mistica ebraica, cit., p. 143.
( 22 ) Cfr. E. LASK, Lehre vom Urteil, in Gesammelte Schriften, hrsg. v. E. Herrigel,
Bd. 2, Mohr, Tübingen 1923, pp. 426-427.

Il messianismo di ˇ Sabbetay Zevi in G. Scholem
razione sulla storia (definibile secondo gli interpreti «stocastica») ( 23 ),
in cui il rifiuto di una concezione messianica immanentista e del suo
carattere atopico privilegia una comprensione dell’esperienza nella
quale il momento soggettivo e quello oggettivo non sono ancora separati.
In un simile orizzonte di pensiero ogni istante del tempo può
concepirsi alla stregua di un bivio da cui si dipartono molteplici
“vie”, e tutte quante sono “regie”. La scelta tra una di esse sarà sostanzialmente
aleatoria (tale cioè da negare ogni quadro storico dei
progressi dello spirito umano), ma una volta decisa la via, questa determinerà
una serie di costrizioni, che agiranno come un sistema di
condizionamenti successivi. In altri termini, ci si trova di fronte ad
un modello di “dialettica della realtà” nel quale il massimo ampliamento
della razionalità non è astrattamente normativo, bensì è tale
da conciliare la “retoricità” del suo metodo col massimo rigore formale.
E nel contempo la garanzia del valore metafisico di questo
percorso dipenderà dalla sua organizzazione in base a principi strutturali
ricavati, ma non necessitati, dal tempo storico. La riprova della
validità di tutto ciò è demandata alla capacità di quei principi di
organizzare il materiale, presentandolo come generato da essi; vuotando
perciò di significato il problema della empiricità e circolarità
del processo ( 24 ):
213
«I cabbalisti ortodossi non si erano mai sognati di mettere da parte gli elementi
politici del messianismo. Quando aggiunsero una nuova dimensione
mistica all’escatologia tradizionale e la concepirono come una trasformazione
dell’essenza stessa del cosmo, essi intendevano dire che la redenzione
messianica era di più, non di meno, che la liberazione dal giogo dei gentili.
La realtà storica, lungi dall’essere abolita, serviva da simbolo dei processi
mistici nascosti. (…). Quando il vangelo messianico improvvisamente si
trovò immerso nella sua crisi più grave, la contraddizione latente emerse in
tutta la sua forza. Il contrasto tra simbolo e realtà simbolizzata, cioè tra la
realtà esterna e la realtà interna della redenzione, creò un dilemma profondo
e doloroso che diede vita al “sabbatianismo” come somma totale dei
tentativi di riadeguare la consapevolezza ebraica alla nuova situazione» ( 25 ).
( 23 ) S. MOSÈS, L’ange de l’histoire. Rosenzweig, Benjamin, Scholem, Seuil, Paris
1992, tr. it. di M. BERTAGGIA, La storia e il suo angelo. Rosenzweig, Benjamin, Scholem,
Anabasi, Milano 1993, p. 219.
( 24 ) Per questi esiti della circolarità rispetto alla dialettica hegeliana, cfr. G.
VARNIER, Ragione, negatività, autocoscienza, Guida, Napoli 1990, pp. 278-293.
( 25 ) G. SCHOLEM, ˇ Sabbetay Zevi, cit., pp. 677-678.

214
ENRICO BECCIU
4. La crisi della tradizione. – L’analisi scholemiana non si accontenta
di un’immediata equivalenza simbolica tra teologia e storia. Né, tantomeno,
della giustificazione che entrambe abbiano a che fare con
una qualche forma di assoluto. Essa tiene presente, invece, gli aspetti
da cui sono divise, senza però irrigidirli in una dualità metafisica.
Ecco quindi che concetti prettamente teologici, sottratti ad una posizione
fissa e dogmatica, rendono agevole la «ricerca dell’insight storica»
( 26 ). Essi ovviano alla «censura interna del passato» ( 27 ), a volte
soltanto inconscia, decretata da un generico «punto di vista razionalista».
Il rischio che si corre è infatti quello di distorcere il senso di
un avvenimento per voler restringere la prospettiva storica. Ciò è ancora
più vero se il proposito è quello di capire lo Zeitgeist (spirito del
tempo), il quale, con un’immagine paradigmatica, coincide con il
mondo disertato dall’idea di divino, la cui immanenza, però, può essere
decifrata come il rovescio di una trascendenza perduta. Sia nel
«paradosso sabbatiano» sia nel cristianesimo «fede» e «razionalizzazione»
sono unite. Esse consentono di «elaborare un’ideologia» per
vivere in mezzo alle tensioni tra realtà interna ed esterna:
«Mentre gli storici dovrebbero guardarsi dal considerare la teologia null’altro
che ideologia e frutto di razionalizzazioni, vi sono pochi dubbi che senza
la pressione aggiuntiva del dover giustificare anche il ritardo del Secondo
Avvento, l’edificio imponente della teologia cattolica non sarebbe mai
sorto» ( 28 ).
Le «vite tempestose» di ˇSabbetay e Natan spiegano cosa significhi
orientarsi in una realtà che si è resa indecifrabile. «Essi – scrive Scholem
– si erano riproposti di aprire le porte della redenzione ed erano
riusciti a risvegliare l’intera Casa di Israele» ( 29 ). Nello spazio metafisico
che si apre tra la visione e la realizzazione di quel proposito si
scorge il riflesso della trascendenza dileguata. Come Scholem ancora
osserva, «ogni crisi nella formulazione dottrinale dell’esperienza della
redenzione (…) era destinata a portare ad analoghi sviluppi nella speculazione
religiosa» ( 30 ). Si spiega così la trasvalutazione dei valori tradizionali,
che nei credenti ridusse la realtà storica a mera «illusione»:
( 26 ) Ib., p. 6.
( 27 ) Ib., p. 5.
( 28 ) Ib., p. 780.
( 29 ) Ib., p. 910.
( 30 ) Ib., p. 782.

Il messianismo di ˇ Sabbetay Zevi in G. Scholem
215
«I nuovi sviluppi dottrinali andarono al di là della questione della missione
del messia e del posto della “legge” nell’era messianica, e si estesero alla
dottrina della divinità, che ora prese una piega decisamente eretica» ( 31 ).
Il movimento sabbatiano ebbe tuttavia un «ruolo pioneristico»
nell’ipotizzare un mondo nuovo. Ciò dipendeva dalla struttura del
mondo ebraico. Infatti, in esso ogni «variante locale» è indipendente
da fattori geografici. Se la Zivilisation è il culmine di una cultura –
ma non esprime la sua fine necessaria, bensì le sue infinite possibilità
– l’origine va cercata nella «reciprocità tra centro e periferia». La
coincidenza tra “l’agire in comunità” e “l’agire in società” ha quindi
inizio nel mondo chiuso dell’esistenza ebraica strettamente circoscritta:
«Il risveglio sabbatiano era una rivolta contro il ghetto, che
avveniva dentro gli stretti confini del ghetto e che del ghetto portava
il segno, anche dove prometteva di rendere nuova ogni cosa» ( 32 ).
Più decisiva di ogni dottrina fu la «forza esplosiva» del messaggio
messianico in quanto tale. «Il messia – sottolinea Scholem – agiva
più come uno slogan, o come un’immagine, che non come una personalità
vivente» ( 33 ). L’affluire improvviso di racconti miracolosi si
svolse indipendentemente dalla presenza di un «leader scadente»
come ˇSabbetay:
«Cercheremmo invano nel messia una qualsiasi delle qualità notevoli del profeta:
attività instancabile, perseveranza incrollabile senza alti e bassi maniacodepressivi,
originalità di pensiero teologico e apprezzabile capacità letteraria.
(…). A ˇ Sabbetay mancava forza di carattere. (…). Carente di forza di volontà
e privo di un piano di azione, era vittima della sua malattia e delle sue illusioni.
Ma la sua personalità paradossale ispirò Natan e gli fornì lo stimolo per le
sue azioni e le sue idee» ( 34 ).
Nello studio del sabbatianismo Scholem ha pertanto modo di verificare
la capitale importanza delle procedure della trasmissione orale
per il perpetuarsi di una cultura. Nella tradizione ebraica i testi assumono
senso per l’insegnamento che li interpreta e li riattualizza di
generazione in generazione. Ma l’ebraismo della diaspora non conosce
istituzioni analoghe a quelle (chiese e università) a cui l’Europa
cristiana affida il compito di tali trasmissioni. L’assenza di centri uf-
( 31 ) Ib., p. 781.
( 32 ) Ib., p. 782.
( 33 ) Ib., p. 252.
( 34 ) Ib., pp. 209-210.

216
ENRICO BECCIU
ficiali di attività missionaria organizzata fa sì che la tradizione si perpetui
nello spazio privato della casa di studio e di preghiera. E, particolarmente,
nell’intimità della famiglia per la relazione personale del
padre e del figlio. La messa in questione dei contenuti della fede
modifica il principio stesso della sua trasmissione.
Scholem sottolinea diffusamente l’ampio «entusiasmo messianico»
che accompagnò il sabbatianismo. Ma ciò non si tramuta in un elogio
dell’oralità della filosofia delle origini. Neppure, però, nel sostegno
ad una generica “unità” di popolo priva di contraddizioni: «Il
carattere nazionale e onnicomprensivo del risveglio lasciava in ombra
i contrasti nella disposizione emotiva dei suoi partecipanti» ( 35 ). Egli
è consapevole dei limiti in cui incorre una coscienza che si affida soltanto
alla sua generalità irriflessa: «La memoria popolare tende a semplificare
la storia con la narrazione selettiva, anziché complicarla con
l’analisi» ( 36 ). Tuttavia, queste limitazioni non gli fanno tacere l’identità
collettiva che stava alla base della narrazione della «buona novella»
datane dalle «fonti ebraiche d’informazioni» o da racconti vari:
«All’epoca ancora non esistevano giornali nel senso moderno della parola, e Zeitung,
nell’uso di allora, significava un foglio volante o un piccolo opuscolo, generalmente
di sei-otto pagine, che “riportava” (cioè, trattava di) argomenti fondamentali.
Gli opuscoli dei quali ci occupiamo erano scritti o da uomini (come
Serrarius) sinceramente interessati al movimento che riferivano fedelmente le informazioni
ricevute, o da gazzettieri che non esitavano ad aggiungere particolari
o addirittura inventare intere storie prodotte dalla loro fantasia» ( 37 ).
Si può quindi facilmente osservare come Scholem, lungo tutta la
sua ricerca, si ispiri ad uno dei temi fondamentali della cosmogonia
luriana: quello, cioè, del raggio di luce divina che, provenendo dall’Infinito
primordiale, attraversa il nulla e collega il mondo creato
alla sua fonte trascendente ( 38 ). Egli rovescia però il senso tradiziona-
( 35 ) Ib., p. 455.
( 36 ) Ib., p. 460.
( 37 ) Ib., p. 458
( 38 ) Per un maggiore chiarimento al riguardo, rimandiamo all’ampia ricostruzione
del lurianesimo fatta da Scholem nelle pp. 31-74. Come è stato sottolineato
da più parti, il nulla rappresenta «una singolare emergenza», una sorta di «fenomeno
carsico» nella storia del pensiero. Principalmente, lo si incontra in quella «esperienza
della verità», in quell’altrove pensato nell’orizzonte di una «divinità oscura e
che dilegua». Paradossalmente è così che la filosofia evita di radicalizzare il suo relativismo
e recupera il senso più genuino della sua inattualità. Cfr. al riguardo S.
GIVONE, Storia del nulla, Laterza, Roma-Bari 1995, pp. XI-XIII; 209.

Il messianismo di ˇ Sabbetay Zevi in G. Scholem
le di questa immagine mitica. Anziché vedere in essa una metafora
della rivelazione del senso oltre l’abisso che ci separa dall’infinito, vi
legge il simbolo stesso della sua sovversione. Questo ritrarsi della
Legge non significa che l’idea di Legge sia diventata estranea, ma
piuttosto che essa si mostri, nella sua essenza, impraticabile. Questa
negatività – in cui essa non significa alcunché, cioè non è concettualizzabile
né formulabile – è quella in cui, in sostanza, si intrecciano i
motivi del nichilismo religioso e della dialettica della tradizione. E
in questo percorso il sabbatianismo ed il cristianesimo rivelano ancora
una volta una singolare coincidenza:
217
«In entrambi i casi la distruzione di valori tradizionali sulla scia di un’amara
delusione e di un intenso risveglio religioso portò a un’esplosione di antagonismo
nei confronti della Legge. (…). Entrambi dovettero adottare un
atteggiamento radicalmente diverso nei confronti dei valori che erano stati
dominanti fino ad allora, ossia, rispettivamente, la Legge di Mosè e la tradizione
halakica del giudaismo rabbinico» ( 39 ).
Dello splendore divino permane una «debole traccia», un «residuo».
Esso non è accolto in una qualche dottrina segreta, in un contenuto
di inestricabile verità. Semmai esige, per essere compreso,
una disposizione dello spirito, un orizzonte di lettura. In ogni fissazione
scritturale c’è un elemento esoterico, al quale si contrappone
l’oralità della tradizione mistica. Ma anch’essa è affidata all’incertezza
della memoria collettiva e va consegnata allo scritto. Ciò che è
stato originariamente concepito come orizzonte di senso si trasforma
nuovamente in tema di discorso, che a sua volta richiede d’essere interpretato.
5. Catastrofe e redenzione. – Il modo in cui Scholem si confronta con
la problematica del messianismo non è facilmente riconducibile all’ambito
della storiografia. Il libro su ˇSabbetay Zevi non si presenta
infatti come un trattato di teologia, ma come un contributo a una
comprensione della storia del popolo ebraico. La novità apportata da
Scholem rispetto alla scienza ebraica, così come l’avevano concepita
( 39 ) G. SCHOLEM, ˇ Sabbetay Zevi, cit., p. 782. Nel profondo, queste discussioni
riguardavano quella «radicale Entstellung» del Testo su cui si fonda la possibilità
della storia ebraica. E cioè il suo sviluppo, l’interminabile gioco delle sue variazioni
che creano un’appartenenza, pure nella perdita. Su questa «migrazione interpretabile
secondo verità, Entstellung avente radice», rimandiamo a M. CACCIARI,
Icone della Legge, Adelphi, Milano 1985, pp. 144 ss.

218
ENRICO BECCIU
gli storici del XIX secolo, non riguarda tanto la legittimità del metodo
storico, quanto piuttosto la natura dell’oggetto indagato. La sua
riflessione sulla storia della mistica ebraica tende non solo a servirsi
di essa per evidenziare la composita struttura del reale, ma a riabilitare
il pensiero religioso in generale inteso come sistema simbolico.
Ciò che si ricava da questa analisi storico-religiosa è l’evidenza di un
modulo di ricerca che vada al di là di semplici proposte salvifiche
quali derivano dall’interpretazione tradizionale di testi sacri. Il loro
limite non secondario può essere difatti quello di approntare una
qualche forma di apocalissi permanente e ben strutturata in cui consumare
tutto il tempo pensabile.
Se ci soffermiamo nuovamente sul momento dell’apostasia di ˇSabbetay
possiamo scorgere come la rigenerazione spirituale del cosmo e
la redenzione dall’infelicità dell’esilio vengano a divaricarsi definitivamente.
Nella teologia cabbalistica l’elemento mistico della redenzione
– l’elevarsi delle “scintille sante” imprigionate nei “gusci” – era
stato considerato essenziale e primario. I due concetti che sino ad allora
erano stati ritenuti aspetti di un’unica e sola realtà ora andavano
in pezzi, poiché ciascuno iniziava a condurre una propria vita autonoma:
«Il dramma della redenzione non si rappresentava più su una
sola scena o, per dirla diversamente, le due scene non erano più congruenti.
A mano a mano che si ampliava la lacuna tra le due sfere, i
credenti dovettero optare per l’una o per l’altra» ( 40 ).
Con l’ineludibilità di questa scelta viene distrutta l’ingenua e
semplice unità del movimento messianico originario. La svalutazione
della disincantata realtà esterna, la quale conduce molti a privilegiare
la realtà della visione del cuore, esprime l’abbandono del mondo.
Esso è anche il rifiuto di un mondo della cultura che non vuole
negare il ritmo continuo dell’ esistenza. Il possibile riscatto può ora
trovarsi soltanto nel ricordo di una dimensione remota, totalmente
altra benché completamente interna alla struttura presente dell’esistenza.
Essa vi compare come sentimento della speranza e malinconia.
Dalla ricerca di identità fra speranza e memoria, dal loro continuo
sfuggire dalla struttura materiale del presente, viene rotta l’implacabile
potenza del tempo come serie continua. Quando il tempo
inserisce la sua incidenza sul destino soggettivo, è segnata una totale
scissione con una “Patria trascendente”.
La perdita dell’intero, con la conseguente certezza del destino
della frammentarietà storica, è la condizione in cui ogni soggetto fa
( 40 ) G. SCHOLEM, ˇ Sabbetay Zevi, cit., p. 778.

Il messianismo di ˇ Sabbetay Zevi in G. Scholem
esperienza del proprio Io diviso. Con la perdita dell’intero viene
aperta la porta alla trasvalutazione più nichilistica dei valori religiosi.
L’emergere di queste problematiche, con le conseguenti implicanze
per una filosofia sull’Essere, pongono le osservazioni di Scholem in
una posizione di rilievo all’interno del pensiero novecentesco. Infatti,
l’immediata conseguenza di quel percorso nichilistico è anche
un’accentuazione della volontà di potenza. Gli stessi comportamenti
strani e folli di ˇSabbetay esprimono la crescita iperbolica della dimensione
del sé, di questo sé reso pura potenza autoreferenziale del
processo di scissione che, a sua volta, lo colloca al posto di comando.
Nel contempo, il suo è il misticismo di un’epoca che si legge come
totalmente travolta da quell’abbandono. È questo orizzonte di pensiero
a giustificare la moltiplicazione di comportamenti di quanti si
lasciano andare facilmente alla trasfigurazione o alla disperazione;
oppure quelli di chi privilegia la via che conduce ad una amplificazione
della “vita” attraverso l’esperienza mistico-razionalistica.
Se la perdita dell’intero diventa l’attualità, tuttavia non si può
semplicemente pensare alla ricomposizione dell’intero e della totalità
come utopia. Sin dal primo svilupparsi dell’ondata messianica vengono
a profilarsi due atteggiamenti distinti fra i seguaci del sabbatianesimo.
Il primo gruppo raccoglie soprattutto i fautori della conservazione,
i quali concepiscono il mondo messianico come una diretta
continuazione del mondo che conoscevano. All’esterno ogni cosa sarebbe
cambiata, ma la realtà interna sarebbe rimasta la stessa o, più
precisamente, sarebbe stata perfezionata. Ma vi erano anche quelli
nei quali il senso della crisi coincideva con la distruzione totale del
vecchio stato di cose. Il risveglio penitenziale, stimolato e incoraggiato
soprattutto dalla predicazione di Natan, provocò una battuta
d’arresto nella normale conduzione degli affari. Ovviamente non è
possibile vedere in questo stato di cose la consapevole critica ad una
razionalità che si sviluppa nei termini di una ragione astratta o formalismo
vuoto. Eppure l’atteggiamento di Natan è segno di una sorta
di rivolta apocalittica ed è indicativo di quella che puo essere definita
un’economia messianica: «Il concetto di “normalizzazione” che
aveva Natan era sostanzialmente messianico. In un’era redenta e perfezionata
la Terra Santa avrebbe fornito tesori sufficienti a rendere
superfluo il commercio e tutto ciò che lo accompagnava» ( 41 ).
Gran parte delle difficoltà che si riscontrano in questa visione
composita della storia, a cui simbolicamente si lega l’idea di passare
dalla Torah materiale a quella spirituale, hanno trovato formulazio-
( 41 ) Ib., p. 362.
219

220
ENRICO BECCIU
ne compiuta nel sistema cabbalistico elaborato da Isaac Luria nel
XVI secolo. Tale sistema, considerato da allora l’espressione canonica
della visione cabbalistica del mondo, sviluppa una teoria completamente
nuova rispetto a quella che sottende le dottrine messianiche
del Talmud. Nello specifico, la storiosofia del cabbalismo luriano è
intimamente connessa alla sua cosmogonia. Per Luria il progetto divino
che presiede alla Creazione va pensato come un piano d’insieme
all’interno del quale s’inscrivono fin dall’origine le molte facce di
una stessa verità. Quest’ultima, se pure sfugge nella sua unità primordiale,
è tuttavia immediatamente rivelata nella sua forma frammentaria.
Pertanto lo scorcio originario che la verità offre di sé è già
quello della dispersione del senso, della sua disgregazione in quei
semi primordiali che per Luria sono le anime. Con l’introduzione di
questo termine si ha che l’orizzonte originario del senso ci è dato
immediatamente, prima di ogni altra cosa, sotto la specie dell’umano.
L’avventura storica del senso, dunque, si gioca attraverso i molteplici
destini personali, poiché ciò che si offre ad ogni essere umano,
in un certo modo, è il compito di realizzare nel mondo la parte
di verità che esso incarna.
Si tratta però di un compito complicato dal fatto che, in un secondo
momento della storia mitica dell’Inizio, una catastrofe originaria
(la “rottura dei vasi”) fa esplodere il mondo primordiale della
verità. La rottura dei vasi introduce un evento drammatico nel mistero
della divinità, ma le sue conseguenze sono evidenti in ogni singolo
dettaglio del cosmo. Se non fosse stato per la rottura dei vasi,
ogni cosa avrebbe occupato il posto assegnatole. Da quel momento
in poi, invece, tutto è imperfetto e carente, in un certo senso “rotto”
o “caduto”. Questa situazione in cui nessuna cosa è al posto giusto è
ciò che si intende con il termine “esilio”.
Sprofondate nell’esilio, le anime esplose si sforzano di sottrarsi a
questa loro alienazione. Ciascuna si mette alla ricerca dei frammenti
sparsi della primaria unità, per ricomporre quella forma originaria e
contribuire così alla realizzazione del progetto iniziale della creazione.
Il tiqqun, che significa restaurazione o reintegrazione, è il processo
attraverso cui è riparato l’ordine ideale. Il mito cosmico dell’Esilio
e della Redenzione diventa allora la chiave della storia nascosta
dell’umanità. La storia delle anime diventa un processo di progressiva
accumulazione. Di generazione in generazione, il lavoro di compiuta
purificazione si conserva e si trasmette mediante un processo
mitico di trasmigrazione delle anime interpretabile, con una metafora,
come una sorta di progresso spirituale dell’umanità. Nell’era
messianica il processo che ha avuto inizio con la rottura dei vasi sarà

Il messianismo di ˇ Sabbetay Zevi in G. Scholem
completato. Il processo è continuo, anche se l’avvento della redenzione
non dipende necessariamente dal suo precedente completamento.
In questo sviluppo il re messianico si limita ad apporre il suo
sigillo al decreto di libertà che Israele ha patito nel suo esilio.
Nella Torah esiste un termine, Toldot, per designare la storia e insieme
«la cosa che deve essere partorita». La storia costituisce l’atto
di nascita, il parto di un’identità che si compie con i tempi messianici.
Il Toldot diventa allora la sfida più forte ad ogni immagine omogenea
del tempo, cioè alla cristallizzazione del divenire in un’unica
prospettiva storica. Un’attualità che mina dall’interno la coerenza
del tempo storico fa uscire la storia dai cardini, polverizzandola in
molteplici istanti messianici. Per questa attualità è all’opera l’Angelo
della storia. Egli accompagna le vicende umane stando nella linea di
confine che separa il tempo concepito e vissuto nella storia dal tempo
che si instaura con l’evento messianico. Come Benjamin ha osservato,
«Solo il Messia stesso compie ogni accadere storico e precisamente
nel senso che egli soltanto redime, compie e produce la relazione
fra questo e il messianico stesso. Per questo nulla di storico
può volersi da se stesso riferire al messianico» ( 42 ).
In ultima analisi, dunque, l’utopia dell’Angelo della storia è tesa a
salvaguardare l’eterna e totale caducità del tempo: l’eternità di un
tramonto e il ritmo cadenzato di una mondanità che “eternamente”
tra-passa.
( 42 ) W. BENJAMIN, Theologisch-Politisches Fragment, in Gesammelte Schriften,
cit., Bd. II, 1, tr. it. e cura di G. AGAMBEN, Frammento Teologico-politico, in Il concetto
di critica nel romanticismo tedesco. Scritti 1919-1922, Einaudi, Torino 1982,
p. 171.
221

222
TERMINI EBRAICI RICORRENTI
ENRICO BECCIU
Adam qadmon: «Uomo primordiale». All’interno del creato rappresenta il grado
sommo della creazione, l’uomo di luce. Simbolicamente indica il percorso
dell’uomo verso la conoscenza di una realtà sempre più rarefatta.
Arik anpin: espressione aramaica che significa «di volto lungo» o «di naso lungo».
Il termine viene utilizzato per indicare l’aspetto inconoscibile dell’En-Sof.
Azilut: condizione originaria di purezza delle anime, per la quale non sono macchiate
dal peccato originale.
Chanukkah: giorno di festa in cui si ricorda la profanazione del Tempio ad opera
dei Maccabei.
En-Sof: «Infinito». Nella tradizione cabbalistica indica il principio divino nella sua
essenza più intima e nascosta. Esso trascende la creazione e, prima di dar
vita al cosmo, riposa nel proprio mistero, pervadendo di sé la totalità della
realtà.
Gimatreya: «numerologia». Procedimento di interpretazione delle parole ebraiche
mediante il valore numerico delle lettere che le compongono, attraverso
criteri di sostituzione alfabetica.
Golem: creatura fantastica che riceve la vita in virtù di un procedimento magico
d’utilizzo di nomi di santi.
Haggadah: «racconto». Il termine indica la parte narrativa della letteratura rabbinica
e il testo usato come cerimoniale nelle sere della Pasqua.
Halakah: «via (verso la legge)». Costituisce la parte legale e rituale della tradizione
rabbinica.
Kavod: «Gloria». Termine tecnico che nella mistica ebraica designa la manifestazione
della presenza divina.
Maggid: «messaggero». Nella letteratura cabbalistica designa l’angelo, o la forza celeste,
che annuncia misteri arcani al mistico nel corso della veglia notturna.
Merkavah: «carro». Indica la sfera delle sefirot divine.
Metatron: secondo la tradizione rappresenterebbe Enoch, patriarca antidiluviano
asceso al cielo e trasformato in angelo dal Signore. Il suo nome riveste importanza
simbolica per la posizione di privilegio fra gli angeli, in quanto
servitore prediletto del Santo d’Israele.
Midraš: genere letterario di argomento omiletico e morale.
Mišnah: «ripetizione». Indica la raccolta di norme giuridiche della tradizione giudaica
postbiblica.

Il messianismo di ˇ Sabbetay Zevi in G. Scholem
223
Mitzvot: precetti halachici del fare e del non fare, che avvolgono la quotidianità
dell’ebreo praticante in vista dell’obiettivo messianico.
Notariqon: metodo di interpretazione che considera ogni lettera di una parola
come inizio di un altro termine.
Parzuf: «sembiante». Termine della qabbalah luriana con cui si indicano le nuove
strutture necessarie alla restaurazione dell’ordine cosmico dopo la “rottura
dei vasi”.
Qabbalah: «tradizione, ricezione». Il termine designa le dottrine esoteriche e mistiche
dell’ebraismo, in particolare quelle influenzate dal neoplatonismo, diffusesi
a partire dal sec. XII ed esposte in una ricchissima letteratura, il cui
testo fondamentale è lo Zohar composto in Spagna nel sec. XIII.
Qelippah: «buccia, guscio». Indica il principio del male che ha la forza di offuscare
quello del bene.
ˇSabbat: giorno solenne dedicato al riposo e allo studio della Torah.
ˇSavu’ot: «Pentecoste». Festa delle settimane in ricordo della promulgazione del decalogo.
Sefirah (pl. Sefirot). Termine cabbalistico utilizzato per designare ciascuno dei dieci
stadi di manifestazione dell’energia divina nel cosmo nei suoi vari attributi.
Sˇ ekinah: termine che indica la presenza della divinità nel cosmo. Sul piano religioso
la ˇ Sekinah rappresenta l’assemblea d’Israele legata al Signore da uno strettissimo
vincolo d’amore. Poiché la dimora terrena della ˇ Sekinah era nel
tempio di Gerusalemme, dopo la distruzione del santuario essa condivide
le sofferenze e l’esilio d’Israele.
ˇSevirath hakelim: «rottura dei vasi». Dottrina della cabbala luriana con cui si spiega
l’origine del mondo e l’imperfezione presente in esso.
ˇSofar: corno d’ariete che si suonava per la festa del Nuovo Anno e alla fine del
Giorno dell’Espiazione.
Sukkot: festa delle capanne, così detta perché è prescritto trascorrerla, almeno in parte,
nella sukkah, cioè in una stanza provvisoria, costruita in luogo scoperto.
Talmud: «studio». Il Talmud ha come oggetto di studio la Mišnah e la Ghemarah,
le due opere base che compongono la Torah orale, commentate dai maestri
che operarono in Palestina e in Babilonia tra il III e il IV sec. d.C. È una
raccolta di norme, leggi giuridiche, dialoghi, che ha acquistato la forma attuale
attraverso successive elaborazioni.
Theiru: lo «spazio vuoto» che l’En-Sof ha prodotto al centro di se stesso ritraendo
la sua sostanza di luce. Esso diventa la scena su cui si recita il dramma della
creazione, della caduta e della restaurazione.
Tiqqun: termine chiave della cabbala luriana con cui viene indicata la redenzione,
intesa come una ricomposizione del cosmo e della divinità stessa.
Tohu: «Caos». Sinonimo anche di imperfezione.
Toldot: «Parto». Espressione usata per indicare la nascita del mondo nuovo, cioè il
mutamento introdotto nella storia con l’arrivo del Messia.

224
ENRICO BECCIU
Torah: «Insegnamento, Legge». Il termine è impiegato per indicare l’intera Scrittura
ebraica. Più propriamente questa parola designa i cinque libri del Pentateuco
(Genesi, Esodo, Numeri, Levitico, Deuteronomio), contenenti la Legge
mosaica, l’insegnamento per eccellenza.
Yešivah: comunità ebraica alla cui guida vi è il rabbino e dove, tra gli altri compiti,
si studia la Legge.
Yiddiš: lingua degli ebrei aškenaziti. Formatosi nei secoli X-XIII tra Reno e Mosella,
è un dialetto tedesco con apporti ebraici e aramaici, scritto con caratteri
ebraici.
Zaddik: «Giusto». In alcune correnti della mistica ebraica, su di esso si incentra la
comunione degli uomini col Signore grazie alla capacità del “giusto” di redimere
il mondo e la natura.
Zelem: «Immagine». Nello Zohar l’angelo-zelem indica una sorta di archetipo originario
dell’uomo a somiglianza del quale viene creato ogni uomo sulla terra.
Zimzum: «Autocontrarsi della divinità». Nella cabbala luriana con questo termine
è indicato il processo con il quale l’En-Sof si ritira in se stesso, per far posto
ai mondi e dar avvio alla creazione.

Il messianismo di ˇ Sabbetay Zevi in G. Scholem
Bibliografia
Opere di Scholem
La figura di Gershom Scholem rientra ormai di diritto nella storia del pensiero
del secolo XX ed è tuttora oggetto di una ricca riflessione critica e storiografica. Le
notizie più complete sull’ampia produzione dello studioso tedesco di origine ebraica
nel campo della storia della qabbalah si trovano in M. CATANE, Bibliography of the
Writings of Gershom G. Scholem Presented to G.G. Scholem on the Occasion of his Eightieth
Birthday, Jerusalem 1977 e D. BIALE, Gershom Scholem. Kabbalah and Counter-History,
Harvard University Press, Cambridge, Mass./London 1979.
Principali opere di Scholem tradotte in italiano:
225
Ursprung und Anfänge der Kabbala, Walter de Gruyter & C., Berlin 1962, tr. it. di
A. SEGRE, Le origini della Kabbalah, Il Mulino, Bologna 1973.
Walter Benjamin und sein Engel, (1972), Walter Benjamin, (1965), Suhrkamp,
Frankfurt am Main 1972, tr. it. di M.T. MANDALARI, Walter Benjamin e il
suo angelo, Adelphi, Milano 1978.
Zur Kabbala und ihrer Symbolik, Rhein-Verlag, Zürich 1960, tr. it. di A. SOLMI,
La Kabbalah e il suo simbolismo, Einaudi, Torino 1980.
Über einige Grundbegriffe des Judentums, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1970, tr.
it. di M. BERTAGGIA, Concetti fondamentali dell’ebraismo, Marietti, Genova
1986.
Die jüdische Mystik in ihrer Hauptströmungen, Suhrkamp, Frankfurt am Main
1980, tr. it. di G. RUSSO, Le grandi correnti della mistica ebraica, Il melangolo,
Genova 1986.
Vom Berlin nach Jerusalem, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1977, tr. it. di A.M.
MARIETTI, Da Berlino a Gerusalemme. Ricordi giovanili, Einaudi, Torino
1988.
Walter Benjamin – die Geschichte einer Freundschaf, Suhrkamp, Frankfurt am
Main 1975, tr. it. e note di E. CASTELLANI e C.A. BONADIES, Walter Benjamin.
Storia di un’amicizia, Adelphi, Milano 1992.
ˇSabbetay Zevi we-ha-tenu‘ah ha šabbeta’ it bi-yme chayyaw (tit. dell’ed. inglese ampliata
Sabbatai Zevi. The Mistical Messiah. 1626-1676), Suhrkamp, Frankfurt
am Main 1957, tr. it. di C. RANCHETTI, intr. di M. RANCHETTI, S ˇ Sabbetay
Zevi. Il Messia Mistico. 1626-1676, Einaudi, Torino 2001.

226
Opere di Scholem disponibili in francese:
ENRICO BECCIU
The Messianic Idea in Judaism and Other Essays on Jewish Spirituality, Schocken,
New York 1971, ed. francese a cura di B. DUPUY, Le messianisme juif. Essais
sur la spiritualité du judaisme, Calmann-Lévy, Paris 1974.
Fidélité et Utopie. Essais sur le judaisme contemporain, vers. francese di M. DEL-
MOTTE e B. DUPUY, Calmann-Lévy, Paris 1978.
Du frankisme au jacobinisme, vers. francese di N. DEUTSCH, S. MOSÈS e J. BOL-
LACK, Gallimard/Seuil, Paris 1981.
Studi critici:
R. ALTER, Necessary Angels. Tradition and Modernity in Kafka, Benjamin and Scholem,
Harvard University Press, Cambridge, Mass. 1991.
H. ARENDT, Ebraismo e modernità, tr. it. di G. BETTINI, Unicopli, Milano 1986.
S.E. ASCHHEIM, G. Scholem, H. Arendt, V. Klemperer. Tre ebrei tedeschi negli anni
bui, tr. it. di R. VOLPONI, La Giuntina, Firenze 2001.
M. CAVAROCCHI ARBIB, Voci del Novecento. Gershom G. Scholem, in “Bailamme”,
Milano 1993.
J. DAN, Gershom Scholem and the Mystical Dimension of Jewish History, New York-
London 1987.
E. FUBINI, G. Scholem: un’alternativa all’esilio , in AA.VV., Ritratti dell’altro. Figure
di ebrei in esilio nella cultura occidentale, a cura di M. Sechi, La Giuntina,
Firenze 1997, pp. 155-171.
S.A. HANDELMAN, Fragments of Redemption. Jewish Thought and literary Theory in
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MARTA CHESSA
NICHILISMO E UNIVERSO TECNOLOGICO
IN GIANNI VATTIMO
SOMMARIO: 1. Immagini della tecnica. – 2. Il nichilismo positivo di Gianni Vattimo.
– 3. Nichilismo positivo e tecnica. – 4. L’uomo nel mondo del Ge-stell
informatico: la saggezza dell’oltreuomo (Übermensch). – 5. Conclusione.
1. Immagini della tecnica. – Le prospettive teoriche attraverso le quali
filosofi e intellettuali di diverso orientamento considerano la questione
della tecnica sono numerose. A livello tematico essa è stata
analizzata per lo meno dalla fine del secolo scorso, in diverse fasi e
stagioni intellettuali. In filosofia la spinta maggiore è venuta senza
dubbio dalle posizioni di Heidegger e della scuola di Francoforte a
partire dalle quali si è sviluppato un vivace dibattito che ha una vasta
eco ancora oggi. In questa prospettiva storica e teorica voglio cercare
di collocare la riflessione di Gianni Vattimo per mostrare come,
nei suoi aspetti più originali, essa non si lasci ridurre all’interno delle
più comuni immagini della tecnica.
Da Heidegger a Arendt, dalla scuola di Francoforte a Gehlen e
Habermas il punto in discussione sembra sempre essere il significato
in generale della tecnica. Tali visioni generali hanno spesso portato a
considerare il divenire tecnologico come un tutto compatto privo
delle caratteristiche distintive dei diversi tipi di tecniche. Insistendo
sulla non neutralità e facendo riferimento ad un suo contenuto sostantivo,
esse considerano lo sviluppo tecnologico separatamente dal
divenire storico ed attribuiscono alla tecnica una autonomia all’interno
della quale l’uomo non ha più alcuno spazio decisionale.
All’interno di questo paradigma l’essenza della tecnica si riduce al
dominio della natura e dell’uomo, divenuti del tutto oggetti, riserve
di materiale da cui poter sempre attingere. Da questo punto di vista

230
MARTA CHESSA
gli strumenti tecnici non sono altro che puri mezzi che si sono svincolati
dalle finalità di chi li ha fabbricati per ottenere una autonomia
e una finalità proprie. La tecnica come spesso si ripete è la serva diventata
padrona, il mezzo che si trasforma in fine.
Quel che in questo modo si individua è la ratio della tecnica, un
fondamento che, in ultimo, si riduce nella ragione forte capitalistica
in grado di indirizzare l’uomo e la natura verso fini prestabiliti. L’essenza
della tecnica risulta così definita secondo un modello deterministico,
ovvero il modello del progresso occidentale, che ha fatto delle
società industrializzate il sistema politico-razionale migliore.
Nella letteratura contemporanea sul tema incomincia a porsi il
problema oltre che di proporre una indagine sistematica che metta
ordine tra le diverse immagini filosofiche della tecnica, anche quello
di confrontare, mediante specifiche chiavi di lettura, i paradigmi filosofici
e le fonti letterarie sulla questione, e contemporaneamente
di indagare all’interno del vasto campo delle scienze umane. Un
esempio recente in questo senso viene dal volume di Michela Nacci,
Pensare la tecnica, che propone un panorama molto articolato nel
quale la tendenza a considerare la tecnica sotto un unico paradigma
è oggetto di una analisi e di una critica approfondite.
Ne emergono interessanti distinzioni e classificazioni per chi voglia
orientarsi entro la fitta trama ormai secolare di posizioni e discussioni
filosofiche, letterarie e sociologiche del secolo scorso. Se
infatti generalmente la riflessione novecentesca è accomunata dal
fatto di considerare la tecnica sotto l’unico paradigma del concetto
moderno di dominio, mettendo tra parentesi le differenze tra i diversi
tipi di tecniche, oggi, specialmente grazie all’apporto teorico
fornito dagli studi di matrice sociologica e antropologica, e alle possibilità
storiche offerte dalle nuove tecnologie della comunicazione,
si apre la possibilità di una svolta teorica di notevole interesse che
sposta e modifica i confini del dibattito filosofico.
Un altro caso, per citare un esempio di diversa estrazione culturale,
si può individuare nella posizione dello studioso americano Andrew
Feenberg. Nelle sue analisi egli cerca di tenere conto sia del
tradizionale atteggiamento filosofico nei confronti della tecnica sia
dei nuovi studi nell’area del costruttivismo e della sociologia sostenendo
che non si deve necessariamente scegliere tra la ragione forte
e universale, che appartiene a quella che egli definisce l’immagine essenzialista
della tecnica, e una razionalità “debole” o “locale”, che appartiene
alla sua immagine antropologica e costruttivista, poiché entrambe
fanno ugualmente parte del reale funzionamento della tecnica.
La tecnica infatti, secondo lo studioso americano, si regge ne-

Nichilismo e universo tecnologico in Gianni Vattimo
cessariamente sulla sua integrazione con l’ambiente naturale e sociale,
all’interno del quale lo strumento può riappropriarsi di alcune
delle dimensioni perse nel momento in cui l’oggetto viene privato
del proprio mondo per essere forgiato e reso disponibile all’uso tecnico
( 1 ).
Intrecciando alcuni elementi ed appoggiandomi ad alcuni risultati
di queste indagini vorrei indicare i tratti fondamentali delle scene
intellettuali in cui prendono campo i dibattiti di fine secolo della
“filosofia della tecnica”.
La prima importante distinzione che si può individuare è tra
l’immagine fornita dalle posizioni tecnofobiche e quella fornita dalle
posizioni filotecniche: dalle prime la tecnica viene condannata in
quanto potenza che domina e sfrutta la natura attraverso uno sviluppo
che, tendendo a divenire autonomo, riduce l’uomo a semplice
mezzo nella spirale mezzi-fini; dalla seconda essa viene esaltata in
quanto forza magica e sovraumana in grado di superare qualsiasi limite
in un divenire in cui il nuovo è sempre il migliore.
Sulla base di questa fondamentale polarizzazione di atteggiamenti,
che costituisce lo sfondo valutativo sulla questione della tecnica a
partire dal quale le altre immagini si articolano, si possono distinguere
diversi ulteriori punti di vista: la posizione ontologica, la posizione
determinista, la posizione costruttivista e la posizione postmoderna.
L’interesse che spinge coloro che sostengono il punto di vista ontologico,
per il quale l’essenza della tecnica non è qualcosa di tecnico,
è un interesse puramente speculativo: la tecnica non viene analizzata
da un punto di vista descrittivo ed empirico ma per ciò che significa
all’interno di una prospettiva generale, come quella della storia
dell’essere, della verità, del pensiero. Questa è la posizione caratteristica
di molti filosofi del novecento: di Heidegger, per il quale la
tecnica non è altro che il nostro destino, una tappa all’interno della
storia dell’essere, che l’uomo può soltanto attendere; di chi assimila
la tecnica al nichilismo e alla modernità (come d’altra parte anche
( 1 ) Accanto infatti alla fase descritta dall’approccio essenzialista – quella che
Feenberg definisce la strumentalizzazione primaria – vi è un altro livello di strumentalizzazione
– la strumentalizzazione secondaria –, sul quale insistono maggiormente
i costruttivisti, che consiste in nel reinserimento dell’oggetto all’interno
del tessuto sociale. A. FEENBERG, From Essentialism to Constructivism: Philosophy of
Tecnology at the Crossroads, in E. Higgs, D. Strong, and A. Light eds, Technology
and Good Life, University of Chicago Press, 2000. A. FEENBERG, Marcuse or Habermas:
Two Critiques of Tecnology, «Inquiry» 39, 1996, pp. 45-70.
231

232
MARTA CHESSA
Heidegger) come Jünger, Anders, Arendt, Jonas; e di chi, come
Horkheimer e Adorno, ritiene che la tecnica rappresenti il dominio
della ragione illuministica sulla natura, sulla società e su ciò che
l’uomo è autenticamente ( 2 ).
Un altro genere di schieramenti teorici è costituito da coloro che
invece interpretano l’evoluzione tecnologica in senso deterministico,
per i quali il progresso tecnico è regolato al suo interno da una razionalità
forte che determina in modo rettilineo ogni suo futuro sviluppo.
Essi si dividono tra chi rappresenta la tecnica come salvezza e chi
la rappresenta come pericolo. Al primo gruppo appartengono tutte
le grandi utopie di matrice scientista che hanno come prototipo La
Nuova Atlantide di Bacone; mentre al secondo gruppo appartengono
tutte quelle correnti filosofiche e letterarie che danno espressione
alle paure legate all’uso politico degli sviluppi tecnologici, che hanno
come referente le distopie novecentesche, come 1984 di Gorge
Orwell o Farnheit di Ray Bradbury, e che oggi si trovano ben rappresentate
nel vasto fenomeno del Cyberpunk ( 3 ).
Al contrario, per la posizione costruttivista ogni oggetto tecnico,
ogni innovazione è il frutto di una contrattazione sociale sempre variabile
e differenziata, contrattazione che risponde esclusivamente
agli interessi e alle esigenze dei gruppi coinvolti. La tecnica dunque
non è sottomessa ad un ordine speculativo superiore che determina
la sua bontà o la sua cattiveria ma ad un ordine mutevole e contingente
per il quale la scelta migliore è sempre quella che di volta in
volta viene storicamente adottata. È questa ad esempio la posizione
di Bruno Latour per il quale la tecnica è una prassi sociale, un insieme
di saperi e di culture che non può essere reso autonomo dagli altri
ambiti del pensiero e dell’agire umano, tanto che secondo l’autore
è impossibile distinguere esattamente il confine tra la sfera di ciò
che è tecnico e la sfera di ciò che è sociale ( 4 ).
Come attestano le analisi della Nacci un posto particolare all’interno
di questo panorama occupa il cosiddetto postmoderno. Per il
postmoderno la forza della razionalità tecnico-scientifica si è espressa,
nelle società tardoindustriali, in un totale esautoramento del soggetto
moderno, spostato dal centro alla periferia dell’universo, e del
principio di realtà, ridotto ermeneuticamente allo scontro tra le diverse
razionalità locali. Rispetto alle altre analisi sulla tecnica la ca-
( 2 ) Cfr., M. NACCI, Pensare la tecnica, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 25-159.
( 3 ) Ivi, pp. 170-176.
( 4 ) Ivi, pp. 201-207.

Nichilismo e universo tecnologico in Gianni Vattimo
ratteristica distintiva della riflessione dei due suoi più autorevoli
esponenti, Jean-François Lyotard e Gianni Vattimo, è che la derealizzazione
del reale e la frantumazione del soggetto da essi non viene
vissuta come una perdita da colmare con una razionalità ancora più
forte di quella tecnologica ma come una possibilità di liberazione offerta
dallo stesso mondo tardoindustriale e dalle tecnologie della comunicazione
che lo contraddistinguono ( 5 ).
2. Il nichilismo positivo di Gianni Vattimo. – Vattimo si colloca tra
coloro che hanno dato una connotazione positiva alla crisi del pensiero
e della conoscenza della verità nell’epoca del nichilismo completamente
dispiegato. Infatti, attraverso il recupero dell’analisi
nietzscheana per la quale il nichilismo è quella situazione in cui l’uomo
scivola dalle garanzie e dalle sicurezze verso una condizione di
radicale indeterminatezza per cui non ci sono fatti ma solo interpretazioni,
e attraverso il recupero della nozione heideggeriana di Ereignis
per la quale l’essere non è fondamento ma evento, egli propone
un nichilismo “positivo” che, non essendo espressione di un malessere
sociale che deve essere superato, può rappresentare una opportunità
destinale ed epocale che la storia fornisce all’uomo. Il riconoscimento
dell’assenza di fondamenti come elemento costitutivo della
condizione umana e della realtà tutta non porta Vattimo né ad un
nichilismo «risentito e nostalgico» che intende promuovere un ritorno
alle garanzie e alle sicurezze della metafisica, né a un nichilismo
«forte» (da lui definito imperfetto perché ancora troppo metafisico)
che sostituisce la volontà creatrice di Dio con la volontà creatrice
dell’uomo, ma al nichilismo come «nostra unica chance», fonte della
condizione «alleggerita» in cui ci troviamo ( 6 ). Per questo Vattimo
ama ripetere che «oggi non siamo a disagio perché siamo troppo nichilisti,
ma piuttosto perché non sappiamo vivere fino in fondo
l’esperienza della dissoluzione dell’essere» ( 7 ).
Secondo Vattimo dunque bisogna incominciare a considerare il
nichilismo non solo nel suo aspetto deiettivo come perdita ma anche,
e soprattutto, nel suo aspetto positivo, come possibilità storica e
capacità individuale di vivere nelle «mezze verità» e nella mezza luce,
( 5 ) Ivi, pp. 184-189.
( 6 ) Sul nichilismo come opportunità, chance, di emancipazione si veda G. VAT-
TIMO, La fine della modernità, Garzanti, Milano 1985.
( 7 ) G. VATTIMO, Filosofia al presente, Garzanti, Milano 1990, p. 26.
233

234
MARTA CHESSA
ovvero in un mondo sempre più libero dalle strutture violente della
metafisica, dove la favola ha preso il posto della verità.
«Il nulla al quale il nichilismo si richiama […] ha assunto altre caratteristiche
ed altro spessore: certo ancora legati, in qualche modo, a quel significato
originariamente negativo, ma subendo una trasformazione che ne ha fatto
una parola chiave della nostra cultura, una sorta di destino del quale
non possiamo liberarci senza privarci anche di aspetti importanti della nostra
spiritualità» ( 8 ).
Per questo egli ritiene che non si debbano rimpiangere le sicurezze
del passato, ormai trasformatesi in vecchie rovine, ma si debba
cercare di albergare in esse, di viverle come chance di liberazione dalle
strutture violente dell’essere inteso come presenza, potenza e dominio.
Una volta che l’essere sia stato riconosciuto nella sua natura
frammentata, sospesa ed oscillante, infatti, le rovine del senso si possono
manifestare come possibilità ancora inesplorate, disponibili e
sempre aperte ad un soggetto che ha perso lo status di persona a favore
di una maggiore libertà.
Se dunque il nichilismo non si dà più, o comunque esclusivamente,
come perdita ma come possibilità allora anche la tecnica, che
nelle sue valutazioni negative faceva riferimento proprio agli aspetti
disumanizzanti del nichilismo, può e anzi, a parere di Vattimo, deve
essere rivalutata.
3. Nichilismo positivo e tecnica. – Il percorso storico e teorico che
porta Vattimo alla formulazione del nichilismo positivo influenza
anche la riflessione sulla tecnica. All’interno della riflessione di Vattimo,
infatti, la tecnica sembra avere due accezioni distinte che si accompagnano
a due diverse fasi del suo percorso filosofico: da un lato
quella dialetticamente negativa, e più vicina a Heidegger, che mette
in evidenza la capacità di ridurre l’uomo e l’essere ad una povertà
tale da obbligare ad un loro ripensamento, e dall’altra una accezione
positiva, ermeneuticamente liberatrice, per la quale l’uomo non subisce
o attende semplicemente le trasformazioni operate dalla tecnica
ma per la quale egli può divenire all’interno di esse protagonista
attivo. D’altra parte l’intera speculazione del filosofo si può considerare
sotto il profilo di un passaggio da una ontologia “estetico-ermeneutica”
– più vicina a tematiche francofortesi fortemente critiche
( 8 ) G. VATTIMO, Le mezze verità, La Stampa, Torino 1988, p. 9.

Nichilismo e universo tecnologico in Gianni Vattimo
nei confronti della modernità –, che caratterizza in particolar modo
le opere degli anni ’60 e ’70, Essere, storia e linguaggio (1963), Poesia
e ontologia (1967), Ipotesi su Nietzsche (1967) e Il soggetto e la maschera
(1974), a una ontologia “etico-ermeneutica” che, pur avendo
le proprie radici teoriche proprio nei testi degli anni ’60 e ’70, subisce
una svolta rilevante, soprattutto dagli anni ’80, a contatto con il
dibattito sul nichilismo e sul postmoderno. In Al di là del soggetto
(1981) così come ne Il pensiero debole (1983) e ne La fine della modernità
(1985), infatti – sebbene ancora con una qualche ambiguità
di fondo che concerne prevalentemente l’ambito estetico, ancora diviso
tra riscatto “rivoluzionario” e appartenenza storica – non sembrano
poter trovare spazio tematiche di matrice francofortese che caratterizzavano
un’opera, in qualche modo di passaggio, come Le avventure
della differenza (1980), in cui accanto a Nietzsche e a Heidegger
Vattimo faceva riferimento ancora ad autori come Marx e
Sartre. Negli anni ’80 e in modo più chiaro ed esplicito tra gli anni
’80 e gli anni ’90, il filosofo rimuove ogni visione residua di un destino
storico come disalienazione e recupero di una essenza originaria
individuando una forma di saggezza, quella dell’uomo di buon
carattere di cui parlava Nietzsche, che si esprime nella capacità di saper
vivere all’interno delle «mezze verità» e delle fabulizzazioni, senza
avere più rimpianti per l’uomo pienamente riconciliato e perfettamente
autocosciente della tradizione metafisica.
Queste tematiche, che individuano specificatamente il nichilismo
positivo di Gianni Vattimo, confluiscono in questo stesso periodo
all’interno dell’analisi del mondo tardoindustriale, che caratterizza
invece l’ultima produzione del filosofo e che segna un distacco più
marcato dalle opere degli anni ’60 e ’70. In quelle opere infatti la
possibilità di un riscatto estetico dell’esistenza era giustificato sulla
base di una considerazione dialetticamente negativa del mondo della
tecnica, espressione dell’irreparabile deiezione dei nostri tempi. Con
il passaggio dal Ge-stell meccanico al Ge-stell informatico invece la
vicinanza alle posizioni di Heidegger e di Adorno diminuisce a favore
di una maggiore attenzione agli elementi ermeneuticamente
emancipativi del mondo tardoindustriale ( 9 ). Nel mondo del Ge-stell
( 9 ) Il passaggio dal Ge-stell meccanico al Ge-stell informatico si riflette anche
all’interno della riflessione sull’arte. L’arte infatti sembra avere all’interno della
speculazione di Vattimo due funzioni distinte e in forte tensione tra di loro: da un
lato la funzione di rottura rispetto a tutto ciò che è banale e consueto, essendo
l’arte apertura di nuovi mondi, e dunque in un senso più vicino a L’origine dell’opera
d’arte di Heidegger, e dall’altro la funzione, come Vattimo afferma ne La
235

236
MARTA CHESSA
informatico infatti l’uomo non ha più bisogno di attendere la propria
promesse de bonheur ma piuttosto deve mettere in evidenza la situazione
di estrema conflittualità e allo stesso tempo di straordinaria
ricchezza insita nel mondo in cui vive al di là di qualsiasi tentativo
di omologazione operato dalle forze metafisiche che ancora continuano
a farsi sentire al suo interno. La possibilità di riscatto dunque,
dal punto di vista del nichilismo positivo di Vattimo, non riguarda
un futuro finalmente riconciliato e riconciliante ma il presente, perché
il nostro è già il mondo della pluralità liberata e dell’essere-evento.
Il fatto che l’essere si dia pubblicamente, ovvero attraverso la trasmissione-interpretazione
di messaggi infatti, secondo Vattimo, trova
una espressione emblematica nella società contemporanea. Oggi
assistiamo ad una identificazione tra evento e notizia tale che non si
può più parlare di una realtà: la realtà è quella che possiamo costruire
e ricostruire ermenuticamente attraverso le immagini e le informazioni
che i media distribuiscono. I mass-media hanno reso la società
molto meno illuminata e trasparente e sempre più complessa e
caotica; i giornali e le radio prima e la tv e i computer dopo hanno
moltiplicato i punti di vista sul mondo tanto che, come Vattimo
scrive ne La società trasparente, «non solo nei confronti con altri universi
culturali […], ma anche al proprio interno l’occidente vive una
situazione esplosiva, una pluralizzazione che appare irresistibile, e
che rende impossibile concepire il mondo e la storia secondo punti
di vista unitari» ( 10 ). La generalizzazione dell’informazione non produce
solo o fondamentalmente, come Adorno e Heidegger volevano,
l’omologazione di tutte le prospettive ma piuttosto una moltiplicazione
dei centri di informazione, o per utilizzare una espressione di
Vattimo, delle «agenzie interpretative». Nella società della comunicazione
di massa in cui è caduta l’idea che il mondo fosse retto e
unificato da un unico centro impersonale (la Chiesa, lo Stato) si
sono potuti liberare i «conflitti di interpretazione» e hanno potuto
prendere voce le diverse culture locali, che costituiscono la vera ric-
fine della modernità, «di intensificare l’appartenenza di ciascuno di noi ad un mondo
storico», e dunque in un senso più vicino all’estetica gadameriana. Sebbene queste
due affermazioni antinomiche siano contenute all’interno dello stesso testo mi sembra
che la seconda funzione dell’arte possa essere considerata una possibile linea evolutiva
del pensiero di Vattimo che riesce a superare il polarismo de La fine della modernità
e che va di pari passo con la valutazione positiva del mondo del Ge-stell informatico.
Cfr. G. VATTIMO, La società trasparente3 , Garzanti, Milano 2000.
( 10 ) G. VATTIMO, La società trasparente, Garzanti, Milano 1989, p. 13.

Nichilismo e universo tecnologico in Gianni Vattimo
chezza e il vero essere del nostro mondo, lasciando alla capacità del
singolo l’onere di unificare e ordinare la realtà.
237
«Oggi la generalizzazione della comunicazione ha anche promosso e resi
espliciti i “conflitti di interpretazione”, non solo come conflitto tra mondi
culturale diversi […], ma anche come emergere di culture “locali”, di subculture,
etnie e “dialetti”, all’interno della cultura occidentale. L’industria
culturale ha bisogno di dare parola a tutte questa culture “locali” e alle subculture;
e a ciascuna […] con un sostanziale rispetto delle sue differenze e
peculiarità, giacché altrimenti non sarebbero una merce interessante, vendibile,
nuova» ( 11 ).
D’altra parte Vattimo negli ultimi anni rileva che il mondo tecnologico
tardoindustriale non è caratterizzato dal modello del motore
centrale, tipico dell’industria meccanica, ma dal modello della rete,
tipico dell’industria informatica. È infatti all’idea di un centro che
dirige ogni movimento della periferia che sono state mosse le accuse
più dure da autori come Heidegger e Adorno ( 12 ).
Tuttavia secondo Vattimo, Heidegger più di Adorno, il quale giudica
la società centralizzata industriale alla stregua della società totalitaria
nazista, ha intuito le possibilità emancipative della tecnica: nel
saggio L’epoca dell’immagine del mondo, contenuto in Sentieri interrotti,
infatti «egli prefigura il significato “esplosivo” di una scienza-tecnica
che, nel complicarsi e moltiplicarsi delle sue rappresentazioni specialistiche
di diversi settori e piani del reale, rende progressivamente
impossibile qualunque immagine centrale del mondo» ( 13 ).
Per Vattimo è dunque necessario recuperare alcuni elementi della
riflessione heideggeriana andando però oltre quelli che si sono dimostrati
essere i suoi effettivi esiti. Scrive infatti Heidegger ne L’epoca
dell’immagine del mondo: «Poiché questa posizione [che rende
l’uomo regola] si garantisce, si articola e si esprime come visione del
mondo, il rapportamento moderno all’ente, al momento del suo sviluppo
decisivo, prende forma di un confronto di visioni del mondo
( 11 ) Ivi, p. 23.
( 12 ) Cfr. G. VATTIMO, È una rete senza centro ma che ci dà un premio: la libertà, in
«Telema», 8, primavera 1997. Http://www.fub.it/telema/TELEMA8/Vattimo8.htlm.
Similmente in un articolo intitolato “Etica della comunicazione o etica dell’interpretazione”,
apparso in «aut-aut», 225, 1988, pp. 1-10, Vattimo afferma che Heidegger
«in alcuni momenti della sua opera ha lasciato intravedere [...] la possibilità
che proprio nei tratti nichililistici della modernità si annunci un pensiero non più
metafisico» (p. 8).
( 13 ) G. VATTIMO, Presentazione, in Michela Nacci, Pensare la tecnica, cit., p. XI.

238
MARTA CHESSA
[…]. Con questa lotta fra visioni del mondo, il Mondo Moderno
entra nel momento decisivo e presumibilmente più durevole della
sua storia» ( 14 ). È solo se non si guarda oltre, cercando le possibilità
che la tecnica nasconde al suo interno, ovvero che l’essere si dissolva
nelle molteplici visioni del mondo e che l’uomo non sia più soggetto,
che essa non può che ridursi a pericolo che deve essere superato.
Se invece si prende sul serio ciò che Heidegger sostiene più volte in
Identità e differenza, allora si potrà veramente vedere nella tecnica
un nuovo modo di darsi dell’essere. Heidegger afferma chiaramente
che considerare la tecnica come qualcosa che appartiene solo all’uomo
significa trascurare l’appello dell’essere che si dà all’interno di
essa e che «un primo, incalzante balenare dell’Ereignis lo scorgiamo
nell’im-posizione [Ge-stell]». Infatti, «L’Ereignis è l’ambito – ambito
dotato di oscillazioni sue proprie – attraverso il quale uomo ed essere
si raggiungono a vicenda nella loro essenza, ottengono ciò che per
loro è essenziale e perdono, intanto, quelle determinazioni che la
metafisica ha loro conferito» ( 15 ).
Guardare dentro la modernità significa perciò aprire la possibilità
che essere e uomo perdano le loro tradizionali caratteristiche. La visione
demoniaca della tecnica infatti, a parere di Vattimo, ha la sua
radice proprio nella resistenza ad abbandonare il soggetto forte e stabile
della metafisica e nella conseguente incapacità di sfruttare le opportunità
fornite da quel progressivo confluire del reale nel virtuale
che caratterizza l’epoca in cui viviamo. Scrive Vattimo: «i pensatori
che hanno demonizzato la tecnica […] si sono per lo più richiamati
alla tradizione metafisica, e all’idea di umanità da essa tramandata,
come se si trattasse di un patrimonio indiscutibile» ( 16 ). Una volta
invece che si sia riconosciuto, senza blocchi o tabù di sorta, che l’essere
non è più sostanza ma evento che diviene attraverso le diverse
aperture epocali e che l’uomo non è più soggetto ma continuo poter
essere, allora non ci sarà più bisogno di fuggire la tecnica ma la si
potrà vedere come la condizione storica e ontologica di un nuovo
mondo di esistere.
Il limite di Heidegger, che fece sì che egli non riuscisse a portare
avanti le sue stesse intuizioni, fu proprio, sostiene Vattimo, la sua
( 14 ) M. HEIDEGGER, L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri interrotti (pp. 71-
101), trad. it., La Nuova Italia, Firenze 1967, p. 99.
( 15 ) M. HEIDEGGER, Identità e differenza, trad. it., in «aut-aut», 187-188, 1982,
pp. 1-38, p. 14 e p. 13.
( 16 ) G. VATTIMO, Presentazione, in M. NACCI, Pensare la tecnica, cit., p. XIII.

Nichilismo e universo tecnologico in Gianni Vattimo
incapacità di proporre un modello di uomo alternativo a quello della
tradizione metafisica, un uomo che fosse in grado di vivere e di scegliere
all’interno del mondo in cui abita e non semplicemente in
grado di progettare «vie di fuga».
Una volta abbandonato qualsiasi residuo metafisico la tecnica
può rappresentare dunque un “primo lampeggiare dell’essere-evento”,
può smettere di essere definita attraverso una essenza rigida e
univoca, e può essere finalmente considerata in un senso polivoco,
come le tecniche.
Come non esiste una essenza che definisce rigidamente e univocamente
la realtà così non esiste una essenza che definisce univocamente
e rigidamente la tecnica. L’ontologia nichilistico-ermeneutica
che sta alla base della riflessione filosofica di Vattimo è anche alla
base della riflessione sulla tecnica. La maggior parte delle critiche rivolte
alla tecnica infatti sono state mosse proprio da posizioni essenzialiste.
Se invece ci si rivolge ad una ontologia radicalmente diversa,
ovvero ad una ontologia che ha fatto i conti con il nichilismo e con
la pervasività dell’ermeneutica, per la quale il principio di realtà si è
dissolto nelle molteplici visioni del mondo e nelle diverse razionalità
locali, allora anche la nostra immagine della tecnica potrà essere modificata
dal carattere aperto e oscillante di questo nuovo statuto ontologico.
Le tecniche delle società tardoindustriali contrariamente alla tecnica
meccanica, non forniscono una immagine unitaria del mondo ma
esprimono al massimo livello il consumarsi dell’essere nei diversi linguaggi.
Per questo motivo Vattimo può scrivere che «chi, come il
sottoscritto, ritiene che Heidegger abbia ragione quando, nel saggio
su L’epoca dell’immagine del mondo afferma che l’esito della scienza
tecnica moderna è quello di rendere impossibile una immagine unitaria
del mondo, producendo invece una esplosione di tutte le pretese
di concepirlo in questi termini, non incontra alcuna difficoltà nel
pensare che, se c’è una essenza della tecnica, essa consiste proprio nel
disseminarsi in molteplici tecniche irriducibili ad unità» ( 17 ). Perciò
la nostra non è l’epoca dell’immagine del mondo e della tecnica, come
voleva Heidegger, ma piuttosto l’epoca del moltiplicarsi e del complicarsi
delle immagini del mondo e delle tecniche.
239
«Se si guarda al fondo dell’atteggiamento antimoderno e antitecnico di filosofi
peraltro così diversi fra di loro, come Heidegger e Adorno, si trova
ovunque questa paura: che le ragioni dell’esistenza, ossia il carattere impre-
( 17 ) Ivi, p. XI.

240
MARTA CHESSA
vedibile, rischioso ma soprattutto libero dell’esistere umano siano dissolte
dall’organizzazione razionale della società, la quale ha bisogno di prevedibilità,
coordinazione, in una parola di dominio incontrastato del centro» ( 18 ).
Quando invece il modello centralista e centralizzato del motore
viene sostituito dal modello senza centro ma libero e sempre in fieri
della rete allora, dalla prospettiva di Vattimo, è non solo legittimo
ma anche doveroso che la filosofia cambi atteggiamento nei confronti
della tecnica ( 19 ). Per Heidegger il fatto che la tecnica moderna
si riduca ad una provocazione che utilizza la natura come «fondo»
(Bestand) e che impiega l’uomo come materiale «che lo sappia o no»
ha la sua redice proprio nella riduzione del mondo ad immagine
operata dal soggetto, ovvero nella riduzione della totalità dell’ente a
«semplice presenza, come qualcosa di contrapposto», come qualcosa
di rappresentato ( 20 ). Scrive a questo proposito Heidegger:
«Immagine del mondo, in senso essenziale, si significa non una raffigurazione
del mondo, ma il mondo concepito come immagine. L’ente nel suo
insieme è perciò visto in modo tale che diviene tale solo in quanto è posto
dall’uomo che rappresenta e produce (her-stellen). Il sorgere di qualcosa
come l’immagine del mondo fa tutt’uno con una decisione essenziale intorno
all’ente nel suo insieme. L’essere dell’ente è cercato e rintracciato
nell’essere-rappresentato dell’ente» ( 21 ).
Oggi invece, sostiene Vattimo, «quello che di fatto è accaduto
[…], nonostante ogni sforzo dei monopoli delle grandi centrali capitalistiche,
è stato piuttosto che radio, televisione, giornali sono diventati
elementi di una generale esplosione e moltiplicazione di Weltanschauungen,
di visioni del mondo» ( 22 ).
Nel Ge-stell informatico si vanno consumando gli aspetti deiettivi
e disumanizzanti della tecnica a favore di un recupero della libertà
umana così come Heidegger l’aveva intesa ne La questione della tecni-
( 18 ) G. VATTIMO, È una rete senza …, «Telema», 8, 1997, cit.
( 19 ) Secondo Heidegger dunque l’essenza, «il disvelamento che vige nella tecnica
moderna è una pro-vocazione (Herausforden) la quale pretende dalla natura che
essa fornisca energia che possa come tale essere estratta (herausgefördet) e accumulata»
(p. 11). M. HEIDEGGER, La questione della tecnica (pp. 5-27), in Saggi e discorsi,
trad. it., Mursia, Milano 1976, cit.
( 20 ) Cfr., M. HEIDEGGER, La questione della tecnica, trad. it., cit., pp. 12-13, e
M. HEIDEGGER, L’epoca dell’immagine del mondo, trad. it., cit., pp. 92-93.
( 21 ) M. HEIDEGGER, L’epoca dell’immagine del mondo, trad. it., cit., pp. 87-88.
( 22 ) G. VATTIMO, La società trasparente, cit., p. 12.

Nichilismo e universo tecnologico in Gianni Vattimo
ca: nel mondo della rete informatica l’uomo può sentirsi finalmente
appellato e riconoscere nella pro-vocazione ermeneutica dei mezzi di
comunicazione una domanda di unità e di senso a cui soltanto lui
può dare una risposta. Scrive infatti Heidegger ne La questione della
tecnica a proposito del fare del Ge-stell: «l’uomo si conforma in
modo così decisivo alla provocazione che non la percepisce come un
appello, non si accorge di essere lui stesso l’appellato e quindi si lascia
sfuggire tutti i modi secondo i quali egli esiste nell’ambito di un
appellare, per cui non può mai incontrare soltanto se stesso» ( 23 ).
Se dunque Heidegger poteva parlare solo di una provocazione
manipolante e provocante che riduce l’uomo a semplice e inconsapevole
mezzo all’interno della catena teleologica, Vattimo può parlare
anche di una provocazione radicalmente diversa, una provocazione
ermeneutica appunto, che rende l’uomo protagonista attivo all’interno
della rete delle informazioni ( 24 ). Nella catena teleologica
informatica infatti rispetto alla catena teleologica meccanica, la curva
che va dal soggetto all’oggetto – per utilizzare una terminologia
simmeliana – una volta compreso in sé il risultato torna nuovamente
al soggetto, senza dissolverlo all’interno della spirale mezzo-fine ma
anzi creando la possibilità di istituire un circolo virtuoso tra uomo e
tecnica.
Come ogni verità nasce da e ritorna all’ethos così anche la tecnica
– specialmente la tecnica tardoindustriale – ha ben precise radici ermeneutiche.
Abbandonata la tentazione di considerare la tecnica
come una realtà a se stante ci si potrà avvicinare ad essa come ad un
fenomeno complesso, come ad una impresa umana in cui i fattori da
prendere in considerazione sono molteplici e diversi, primo fra tutti
l’accordo tra le parti sociali: il successo o l’insuccesso di una tecnica
è dato dal suo grado di persuasione sociale. Secondo Vattimo infatti
le tecnologie non sono scelte né in base alla loro razionalità né esclu-
( 23 ) M. HEIDEGGER, La questione della tecnica, trad. it., cit., p. 21.
( 24 ) Dal punto di vista etico, sostiene Vattimo, tutto questo comporta una maggiore
propensione al dialogo rispetto all’omologazione forzata: un comportamento,
infatti, è morale se può essere esteso pubblicamente attraverso discussioni e argomentazioni
persuasive. La virtù dunque, come voleva Aristotele, è situata all’interno
di un ethos, e il virtuoso, di conseguenza, è colui che è giudicato tale dalla comunità.
La concretezza diviene in questo modo «l’unica fondazione possibile per un’etica»: è
infatti nella concretezza che quotidianamente “misuriamo” la nostra libertà e la nostra
capacità di deliberare bene. Cfr., G. VATTIMO, Individuo e istituzioni: una proposta
ermeneutica, in La dimensione etica nelle società contemporanee, Edizioni della fondazione
Giovanni Agnelli, Torino 1990, pp. 81-112; G. VATTIMO, Etica della comunicazione
o etica dell’interpretazione?, in «aut-aut», 225, 1988, pp. 1-10.
241

242
MARTA CHESSA
sivamente in base alla loro utilità o economicità ma anche in base
alla «conformità a forme di vita».
4. L’uomo nel mondo del Ge-stell informatico: la saggezza dell’oltreuomo
(Übermensch). – Nel mondo attuale inoltre si possono considerare
effettivamente realizzate le profezie di Nietzsche: il «mondo
vero è diventato favola» e realmente non ci sono più fatti (eventi)
ma solo interpretazioni (notizie). L’uomo è oggi un consumatore di
merci, di visioni del mondo e di interpretazioni, consumato, perché
sempre meno autonomo e riconciliato, e, allo stesso tempo, più alleggerito
e amichevolmente attento alla prossimità, perché più libero
di essere esso stesso agenzia interpretativa all’interno di un mondo
fatto di soggetti “alla pari”.
Di fronte al moltiplicarsi delle interpretazioni e alla progressiva
identificazione fra evento e notizia Vattimo “predica” un uomo in
grado di mantenersi allo stesso livello delle nuove possibilità aperte
dalle trasformazioni tecnologiche, in particolar modo quelle del mondo
della comunicazione di massa, la cui saggezza si misuri nella capacità
di saper scegliere responsabilmente la propria posizione all’interno
del “mondo vero divenuto favola” e della “pluralità liberata”.
«Non solo il mondo cambia con una rapidità ignota ai saggi del passato;
ma del suo cambiamento fa parte integrante l’apertura degli orizzonti della
comunicazione per cui la vita con la sua varietà di forme – costumi, etiche,
modi di vedere la stessa storia – non è più qualcosa di unitario che possa venir
contenuto in una “saggezza”. […] Nel caos non si può che essere interpreti
originali; se no […] si perisce, si cade nella categoria dei falliti» ( 25 ).
Come Vattimo afferma nel suo ultimo libro, Dialogo con Nietzsche
(2000), l’uomo ha oggi bisogno della «saggezza dell’oltreuomo,
del creatore di valori, o, almeno, dell’interprete che ridescrive il
mondo secondo modelli che ha consapevolmente scelto», per riuscire
ad orientarsi all’interno dei molteplici sensi in cui l’essere, oggi, si
manifesta ( 26 ): nella nostra cultura, dominata dai mezzi di comuni-
( 25 ) G. VATTIMO, Dialogo con Nietzsche. Saggi 1961-2000, Garzanti, Milano
2000, p. 187.
( 26 ) Ibidem. In quest’ambito di riflessione Nietzsche riesce a superare i limiti di
Heidegger e a dimostrare tutta la sua attualità. Già in ambito ontologico la possibilità
che l’Ereignis potesse essere interpretato come la struttura della realtà, il suo
nocciolo duro, che in un senso vicino alla metafisica della dialettica hegeliana contiene
già al suo interno le proprie articolazioni future – articolazioni che l’uomo

Nichilismo e universo tecnologico in Gianni Vattimo
cazione e dal moltiplicarsi delle agenzie interpretative, molto più che
in passato, in cui esisteva un unico centro che forniva una visione
unitaria del mondo, abbiamo bisogno del modello dell’oltreuomo
per «sopravivere come persone» ( 27 ).
243
«Ciò di cui Nietzsche parla nelle pagine del Crepuscolo degli idoli [sul mondo
vero che è diventato favola] e nell’appunto dell’estate 1887 [sul fatto che non
abbiamo più bisogno di Dio] va dunque letto alla luce di un processo storico
vasto che ci coinvolge, che non ha solo o prima di tutto tratti teorici, e che
“esige” l’oltreuomo. Chi non riesce a diventare “interprete” autonomo in
questo senso, perisce. Non vive più come una persona, ma solo come un numero,
un’unità statistica del sistema di produzione-consumo» ( 28 ).
È infatti all’interno di una società in continua evoluzione, il cui
vorticoso divenire potrebbe in qualche modo schiacciarci, rendendoci
meri oggetti, che ha senso porsi il problema della scelta, ovvero di
divenire elementi attivi di un movimento i cui meccanismi finirebbero
necessariamente per sfuggire al nostro controllo ( 29 ).
può soltanto attendere – era stata “risolta” da Vattimo attraverso il recupero della
“filosofia del mattino” di Nietzsche, per la quale non ci sono fatti ma solo interpretazioni,
ovvero operando una Verwindung, una contaminazione della filosofia
di Heidegger e della filosofia di Nietzsche che predilige gli aspetti nichilistici ed
ermeneutici del loro pensiero.
( 27 ) L’oltreuomo, dunque, non sembra essere un ideale umano da realizzare in
un futuro finalmente riconciliante ma piuttosto un modello concretamente realizzabile
nella società tardoindustriale in cui oggi ci troviamo. A questo proposito,
infatti, nel pensiero di Vattimo, c’è, dopo gli anni ’80, un progressivo declino delle
tematiche francofortesi e marxiste che egli, invece, aveva presenti al tempo de Il
soggetto e la maschera e Le avventure della differenza, in cui «l’oltreuomo di Nietzsche
veniva concepito come la realizzazione individuale di uno spirito “assoluto”
pensato alla fine, ancora hegelianamente, come quello in cui si realizza la perfetta
coincidenza di essenza e di esistenza, di evento e significato». G. VATTIMO, Dialogo
con Nietzsche, cit., p. 231.
( 28 ) G. VATTIMO, Dialogo con Nietzsche, cit., p. 190.
( 29 ) In questo modo Vattimo non fa che operare una traspropriazione delle critiche
che Nietzsche rivolge alle catene create del «senso storico» sul piano delle
aspetti disumanizzanti del mondo tardoindustriale. Scrive infatti Nietzsche a proposito
dell’atteggiamento da assumere nei confronti della tradizione: «chi sa sentire
la storia degli uomini nella sua totalità come la sua propria storia, prova generalizzandolo
enormemente, tutto l’angoscioso struggimento dell’infermo che pensa
alla salute, del vegliardo che rammemora i sogni giovanili, dell’amante che è strappato
all’amata […]. Prendere tutto questo sulla propria anima, il più antico come
il più nuovo, le perdite, le speranze, le conquiste, le vittorie dell’umanità, possedere
tutto ciò in una sola anima e tutto insieme stringerlo in un unico sentimento –
questo dovrebbe avere come risultato una felicità, che finora l’uomo no ha mai co-

244
MARTA CHESSA
«Proprio da questa moderatezza proviene la saggezza dell’oltreuomo, il suo
senso dell’ironia, la sua fondamentale apertura alla pluralità delle interpretazioni,
che ne fa un soggetto nuovo, capace di vivere in un mondo privo
di fondamenti senza diventare tuttavia un meschino cultore del più limitato
se stesso e dei suoi più immediati e brutali interessi» ( 30 ).
D’altra parte l’oltreuomo non è né l’espressione di un soggetto
che abbia recuperato la forza del suo vero essere al di là delle menzogne
e delle fabulizzazioni, né l’espressione di un vitalismo di matrice
naturalistica – che sarebbe ancora troppo metafisico – ma piuttosto
il modello di un uomo che, avendo riconosciuto il carattere superficiale
e non originario della verità e del soggetto, è in grado di vivere
in un mondo fatto di posizioni e sovrapposizioni di interpretazioni.
Ogni conoscenza è pertanto una interpretazione che appartiene
all’oltreuomo nel senso di una “superbia” (hybris) ermeneutica o metaforizzante
rispetto al conformismo del “gregge”. L’“oltre” dell’oltreuomo
infatti, secondo Vattimo, va inteso nel senso di una oltreumanità
che, rispetto all’uomo incatenato nelle convenzioni da lui
stesso create, è in grado di vivere la propria vita come un continuo
esperimento, come “forza ermeneutica” ( 31 ).
«L’introduzione della nozione di forza ermeneutica significa non solo l’accettazione
dell’essenza “nominalistica”, impositiva dell’interpretazione, ma anche
la messa in luce del suo carattere sempre “differenziale”: una forza non è
mai assoluta, si misura e dispiega solo in relazione ad altre. Non c’è una lotta
tra soggetti pretesi ultimi per imporsi sugli altri; c’è invece un loro costituirsi
come soggetti in un gioco di forze che in qualche modo li precede» ( 32 ).
A maggior ragione, dunque, l’oltreuomo, come colui che vive all’interno
di una realtà il cui essere è favola, non può essere che l’uo-
nosciuto: la felicità di un dio colmo di potenza e d’amore, di lacrime e di riso, una
felicità che, come il sole alla sera, non si stanca di effondere i doni della sua ricchezza
inestinguibile e li sparge nel mare, e come il sole, soltanto allora si sente assolutamente
ricca, quando anche il più povero pescatore rema con un remo d’oro!
Questo sentimento divino si chiamerebbe allora – umanità!». Cfr. F. NIETZSCHE,
La gaia scienza, ed. it. Colli-Montinari, Adelphi, Milano 1965, vol. V, t. II, 337.
( 30 ) G. VATTIMO, Dialogo con Nietzsche, cit., p. 193.
( 31 ) A proposito del perché Vattimo traduca il termine Uebermensch con oltreuomo
e riguardo all’oltreuomo come “forza ermeneutica” si vedano Il soggetto e
la maschera e Al di là del soggetto, in cui Vattimo parla espressamente di «concezione
sperimentale dell’Uebermensch». Cfr., F. NIETZSCHE, Aurora, ed. it. Colli-Montinari,
Adelphi, Milano 1964, vol. V, t. I, 501.
( 32 ) G. VATTIMO, Al di là del soggetto, cit., pp. 56-47.

Nichilismo e universo tecnologico in Gianni Vattimo
mo di “buon carattere”, di cui parlava Nietzsche in Umano troppo
umano, «che ha abbandonato le certezze della metafisica senza nostalgie
reattive, capace di apprezzare la molteplicità delle apparenze
come tale» ( 33 ). E non solo: considerato dal punto di vista dell’ontologia
ermeneutica l’oltreuomo può ben rappresentare «la condizione
“normale” dell’uomo postmoderno, in un mondo in cui l’intensificazione
della comunicazione […] apre la via a una effettiva esperienza
della individualità come molteplicità» ( 34 ).
Il fatto che non si possa parlare di un corso unitario degli eventi o
di una realtà fondamentale cui adeguarsi non deve essere vissuto
come una perdita che bisogna riuscire a colmare ma come una possibilità
di emancipazione dalle autorità «minacciose e rassicuranti»
della nostra «infanzia», «come una chance di un nuovo modo di essere
(forse: finalmente) umani», che i nostri tempi ci forniscono: i diversi
punti di vista sul mondo (o le «razionalità locali» come li definisce
Vattimo), i diversi livelli di informazione distribuiti dai mezzi
di comunicazione, mai riducibili ad un’unica essenza o gerarchizzabili
attraverso un principio, sono per noi autentiche possibilità su
cui poter veramente scorrere liberamente ( 35 ).
Nonostante la società si muova sempre più velocemente e inesorabilmente
verso la pluralità e verso la progressiva identificazione tra fatto
e notizia, si fanno ancora sentire nel dibattito contemporaneo esigenze
di autotrasparenza tipiche della modernità: così, secondo Vattimo,
l’ideale della comunicazione illimitata di Apel sembra corrispondere
alla perfetta realizzazione dello spirito assoluto hegeliano in cui,
fatta astrazione da tutto ciò che è casuale e contingente (in questo caso
le differenze), soggetto e oggetto si annullano in una sintesi finale ( 36 ).
Se, però, la teoria è rimasta testardamente e ciecamente ferma all’Ot-
245
( 33 ) Ivi, p. 49. Scrive infatti Nietzsche in Umano troppo umano, ed. it. a cura di
Colli-Montinari, Adelphi, Milano, vol. IV, t. II, 34: «certamente occorrerebbe
avere […] un buon temperamento, un’anima ferma, mite e in fondo allegra, un
carattere che non debba guardarsi da perfidie e improvvise esplosioni, e che nelle
sue manifestazioni nulla abbia del tono ringhioso e della rabbiosità – quelle note,
moleste qualità dei vecchi cani e degli uomini che a lungo sono stati incatenati.
[…] Egli comunica volentieri la gioia che questo stato gli procura, e forse non altro
ha da comunicare – il che implica certamente una privazione, una rinuncia. Se
ciononostante gli si chieda di più, egli additerà, scotendo benevolmente il capo, il
suo fratello, il libero uomo d’azione, e forse non nasconderà una certa qual derisione:
poiché la “libertà” di quello è di un genere affatto particolare».
( 34 ) G. VATTIMO, Al di là del soggetto, cit., p. 42.
( 35 ) Ivi, pp. 19-20.

246
MARTA CHESSA
tocento, la società si è invece spostata nella direzione opposta: il mondo
contemporaneo, infatti, non può essere analizzato attraverso i criteri
della filosofia moderna, come se oltre le apparenze, i molteplici
dialetti, le diverse forme di vita si nascondesse la verità, un fondamento
a priori sul quale uniformarsi. Dietro le apparenze, dietro le informazioni
dei mass-media non si nasconde niente.
«Le immagini del mondo che ci vengono fornite dai media e dalle scienze
umane, seppure su piani diversi, costituiscono l’obiettività stessa del mondo,
non solo interpretazioni diverse di una realtà comunque data» ( 37 ).
Il mondo sociale nel quale viviamo non è la natura ma è il luogo
di produzione di simboli storici provenienti dal passato e aperti al
futuro. Oggi possiamo esperire che il reale è «un incrocio di interpretazioni,
l’intergioco di interpretazioni diverse che poi si dispongono
formando un nodo resistente della rete»; nodo che avendo perso
qualsiasi pretesa fondazionalista si può manifestare come il frutto
dell’accordo, sempre aperto a nuovi cambiamenti, tra coloro che
partecipano al “gioco”.
«L’autotrasparenza a cui l’insieme dei media e delle scienze umane ci conduce,
per ora sembra essere solo questa, cioè la messa in luce della pluralità,
dei meccanismi e delle armature interne alla costruzione della nostra cultura.
Il sistema media-scienze umane funziona al meglio come emancipazione
solo in quanto ci colloca in un mondo umano meno unitario, meno certo,
dunque anche assai meno rassicurante, di quello del mito» ( 38 ).
5. Conclusione. – Secondo la ricostruzione operata da Nacci la posizione
di Vattimo è caratterizzata una particolare esaltazione del ruo-
( 36 )Cfr., K.O. APEL, Comunità e comunicazione, trad. di G. Carchia, Rosember
& Sellier, Torino 1977, p. 172: «[La possibilità di una comunicazione illimitata si
attua] nel momento in cui la comunità della comunicazione, che costituisce il soggetto
trascendentale della scienza, diventa al tempo stesso l’oggetto della scienza:
sul piano delle scienza sociali nel senso più lato del termine. Ora diventa cioè
chiaro che, da una parte, il soggetto del possibile consenso alla verità della scienza
non è una “coscienza in generale” extramondana, bensì la società storico-reale, ma
che, dall’altra, la società storico-reale può essere compresa adeguatamente solo se
viene considerata come soggetto virtuale della scienza, compresa la scienza sociale,
e se la sua realtà storica viene ricostruita sempre, in maniera al tempo stesso empirica
e normativo-critica, in riferimento all’ideale, da realizzare nella società, della
comunità illimitata della comunicazione».
( 37 ) G. VATTIMO, La società trasparente, cit., p. 38.
( 38 ) Ivi, p. 40.

Nichilismo e universo tecnologico in Gianni Vattimo
lo delle tecnologie informatiche: esse hanno avuto il merito storico
di aver accelerato il processo di delegittimazione dei principi metafisico-ontologici
sui quali la scienza e la tecnologia fondavano la loro
cogenza. Perciò tanto nel postmoderno quanto nella riflessione di
Vattimo sarebbe presente, più o meno esplicitamente, una doppia immagine
della tecnica, da un lato quella “buona”, intelligente, creativa,
e dunque emancipativa, rappresentata dalle tecnologie dell’immagine
e del “virtuale”, e dall’altro quella “cattiva”, utile, dominatrice, rappresentata
dalla tecnologia meccanica con una forte base materiale.
Dalla prospettiva di Nacci il fatto che la riflessione di Vattimo
sulla tecnica sia caratterizzata da una mitizzazione della tecnologia
informatica e da un conseguente svilimento della tecnica meccanica,
fa rientrare a pieno titolo la posizione del filosofo all’interno dell’immagine
unilaterale della tecnica che distingue la maggior parte del
dibattito novecentesco.
Ma all’interno dell’analisi di Vattimo è realmente presente una
così ingenua e netta divisione tra tecnologie “buone” e tecnologie
“cattive”?
È vero che specialmente a partire da La società trasparente Vattimo
individua nelle tecnologie informatiche la piena e matura rappresentazione
della radice ermeneutica dell’essere-evento heideggeriano,
della consumazione del principio di realtà nelle molteplici visioni
del mondo, ma questo non lo ha portato né a negare un certo
tipo di sapere, il sapere scientifico, né un certo tipo di tecniche, che,
come sostiene Nacci riferendosi alla posizione del filosofo, «non servono
a niente, non aiutano nessuno, non fanno capire niente di
nuovo: sono solo indispensabili alla sopravvivenza della tecnica e
della scienza stesse, sopravvivenza che è il loro fine principale» ( 39 ).
Secondo Vattimo infatti il fatto che il nichilismo ermeneutico e il
postmoderno siano in grado di rendere conto della pervasività dell’interpretazione
caratteristica della società tardoindustriale non significa
che essi rifiutino le “verità” della scienza o che in qualche
modo minaccino la loro validità: tanto il nichilismo ermeneutico
quanto il postmoderno non sono nocivi alla scienza più di quanto
non lo siano certi esiti della epistemologia analitica e post-analitica –
come ad esempio il “realismo interno” di Putnam, il “realismo sociale”
di Strawson, la teoria dei paradigmi di Kuhn e il falsificazionismo
popperiano – nel ritenere che essa tenda a persuadere più che a
dire come stanno realmente le cose.
( 39 ) M. NACCI, Pensare la tecnica, cit., p. 188.
247

248
MARTA CHESSA
Più che una divisione tra forme di conoscenza e tecniche buone o
cattive Vattimo sembra sostenere che la nuova condizione storica e
ontologica nella quale ci troviamo ci obbliga a considerare la realtà
nei suoi vari aspetti da un punto di vista ermeneutico e postmoderno.
Questo per il filosofo vuol dire che ognuno si deve assumere la
responsabilità della dissoluzione del principio di realtà, ovvero che
ognuno deve rispondere all’appello del mondo – potenzialmente libero
e alleggerito – dei mass-media.
Tanto meno, come sembra sostenere Nacci, questa divisione è presente
nella realtà come un dato di fatto già pienamente disponibile. Le
tecniche dell’informazione non sono buone in sé piuttosto hanno
buone potenzialità che è compito dell’uomo portare alla luce ( 40 ). La
scelta dunque non è tra due tipi di tecniche ma fra due forme di
pensiero o fra due modelli umani: da un lato quello che recepisce
passivamente le informazioni dei media e i cambiamenti della società
considerandoli ancora metafisicamente come il vero stato delle
cose, e dall’altro quello che non rinuncia a distanziarsi criticamente
dalla realtà cogliendo nella derealizzazione operata dai mass-media la
possibilità e, allo stesso tempo, il peso di una scelta libera. Ciò che i
giornali, le televisioni, Internet diffondono non è la verità già pronta,
già confezionata; la verità è quella che ognuno di noi si crea interpretando
criticamente le notizie che i media distribuiscono.
Questa può essere la dimensione dell’oltreuomo di cui Nietzsche
auspicava la costruzione, il mondo in cui si può «continuare a sognare
sapendo di sognare»; anche se Vattimo riconosce che la libertà
spaesante e oscillante del mondo dei mass-media è una libertà «problematica»
sia perché questo effetto non è né garantito né è mai già
dato ma va coltivato, sia perché «facciamo fatica a concepire questa
oscillazione come libertà: la nostalgia per gli orizzonti chiusi, minacciosi,
e rassicuranti insieme, è sempre ancora radicata in noi, come
individui e come società» ( 41 ).
( 40 ) Vattimo attribuisce lo stesso compito anche all’arte. L’arte nel mondo del
Ge-stell informatico deve mettere in evidenza la situazione di estrema conflittualità e
allo stesso tempo di straordinaria ricchezza insita nel mondo tardoindustriale al di là
di qualsiasi tentativo di omologazione operato dalle forze metafisiche che ancora
continuano a farsi sentire al suo interno. L’arte deve essere dunque sia immagine di
un modo esteticamente riscattato sia espressione dei falsi riscatti. A causa di questo
specifico ruolo attribuito all’arte non mi sembra condivisibile l’assimilazione, che
Nacci attribuisce a Vattimo, di arte e tecniche meccaniche: infatti, queste ultime, secondo
Nacci, «sono attività gratuite al pari dell’arte, che si sviluppano solo per mantenere
la loro sopravvivenza». M. NACCI, Pensare la tecnica, cit., p. 188.
( 41 ) G. VATTIMO, La società trasparente, cit., p. 19.

Nichilismo e universo tecnologico in Gianni Vattimo
Appendice
Dialogo con Gianni Vattimo
Quanto ora riporto rappresenta il resoconto del dialogo che ho
avuto a Torino il 27.11.2000 con il professor Vattimo, che vorrei
qui ringraziare per avermi cortesemente concesso l’autorizzazione a
riportarlo in questo lavoro.
D: Da quali presupposti teorici e da quale diagnosi della nostra
situazione storico-culturale nasce l’esigenza di formulare un nichilismo
positivo?
R: Io sono arrivato a questa idea intanto attraverso gli studi su
Nietzsche; perché effettivamente c’è in Nietzsche la distinzione tra
un nichilismo reattivo, puramente luttuoso che dice siamo alla fine,
siamo disperati, non c’è più religione etc… e un nichilismo positivo
che Nietzsche chiama anche nichilismo attivo (anzi io lo chiamo positivo
ma Nietzsche lo chiama piuttosto attivo). Il nichilismo attivo
in Nietzsche non è tanto facile da definire dal momento che forse gli
unici passi che si possono individuare nelle sue opere sono quelli che
dicono “non solo bisogna assistere, al fatto che è accaduto il nichilismo
ma bisogna contribuire, a distruggere a rovesciare i valori
etc…”, e poi ovviamente un’altra espressione come “Dio è morto
vogliamo che viva il superuomo”, oppure “dobbiamo creare molti
dei”, che è poi una idea che si trova in molti altri autori del Novecento:
il politeismo dei valori di Max Weber e via dicendo. Io devo
dire che ho sempre pensato che fosse importante nel nichilismo attivo
sottolineare, in qualche senso, un’ulteriore negatività, ovvero un
nichilismo che non sia soltanto consumazione del lutto, che non sia
soltanto lamento etc... ma che invece sia in grado di esprimere la capacità
del superuomo di vivere in una situazione in cui i valori sono
crollati, in cui effettivamente non c’è più l’essere. Questa capacità è
molto difficile da raggiungere perché non è semplicemente la constatazione,
la presa d’atto che non ci sono più dei ma la assunzione
positiva della propria responsabilità di inventore di valori, di perso-
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250
MARTA CHESSA
na che, soprattutto, non si lascia nevrotizzare. Io non sono convinto
che la mia sia una interpretazione di Nietzsche fedelissima, non mi
farei tagliare una mano, però dal momento che Nietzsche stesso
chiamerebbe nichilismo negativo lo sforzo di capire solo cosa ha detto
un autore senza cercare di interpretarlo, svilupparlo etc… io credo
di essere fedele a Nietzsche nello sforzo di capire cosa dice ma anche
nello sforzo di interpretarlo e di metterlo a disposizione del mio
uso.
Questa interpretazione del nichilismo positivo in Nietzsche è derivata
in me anche da tutta una serie di riflessioni non direttamente
nietzscheologiche che hanno a che fare con la postmodernità, perché
mi è sembrato che, per esempio, quello che Nietzsche scrive nella
Seconda inattuale sull’uomo che si aggira nel giardino della storia –
che in questo saggio non viene considerata una cosa tanto positiva
quanto piuttosto un’espressione dell’assenza di creatività, che però
nelle sue opere successive diventa un atteggiamento sempre meno
negativo e sempre più positivo, fino all’ultima lettera in cui lui già
pazzo, ma bisogna vedere fino a che punto, voleva essere tutti i nomi
della storia – fosse anche una buona descrizione del modo di vivere
non puramente nostalgico, non puramente disperato la postmodernità,
ovvero il fatto che siamo in una situazione di molteplicità di
valori, di politeismo dei valori. Colui infatti che Nietzsche chiama
superuomo, Uebermensch, è proprio l’uomo capace di professare una
verità senza disprezzare tutte le altre, senza fanatismi; atteggiamento
che spesso non è giudicato tanto positivamente perché considerato
sintomo del fatto che si crede poco in ciò che si ritiene vero, mentre
l’oltreuomo crede nel senso in cui forse Popper poteva credere a delle
proposizioni scientifiche non ancora falsificate, che però hanno la
loro forza nel proporsi eventualmente come oggetti di falsificazione.
Questo è secondo me il problema del superuomo come ci può parlare
oggi; per questo per me è diventato importante sostenere, ma non
so se Nietzsche lo abbia mai detto così da qualche parte, che non
siamo ancora abbastanza nichilisti, non che siamo troppo nichilisti:
per esempio, non siamo abbastanza nichilisti se prendendo atto del
fatto che sono caduti tutti i valori crediamo di dovere imporre solo il
nostro con la forza – che è poi quella che si potrebbe chiamare una
interpretazione nazista di Nietzsche – ovvero, se non ci sono valori
oggettivi ognuno lotti al massimo per imporsi sugli altri anche con
la violenza. Questo è però un nichilismo imperfetto perché Nietzsche
pensa che l’ironia nichilista debba essere esercitata anche su se
stessi; quindi è vero che sono caduti tutti i valori, ma proprio tutti:
non solo tutti quelli degli altri e il mio no. Per cui quando io dico

Nichilismo e universo tecnologico in Gianni Vattimo
che non siamo ancora abbastanza nichilisti attribuisco a questa frase
questo senso, cioè che devo esercitare anche sulle mie pretese quel
distacco ironico che Nietzsche consiglia nel frammento dell’estate
del 1887, ovvero, “chi vincerà alla fine sarà il più moderato non il
più violento”, che io cito sempre.
Questa considerazione del nichilismo ha avuto origine dalla riflessione
sulla postmodernità, di cui mi occupo verso la fine degli
anni ’70 quando escono i libri di Lyotard sulla condizione postmoderna;
successivamente però c’è stato un passo ulteriore in cui io ho
incominciato a reinterpretare nichilisticamente le mie origini cristiane,
nel senso che intorno alla metà degli anni ’80 mi sono chiesto
autobiograficamente come mai mi piacesse di più l’interpretazione
nichilista anche di Heidegger piuttosto che quelle neoteologiche.
Anche nella lettura di Heidegger infatti si può stare a destra o a sinistra;
io chiamo destra heideggeriana la posizione di coloro pensano
che Heidegger debba essere letto dal punto di vista di recupero della
teologia: siamo alla disperazione solo un Dio ci può salvare (e sono
molti gli studiosi cattolici che pensano che il nichilismo di Heidegger
e di Nietzsche serva a mettere in evidenza la rovina della ragione
moderna dopo di che si apre la via alla fede o, meglio, alla scommessa
della fede, che è poi, secondo me, l’interpretazione di Antiseri). Io
invece sono per una visione di sinistra di Heidegger, cioè penso che
il modo per rispettare veramente la differenza ontologica non sia
quello di pensare che ormai abbiamo dimenticato l’essere – che però
continua ad esistere da qualche parte e che noi dobbiamo continuamente
essere consapevoli del fatto che lo abbiamo perso – ma che la
differenza ontologica consiste proprio nel fatto che l’essere ha una
specie di vocazione a sottrarsi, a dissolversi. Anche se certe volte
sembra che Heidegger pensi che davvero l’essere ritornerà e che è
nostro compito preparare e aspettare il suo avvento, io preferisco
questa versione dell’heideggerismo perché neanche Heidegger può
pensare mai che l’essere si ridia in presenza senza tradire la differenza
ontologica. In Heidegger infatti ci sono sufficienti buone ragioni per
essere interpretato nel senso fornito dalla lettura di sinistra. Quando
però mi domando perché preferisco questa lettura mi accorgo che
ho sempre letto Heidegger e Nietzsche dal punto di vista di uno che
continuava a credere alla rivelazione cristiana in qualche forma (io
sono stato cattolico militante fino alla metà degli anni ’60 e non ho
mai abbandonato le mie origini cattoliche). Mi sono reso conto infatti,
attraverso una lettura per me molto importante che è stata
quella di René Girard, che in fondo il nichilismo nietzscheano e la
differenza ontologica heideggeriana potevano, e anzi forse dovevano,
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252
MARTA CHESSA
essere lette come una forma secolarizzata, ma autentica, del cristianesimo
in quanto messaggio del Dio che si abbassa, che si umilia,
che si dissolve.
Di conseguenza anche l’etica cristiana mi è sembrata molto più
un etica non di rivendicazione dei valori naturali voluti da Dio (perché
l’etica che predica il Papa è sempre “Dio ci ha creato così, qui ci
sono delle norme, noi dobbiamo rispettarle”), perché se tutto si trovasse
già in natura bisognerebbe mettere da parte la rivelazione,
mentre c’è una legge naturale che è per lo più la legge della sopravvivenza
così come la descriveva Schopenhauer, e un annuncio che è
l’annuncio cristiano che dice “se volete salvarvi dovete perdere la vostra
anima”, cioè dovete accettare il messaggio della croce fino in
fondo, senza quell’idea che la passione si riduca solo ad un giochetto
per poter poi resuscitare (credo nella resurrezione di Cristo perché
l’ho letta nel vangelo, non credo al vangelo perché so che Cristo è risorto).
Credo in qualche modo di stare in quell’orizzonte che Heidegger
chiama la “terra della sera”, l’Occidente, il posto dove l’essere
si annuncia nella sua vera forza che è la debolezza. È questo ciò che
chiamo nichilismo positivo, in un senso naturalmente lontano dal
nichilismo di Nietzsche, per il quale attivo era il nichilista che martellava
e martellava ancora, e più vicino ad un altra caratteristica del
nichilista nietzscheano che è quella che esprime la capacità di adattarsi
a vivere moderatamente, senza troppe aspettative, e che quindi
in qualche modo accetta di ridursi e accetta il nichilismo senza piangere
sul fatto che non ci sono più valori assoluti. Io unisco questo
aspetto nel nichilismo di Nietzsche con Heidegger, e non mi sembra
tanto infedelmente: l’altra tappa infatti di tutto questo discorso è
stata prendere atto del fatto che si doveva leggere Nietzsche attraverso
Heidegger ma contro la lettera dei testi heideggeriani, perché
Heidegger non si sarebbe mai chiamato nietzscheano, anzi; e tuttavia
se andiamo a vedere la sua storia della metafisica come oblio progressivo
dell’essere, non possiamo non notare che questa è la storia
del nichilismo di Nietzsche. Dunque possiamo considerare Heidegger
davvero come colui che supera il nichilismo di Nietzsche, o piuttosto
dobbiamo considerarlo come colui che lo porta all’estremo? Lo
Heidegger che crede di superare il nichilismo di Nietzsche finisce
per essere quello neocristiano teologo-negativo e anche forse quello
nazista; perché lo Heidegger che a un certo punto si iscrive al partito
nazista è quello che dimentica la differenza ontologica e crede che la
Grecia possa resuscitare in un regime storico determinato che è
quello di Hitler (non dico che si potesse pensare che la Grecia potesse
resuscitare anche in uno stato democratico, ma già in uno stato

Nichilismo e universo tecnologico in Gianni Vattimo
democratico ci sono tutti quegli aspetti negativi sui valori sugli assoluti
etc. … che fanno parte giusto del nichilismo pensato come
evento storico anche positivo).
D: Mi sembra che una delle implicazioni della sua concezione positiva
del nichilismo sia una certa valutazione favorevole della tecnologia
delle comunicazioni almeno rispetto all’analisi sul mondo
tecnologico di matrice heideggeriana. Come è mutata, se è effettivamente
mutata, tale analisi all’interno del suo percorso filosofico?
E che cosa ha a che vedere questa rivalutazione con il superuomo
di Nietzsche?
R: Ne La società trasparente io ero molto ottimista rispetto al
mondo delle comunicazioni. È vero che le tappe sono: uno, non assolutizzare
il modello del motore; infatti la condanna della tecnologia
anche da parte dello Heidegger antitecnologico proviene dall’idea
che il mondo tecnologico è come una grande macchina dove
c’è una specie di dominio assoluto del centro – e questo è anche il
modo in cui Adorno pensa la tecnica e come i nazisti l’hanno praticata
quando c’era un’unica radio che guidava le masse tedesche.
Oggi però la tecnica dell’informazione è diventata molto più complessa:
per esempio rispetto al modello del motore che muove dal
centro e tutta la periferia fa ciò che dice il motore centrale, noi abbiamo
delle direzioni duplici, per noi oggi non qualunque cosa che
la televisione propone funziona; non solo, ma ci sono altri sistemi,
come Internet e la comunicazione elettronica, che hanno creato un
sistema reticolare di comunicazione, i quali rendono difficile che
possa continuare ad esserci quello che le brigate rosse chiamavano il
“cuore dello stato”, il “grande vecchio” che decide tutto. Quando
Foucault parla della microfisica del potere, descrive questo sistema
ancora in termini demonizzanti esprimendo il fatto che il potere si
annida dovunque; ma se davvero si annida ovunque, allora è impossibile
che sia così centralizzato, così totalitario come si pensava. Perciò
io ho incominciato a pensare, anche a partire da un certo Heidegger
– ad esempio un saggio che per questa lettura è molto importante
per me è quello intitolato “L’epoca dell’immagine del mondo”
in Holzwege perché lì si vede come ad un certo punto l’immagine del
mondo dovendosi moltiplicare e specializzare diventa impossibile da
dominare con uno sguardo solo – che il mondo della comunicazione
di massa fosse sì molto pericoloso ma allo stesso tempo, teoricamente,
si potesse considerarlo, come Heidegger scrive in una pagina di
Identità e differenza, come un primo lampeggiare dell’evento dell’essere,
perché in questa situazione, scrive Heidegger, uomo ed essere
perdono la loro caratteristica di soggetto e oggetto. Io ho chiesto a
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254
MARTA CHESSA
Gadamer, che aveva assistito personalmente a quella conferenza, se
Heidegger avesse effettivamente fatto una affermazione di questo
tipo e Gadamer mi ha risposto che Heidegger sapeva bene quel che
diceva e che aveva fatto tale considerazione con questa intenzione.
In questi termini io ho poi incominciato anche a pensare che il fatto
che l’essere perda la propria caratteristica di oggetto, e non solo che
il soggetto perda la propria caratteristica di soggetto, come una sorta
di indebolimento complessivo delle strutture del così detto reale,
perché nella comunicazione non solo non c’è più un centro che parla
da solo e che è compito della periferia ascoltare semplicemente,
ma c’è anche il fatto che nella comunicazione si moltiplicano i centri
di interpretazione: se ad esempio uno della Cia deve avere duemila
agenzie in tutto il mondo allora può succedere che le agenzie possano
distruggere la Cia; similmente nella pluralizzazione dei centri di
interpretazione l’immagine del mondo non può più essere così unitaria
come era in momenti della storia in cui c’erano poche agenzie
interpretative. In una società tradizionale come ad esempio nel Medioevo
cattolico europeo prima della riforma protestante, dove le
due fonti dell’interpretazione della realtà erano solo il Papa e l’Imperatore,
si poteva essere realisti perché che non c’erano tante interpretazioni
visibilmente tali. Oggi invece che ci sono i giornali che appartengono
a questo o a quel gruppo industriale, sappiamo che il reale
è un incrocio, o, come io volevo intitolare una volta un mio libro,
un “gioco delle interpretazioni”, e cioè il reale è l’intergioco di interpretazioni
diverse che poi si depositano formando un nodo più resistente
nella rete. La realtà dunque è fatta di interpretazioni; ma diventare
consapevoli di questo, vivere in un mondo in cui le agenzie
interpretative sono molteplici anche sul piano della multietnicità
non cambierà il senso della realtà? C’è stato un libro importante in
America di Aden White che è stato tradotto in italiano con il titolo
Retorica e storia in cui si sostiene che anche lo schema in cui collochiamo
gli eventi storici è uno schema retorico, ovvero uno schema,
come diceva Benjamin nelle tesi sulla storia, costruito da un gruppo
sociale in cui esso è protagonista. Quindi anche la storia dentro cui
crediamo di stare come dentro ad un ambiente neutro è in realtà
una interpretazione. Anche le scienze si danno una immagine sempre
più specializzata ed efficace ma poco oggettiva, dal momento che
non devono descrivere tutto, perché altrimenti non descrivono niente,
ma devono sempre considerare una parte e poi modificarla. Allo
stesso modo, se la storia ci parla sempre da un punto di vista interpretativo
allora è chiaro che la realtà con la erre maiuscola si dissolve,
o certo è più debole di quanto non lo fosse quando non si pensa-

Nichilismo e universo tecnologico in Gianni Vattimo
vano queste cose. Ergo, l’indebolimento dell’imperatività del soggetto
che prima mi è parso solo un modo di leggere la differenza ontologica,
e poi mi è parso soltanto un modo di preferire questa lettura
perché penso in termini cristiani, è diventato uno schema, una interpretazione
verosimile della storia dell’essere; ovvero la storia dell’essere
si dirige verso una riduzione progressiva dell’imponenza, dell’oggettività,
della definività etc. … Arriveremo ad un punto in cui
dell’essere non ne sarà più nulla? Questo sarebbe un modo di pensare
il nichilismo ancora in termini metafisici: prima c’era tutto l’essere
poi ad un certo punto c’è tutto il nulla, come se fosse un dato di
fatto davanti a noi. Perciò noi dobbiamo pensare al nichilismo solo
come ad un processo asintotico, un divenire che marcia verso uno
scopo, un fine che però non si realizza mai perché questo significherebbe
contraddirsi.
Io poi a tutto questo aggiungo una visione della storia del pensiero
europeo dopo la metafisica come un processo che va dalla veritas
alla caritas; cioè la dissoluzione del concetto di realtà procede verso
una visione sempre più convenzionalistica e linguistica della verità:
le scienze provano le loro proposizioni all’interno di paradigmi condivisi,
ovvero devono incontrare degli interlocutori disponibili per
dimostrare qualche cosa. Non guardando le cose come sono finalmente
si trova la verità ma mettendosi d’accordo con altri su certi
metodi, su certi modi di verificare cioè di rendere vere delle cose. Io
ho persino insistito nel discorso che ho fatto a Heidelberg per i cento
anni di Gadamer sul fatto che la frase di Essere e tempo in cui Heidegger
dice che “c’è essere e non ente nella misura in cui c’è l’esserci”
debba essere letta come una specie di imperativo storico-etico:
ovvero non soltanto Heidegger dice “c’è essere non ente nella misura
in cui c’è verità e c’è verità nella misura in cui c’è l’esserci” ma per
così dire noi dobbiamo leggere quella frase nel senso che ci deve essere
l’essere e non l’ente: è questa infatti la funzione dell’esserci
quando pronuncia la verità. Il fatto che le cose vengano all’essere
nell’apertura aperta nel mondo dall’esserci è l’essenza dell’emancipazione;
è come quando qualcosa diventa vero, per esempio nella
scienza, quando viene formulato matematicamente. Ma quando viene
formulato matematicamente davvero è solo descritto più fedelmente
nel come è oppure è trasceso e posto in un altro dominio che
è quello della verità e non quello della realtà immediata? Questo è
quello che io penso, che è in un certo senso il modo in cui Scheller
interpretava la fenomenologia di Husserl, per il quale per salire alla
visione delle essenze, per vedere le cose come sono bisogna fare un
esercizio ascetico di astrazione dalle pressioni dettate dal bisogno di
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MARTA CHESSA
sopravvivenza, dagli interessi etc. …; e questo credo che sia anche il
senso della filosofia di Heidegger, che del resto era uno che stimava
Scheler (anche se non so se per questa interpretazione) ma certamente
non mi sembra inverosimile anche per questo dal momento
che il compito anche etico dell’essere è quello di far valere la differenza
ontologica innanzitutto attraverso i processi di conoscenza che
sono sempre processi di astrazione, formalizzazzione e riduzione dell’immediatezza
dell’essere. Questo diventa persino un possibile recupero
di Hegel perlomeno nel senso che la verità della storia dell’essere
è la sua spiritualizzazione nel senso della riduzione dell’imponenza
materiale e della definitività oggettiva. Possibile che l’unica cosa
che dobbiamo fare al mondo è guardare le cose come sono? Possibile
che anche nella storia del cristianesimo tutto si riduca ad adeguarsi
alla verità come data una volta per tutte ed a star lì con l’amor dei intellectualis
di Spinoza? Certo io non riesco a pensare che tutto il
compito dell’umanità sia quello di scoprire più chiaramente l’ordine
delle cose ed accettarlo com’è; semmai anche le motivazioni del sapere
scientifico sono alla fine tecniche.
D: Lei ha citato Hegel ed effettivamente mi sembra che l’ultima
fase del suo pensiero, mi riferisco in particolar modo al suo ultimo
libro Vocazione e responsabilità del filosofo, sia caratterizzata da un
certo avvicinamento alla filosofia della storia di Hegel. Quale fisionomia
e quali limiti ha tale avvicinamento?
R: Ma un avvicinamento mediato intanto da questa idea che dicevo
prima, cioè che se c’è un senso dell’emancipazione questo è la
spiritualizzazione, cioè la trasformazione del reale in vero e la presa
di coscienza che la verità comporta la perdita di una quantità di immediatezze
– un aspetto della verità questo ascetico e mistico, ascetico
soprattutto nel senso di riduzione dell’imponenza della presenza.
Questo avvicinamento ad Hegel non lo nego nella misura in cui lo
mantengo nei limiti per cui un tale avvicinamento vale anche per
Gadamer: cioè vivere nella verità significa vivere nello spirito oggettivo,
vivere nella biblioteca. Gadamer una volta aveva scritto che si
doveva riprendere Hegel tagliando via lo spirito assoluto che certo,
pur non essendo un modo di riprenderlo tanto hegeliano, è però in
qualche modo giusto; se vede l’ultimo mio libro pubblicato giusto in
questi giorni che è una raccolta di scritti su Nietzsche dal 1961 al
2000, in uno degli ultimi capitoli, che si intitola “La saggezza del superuomo”,
sostengo anche che non è tanto verosimile che Hegel
pensasse davvero di essere Dio, ma piuttosto forse Hegel stesso doveva
sostenere che lo spirito assoluto può essere pensato in maniera
ragionevole solo come una forma di consapevolezza del pensatore,

Nichilismo e universo tecnologico in Gianni Vattimo
del singolo, di stare dentro lo spirito oggettivo; non dunque che io
riassumo tutto il sapere dell’umanità nella mia testa e in un atto singolo
possiedo l’evidenza assoluta divina; anche se Hegel poteva essere
letto anche in questo modo, ad esempio Kierkegaard lo leggeva
così. Mentre ragionevolmente, come penserebbe Gadamer, stare nella
verità non significa possedere la verità ma significa piuttosto sapersi
muovere entro lo spirito oggettivo come se si trattasse di andare
dal museo del risorgimento alla galleria d’arte moderna etc... Anche
la verità, se la pensiamo in termini heideggeriani, è un modo di
collocare, consumando nell’immediatezza le nostre esperienze immediate
dentro il tessuto delle verità. C’è persino chi legge così il
kantismo, come ad esempio uno scrittore americano, Macdowell,
che ha scritto un libro che si intitola Mente e mondo, uscito anche in
italiano, il quale pensa che ciò che Kant chiamava le forme a priori
dentro cui i dati della sensazione diventano oggettivi, cioè diventano
coordinati in schemi spazio-temporali e poi nel tessuto delle categorie
– e anche diciamo la matematizzazione dei dati che fa la scienza
sperimentale – siano un modo di collocare l’immediatezza dell’esperienza
dentro un reticolo che può essere anche un reticolo storico,
ovvero il linguaggio che abbiamo ereditato. Potrebbe essere letto
così anche lo Heidegger che dice che il linguaggio è la casa dell’essere,
fornendo in questo modo una interpretazione di Heidegger che
va d’accordo con Gadamer e con Macdowell. C’è una sorta di ermeneutizzazione
anche dell’idea che le esperienze diventano vere quando
sono inserite all’interno di una rete di forme; per Kant le forme
della ragione eterne, per noi ermeneutici e forse anche postanalitici,
i linguaggi scientifici che garantiscono che i singoli dati della sensazione
costruiscano un discorso coerente, continuo e ripetibile. Allora
se le cose stanno così l’idea che lo spirito oggettivo sia la sostanza
della nostra verità corrisponde all’idea che lo spirito oggettivo è la
sostanza del nostro percorso emancipativo; mentre una teleologia
storica sembra sempre dover essere diretta da un fine che può essere
raggiunto, io credo invece che l’idea che un fine debba essere raggiunto
sia sempre ancora una idea metafisica, che implica cioè che,
ad un certo punto, l’essere si realizzi come presenza. L’essere invece è
vita, phuein, ma non nel senso di affermazione della pienezza, perché
la pienezza non si muove più. Può darsi che questa idea di un procedere
indefinito verso la spiritualizzazione, cioè verso la riduzione
dell’immediatezza della realtà, sia anche una forma di ripresa della
vecchia idea che l’essere è vita – ma l’essere è vita nella misura in cui
non si quieta – e sia riduzione nel senso ereditato dal cristianesimo,
allora ci liberiamo anche dallo spettro della pienezza finale. Come
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MARTA CHESSA
diceva Heidegger si vive autenticamente solo perché si può morire,
perché altrimenti all’uomo non rimarrebbe altro che contemplare
immobile l’essere stabile.
D: In relazione all’alleggerimento di cui possiamo godere nel
mondo della comunicazione, è cambiata la funzione dell’esperienza
estetica? Dalla lettura dei suoi scritti infatti emergono due funzioni
dell’arte: una è quella di rottura rispetto a tutto ciò che è banale e
consueto, e l’altra è quella di «intensificare l’appartenenza di ciascuno
di noi ad un mondo storico». Come si conciliano queste due posizioni?
C’è un cambiamento dell’esperienza estetica in relazione alla
trasformazione della nostra situazione storico-culturale, all’alleggerimento
di cui possiamo godere nel mondo della comunicazione?
R: Questo è davvero un nodo difficile per me perché anch’io ho
oscillato molto, negli anni in cui ho incominciato a parlare del pensiero
debole, tra una visione dell’arte che era ancora molto heideggeriana
di Der Ursprung des Kuntwerkes dove l’arte è spaesamento, sospensione
dell’ovvietà del quotidiano, accadimento di nuove verità,
e da un’altra parte l’arte come costituzione dell’abitazione nel mondo.
Io credo che questa relazione per quanto io mi sia posto questo
problema, la si debba pensare in termini polari, anche se so benissimo
che parlare di termini polari non è una soluzione. Effettivamente
forse si può benissimo mantenerci alla frase di Adorno l’arte come
promesse de bonheur, cioè, come promessa di un mondo estetizzato,
ovvero l’arte coltiva l’idea di una integrazione estetica che però rispetto
al mondo effettivo funziona sempre come rottura. È chiaro
che non ho rinunciato a pensare all’opera d’arte come messa in opera
della verità nel senso heideggeriano; però ho cominciato anche a
domandarmi sino a che punto dovessi prendere sul serio quelle parti
de “L’origine dell’opera d’arte” in cui Heidegger afferma che ci sono
molti modi di accadere della verità, e sono arrivato a chiedermi se
per caso il fatto che la verità si dia nell’opera d’arte non sia anch’esso
un tratto proprio di una certa epoca dell’essere; perfino la frase per
cui il linguaggio è la storia dell’essere è una verità metafisica definitiva
o è una delle abitazioni in cui l’essere accade? Perché qui Heidegger
parla di diversi modi di accadere della verità dei quali poi sviluppa
solo uno, ovvero la poesia – al massimo quando commenta i filosofi
antichi potrebbe sembrare che commenti delle proposizioni filosofiche
e non delle proposizioni poetiche ma fondamentalmente lo
Heidegger che ha studiato l’accadimento della verità si è sempre riferito
a poeti. Questo per me costituisce un problema perché mi domando
sempre fino a che punto nella fine della metafisica non sia
coinvolto anche una trasformazione della stessa essenza dell’arte, che

Nichilismo e universo tecnologico in Gianni Vattimo
da un lato appunto è apertura di mondi nuovi, e dall’altro però allude
anche a mondi in cui l’arte non sia più pura apertura di rottura di
mondi nuovi. Per cui per ora, salvo che mi venga in mente qualcos’altro,
mi pare di non uscire da questo polarismo; anche se a volte
ho criticato Adorno perché era troppo apocalittico, forse aveva ragione
nell’affermare che in certi termini l’esperienza estetica è una
promesse de bonheur, ovvero che l’arte è sia immagine di un mondo
esteticamente riscattato e sia espressione polemica nei confronti dei
falsi riscatti; per cui quando io mi lascio andare nel dire che può
darsi che oggi ci siano degli eventi estetici che sono più di integrazione
che non di rottura pensi a delle semplici possibilità di realizzazione
di momenti di integrazione cui però seguono momenti di ricadute.
Tutto questo allora non finisce per essere la riproposizione della
ragione dialettica del vecchio Sartre per il quale la storia è scandita
dall’alternanza di momenti rivoluzionari e dalla caduta nella pratica
inerte? Io sono convinto che proprio perché sono cristiano c’è comunque
un certo filo conduttore in cui la violenza di questo ritmo
puramente binario si consuma e che c’è una storia della salvezza grazie
alla quale noi non siamo abbandonati all’interno del ritmo vitalistico
della nascita e della morte. La differenza ontologica è anche
questa promesse de bonheur che dirige la storia verso la consumazione
della violenza. Per questo io adesso sento di non poter pensare se
non nei termini di una ripresa secolarizzante del messaggio cristiano
perché vedo in esso la storia della salvezza, che altrimenti non posso
pormi. Se non c’è una storia della salvezza che mi indica già più o
meno i tratti del Messia venturo, come faccio a distinguere quello
che viene, a cui ad esempio Derrida da molta importanza? Io noto
però che questa visione della storia, espressione di una permanente
ebraicità della filosofia per la quale il Messia è sempre di là da venire,
rischia sempre di pensare la storia come una alternanza senza direzione
tra positivo e negativo; il giudizio universale dice ad esempio
Levinàs è sempre in ogni momento, ma se è sempre in ogni momento
è come se non fosse mai. Questo aspetto io lo trovo anche in Derrida,
nell’enfasi che egli pone sull’altro, senza però storicità dell’essere;
io invece devo parlare della storia dell’essere perché altrimenti mi
sento come buttato in una specie di altalena insensata: c’è dunque
una logica in questa follia del pensiero debole.
D: Come risponde a coloro che come Antiseri sostengono che per
guidare il nostro pensare il nostro agire non basta ripercorrere dialogicamente
i diversi beni e le diverse verità attraverso le quali la storia
dell’essere si articola ma che bisogna individuare quei beni e quelle
verità che possano fungere da norme e da criteri condivisibili?
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MARTA CHESSA
R: Io mi domando se Antiseri, come molti di origine neopositivistica,
non sia poi fondamentalmente un irrazionalista; perché io
vedo nel suo pensiero o il ritorno ad una forma di aristotelo-tomismo,
nel senso che in esso c’è un nocciolo di verità che si rivela e che
possiamo raggiungere con un atto di intuizione ultima come il nous
aristotelico, oppure che questa è una scommessa pascaliana, cioè in
definitiva che i valori ultimi che meritano attenzione o sono oggetto
di intuizione pura – come nell’Aristotele di San Tommaso per il
quale i principi primi non sono oggetto di dimostrazione ma sono
oggetto di intuizione – oppure sono oggetto di scelta. Io temo che
Antiseri non esca da questa alternativa; nei confronti di entrambe io
diffido nel senso che l’uno mi sembra esattamente un esito irrazionalistico,
che si può perfino leggere in Wittgenstein, secondo il quale
non c’è un metagioco linguistico ma ci sono forme di vita che o
condividiamo o non condividiamo. Secondo me quello che è importante
nell’idea wittgensteiniana di forma di vita è invece proprio il
fatto che non scegliamo le forme di vita da condividere: non le scegliamo
perché c’è una specie di validità storico-destinale che ci lega
ad esse. Perciò parlo tanto della storia dell’essere, perché a mio parere
i valori che scegliamo come punti di riferimento sono, per esempio,
i classici. L’esempio del classico, che conta molto in Verità e metodo
di Gadamer, è espressione del fatto che ci sono dei grumi storico-culturali
che resistono di più; ma resistono perché davvero corrispondono
all’ordine eterno dell’essere? Come ci possiamo permettere
di dire questo? Inoltre, e soprattutto, se c’è un ordine eterno dell’essere
incontriamo tutte le contraddizioni della metafisica come
Heidegger la descrive: ma che ne è allora della libertà e che ne è della
storia e del divenire? Heidegger aveva incominciato ad occuparsi di
questi temi quando era ancora cattolico e si poneva il problema della
predestinazione, di Dio e della libertà. Questo è in un qualche modo
quello che pensa anche MacIntyre, un cattolico americano molto rispettabile
ma che sostanzialmente finisce per pensare che c’è una
sorta di corso evolutivo della storia del pensiero di cui si sa già quale
è il fine. Io invece sarei un evoluzionista un po’ più radicale nel senso
che per me ci sono dei raggiungimenti da cui io in questa storia, e
forse noi all’interno della storia dell’Europa, non possiamo ragionevolmente
prescindere. Ma dobbiamo necessariamente identificare
questo con la verità dell’eternità? Husserl pensava che attraverso la
storicità dei valori dell’occidente si rivelasse la verità vera, definitiva
e assoluta. Io invece spero sì che i miei valori non siano negabili ma
in un senso più popperiano: nel dialogo con altro infatti possono
sempre essere smentito, senza, pur trovandomi in questa situazione,

Nichilismo e universo tecnologico in Gianni Vattimo
perdere l’orientamento perché, come diceva Wittgenstein, quando
sei su una strada sai sempre qualcosa su dove devi andare. Io dunque
riprendo l’idea del classico come Gadamer l’ha concepita perché ritengo
che la storia non sia priva di punti di riferimento; piuttosto
questi punti di riferimento non sono né la struttura eterna dell’essere
aristotelica né la pura scommessa di Pascal, ma semmai qualcosa
di intermedio.
261

262
Bibliografia
Scritti di Gianni Vattimo:
MARTA CHESSA
Ipotesi su Nietzsche, Giappichelli, Torino 1967, ora in Dialogo con Nietzsche.
Poesia e ontologia, Mursia, Milano 1968, (nuova ed. accresciuta 1985).
Introduzione a Heidegger, Laterza, Bari 1971.
Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione, Bompiani, Milano
1974.
Le avventure della differenza: Che cosa significa pensare dopo Nietzsche e Heidegger,
Garzanti, Milano 1980.
Al di là del soggetto: Nietzsche, Heidegger e l’ermeneutica, Feltrinelli, Milano 1981.
Introduzione a F. Nietzsche, Aurora, Newton Compton, Roma 1981.
A cura di Gianni Vattimo con Pier Aldo Rovatti, Pensiero debole, Feltrinelli, Milano
1983 (comprende la “Premessa” con Pier Aldo Rovatti, pp. 7-11, e
“Dialettica, differenza, pensiero debole”, pp. 12-28).
Le deboli certezze, in «Alfabeta», 67, 1984, p. 8.
Introduzione a Nietzsche, Laterza, Bari 1985.
La fine della modernità. Nichilismo ed ermeneutica nella cultura post-moderna, Milano,
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Perché ‘debole’, in Dove va’ la filosofia italiana?, a cura di J. Jacobelli, Laterza, Bari-
Roma 1986, pp. 186-193.
A cura di Gianni Vattimo, Filosofia 86, Laterza, Roma-Bari 1987, (comprende
“Introduzione”, pp. V-XII, e “Metafisica, violenza e secolarizzazione”,
pp. 71-95).
Le mezze verità, La Stampa, Torino 1988 (“Terza Pagina”; comprende recensioni,
ritratti filosofici e commenti scritti per La Stampa fra il 1979 e il 1988).
A cura di Gianni Vattimo, Filosofia 87, Laterza, Roma-Bari 1988, (comprende
“Introduzione”, pp. VII-XIV, e “Ontologia dell’attualità”, pp. 201-223).
Predicare il nichilismo?, in «aut-aut», 226, 1988, pp. 111-116.
Etica della comunicazione o etica dell’interpretazione?, in «aut-aut», 225, 1988, pp. 1-
10 (compreso in Etica dell’interpretazione 1989).

Nichilismo e universo tecnologico in Gianni Vattimo
La società trasparente, Garzanti, Milano 1989.
Etica dell’interpretazione, Rosemberg & Sellier, Torino 1989.
Individuo e istituzione: una prospettiva ermeneutica, in La dimensione etica nelle società
contemporanee, Fondazione Agnelli, Torino 1990, pp. 81-112.
Oltre l’interpretazione, Laterza, Roma-Bari 1994.
Abitare nella biblioteca, «aut-aut», 267-268, 1995.
Il rischio della metafisica, in «aut-aut», 273-274, 1996, pp. 22-23.
Il consumatore consumato, Centro studi P. Calamandrei, Jesi 1996.
Credere di credere, Garzanti, Milano 1996.
Etica della provenienza, «Micromega», almanacco di filosofia 1997, pp. 73-80.
È una rete senza centro ma ci da un premio: la libertà., «Telema», 8, primavera
1997, http://www.fub.it/telema/TELEMA8/Vattimo8.htlm.
La filosofia e la critica della tecnologia (intervista a Gianni Vattimo di Ennio Galzenati),
L’Unità, 19 maggio, 1997.
Tecnica ed esistenza: una mappa della filosofia del ’900, Paravia Scriptorium, Torino
1997.
Vocazione e responsabilità del filosofo, il Melangolo, Genova 2000.
La società trasparente (3a ed.), Garzanti, Milano 2000.
Dialogo con Nietzsche. Saggi 1961-2000. Garzanti, Milano 2000.
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Presentazione, in Michela Nacci, Pensare la tecnica, Laterza, Roma-Bari 2000, pp.
IX-XVI.
Ho potuto consultare inoltre uno scritto inedito che mi è stato
personalmente comunicato dal professor Vattimo.
Altre opere consultate:
263
KARL OTTO APEL, Transformation der Philosophie, I e II, Suhrkamp, Frankfurt,
1973, trad. it. parziale di G. Carchia, Comunità e comunicazione, Rosemberg
& Sellier, Torino 1976.
ANDREW FEENBERG, From Essentialism to Constructivism: Philosophy of Tecnology
at the Crossroads, in E. Higgs, D. Strong, and A. Light eds, Technology and
Good Life, University of Chicago Press, 2000.
ANDREW FEENBERG, Marcuse or Habermas: Two Critiques of Tecnology, «Inquiry»
39, 1996, pp. 45-70.
HANS GEORG GADAMER, Warheit und Methode, Mhor, Tübingen 1960, trad it. di
G. Vattimo, Verità e metodo, Bompiani, Bologna 1983.

264
MARTA CHESSA
MARTIN HEIDEGGER, Sein und Zeit, Max Niemeyer Verlag, Tübingen 1927, trad.
it. di P. Chiodi, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1970.
MARTIN HEIDEGGER, Identität und Differenz, Pfullingen, Neske 1957, trad. it. di
U.M. Ignazio, Identità e differenza, in «aut-aut», 187-188, 1982, pp. 1-38.
MARTIN HEIDEGGER, Vorträge und Aufsätze, Neske, Pfullingen 1954, trad. it. di
G. Vattimo, Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976.
MARTIN HEIDEGGER, Holzwege, Klostermann, Frankfurt 1950, trad. it, Sentieri
interrotti, trad. it., La Nuova Italia, Firenze 1967.
JEAN-FRANÇOIS LYOTARD, La condition postmoderne. Rapport sur le savoir, Paris,
Les Edition de Minuit, 1979, trad. it., La condizione postmoderna, Feltrinelli,
Milano 1981.
MICHELA NACCI, Pensare la tecnica, Laterza, Roma-Bari 2000.
MICHELA NACCI, Immagini della tecnica nella discussione contemporanea, in M.
Nacci, Paolo rossi, a cura di, La tecnica alla fine del millennio, numero monografico
di «Intersezioni», XIII, n. 2, agosto, pp. 353-385.
FRIEDRICH W. NIETZSCHE, Menschliches, Allzumenschchliches, I (1878), ed. it. a
cura di G. Colli e M. Montanari, Umano troppo umano I, Adelphi, Milano
1967, vol. IV, t. II.
FRIEDRICH W. NIETZSCHE, Götzen-Dämmerung. Oder Wie man mit dem Hammer
philosophirt (1888), ed. it. a cura di Colli-Montinari, Crepuscolo degli idoli,
in Opere, Adelphi, Milano 1970, vol. VI, t. III.
FRIEDRICH W. NIETZSCHE, Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen
(1888), ed. it. a cura di Colli-Montinari, Così parlò Zarathustra, Adelphi,
Milano 1953, vol. VI, t. I.
FRIEDRICH W. NIETZSCHE, Morgenröthe (1881), ed. it a cura di G. Colli e M.
Montinari, Aurora, Adelphi, Milano 1964, vol. V, t. I.
FRIEDRICH W. NIETZSCHE, Nachgelassene Fragmente 1885-1887, ed. it. a cura di
G. Colli e M. Montinari, Frammenti postumi 1885-1887, Adelphi, Milano
1971, vol. VIII, t. I.
FRIEDRICH W. NIETZSCHE, Die frohliche Wissenschaft (1882), ed. it. a cura di G.
Colli e M. Montinari, La gaia scienza, Adelphi, Milano 1965, vol. V, t. II.

PIETRO SALIS
RORTY E HABERMAS: UN CONFRONTO
SULLA RAGIONE COMUNICATIVA
SOMMARIO: 1. Razionalità e comunicazione. – 2. Le regole della comunicazione
tra naturalizzazione e ideali regolativi. – 3. Habermas versus Rorty: idealizzazioni,
naturalizzazione e spazio delle ragioni.
Di recente, nella raccolta di saggi e repliche Rorty and his critics
(ed. by Robert Brandom, Basil Blackwell, Oxford 2000), Richard
Rorty e Jurgen Habermas hanno dato vita ad un confronto denso e
serrato su temi chiave quali la nozione di razionalità comunicativa, il
ruolo della nozione di verità in epistemologia (e nella comunicazione)
e lo status delle norme che regolano il nostro agire linguistico e
non. Il confronto è di particolare interesse perché i nostri autori presentano,
relativamente a determinati temi quali il carattere discorsivo
della razionalità e la comune fede democratica, analogie e notevoli
punti di tangenza. Pur con radici culturali e prospettive teoriche
molto diverse, sia Habermas che Rorty rappresentano l’evidente sintomo
di una convergenza presente in più filoni del pensiero contemporaneo
volta a riconoscere il carattere discorsivo e pragmatico della
razionalità. In secondo luogo, data la diversità delle tradizioni culturali
di provenienza, sussistono delle divergenze teoriche piuttosto
nette. Tali differenze si radicano in profondità in quelle che sembrano
essere le divaricazioni più nette del panorama filosofico attuale ( 1 ).
Jurgen Habermas proviene da un complesso e variegato iter filosofico
che, nel tentativo di rivedere l’eredità teorica del marxismo
critico della Scuola di Francoforte, lo ha portato ad incontrare in un
confronto serrato differenti tradizioni di pensiero e aree disciplinari
( 1 ) Considerando naturalmente come ormai superata la ‘vecchia’ separazione
tra ‘analitici e continentali’ (separazione che entrambi in prima linea hanno cercato
con buon successo di colmare).

266
PIETRO SALIS
quali il positivismo e il pensiero dialettico, l’ermeneutica e la psicanalisi,
il pragmatismo e la filosofia analitica. Questo incontro di tradizioni
lo ha condotto a mettere in questione la posizione di Marx
(riferimento essenziale per i francofortesi) finendo con l’individuare
un’altra dimensione categoriale (oltre ai concetti di lavoro e produzione)
al pari determinante nell’interpretazione della società e dei
suoi mutamenti ai fini di una teoria critica: la dimensione relativa
agli scambi comunicativi che determinano la riproduzione simbolica
della società nelle sue varie forme d’interazione. Il riconoscimento
del carattere bidimensionale dello sviluppo della società (dove è
bene sottolineare che si muovono due differenti e per Habermas
concorrenziali ma legittime forme di agire razionale – uno strategico
l’altro comunicativo) implica anche il riconoscimento di un’altra
forma di alienazione relativa alla dimensione discorsiva e linguistica:
la comunicazione distorta ideologicamente dai rapporti di potere e
da imperativi tecnici in grado di falsare la spontaneità delle coscienze
politiche, ovvero una sistematica evasione di quello scambio ‘alla
pari’ di argomentazioni e premesse condivise che può conferire, nella
sfera pubblica, validità e legittimità a opzioni universali, e quindi
sottratte al gioco di interessi privati ( 2 ).
Richard Rorty proviene invece da un percorso intellettuale che cerca
di porsi come via media tra le intuizioni – antidualiste in epistemologia
e antidivisioniste in etica – dei pragmatisti classici e le migliori –
a suo avviso – tesi avanzate in un secolo di filosofia linguistica (con
particolare riguardo per il secondo Wittgenstein, Sellars, Quine, Putnam
e Davidson) in una lettura a stretto contatto con la nuova filosofia
della scienza (Feyerabend, Kuhn, Hanson e Toulmin) emergente
nel clima intellettuale in cui si situa la prima produzione rortiana. Il
risultato di questo percorso è notoriamente il decentramento del ruolo
dell’epistemologia nella filosofia contemporanea, posizione cui Rorty
arriva passando dalle critiche alla ‘concezione standard’ del principio
di verificazione degli anni sessanta e settanta, all’antifondazionalismo
radicale di Sellars, Quine e Wittgenstein con i suoi esiti teorici radicalmente
contestualisti. In questo quadro si situa ‘l’apertura all’ermeneutica’
e alla tradizione continentale come forse il maggiore merito
culturale, al limite il meno discusso, delle prospettive rortiane ( 3 ).
( 2 ) Per una ricostruzione globale e sintetica dell’iter biografico e filosofico di
Habermas si veda il recente lavoro di S. PETRUCCIANI, Introduzione ad Habermas,
Laterza, Roma-Bari 2000.
( 3 ) Relativamente al percorso filosofico, accademico e biografico di Rorty si vedano
F. RESTAINO, Filosofia e post-filosofia in America. Rorty, Bernstein e McIntyre,

Rorty e Habermas: un confronto sulla ragione comunicativa
In questa sede prenderò in esame alcuni temi privilegiati e ‘caldi’
del dibattito in questione, cercando di analizzare le prospettive anche
nei termini in cui i nostri autori si ‘leggono’ reciprocamente. I
temi centrali di questo lavoro ruotano intorno alle affinità e divergenze
che il riconoscimento del carattere comunicativo della razionalità
genera nelle rispettive opzioni. Un confronto delle prospettive
epistemologiche implicate è necessario per individuare la differenza
presente nel modo in cui i nostri autori concepiscono e spiegano la
comunicazione; ma soprattutto fa emergere il vero nodo in questione
delineando il problema della naturalizzazione della ragione e dell’epistemologia
come autentica impasse tra le prospettive in esame.
1. Razionalità e comunicazione. – Il tema della razionalità comunicativa
è uno tra i più innovativi della filosofia novecentesca, carico di
palesi debiti nei confronti della tradizione analitica in particolare e
della filosofia del linguaggio in generale, senza dimenticare ad ogni
modo i contributi della tradizione ermeneutica, dello strutturalismo
e del post-strutturalismo. La portata di molte considerazioni elaborate
in questi ambiti di pensiero ha avuto un impatto molto forte sul
modo di concepire la razionalità.
In primo luogo l’emergere della natura sociale del linguaggio ha
frantumato l’idea di una ragione centrata nel soggetto, di per sé costituita
da un set di forme a priori. Il soggetto, in quanto tale, non definisce
il campo della razionalità (impossibilità del solipsismo, impossibilità
del linguaggio privato, impossibilità di resoconti in prima persona
degli ‘stati interni’ prescindendo da forme di vita e quindi modi
consolidati di parlare e agire) e nemmeno è, separatamente dalle dinamiche
dell’interazione sociale, dotato di regole epistemiche, comportamentali
e linguistiche proprie. La razionalità non è di per sé una
proprietà della ‘mente’ (non sono di questo parere molti sostenitori
delle teorie di Chomsky internamente alle scienze cognitive), ma,
pragmaticamente, è una proprietà delle forme del nostro agire.
In secondo luogo la razionalità si configura come caratteristica
del discorso, dell’azione e più in generale degli usi del linguaggio. È
l’uso del linguaggio che ci rende razionali. Il problema della razionalità
si è spostato da un problema di categorie dell’intelletto ad un
problema di comunicazione linguistica e pratica sociale. Come ve-
Angeli, Milano 1990; e D.L. HALL, Richard Rorty. Prophet and poet of the new
pragmatism, State of New York Press, Albany 1994.
267

268
PIETRO SALIS
dremo è a partire da questi presupposti comuni che le prospettive
sulla razionalità si divaricano, talvolta anche in maniera radicale.
La prima differenza rilevante per ciò che riguarda i profili che
può generare il passaggio ad un paradigma comunicativo della razionalità
è una differenza importante nello stretto ambito del funzionamento
effettivo della comunicazione. Per Habermas la comunicazione
è sempre, per sua natura, legata al raggiungimento della mutua
comprensione e quindi è orientata verso l’intesa. La comunicazione,
in quest’accezione, è caratteristica della dimensione intersoggettiva
di una ‘sfera pubblica’ dove il discorso deve conseguire un consenso
razionalmente motivato e ottenere risultati cooperativamente validi.
La stessa sfera degli interessi privati, internamente alla sfera pubblica,
è fortemente condizionata e guidata verso una maggiore universalità
dall’elevato numero di interessi presenti che devono mediarsi
con l’interesse di un qualsiasi partecipante al dialogo.
Rorty è ugualmente convinto che lo scopo della comunicazione,
in qualsiasi ambito, sia il raggiungimento di un accordo intersoggettivo,
ma è al pari scettico sull’universalismo di Habermas. Per Rorty
il contesto culturale – l’insieme di credenze condivise – limita le pretese
di universalità di ciò che viene affermato nella sfera pubblica, e
la validità delle premesse al dialogo e delle argomentazioni è condizionata
non-universalisticamente in questa maniera.
La seconda differenza rilevante relativamente ai problemi che può
generare la svolta comunicativa della razionalità è quello per cui
Rorty, optando con decisione per una naturalizzazione della ragione,
nega validità alle nozioni trascendenti il contesto giustificatorio
come verità, incondizionatezza e universalità. Questo punto è dovuto
principalmente al rifiuto netto del carattere metafisico dell’obiettivo
dell’indagine: là fuori non vi è alcuna verità in attesa di essere
scoperta, così come, in una prospettiva radicalmente fallibilista, ciò
che consideriamo saldo e fermo nel nostro insieme di credenze, lungi
dall’essere considerato per ciò vero, presta, almeno in linea di
principio, il fianco a possibili obiezioni future.
Rorty esordisce palesando la comunanza di intenti con Habermas
relativamente al “bisogno di socializzare e linguisticizzare la nozione
di ‘ragione’ considerandola comunicativa”(R. RORTY, Universality
and Truth, in BRANDOM, cit., p. 2). A dispetto di questa convergenza
Rorty evidenzia come la pretesa di Habermas per cui “un momento
di incondizionatezza viene costruito nei processi di mutua
comprensione” vada abbandonata compiendo (a suo avviso) la svolta
linguistica fino in fondo naturalizzando la ragione (ibid.). Una caratteristica
della naturalizzazione particolarmente rilevante è quella

Rorty e Habermas: un confronto sulla ragione comunicativa
per cui la ragione si contraddistingue per la capacità di giustificare
dialogicamente le credenze piuttosto che per il riconoscimento della
loro eventuale verità ed universalità. Questa strategia è utile a Rorty
per ridimensionare l’importanza della nozione di verità nella comunicazione,
poiché, nel dare ragioni, ciò che viene effettivamente
compiuto non è altro che la giustificazione di una credenza tramite
il superamento delle obiezioni.
La sfera della comunicazione, anche prescindendo dalle difficoltà
che può generare in ambito epistemologico, è comunque la chiave di
volta del nuovo concetto di razionalità. Un nodo piuttosto controverso
si cela però dietro questo riconoscimento, un nodo che si genera
in primo luogo relativamente a questioni rigorosamente normative
(c’è un fine presupposto nella comunicazione razionale che la
trascende e la regola?), e in secondo luogo a questioni epistemologiche
(le credenze che si affermano in un dialogo razionale sono anche
vere o solamente giustificate?).
Questi interrogativi, dissolto il ‘sogno’ positivista di una divisione
forte tra fatti e valori, tendono ad intrecciarsi in trame spesso
complesse, di cui sia la posizione di Rorty che quella di Habermas
sono esempi eminenti ( 4 ), soprattutto a partire da comuni motivi antipositivisti.
Un segno tangibile della complessità di rimandi che i precedenti
interrogativi pongono è ad esempio il fatto che il tema della
naturalizzazione pone spesso questioni normative in ambito epistemologico:
è possibile un’epistemologia naturalizzata? Così come spesso la
filosofia morale e quella politica pongono questioni epistemologiche:
che grado di certezza siamo in grado di attribuire a determinate
norme?
Questa problematica, che in tale contesto è ridotta principalmente
a discussioni epistemologiche, trova comunque sia in Rorty che in
Habermas due autori che cercano in maniera originale di affrontare
tutte le questioni aperte con il passaggio al nuovo paradigma della
razionalità. Per Rorty è opportuno liberarsi del senso forte con cui
siamo soliti servirci della nozione di verità. Questo perché essa è una
nozione epistemica in maniera radicale, tende cioè a coincidere con
la giustificazione perché non la può trascendere. Nei termini di Rorty
essa è “l’irriconoscibile”, mentre nel contesto dell’indagine e del dia-
( 4 ) Relativamente alla dicotomia fatti/valori è importante ricordare l’apporto
di Hilary Putnam che con il suo celebre Reason, Truth and History, Cambridge
UP, Cambridge 1981 (trad. it. Ragione, Verità e Storia, Il Saggiatore, Milano
1985) ha contribuito in maniera decisiva al ripensamento di alcune pregiudiziali
positiviste (si vedano in particolare i capp. IV e IX).
269

270
PIETRO SALIS
logo solo la giustificazione è “riconoscibile” (RORTY, cit., p. 2). La
nozione di giustificazione, rispetto a tutta una tradizione relativa a
quella di verità, non pretende oltrepassare i limiti (culturali per Rorty)
del contesto giustificatorio, non mira ad alcuna indipendenza o trascendenza.
Come criterio decisivo per il funzionamento della pratica
giustificatoria, Rorty pone il semplice superamento delle obiezioni,
anche se poi, in nome di un fallibilismo radicale, sostiene un discrimine
tra ciò che supera le obiezioni e ciò che è vero, un discrimine
che serve ad eliminare la verità come obiettivo dell’indagine. Dietro
questa strategia di Rorty vi è un impegno verso un’integrale riforma
della filosofia in particolare e della cultura in generale, una riforma
volta a rendere totale responsabilità agli umani e al contempo a delegittimare
quelle che per lui sono forme deresponsabilizzanti di autorità
non-umana, ovvero la Verità, la Realtà e l’Universalità, per Rorty
dei surrogati filosofici dell’autorità divina.
L’attacco alla filosofia centrata sull’epistemologia tende ad impegnarci
in un dialogo continuo e idealmente senza fine, in cui siamo
responsabili per noi su ciò che in tale dialogo viene giustificato, e la
libertà e l’ampiezza di questo dialogo costituiscono per Rorty l’autentico
compimento della definizione kantiana di illuminismo, l’accoglimento
totale e laico della nostra responsabilità, anche intellettuale,
come maturità alla quale la nostra cultura deve aprirsi ( 5 ).
Habermas legge questa prospettiva rortiana come scaturente dall’abbandonare
“l’intuizione realista, cui il mentalismo voleva rendere
giustizia con il suo Specchio della Natura e la corrispondenza tra la
rappresentazione e l’oggetto rappresentato”(J. HABERMAS, Richard
Rorty’s pragmatic turn, in BRANDOM, cit., p. 36) ( 6 ). Di seguito ha
buon gioco nel mostrare come sia a partire da queste assunzioni che
si generino peculiari affinità e divergenze in merito al tema della razionalità
comunicativa. Subito riconosce come la svolta comunicativa
operata da Rorty venga elaborata correttamente con lo stabilire
che “l’autorità epistemica della prima persona singolare, che ispeziona
i suoi stati interiori, sia rimpiazzata dalla prima persona plurale,
dal ‘noi’ della comunità comunicativa di fronte alla quale ogni persona
giustifica i suoi punti di vista” (ibid.). Di contro a questo rico-
( 5 ) Il tema della responsabilità legato al decentramento dell’epistemologia è
ben sviluppato da Robert Brandom (che è stato allievo di Rorty a Princeton) nella
sua introduzione al volume precedentemente citato, in particolare pp. X-XI.
( 6 ) Questo saggio di Habermas è stato pubblicato di recente in edizione italiana
nel volume Verità e giustificazione, Laterza, Roma-Bari, 2001, con il titolo Verità
e giustificazione. Sulla svolta pragmatica di Richard Rorty, pp. 225-63.

Rorty e Habermas: un confronto sulla ragione comunicativa
noscimento Habermas evidenzia comunque che è solo “l’interpretazione
empirista di questa nuova autorità che porta Rorty a comparare
‘la conoscenza’ con ciò che è accettato come ‘razionale’ in accordo
agli standard delle nostre rispettive comunità” (ibid.). Questo rilievo
di Habermas ha il merito di riuscire a mettere in risalto come ciò
che è razionale per Rorty sia tale per fattori culturali interni a una
particolare comunità: in Rorty la razionalità si configura come condizionata
dalle credenze condivise di una cultura, e procede quindi
massimizzando la coerenza di tale insieme di credenze, al fine di superare
obiezioni e giustificare assunzioni di qualsiasi tipo che possono
intrecciarsi nella nostra comunità. Rorty svuota il concetto di ragione
dalle sue caratteristiche formali e processuali, finendo per subordinarlo
alla sfera delle credenze, di cui invece dovrebbe essere il discrimine
normativo. Sono le credenze condivise che regolano il processo
di razionalizzazione. Questo peso del sistema di credenze condivise
nei confronti della razionalità come ‘tribunale’ di validità di
credenze e opzioni è senza dubbio la più chiara espressione dell’antiuniversalismo
di Rorty. Habermas, che ha esaminato con precisione i
differenti modi della razionalizzazione sociale, isolando differenti dimensioni
della razionalità relative a differenti sfere cognitive, sa bene
che postulare la razionalità internamente alla sfera delle credenze
condivise, come fa Rorty, non solo disconosce queste tensioni tra diverse
forme di razionalità, ma punta decisamente ad appiattire la razionalità
sulle pratiche di giustificazione delle credenze.
Gli argomenti cui si appella Rorty sono invece di natura epistemologica,
e in particolare legati al tema della verità. L’uso cautelativo
(cautionary) di ‘vero’, per Rorty una delle sue tre determinazioni
epistemiche principali – insieme all’uso elogiativo (endorsing) e a
quello de-citazionale (disquotational) ( 7 ) – non solo implica uno
‘scarto perenne’ tra le nostre credenze ed eventuali attribuzioni di
verità in senso metafisico, ma offre anche uno strumento concettuale
in grado di portare all’estremo il carattere contestuale delle asserzioni
nei contesti giustificatori. Per Rorty questo uso di vero “è utilizzato
per mettere in contrasto uditori più o meno informati, quelli
passati con quelli futuri” rappresentando un “punto di contrasto tra
( 7 ) Cfr. Pragmatism, Davidson and Truth, in Philosophical papers vol. 1, Cambridge
UP, Cambridge 1991; trad. it. Il pragmatismo, Davidson e la verità, in
Scritti filosofici I, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 171. Cfr. anche Putnam and the Relativistic
Menace, in ‘The Journal of Philosophy’, 90, 1993, pp. 443-61; trad. it.
Putnam e la minaccia relativistica, in Il Neopragmatismo, a cura di G. Marchetti,
La Nuova Italia, Firenze 1999, pp. 89-113, in particolare p. 111.
271

272
PIETRO SALIS
verità e giustificazione”, quello di ricordare ad ognuno che “possono
esservi obiezioni […] che non sono ancora venute in mente a nessuno”
(R. RORTY, Universality and Truth, cit., p. 4). Lo scarto tra verità
e giustificazione, così come si evidenzia mediante l’uso cautelativo dei
predicati di verità, è necessariamente legato ad un’istanza di trascendenza
del contesto giustificatorio. Rorty, che ha la palese intenzione di
dissolvere tutte le nozioni che non servano a spiegare le nostre attività
in termini di comportamento, linguistico e non, evidenzia che, mentre
la pratica sociale del dare ragioni e quindi del giustificare assunzioni
è sempre stata descritta come mirata al conseguimento della verità,
sarebbe opportuno sostituire la verità (in questo caso una sorta di giustificazione
ultima) con la mera giustificazione (ciò che con il perseguimento
della verità al suo meglio si è riusciti ad ottenere). Questo equivale
ad un rifiuto netto della pretesa di trascendere i contesti culturali
che fanno da sfondo alle nostre conversazioni, e da presupposto alle
nostre pratiche di giustificazione delle credenze.
Ciò che Habermas considera azzardato nel contestualismo di
Rorty è che un’importante aspetto, “la nozione di validità incondizionata
– è spazzato sotto il tappeto se la verità di una proposizione
è concepita come coerenza con altre proposizioni o come asseribilità
garantita” (J. HABERMAS, Richard Rorty’s pragmatic turn, cit., p. 40).
A questa rivendicazione Habermas accompagna una sua osservazione
sull’uso cautelativo dei predicati di verità per cui essi mostrerebbero
che “con la verità delle proposizioni, noi connettiamo una pretesa
incondizionata che punta al di là di tutta l’evidenza fruibile per
noi” mentre d’altro canto “l’evidenza che consideriamo come sufficiente
nei nostri contesti di giustificazione ci permette di sollevare
pretese di verità” facendo sì che i due aspetti mostrino un’intima
connessione tra verità e giustificazione che però evade la loro possibile
identificazione (ibid.). Habermas trae questa conclusione dall’analisi
della svolta linguistica che per lui conferma l’intuizione fenomenologica
di Husserl per la quale siamo già sempre ‘in contatto’
con le cose (ibid.). Questa considerazione, negli intenti di Habermas,
rimarca l’intimo legame tra verità e giustificazione, che pertanto
“non è una questione epistemologica”; infatti tale relazione “spiega
il perché possiamo, alla luce dell’evidenza disponibile, sollevare
una pretesa incondizionata di verità che mira al di là di ciò che è
giustificato” (ivi, p. 41). La nozione di verità quindi assume per Habermas
il ruolo di presupposto della giustificazione razionale in
quanto tale; per Habermas ha senso la domanda: giustificato in base
a che? Ma differentemente da Rorty giudica insoddisfacente la risposta
relativa al nostro sistema di credenze condivise. In primo luogo

Rorty e Habermas: un confronto sulla ragione comunicativa
perché un contesto culturale è sempre legato a evidenze correlate al
nostro mondo e al nostro ambiente che hanno a che fare con la sfera
dell’azione e quindi della verità in quanto ‘certezza comportamentale’
(behavioural certainty) ( 8 ). In secondo luogo, la verità è una nozione
‘bifronte’ (Janus faced), che, in veste di asseribilità garantita
(warranted assertibility) è caratteristica dei contesti discorsivi ( 9 ); è
quindi difficile per Rorty appiattire verso la giustificazione tout-court
questi differenti ruoli della nozione di verità (ivi, p. 44) ( 10 ). Per Habermas
la concezione della verità di Rorty (o, meglio, la sua ‘eliminazione’)
è incapace di mediare tra questi ruoli differenti, a partire
dalla pretesa di ridurre epistemologia e filosofia pratica come interne
ad un medesimo contesto giustificatorio conversazionale legato al
semplice superamento delle obiezioni. Rorty cerca infatti di ridurre
un aspetto della nozione di verità all’altro, di comprendere entrambi
nel regno del discorso; la giustificazione contestuale delle credenze
diventa quindi normativa anche nei contesti d’azione.
273
( 8 ) La verità come certezza comportamentale si caratterizza, in quell’ambito –
della vita e della ricerca – che Habermas chiama ‘mondo della vita’, come presupposizione
di una totalità di oggetti e significati dati, e soprattutto recepiti in modo
non problematico poiché appartenenti ad un mondo che si presume oggettivo,
poiché, in questo contesto, ‘saltano via’ i problemi metafisici ai fini dell’azione; la
definizione di Habermas è la seguente: “Nella rete delle pratiche istituzionalizzate,
pretese di validità sollevate implicitamente che sono state accettate contro un vasto
retroterra di convenzioni intersoggettivamente condivise costituiscono i binari
lungo i quali corrono le certezze comportamentali.” (J. HABERMAS, cit., p. 43).
( 9 ) La verità intesa invece come asseribilità garantita contraddistingue le attribuzioni
di verità in situazioni discorsive – la sua validità è cioè sottoposta alle argomentazioni
che si presentano nel dialogo; così Habermas: “Nel movimento dall’azione
al discorso razionale, ciò che inizialmente è ritenuto vero in maniera non
problematica (naively hold-to-be-true) viene liberato dal metodo della certezza
comportamentale e assume la forma di una proposizione ipotetica la cui validità è
aperta per la durata del discorso.” (J. HABERMAS, cit., p. 43).
( 10 ) Per quanto attiene al mutamento di prospettiva riguardante il tema della
verità in Habermas, Raffaela Giovagnoli ha individuato punti di continuità tra le
due prospettive e descrive la seconda (pragmatica) come l’approfondirsi della precedente
(epistemica) in relazione ‘critica’ all’evoluzione contestualista dell’epistemologia
post-analitica, e quindi ai lavori di Rorty e Michael Williams (Unnatural
Doubts, Basil Blackwell, Oxford 1991). Il punto di partenza di Habermas rimane
ad ogni modo immutato per entrambe le prospettive: il regno dell’azione è anche
il regno della certezza, mentre quello del discorso è il regno delle ragioni, poiché
offre un concetto di verità relativo al farsi discorso e tema dei disaccordi comunicativi
o performativi che rendono problematiche le certezze del mondo della vita.
Cfr. R. GIOVAGNOLI, Habermas: agire comunicativo e Lebenswelt, Carocci Editore,
Roma 2000, in particolare pp. 86-93 e 169-78.

274
PIETRO SALIS
Per Rorty la questione si presenta comunque in termini differenti,
in primo luogo perché la razionalità dell’agire è legata ai modi in
cui ci descriviamo e a quelli in cui descriviamo il nostro comportamento
e i suoi fini. In secondo luogo l’unico supporto normativo
della razionalità diventa l’apparato di autodescrizioni (nei termini di
Rorty i nostri vocabolari) di cui disponiamo per i nostri fini e quelli
che ci procureremo per migliorare le nostre pratiche. Queste assunzioni
hanno di certo il merito, dopo decenni di filosofia analitica
‘barricata’ nei dipartimenti ( 11 ), di rimettere nelle mani dei filosofi
statunitensi problemi della prassi attraverso problematiche linguistiche
ed epistemologiche. Il problema però è un altro: se siamo normativamente
indotti esclusivamente ad assolvere i nostri fini, gli scopi
pragmatici del nostro agire tendono a dissolvere gli ideali normativi
che la tradizione illuminista ci ha lasciato in eredità. Quando
Rorty ci invita ad abbandonare la nozione di verità, poiché inutile e
deresponsabilizzante, egli ci sta anche chiedendo di subordinare all’adempimento
dei nostri compiti il giudizio sulla bontà di tali compiti
(che sono quindi spesso culturalmente dati).
In primis è bene rilevare che la razionalità non è identificabile
tout-court con lo strumentale assolvimento di compiti ( 12 ). Ciò significa
che la ragione non serve esclusivamente per il superamento delle
obiezioni, ma anche che gli stessi scopi dell’impresa razionale, in
qualsiasi campo, possono essere razionalmente rivisti. Se infatti la razionalità
è solo articolazione interna all’assolvimento di determinati
scopi, e se tali scopi costituiscono ‘lo sfondo’ su cui si dispiegano le
varie forme di razionalizzazione, allora siamo tutti ‘prigionieri’ heideggerianamente
dei nostri orizzonti di senso, e non sono molto sicuro
di quanto senso potrebbe avere il parlare di razionalità in tale
prospettiva antiumanista.
Rorty ad ogni modo sviluppa ulteriormente la sua linea attaccando
la pretesa per cui ‘tutti gli esseri umani desiderano la verità’ come
presupposto di un universalismo a lui di certo inviso (R. RORTY,
Universality and Truth, cit., p. 4), in quanto cela un’ambigua commistione
di due pretese differenti, una per cui “tutti […] desiderano
( 11 ) Cfr. F. RESTAINO, Filosofia e post-filosofia in America. Rorty, Bernstein e
McIntyre, Angeli, Milano 1990, in particolare pp. 109-120.
( 12 ) “Il fatto che non si possa ridurre la ragione stessa a un qualche insieme
specifico di criteri dati in modo definitivo non comporta infatti la totale esclusione
di un’accezione anche contenutistica e sostantiva del concetto di razionalità”;
Cfr. R. LANFREDINI, Teorie della razionalità e conoscenza scientifica, in ‘Paradigmi’,
n. 46, 1998, p. 64.

Rorty e Habermas: un confronto sulla ragione comunicativa
giustificare le loro credenze a qualcuno, sebbene non necessariamente
a tutti” e quella invece per cui “tutti vogliono che le loro credenze
siano vere”: per Rorty la prima pretesa è inconfutabile, la seconda al
limite ‘dubbia’ (ibid.).
Svolte queste considerazioni Rorty prende di mira il fallibilismo
di Habermas e prova a metterlo in contrasto con la sua concezione
della verità. Le conseguenze sono che “in primo luogo, un mero fallibilismo
non è ciò che vogliono i filosofi che sperano di rendere la
nozione di verità rilevante” e che “in secondo luogo, tale fallibilismo
non è […] una caratteristica di tutti gli esseri umani” (ibid.). Per
Rorty una mentalità fallibilista è una conquista culturale dell’occidente
e non un’eredità del genere umano. Un’ulteriore conseguenza
è data dal contrasto tra fallibilismo e scetticismo: questo perché il
fallibilismo non ha niente a che fare con la ricerca di incondizionatezza
e universalità, mentre “lo scetticismo si” (ibid.). Secondo Rorty
un fallibilismo coerente è solo uno che non mira ad ottenere più della
contingente giustificazione delle credenze.
Rorty pone anche un problema più importante: la possibilità di
trascendere i contesti culturali e di attribuire un ruolo normativo a
tale trascendenza. L’idea controversa da cui parte è quella di una
convergenza dell’indagine sull’unica verità, risalente a Peirce e sostenuta
da Putnam, da Apel e (secondo Rorty) da Habermas. Rorty perentoriamente
evidenzia il loro punto di vista per cui “l’idea di convergenza
è costituita dai presupposti del discorso” e per cui “la ragione
non può essere naturalizzata” poiché “la ragione è normativa e le
norme non possono essere naturalizzate” (R. RORTY, Universality
and Truth, cit., p. 6) ( 13 ). Per Rorty, poiché questa strategia ha il merito
di fare spazio al normativo senza l’antico obbligo “di corrispondere
la natura intrinseca dell’Unica Realtà”, essa ha il vantaggio di accantonare
alcune questioni metaetiche relative “all’esistenza di una
realtà morale” cui far corrispondere i nostri giudizi (ibid.). Ma per
Rorty siamo ancora lontani dall’obiettivo di trovare basi normative
universali per la comunicazione, e tanto meno trascendenti la pratica
giustificatoria.
Rorty attacca Habermas anche, e in modo ancor più diretto, relativamente
alle pretese di universalità delle asserzioni in contesti comunicativi.
Dire che le pretese di validità hanno “un momento tra-
( 13 ) Queste ultime considerazioni citate da Rorty sono riprese dal celebre saggio
antinaturalista (e soprattutto anti-quineano) di H. PUTNAM, Why reason can’t
be naturalized, in Realism and reason, Philosophical papers vol. 3, Cambridge,
Cambridge UP, 1983.
275

276
PIETRO SALIS
scendente di validità universale [che] fa scoppiare in pezzi ogni provincialità”
è per Rorty ambiguo e in tensione tra due differenti opzioni:
quella di “difendere le […] pretese di fronte ad altri uditori rispetto
a quelli cui […] [ci si rivolge] correntemente” e quella di “far
scoppiare in pezzi la provincialità”, poiché ciò equivale a far correre
assieme una ‘lodevole disposizione’ con una ‘vuota vanteria’ (ibid.).
Per Rorty, Habermas si viene a trovare nella spiacevole situazione di
non poter difendere ciò più di quanto non lo sia “il campione del
villaggio nel pretendere di poter battere il campione del mondo”
(ibid.). L’unica universalità possibile è da costruire con l’indefinita
espansione del dialogo, infatti “l’accresciuta comunicazione tra comunità
in precedenza esclusiviste prodotta da […] contingenti sviluppi
umani può gradualmente produrre universalità”; è invece difficile
vedere come si possa riconoscere “un’universalità esistente in
precedenza” (ivi, p. 17).
Habermas è ad ogni modo intransigente nel rivendicare che queste
assunzioni di Rorty dipendono da una descrizione del ‘mondo
della vita’ elaborata sulla scorta del modello giustificatorio-conversazionale
di razionalità. Tale modello opera un livellamento categoriale
che rende impossibile distinguere il ruolo ‘bifronte’ della nozione
di verità differente, ma non privo di legami e relazioni, a seconda di
contesti d’azione e discorsivi. Infatti “nel mondo della vita gli attori
dipendono dalla certezza comportamentale” e quindi “devono avere
a che fare con un mondo che si presume oggettivo” e perciò “operano
con la distinzione tra credere e sapere” (J. HABERMAS, Richard
Rorty’s pragmatic turn, cit., p. 49). Queste considerazioni conducono
a sostenere che vi è “una necessità pratica di poter contare su ciò che
riteniamo vero (hold-to-be-true) incondizionatamente” (ibid.). Per
Habermas solo l’intreccio dei differenti ruoli del concetto di verità
nei diversi contesti dell’azione e del discorso “può spiegare […] perché
una giustificazione di successo in un contesto locale punti in favore
della verità indipendente dal contesto della credenza giustificata”
(ivi, p. 48). Per tutte queste ragioni “il processo giustificatorio
può essere guidato da una nozione di verità che trascende la giustificazione
sebbene sia sempre già operativamente effettiva nel regno dell’azione”
(ivi, p. 49). Secondo Habermas, poiché Rorty non negherebbe
una connessione tra questi due regni (più che negarla la trasforma
infatti in una ‘sintesi conversazionale’), egli “sarebbe anche
d’accordo con lo stabilire una connessione tra le due prospettive” tra
quella dei partecipanti nell’argomentare “che cercano di convincersi
reciprocamente della correttezza delle loro interpretazioni” e quella
dei soggetti d’azione “immersi nei loro giochi linguistici e pratiche”

Rorty e Habermas: un confronto sulla ragione comunicativa
(ibid.). Per Habermas Rorty dimostra una certa incoerenza tra la sua
propensione ad eliminare il dilemma scettico, e il suo rifiuto della
nozione di verità relativa ad un tipo di realismo del senso comune
(everyday realism) privo di puntelli metafisici e relativo alla semplice
certezza comportamentale nei contesti d’azione (ibid.). Il modello
giustificatorio-conversazionale di razionalità propugnato da Rorty
ha per Habermas la caratteristica di eliminare queste distinzioni categoriali
a causa di un’istanza antirealista unita ad una antiscettica.
Questa strategia di Rorty per Habermas non fa altro che creare una
“miscela di una nell’altra di queste prospettive”, una sintesi che crea
più problemi di quanti risolva (ibid.).
Rorty è quindi costretto a proseguire per un’altra radicale opzione
del suo pensiero: la naturalizzazione della ragione comunicativa
come ricerca di una via differente per operare la sua sintesi conversazionale.
Una via che giustifichi la pratica giustificatoria ad un livello
di comprensione superiore: una spiegazione naturalistica di tipo
darwiniano del comportamento verbale degli esseri umani come mirato
ad un progressivo adattamento della specie all’ambiente mediante
l’acquisizione di nuove e più efficienti credenze. L’aspetto più
originale di tale naturalismo è l’identificazione della pratica giustificatoria
come ‘selezione naturale’ delle credenze migliori (meglio giustificate
in base ai nostri interessi).
2. Le regole della comunicazione tra naturalizzazione e ideali regolativi.
– La relazione tra verità e comunicazione da un punto di vista
normativo si pone come discrimine netto tra le prospettive di Rorty
e Habermas. Questa divaricazione forte, internamente al tema della
razionalità comunicativa, pone una questione cruciale circa la natura
dell’ideale effettivamente presupposto nelle nostre conversazioni. Da
un lato abbiamo la pretesa di Habermas per cui quest’ideale è la verità
come ‘argomento migliore’ in una situazione comunicativa ideale,
ovvero libera dal dominio. Dall’altra parte Rorty rinuncia esplicitamente
ad identificare tale ideale con la verità, abbracciando un
contestualismo dei vocabolari che ci lascia in mano niente più che
differenti comunità di giustificazione, dissolvendo la nozione di verità
nelle sue stesse componenti epistemiche.
Habermas, che in questo saggio ha abbandonato la nozione epistemica
di verità, si è pronunciato in favore di un “realismo pragmatico”
per cui la presupposizione di un mondo oggettivo oltrepassa le
difficoltà scettiche tramite la tematizzazione, vista in precedenza,
della nozione di verità come certezza comportamentale. Poiché co-
277

278
PIETRO SALIS
munque, sia la sua attuale prospettiva sia quella epistemica sostenuta
in passato, sono riconducibili, come quella di Rorty, alla concezione
di verità di Peirce, è necessario sondare consistenza e limiti di tale
eredità. Sono tre le tesi che sotto questo profilo dominano la discussione,
conducendola ad una situazione di impasse:
1. Abbandonate le vie dell’intuizione e dell’autocoscienza, l’epistemologia
ha a che vedere con le inferenze segniche in una ‘comunità di
ricerca’, inferenze che, nel lungo termine, costituiscono il continuo
determinarsi della realtà (in un senso non idealistico poiché il linguaggio
e la semiosi hanno natura intrinsecamente sociale e i loro
contenuti sono pubblici). (Writings of Charles Sanders Peirce, Indiana
UP, Bloomington, 5 voll., 1982-93, 2:213; 2:440) ( 14 ).
2. L’attività umana, nel senso dell’indagine, è segnata da una convergenza
(in the long run) verso la verità; la stessa verità diviene kantianamente
il concetto limite, l’ideale regolativo che la guida e giustifica
(pur svuotata delle sue caratteristiche noumeniche). (Peirce. Semiotica.
I fondamenti della semiotica cognitiva, a cura di M.A. Bonfanini,
L. Grassi, R. Grazia, Einaudi, Torino 1980, p. 81).
3. Le credenze non sono più cartesianamente le immagini delle cose,
e in generale materia di corrispondenza, quanto abiti d’azione per
fronteggiare con successo l’ambiente.(Collected papers of Charles
Sanders Peirce, ed. by C. Hartshorne and P. Weiss, Belknap Press
of Harvard University Press, Cambridge 1931-5, 5.12) ( 15 ).
Analizzando le posizioni di Habermas e Rorty in relazione a queste
tre tesi, risulta abbastanza evidente come entrambi sostengano la
tesi (1) ( 16 ), Habermas insieme a una versione ‘morbida’ di (2) e
( 14 ) I saggi Some Consequences of Four Incapacities e Questions Concerning Certain
Faculties Claimed for Man – Alcune conseguenze di quattro incapacità e Questioni
concernenti alcune pretese facoltà umane – compaiono in traduzione italiana
nel volume C.S. PEIRCE, Scritti di filosofia, a cura di W.J. Callaghan, Cappelli, Bologna
1978, pp. 91-136.
( 15 ) Nella prospettiva di Peirce la tesi (2) e la tesi (3) sono legate e tenute assieme
dall’idea che l’evoluzione culturale, in quanto convergente verso la verità, sia
costituita da teorie che si susseguono approssimandosi a quelle vere finendo con il
costituire ‘alla fine della ricerca’ il concetto di realtà; cfr. R. FABBRICHESI LEO, Introduzione
a Peirce, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 33.
( 16 ) Il cambiamento di prospettiva da parte di Habermas, relativamente al
tema della verità, implica che la sua condivisione della tesi (1) di Peirce sia relativa
solo ai contesti discorsivi sotto la deweyana denominazione di asseribilità garantita;
ciò implica ulteriormente un rafforzamento della condivisione della tesi (2),
che rispetto alla prospettiva epistemica sostenuta in precedenza, guadagna, principalmente
nei contesti d’azione una forte presupposizione di un mondo oggettivo

Rorty e Habermas: un confronto sulla ragione comunicativa
Rorty con la versione ‘forte’ di (3). Questa è senza dubbio una delle
differenze più marcate in relazione ai temi epistemologici e al tema
della razionalità: entrambi si fermano alla tensione in cui si muove la
posizione di Peirce, una posizione che dopo aver imboccato il sentiero
semiotico e inferenziale per la razionalità comunicativa rimane
impigliata da un lato verso istanze naturaliste (3) e dall’altro verso il
carattere normativo dell’indagine (2). Arrivati a questa impasse Habermas
e Rorty procedono per traiettorie separate.
Rorty estremizza la tesi (3) estendendo il carattere adattivo delle
credenze a teorie e vocabolari, negando in più la tesi per cui l’evoluzione
delle credenze costituisca un’approssimazione, nel lungo periodo,
a quelle vere (e di qui anche (2), la tesi della convergenza); Habermas
opta invece per l’abbandono di (3) e per un indebolimento
di (2), rinunciando all’idea di convergenza nella versione metafisica,
e slittando dal piano dell’idealizzazione peirceana della verità come
obiettivo dell’indagine ad un piano procedurale per cui vengono
idealizzate le proprietà formali e processuali del discorso.
Le opzioni in esame rimandano curiosamente a eredità culturali e
filosofiche (e quindi anche a ‘tradizioni interpretative’) abbastanza
palesi: Rorty sceglie la via di Dewey verso un pragmatismo naturalista
con gli opportuni aggiustamenti dettati dalla svolta linguistica;
Habermas segue gli ideali regolativi alla maniera di Kant e avverte la
necessità di basi normative alla maniera francofortese.
Il dibattito odierno si situa in questa divaricazione di prospettive
spesso descritta come divisione tra kantiani ed hegeliani, che Rorty
presenta anche come divisione tra peirceani e deweyani. Autori
come Apel, Putnam e Habermas sarebbero i classici ‘kantiani’ o
‘peirceani’, mentre autori come Rorty, Brandom e Davidson sarebbero
invece tra i più illustri ‘hegeliani’ e ‘deweyani’. I primi tengono
fermo il carattere normativo dell’idealizzare proprietà e/o obiettivi
dei processi epistemici e discorsivi; i secondi sono naturalisti e contestualisti
(per naturalisti, in questo contesto, non si intendono coloro
che come Quine vogliono sostituire la psicologia all’epistemologia,
e neanche teorici di una ‘seconda natura’ culturale – di tipo
neo-aristotelico – divisa da una biologica come John McDowell, ma
di supporto all’idea di convergenza. È quindi la distinzione tra contesti d’azione
relativamente non problematici per quanto concerne la nozione di verità come certezza
che guida l’agire e contesti discorsivi che di per sé costituiscono la problematizzazione
del tema della verità con la loro apertura dialogico-argomentativa che
Habermas, pur non sostenendo più una concezione epistemica della verità, mantiene
in piedi le due tesi di Peirce su livelli però differenti.
279

280
PIETRO SALIS
coloro che spiegano il conoscere, il comprendere e l’intenzionalità in
termini olistici ed evolutivi in senso darwiniano).
Le norme per i naturalisti sono sempre interne all’istituzione di
un vocabolario e non ha quindi senso postularle come esterne e trascendenti
il contesto pragmatico e comunicativo in questione. Le tesi
‘forti’ dei naturalisti sono in questo caso il coerentismo, il contestualismo,
e, per Rorty e Brandom in particolare, l’antirappresentazionalismo
e il conseguente rifiuto dell’istanza scettica (naturalmente in
questo caso tale rifiuto è legato alla rinuncia del programma epistemologico
meglio noto come ricerca della certezza di matrice cartesiana
e alla tradizione fondazionalista ad essa legata).
Per i ‘kantiani’ è invece alquanto problematico porre le norme
come interne a sistemi culturali e concettuali: che cosa decide del
cambiamento di vocabolari se le norme sono interne e se non ve ne
sono di esterne a decidere in maniera ‘neutra’ l’adozione di particolari
punti di vista? Dov’è il supporto normativo in grado di farci da guida
quali che siano le nostre credenze e i nostri schemi concettuali?
Per rispondere a questi interrogativi è necessario delineare un
profilo della naturalizzazione della ragione di cui parla Rorty, cercando
di evidenziare il modo in cui si cerca di salvaguardare le nozioni
normative. Il problema del carattere, e del ruolo normativo di
alcuni concetti è ormai al centro di diverse discipline filosofiche dall’etica
alla filosofia politica, dalla filosofia del linguaggio a quella
della scienza con notevoli punti di tangenza e d’intersezone con le
scienze cognitive. La tendenza che oggi con insistenza muove verso
la ‘naturalizzazione’ dei processi cognitivi e in generale dell’epistemologia
(nelle due versioni che potremmo chiamare ‘scientista’ – le
scienze naturali [come la psicologia comportamentista per Quine]
sono in grado di spiegare la conoscenza e l’intenzionalità dall’analisi
del soggetto conoscente su diversi livelli [psicologico, neurofisiologico,
biologico…]; e ‘darwinista’ – la conoscenza e l’elaborazione teorica
possono venire descritte e spiegate in termini evolutivi di adattamento
all’ambiente) ha sollevato diverse polemiche da parte di coloro
che insistono sul carattere normativo della ragione ( 17 ).
Delle tendenze naturaliste è quella darwinista che ci interessa particolarmente,
poiché, se ricondotte, alla maniera di Rorty, a sistemi
( 17 ) Riguardo alla letteratura critica sul naturalismo edita in Italia, mi sono servito
in particolare del volume a cura di E. AGAZZI e N. VASSALLO, Introduzione al
naturalismo filosofico contemporaneo, Angeli, Milano 1998; del volume Naturalismo
e naturalizzazione, Mercurio, Vercelli 1999, a cura di Diego Marconi e del saggio
di N. VASSALLO, Epistemologie naturalizzate, in ‘Iride’ n. 30, 2000, pp. 259-79.

Rorty e Habermas: un confronto sulla ragione comunicativa
di riferimento culturali e concettuali, le norme hanno a che vedere
esclusivamente con la coerenza interna e con il compito di regolare e
sviluppare il funzionamento di tali sistemi ( 18 ). Questo modello di
naturalizzazione del normativo ha le sue ascendenze filosofiche nelle
opere dell’ultimo Wittgenstein (Ricerche filosofiche) e di Kuhn (La
struttura delle rivoluzioni scientifiche) soprattutto per ciò che riguarda
il rapporto tra norme e sistemi di riferimento. Wittgenstein si è
chiaramente espresso relativamente al carattere costitutivo delle regole
che seguiamo nelle nostre attività, perlomeno in tre sensi principali:
1) non vi è un gioco che non si giochi mediante regole; 2)
l’immagine onnipervasiva del linguaggio generata dall’olismo semantico
interpreta tutta l’attività umana come insieme di giochi regolati
che si sviluppano a partire da, o comunque in relazione con, la
nostra forma di vita; e 3) le regole dei giochi linguistici, seppur costitutive,
determinano l’articolazione normativa interna di ogni singolo
gioco. Il normativo per Wittgenstein era di carattere istituzionale,
sociale, interno a particolari giochi e per nulla trascendente la dimensione
prassiologica.
Su questa scorta Thomas Kuhn vedeva i ‘paradigmi’ come moduli
di ricerca ed elaborazione teorica (culturali e storici) consistenti in
un sistema concettuale di natura sia euristica che normativa, dove
però i concetti euristici e normativi erano interni al particolare paradigma
storico: la rottura epistemologica, il cambiamento da una matrice
disciplinare ad un’altra spesso sono risultati essere il mutamento
stesso dell’intelaiatura concettuale con cui avvicinarsi ad un problema
scientifico. Il punto fondamentale della questione è che un
importante cambiamento culturale come una rivoluzione scientifica
mostra delle discontinuità relativamente alle nozioni normative e
metodologiche nell’indagine: è difficile, a questo livello di analisi,
( 18 ) Relativamente al tentativo naturalistico di Rorty, mi pare utile riportare
una tesi di Alessandro Pagnini: “Una naturalizzazione dell’epistemologia diventa
un compito relativamente facile quando si assuma un’accezione riduzionista, o fisicalista,
o eliminativista della scienza, o in cui le scienze naturali rivestano almeno
un ruolo “paradigmatico” […] rispetto a quelle umane […]. Diventa invece problematica
quando si assuma un pluralismo metodologico e ontologico e quando,
come sembra fare l’ultimo Rorty, non si conferisca alle scienze e addirittura a ciò
che è “cognitivo” alcun valore onorifico rispetto all’ “asseribile garantitamente” o
all’“accettabile al termine di una conversazione”. In tal caso, naturalizzare significa
solo essere contro l’epistemologia tradizionale e il suo trascendentalismo; e quello
che viene dopo non sono […] soltanto le scienze, ma anche il senso comune, qualsiasi
cosa sia frutto di una ricerca mirata al consenso […], e alla fine anche la persuasione
retorica”. Cfr. Il naturalismo in epistemologia, in Introduzione al naturalismo
filosofico contemporaneo, cit., pp. 176-7.
281

282
PIETRO SALIS
contestare una certa efficacia alle argomentazioni volte a storicizzare
e contestualizzare le nozioni normative.
Ad un livello più generale le cose però cambiano: se proviamo a
domandarci il significato dei termini scienza e conoscenza, perlomeno
nei loro significati tradizionali, ci accorgiamo che in questi concetti
è presupposto un ideale regolativo che permane al di là di tutti
i cambiamenti metodologici e concettuali: il conseguimento di conoscenze
‘certe’ e credenze ‘vere’, al limite ai fini dell’indagine e della
pratica. Domande come: “il cambiamento di paradigma è stato
fruttuoso?” presuppongono che anche cambiamenti di tal sorta siano
relativi a, e motivati da, un ideale regolativo come ad esempio la
verità, la razionalità o la validità incondizionata. Il problema è ora
un altro: possono le nostre attività sussistere e proliferare anche senza
un ideale di questo tipo?
Questo è il terreno nel quale Richard Rorty ha lanciato la sua sfida
antiplatonica e antikantiana. Rorty cerca di sostituire una nozione naturalizzata
di razionalità ad una normativa in senso universale ed illuministico.
Lo stesso ideale della verità viene sepolto come residuo logocentrico
della metafisica platonica. A questi ideali regolativi e normativi
(che è conveniente chiamare concetti normativi ‘esterni’, poiché
esterni all’insieme delle indagini particolari) Rorty vuole contrapporre
un ideale differente, ispirato alla teoria evoluzionista di Darwin,
allo storicismo di Hegel e al modo di considerare le credenze di Bain e
Peirce: il successo adattivo degli strumenti concettuali come progresso
delle nostre pratiche sociali e linguistiche e quindi della razionalità. La
razionalizzazione, in questa prospettiva è un processo in fieri, guidato
da una teleologia immanente di tipo evolutivo: non si cerca più un
progresso verso la razionalità in sé (come per gli illuministi), ma la razionalità
è l’insieme perennemente in mutamento delle nostre pratiche
che si determina storicamente mediante il loro perfezionamento.
I canoni che regolano la razionalità, di conseguenza, non sono
più fissi ed intrinseci ad una struttura permanente della ‘mente’, e
nemmeno ad una struttura permanente della realtà: sono invece
contingentemente istitutivi e regolativi delle nostre attività. Questo
‘privilegio’ normativo delle prassi effettiva sulla valenza degli ideali
kantiani, oltre che dalla tematica del seguire una regola in Wittgenstein,
viene supportato e corroborato, nella prospettiva di Rorty,
dalle eredità quineane della filosofia analitica: l’olismo semantico,
l’indeterminatezza della traduzione, e la critica all’analiticità. È di
enorme rilievo anche il percorso teorico che Davidson ha svolto nel
coniugare Wittgenstein e Quine con le tesi sull’impossibilità degli
schemi concettuali rigidi e alternativi e l’adozione di un coerentismo

Rorty e Habermas: un confronto sulla ragione comunicativa
e di un contestualismo che, sempre per Rorty, seppelliscono la nozione
di verità sotto il peso contingente delle nostre pratiche di giustificazione
delle credenze.
Nel dettaglio i confini del discorso regolato sono per Rorty i ‘vocabolari’,
tramite i quali è possibile classificare e identificare le nozioni
normative interne ad essi come contingenti e storiche. In questa
prospettiva i vocabolari costituiscono gli orizzonti discorsivi in
cui un insieme di credenze è regolato da a) vincoli di coerenza interna,
b) uno scopo pragmatico preposto, e c) una dialettica interna, di
natura olistica, di autoperfezionamento sempre a fini pragmatici (si
pensi agli sviluppi del ‘paradigma newtoniano’ nella fisica o anche
all’evolversi della teoria quantistica) ( 19 ). I vocabolari, in parole semplici,
inquadrano e identificano le regole d’uso dei termini che adoperiamo
nei contesti in cui li adoperiamo.
Queste unità di misura del contestualismo di Rorty costituiscono,
unitamente all’adozione del modello di razionalità giustificatorio-conversazionale,
il punto di contrasto con l’ideale normativo della
tradizione kantiana in nome dell’ideale pragmatico-evolutivo del
suo approccio ‘naturalistico’ ( 20 ). Ciò che caratterizza tale prospettiva
da un punto di vista normativo è la dimensione interna ai vocabolari,
quella che ci è permessa sulla scorta delle descrizioni di cui
disponiamo. L’unica norma trascendente i vocabolari è il successo
adattivo in base a cui li generiamo: ciò pone dei quesiti di una certa
rilevanza come ad esempio il problema dello status da accordare a
tale concetto normativo, che paradossalmente può essere considerato
anch’esso un ideale regolativo (ad ogni modo contenutisticamente
poco determinato). Rorty sarebbe in grado di aggirare questa obiezione
con facilità, sostenendo che la funzione di tale ideale è semplice-
( 19 ) Il concetto di vocabolario in Rorty è ispirato alla nozione di paradigma
utilizzata da Thomas Kuhn, allargata e generalizzata a tutte le altre aree della cultura;
un vocabolario è quindi un insieme di credenze, standard, e procedure condivise
nei vari ambiti disciplinari dai ricercatori; cfr. R. RORTY, La scienza della natura
è un genere naturale?, in Scritti filosofici, I, cit., pp. 61-81, in particolare pp. 63-4.
( 20 ) Relativamente alla validità delle nozioni di verità e oggettività come ideali
regolativi alla maniera di Kant rimando alla posizione di Paolo Parrini che nel suo
Conoscenza e realtà. Saggio di filosofia positiva, Laterza, Roma-Bari 1995, opera un
tentativo di recupero degli ideali kantiani, moderandone la rigidità con aperture
contestuali in una prospettiva che si pone, a livello epistemologico, in dialogo tra i
vecchi progetti positivisti e la nuova filosofia della scienza. Gli ideali regolativi
sono qui visti come unitari ed ‘elastici’, capaci quindi di determinarsi lungo l’evolversi
del processo storico. In particolare si veda il cap. VI, Verità, oggettività e metafisica,
pp. 169-200.
283

284
PIETRO SALIS
mente costitutiva e non regolativa dei nostri orizzonti discorsivi. Ad
ogni modo Rorty ritorna nel medesimo deficit di razionalità in cui lo
poneva la critica precedente relativa ad una semplicistica ed irragionevole
assimilazione di ragione e strumentale assolvimento di compiti;
se siamo infatti guidati solo dall’ideale adattivo, allora siamo
privi di strumenti per una critica razionale dei nostri fini (ciò che
contenutisticamente intendiamo come ideale adattivo), un’opzione
che quindi anche da questo punto di vista riduce la razionalità a
semplice articolazione interna delle nostre attività.
3. Habermas versus Rorty: idealizzazioni, naturalizzazione e spazio delle
ragioni. – Habermas legge Rorty come un tentativo radicale di fuoriuscita
dalla metafisica, un tentativo che vuole radicalizzare in questo
senso la svolta linguistica fino a dissolvere ogni trascendenza. Per Habermas
la strategia di Rorty è viziata da una comprensione antirealista
della conoscenza e mira a provare “che la filosofia analitica rimane prigioniera
dell’incantesimo della metafisica contro cui si batte” (J. HA-
BERMAS, Richard Rorty’s pragmatic turn, cit., p. 34). Ma al di là di
quello che è l’obiettivo forte del pensiero di Rorty, ciò che maggiormente
turba Habermas è la constatazione per cui “diversamente da
Putnam, […], Rorty non vuole prendere in considerazione […] [i]
processi di apprendimento con il concedere che le pratiche di giustificazione
siano guidate da un’idea di verità che trascende il contesto
giustificatorio in questione” (ivi, p. 45). Secondo Habermas, Rorty
“rigetta completamente l’idealizzare concetti limite”, ma, oltre a ciò,
“interpreta la differenza tra giustificazione e verità in modo tale che
un parlante sia preparato in principio a difendere i suoi punti di vista
non solo qui ed ora ma anche di fronte ad un altro uditorio” (ibid.).
Per Habermas questo è ancora coerente con la lodevole intenzione di
Rorty di puntare ad un’espansione indefinita del dialogo, e infatti ciò
che sembra turbarlo non è il rifiuto rortiano delle idealizzazioni. Ad
esempio, la strategia di Rorty per cui tutte le idealizzazioni si neutralizzano
‘dovendo’ partire da qualcosa di familiare – “solitamente esso è
‘noi’, cioè, la comunità con cui siamo familiari” – per Habermas è una
buona obiezione per Putnam, aggirabile invece dalla sua posizione
(ivi, p. 46). Infatti per Habermas l’idealizzazione delle condizioni di
giustificazione non deve avere come punto di partenza le “intime caratteristiche
della propria cultura” ma, più ragionevolmente può partire
dalle “caratteristiche formali e processuali del discorso”, caratteristiche
che si possono “trovare in tutte le culture” (ibid.). Dopo questa
difesa della propria via all’idealizzazione, prende in esame il ‘naturali-

Rorty e Habermas: un confronto sulla ragione comunicativa
smo’ di Rorty. Habermas parte subito con un breve passo che coglie
in maniera chiara e sintetica la logica della posizione di Rorty:
285
Nel perdere l’idea regolativa di verità, la pratica della giustificazione perde
quel punto di orientamento per mezzo del quale gli standard di giustificazione
vengono distinti dalle ‘norme consuetudinarie’. Rendere la pratica
della giustificazione una questione sociologica significa una naturalizzazione
della ragione. (ivi, p. 51).
Secondo Habermas questa naturalizzazione presenta delle serissime
difficoltà, in primo luogo perché “senza un punto di riferimento
alla verità o alla ragione, […] gli stessi standard non avrebbero più
alcuna possibilità di autocorrezione” e di conseguenza “sarebbero
privati dello stato di norme capaci di essere giustificate” (ibid.). In
secondo luogo, “sotto questo aspetto, esse non sarebbero più neanche
norme consuetudinarie” ma “niente più che fatti sociali”, e questo
anche se pretendessero “una validità ‘per noi’, la comunità di
giustificazione rilevante” (ibid.). Ma se si vuole salvaguardare la pratica
della giustificazione e “il carattere normativo” del predicato ‘razionale’,
“gli standard di razionalità validi per noi devono essere, se
non giustificati, allora al limite spiegati” (ibid.).
Questo è il motivo, secondo Habermas, per cui Rorty “si ritira in
una descrizione naturalistica degli esseri umani come organismi che
sviluppano strumenti per adattarsi ottimamente al loro ambiente
con lo scopo di soddisfare i loro bisogni” (ibid.). Ancora, la dimensione
normativa presente nella prospettiva di Rorty “dà espressione
meramente al fatto che le operazioni intelligenti siano funzionali alla
preservazione di una specie che, tramite l’agire, deve ‘affrontare’ la
realtà” (ibid.). Il problema in questo naturalismo è che ‘ironicamente’
sembra abbandonare un tipo di oggettivismo in favore di un altro:
abbandona l’oggettivismo “della realtà rappresentata” in favore
di quello “della realtà strumentalmente dominata” (ibid.). Con questo
Habermas non intende affermare che sia cambiata “la direzione
dell’aderenza per l’interazione tra gli esseri umani e il mondo”,
quanto piuttosto mettere in evidenza il fatto che “rimane immutato
[…] il punto di riferimento di un mondo oggettivo come totalità di
tutto ciò che possiamo ‘rappresentare’ in un caso, o con cui dovremmo
‘avere a che fare’ nell’altro” (ibid.). Anche da questo punto di vista
ritorna il medesimo problema della posizione di Rorty: un naturalismo
che interpreta la relazione tra ‘noi’ e la realtà in termini di
manipolazione strumentale – linguistica e pratica – ai fini di un
sempre migliore adattamento, evita la discussione razionale in merito
alla bontà di tali fini, proteggendo le valenze strumentali del no-

286
PIETRO SALIS
stro agire mediante una descrizione di tali scopi dell’attività umana
come ‘culturalmente’ e ‘naturalmente’ dati.
Rorty giunge comunque per mezzo di un peculiare percorso a
mettere da parte gli ideali regolativi e quindi ad abbracciare la naturalizzazione.
Il primo passo di tutto il suo discorso è senza dubbio il
rifiuto categorico della teoria della verità come corrispondenza.
Dato questo rifiuto, le nostre asserzioni non corrispondono né veicolano
‘dati di fatto’, ma ci relazionano, entro il sistema di credenze
espresso nel nostro vocabolario, agli oggetti dell’esperienza quotidiana
in una maniera puramente causale – i vocabolari permettono particolari
relazioni semantiche e pratiche tra gli esseri umani e il loro
ambiente. Per relazioni causali Rorty intende delle connessioni semantiche
relative a contesti culturali specifici (le nostre credenze e le
nostre attività), che partono dallo sviluppo di metafore generatrici di
nuovi significati e modi di parlare e agire ( 21 ).
Al rifiuto della corrispondenza si deve inoltre aggiungere per conseguenza
logica (non sono in molti per la verità che la pensano così) il
rifiuto di considerare la conoscenza come accurata rappresentazione
della realtà. Questi due rifiuti costituiscono i motivi per cui Rorty
nega la tesi di Peirce sulla convergenza ‘in the long run’ nell’indagine:
viene a mancare il modo d’essere in sé della realtà su cui convergere.
Contro Habermas, Rorty estremizza questa tesi per creare un contrasto
con l’idealizzazione delle proprietà formali e processuali del discorso:
dati i precedenti rifiuti, “è difficile pensare allo spazio delle ragioni
come finito e strutturato” (R. RORTY, Universality and truth,
cit., p. 12). Per negare in maniera consistente la possibilità sia di una
convergenza nell’indagine, che di uno spazio delle ragioni ‘finito e
strutturato’ (in questo caso la possibilità di una convergenza discorsiva
superiore ad un mero accordo – una situazione comunicativa ideale)
Rorty spiega il suo antirappresentazionalismo alla luce dell’epistemologia
‘esternalista’ di Davidson ( 22 ). Il punto di partenza è, per
( 21 ) Cfr. i saggi Solidarietà o oggettività?, Suoni non familiari: la Hesse e Davidson
sulla metafora, Il pragmatismo, Davidson e la verità, e Testi e blocchi di elementi,
tutti contenuti in Scritti filosofici, I, cit.
( 22 ) Cfr. D. DAVIDSON, Epistemology externalized, in ‘Dialectica’ (1991), 45 (2-
3), p. 195 ss., L’esternalismo si configura come modello epistemologico triangolare:
come condizioni per il raggiungimento della verità abbiamo un soggetto di credenze
e desideri al primo vertice, un mondo non umano di stimoli causali (distali
e non prossimali) al secondo, mentre al terzo abbiamo uno o più interlocutori testimoni
dell’uso sociale (e quindi corretto) dei significati componenti le nostre
credenze tale da permettere l’intesa comunicativa.

Rorty e Habermas: un confronto sulla ragione comunicativa
Rorty e Davidson, l’impossibilità di “mettere in contrasto ‘essere in
contatto con una comunità umana’ con ‘essere in contatto con la realtà’”
(ivi, p. 16). La pretesa di Davidson per cui non c’è “linguaggio
senza triangolazione” significa che è impossibile avere un linguaggio e
delle credenze “senza essere in contatto con una comunità umana e una
realtà non umana”, cosicché “non c’è possibilità di accordo senza verità,
né verità senza accordo” (ibid.). Rorty si è soffermato su questo
punto anche nella successiva replica ad Habermas (R. RORTY, Response
to Jurgen Habermas, in BRANDOM, cit., pp. 56-64). In particolare
Rorty sottolinea come “il naturale spazio delle ragioni è per gli
argomenti ciò che l’intrinseca natura della realtà è per le asserzioni”,
ma, “se le credenze sono abiti d’azione”, allora “un ideale regolativo
[il consenso idealmente razionale] è poco necessario quanto l’altro [la
corrispondenza con la realtà]” (ivi, p. 60). In particolare l’idea di un
tale spazio delle ragioni strutturato è per Rorty “una reliquia dell’idea
per cui la verità consiste nella corrispondenza all’intrinseca natura
delle cose” (ibid.). Questo argomento di Rorty non è ad ogni modo
così probante e conclusivo come pretende poiché presuppone che
Habermas sostenga la tesi per cui vi sia una struttura permanente e
astorica della comunicazione a cui i parlanti debbano sottostare nell’agire
comunicativo. Il semplice esame delle differenti modalità di
discorso relativo alle contingenti e storiche modalità di agire razionale
e comunicativo svolto da Habermas, mostra come egli sia in realtà
immune da questo tipo di critica.
Rorty comunque porta avanti ancora un suo altro caratteristico
tipo di argomentazione: “dovremmo abbandonare la strategia Kant-
Peirce-Apel di trovare idee regolative come surrogati per l’autorità di
qualche potere non umano, in questo caso con il sostituire alla metafisica
la filosofia trascendentale” (ibid.). Habermas si sottrae però
al peso frontale di quest’argomentazione rortiana a causa dell’accezione
debole e ‘procedurale’ in cui porta avanti le sue istanze idealizzanti
– è piuttosto efficace riconoscere come l’idealizzazione di proprietà
formali del discorso pone i soggetti agenti e i parlanti nella
prospettiva di partecipanti, che in quanto tali, a causa dell’universalità
dell’interesse all’intesa, si pongono come partners alla pari dissolvendo
(o tendendo a farlo) il peso di qualsiasi autorità si ponga in
contrasto alle istanze critiche della ragione comunicativa.
La posizione di Rorty pone ad ogni modo una questione molto
seria e problematica nell’ambito della razionalità e della giustificazione
razionale. I contesti culturali e discorsivi – nei termini di Rorty i
‘vocabolari’ – in cui siamo immersi nelle nostre attività, pongono
delle palesi difficoltà per il tentativo di individuare nozioni normati-
287

288
PIETRO SALIS
ve in modo sostantivo al di fuori di essi; qual è il punto d’appoggio
normativo – se c’è – in grado di risolvere in maniera ‘razionale’ la
questione relativa al vocabolario da adottare? Rorty si trova ancora
‘sotto scacco’ nei confronti di questo problema ( 23 ).
Per quanto riguarda Habermas, questa discussione ha evidenziato
il lato problematico dello status di universalità da attribuire alle credenze
che si affermano nella discussione razionale. Il problema, sul
quale Rorty ha da sempre posto con insistenza l’accento, può comunque
essere agevolmente superato, per quanto riguarda l’uso del
predicato ‘universale’, legando il fallibilismo procedurale di Habermas
con quello tipico della razionalità scientifica post-positivista
(non diverso da quello di Rorty): un fallibilismo che accetta come
contingente e storicamente delimitato (anche solo in via ipotetica) il
carattere attualmente universalizzabile delle nostre teorie e credenze,
e non solo quindi relativo alle procedure adottate. Per ciò che riguarda
l’universalità come ideale normativo valgono invece i rilievi
messi in evidenza precedentemente, cioè, se il nostro obiettivo è l’intesa,
allora sarà difficile, nella prospettiva di partecipanti, intenderci
senza porre l’universalità tra i criteri che determinano la razionalità
del consenso eventualmente ottenuto.
( 23 ) Già in una polemica dei primi anni novanta, con Hilary Putnam, Rorty
aveva tentato di dare una risposta in positivo relativamente ai criteri per la valutazione
dall’esterno dei vocabolari da adottare in vista di scelte o cambiamenti concettuali.
La proposta consisteva nel selezionare i vocabolari in base ai criteri dettati
dai valori e dagli interessi presenti nella comunità mediante un mutuo scambio di
natura olistica: i nuovi vocabolari vengono proposti e nel caso adottati in accordo
con gli standard già presenti nella comunità, ma al pari possono a loro volta modificare
gli stessi valori e interessi precedenti. Questa proposta ha il difetto di non
riuscire a sottrarre i criteri normativi esterni ai vocabolari ad una certa circolarità
tra questioni esterne e questioni interne, rendendo quindi consistenti le critiche di
Putnam relative ad una certa incapacità della posizione di Rorty di discriminare
criteri normativi validi ai fini di una scelta razionale tra alternative concettuali in
conflitto o necessitanti riforme. Cfr. R. RORTY, Putnam e la minaccia relativistica,
cit., pp. 105-6; per le critiche di Putnam si veda il volume Realism with a human
face, Harvard UP, Cambridge 1990 (trad. it. Realismo dal volto umano, Il Mulino,
Bologna 1995), in particolare le pp. 131-2 dell’edizione italiana.

LAURA PALOMBA
LA QUESTIONE FEMMINILE
NELLA CULTURA EBRAICA CONTEMPORANEA
TRA COMUNITARISMO E LIBERALISMO
Anche in questo caso bisogna proprio dire che nel Talmud c’è tutto e il
contrario di tutto. Dipende dal filtro che impieghi. Ne puoi estrarre le
sentenze femministe come quelle antifemministe, le lodi dello studio e
l’abominio dello studio. Ci si trova proprio di tutto.
P. Levi
Dove c’è una volontà rabbinica c’è una via halachica.
B. Greenberg
SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Il ruolo della donna nella comunità ebraica della
diaspora. – 2.1. La matrice comunitarista. – 2.2. La famiglia. – 2.3. La vita
pubblica. – 3. Il femminismo ebraico. – 4. Le critiche femministe al pensiero
“liberal”. – 5. Femminismo, liberalismo, comunitarismo. – 6. La prospettiva
“liberal”. – 7. L’esito “liberal” nella tradizione ebraica.
1. Introduzione. – Dagli inizi degli anni Settanta la “questione femminile”
si è imposta con una certa forza anche all’interno dell’ebraismo,
come è dimostrato dal sorgere di numerosi movimenti femministi
entro le comunità ebraiche negli Stati Uniti, nell’Europa occidentale
e, sulla scia di questi, anche in Israele ( 1 ). Sin dal 1973, anno
( 1 ) I primi gruppi attivamente impegnati nell’ambito del femminismo ebraico
americano, l’Ezrat Nashim a New York e il N’shay Hayil a Philadelphia, si costituirono
durante la First National Conference on Jewish Women (1973) e rimasero attivi
fino al 1980. Anche il movimento femminista israeliano nasce agli inizi degli
anni ’70. Sganciato dalla situazione politica dello Stato, esso si richiamava agli stessi
principi sostenuti dai movimenti femministi dell’Europa occidentale o degli Stati
Uniti, come dimostrano le sue battaglie per la parità salariale o il suo impegno per

290
LAURA PALOMBA
della First National Conference on Jewish Women, appoggiata dal
North American Jewish Student’s Network, ciò che le Conferenze
femministe ebraico-americane hanno mirato a promuovere è la piena
ed eguale partecipazione delle donne a tutti gli aspetti della vita
comunitaria ebraica ( 2 ). La meta ambita dal femminismo ebraico,
nella sua peculiarità religiosa, è rappresentata dal raggiungimento
del potere decisionale in campo religioso e politico attraverso l’ottenimento
del diritto all’interpretazione dei testi fondamentali dell’ebraismo
e dalla possibilità di rendere le esperienze, le esigenze, le
azioni delle donne dotate di larga normatività al pari di quelle degli
uomini; si rivendica, in una parola, una piena cittadinanza, in termini
di diritti e doveri, delle donne in seno alla comunità ebraica perché
esse possano contribuire pienamente, come è richiesto al singolo
credente, a quel valore così centrale nell’ebraismo che è il principio
cabalistico del tikkun olam. Questo è il principio della redenzione
messianica del mondo dal peccato di Adamo con cui la Cabbala indica
il compito fondamentale dell’uomo, una redenzione che, forse
non casualmente, determinerà anche il ritorno a Dio del suo elemento
femminile, la Shekhinà ( 3 ). Paula E. Hyman, membro del-
problematiche come la violenza sessuale, l’aborto e il sessismo culturale. Nel 1978 il
movimento si dichiarò ufficialmente “Movimento femminista sionista israeliano”,
escludendo di fatto le israeliane non sioniste e le donne arabe israeliane. Sul rapporto
tra femminismo e sionismo vedi A. BAKER, The Jewish Woman in Contemporary Society.
Transitions and Traditions, The MacMillan Press LTD, London 1993, pp. 209-
211. Per evitare un eccesso di note, là dove sia sufficiente indicare solo gli estremi
bibliografici del saggio cui si fa diretto riferimento, questi saranno riportati nel testo
tra parentesi tonde. In tutti gli altri casi utilizzerò l’indicazione in nota.
( 2 )Vedi M. ACKELSBERG, Introduction, in E. KOLTUN, The Jewish Woman. New
Perspectives, Schocken Books Inc., New York 1976, p. xiii: «Siamo impegnate nello
sviluppo del nostro copioso potenziale umano e nella sopravvivenza e nel miglioramento
della vita ebraica. Non cerchiamo altro che la piena, diretta, eguale
partecipazione delle donne ad ogni livello della vita ebraica – comunitario, religioso,
educativo e politico. Saremo una forza per tali cambiamenti creativi nella comunità
ebraica. (“Dichiarazione di intenti”, Organizzazione femminista ebraica,
28 Aprile 1974)». L’Organizzazione femminista ebraica nacque dalla National
Conference on Jewish Women and Men tenutasi nel 1974. Le traduzioni dei testi
di cui non è riportata l’edizione italiana sono mie.
( 3 ) G. SCHOLEM, Le grandi correnti della mistica ebraica, tr. it. a cura di G. Russo,
Einaudi, Torino 1993, p. 240: «Vero è che nel mondo non ancora redento
quella frattura che impedisce una stabile unione di Dio con la Shekhinà sarà in
parte superata e mitigata dall’azione religiosa di Israele, e dalla Torà – comandamento
e preghiera. Eliminazione della macchia, ristabilimento dell’armonia: questo
è il senso della parola ebraica tiqqún, che i cabbalisti seguaci dello Zohàr usano
per indicare il compito dell’uomo in questo mondo».

La questione femminile nella cultura ebraica contemporanea
l’Ezrat Nashim, sottolinea infatti come le donne ebree, nel cercare
un fondamento teorico e religioso alle proprie battaglie contro la
loro storica subordinazione,
291
hanno indicato il concetto di “immagine di Dio”, che significa l’eguaglianza
di tutti gli esseri umani indipendentemente dal genere, che è affermato
nella storia della Creazione; e hanno definito l’estensione delle loro possibilità
nello studio, nella preghiera pubblica, e nella leadership religiosa
come forma di tikkun olam (redenzione dalle imperfezioni del mondo) ( 4 ).
Il ruolo della donna all’interno della comunità ebraica non è, prima
facie, marginale. Esso, anzi, appare centrale in quanto, come madre, la
donna assicura quella perpetuazione del popolo ebraico che le vicende
di persecuzione hanno reso cruciale, mentre come pilastro della famiglia
si fa carico della prima educazione ai valori religiosi del singolo
ebreo. Ella è dunque garanzia di sopravvivenza materiale e spirituale
del suo popolo. A questo ruolo di madre e di primaria guida viene educata
attraverso una lunga serie di insegnamenti rabbinici il cui contenuto
è la totale identificazione della donna con questi compiti ‘familistici’:
si pensi alla tesi mishnaica secondo la quale la donna è naturalmente
votata alla maternità, al punto che la procreazione è un dovere
solo per l’uomo, mentre per la donna è un diritto ( 5 ); o ad affermazioni
rabbiniche come quella di Rabbi Yosei, il quale sostiene «Non ho mai
chiamato mia moglie “mia moglie”, ma piuttosto “la mia casa”» (Shabbat
118b) ( 6 ). Infine è interessante citare il passo talmudico, presente
nel Trattato delle Benedizioni, relativo alla benemerenza delle donne:
Rab disse a R. Hijjà: Le donne che merito hanno? (Hanno il merito di) far
leggere la Scrittura ai bambini nella scuola e di far studiare (l’insegnamento
rabbinico) ai loro mariti nella casa dei nostri maestri e di attendere i loro
mariti fino a che tornano alla casa dei nostri maestri ( 7 ).
( 4 ) P.E. HYMAN, Looking to the future: Conclusions, in S. GROSSMAN-R. HAUT,
Daughters of the King. Women and the Synagogue, The Jewish Publication Society,
Philadelphia 1993, p. 302. Vedi anche J. PLASKOW, Standing again at Sinai. Judaism
from a Feminist Perspective, Harper and Row, San Francisco 1990.
( 5 ) Mishna: «Un uomo è vincolato dall’obbligo della procreazione, mentre la
donna non lo è», citato in R. BIALE, Women & Jewish Law. An Exploration of Women’s
Issues in Halakhic Sources, Schocken Books Inc., New York 1984, p. 199.
( 6 ) Citato da L. GELLER-E. KOLTUN, Single and Jewish: Toward A New Definition
of Completeness, in E. KOLTUN, op. Cit., p. 44.
( 7 ) La traduzione usata è Talmùd. Il Trattato delle Benedizioni, (a cura di S.
Cavalletti), tr. it. a cura di E. Zolli, Edizioni TEA, p. 196.

292
LAURA PALOMBA
In realtà, se andiamo al di là del primo livello di lettura, ci accorgiamo
che la condizione della donna è ben più complessa. I passi sopracitati,
tratti dai testi sacri che sono il fondamento della vita religiosa,
sociale e politica delle comunità ebraiche, sono interessanti
per un duplice motivo: non solo perché consentono di attestare
l’esclusività e la limitatezza del ruolo femminile all’interno dell’ebraismo,
ma anche perché permettono di porre in luce quanto si
tratti di ritratti di vite femminili di cui le donne sono meri oggetti
passivi. La problematicità femminile all’interno dell’ebraismo è sottolineata
dalla principale denuncia del femminismo ebraico: essere
madre e pilastro della famiglia perde ogni suo valore se non è frutto
di una decisione libera e volontaria. Per questo molte donne ebree,
che conoscono bene il valore religioso e spirituale della preghiera
pubblica, dello studio e dell’interpretazione dei testi sacri, ritengono
che la propria esclusione da queste opzioni religiose sia una forma di
“ingiustizia”. Esse pongono in primo piano un incalzante interrogativo:
se sia giusto utilizzare il principio della stratificazione sessuale,
centrale nell’ebraismo e ben presente in tutte le religioni monoteiste,
per costruire rapporti di superiorità e subordinazione e per legittimare
un accesso diseguale di uomini e donne a beni, diritti e servizi
di cittadinanza; e dunque se sia rilevabile nell’ebraismo l’esigenza,
ben presente in tutte le realtà comunitarie, di nascondere dietro fini
nobilissimi profonde diseguaglianze, tra cui quella che qui ci interessa
maggiormente, ovvero quella di genere.
Tra i diversi movimenti femministi esistenti nelle comunità
ebraiche è dunque comune la volontà di fare in modo che le donne
ebree non si trovino più di fronte ad un aut-aut, quello tra il loro diritto
ad agire autonomamente all’interno della tradizione ebraica,
contribuendovi con le proprie esperienze e la propria spiritualità e
operando le proprie scelte di vita anche qualora queste la portino ad
allontanarsi dalla maternità e dal matrimonio, e l’accettazione di una
tradizione che, incentrata sulla famiglia quale ambito primario di
educazione dell’individuo al valore della santità, limita alla sfera familistica
e privata il contributo che le donne possono dare al raggiungimento
del fine dominante e prioritario: la preservazione della
comunità ebraica e dei suoi valori attraverso la stabilità dell’istituzione
familiare.
Brevemente, la polarità che si sviluppa da questa opposizione, e
che mi interessa analizzare, è quella tra ciò che chiamiamo “diritti di
cittadini”, come l’autonomia nella scelta delle opzioni esistenziali da
realizzare nella propria vita, la libertà politica intesa come libertà di
partecipazione, il rispetto di sé, che si ottiene attraverso l’impegno

La questione femminile nella cultura ebraica contemporanea
attivo nella comunità; e ciò che chiamiamo i “diritti di cittadinanza”,
come una morale condivisa, una tradizione pregnante, un forte
senso di appartenenza, una storia comune che funga da orizzonte di
riferimento per tutti coloro che hanno diritto alla cittadinanza.
Questa polarità richiama in modo forte e significativo la contrapposizione
presente all’interno del dibattito filosofico-politico contemporaneo
tra liberali e comunitaristi, rispettivamente, gli uni per
gli altri, astratti legalisti, anti-tradizionalisti, immoralmente relativisti
e disinteressati e paternalisti, integralisti, immoralmente invasivi
e assolutisti. Poiché la comunità ebraica presenta nella sua struttura
etico-politica forti tinte comunitariste e poiché i maggiori movimenti
femministi ebraici operano all’interno di un panorama culturale,
quello anglosassone, che ha visto il sorgere della filosofia politica liberal
e di cui essi stessi appaiono nutriti, mi sembra per contrasto interessante
verificare la possibilità di una lettura “liberale” del disagio
femminile all’interno della comunità ebraica della diaspora: sono infatti
convinta che questo, pur costituendo un parametro elaborato
entro un orizzonte culturale prettamente europeo e statunitense,
contenga indicazioni che non solo sono capaci di operare idealmente
all’interno della struttura religiosa ebraica a sostegno delle rivendicazioni
femministe, ma lo fanno rispettandone i valori fondamentali,
come dimostrano le comunità riformate che negli Stati Uniti e in
Gran Bretagna hanno fatto propri molti di questi valori. Cercherò
in tal modo di mettere in luce un contrasto, quello tra modello comunitarista
e prospettive liberali, che mi sembra chiaramente espresso
nelle parole di Saul Berman:
293
è realmente difficile per un americano cresciuto con un senso quasi di santità
dei diritti individuali, accettare una presa di posizione che non solo dà
priorità alla meta sociale, ma che assegna anche all’individuo uno status
che possa incoraggiare il raggiungimento di quella meta. Eppure questo è
esattamente ciò che la legge ebraica sembra fare. Ponendo la propria enfasi
sulla necessità della comunità di mantenere una forte unità familiare come
strumento fondamentale per la preservazione, sia fisica che spirituale, della
comunità ebraica, la legge assicura che niente interferirà con questa meta
(S. BERMAN, The Status of Women in Halakhic Judaism, in E. KOLTUN, op.
cit., p. 122).
Questo lavoro procederà analizzando per sommi capi l’impianto
comunitaristico della comunità ebraica, ovvero la centralità della famiglia,
l’ingerenza del rabbinato nell’ambito della vita personale dei
credenti, il ruolo forte della tradizione e le forme di subordinazione
di genere che ne conseguono; seguirà nella seconda parte la descrizione
del femminismo ebraico nella sua specificità; infine si conclu-

294
LAURA PALOMBA
derà con la tesi principale del lavoro, la possibilità che il femminismo,
in particolare quello ebraico, possa servirsi nelle sue battaglie di
alcuni valori fondamentali affermati dal liberalismo statunitense
contemporaneo, come il valore dell’autonomia, in virtù del quale le
donne devono poter scegliere liberamente il proprio progetto di vita,
l’importanza del rispetto di sé, a cui contribuisce la cooperazione sociale
che si ottiene attraverso l’impegno vivo nella comunità, l’accesso
delle donne ad un livello educativo superiore, la libertà politica
come libertà di partecipazione alla costruzione del proprio mondo.
Il mio punto di riferimento principale è rappresentato dall’opera di
John Rawls che, fin dalla pubblicazione di Una teoria della giustizia,
ha inaugurato un modo tutto contemporaneo e prettamente english
speaking di parlare di liberalismo, diventando il crocevia obbligato
dei diversi filoni di filosofia morale e politica contemporanea.
2. Il ruolo della donna nella comunità ebraica della diaspora.
2.1. La matrice comunitarista. – La premessa necessaria di questo lavoro
è costituita dall’esame della posizione della donna in seno alla
comunità ebraica, attraverso cui mostrare come quest’ultima presenti,
nella sua struttura etico-politica, forti tinte comunitariste, soprattutto
nell’individuazione di un Bene dominante e nel forte sentimento
di appartenenza di cui sono investiti i suoi membri, a ciascuno
dei quali viene assegnato un ruolo specifico al fine di creare una
cooperazione atta a realizzare il bene comune.
In primo luogo, bisogna precisare che la realtà ebraica oggetto del
mio lavoro è quella delle comunità della diaspora, ed è proprio il termine
comunità, di gran lunga il più utilizzato nei numerosi studi che
sono stati condotti sulle forme istituzionali storiche dell’ebraismo, a
proiettarci subito all’interno dei tratti comunitaristici più evidenti
dell’ebraismo diasporico, permettendo di assumere quella ebraica
come caso emblematico di comunità ( 8 ). Questo termine, infatti,
sembra il più adatto ad indicare quelli che sono i caratteri più rilevanti
della forma di vita associativa che l’ebraismo ha elaborato nel
corso del tempo per sopravvivere alle varie persecuzione di cui è stato
fatto oggetto. Mi riferisco ai caratteri di forte coesione tra i singo-
( 8 ) Vedi F. SOLE, Costituzione e organizzazione politica degli Israeliti nei diversi
periodi della loro storia, estratto da «Palestre del Clero», nn. 22 e 23 del 15 nov. e
10 dic. 1967, Istituto Padovano di Arti Grafiche, Rovigo 1967; M.F. MATERNINI
ZOTTA, L’Ente Comunitario Ebraico, Giuffré, Milano 1983.

La questione femminile nella cultura ebraica contemporanea
li membri, di mutua solidarietà, di un’identità strutturale di valori,
leggi, ma soprattutto scopi, che conferiscono al singolo membro lo
status fondamentale di appartenente. Dunque, quella ebraica diasporica
è pienamente la Gemeinschaft tönnesiana ( 9 ), nel suo essere
«strumento e simbolo della continuità di vita della gente di Israele,
ovunque si trovi» (D. LATTES, La Comunità ebraica, in “Rassegna
mensile d’Israele”, XLIV, nn. 11-12, 1978, p. 673 s., cit. in M.F.
MATERNINI ZOTTA, op. cit., p. 7).
Furono due le necessità che portarono gli ebrei a costituire una
comunità autonoma e giuridicamente autodeterminata in tutti i Paesi
che li ospitarono: l’esigenza di preservare il proprio patrimonio
culturale e religioso, che tanto li distingue, e quindi isola, dalle altre
culture; e l’esigenza di costruire un baluardo difensivo contro il tentativo
di assimilazione, quale alternativa allo sterminio, di fronte al
quale questo popolo è stato così spesso posto ( 10 ). E due furono gli
elementi intrinseci dell’ebraismo che risultano particolarmente rafforzati
da queste vicende storiche: oltre al già citato valore tipicamente
comunitarista dell’appartenenza, il carattere collettivistico
che, forse più che nelle altre religioni, appare particolarmente evidenziato
in quella ebraica dalla necessaria collaborazione che deve
( 9 ) F. TÖNNIES, Comunità e società, tr. it. a cura di G. Giordano, Edizioni di
Comunità, Milano 1963. Tönnies definisce la Gemeinschaft (comunità) come un
organismo vivente dato dalla perfetta unità di volontà umane in uno stato originario
o naturale e basato sul consensus, un modo di sentire comune e reciproco, associativo,
che unisce i singoli in un tutto. Da ciò scaturiscono i sentimenti basilari
della simpatia, della difesa reciproca e della volontà di protezione. Assai significativa,
per la nostra analisi della comunità ebraica, è l’importanza dell’istituzione familiare
all’interno della Gemeinschaft. Essa, infatti, è la forma generale dei modi di
vita comunitari su cui è radicato il diritto comunitario. M. WEBER, Economia e Società,
tr. it. a cura di T. Bagiotti, F. Casabianca, P. Chiodi, E. Fubini, G. Giordano,
P. Rossi, Ed. di Comunità, Milano 1974, vol. II, p. 38: «Una relazione sociale
deve essere definita ‹comunità› se, e nella misura in cui la disposizione dell’agire
sociale poggia – nel caso singolo o in media o nel tipo puro – su una comune appartenenza
soggettivamente sentita (affettiva o tradizionale) degli individui che ad
essa partecipano». Come vediamo anche Weber pone alla base della comunità il
sentimento di appartenenza che lega il singolo ad una comunità di individui che
danno senso al suo agire e al cui agire egli da un significato sociale.
( 10 ) Sull’autogoverno del popolo ebraico vedi anche A. MOMIGLIANO, Pagine
ebraiche, Einaudi, Torino 1987, p. 185: «Il presupposto del ragionamento talmudico
e dei successivi sviluppi legali culminati nel sistema di Maimonide, è che la
perdita di indipendenza politica non implica la rinuncia all’autogoverno – o, piuttosto,
che l’interpretazione della Legge data da Dio deve continuare in ogni circostanza.
[...] Gli Ebrei credenti non rinunciarono mai ai loro diritti sovrani né mai
ammisero di essere privi di loro proprie istituzioni politiche».
295

296
LAURA PALOMBA
instaurarsi tra i membri del popolo teoforo, al fine di realizzare il
progetto messianico di cui si sentirono investiti, come comunità, al
momento del Patto sul Sinai: «Siate santi, perché io, il Signore Dio
vostro, sono santo» (Lev. XIX, 2) è l’invito che Dio rivolse ai figli
d’Israele. Per la realizzazione del progetto messianico si rende necessario
che il popolo ebraico nella sua interezza raggiunga al proprio
interno una forma di totale qedushah (santità) attraverso l’adempimento
delle mitzvot (precetti morali) imposte dalla Legge. Esso è
vissuto come bene dominante che la comunità deve realizzare prioritariamente
rispetto a tutti gli altri. Berith (patto) e torah (legge) sono
dunque gli elementi di cui è costituito il destino del popolo ebraico,
partner in un’alleanza che gli richiede, per essere degno popolo di
YHWH, il rispetto di quei comandamenti ricevuti sul Sinai che
esprimono la volontà divina.
La presenza o meno delle donne sul Sinai è propriamente il punto
di inizio dell’intera rivendicazione femminista ebraica: infatti i testi
sacri tacciono totalmente su questo aspetto e tale silenzio è stato
assunto come pretesto per emarginare le donne ebree dalla partecipazione,
in funzione decisionista, a questo progetto messianico ( 11 ).
Ma attraverso una “ermeneutica del sospetto”, presa in prestito dalla
teologia cristiana di Elisabeth Schüssler Fiorenza, anche le donne
ebree sono ora in grado di mettere in dubbio che fosse realmente volontà
divina l’esclusione della metà femminile del popolo ebraico,
volendo dimostrare come essa non sia altro che una creazione umana
frutto di un ordinamento sociale patriarcale che le donne possono
sradicare attraverso una propria rilettura della tradizione ebraica.
L’esclusione delle donne dal processo di elaborazione e modellamento
della religiosità ebraica viene tutt’ora operata e tale forma di
emarginazione conferma il tratto tipicamente comunitarista dell’ebraismo
diasporico. Il controllo della funzione socio-religiosa che la donna
ebrea riveste nei confronti della comunità si realizza: (A) nella sfera
“materiale” (famiglia e procreazione) nella quale le donne sono recluse;
(B) in quella spirituale (studio e partecipazione religiosa) dalla quale
sono invece escluse. L’analisi di queste sfere permetterà di mettere
in luce come le differenze di genere siano utilizzate per “tenere le donne
al loro posto” ingabbiandole in una funzione, quella domestica, e
in uno status, quello privato, che solo prima facie sono ugualmente
degni di valore rispetto a quelli assegnati agli uomini.
( 11 ) Il tema del “silenzio” delle donne nella storia è un problema comune a tutte
le religioni monoteistiche. Cfr. M. DALY, Al di là di Dio padre, tr. it. a cura di
D. Maisano e M. Lister, Editori Riuniti, Roma 1990.

La questione femminile nella cultura ebraica contemporanea
2.2. La famiglia. – Per quanto riguarda la sfera familistica, occorre
precisare che lo scenario ebraico non è molto diverso da quello presente
in tutte le società “a morale patriarcale”. Ma la triade donnamadre-casa,
come vedremo, diventa ancora più necessaria nell’ebraismo
in quanto rappresenta il primo passo verso la realizzazione di
quello che è la sua raison d’être, il progetto di santificazione del
mondo. Per usare un’espressione cara ai comunitaristi, l’ebraismo si
presenta come una vera e propria narrazione, centrata su alcuni fattori
fondamentali: essa è “good-centered, virtues-centered, community-centered”,
ove i termini dell’accentramento sono tutti organizzati
in modo da permettere il raggiungimento del fine dominante che è
l’essenza stessa dell’ebraismo. Poiché l’ebraismo non fa mai astrazione
dall’essere fisico, politico e sociale dell’essere umano, la santità
non è solo un valore etico, ma è raggiungibile in ogni ambito della
vita umana, ed è forse per questo che i primi passi verso la santità
devono essere compiuti nei gesti più quotidiani, negli spazi più intimi
e personali. In questo contesto risalta l’importanza della famiglia,
quale ricettacolo dei rapporti e degli atti che costruiscono lo status
privato dell’individuo e da cui l’ebreo deve iniziare il suo quotidiano
lavoro di purificazione. Ed è la famiglia ad essere, come è d’altronde
anche in tutte le società occidentali, il luogo designato dalle autorità
religiose come ideale sfera d’azione delle donne:
297
La donna, vegliando sulla osservanza delle leggi alimentari e su quelle dello
Shabbat, sulla purezza della famiglia e sull’educazione dei bambini, osservando
il dovere dell’ospitalità e tutti quei doveri che impongono la carità e l’amore
per il prossimo (Ghemiluth Chasadim), sottoposta a nessun altro controllo
che a quello dell’occhio di Dio, è garante dell’osservanza e della religiosità di
coloro che vivono nella casa (E. GUGENHEIM, L’ebraismo nella vita quotidiana,
tr. it. a cura di V. Lucattini Vogelmann, La Giuntina, Firenze 1994, p. 48).
Alla base della famiglia è il matrimonio che rappresenta «il paradigma
della completezza» (L. GELLER-E. KOLTUN, Single ..., cit., p. 44);
esso assolve alla triplice funzione di fornire compagnia e supporto
sia all’uomo che alla donna, considerati altrimenti impoveriti e manchevoli;
di rendere possibile l’adempimento di quel sacro comando
che Dio rivolge all’essere umano: «Siate fecondi e moltiplicatevi»
(Gen. I, 28); e infine di controllare e impedire la sessualità illecita,
in quanto anche il giudaismo reputa lecita solamente l’attività sessuale
svolta nell’ambito del matrimonio, che dunque rappresenta il
modo in cui incanalare positivamente le pulsioni sessuali.
Nonostante il matrimonio sia ritenuto dall’ebraismo un elemento
fondamentale per una buona vita, su questo argomento non è la Bib-

298
LAURA PALOMBA
bia, ma il Talmud a contenere esplicite prescrizioni sulla richiesta di
matrimonio e sulla procedura legale e, attraverso le disquisizioni rabbiniche,
a guidare la coppia con disposizioni capillari verso il modo più
corretto di vivere questo legame. Tali indicazioni, relative alla divisione
dei ruoli, ai diritti coniugali, alle necessità finanziarie ed affettive
del menage, sono minuziosamente sviluppate e illustrate nella ketubah,
un documento fondamentale non solo per capire quale sia il ruolo della
donna all’interno del matrimonio, ma anche perché ci permette di
mettere in luce la funzione paternalistica delle autorità rabbiniche nella
determinazione delle responsabilità e dei doveri femminili all’interno
della comunità ( 12 ). Per quanto riguarda la posizione della donna
nel matrimonio non deve ingannare il fatto che la ketubah disponga
che le esigenze finanziarie, affettive e sessuali della moglie determinino
gli obblighi del marito ( 13 ), perché in realtà per la donna il matrimonio
è l’unico rapporto, più religioso che civile, che le consente di inserirsi,
seppure perifericamente, in seno all’ebraismo, e in cui l’uomo è l’unico
agente attivo del contratto. La donna ebrea, infatti, come quella musulmana,
non ha il potere di dare inizio al matrimonio e, di conseguenza,
di porvi fine, chiedendo il divorzio. Inoltre, il fatto che nel
corso dei secoli i rabbini abbiano provveduto ad apportare dei miglioramenti
alla posizione giuridica della sposa, il matrimonio e il divorzio
continuano ad essere non relazioni reciproche ma una forma di acquisizione
e possesso della donna da parte dell’uomo, mentre l’autorità a
legittimare qualsiasi miglioramento o peggioramento della posizione
femminile non risiede certo nelle mani delle dirette interessate ( 14 ).
Il divorzio, dal momento che può essere richiesto solamente dal
marito, costituisce l’altro grande ostacolo all’emancipazione femmi-
( 12 ) La ketubah è il contratto matrimoniale, in cui il marito promette di onorare
la moglie, nutrirla, sostenerla, vivere con lei da marito e moglie e, in caso di divorzio
o vedovanza, risarcirla economicamente attraverso tre pagamenti.
( 13 ) Su questo punto vedi L. AIKEN, To be a Jewish Woman, Jason Aronson
Inc., Northvale, New Jersey, London 1992, cap. 10.
( 14 ) Per quanto riguarda i miglioramenti apportati nel corso dei secoli alla posizione
della donna in seno al matrimonio ricordiamo che i rabbini decretarono
che il matrimonio non potesse avvenire senza il consenso della donna (Kiddushin
2b, 44a; Yevamot 19b); estesero le sue possibilità di ereditare, dandole la facoltà di
tener separata la proprietà posseduta prima del matrimonio (Ketubbot 78a) e di
rientrare in suo possesso in caso di vedovanza o divorzio. Infine, nel XI secolo,
Rabbenu Gershom di Meinz vietò la poligamia punendola con il bando di scomunica,
l’herem (all’uso del quale si faceva spesso ricorso per introdurre nuove leggi
nel periodo post-talmudico), e decretò che il marito non avesse il potere di divorziare
dalla moglie senza il suo consenso.

La questione femminile nella cultura ebraica contemporanea
nile ebraica. Anche in questo ambito i rabbini, sebbene sensibili all’iniquità
delle leggi bibliche in proposito pian piano abbiano adottato
una serie di misure protettive atte a salvaguardare la donna in
caso di divorzio, non hanno mai riconosciuto alla donna il diritto di
iniziativa, limitandosi a lasciare loro la possibilità di rivolgersi ad
una corte (bet din) affinché questa provveda a costringere il marito
recalcitrante a concederlo ( 15 ). Tra i maggiori disagi legati all’impossibilità
delle donne di chiedere il divorzio vi sono le due condizioni,
fortemente penalizzanti, in cui possono trovarsi le donne coniugate:
agunah e yevamah. La prima è la donna ‘legata’, status in cui si possono
trovare le donne. In caso di scomparsa o morte presunta del
marito, o in caso in cui il marito non conceda il divorzio, continuano
a rimanere legalmente sposate (eshet ish) non potendo quindi risposarsi.
La yevamah è invece la donna la quale, rimasta vedova e
senza figli, in virtù della legge sul levirato, è destinata in sposa al fratello
del defunto marito. Questi può rifiutare di sposarla ma deve dichiararlo
durante una cerimonia (halitzah), altrimenti la donna rimane
agunah ( 16 ).
La discussione sul problema delle agunoth, sebbene trattato nella
Bibbia solo in Ruth I, 13, è ampiamente presente nel Talmud, poiché
la tragicità della condizione di agunah ha spinto i rabbini a creare
nuove legislazioni in materia, ma senza che ciò abbia sostanzialmente
mutato la situazione ( 17 ). Probabilmente tra le soluzioni più
rispettose di un principio di eguaglianza tra i sessi vi sarebbe proprio
quella di attribuire alle donne il diritto di chiedere il divorzio attra-
299
( 15 ) I casi in cui la donna può rivolgersi alla corte sono principalmente tre:
quando il marito sia afflitto da certe malattie che sono insopportabili per la moglie;
quando il marito rifiuti di adempiere ai suoi due fondamentali doveri coniugali:
il mantenimento finanziario e gli obblighi sessuali; quando ci sia incompatibilità
sessuale tra i due coniugi. Oggi, nel mondo diasporico ortodosso, sono molte
le donne che si rivolgono alla corte.
( 16 ) La legge del levirato risale al periodo biblico e se ne trovano tracce nella
storia di Judah e Tamar e nel libro di Ruth. Il levirato era considerato dal Deuteronomio
come l’obbligo del fratello di perpetuare la discendenza del defunto.
( 17 ) Cfr. B. GREENBERG, On Women and Judaism. A View from Tradition, The
Jewish Publication Society of America, Philadelphia-Jerusalem 1981, p. 134 s.: «I
rabbini hanno assunto enormi poteri nell’interpretazione della legge divina, e anche
nell’apportare innovazioni, nelle situazioni in cui le esigenze generali della comunità
richiedono un adeguamento alla realtà piuttosto che la razionalizzazione
di un pesante status quo. Il fatto che i rabbini non compiano l’ultimo passo nel
rendere paritaria la legge sul divorzio indica che ciò che li guida nelle loro interpretazioni
è un senso di paternalismo e di gerarchia, piuttosto che uno di uguaglianza
tra maschio e femmina».

300
LAURA PALOMBA
verso una takkanah (decreto rabbinico) che avrebbe il vantaggio di
rientrare nella tradizione della legislazione ebraica ( 18 ). Il rifiuto dei
rabbini a compiere questo passo non può allora che suonare alle
orecchie dei movimenti femministi o come l’ammissione della propria
incapacità di essere tramite tra la legge e il popolo o come segno
della loro precisa volontà di tenere le donne powerless.
Per spiegare questo rapporto di disparità a cui la donna è sottoposta
all’interno del matrimonio Judith Romey Wegner chiama in
causa la sessualità. Nel suo Chattel or Person? The Status of Women in
the Mishnah l’autrice rileva come, nella sezione della Mishnah dedicata
alla donna, questa sia a volte caratterizzata come proprietà a
volte come persona autonoma, precisando che la differente definizione
si basa sul fattore sessuale. Ovvero, se una donna ha ancora un
potenziale riproduttivo, è assunta come proprietà dell’uomo (padre,
marito o cognato) che abbia interesse a controllarlo, mentre negli altri
casi è assunta come persona autonoma (J.R. WEGNER, Chattel or
Person? The Status of Women in the Mishnah, Oxford University
Press, Oxford 1988). Nell’ebraismo, dunque, come peraltro in altre
tradizioni culturali, la donna è ulteriormente definibile in termini di
“funzionalità” alla costruzione comunitaria e ciò permette di capire
anche perché i rabbini siano interessati a codificare i comportamenti
sessuali all’interno della comunità attraverso disposizioni puntigliose.
Alla base di queste norme vi è la visione che i rabbini hanno della
sessualità maschile e femminile. La prima è considerata attiva ed
egocentrica, di conseguenza, essendo una minaccia per la stabilità
della famiglia, va controllata attraverso l’obbligo della procreazione,
dei doveri maritali, dei potenti tabù sull’omosessualità, l’incesto e le
pratiche sessuali ‘devianti’; l’altra, quella femminile, è considerata
introversa e passiva in quanto, in seguito al peccato originale, non
può essere esplicitata e deve attendere l’iniziativa maschile ( 19 ). Da
( 18 ) Ivi, p. 141: «se, come fanno notare gli halachisti difendendosi, il matrimonio
è un mutamento di status piuttosto che l’unilaterale acquisizione di una donna
da parte di un uomo, se una donna è scambievolmente attiva e partner reciproca
in tutte queste transazioni, se il divorzio è halachicamente più corretto di un annullamento
per porre fine ad un matrimonio, allora il fatto che sia la donna a consegnare
il get quando l’uomo rifiuta potrebbe essere la soluzione halachicamente
migliore tra tutte».
( 19 ) Proprio perché il soddisfacimento della passione femminile, che tra l’altro
è considerata dai rabbini più intensa di quella maschile, dipende dall’uomo, causando
anche in questo caso un forte squilibrio di ruoli tra i due sessi, l’Halachà
stabilisce piuttosto severamente la frequenza e le modalità più appropriate della
sessualità coniugale attraverso le leggi della niddah (la donna mestruata) e del-

La questione femminile nella cultura ebraica contemporanea
ciò deriva il dovere del marito a mitigare l’asprezza di questa condanna
andando incontro al desiderio della moglie. In un passo
mishnaico troviamo stabilita la frequenza dei rapporti coniugali in
base al tipo di lavoro del marito e al tempo che questo lo tiene lontano
da casa, in modo che egli possa svolgere la sua occupazione lavorativa
e nello stesso tempo adempiere ai propri doveri maritali ( 20 ).
Un ulteriore tematica legata alla sfera familiare è quella relativa
alla contraccezione e all’aborto, particolarmente interessanti anche
nel permetterci di rilevare l’ideologia comunitarista che sottende la
totale mancanza da parte dell’individuo di libertà deliberativa nel
decidere nell’ambito di questioni che la modernità ci ha abituato a
definire ‘personali’ ( 21 ). La contraccezione è permessa dai rabbini,
301
l’onah (i diritti sessuali della moglie, i doveri sessuali del marito). Il giudaismo
considera impura sia la donna mestruata che la donna che ha appena partorito e la
definisce niddah (esclusa, ostracizzata), perché essendo impura non può avvicinarsi
al luogo della presenza divina, come per esempio la Sinagoga. Per quanto riguarda
l’impurità legata al parto, è significativo il fatto che la durata del periodo
di impurità dipenda dal sesso del bambino: 40 giorni se si partorisce un maschio,
80 se si partorisce una femmina. Per quanto concerne il ciclo mestruale, l’impurità
dura dall’inizio del ciclo fino all’immersione purificatrice nel bagno rituale
(mikvah) e durante questo periodo il contatto tra marito e moglie è assolutamente
vietato in quanto renderebbe impuro, e quindi escluso dal Tempio, anche l’uomo.
( 20 ) Così un cammelliere deve adempiere all’obbligo dell’onah una volta al
mese, un marinaio una volta ogni sei mesi, un mulattiere deve adempiervi una
volta a settimana e così via fino ad arrivare agli studiosi della Torah che devono
adempiervi una volta alla settimana e preferibilmente la notte del venerdì. Il Talmud
stabilisce anche due particolari situazioni in cui il marito deve provvedere ai
suoi obblighi: prima di compiere un viaggio (Yevamot 62b) e prima del ciclo mestruale
(Pesahim 72b) e, infine, durante la gravidanza.
( 21 ) Per dimostrare ulteriormente come il severo controllo della sessualità femminile
sia considerato un mezzo per mantenere intatti i privilegi economici e sociali
degli uomini e come la sessualità maschile sia assunta come norma sulla base
della quale plasmare anche le esigenze e le esperienze delle donne, può essere utile
ricordare le posizioni rabbiniche in materia di adulterio e di omosessualità. Si tenga
conto del fatto che l’incesto e l’adulterio sono considerati trasgressioni sessuali
(giluy arayot), mentre la sessualità al di fuori del matrimonio e il lesbismo, pur essendo
proibiti, non sono considerati trasgressioni. La lista delle trasgressioni sessuali
e dei tabù è contenuta in Levitico XVIII. Da una parte, la proibizione dell’adulterio
è indirizzata sia all’uomo che alla donna, ma è quello commesso dalla
donna ad essere giudicato molto più severamente: una donna sposata può avere
rapporti sessuali solo con il proprio marito perché ella è “proibita a tutto il mondo”
(asurah le-kulei alma), mentre l’uomo sposato può avere rapporti con qualsiasi
donna purché questa sia libera da legami (penuyah). Dall’altra, per quanto riguarda
la concezione ebraica dell’omosessualità, è interessante notare che il lesbismo
non è inserito tra le proibizioni sessuali (a differenza dell’omosessualità maschile

302
LAURA PALOMBA
ma solo sulla base di precise disposizioni: da parte delle donne, in
presenza di specifiche circostanze e solamente nel nome della salute
della madre e del feto ( 22 ). Per quanto riguarda l’aborto, la fonte
normativa più diretta è Mishnah Oholoth 7:6:
Se una donna sta avendo un parto difficile, e la sua vita è in pericolo, allora
il feto può essere fatto a pezzi ed estratto membro dopo membro, perché la
sua vita ha la precedenza su quella del feto. Ma se la gran parte del feto è
già stata partorita, nessuno può toccarlo, perché la vita di una persona non
può essere presa per quella di un’altra ( 23 ).
Come vediamo, l’intera problematica viene regolata entrando nel
merito di quando inizia una vita umana. Infatti, finché il feto è ancora
totalmente, o in gran parte, entro la madre esso non viene considerato
una persona vivente (nefesh), ma solamente una parte del
corpo della madre (ubar yerekh immo, Hulin 58a e Gittin 23b), dunque
privo di diritti legali di proprietà ed eredità. Per questo motivo
che è severamente proibita in Levitico XVIII, 22), ed è ritenuto preferibile che
una donna abbia un rapporto omosessuale piuttosto che uno eterosessuale illecito,
in quanto il primo, non prevedendo un atto penetrativo, non è considerato un
rapporto sessuale vero e proprio. E questo sottolinea ulteriormente come la sessualità
femminile non solo deve conformarsi a canoni e criteri imposti dalle autorità,
parimenti a quella maschile, ma in più deve adeguarsi agli standards sessuali maschili
che costituiscono la norma in base alla quale vengono giudicate tutte quelle
situazioni che i rabbini reputano non normative. Infatti, tutte le categorie di “sessualità
deviata”, come l’incesto, l’adulterio, il lesbismo, sono concepite a partire
dall’atto sessuale maschile, mentre le esperienze sessuali delle donne rimangono
halachicamente silenziose. Su tutto ciò cfr. R. BIALE, op. cit., p. 197: «L’esperienza
sessuale maschile delle relazioni eterosessuali costituisce lo standard a partire dal
quale definire ciò che è un atto sessuale, e quindi ciò che costituisce una trasgressione
sessuale. Tutte queste categorie di rapporti sessuali devianti sono giudicati
attraverso lo stesso parametro di “sessualità normativa”. La sessualità normativa,
nel diritto ebraico, è eterosessuale, ad iniziativa maschile, e confinata entro il matrimonio».
( 22 ) In Yevamot 12b troviamo esaminate tre situazioni in cui la donna è autorizzata
a usare il contraccettivo al fine di evitare una gravidanza rischiosa: qualora
sia minorenne (anche se già sposata) e abbia tra gli undici e i dodici anni in quanto,
sebbene capace di concepire un figlio, ha un’alta percentuale di possibilità di
portare avanti una gravidanza rischiosa; se è già in attesa di un figlio, che potrebbe
rimanere schiacciato da un secondo feto; se sta allattando, perché una eventuale
gravidanza potrebbe costringerla a svezzare prematuramente il neonato. Infine esiste
una precisa gerarchia di contraccettivi più o meno consigliati predisposta dai
rabbini ed è assolutamente vietata all’uomo qualsiasi forma di dispersione del
seme (hashchatat zera levatalah).
( 23 ) Citato da B. GREENBERG, op. cit., p. 149.

La questione femminile nella cultura ebraica contemporanea
diventa prioritaria la vita della madre e, se essa è in pericolo, l’aborto
è permesso ( 24 ).
La tematica sulla contraccezione e sull’aborto è interessante perché
mi sembra indicativa del fatto che lo scontro tra tradizione
ebraica e femministe è spesso incentrato sull’accusa che queste ultime
muovono ad ogni forma di perseguimento di quello che è ritenuto
il bene della comunità a discapito degli effettivi interessi e diritti
di ciascuna donna. Di ciò, infatti, ritengo sia espressione anche
il fatto che, nel prendere in considerazione la legislazione ebraica in
materia di contraccezione e aborto, il mondo ebraico non sembra
poter fare a meno di tener conto delle ferite ancora aperte inferte da
Auschwitz alla comunità ebraica mondiale e della difficoltà che
quindi si ha a parlare di aborto dopo la perdita di milioni di vittime.
Così, questa tematica porta al severo confronto due opposti schieramenti:
da una parte i rabbini ortodossi i quali, in nome del dovere
di proteggere la vita (pikuah nefesh) «gridano contro l’aborto come
omicidio e come forma di genocidio»; dall’altra i critici dell’ortodossia
che accusano «il diritto ebraico e la tradizione di una totale noncuranza
verso gli essenziali diritti umani delle donne e la loro sottomissione
al ruolo di procreatrici» (R. BIALE, op. cit., p. 238).
2.3. La vita pubblica. – Prima di esaminare la presenza femminile nella
vita cultuale pubblica, che si manifesta prevalentemente all’interno
della Sinagoga, e quindi attraverso la preghiera e lo studio, i due simboli
fondamentali dell’appartenenza religiosa ebraica, è necessario fare
una breve premessa relativamente alla posizione che la donna assume
nei confronti dei precetti ebraici. Come è noto, i precetti ebraici che
governano la vita dell’ebreo credente sono numerosissimi. La maggior
parte di essi deve essere adempiuta sia dall’uomo che dalla donna; alcuni
sono invece legati al genere; infine ve ne sono altri che, pur non
essendo direttamente legati alle differenze biologiche, sono basati su
quelle di genere, ovvero sulla distinzione, ben delineata nell’ebraismo,
tra i ruoli sociali maschili e femminili ( 25 ). Questi ultimi sono i più
problematici ed interessano particolarmente il nostro discorso.
( 24 ) È inoltre interessante notare che lo spettro di pericoli che rendono ammissibile
l’aborto comprende anche i disagi psichici e lo stress che potrebbero portare
la madre ad avere tendenze suicide o che potrebbero mettere in pericolo la sua salute
mentale.
( 25 ) Per fare alcuni esempi, al primo tipo appartengono il divieto di uccidere,
l’osservanza delle leggi della purezza (kashrut) e del Sabato; al secondo, la circoncisione
per gli uomini e le leggi relative al ciclo mestruale per le donne. Infine, al
303

304
LAURA PALOMBA
Sebbene tali precetti dichiarino esplicitamente la distinzione di
ruoli basati sul sesso, nella Bibbia non troviamo alcuna definita
esenzione o inclusione delle donne in certi gruppi di precetti. Kiddushin
33b sistematizza esplicitamente tale materia:
Tutti i comandamenti positivi che sono circoscritti nel tempo [mitzvot aseh
she-hazeman graman]: gli uomini sono obbligati e le donne sono esentate.
Ma tutti i comandamenti positivi che non sono circoscritti nel tempo vincolano
sia l’uomo che la donna. Tutti i comandamenti negativi [mitzvot lo
ta’aseh], sia che siano circoscritti nel tempo sia che non lo siano, vincolano
entrambi gli uomini e le donne, eccetto: “Non taglierai [i riccioli], ne danneggerai
[gli angoli della tua barba]”, e “Egli non si contaminerà con il
morto” ( 26 ).
La Mishnah non ci offre alcuna spiegazione dell’esenzione delle
donne dalle prescrizioni che devono essere adempiute in un determinato
momento della giornata, della settimana, del mese o dell’anno.
Nel corso del tempo, però, sono state date diverse spiegazioni, tra le
quali la più interessante è sostenuta da Saul Berman che, notando
come le donne siano esentate da tutti i precetti per il cui adempimento
occorre recarsi fuori di casa, ritiene tale esenzione funzionale
alla natura domestica della donna ( 27 ). Nel suo studio The Status of
Women in Halakhic Judaism, Berman giunge alla conclusione che sia
precisa volontà dei rabbini interpretare il passo mishnaico come un
modo per prevenire qualsiasi situazione che possa distrarre la donna
dai suoi obblighi domestici:
terzo tipo, l’obbligo esclusivamente maschile di compiere un pellegrinaggio tre
volte all’anno e le leggi sull’eredità.
( 26 ) Citato da R. BIALE, op. cit., p. 11 ss. Sullo stesso tema vedi B. GREENBERG,
op. cit., p. 82 ss.
( 27 ) Seguendo lo schema della Greenberg, possiamo riassumere in altre quattro
teorie le spiegazioni di tale fenomeno: 1. XIV secolo: la teoria della gerarchia sessuale,
che pone l’uomo al vertice, secondo la quale la donna è esentata dai precetti
circoscritti nel tempo perché, essendo al servizio del proprio marito, deve essere libera
da qualsiasi impedimento che la costringerebbe a porre le esigenze di questo
in secondo piano. Dio stesso preferirebbe non interferire con gli obblighi coniugali
della donna rinunciando al suo adempimento ad alcuni precetti, perché ciò che
è più importante è l’armonia domestica. 2. XIX secolo: la teoria della gerarchia
sessuale che pone la donna al vertice. Essa ritiene che l’esenzione sia dovuta al fatto
che le donne, in virtù della loro superiorità spirituale, sono meno soggette alle
tentazioni che portano lontani da Dio e quindi non hanno bisogno di tutti i precetti
che invece vincolano gli uomini. 3. XIII secolo: la teoria della mancanza di
controllo secondo la quale le donne, così come lo sono i bambini e gli schiavi,
vengono esentate in quanto spiritualmente troppo fragili. 4. XX secolo: la teoria

La questione femminile nella cultura ebraica contemporanea
305
l’esenzione potrebbe essere utilizzata dalla Torah come uno strumento per
ottenere una particolare meta sociale, cioè assicurare che nessun obbligo legale
possa interferire con la scelta, da parte delle donne ebree, di un ruolo
che sia incentrato quasi esclusivamente nella casa ( 28 ).
A questo elemento di esclusione, non è secondario collegarne un
altro, che prevede l’esenzione femminile dalla recitazione di determinate
preghiere, alcune delle quali, come vedremo, sono altamente
significative per l’ebraismo. Berakhot 20b recita:
Donne, schiavi, minorenni sono esonerati dal recitare lo Shema, e dal portare
i filatteri, mentre sono tenuti a recitare le Diciotto Benedizioni, ad apporre
i Rotoli sacri sugli stipiti delle porte e a recitare la benedizione per il
pasto.
Come sottolinea la Greenberg «queste esenzioni non solo indeboliscono
il legame delle donne con la preghiera ma reprimono ogni
desiderio di essere considerate membri eguali della comunità santa»
(B. GREENBERG, op. cit., p. 85). Poiché la preghiera (tefillah) è un
elemento fondamentale nella vita dell’ebreo credente, in quanto è
un atto di giornaliero rinnovamento dell’alleanza con Dio, molte
femministe accusano i rabbini di non porsi il problema di quali siano,
in termini spirituali, le reali perdite che le credenti ebree subiscono
non potendo sentir proprie molte preghiere che animano la
religiosità ebraica ( 29 ). Ciò è ancora più grave se si riflette sul significato
e il valore delle preghiere di cui fa menzione nello specifico il
passo di Berakhot 20b. L’“Ascolta Israele” (Shema) è la preghiera
ebraica per eccellenza; sue sono le prime parole che vengono sussurrate
al neonato e le ultime che ogni ebreo credente vorrebbe udire
prima di morire. Essa è il simbolo del carattere monoteistico della
religione ebraica e rappresenta l’atteggiamento dell’ebreo teso al-
del controllo del tempo secondo cui, a causa del fatto che le donne possiedono un
orologio biologico che consente loro di essere molto più sensibili al passare del
tempo di quanto lo siano gli uomini, non hanno bisogno dei precetti che marcano
il fluire del tempo (B. GREENBERG, op. cit., pp. 82-85).
( 28 ) S. BERMAN, The status ..., cit., p. 121 s. Secondo l’autore, tale esenzione
rientra nella logica del sistema legale ebraico che definisce “orientato sullo stato”,
in cui «le leggi di base sono quelle che assicurano l’interesse sociale attraverso il
conferimento di status».
( 29 ) Ivi, p. 48: «negare il soddisfacimento di queste aspettative vuol dire assumere
che le donne non potranno mai essere uguali agli uomini nello spirito e nell’intelletto
e quindi umiliare e svergognare la classe delle donne; vuol dire anche
negare all’Halakhah il suo potere di interpretare la realtà – e la vita».

306
LAURA PALOMBA
l’ascolto della parola divina. Anche i filatteri sono simbolo dell’unicità
di Dio, in quanto ricordano quotidianamente il suo sodalizio
con il popolo ebraico, che qui però è rappresentato dalla sua sola
metà maschile se si tiene conto del fatto che «colui che mette i tefillim,
si copre con il talleth, legge lo Shemà e prega, è certo di avere
parte del mondo a venire (Menachoth)» ( 30 ).
L’insieme degli elementi di esclusione che ho rapidamente ricordato
implica necessariamente l’assegnazione di una sfera privata al
ruolo della donna ebrea che è del tutto assente nei momenti più significativi,
oltre che in quelli decisionali, della vita religiosa pubblica,
in cui si viene a costituire quel carattere collettivistico e comunitaristico
della religione e dell’etica ebraica. Si vuole cioè sottolineare
che una società fondamentalmente basata sulla prospettiva della
condivisione forte dei principi regolativi la vita del gruppo, principi
indicati e interpretati dall’alto dagli appartenenti al rabbinato, in
questo modo esclude totalmente l’elemento femminile da qualsiasi
possibilità di partecipare attivamente alla costruzione della morale
condivisa, caratterizzante l’appartenenza stessa al gruppo. Posta in
questi termini, la situazione nella comunità tradizionale rivela una
totale subordinazione basata su una differenza di genere non ulteriormente
giustificata ( 31 ).
( 30 ) Vedi E. GUGENHEIM, op. cit., p. 25. Per completezza, il passo citato permette
invece alle donne l’adempimento dei precetti delle Diciotto Benedizioni
(Shemoneh Esreh), il momento centrale della preghiera del mattino, e del ringraziamento
dopo i pasti (birkat ha-mazon), nonostante in quest’ultimo caso non
possano essere incluse nel zimmun, l’invito a costituire il gruppo di tre persone
che deve recitarlo. Il motivo che i rabbini adducono per spiegare questa inclusione
è il fatto che tali preghiere sono atti di ringraziamento con cui il fedele invoca la
pietà di Dio, di cui tutti, anche le donne e gli schiavi, hanno bisogno. Le donne
devono inoltre adempiere al precetto della mezuzah, possono, cioè, appendere sullo
stipite destro della porta d’ingresso, e delle porte delle stanze interne, l’astuccio
contenente due passi della Torah.
( 31 ) Simbolo emblematico e, per così dire, “fisico” di tale stato di cose è la
struttura architettonica della Sinagoga, luogo in cui si svolgono rituali altamente
significativi secondo una coreografia che esclude le donne. Essendo luogo di culto,
di studio e di servizio sociale, la Sinagoga è il simbolo di appartenenza alla comunità
ebraica, come dimostra il fatto che sia la parola greca, synagogos, sia quella
ebraica, beit knesset, usate per indicarla, significano “casa dell’assemblea”. Eppure,
la sua struttura è tale da riservare alle donne solamente una galleria o una sezione
separata mediante un muro (mehitzah) da quella maschile che, non solo risulta essere
molto più ampia, ma è anche più vicina all’arca santa e al centro del santuario
(bimah). Si ricordi che la mehitzah può essere costituita o da una parete divisoria
alta circa tre metri, oppure può essere rappresentata da una decorazione, per esempio
dei vasi di fiori o di piante. Spesso si tratta di un balcone, o addirittura di una

La questione femminile nella cultura ebraica contemporanea
Per quanto riguarda più propriamente il culto, è necessario sottolineare
anzitutto il carattere preminentemente pubblico e collettivo
della preghiera ebraica. Anche in questo ambito le donne non sono
considerabili membri a pieno titolo della comunità religiosa, in
quanto la loro preghiera è essenzialmente privata. Esse, infatti, non
potendo contribuire alla formazione del minyan, il quorum di dieci
uomini adulti, non possono recitare pubblicamente determinate
preghiere, tra le quali alcune di grande valore spirituale, per le quali
questo quorum è necessario ( 32 ). L’esclusione delle donne dalla possibilità
di costituire il quorum comporta una radicale eliminazione
dell’elemento femminile dall’aspetto comunitario dell’ebraismo, la
sua reclusione ai margini dell’assemblea che prega sentendosi unita
proprio per mezzo del minyan quale
307
relazione di interdipendenza halakhica, un taciuto, ma potente simbolo di
interdipendenza umana [...]. Ogni persona in un minyan rende capaci le
altre persone di soddisfare i requisiti del minyan. Reciprocamente, chi non
ha l’obbligo del precetto della tefilah be-tzibbur (la preghiera in un quorum)
non può mettere in grado un’altro di soddisfare l’obbligazione. La
preghiera nel minyan, quindi, è preferibile alla preghiera privata; essa rafforza
il senso di affiliazione (B. GREENBERG, op. cit., p. 85).
Un altro bersaglio polemico importante è la totale monopolizzazione
maschile dell’accesso all’autorità religiosa: tenute lontane dallo
studio dei testi sacri e dalla possibilità di interpretarli, le donne hanno
subito una triplice forma di espropriazione espressa con molta
chiarezza da Adrianne Baker:
stanza separata. Per questo motivo molte donne ebree hanno combattuto a lungo
contro questa palese forma di discriminazione, che spesso non permette loro neanche
di vedere o udire la cerimonia religiosa, sottolineando la svalorizzazione dell’apporto
spirituale femminile. A questo proposito è bene ricordare che alcuni rabbini
sono venuti incontro alle richieste delle femministe. Ad esempio, nell’Hebrew
Institute of Riverdale, a New York, entrambe le sezioni hanno uguale accesso alla
bimah e all’arca, che si trovano posizionate esattamente a metà tra le due sezioni, e
soprattutto sia la parte maschile che quella femminile sono dotate di accessi alla
bimah. Il rabbino di questa sinagoga, Rabbi Avi Weiss, volle questa struttura architettonica
proprio perché la separazione tra uomini e donne non fosse motivo di
segregazione ed esclusione di queste ultime dall’attività liturgica. Rabbi Avi Weiss
è anche una delle poche autorità rabbiniche ad aver scritto un responsum a favore
dei gruppi di preghiera femminili.
( 32 ) Le preghiere che richiedono la costituzione del minyan sono: la lettura della
Torah (aliyah la-Torah), cerimonia nella quale vengono letti dei passi della Torah
e un fedele viene invitato a leggere ad alta voce per la congregazione; la recitazione
del Kaddish, la preghiera che solo i figli maschi devono recitare al funerale

308
LAURA PALOMBA
La questione delle donne e dello studio della Torah è un problema particolarmente
delicato. Per prima cosa, certamente, riguarda il potere: senza
un’adeguata conoscenza delle fonti del diritto religioso e del complesso dibattito
dei rabbini su di esso, le donne sono mal equipaggiate anche solamente
nel trattare quelle aree dell’halachà nelle quali sono svantaggiate. In
secondo luogo, la discriminazione che continua ancor oggi nei gruppi ortodossi
contro lo studio approfondito della Torah da parte delle donne nega
loro uno status, dal momento che nell’ebraismo è sempre stata attribuita
considerazione all’insegnamento della Torah. In terzo luogo, l’effettiva
esclusione dalle difficoltà delle argomentazioni talmudiche ha impedito
alle donne di essere capaci di accostarsi ai problemi contemporanei con solide
conoscenze religiose (A. BAKER, op. cit., p. 50 s.).
Per questo le femministe ebree puntano il dito contro l’esclusione
delle donne dallo studio dei testi quale prima barriera che è necessario
abbattere per ottenere un ruolo decisionale e far proprio
il linguaggio delle fonti tradizionali dell’ebraismo. [...] Questo linguaggio è
cruciale, non solo al fine di comprendere la storia dell’Halachà e ciò che la
vita ebraica è stata, ma anche per formulare oggi nuove aspirazioni e una
nuova esistenza ebraica (R. BIALE, op. cit., p. 9).
Infine, l’ultimo argomento della polemica femminista, è rappresentato
dall’esclusione delle donne dal rabbinato ( 33 ). Esso costituisce
l’istituzione finalizzata alla forma più specialistica di studio e di
trasmissione della fede e della tradizione ebraica, attraverso una costante
rielaborazione dell’Halakhà. Le donne, come abbiamo detto,
non hanno mai avuto accesso al rabbinato, con la conseguenza che
non hanno mai raggiunto il diritto e il potere di essere personalmente
fautrici di tutti quei cambiamenti che nel corso del tempo hanno
determinato un miglioramento della loro posizione, sia in campo religioso
che civile ( 34 ). Ed è proprio questo aspetto che le femministe
del proprio genitore e durante tutto l’anno di lutto; le preghiere di santificazione
(Kedushah e Barekhu); la consolazione per il lutto; le sette benedizioni nuziali.
( 33 ) La figura del rabbino ha una doppia funzione: da una parte quella specificamente
religiosa e spirituale, poiché egli è il capo religioso di una comunità e
deve essere guida spirituale e sostegno morale per i suoi fedeli. Dall’altra quella
più marcatamente politica e giuridica, in quanto rappresenta l’interprete dei testi
sacri e, quindi, delle fonti del diritto ebraico attraverso cui vengono regolamentati
tutti gli aspetti, sociali, economici, politici, spirituali, della comunità.
( 34 ) Cfr. S. GROSSMAN-R. HAUT, Introduction, in S. GROSSMAN-R. HAUT, op.
cit., p. 7: «Dichiaratamente, i leaders rabbinici hanno sempre fatto il possibile per
assicurare che le donne ricevessero un’adeguata protezione dalla insensibilità maschile
e che le loro esigenze fossero soddisfatte [....]. Questi sforzi, però, erano tentativi
paternalistici di proteggere i diritti dei deboli, non di affrancarli».

La questione femminile nella cultura ebraica contemporanea
anti-paternaliste contestano, in quanto demandare alle autorità rabbiniche,
come sinora si è fatto, la responsabilità di apportare miglioramenti
alla posizione delle donne vuol dire prorogare quella situazione
di paternalismo di cui, come dice giustamente la Greenberg, le
donne non hanno bisogno ( 35 ).
Tra le iniziative intraprese dai movimenti femministi per replicare
a queste molteplici forme di esclusione delle donne dai ruoli fondamentali
della sfera religiosa ebraica possiamo assumere come
esempio la costituzione di gruppi di preghiera femminili, ovvero
delle comunità di donne che si riuniscono regolarmente, solitamente
uno o due volte al mese, per pregare insieme ( 36 ). Le posizioni assunte
dalle autorità rabbiniche nei confronti dei gruppi di preghiera
sono essenzialmente negative e non può sorprendere, se ricordiamo
le tesi di Saul Berman, il fatto che tra gli argomenti più spesso utilizzati
contro la legalità di questi gruppi, soprattutto dall’ebraismo ortodosso,
è frequente quello secondo il quale essi costituiscono una
minaccia per la stabilità familiare ( 37 ). Ma, nonostante le numerose
critiche, questi gruppi di preghiera continuano la loro elaborazione
di un nuovo modo di pensare la religiosità ebraica al femminile,
come dimostra la celebrazione, nel 1988, di un servizio liturgico a
Gerusalemme presso il Kotel, il muro occidentale, attraverso la quale
ebree ortodosse, riformate, conservatrici, ricostruzioniste, provenienti
da diversi paesi (soprattutto degli Stati Uniti) e anche da Israele, affermarono
il loro diritto ad essere protagoniste delle evoluzioni storiche e
spirituali del proprio popolo. Quello stesso anno si tenne la prima
conferenza internazionale delle femministe ebree e nacque l’organizzazione
“Le donne del muro” il cui gruppo di preghiera, che raccoglie
ebree ortodosse e riformate, fu oggetto di tali attacchi, fisici e verbali,
che dovette appellarsi alla Suprema Corte d’Israele perché gli venisse
309
( 35 ) La critica al paternalismo è presente anche nel femminismo cattolico. Vedi
M. DALY, op. cit.
( 36 ) È importante sottolineare che questi gruppi agiscono nel rispetto delle leggi
halachiche, tanto è vero che non sono dei minyanim e non recitano tutte quelle
preghiere per le quali è necessario il minyan.
( 37 ) Rivka Haut, per esempio, riporta il responsum di Rabbi Menashe Klein,
in cui egli descrive in questi termini le donne che sono membri dei gruppi di preghiera:
«trascurano i loro doveri e i precetti che sono loro prescritti» e «corrono a
riunirsi e formare minyanim femminili, che non costituiscono un loro dovere o un
loro precetto. Si rifiutano di allevare i figli e fanno ogni sorta di cosa per evitare il
concepimento, e anche solo da questo noi vediamo che non lo fanno per amore
del cielo», R. HAUT, Women’s Prayer Groups and the Orthodox Synagogue, in S.
GROSSMAN-R. HAUT, op. cit., p. 155.

310
LAURA PALOMBA
offerta protezione. Il motivo di tanto clamore formatosi intorno ai
gruppo di preghiera femminili è racchiuso nelle semplici parole di
Rivka Haut che vi prese parte: «Scegliemmo di agire esattamente
nella stessa arena nella quale stavano lottando gli uomini – l’arena
religiosa» operando in questo modo dall’interno del punto nevralgico
dell’ebraismo, quella sfera religiosa che si traduce sempre e comunque
nella piattaforma nella quale solo gli uomini, fino ad ora,
hanno preso le più importanti decisioni sul futuro dell’universo della
Torah ( 38 ).
Il contributo che i gruppi di preghiera apportano alla crescita spirituale
delle donne è duplice. In primo luogo esso consiste nell’amore
per la preghiera e per la Torah che essi trasmettono alle credenti
mediante la creazione di cerimonie, rituali e preghiere che offrono
loro la possibilità di affiancare, a quella maschile, momenti di spiritualità
femminile altrimenti ignorati. Ne sono esempio nuovi rituali
come quello che celebra la partecipazione della madre all’imposizione
del nome al neonato/a, mentre altri vengono resi più significativi,
come la cerimonia per la Bat mitzvah (la Figlia del precetto), con cui
si celebra la maggiore età religiosa delle bambine e che sovente nell’ebraismo
ortodosso viene ignorata ( 39 ). Per quanto concerne invece
il lato più propriamente educativo e formativo del progetto dei
gruppi di preghiera, essi hanno il merito di aver avvicinato le donne
allo studio dei testi sacri sia mediante l’appoggio di vere e proprie
classi di studiose impegnate nell’interpretazione della Torah, sia con
( 38 ) R. HAUT, The Presence of Women, Ivi, p. 274.
( 39 ) Il rito dell’imposizione del nome è differente per neonato e neonata. Per il
primo, avviene all’atto della circoncisione, per la seconda avviene in sinagoga, in
occasione del primo Sabbath (oppure alla prima occasione delle due letture settimanali
della Torah, lunedì e giovedì) che segue la nascita: il padre è chiamato alla
lettura della Torah, durante la quale annuncia il nome della bambina e recita una
preghiera per lei e per la madre, la quale spesso è assente. Nei gruppi di preghiera
è la madre ad assegnare il nome alla propria figlia. Su questo punto vedi anche
D.I. LEIFER-M. LEIFER, On the Birth of a Daughter, in E. KOLTUN, op. cit., in cui
due coniugi, membri dell’Upstairs Minyan, un gruppo sperimentale finalizzato a
conseguire l’eguaglianza di status delle donne, riportano una celebrazione elaborata
in occasione della nascita della loro figlia Ariel Hanna, nella quale tutte le forme
di discriminazione sessuale, solitamente presenti nelle cerimonie ortodosse,
vengono sostituite con formule e rituali che assegnano uguale status all’uomo e
alla donna. Per quanto riguarda la cerimonia per la Bat mitzvah, non solo è stata
introdotta molto di recente (un secolo fa), ma è osteggiata da molti rabbini e rifiutata
completamente dall’ebraismo ultra ortodosso che celebra solo la maggiorità
maschile. Sulla cerimonia per le ragazze vedi C. KOLLER-FOX, Women and Jewish
Education: A new look at Bat Mitzvah, in E. KOLTUN, op. cit.

La questione femminile nella cultura ebraica contemporanea
la distribuzione di midrashim scritti durante queste riunioni di studio
affinché siano utilizzabili da tutti i gruppi di studio. Questo è
possibile grazie al proprio Network, un’organizzazione generale dei
gruppi di preghiera costituitosi proprio per rispondere agli attacchi
ricevuti dai gruppi femminili, tra cui quello mosso dal Riets Five
Responsum ( 40 ). Oggi, i gruppi di preghiera femminili sono una
concretizzazione talmente evidente del disagio sempre crescente con
cui molte donne ebree guardano alla propria religione, da diventare
«per molti rabbini una questione politica e non halachica» (R.
HAUT, Women’s Prayer Groups ..., cit., in S. GROSSMAN-R. HAUT,
op. cit., p. 149).
3. Il femminismo ebraico. – Il rapporto tra femminismo ed ebraismo è
divenuto ormai estremamente rilevante all’interno del processo complessivo
di sviluppo del mondo ebraico. Le problematiche da esso sollevate
rivelano come il movimento delle donne ebree sia frutto della
spinta emancipazionista con cui l’ebraismo si è dovuto confrontare a
partire dall’epoca moderna ( 41 ). Questa ha messo in discussione l’essenza
stessa dell’identità ebraica poiché, mettendo in secondo piano
l’aspetto legalistico, ha posto in luce il valore dell’alleanza intesa non
più come strumento che finisce per schiacciare l’individuo su una rigida
sottomissione alla legge, ma come elemento capace di lasciare
( 40 ) Si tratta di un responso che cinque rabbini del Rabbi Isaac Elhanan Teological
Seminary sottoscrissero per rispondere negativamente alla domanda posta dal
presidente della Yeshiva University, Rabbi Louis Bernstein, sulla legalità halachica
dei gruppi di preghiera. Si ricordi che tra le funzioni del Network vi è la pubblicazione
di un notiziario trimestrale, la promozione di conferenze per lo scambio di
idee tra donne di diversa provenienza, l’organizzazione di letture e concorsi di saggistica
sui più importanti problemi dell’ebraismo.
( 41 ) Cfr. S. HESCHEL, Introduction, in On Being A Jewish Feminist, Schocken
Books, New York 1983, pp. XLI-XLII. È importante specificare che il movimento
femminista in generale è figlio della natura riflessiva e individuata dell’identità
moderna, così come sono soprattutto le ideologie moderne, e il liberalismo in primis,
a combattere a favore del diritto dell’individuo a godere della propria libertà,
autonomia, il diritto a progettare personalmente la propria esistenza, tutti diritti, e
soprattutto quest’ultimo, che affondano le radici nella società moderna. Cfr. A.
GIDDENS, Le conseguenze della modernità, tr. it. a cura di M. Guani, Il Mulino, Bologna
1994, in particolare, per quanto riguarda il femminismo come movimento
sociale in rapporto alle dimensioni della società moderna, p. 170; P. BERGER-B.
BERGER-H. KELLNER, La pluralizzazione dei mondi della vita, tr. it. a cura di R.
Bernasconi, in L. Sciolla, (a cura di) Identità. Percorsi di analisi in sociologia, Rosenberg
& Sellier, Torino 1983, p. 181.
311

312
LAURA PALOMBA
ampio spazio alla creatività spirituale del credente (Cfr. H. KÜNG,
Ebraismo, tr. it. a cura di G. Moretto, Rizzoli, Milano 1992, soprattutto
p. 534 s.): il movimento femminista non può che ricevere conforto
da una prospettiva di tal genere che l’aiuta a svelare, attraverso
un’ermeneutica del sospetto, la natura umana e andropocentrica della
legge, denunciando l’ingiustizia sociale che essa perpetua nei confronti
delle donne ( 42 ). Non è dunque un caso che fu proprio all’interno dei
movimenti riformati, sviluppatisi sul finire del Settecento e gli inizi
dell’Ottocento in opposizione all’ebraismo ortodosso per far fronte
alle nuove esigenze socio-economiche, che si cercò di dare una prima
risposta alla questione femminile.
Su questa linea antilegalistica si sono sviluppati molti movimenti
ebraici non ortodossi, soprattutto nel Nord America e in Gran Bretagna.
Siano essi Riformati, Conservatori, Costruzionisti o Liberali,
questi movimenti privilegiano l’alleanza rispetto alla legge, optando
per un rovesciamento del rapporto uomo-legge in virtù del quale
l’ebraismo, da religione universalmente e rigidamente vincolante attraverso
la parola rabbinica, si trasforma in religione aperta al contributo
individuale, al pluralismo dei sentimenti religiosi, all’interpretazione
personale dell’alleanza con Dio ( 43 ). La stessa preghiera, che
rappresenta uno dei momenti fondamentali di colloquio tra l’uomo
e Dio, non è pensata più in termini di comunità, di quorum numerico,
ma in termini di relazione privata tra il fedele e il suo Dio ( 44 ).
( 42 ) Cfr. J. PLASKOW, op. cit., p. 71: «L’assunzione che la halakhà sia santa in
tutti i suoi aspetti perché è stata data a Mosè da Dio sul Sinai, viene messa in discussione
da una “ermeneutica del sospetto” femminista che considera la legge
una creazione umana e l’esamina criticamente alla luce dell’ordinamento sociale
che essa presuppone e crea. La halakhà potrebbe rappresentare una risposta a profonde
esperienze religiose, ma la stessa legge religiosa non è divina; essa è stata formulata
da maschi in una cultura patriarcale. La halakhà è in tutto e per tutto androcentrica.
Essa prende in considerazione e sostiene un ordinamento patriarcale».
( 43 ) Cfr. H. KÜNG, op. cit., p. 533 s.: «non l’osservanza, possibilmente letterale,
della legge può essere a lungo andare la carta d’identità e il metro dell’essere-ebreo,
ma la risposta viva alla volontà di Dio, in rapporto alla situazione. Oggi la fedeltà all’alleanza
di Dio con il suo popolo non può essere una semplice ripetizione della
fede ebraica classica».
( 44 ) E. FROMM, La legge degli Ebrei. Sociologia della Diaspora ebraica, tr. it. a
cura di A. Audisio, Rusconi, Milano 1993, p. 142. Per fare un esempio, nei Criteri
generali di un programma per il giudaismo liberale [Richtlinien zu einem Programm
für das liberale Judentum] del 1912, nel decretare che «lo svolgimento della
celebrazione liturgica è indipendente dal numero degli oranti», si assegna un ruolo
privilegiato alla preghiera privata e domestica, destituendo di significato il carattere
collettivo e comunitario che le era stato attribuito dal giudaismo rabbinico.

La questione femminile nella cultura ebraica contemporanea
Questo rifiuto di un rigido legalismo e di un’estrema ritualizzazione
della quotidianità ha portato i movimenti cui si faceva riferimento
a porre attenzione soprattutto alla sfera dei riti e delle cerimonie
con cui è minuziosamente ornamentata la religiosità ebraica,
dando loro modo di sperimentare e capire veramente quale secondarietà
rivestisse la spiritualità femminile, quanto essa fosse periferica e
svalutata. Tale presa di coscienza ha infatti portato le varie comunità
non ortodosse a porre fine, anche se faticosamente e solo sulla spinta
di ampi dibattiti, a tale marginalità per cui non sorprende che un’attiva
femminista ebrea statunitense come Judith Plaskow miri ad una
collaborazione con l’ebraismo “liberale” ( 45 ).
In questa lenta evoluzione vissuta dall’ebraismo a partire dal secolo
scorso è indubbia la presenza influente delle conquiste ottenute
dai movimenti femministi nord americani per i diritti civili. Da ciò
consegue che, sebbene l’oggetto della mia analisi sia il femminismo
ebraico, non si può prescindere dal contesto internazionale che lo ha
influenzato maggiormente e in cui esso ha ottenuto le sue principali
conquiste. Nel reclamare una piena partecipazione alla vita religiosa
e politica della comunità ebraica, nel sottolineare il valore della scelta
tra opzioni esistenziali diverse e nel lottare perché la voce delle
donne costruisca con pari diritto e valore la storia, la tradizione e il
linguaggio dell’ebraismo, ciò che molte femministe ebree statunitensi
hanno effettivamente fatto è stato impugnare il linguaggio dei diritti
(condito certamente da alcuni valori religiosi ebraici) tipico delle
correnti filosofiche e letterarie del femminismo americano, tra cui
il filone del femminismo liberale. Prima, però, di porre in luce quali
sono le caratteristiche che rendono il liberalismo un modello filosofico
auspicabile per venire incontro alle richieste di coloro che, come
le donne ebree o le donne musulmane, vivono l’arduo problema di
dover lottare contro l’imposizione di identità religiose e culturali che
a volte negano loro i più basilari diritti umani, mi sembra necessario
( 45 ) La comunità riformata ha eletto, nel 1972, la prima donna rabbino e, tre
anni dopo, la prima donna cantrice (hazzanit); l’ebraismo conservatore, dopo aver
preso atto dei fermenti femministi di cui si fece portavoce l’Ezrat Nashim ha approvato,
nel 1983, l’ammissione delle donne al Conservativ Rabbinic Seminary e,
due anni dopo, ha contato la prima donna tra i suoi rabbini; il movimento ricostruzionista,
infine, non meno attento alle richieste femministe, dal 1975 ordina
le donne rabbine permettendo loro sia una piena partecipazione ai servizi sinagogali
sia di testimoniare di fronte al bet din di cui sono considerate membri a pieno
titolo. Quanto all’ebraismo liberale britannico, anch’esso fin dagli anni ’70 conta
delle donne tra i suoi rabbini e permette loro una piena partecipazione alla vita religiosa
pubblica.
313

314
LAURA PALOMBA
soffermarmi sulla specificità del femminismo ebraico. Questo si caratterizza
per la sua intrinseca natura religiosa, la quale lo porta a
dover necessariamente fare i conti con il fatto che le donne ebree vogliono
poter rivendicare la propria autonomia di donne pur mantenendo
l’identità ebraica.
Come è noto, vivere in un contesto rigidamente religioso, come
quello ebraico o islamico, implica che l’identità religiosa, con tutte
le conseguenti connotazioni di status ascritti, venga inculcata nel
singolo individuo fin nell’età dell’infanzia, con il risultato che egli
percepisce la religione come elemento costitutivo della propria identità.
Nei contesti religiosi profondamente patriarcali le donne sono
solitamente educate a rivestire un ruolo subordinato, cosicché per
loro interiorizzare i valori religiosi significa imparare ad abitare ai
margini della propria religione, fungendo da strumento per il raggiungimento
di quei fini che risultano di valore per chi sta al potere.
Si è definito il contesto religioso ebraico come “rigido”: si tratta di
una rigidità e di un fondamentalismo resi necessari dalla storia di
persecuzione e di pericolo di estinzione che questa religione ha sempre
conosciuto e dalla quale è stata portata a circondarsi di un alone
di intransigenza nei confronti di qualsiasi tentativo di innovazione e
cambiamento vissuti come ulteriori attacchi alla propia natura. Tra
questi assumono rilievo i cambiamenti auspicati dai movimenti femministi
che, chiedendo gli stessi diritti tra uomini e donne all’interno
di una tradizione perennemente “minacciata”, pongono in crisi
una struttura la quale ha proprio nelle donne e nella famiglia lo strumento
principale per continuare a sopravvivere.
Questa tematica accomuna la condizione delle donne ebree a
quella delle donne di tutti quei paesi che, per essere stati colonizzati
o per aver comunque subito una minaccia di estinzione, utilizzano
questo argomento come uno strumento per realizzare una politica di
segregazione della donna. Non sorprende dunque che siano sempre
più numerosi i testi femministi volti ad analizzare il problema del
rapporto tra nazionalismo, religione e subordinazione di genere; al
di là delle differenze culturali, religiose e storiche esistenti tra le varie
realtà accomunate da questo fattore, e dei differenti esiti dal punto
di vista della subordinazione delle donne, disparità che ovviamente
devono essere tenute in conto, rimane comunque questo interessante
trinomio tra identità minacciata, comunitarismo e marginalizzazione
femminile.
Esso è appunto presente anche nell’universo ebraico della diaspora.
La minaccia di estinzione è cosa nota, e non necessita di essere chiarita
ulteriormente, sia per la sua portata, sia per l’antichità delle sue origi-

La questione femminile nella cultura ebraica contemporanea
ni. Il carattere comunitaristico è stato descritto nel secondo paragrafo
proprio mediante l’analisi del suo rapporto causale con quello che ho
definito il terzo aspetto, la posizione marginale attribuita alla donna in
seno alla comunità, i doveri e i diritti a lei riconosciuti (e soprattutto
quelli che le sono negati al fine di rendere possibile la necessaria sopravvivenza
del popolo ebraico) e le battaglie che ormai da più di
trent’anni le femministe ebree nordamericane conducono per ottenere
un miglioramento della propria condizione. Anche all’interno dell’ebraismo,
infatti, si investono le donne di un particolare compito,
quello di essere portatrici e preservatrici dell’identità del proprio popolo.
Questo comporta che qualunque forma di ribellione esse tentino
di realizzare, assuma la dimensione di
315
un tradimento: della nazione, della comunità, della rivoluzione, della religione,
della cultura, insomma un tradimento dell’identità minacciata, una
collusione con il nemico esterno ( 46 ).
Come riassume Farida Shaheed, studiosa del femminismo islamico,
le donne musulmane sono estremamente limitate nel poter anche solo sognare
una possibile autodefinizione diversa che permetterebbe loro di mantenere
la propria identità etnica aumentando allo stesso tempo il loro spazio di
autonomia come donne. Questo è in parte perché sono schiacciate e arginate
da molti livelli di identità definite per loro dalla cultura etnica nazionale
o religiosa che vengono poi trasformate in leggi esterne e quindi interiorizzate
(F. SHAHEED, Women Living under Muslim Laws, citato in S.
Moller Okin Un conflitto sui diritti fondamentali, in “Filosofia e Questioni
pubbliche” vol. III, n. 1, anno 1997, Armando editore, Roma, p. 15).
Come non cogliere le similitudini tra queste parole e quelle usate
dalla pensatrice ebrea Blu Greenberg contro il silenzio dei rabbini di
fronte alle richieste delle donne di apportare dei cambiamenti decisivi
e necessari alla tradizione legislativa ebraica? Le accuse rivolte al
femminismo ebraico sono infatti:
manomettere l’Halachà, cambiare l’immutabile, annacquare l’ebraismo,
minare la famiglia, distruggere la virtù della modestia femminile, confondere
i ruoli, mischiare religione e politica sessuale. E infine la velata e lontana
minaccia che, mentre tutti questi emendamenti nell’Halachà di per se
stessi possono essere buoni, tutte queste riparazioni alla fine mineranno la
Torah, la tradizione, i precetti, l’Halachà, le norme, la fede, la stabilità, le
( 46 ) M.A. HÉLIE-LUCAS, Strategie femminili nel mondo musulmano, in S. PICCO-
NE STELLA-C. SARACENO, Genere. La costruzione sociale del maschile e del femminile,
Il Mulino, Bologna 1966, p. 291 s.

316
LAURA PALOMBA
radici; in breve, tutto ciò che è a noi così caro. Questo è un carico veramente
pesante da sopportare per il femminismo (B. GREENBERG, op. cit., p. 49).
Oltre a ciò, a caratterizzare il femminismo ebraico è il fatto che
esso non può fare a meno di subire l’influenza della tradizione religiosa,
e ciò lo porta a interpretare in maniera diversa alcuni concetti fondamentali
delle battaglie femministe. In primo luogo, la famiglia va
sempre tutelata come istituzione primaria anche per le femministe
ebree, le quali non hanno alcuna intenzione di rifiutarla, ma aspirano
a mutarne gli aspetti oppressivi che essa comporta per le donne ( 47 ).
Una seconda caratteristica consiste nel rifiuto di ogni forma di separatismo
nella convinzione che anche l’uomo vada “liberato” e che non ci
possa essere una liberazione delle donne finché si assumono gli uomini
come controparte ostile. Ciò deriva dal concetto, profondamente
radicato nell’ebraismo, secondo il quale Dio ha creato la prima donna
e il primo uomo differenti perché ha attribuito loro diverse funzioni e
diversi scopi. Di conseguenza molti ebrei e molte ebree rifiutano il
femminismo tradizionale perché vi vedono l’annullamento di queste
differenze e l’erroneo desiderio delle donne di voler diventare uguali
agli uomini perdendo la propria specificità. In realtà, come evidenzia
la Plaskow, non si tratta di annullare le differenze ma di rifiutare che
esse vengano assunte come valore divenendo uno strumento di gerarchizzazione
che pone le donne in uno stato di subordinazione ( 48 ).
Si potrebbe quindi desumere che il femminismo ebraico abbia
fatto proprio il concetto dell’eguaglianza nella differenza pur con sostanziali
diversità rispetto al femminismo europeo e statunitense,
perché resta sempre vivo il progetto ebraico di realizzare una meta
precisa al raggiungimento della quale tutti devono collaborare con la
propria specificità e con l’impegno in precisi ambiti. Ciò che le femministe
ebree chiedono è, come si è detto, il diritto per le donne di
partecipare a questo progetto con un ruolo decisionista.
( 47 ) Vedi B. GREENBERG, Judaism and Feminism, in E. KOLTUN, op. cit., p. 186:
«La vera centralità della famiglia significa che le femministe che prendono sul serio
l’ebraismo, cercano ogni possibile via per rafforzare la famiglia e correggerne i
difetti, prima di rifiutarla». L’autrice indica come una delle strade da percorrere il
maggiore coinvolgimento dell’uomo all’interno della sfera domestica.
( 48 ) E ancora, «la battaglia femminista per eguali diritti nell’arena pubblica dell’ebraismo
non mette necessariamente in discussione quella divisione sessuale delle
sfere che circonda la marginalizzazione delle donne»; piuttosto attraverso di essa
«incominciamo l’arduo esperimento di cercare di creare una comunità ebraica in
cui la differenza non è né gerarchizzata, né tollerata, bensì realmente valorizzata»
(J. PLASKOW, op. cit., pp. 89-90).

La questione femminile nella cultura ebraica contemporanea
Il femminismo ebraico, per la sua specificità religiosa sviluppa anche
un suo particolare modo di operare contro la discriminazione di
genere. Solitamente le strategie poste in campo sono di due tipi. La
prima strategia porta alcune femministe a sostenere che il problema
è di tipo teologico, per cui mirano ad avanzare le loro rivendicazioni
rimanendo nell’ambito della propria cultura e religione e dimostrando
quindi come nel Corano o nel Talmud si trovi una giustificazione
delle loro ‘pretese’ e come il gap tra femminismo ed ebraismo
possa essere riassorbito. Tra queste la Plaskow, che ha infatti tentato
l’impresa di una ricostruzione dell’ebraismo in chiave femminista.
L’assunto di base è che le donne non possono limitarsi ad accedere a
tutti i ruoli che finora sono stati maschili; ovvero, non devono cercare
semplicemente di inserirsi in una tradizione che rimarrebbe comunque
maschilista, ma devono dar forma ad un nuovo ebraismo
nel plasmare il quale le donne e gli uomini ricoprano lo stesso potere
(Ivi, p. xvi). Per far questo le femministe puntano in primo luogo
sulla reinterpretazione dei concetti fondamentali dell’ebraismo la cui
formulazione esclusivamente maschile ha posto finora la donna da
una parte, come “Altro” silente rispetto alla norma rappresentata
dall’uomo; il punto d’arrivo vuole essere forgiare un nuovo ebraismo
che includa le esperienze e la voce delle donne. I termini principali
del discorso ebraico che occorre riformulare sono Torah, Dio e Israele.
Per quanto riguarda la prima, la Plaskow indica nella storiografia
femminista lo strumento per recuperare la presenza delle donne che
nella storia passata è stata volutamente celata dalle fonti “normative”
dell’ebraismo rabbinico. Per quanto riguarda Dio, l’ambito in cui
occorre operare è il linguaggio da cui finora questi è stato intrappolato
in un’immagine antropomorfica “al maschile” che non gli ha
permesso di assimilare anche connotati tipicamente femminili i quali,
piuttosto che celebrare un Dio dominatore di IsraeIe, evocherebbero
un Dio amico e compagno teso a investire il popolo prescelto
di mutua responsabilità nel forgiare il mondo. Infine, la teologa esamina
il concetto di Israele (inteso come comunità) in una maniera
che secondo me è molto interessante poiché nella definizione data di
questo concetto sembra essere presente un connubio tra valori comunitaristi
e diritti liberali. Da una parte, infatti, vi è l’enfasi tipicamente
comunitarista sull’importanza delle relazioni sociali per la costruzione
dell’io individuale, ma dall’altra vi è la consapevolezza che
la comunità ebraica è stata finora un luogo di oppressione di genere
e che laddove la struttura comunitaria non rinnega la perifericità
della spiritualità femminile elevando a statuto l’uguale diritto di par-
317

318
LAURA PALOMBA
tecipazione per tutti i membri, la comunità sarà simbolo di ingiustizia
sociale. Non sorprende dunque il fatto che, quando la Plaskow
parla di differenze di genere come valore e non come strumento di
subordinazione, di eguaglianza nella particolarità, di riconoscimento
dell’appartenenza a più comunità, si riferisca al progetto di creare un
nuovo modo di concepire la comunità che «incorpora i pregi del liberalismo
e contemporaneamente risponda alle sue imperfezioni»
(Ivi, p. 95). In poche parole, l’introduzione della prospettiva femminile
nella storia passata e futura di Israele si tradurrebbe per la Plaskow
nella creazione di una comunità ebraica pluralista, e dunque più ricca,
dove si riecheggia il concetto di Jewish Consensus come comunione di
destino, più che di fede, con cui lo studioso ebreo-americano Ben
Halpern indica un nuovo modo di pensare l’ebraismo alla luce della
modernità. È parere dell’autore che esso non funga da «ricettore di
una provvidenza divina, ma da ricettore delle diverse e tuttavia comuni
esperienze ebraiche», in un’ottica che mi sembra molto vicina
al modo liberale di concepire la comunità ( 49 ).
La seconda strategia utilizzata dal femminismo che non disconosce
il ruolo della religione fa uso di un approccio sociologico, con lo
scopo di tentare di rimediare ad una grossa ingiustizia sociale attraverso
l’accesso delle donne allo studio della Torah. Cynthia Ozick,
per esempio, rileva come il principio su cui si basa l’esenzione delle
donne dal servizio liturgico pubblico, ovvero “l’onore della congregazione”,
svela come
per l’ebraismo, lo status delle donne è una questione sociale, non teologica.
Lo status sociale non è sacro; non può essere interpretato come voluto dalla
divinità; di esso ci si può pentire e ad esso si può porre rimedio ( 50 ).
Tale rimedio può essere apportato sostituendo lo stato di minorità
biologica, in cui le donne sono paternalisticamente intrappolate
dai rabbini attraverso la figura delle “figlie di Israele”, con l’estremo
valore dello status femminile nella sua capacità di rivelare un precetto
come “Non devi svilire l’umanità delle donne”, la cui assenza nell’Halachà
è, secondo la Ozick, un fatto di ingiustizia che mette in
discussione la stessa Torah. Questo secondo gruppo di femministe
( 49 ) Citato in H. KÜNG, op. cit., p. 506. Vedi anche il concetto di comunità
ebraica in E. BOROWITZ, The Jewish Self, in E.N. DORFF-L.E. NEWMAN, Contemporary
Jewish Ethics and Morality, Oxford University Press, Oxford 1995.
( 50 ) C. OZICK, Notes towards Finding the Right Question, in S. HESCHEL, op. cit.,
p. 126. D’accordo con la Ozick sono Blu Greenberg e Rachel Biale.

La questione femminile nella cultura ebraica contemporanea
risente dell’influenza del più vasto movimento delle donne a causa
del contesto plurietnico in cui esse si trovano a vivere: ciò concerne
in primo luogo le femministe ebree statunitensi, le quali non si sono
chiuse alle influenze della società nordamericana ma hanno fatto
propri molti progressi raggiunti dalla cultura statunitense e dal movimento
femminista, alcune volte accettandoli per la propria intrinseca
validità, altre volte ricercandone e trovandone le radici e la ‘familiarità’
con la propria religione.
Al di là di queste differenze, resta comunque il fatto che i bersagli
polemici comuni delle rivendicazioni femministe ( 51 ) riflettono
quell’insieme di valori quali la autonomia deliberativa, il diritto alla
parità partecipativa di tutti i cittadini, il libero accesso agli strumenti
formativi che sono inscritti nell’agenda delle filosofie liberali le quali
si sono affermate nel nord America proprio a partire da quegli anni
Settanta quando, come abbiamo visto, si è assistito anche al sorgere
dei primi movimenti femministi ebrei anglo-americani. Obiettivo
dell’ultima parte di questo lavoro sarà dunque quello di analizzare
brevemente quali strumenti concettuali a mio parere il pensiero liberal
può offrire alle donne ebree, e non solo, per uscire dallo stato di
minorità in cui si trovano da tempo. A questo studio sarà però necessario
premettere un esame dei fraintendimenti che mi sembra abbiano
impedito, sia al femminismo ebraico sia al pensiero femminista
occidentale, di sfruttare questo filone di pensiero per portare
avanti le proprie battaglie.
4. Le critiche femministe al pensiero “liberal”. – Una delle più note caratteristiche
del liberalismo in generale e di quello contemporaneo
in particolare è l’attenzione specifica che tale teoria pone sull’individuo
come portatore di diritti giudicati inviolabili sia dallo Stato che
dagli altri membri della collettività di appartenenza. L’individuo liberale
è concepito come un essere attivo, che trae soddisfazione dal
libero esercizio delle proprie capacità, avente una concezione personale
del bene e della buona vita intesa come il riflesso delle proprie
preferenze personali; è un individuo pienamente razionale nella mi-
( 51 ) Tra questi: la spartizione dei ruoli sociali, religiosi e politici in base al sesso,
con la conseguente attribuzione delle funzioni più prestigiose agli uomini; la
relegazione delle donne alla sfera biologica di madre, come unica alternativa; la
perpetuazione di questi due obbiettivi mediante una copertura legale e rituale che
le donne difficilmente possono scardinare non avendo l’accesso agli strumenti culturali
adeguati
319

320
LAURA PALOMBA
sura in cui è capace, partendo da tali preferenze e dalla propria concezione
del bene, di compiere una scelta autonoma delle opzioni esistenziali,
libero e capace di scegliere le proprie relazioni affettive all’interno
della comunità. Nella difesa di tale individuo e dei diritti
di cui è portatore, che sono poi sostanzialmente i diritti già affermati
e difesi dalla tradizione liberale classica, il liberalismo contemporaneo
mira essenzialmente a stabilire quali limiti lo Stato non debba
mai valicare nella gestione della propria cittadinanza. Questa particolare
difesa dell’individuo ha provocato al liberalismo molte critiche
da parte di chi rifiuta assolutamente ogni forma di individualismo
“egoistico” come modello della futura società post-moderna. È
perciò importante fare il punto sui contenuti dell’individualismo liberale
sia perché tra i suoi critici ci sono anche alcune teoriche femministe,
sia perché ritengo che, correttamente interpretato, esso costituisca
un valido sostegno per ogni tentativo di opposizione alla discriminazione
di genere.
Spesso, si diceva, alcune femministe accusano i pensatori liberal
di essere portavoce di un individualismo egoistico, celante una celebrazione
della priorità dell’individuo sulle richieste che gli vengono
avanzate dalla comunità in cui vive, una sorta di supremazia dell’io
atomistico totalmente autosufficiente che utilizza la comunità solo
in maniera strumentale per realizzare i propri fini. Tale critica mi
sembra troppo radicale perché nelle sue versioni più raffinate l’individualismo
liberale mira solamente a svincolare il singolo da tutta
una serie di impasses ideologiche, politiche e morali, con cui la comunità
in cui vive può imbrigliarlo rendendogli estremamente difficile
ogni progetto di autodefinizione. Questo mi pare fondamentale soprattutto
per la donna che vive in contesti religiosi come quello ebraico
o quello musulmano, in cui «le identità che le donne “scelgono”
per sé (per es. cosa farà, come si comporterà, il suo atteggiamento all’interno
della famiglia e, rispetto all’esterno, il tipo di occupazione
che sceglierà ecc.) sono tutte determinate per lei dai vincoli sociali e
ogni misura discriminatoria riduce le sue possibilità di esercitare
scelte autonome» (F. SHAHEED, Women Living ... cit., in “Filosofia e
Questioni pubbliche”, cit., p. 21).
In particolare, Sheila Benhabib e Iris Marion Young oppongono
a questo sé atomistico, che ha le sue radici in un’etica della giustizia,
le concezioni di un “Sé sociale” e di un’etica della cura le quali non
solo riconoscono il ruolo prioritario delle relazioni sociali nella costruzione
della propria identità, ma proprio per questo danno rilievo
alla concreta differenza tra le persone, piuttosto che alla loro astratta
umanità come farebbero molte teorie tradizionali tra cui il liberali-

La questione femminile nella cultura ebraica contemporanea
smo. Come è evidente il punto di partenza di questa critica è la distinzione
operata da Carol Gilligan tra etica della giustizia ed etica
della cura, dove la prima (prettamente maschile) mira all’universalità
e all’imparzialità e la seconda (prettamente femminile) alla tutela
delle relazioni morali. Iris M. Young, per suo conto, sostiene che la
ragione imparziale che gli individui rawlsiani sono chiamati ad utilizzare
nella posizione originaria, in quanto adotta «un punto di vista
esterno alle concrete situazioni dell’agire, un trascendentale
“sguardo da nessun luogo” non deformato dalla prospettiva, dalle
caratteristiche, dal temperamento e dagli interessi di alcun particolare
soggetto o insieme di soggetti», negherebbe le differenze nel suo
ridurre a unità la pluralità, nel suo «bisogno di un’unica soggettività
morale trascendentale» (I.M. YOUNG, Le politiche della differenza, tr.
it. a cura di A. Bottini, Feltrinelli, Milano 1996, pp. 127 s.). Sembra
però che la Young confonda, nella sua critica all’imparzialità liberale
e rawlsiana, il requisito morale dell’imparzialità con quello epistemologico
dell’impersonalità o dell’oggettività e che non colga come
il punto di vista imparziale rawlsiano, piuttosto che negare, inglobi
in sé tutte le possibili e differenti prospettive in gioco ( 52 ). Un altra
critica importante al liberalismo proviene da Virginia Held, una filosofa
nord americana che individua nella natura non contrattuale
del rapporto madre-figlio la base futura della sfera dell’ordine sociale
(V. HELD, Etica femminista. Trasformazioni della coscienza e famiglia
post-patriarcale, tr. it. a cura di L. Cornalba, Feltrinelli, Milano 1997).
La Held osserva come gli individui razionali di cui parla il liberalismo
sono necessariamente non relazionati e incapaci di creare gruppi sociali
cosicché assumere quale proprio punto di partenza gli individui intesi
come parti razionali di una contrattazione, sulla scia di alcune filosofie
tradizionali tra cui il liberalismo, vuol dire «sviluppare la fiducia,
la cooperazione e la società stessa sulle sabbie mobili degli individui
egoisti che perseguono il proprio profitto» (Ivi, p. 221).
Anche questa critica si basa, a mio parere, su un fraintendimento
delle reali e volute conseguenze della scelta nella posizione origina-
( 52 ) L. FERRAJOLI, Introduzione a M.I. YOUNG, Ivi, p. XI. Su questo punto vedi anche
W. KYMLICKA, Introduzione alla filosofia politica contemporanea, tr. it. a cura di R.
Rini, Feltrinelli, Milano 1996, p. 305 14n: «L’idea di imparzialità contestata da
Young è quella autoreferenziale di chi non solo si astrae, ma si estranea, oltre che dai
concreti interessi in campo, dalle concrete situazioni sulle quali è chiamato a decidere
e dai loro singolari e irripetibili contesti. Ma l’imparzialità può avere anche un significato
esattamente opposto: può voler dire assenza di interessi precostituiti o di
punti di vista preconcetti, valutazione equitativa di tutti i connotati specifici del caso
in esame e, quindi, valorizzazione e comprensione simpatetica di tutte le differenze».
321

322
LAURA PALOMBA
ria. Al di là del primo momento della scelta originaria, in cui necessariamente
gli individui rawlsiani non sono relazionati, successivamente
nell’opera del filosofo americano non è assolutamente esclusa
né la costituzione di gruppi e associazioni in cui il singolo possa trovare
un riconoscimento da parte degli altri membri, né l’importanza
della famiglia come luogo di sviluppo delle prime fasi della moralità
dell’individuo, per non parlare del concetto di fraternità, spesso
scartato dalle teorie democratiche come concezione impraticabile e
recuperato invece da Rawls nella prima parte della sua opera attraverso
il principio di differenza. Tutto ciò dimostra la debolezza dell’interpretazione
secondo la quale il liberalismo, e quello della “scuola”
rawlsiana in particolare, con il suo individualismo e il suo valore
della neutralità, giungerebbe a creare una società i cui membri si troverebbero
in perenne conflitto in quanto incapaci di nutrire altruismo
e benevolenza. Questa interpretazione è respinta dallo stesso
Michael Sandel, uno dei più tenaci critici del liberalismo e della deontologia
rawlsiana, quando definisce questo tipo di obiezione “sociologica”
e la rifiuta in quanto fraintende il significato della neutralità
liberale ( 53 ). Infine, ad osteggiare il liberalismo pur con alcune riserve
è la Plaskow la quale, infatti, riconosce ad esso il merito di aver
permesso alcune conquiste teoriche.
5. Femminismo, liberalismo, comunitarismo. – L’insieme di queste
critiche mostra come il mancato connubio tra alcuni femminismi
occidentali e il liberalismo celi in realtà una “parentela” sostanziale
tra i primi e il comunitarismo con il quale questi trovano un punto
d’incontro sul tema della differenza tra i due sessi in un modo che di
fatto ingabbia il femminile in definizioni nuove, date da donne, ma
che pur sempre sterilizzano e imprigionano il sé di chi è donna.
Questa parentela è negata da molte femministe, le quali specificano
che, se esse contestano il liberalismo, non sono neppure attratte dalle
assunzioni comunitariste. Pensatrici come la Held o la Young si
accodano a Marylin Friedman nel sottolineare come i comunitaristi,
( 53 ) M. SANDEL, Il liberalismo e i limiti della giustizia, tr. it. a cura di S. D’Amico,
Feltrinelli, Milano 1994, p. 22 s.: «l’altruismo e la benevolenza, per esempio,
sono assolutamente compatibili con questo liberalismo, e non c’è nulla nei suoi
presupposti che ne scoraggi la pratica. La priorità del soggetto non significa che
siamo governati da interessi egoistici, ma solo che quali che siano gli interessi che
abbiamo, essi devono essere gli interessi di qualche soggetto. [....] Le virtù solidaristiche
non sono in nessun modo in contrasto con questo liberalismo».

La questione femminile nella cultura ebraica contemporanea
a cui esse si affiancano nella critica al liberalismo, sono però manchevoli
nel non sottoporre ad alcun tipo di critica né i ruoli sociali
rivestiti dai sé femminili, né quelle comunità come la famiglia e il vicinato
che tanto essi valorizzano come luoghi di costruzione del sé,
ma che sono anche i centri dell’oppressione storica delle donne ( 54 ).
Puntando, come fanno la Young e molte filosofe italiane della differenza
sessuale, sia sul ruolo materno, che il riconoscimento delle differenze
tra uomo e donna preserva pericolosamente come patrimonio
delle donne, sia sul tipo di relazione madre/figlio come modello
sociale auspicabile ci troviamo di fronte al tentativo di assegnare alle
donne un ruolo sul quale il femminismo e il comunitarismo si incontrano.
Mi sembra di poter individuare il lato debole di tale tentativo
nell’estensione della relazione di cura materna a tutti i rapporti
sociali e interpersonali ( 55 ), poiché il concetto di cura implica l’esistenza
di un legame di reciprocità affettiva. Ad essa si può contrapporre
il tema di origine liberale del rispetto morale per l’autonomia
dell’altro in relazione a noi stessi, per ciò che l’altro ha di irriducibile
alla nostra persona e al nostro universo morale: si pongono in questo
modo delle relazioni interpersonali basate sulla pari dignità degli esseri
umani e si aggira l’ostacolo del paternalismo più o meno esplicitamente
contemplato dal rapporto di cura. Vivere le proprie relazioni
morali si traduce piuttosto nello scegliere, di volta in volta, con
quale rapporto morale di riconoscimento entrare in relazione con
l’altro ( 56 ).
Più volte si è criticato il femminismo per aver, in nome delle differenze
tra uomo e donna, sacrificato quelle tra donna e donna, espri-
323
( 54 ) Cfr. M. FRIEDMAN, Feminism and modern friendship in S. AVINERI-A. DE-
SHALIT, Communitarianism and individualism, Oxford University Press, Oxford
1992; V. Held, op. cit.; I.M. YOUNG, op. cit.
( 55 ) Il modello di affiliazione materna non è meno mono-causale del modello
dell’‘uomo-economico’ delle teorie tradizionali tanto criticate dalla Held.
( 56 ) Cfr. A. HONNETH, Etica del riconoscimento, in “Micromega. Almanacco di filosofia”,
1997, p. 113 ss. C’è infine un altro motivo per sfuggire alla tentazione di
alcuni femminismi di fare della relazione materna l’esclusivo paradigma del rapporto
sociale, e questa ragione è che, dopo un passato di «condanna all’eterna funzionalità
o fusionalità con l’altro», le donne hanno bisogno di imparare a ragionare in termini
di diritti e di utilizzarli come “misure oggettive”, per sentirsi con sé e soprattutto per
sé, e a vivere i rapporti con gli altri come momenti di auto-scoperta e auto-conferma.
Occorre cioè liberare le donne proprio dal quel ruolo di procreatrici e di crocerossine
dell’umanità in cui l’uomo, non meno che la natura e per certi versi non
meno di alcuni femminismi, le ha poste. Cfr. P. MELCHIORI, Crinali. Le zone oscure
del femminismo, La Tartaruga edizioni, Milano 1995, p. 128.

324
LAURA PALOMBA
mendo solamente gli interessi delle donne bianche, occidentali, eterosessuali
e benestanti; ma proprio laddove si è ormai riconosciuto questo
errore, si continua ad essere responsabili di esso non solo cercando
di dare una definizione univoca della donna ma parlando delle donne
esclusivamente in termini di madri. Fare ricorso alle differenza tra
uomo e donna per spiegare che cos’è la donna e a che cosa ha o non ha
diritto, vuol dire necessariamente tornare alla biologia il che, per le
donne, significa tornare alla maternità e rimanere intrappolate nel suo
mito. Non sorprende che questo femminismo abbia alle spalle l’influenza
di autrici come la Gilligan e la Chodrow che, pur non rientrando
nella categoria delle femministe radicali della seconda ondata, sono
per molti versi riconducibili ad una forma di fondamentalismo biologico
( 57 ). Inoltre, come mette bene in luce Elisabetta Galeotti, mentre le
teoriche femministe della differenza sessuale ritengono che rifiutarsi di
arrivare ad una definizione “stipulativa” e imprigionante della donna
renda impossibile la lotta e la formulazione di un programma politico
femminista in cui individuare alleati e nemici, sono proprio le teorie
che si basano sulla differenza sessuale ad essere difficilmente traducibili
in teorie politiche. È attraverso il rifiuto di una difesa uniformante e
massificatrice della differenza della donna dall’uomo che le teorie femministe
possono indicare una politica da seguire, consistente nell’individuazione
di una serie di strumenti con cui la donna come individuo
possa assumere forma. Questi elementi sono da cercarsi
fra le capacità strategiche piuttosto che fra le caratteristiche “essenziali”, o
ascritte in senso biologico o simbolico: la pratica riflessiva, l’esperienza,
l’analisi della propria posizione nel mondo, la vigilanza continua sui rapporti
interattivi. [....] Si tratta di capacità di orientamento che configurano
una soggettività molto libera, priva per così dire di “intrinsecità”, per poter
meglio svincolarsi dal proprio sé, per potersi infinitamente modificare ( 58 ).
Alla luce delle critiche mosse dalle donne di colore, dalle lesbiche o
dalle donne di diverso credo religioso alle femministe radicali, si può
recuperare un’indicazione presente nel pensiero liberal, partendo da
un elemento neutro per indicare strategie valide per qualunque categoria
di soggetto oppresso, ovvero partire dall’individuo e dai suoi diritti.
Cercare nell’individuo, di qualunque razza, genere e condizione
( 57 ) Su questo punto vedi L. NICHOLSON, Per un’interpretazione di «genere», in
S. PICCONE STELLA-C. SARACENO, op. cit., in particolare p. 55 s.
( 58 ) Ivi, p. 21. Sul tema cfr. E. GALEOTTI, Femminismo e teorie politiche, in “Filosofia
e Questioni Pubbliche”, cit., in particolare pp. 36-38.

La questione femminile nella cultura ebraica contemporanea
sia, il cavallo di battaglia della propria discussione permette di realizzare
quel femminismo nomade, “che viaggia attraverso il mondo [world-travelling]”
e che permette alle donne, ciascuna nella propria diversità,
ciascuna nei limiti del proprio contesto culturale, ognuna secondo
i suoi desideri, di capire che cosa volere e come ottenerlo ( 59 ).
6. La prospettiva “liberal”. – Come forse è già apparso da quanto detto
nelle pagine precedenti, è opinione di chi scrive che il femminismo in
generale e quello ebraico in particolare possano rinvenire delle preziose
indicazioni nella filosofia politica liberale sviluppatasi in questi ultimi
decenni. Si diceva, infatti, nell’introduzione che il mio punto di
riferimento principale è rappresentato dall’opera di John Rawls Una
teoria della giustizia. Se si vuole considerare, come è scopo di questo
lavoro, la situazione del femminismo ebraico della diaspora, sembra di
poter individuare nell’approccio teorico contenuto in quest’opera due
elementi, di cui il primo è in qualche modo funzionale al secondo, di
particolare rilievo per la costruzione di una teoria coerente. Il primo di
tali elementi è rappresentato da quegli individui senza corpo che partecipano,
non solo attivamente, ma soprattutto ab initio, alla determinazione
di quell’ecosistema sociale, politico ed economico, che li ospiterà
per tutta la vita. Ritengo infatti estremamente interessanti le possibilità
insite in quello che viene definito Gedankenexperiment rawlsiano,
consistente, come è noto, nell’immaginare una posizione originaria
(lo stato di natura del contrattualismo classico) in cui gli individui,
ignari di chi saranno, che cosa vorranno, che cosa potranno fare nella
società futura in cui andranno a vivere, sono chiamati ad accordarsi su
quali principi porre alla base di essa (S. Veca, Questioni di giustizia,
Pratiche Editrice, Parma 1985). Tra gli aspetti interessanti di questa
teoria vi è il fatto che essa progetta una decisione collettiva che però
ha in comune con le decisioni individuali l’importante coincidenza tra
decisione e accettazione ( 60 ).
( 59 ) «In sostanza, intorno al genere e al soggetto si giocano due partite, continuamente
ridefinite nelle loro regole: quella che consente l’autodefinizione e quella che
consente l’autoprogettazione. Questo è l’unico modo per incorporare nel concetto di
genere – un atto conoscitivo – il significato della mobilitazione sociale delle donne
degli ultimi trent’anni – un dato politico» L. NICHOLSON, Per un’interpretazione ...,
cit., p. 24. Il corsivo è mio. Sul femminismo world-travelling vedi p. 22.
( 60 ) Cfr. N. BOBBIO, Organicismo e individualismo: un’antitesi, in A.M. PETRONI-
R. VIALE, Individuale e collettivo. Decisione e razionalità, Raffaello Cortina Editore,
Milano 1997, p. 190: «Mentre in una decisione individuale decisione e accettazio-
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326
LAURA PALOMBA
Molte teoriche femministe, tra cui la Benhabib, criticano la teoria
della posizione originaria in quanto essa considera e rispetta solo
l’astratto “altro generalizzato”, trascurando completamente l’“altro
concreto” ( 61 ). Il valore insito in questo progetto altamente astrattivo
posto in atto da Rawls consiste invece, a mio parere, proprio nel
suo rifiuto di ogni concezione teleologica la quale intrappoli l’individuo
entro ruoli che non prendono sul serio la sua specificità. Ciò
andrebbe a vantaggio soprattutto delle donne, tradizionalmente i
soggetti del sacrificio sociale per la praticabilità del Bene, le quali invece
sarebbero svincolate proprio dall’obbligo di prestare questo servizio
alla comunità. Ad essere attraente nella posizione originaria è
infatti il suo chiamare a raccolta tanti esseri e nessuna funzione: nessuno
è utilizzato per fini altrui e ognuno ragiona, se vogliamo anche
egoisticamente, su come poter rendere la propria vita futura più soddisfacente,
con un esito, è vero, fatto di principi astratti e di diritti e
doveri decontestualizzati, e neutrale rispetto ad un Bene dominante,
ma che ha la funzione di rispettare le scelte di tutti gli individui. Tra
questi, anche le future donne che in quel momento non sanno di esserlo;
non avendo corpo, sono totalmente svincolate dalla loro corporeità
che, tradizionalmente, è carcere e paradigma costrittivo della
femminilità. Questa situazione pensata da Rawls ha quindi il merito
di annullare ogni rischio insito nel «legare al solo paradigma generativo
materno il valore dell’accadimento del soggetto femminile», e
dunque il rischio di «riproporre una esaltazione della “funzione” a
scapito dell’ “essere” della donna» (C. MILITELLO, Donna e Chiesa
alle soglie del terzo millennio, in A. Moltedo, a cura di, Femminismo,
Stampa Alternativa, Viterbo 1996, p. 22).
Così ci si domanda: se ragionare in termini astrattivi vuole dire
porsi come scopo non la praticabilità del Bene, ma quella di tutti gli
ne coincidono, onde decidere di fare alcunché vuol dire per l’individuo che agisce
in conto proprio accettare di farlo, in una decisione collettiva decisione e accettazione
non coincidono necessariamente»
( 61 ) Cfr. S. BENHABIB, The Generalized and the Concrete Other: The Kolberg-Gilligan
Controversy and Feminist Theory, in S. BENHABIB-D. CORNELL (a cura di), Feminism
as Critique, p. 87, cit., in W. KYMLICKA, op. cit., p. 303: «Il punto di vista dell’altro
generalizzato ci impone di considerare i nostri simili, singolarmente e collettivamente,
come esseri razionali titolari degli stessi diritti e degli stessi doveri
che saremmo pronti ad attribuire a noi stessi [...]. Il punto di vista dell’altro concreto,
al contrario, ci impone di considerare i nostri simili, singolarmente e collettivamente,
come individui dotati di storia, identità e costituzione affettivo-emozionale
concrete [...]. Trattandoti con le regole dell’amicizia, dell’amore e della
cura, io confermo non solo la tua umanità ma anche la tua individualità umana».

La questione femminile nella cultura ebraica contemporanea
individui, le prime a risultare avvantaggiate e rispettate nella propria
identità non sarebbero appunto le donne? Le sostenitrici dell’etica
della cura sostengono che il punto debole delle teorie liberali sia
quello di rispondere solamente alla comune umanità delle persone e
non alla loro specifica individualità e puntano il dito contro la posizione
originaria che sarebbe insensibile verso le diseguaglianze concrete
delle persone. Se è però vero che tale indifferenza si manifesta a
livello originario, si noti come il suo scopo consista proprio nel fare
in modo che questi io disincarnati e astratti elaborino un’architettura
sociale la quale permetta a queste differenze, e agli individui concreti
che ne saranno portatori, di essere rispettate. Gli stessi movimenti
femministi ebraici non hanno certamente negato i valori della
maternità o della relazione di cura verso il prossimo, volendo piuttosto
porre in luce come questi stessi rischino di perdere ogni rilievo
qualora diventino un percorso obbligato, e quanto, come sottolinea
Erica Brown, «la spiritualità femminile è così spesso intessuta di cura
degli altri, che le donne non hanno imparato a crescere» (cit. in A.
BAKER, op. cit., p. 207).
Il secondo elemento a cui si faceva cenno è l’antipaternalismo del
pensiero liberale, la cui conseguenza è che ognuno deve essere libero
di progettare la propria esistenza individuale (limitatamente alla
stessa libertà di ciascun altro singolo individuo con cui si condivide
lo stesso universo di relazioni) senza vincoli posti da una teleologia
la quale finisce sempre per distribuire oneri e benefici in maniera diversa
tra i membri che partecipano alla sua realizzazione. Si tratta del
rifiuto liberale di una politica di massimizzazione dell’interesse collettivo,
sia essa utilitarista o comunitarista, a scapito dell’interesse
individuale che conduce ad un problema particolarmente vivo all’interno
della comunità ebraica: la rigida strutturazione in ruoli in vista
della realizzazione di quello che è ritenuto il bene dominante per
l’ebraismo, la santità familiare come veicolo di santità collettiva. Si è
detto che l’interpretazione rabbinica dei testi sacri, dall’ottica di
questa finalità, porta ad attribuire alle donne un ruolo a prima vista
certamente importante, dal momento che esse sono nominate custodi
della santità familiare, ma in realtà svilente dal momento che il
loro compito si riduce al permettere ai figli maschi e ai propri mariti
di non essere intralciati nella coltivazione della propria spiritualità
attraverso lo studio, la preghiera e la frequentazione della sinagoga.
Tale relegazione si giustifica inoltre con il carattere esclusivamente
privato della donna che, nel suo essere imbevuta d’umiltà e nel non
necessitare di un’arena pubblica in cui esprimere la propria spiritualità,
è “naturalmente” portata ad identificarsi con la casa e la sfera fa-
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328
LAURA PALOMBA
miliare, per cui sembra che l’unico modo in cui le donne possono
partecipare alla tradizione ebraica sia quello di diventare madri e
mogli, senza altre opzioni (Ivi, p. 206).
Le polemiche relative a questo aspetto sono molte e diverse. Blu
Greenberg si chiede, ad esempio, se una così rigida stratificazione
dei sessi, come quella imposta dall’Halachà, sia veramente necessaria
a realizzare il fine della comunione con Dio, o se si tratti di una
struttura sociale che si maschera dietro un principio teologico. Anche
Saul Berman, analizzando lo status della donna nel diritto ebraico,
pone l’accento sulla necessità di eliminare gli effetti indesiderati
che il raggiungimento della principale meta sociale comporta per le
donne, in quanto essa non può essere considerata come
una carta bianca per imporre sui membri di questa determinata classe tutti
gli svantaggi che derivano dal loro status. Piuttosto gli effetti collaterali che
sono svantaggiosi e che non sono neppure necessari al raggiungimento di
quella meta sociale, devono essere eliminati da una seconda legislazione (S.
BERMAN, The status..., cit., p. 123).
Infine la Plaskow, come abbiamo visto, punta sulla ricostruzione
di una comunità in cui uomini e donne abbiano ruoli differenti ma
ugualmente qualificanti e capaci di costruire le strutture di significato
che danno sostanza alla loro vita (J. PLASKOW, op. cit., p. xvii).
Ciò che queste polemiche e proposte pongono in luce è l’urgente
necessità che l’ebraismo sia ripensato in modo da inglobare nuove
forme di rituali e pratiche le quali «riflettano gli interessi e le esperienze
dell’ “altra metà” della comunità ebraica» (M. ACKELSBERG,
Introduction, cit., p. xviii), ponendo fine a quella tradizione patriarcale
il cui esito è stato quello di considerare normative solo le esperienze
maschili rendendo, di conseguenza, quelle femminili qualcosa
di altro rispetto alla norma comunemente accettata e legittimata.
Un altro valore fondamentale affermato dal liberalismo è rappresentato
dalla libera scelta, da parte di ciascun singolo individuo, del
progetto di vita che meglio ritiene soddisfi la propria esistenza. Questo
progetto è difficile da realizzare per chi vive all’interno di una comunità
dominata da un senso di cooperazione così forte come quello
che vige nella comunità ebraica, dove sono soprattutto l’opinione
pubblica e la pressione sociale a rendere molte donne ancora oggi
schiave del ruolo che l’ebraismo assegna loro. Spesso, infatti, le barriere
più tenaci che il movimento femminista si trova di fronte sono
proprio quelle psicologiche, piuttosto che quelle halachiche. È difficile,
per esempio, smettere di pensare alla sinagoga in termini di dominio
maschile, così come è arduo per molte ebree, soprattutto

La questione femminile nella cultura ebraica contemporanea
quando non godono di un certo livello di istruzione, fare i conti con
il rischio di perdere i riconoscimenti e le gratificazioni che circondano
il limitato, ma ben lodato, ruolo di “donna valente”, per dare il
proprio impegno alla liberazione delle donne ( 62 ). Così come accade
in tutte le religioni monoteiste e patriarcali, esiste una sorta di gestione
della donna che vige durante tutto l’arco della sua vita e che
comincia dalla scuola, dove le bambine e le ragazze vengono educate
al solo ruolo domestico e a pensare in quei termini alla propria identità
di ebree, per terminare con l’età matura quando, con l’allontanamento
dei figli, esse risentono di forti crisi depressive che rivelano
la totale identificazione tra donna e famiglia ( 63 ). Per questo molte
femministe lavorano affinché le donne prendano coscienza del fatto
che sono per lo più degli stereotipi sociali e psicologici ad impedire
loro di prendere potere su se stesse. Saul Berman sottolinea come
l’Halachà non imponga alla donna il ruolo domestico proibendole
l’accesso a tutte le altre opzioni, bensì esentandola da tutti i precetti
che, richiedendole un impegno quotidiano, la distoglierebbero dalle
sue occupazioni familiari, indirizzandola, in tal modo, verso quell’unica
scelta. A insistere molto contro tutte queste forme di pressione
sociale è la Greenberg la quale sottolinea l’esigenza di insegnare
( 62 ) Si tratta della donna valente di Proverbi XXXI, 10. Un’analisi interessante
del significato di questo passo biblico, in cui è dipinta una donna chiaramente ‘recintata’
nel ruolo di madre-moglie-massaia, è presente in A. BAKER, op. cit., p. 36:
«Il ruolo della donna nel sistema patriarcale è quello di ausiliaria; è un ruolo altruistico,
importante per l’uomo, per la famiglia, per la comunità. [...] La proverbiale
“donna di valore” libera, giorno dopo giorno, il proprio marito e i figli dalle responsabilità
economiche cosicché essi possano dedicarsi a compiti sacri; la sua moderna
controparte femminile ancora vede nelle esigenze della sua famiglia la sua
priorità più alta, e organizza la sua vita in modo da soddisfarle».
( 63 ) Cfr. i due saggi di C. KOLLER-FOX, Women and Jewish education ..., cit., e
P. BART, Portnoy’s Mother’s Complaint: depression in middle-aged women, in E.
KOLTUN, op. cit. Nel primo l’autrice denuncia il sessismo presente nei manuali
scolastici e riporta l’esito di alcuni test proposti alle sue alunne. Alla domanda
“Cosa fa una donna ebrea che la renda tale”, alcune di loro citarono i ruoli di madre
e moglie, altre i rituali religiosi tipicamente femminili, che comunque sono a
carattere domestico, e pochissime menzionarono la frequentazione della sinagoga
per le feste più importanti. Infine, due o tre allieve, le cui madri erano membri attivi
all’interno della comunità, diedero risposte del tipo “niente di diverso da ciò
che anche gli uomini fanno” o “recitare nel minyan”. L’autrice del secondo saggio
analizza invece l’alta percentuale di ebree di media età affette da depressione coincidente
con l’allontanamento dei figli da casa e con la perdita del loro ruolo di
“super-madri”. Non è un caso che la percentuale fosse più alta tra le ebree europee,
piuttosto che tra le ebree nordamericane, dal momento che le prime vivono
un rapporto più stretto con la propria tradizione.
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LAURA PALOMBA
alle donne il valore del concetto di totalità dell’individuo, in virtù
del quale si può essere contemporaneamente madri, mogli, lavoratrici,
membri attivi della comunità religiosa, per aiutare molte donne
non solo a rivestire il ruolo materno in modo più naturale, ma anche
a sentirsi meno ansiose di fronte alle pressioni sociali qualora dovessero
compiere scelte diverse (B. GREENBERG, op. cit., p. 186).
È qui che si inserisce un altro valore portato alla ribalta dal liberalismo
rawlsiano, quello della libertà intesa come garanzia di
«un’equa opportunità di prendere parte al processo politico e di influenzarlo»
(J. RAWLS, Una Teoria della giustizia, tr. it. a cura di U.
Santini, Feltrinelli, Milano 1994 4 , p. 194). Anche all’interno delle
comunità ebraiche questo principio democratico non è assolutamente
scontato e garantito, dal momento che in molte di esse si è proceduto
solo di recente ad un’apertura del mondo politico alle donne.
Nel fare questa osservazione dobbiamo ovviamente tener conto di
che tipo di processo politico si svolga nelle comunità ebraiche. Qui,
infatti, come si è già detto, il potere è soprattutto potere religioso e
lo possiede solamente chi ha l’accesso allo studio dei testi sacri e
quindi alla conoscenza delle fonti di tutta la legislazione ebraica.
Bianca Finzi, relativamente agli esiti di una ricerca compiuta da Rosalind
Preston, vicepresidente della Wizo britannica, sul tema “Le
pari opportunità nella Comunità ebraica”, riporta alcuni dati significativi
relativi alle donne ebree e al problema del rapporto tra potere
e istruzione religiosa ( 64 ). Da ciò, abbiamo visto nella prima parte
del lavoro, le donne sono ampiamente escluse, il che implica la loro
emarginazione e la loro totale ignoranza circa i mezzi con cui poter
lottare per i propri diritti. Non sorprende allora la presenza nel linguaggio
femminista ebraico di un concetto ormai comune in tutti i
discorsi femministi odierni, quello di empowerment ( 65 ).
( 64 ) «Le donne si occupano di volontariato con grande spinta, ma ben di rado
hanno la possibilità di essere a capo di qualche istituzione ebraica. [...] Il più grosso
problema delle Comunità è l’impegno di intensificare l’educazione ebraica. Se
le donne desiderano di poter rivendicare le pari opportunità anche nella vita ebraica,
devono possedere un livello di istruzione ebraica identico al livello, spesso alto,
dei loro studi profani» (B. FINZI, Le Federazioni Europee Wizo riunite ad Amsterdam,
in “Il Portavoce”, n. 2, marzo/aprile 1995, p. 11). La Wizo è un’organizzazione
femminile fondata nel 1920 che oggi conta 25 federazioni distribuite in vari
paesi.
( 65 ) «Le femministe ebree [...] hanno chiesto l’empowerment delle donne come
interpreti dei testi ebraici, come legittime creatrici di midrash. Idealmente, i midrash
delle donne potrebbero prendere il proprio posto accanto ai midrash classici
e servire come fonte di approfondimento per l’intero popolo ebraico. L’esperienza

La questione femminile nella cultura ebraica contemporanea
7. L’esito “liberal” nella tradizione ebraica. – La partecipazione politica
delle donne ebree, per essere un valido veicolo di potenziamento
della loro cittadinanza, deve essere resa possibile all’interno della tradizione
ebraica stessa. La totale assenza di “donne di potere” e la
grande abbondanza di “donne di valore” nella tradizione, nella storia
e nell’immaginario ebraico ha recato, infatti, gravissimi danni all’autonomia
femminile intesa come sottrazione a qualsiasi forma di oggettivazione
al femminile del soggetto donna che intrappoli, a uso e
consumo del genere privilegiato, individui del mondo reale, quali le
donne, in una categoria del pensiero astratto, come il femmineo e
per di più un femmineo pensato e decifrato dagli uomini. Uno dei
maggiori problemi del femminismo ebraico, e non solo, consiste infatti
nel grande lavoro che occorre per liberare le donne dalle definizioni
imposte loro da un panorama culturale e religioso costruito interamente
dagli uomini, e che strumentalmente assegna alle donne
una doppia moralità: da una parte esse sono ritenute responsabili
della crescita morale e religiosa dei figli e della santità della famiglia,
in virtù delle loro capacità persuasive e della loro influenza, e si giustifica
così il loro ruolo prettamente domestico; dall’altra, sono considerate
molto più vicine degli uomini al mondo fisico e materiale,
poiché costoro sono ritenuti immersi nella spiritualità, e in tal modo
si giustifica l’esclusione delle donne da certi ruoli religiosi. Contro
questo modus operandi, il femminismo porta avanti una serie di rivendicazioni
chiedendo che alle donne siano riconosciute le stesse
capacità e potenzialità che sono attribuite agli uomini, nel regno dello
spirito, della parola e dell’azione; che venga loro riconosciuta
un’analoga capacità d’interpretazione e decisione; che possano fungere
da persone esterne nelle aree più ampie della società; che abbiano
padronanza del proprio destino ( 66 ). Ma poiché per ottenere questi
riconoscimenti occorre che le donne possano parlare alle altre
donne e agli uomini con il linguaggio legittimante e autorevole della
tradizione, diventa prioritario, come dicevo prima, acquisire queste
parole rendendosi equamente partecipi della costruzione di una tradizione
che, essendo stata fino ad ora esclusivamente maschile, ha
sempre forgiato a proprio uso le esperienze e le esigenze femminili:
e la sensibilità delle donne dovrebbero essere apprezzate; le loro differenze non dovrebbero
essere un segnale di ignoranza ma un simbolo della ricchezza della creazione
di Dio» (P. HYMAN, Looking ..., cit., p. 303. Questo concetto è ricorrente
anche in J. PLASKOW, op. cit.).
( 66 ) I punti principali di questa sorta di manifesto del femminismo ebraico
sono indicati in B. GREENBERG, op. cit., p. 39 s.
331

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LAURA PALOMBA
Non solo le autorità halachiche hanno sempre trattato le donne come oggetti
escludendole sistematicamente da quella speciale conoscenza che è necessaria
per poter partecipare alla formulazione delle decisioni halachiche.
Ancora più importante è che l’halakhah presuppone una struttura gerarchica
della società che si oppone alle esperienze femminili di relazionalità
come collante che tiene unite insieme le relazioni sociali umane ( 67 ).
Un caso emblematico delle conseguenze insite nella mancanza della
voce delle donne nello studio e nella trasmissione della tradizione
ebraica è il fatto che si è all’oscuro di come in passato le donne “di potere”
non solo erano numerose ma erano anche attivamente inserite
nella leadership religiosa. Per rivelarlo si sono dovute attendere le ricerche
di alcune studiose, che hanno mostrato come esse sono state volutamente
occultate da una lettura patriarcale della storia ebraica ( 68 ). Il
( 67 ) P. HYMAN, Looking ..., cit., p. 303. Cfr. R. BIALE, op. cit., p. 266: «Le donne
ebree di tutti i credi e i legami religiosi devono conoscere l’Halachà, anche se
non vivono realmente secondo i suoi dettami, perché è la cornice e il vocabolario
della vita ebraica. Il primo e importante gradino nella rivoluzione dialettica del
preservare e cambiare è il talmud torah: uno studio accurato della Halachà. Solo
coloro che esplorano le radici storiche dell’Halachà e padroneggiano la sua logica
possono divenire parte del suo futuro sviluppo».
( 68 ) Come sottolinea la Plaskow la storiografia è uno strumento fondamentale di
cui il femminismo deve servirsi per dimostrare che «la religione, la letteratura, la filosofia
rivelano che la natura femminile e i suoi compiti sono spesso prescrittivi
piuttosto che descrittivi della realtà» (Ivi, p. 46). Per tutti questi motivi, molte femministe
ebree ritengono che la partecipazione delle donne debba tradursi principalmente
nella capacità e possibilità di mutare da sé la propria posizione in seno all’ebraismo,
senza con questo rifiutare in toto una tradizione dalla quale si sentono
comunque fortemente coinvolte. Per far questo risulta fondamentale appropriarsi di
un nuovo linguaggio con cui non solo creare nuovi valori, modelli di virtù, pratiche
e rituali, ma reinterpretare anche quelli già esistenti e farli propri, in modo che molte
donne non debbano più rimanere all’oscuro di personaggi-tipo come Lilith e
Vashti e uniformarsi ai soli modelli di riferimento che i rabbini propongono loro.
Lilith e Vashti sono considerate dalle femministe due modelli femminili “rivoluzionari”
dal momento che la prima rappresenta la ribellione alla sottomissione ad Adamo,
tanto che nel Talmud è presentata come creatura demoniaca della notte; Vashti
fu invece la prima moglie del re Ahasuarus da cui fu ripudiata per essersi rifiutata di
mostrare la propria bellezza al re e ai suoi commensali, come segno ulteriore della
potenza e ricchezza regale. Di conseguenza, durante il Purim, una sorta di carnevale
ebraico in cui si ricorda questo episodio, le ragazze indossano il costume di Esther,
la seconda moglie di Ahasuarus, che è il tipo ideale di ebrea: bella, pia, obbediente e
coraggiosa, mentre non è in alcun modo ricordata la fierezza, l’orgoglio e l’indipendenza
di Vashti. Lilith e Vashti sono dunque il simbolo della femminilità di cui i
rabbini non hanno lasciato traccia nella tradizione ebraica. L’unico modo per cui i
personaggi come questi possono far parte del patrimonio culturale delle ebree e degli
ebrei è che le donne entrino in possesso della loro tradizione.

La questione femminile nella cultura ebraica contemporanea
primo passo da compiere per appropriarsi di un linguaggio ebraico che
sia riconosciuto e che abbia il potere di operare dei cambiamenti all’interno
dell’attuale ebraismo androcentrico è il raggiungimento di un più
alto grado di istruzione religiosa dal momento che l’emarginazione delle
donne dai ruoli di leadership si realizza fin nell’ambito del sistema
educativo, dove viene attuata una selezione per genere nel promuovere
l’importanza dell’istruzione religiosa dei giovani e nello svilire quella
dell’istruzione delle giovani ( 69 ). In questo modo, oltre che privare le
donne di un’importante risorsa personale, si viola il valore liberale della
libertà politica sopra menzionato in quanto, come abbiamo visto,
l’istruzione religiosa è uno strumento fondamentale per accedere al potere
e prendere parte al processo decisionale che interessa tutta la vita
della comunità. L’importanza di questa conquista è quanto mai attuale,
tanto da esser stata ribadita durante la riunione preparatoria per la
IV Conferenza sulla Donna tenutasi a Pechino nel 1995, dove le associazioni
femminili ebraiche hanno sottolineato nel proprio programma
l’urgenza di azioni politiche che aprano maggiormente il mondo del lavoro
alle donne, assicurino l’eguaglianza in campo governativo, nel settore
pubblico e privato, tengano conto della fondamentale importanza
dell’educazione e della formazione nella distribuzione delle risorse ( 70 ).
Alla base di queste rivendicazioni femministe, miranti in più direzioni
e con diversi strumenti a promuovere una piena cittadinanza
femminile, vi è un basilare proposito che il femminismo ebraico
s’impegna a realizzare: rendere le donne autonome sia come donne,
cioè nel progettare la propria esistenza individuale, sia come ebree,
ovvero nel contribuire ognuna alla crescita e ai progetti spirituali del
popolo ebraico. Il valore dell’autonomia è fortemente presente nel
( 69 ) Cfr. A. BAKER, op. cit., pp. 192-194. Naomi Cohen, nel suo lavoro sullo
studio femminile del Talmud, nota che dei tre livelli formativi, l’istruzione primaria,
quella tecnico-professionale e quella che prepara ai ruoli dirigenziali, solo i primi
due vengono impartiti con grande cura alle ragazze ortodosse, in quanto le preparano
al loro ruolo domestico e le forniscono degli strumenti necessari per diventare
utili alla comunità, mentre i ruoli di leadership sono tradizionalmente considerati
irrilevanti per le donne e questo a dispetto di importanti figure di profetesse,
giudicesse nonché studentesse della legge religiosa, presenti, come abbiamo detto,
nella storia ebraica.
( 70 ) Dichiarazione di Gerusalemme di tutte le organizzazioni ebraiche femminili,
in “Il Portavoce”, n. 1, gennaio/febbraio 1995. Tra le raccomandazioni proposte
dalle rappresentanti delle associazioni ebraiche femminili vi è «l’estensione della
partnership tra uomini e donne attraverso un impegno comune per lavorare insieme
per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione, e per l’eguale partecipazione
delle donne nei processi decisionali a tutti i livelli della società, in modo da
assicurare la presenza delle donne nei centri di potere», p. 9.
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LAURA PALOMBA
pensiero liberale ed è stato uno dei valori più bersagliati dalla critica
comunitarista la quale, ad un individualismo che ci concentra su noi
stessi distraendoci dai nostri debiti sociali, contrappone un ideale organicistico
il quale ci ricorda il rapporto necessariamente esistente
tra la nostra identità e un orizzonte di questioni rilevanti che, trascendendola,
le permettono di vestire continuamente nuovi profili. Per il
comunitarismo, l’ideale dell’autonomia o dell’autenticità, com’è definito
da Charles Taylor, presume la capacità di ogni individuo di autorealizzarsi
senza subire l’influenza di quell’orizzonte di valori che la comunità
in cui viviamo ci fornisce (C. TAYLOR, Il disagio della modernità,
tr. it. a cura di G. Ferrara degli Uberti, Laterza, Bari 1994). In realtà,
il valore liberale della fedeltà a se stessi non va letto come se spingesse
l’individuo ad un solitario monologo, perché esso presuppone
un valore come quello del rispetto di sé il quale, potendo nascere solo
dal riconoscimento che l’io ottiene dagli altri, presuppone un sé in
continuo dialogo e confronto con gli altri. Non a caso tanto i liberali,
quanto quelle femministe ebree americane che vedono nella mancanza
di autonomia la chiave di lettura del problema femminile, riconoscono
quanto sia debole l’individuo di fronte alle sollecitazioni morali e
culturali provenienti dall’esterno e quanto questo fatto renda necessario
svincolarlo il più possibile da una rigida moralità del bene comune
che, assegnando a ciascuno il proprio compito, imprigiona l’individuo
in una sorta di conservatorismo cognitivo che lo rende incapace di
“vedere se stesso nei termini da lui scelti” (E. GROSS, What is Feminist
Theory?, in C. PATEMAN-E. GROSS, Feminist Challenges, Social and Political
Theory, cit. in W. KYMLICKA, op. cit., p. 271).
Nonostante le critiche che alcuni femminismi rivolgono all’individualismo
liberale, e in particolare a quello rawlsiano, mi sembra si
possa agevolmente sostenere che quest’ultimo sia un modello teorico
attraente per il femminismo ebraico proprio nella misura in cui contribuisce
a sostenere il valore dell’autonomia come capacità e diritto
del singolo a scegliere da sé i valori morali sulla base dei quali impiantare
il proprio piano di vita senza essere “vittima di concezioni
fuorvianti di ciò che vuole realmente” (J. RAWLS, op. cit., p. 344).
Attribuendo importanza al riconoscimento come fonte del rispetto
di sé, il liberalismo mette inoltre in evidenza la problematicità insita
nell’avere uno status privato. Come nota Rawls in una società
ben ordinata il rispetto di sé è “assicurato dalla conferma pubblica
dello status di eguale cittadinanza”. Egli prosegue dicendo che
in una società giusta, la base della stima di sé non è la propria quota di reddito
ma la distribuzione, solamente dichiarata, dei diritti e delle libertà
fondamentali. E poiché questa distribuzione è eguale, ognuno, quando si

La questione femminile nella cultura ebraica contemporanea
335
riunisce per condurre gli affari comuni della più ampia società, possiede un
simile status garantito. Nessuno tende a cercare al di là dell’affermazione
costituzionale dell’eguaglianza ulteriori modi politici di garantirsi lo status;
[....] gli eguali diritti e gli atteggiamenti pubblici di reciproco rispetto hanno
un posto essenziale nel [...] rassicurare i cittadini del proprio valore (Ivi,
p. 444).
Il rispetto di sé è dunque una questione di riconoscimento. Invece
lo status privato di cui sono investite le donne ebree preclude loro
la possibilità di compiere «esperienze nuove e diverse» e di dare «spazio
all’ingegnosità e all’inventiva», costringendole piuttosto a «scegliere
tra occupazioni monotone e di routine che impoveriscono la
sensibilità e il pensiero umano» (Ivi, p. 351). Tutto ciò non può che
avere una forte incidenza sulla dignità e il rispetto di sé delle donne
ebree se esse, per il solo fatto di non poter vestire i tefillin e il tallith,
sono di fatto private di una serie di «mezzi fortemente simbolici con
cui affermare la propria identità di ebree osservanti» (S. BERMAN,
The Status ..., cit., p. 115). Non è dunque un caso che il femminismo
ebraico sia particolarmente sensibile al problema, sapendo bene
che lo status privato della donna non rende possibile quella partecipazione
a forme di cooperazione attraverso le quali trovare conferma
di sé da parte degli altri. L’unica forma di associazionismo aperto
alle donne ebree è il volontariato, che si limita a far perno sui sentimenti
di cura e responsabilità già impliciti nel loro ruolo domestico.
Per questo, oggi, esso ha perso molto del suo valore originario per
trasformarsi, agli occhi di molte donne, in una “compassion trap” ( 71 ),
diventando uno dei bersagli polemici di molte femministe ebree che,
come Aviva Cantor, vi vedono un “placebo”, uno “pseudo-lavoro”,
una “forma distorta di terapia occupazionale” ( 72 ).
( 71 ) A. BAKER, op. cit., p. 195. L’autrice cita un’espressione presente in M.
ADAMS, La trappola della compassione, in V. GORNICK-B.K. MORAN, La donna in
una società sessista. Alle origini della dipendenza femminile, tr. it. a cura di L. Comoglio,
Einaudi, Torino 1973, in cui la Adams si propone di analizzare gli effetti
negativi della diffusa convinzione che il compito specifico delle donne sia quello
di distribuire compassione e tenerezza: «La trappola della compassione, con la sua
filosofia del bisogno di appoggio e la sua incastellatura sociale è una delle forze più
potenti che oggi riescono a sovvertire e a distorcere sia l’identità delle singole donne
che il loro ruolo sociale», p. 264. L’autrice sottolinea la necessità che le donne
abbandonino «il ruolo dell’oracolo compassionevole sempre agli ordini altrui, perché
essere costantemente disponibili impedisce alle donne di perseguire i loro scopi
con la concentrazione indispensabile per conseguire il successo» p. 279.
( 72 ) A. BAKER, op. cit., p. 195. Su questo punto cfr. B. GREENBERG, Judaism ...,
cit., p. 190: «Il volontariato si trova sotto un serrato attacco da parte della linea

336
LAURA PALOMBA
Infine, relativamente al tema del riconoscimento, non si può dimenticare
il suo aspetto religioso, ovvero i termini in cui l’ebraismo
assegna a ciascun membro il riconoscimento della sua appartenenza
nella comunità spirituale. In questo caso, è ancora più evidente la disparità
tra il trattamento riservato ai membri maschi rispetto a quello
riservato alle donne. Anche nel caso della cerimonia religiosa di accoglimento,
di fatto riservata ai maschi, come si è visto in una parte precedente
di questo lavoro, una religione avente una forza così centripeta
come quella ebraica lascia che metà dei suoi membri sia relegata in
una zona marginale, negando loro, fin da questo iniziale momento di
riconoscimento, la piena appartenenza ( 73 ). Dunque, non solo la conferma
pubblica dello status di eguale cittadinanza, che secondo Rawls
dovrebbe essere assicurata a tutti all’interno di una società giusta, viene
negata alle donne ebree sin dal più simbolico gesto di non celebrare
la loro entrata spirituale nella comunità, ma ad esse viene anche conferito
uno status a parte che, come dice Saul Berman, gli uomini non
avrebbero mai accettato per se stessi ( 74 ).
Se la teoria rawlsiana della posizione originaria e del velo d’ignoranza,
con i suoi valori dell’autonomia e dell’eguaglianza morale e
politica degli individui, appare tanto attraente per il discorso ebraico
sulla donna, ciò è dovuto al fatto che offre le basi teoriche utili a delegittimare
la rigida strutturazione della società secondo quelli che
sono gli strumenti con cui viene giustificato il ruolo periferico femminile,
il fine dominate e il sesso:
La natura estremista delle teorie del fine dominante viene spesso mascherata
dalla vaghezza e dall’ambiguità del fine proposto. Se perciò dio è considerato
(come certamente deve essere) come un essere morale, allora il fine
dura delle femministe. Le organizzazioni caritatevoli ebraiche, che si basano sul
volontariato, ne soffrono di conseguenza. Lo slogan “l’auto-stima deriva da un lavoro
retribuito” o “se non si è pagati per farlo, non va preso in considerazione” è
una mezza verità. Non tutti possono affrontare o desiderano lavorare senza essere
pagati – ma il volontariato, tzedakah, certamente dovrebbe rimanere un’opinione
di tutto rispetto».
( 73 ) Sul significato del bar mitzvah e del bat mitzvah vedi S. GROSSMAN-R. HAUT,
op. cit., pp. 265-270 e C. KOLLER-FOX, Women and Jewish Education ..., cit.
( 74 ) «È tempo di ammettere che abbiamo cercato, attraverso la nostra apologetica,
di fare di una necessità sociale una virtù. Abbiamo lottato per provocare un’acquiescenza
volontaria nelle donne ad uno status che gli uomini non avrebbero mai dovuto
accettare. Stà diventando incredibilmente difficile per le donne ebree accettare
l’idea che il loro potenziale religioso sia esaurito nell’aiutare i propri mariti e i propri
figli ad adempiere alle mitzvot» (S. BERMAN, The Status ..., cit., p. 117).

La questione femminile nella cultura ebraica contemporanea
337
dominante di servirlo al di sopra di tutto il resto viene lasciato senza specificazione
nella misura in cui le intenzioni divine non appaiono chiare in
base alla rivelazione, o evidenti secondo la ragione naturale (J. RAWLS, op.
cit., p. 451).
Ciò è utile per capire le riflessioni di Elizabeth Koltun sul modo
in cui l’ebraismo realizza alcuni suoi valori:
Un tale ideale è quello del tzelem Elohim – l’immagine di Dio – nella quale
gli esseri umani sono creati. Il Talmud (Sanhedrin 37a) descrive l’immagine
di Dio in termini di assoluta eguaglianza, assoluto valore, e unicità di
ogni persona. Le molte leggi e i molti usi che rifiutano alle donne uno status
legale indipendente e un’eguale partecipazione nella preghiera, nello
studio, nel rituale; l’ineguale trattamento delle donne nel matrimonio e nel
divorzio; l’esclusione dal processo legale stesso, previene l’evoluzione dell’halakah
di fronte agli stessi suoi ideali (E. KOLTUN, op. cit., p. 103).
Allo stesso modo la privazione imposta agli individui presenti
nella posizione originaria dal velo d’ignoranza impedisce teoricamente
il problema della discriminazione sessuale subita dalle donne:
È questa tradizionale differenziazione sessuale dei ruoli ad essere il punto
centrale della critica femminista dell’ebraismo, come di tutte le altre culture
patriarcali [...]; tutti i ruoli sociali e molti dei tratti caratteriali sono ascritti
secondo il sesso, con le posizioni di status più elevato e le caratteristiche maggiormente
apprezzate – come l’intelligenza, l’iniziativa, la forza emotiva – riservate
agli uomini (P. HYMAN, The other half ..., cit., Ivi, p. 106).

GIUSEPPE SOLINAS
L’OPERA DI TADEUSZ KANTOR, PITTORE E REGISTA
DI TEATRO D’AVANGUARDIA IN POLONIA (1915-1990)
La biografia di Tadeusz Kantor, nello stesso tempo pittore, scenografo,
regista e autore, si lega indissolubilmente alla sua opera teatrale,
fin dai primi spettacoli, creati durante la Seconda Guerra
Mondiale, agli ultimi, da lui definiti «tutti delle confessioni personali».
Kantor ha conosciuto il successo fuori dalla Polonia, verso la
metà degli anni settanta. Era già un pittore affermato, aveva superato
i sessanta anni, e dal 1955 lavorava col Teatro Cricot 2, da lui
fondato. Questo “teatro” era composto da un gruppo di artisti, ma
ben pochi erano gli attori professionisti; era un teatro fuori dalle istituzioni,
che rifiutava le pratiche tradizionali della recitazione e della
messa in scena.
Radicalismo, volontà di liberare la creazione artistica da tutto ciò
che è superfluo per renderla indipendente, continua messa in discussione
delle posizioni raggiunte, assunzione delle proprie contraddizioni
come stimolo alla creazione: su questi principi Kantor fondava
la propria avventura artistica, assumendo nei suoi spettacoli le immagini
e i tormenti di una memoria che ha conosciuto le più grandi
tragedie di questo secolo.
Tadeusz Kantor nasce a Wielopole, un piccolo paese a 130 Km
est da Cracovia, il 6 aprile 1915, figlio di Helena Berger, di fede cattolica,
e Marian Kantor, maestro elementare di origini ebree. Così
ricorda il paese natale:
Sono nato in Polonia in un paesino con una piazza del mercato e qualche
vicoletto squallido. Sulla piazza si innalzavano una piccola cappella con la
statua d’un santo, secondo l’uso cattolico, e un pozzo attorno al quale si celebravano,
al chiaro di luna, le nozze ebraiche. Da una parte una chiesa, un

340
GIUSEPPE SOLINAS
presbiterio e un cimitero, dall’altra una sinagoga, delle tortuose straducole
ebree e ancora un cimitero, ma un cimitero differente.
Le due comunità vivevano in perfetta armonia. Cerimonie cattoliche spettacolari,
processioni, bandiere, costumi folclorici vivaci, contadini. Dall’altra
parte della piazza del mercato riti misteriosi, canti fanatici e preghiere,
berretti di volpe, candelabri, rabbini, pianti di bambini.
Aldilà della vita quotidiana, questo borgo silenzioso era del tutto dedito al
culto dell’eternità.
Naturalmente c’erano un medico, un farmacista, un istitutore, un curato,
un capo della polizia. La moda era quella di prima della guerra, la prima
guerra mondiale ( 1 ).
Il padre, soldato durante la Prima Guerra Mondiale, combatte al
seguito del generale Pilsudski per l’indipendenza della Polonia. Finita
la guerra rimane attivo come membro del movimento nazionalista
polacco e, per questo motivo, con lo scoppio della Seconda Guerra
Mondiale è incluso nella lista dei deportati ad Auschwitz, dove
muore il 1 aprile 1942.
Mio padre, insegnante, non è ritornato dalla guerra. Mia madre, mia sorella
ed io siamo andati a vivere dal fratello di mio nonna che era curato. È là
che siamo stati allevati. Ecco da dove mi deriva l’immagine del presbiterio.
La chiesa era una specie di teatro. Si andava a messa per assistere allo spettacolo.
Per Natale si preparava in chiesa un presepe con diverse statuine,
per Pasqua una grotta con quinte decorate, dove stavano in piedi dei veri
pompieri con caschi d’oro. Io imitavo tutto questo in dimensioni ridotte.
Avevo confuso il teatro con la ferrovia che avevo visto, la prima volta, dopo
aver fatto un lungo viaggio in calesse. Con scatole da scarpe vuote ho costruito
varie scene. Ogni scatola formava una scena diversa. Le legavo con
una corda come se fossero vagoni. Poi le facevo passare attraverso un grande
cartone con un’apertura, che si potrebbe dire scenica: così ottenevo dei
cambiamenti di scena. A mio giudizio questo fu il mio più grande successo
in teatro ( 2 ).
La memoria dell’infanzia trascorsa nell’ebreo-cattolica Wielopole
diventerà uno dei grandi temi dell’arte di Tadeusz Kantor, così
come il ricordo delle alterne fortune della sua famiglia. Wielopole-
Wielopole sarà il titolo di un suo spettacolo nel 1980, e preti, rabbini,
soldati, alcune figure della memoria portate sulla scena.
Nel 1925, finita la scuola elementare, Tadeusz, la madre e la sorella,
si trasferiscono nella vicina Tarnow, capoluogo della provincia
e città natale dei genitori.
( 1 ) T. KANTOR, Il Teatro della Morte, materiali raccolti e presentati da Denis
Bablet, Milano, Ubulibri/Edizioni Il Formichiere, 1979, pp. 13-14.
( 2 ) Ibidem.

L’opera di Tadeusz Kantor
341
Tarnow era una vecchia città con una bella cattedrale gotica, magnifici paesaggi,
e la più graziosa sinagoga della Polonia. C’erano alcuni ginnasi con
una tradizione molto antica ( 3 ).
Il giovane Tadeusz è iscritto in una scuola superiore della città,
dove studia le lettere classiche e «inizia a fare i primi passi in pittura,
sotto l’influenza dei Simbolisti» ( 4 ).
Inizia ad interessarsi di teatro, specialmente del lavoro di Wyspianski,
il famoso drammaturgo e pittore simbolista polacco, uno
dei profeti della riforma teatrale di fine secolo ( 5 ).
Durante il 1932 viaggia fino alla città (allora ancora) polacca di
Lwòw ( 6 ) per vedere Dziady (Gli Avi) di Mickiewicz (1798-1855),
con la messa in scena “romantica” del più importante regista polacco
del periodo, Leon Schiller, e le scene di Andrzej Pronaszko, che
lo affascinarono.
In questo periodo possiamo notare nel lavoro di Kantor l’inizio
della fascinazione della tradizione romantica polacca e l’incontro
con la personalità artistica di Wyspianski e di Andrzej Pronaszko,
importante esponente del costruttivismo polacco, che contribuì sicuramente
alla scelta successiva di Kantor di studiare scenografia all’Accademia
( 7 ).
Terminate le scuole superiori, nel 1934 Kantor va a studiare a Cracovia,
capitale culturale della Polonia, con le idee chiare sul suo futuro:
Ho deciso di essere pittore, […] e famoso. Perciò sono andato a Cracovia.
[…] Attraverso il mio essere d’artista proclamo la mia fedeltà ad una certa
( 3 ) Citato in W. BOROWSKI, Kantor, Varsavia, Wydawnictwa Artystyczne i Filmowe,
1982, p. 19.
( 4 ) Ibidem.
( 5 ) Stanislaw Wyspianski (1869-1907) drammaturgo e artista al quale Kantor
si ispirerà spesso nei suoi primi spettacoli.
( 6 ) In italiano Leopoli, oggi in Ucraina. Fu annessa all’URSS nel 1945.
( 7 ) Andrzej Pronaszko, superato il periodo espressionista inteso a «creare uno
scenario sintetico, “che affermi l’emozione del dramma”, come scrive nel 1914, e
definendo in questo periodo l’emozione pura come la “sorgente di tutta l’arte”,
nel 1929 diventa membro del gruppo costruttivista Praesens e si dedica ai problemi
dell’architettura e del teatro. Dal 1924 al 1926 collabora col regista Léon
Schiller, e nel 1928 assieme a Szymon Syrkus lavora al progetto del Teatro Simultaneo,
ricerca sulla trasformazione dello spazio comparabile a quella del Totaltheater
di Walter Gropius. Per un quadro generale delle tendenze costruttiviste cfr. il
catalogo: Presences Polonaises. Witkiewicz, Constructivisme, les Contemporains, Paris,
Centre Georges Pompidou, 23 juin-26 septembre 1983; p. 242.

342
GIUSEPPE SOLINAS
area, nazione, città… e penso a Cracovia, alla quale dopo tutto io appartengo…
( 8 )
il riferimento è per gli artisti di Cracovia, ai quali spesso allude nel suo
lavoro: Veit Stoss, Matejko, Malczewski, Wojtkiewicz, Wyspianski.
Durante il primo anno a Cracovia Kantor frequenta la Libera
Scuola di Pittura di Zbigniew Pronaszko, fratello di Andrzej, lo scenografo
ammirato qualche anno prima. Questa prima esperienza lo
aiuta a superare l’esame d’ammissione dell’Accademia di Belle Arti,
presso la quale segue i corsi di pittura e scenografia.
Ma la formazione artistica, troppo rigida e strutturata secondo
schemi vecchi e stantii, non lo soddisfa; Kantor avverte forte la mancanza
di stimoli, che trova invece fuori dall’Accademia.
Ho passato i primi tre anni [all’Accademia] in uno stato di indolente indifferenza,
senza nessuna ambizione interessante. […] I dipinti realizzati dai
professori non mi offrivano nessun impulso vitale. […] Formarsi una consapevolezza
non faceva parte del curriculum, questa mancava agli stessi
professori… […] Ho trascorso gli ultimi due anni nello studio di Karol
Frycz… a quel tempo non aveva più di quattro studenti. E noi potevamo
fare qualunque cosa colpisse la nostra immaginazione: dipingere su tela, su
carta, sui muri, disegnare, costruire manichini… […] Fu solo allora che incominciai
a fare qualcosa sotto la mia responsabilità ( 9 ).
In seguito all’importante apprendistato presso lo studio di Karol
Frycz, celebre scenografo, profondo ammiratore e amico personale
di Edward Gordon Craig, Kantor inizia ad interessarsi all’avanguardia,
al costruttivismo e alla Bauhaus.
All’Accademia crea un teatro di marionette, il Teatro delle Marionette
Effimere, con il quale nel 1938 mette in scena La morte di
Tintagiles, di Maurice Maeterlinck, «in stile Bauhaus, sotto l’influenza
di Oskar Schlemmer» ( 10 ), e traduce il dramma simbolista
Balagancik del poeta russo Aleksandr Blok.
In questo primo lavoro sono evidenti gli influssi delle due correnti
artistiche che maggiormente hanno influenzato la formazione del
giovane Kantor: il costruttivismo e il simbolismo, che rimarranno
una costante del suo lavoro.
( 8 ) Kantor citato nel catalogo della mostra Tadeusz Kantor malarstwo i rzezba,
Muzeum Narodowe w Krakowie, Kraków, 1991, p. 83 e p. 88.
( 9 ) Cfr. W. BOROWSKI, op. cit., p. 19.
( 10 ) Kantor citato in K. PLESNIAROWICZ, The Dead Memory Machine, Tadeusz
Kantor’s Theatre of Death, Kraków, Cricoteka, 1994, p. 11.

L’opera di Tadeusz Kantor
343
Nel mio sviluppo c’è sempre stata questa contraddizione tra Simbolismo e
Arte astratta. Il Simbolismo è un’eredità della tradizione polacca, che è stata
veramente grande: Wyspianski… ma anche il castello reale di Cracovia,
con i fantasmi dei grandi re di Polonia… ( 11 ).
Simbolismo, surrealismo, costruttivismo, la Bauhaus: le nuove
tendenze dell’arte d’avanguardia e le loro applicazioni nell’arte teatrale
sono conosciute da Kantor, come nel caso di Karol Frycz e
Gordon Craig, tramite la testimonianza diretta di collaboratori e allievi
di grandi maestri:
Conosco queste cose per esperienza mia, o per esperienza dei miei colleghi
artisti più anziani: in Polonia ad esempio ho avuto contatti con persone
che conoscevano benissimo tutto il movimento costruttivista russo, molti
storici del teatro, molti registi che sono stati testimoni dell’attività di
Mejerchol’d, di Tairov o di Vachtangov. Uno dei maggiori costruttivisti
europei, Andrzej Pronaszko, era stato mio professore ( 12 ).
Nel settembre 1939, pochi mesi dopo il diploma all’Accademia
in pittura e scenografia, le truppe tedesche invadono la Polonia: è
l’inizio della Seconda Guerra Mondiale. I tedeschi entreranno a Cracovia
in novembre, per occuparla fino alla fine della guerra.
Durante l’occupazione tedesca la Polonia vive una situazione particolare,
unica in Europa: c’è infatti durante tutta la guerra un’attività
sotterranea di resistenza che crea un vero e proprio Stato parallelo
clandestino per fronteggiare l’occupazione. I tedeschi eliminano tutte
le locali forme di governo, istruzione, attività culturale, vita artistica,
e le sostituiscono con le loro.
Cracovia è un caso a parte in Polonia perché da subito è considerata
come tedesca e quindi non è danneggiata dai bombardamenti;
se ne riconosce inoltre l’importanza storica e artistica. Un trattamento
diverso è riservato invece alle altre città polacche, per esempio
Wroclaw [Breslavia] o Lodz, che sono quasi completamente distrutte,
mentre Cracovia doveva diventare città tedesca, capitale della
regione meridionale.
I polacchi reagiscono a questa situazione e creano un governo nazionale
parallelo a quello tedesco, e anche un sistema d’istruzione
con scuole, università ... questo perché l’occupazione ha annullato
( 11 ) Ibidem.
( 12 ) Cfr. l’intervista a T. Kantor realizzata da R. PALAZZI, in Scuola elementare
del teatro, a cura di L. Ryba e R. Palazzi, in «Lezioni milanesi n. 1», Milano, Ubulibri,
1988, p. 74.

344
GIUSEPPE SOLINAS
tutte le forme d’istruzione mantenendo solamente quelle più basse,
per imparare a leggere e a scrivere. Invece, in questo modo, gli studenti
polacchi possono continuare i loro studi in appartamenti privati,
con i pochi professori ancora liberi. C’è anche una polizia clandestina,
governi cittadini, viene creato anche l’esercito nazionale dell’Arma
Kraiowa; ma tutto questo è nascosto, clandestino.
Anche il teatro partecipa a questa forma sotterranea di lotta durante
l’occupazione. L’attività ufficiale del teatro polacco era inesistente,
mentre era ben viva l’attività teatrale clandestina.
Nonostante ogni attività culturale o artistica sia punita, sotto la pena
di morte, gli artisti continuano a svolgere le loro attività, reagendo alla
guerra in modi diversi: alcuni accolgono le idee nazionalistiche e di indipendenza,
per incontrare lo stato d’animo e i bisogni della popolazione
nelle loro opere; altri, tra i quali Kantor, pur non rifiutando gli stessi
ideali di libertà, rimangono fedeli al loro credo artistico, esprimendo
in modi meno immediati ma più duraturi le angosce di quei giorni.
Nota con chiarezza Plesniarowicz:
In questi anni di odio, contro ogni logica e il senso comune, il gruppo di
giovani artisti formato dai migliori pittori e teorici polacchi, che sarebbero
emersi dopo la guerra, girarono le spalle alle idee nazionaliste per seguire le
idee delle avanguardie mondiali, che dominano l’arte polacca ancora oggi.
Questo succedeva all’epoca senza precedenti nella storia umana del genocidio,
e proprio nel centro del terrore più spietato, in isolamento dal resto
del mondo ( 13 ).
A Cracovia lavorano di nascosto dai tedeschi cinque teatri: il Teatro
Clandestino di Kantor, il Teatro Rapsodico di Mieczyslaw
Kotlarczyk (vi ha recitato anche Karol Wojtila, il futuro papa) ( 14 ), il
teatro di Wieslaw Gorecki, di Adam Mularczyk, di Wictor Sadecki.
Kantor è un artista già molto conosciuto e molti apprezzano la
sua attività teatrale. Durante la guerra c’è una forte solidarietà tra le
persone, tale che, nonostante il pericolo, l’attività continua in clandestinità
senza che nulla accada (il maggior pericolo erano le fughe
di notizie o, peggio, le defezioni) ( 15 ).
( 13 ) Cfr. K. PLESNIAROWICZ, op. cit., p. 12.
( 14 ) L’attuale papa Giovanni Paolo II, che al tempo aveva circa ventiquattro
anni. Diventerà arcivescovo di Cracovia nel 1964 e papa nell’ottobre 1978.
( 15 ) Cfr. l’intervista al prof. K. Plesniarowicz realizzata da G. SOLINAS, in ID.,
Al lavoro con Tadeusz Kantor. Interviste agli attori del Teatro Cricot 2, tesi di laurea
discussa all’Università di Cagliari, a.a. 1998-1999, relatore prof. S. Bullegas, correlatore
prof. G. Pellegrini, pp. 392-403.

L’opera di Tadeusz Kantor
Kantor inizia a lavorare come “pittore decoratore” nei teatri cittadini
– controllati dai tedeschi –, nei quali ai polacchi era permesso
di lavorare, ma solo come tecnici.
345
C’erano spettacoli organizzati dai tedeschi, che consideravano questa città
la più importante della regione meridionale; governatore generale era il comandante
Frank, che aveva scelto per quartier generale il Wawel ( 16 ).
[…] Kantor lavorava come tecnico al Teatro Slowacki ( 17 ) durante l’occupazione.
Era un buon lavoro in quei tempi, perché aveva ottenuto il permesso
di muoversi liberamente nella città, ed inoltre gli serviva per continuare
a “stare” nel teatro.
[…] Il nome del teatro era diventato tedesco, gli spettacoli erano tedeschi, i
tecnici polacchi ( 18 ).
Nel frattempo, nel 1942, con un gruppo di giovani pittori d’avanguardia,
studenti di belle arti, artisti grafici, musicisti, poeti, attori, e
altri appartenenti all’intellighenzia di Cracovia, Kantor crea il Teatro
Clandestino. Gli spettacoli realizzati sono tre in tutto: nel 1942 La
morte di Orfeo, di J. Cocteau; nel 1943 Balladyna, di J. Slowacki; nel
1944 Il ritorno di Ulisse, di S. Wyspianski. Hanno luogo segretamente
in appartamenti privati, col grave pericolo per spettatori ed
attori di venire scoperti dai tedeschi, i quali avevano vietato qualsiasi
attività culturale della popolazione sottomessa.
Nonostante i gravi pericoli quest’attività di resistenza dell’intellighenzia
non cessa, anzi gli artisti traggono da questa situazione importanti
stimoli per il loro operare, sia sul piano teorico che su quello,
più pratico ma fondamentale, dei materiali da utilizzare in scena.
Ricorda Kantor:
La realtà era così assurda che molti di noi si diressero verso l’arte astratta, e
fu così che il nostro primo spettacolo, Balladyna, fu astratto. Era la trasposizione
di tutto il romanticismo di Slowacki nella concezione dell’astrazione
della Bauhaus. […] Io specialmente usai forme geometriche, cerchi, archi,
angoli retti, e materiale come sbarre di metallo, catrame, carta, stoffa ( 19 ).
Balladyna è stato probabilmente presentato quattro volte, il 22,
23, 24, 25 maggio 1943 nell’appartamento dei Siedlecki al 21 della
( 16 ) Il castello medioevale circondato da possenti mura che si trova al centro di
Cracovia.
( 17 ) Uno dei teatri più grandi della città.
( 18 ) Cfr. l’intervista al prof. K. Plesniarowicz in G. SOLINAS, op. cit., p. 395.
( 19 ) Citato in W. BOROWSKI, op. cit., p. 22.

346
GIUSEPPE SOLINAS
via Szewska, davanti a un pubblico di approssimativamente un centinaio
di persone in totale.
Circa un anno dopo Balladyna Kantor si rivolge al dramma di
Wyspianski Il ritorno di Ulisse.
Uno degli aspetti più importanti per me è la scoperta di Wyspianski che
noi diventiamo grandi attraverso l’umiliazione. […] Re Casimiro il Grande,
il massimo della potenza polacca, è stato presentato da Wyspianski
con… un teschio e ossa… uno scheletro che portava i resti della sua gloria:
la corona, lo scettro e una mela ( 20 ).
L’azione del Ritorno di Ulisse è collocata da Kantor in una stanza
danneggiata di un appartamento privato, semidistrutto dalla guerra.
La finzione scenica incontra e compenetra la realtà della guerra.
La caratteristica dell’attualità del Ritorno di Ulisse si rinforza di giorno in
giorno. Siamo nel mezzo della ritirata tedesca. Il giorno della prima i giornali
diffusero la notizia dello sbarco degli alleati ( 21 ).
Ecco il ricordo di quei momenti, nella ricostruzione fatta da Plesniarowicz
sulla base delle testimonianze di alcuni spettatori:
Quando Ulisse prese il suo arco e lo tese contro i corteggiatori, si udì
l’esplodere dei colpi di una mitragliatrice da un megafono. “Non puoi entrare
nel teatro senza pericolo” fu scritto da Kantor sulla porta della stanza
dove aveva luogo lo spettacolo. Ed era la realtà: i tedeschi potevano entrare
in qualsiasi momento; il pubblico era tremendamente nervoso ( 22 ).
Dopo l’utilizzo in Balladyna della forma astratta nella realtà del
dramma e della scena, con Il ritorno di Ulisse Kantor fa un’altra scoperta:
la vita reale può vincere e spazzare via irrimediabilmente la
finzione dall’interno del dramma.
Nel dopoguerra Kantor inizia a lavorare come pittore e come scenografo
professionista.
Nel 1945 si unisce agli artisti suoi coetanei ed amici nel “Gruppo
dei giovani Plastici” e fa il suo debutto come pittore nella prima mostra
organizzata, nello stesso anno, con i dipinti del periodo della guerra.
Mette in scena un’altra versione del Ritorno di Ulisse come produzione
studentesca al Teatro Stary di Cracovia, e Niegodzien i god-
( 20 ) Cfr. Tadeusz Kantor malarstwo i rzezba, cit., p. 83.
( 21 ) Cfr. T. KANTOR, Il Teatro della Morte, cit., p. 50.
( 22 ) Citato in K. PLESNIAROWICZ, op. cit., p. 13.

L’opera di Tadeusz Kantor
ni (Il degno e l’indegno), al Teatro Universitario Rotunda, con alcuni
partecipanti al Teatro Clandestino. Inizia la carriera di scenografo
e costumista presso teatri stabili.
Nel 1947 ottiene una borsa di studio di sei mesi per trascorrere
un periodo a Parigi. A parte i musei dove finalmente incontra la
grande arte dell’Avanguardia europea, fa la scoperta, e rimane colpito
dal “Palais de la decouverte”, dove vede
347
il mondo così come è mostrato dalle apparecchiature scientifiche… Questo
fu il mio contatto con un’immagine del mondo come prodotto della conoscenza.
Ero affascinato, ma anche sconvolto dalla consapevolezza che l’accesso
al mondo era possibile solo attraverso la più alta scienza.
[…] Mi resi conto comunque che c’erano anche altre “vie d’accesso”. Erano
delle “povere porte laterali”, non belle e talvolta persino ridicole, attraverso
le quali l’arte poteva infilarsi… ( 23 ).
Nello stesso anno è nominato professore alla Accademia di Belle
Arti, e con il “Grupa Krakowska” (Gruppo di Cracovia), un’associazione
di pittori, scrittori, musicisti, artisti plastici, organizza la Prima
Esposizione d’Arte Moderna Polacca del dopoguerra al Palazzo
d’Arte di Cracovia.
Questa esposizione mette insieme il lavoro di approssimativamente
quaranta artisti da tutto il paese, per raccogliere una panoramica
di ogni tipo di pittura d’avanguardia praticato allora in Polonia,
ed è rimasta per molti anni la più grande mostra d’arte d’avanguardia
del dopoguerra.
Subito dopo la dottrina estetica del Realismo Socialista è ufficialmente
introdotta nella Polonia stalinista, così come negli altri paesi
del blocco sovietico.
Kantor, Maria Jarema ed altri artisti, non accettano di sottostare
ai dogmi artistici imposti dal regime, in nome della libertà dell’immaginazione
e dell’arte, e in segno di protesta smettono di esporre i
loro lavori. In risposta il governo “cancella” gli artisti ribelli dalla
vita artistica ufficiale, e a Kantor è revocato l’incarico all’Accademia
ottenuto l’anno prima.
Questi anni segnano l’incontro e l’inizio della collaborazione con
Maria Jarema, famosa scultrice e pittrice d’avanguardia, fondatrice e
scenografa del (primo) Teatro Cricot, (attivo a Cracovia dal 1933 al
’38), e di un’intensa attività di scenografo nei teatri, su opere di numerosi
autori polacchi e di Calderon, Lesage, Musset, Shaw, Shakespeare,
Lorca.
( 23 ) Citato in W. BOROWSKI, op. cit., p. 32.

348
GIUSEPPE SOLINAS
Le scenografie di Kantor sono molto apprezzate dai critici e dal
pubblico, ma lui considera quest’attività come un semplice lavoro
per poter sopravvivere durante il Realismo Socialista. Intanto prosegue
la sua attività di pittore chiuso nel suo studio, al di fuori della
vita ufficiale, dalla quale era stato estromesso, incontrandosi privatamente
con altri pittori, tra i quali Maria Jarema e Kazimierz Mikulski
(futuro attore del Cricot 2), che con lui condivideva la stessa opinione
sul rapporto tra arte e vita politica.
Anche in questo caso Kantor riteneva l’artista profondamente impegnato
nella situazione politica col suo operare e anche nella riflessione
teorica:
Non fu un caso che quelli che “rifiutavano” avevano una profonda comprensione
del surrealismo e capivano quanto fosse rivoluzionaria quest’idea.
Ad ogni modo, noi introducemmo la nostra correzione all’idea di
libertà del surrealismo: la libertà in arte è qualcosa che deve essere costantemente
vinta, il concetto di libertà non esiste senza qualcosa che la chiuda e
la limiti. Ogni confine che è raggiunto si trasforma in una chiusura, la
“forma” è un imprigionare, solo “l’attitudine” rimane, sebbene anche l’attitudine
sia in continuo sviluppo… ( 24 ).
La morte di Stalin nel 1953 segna l’inizio del periodo del disgelo
e la lenta ripresa della vita artistica libera dalle costrizioni.
Quest’aria di libertà ridà vita alle iniziative artistiche e culturali:
Kantor, in un secondo viaggio all’estero al seguito di una compagnia
polacca, conosce a Parigi la pittura informale; al rientro a Cracovia
inizia a dipingere sperimentandone le idee, e riprende a fare esposizione
di quadri, ancora una volta in collaborazione con Maria Jarema.
Insieme creano nel 1955 il Teatro Cricot 2. Il nome (scritto correttamente
ha il 2 come esponente: cricot 2 ) deriva, letto all’inverso,
dal polacco to cyrc, che significa “ecco il circo”, e si riferisce ad un
primo Teatro Cricot attivo a Cracovia dal 1933 al 1938, fondato da
Wladislaw Jarema, fratello di Maria, e formato da pittori, scrittori,
attori ( 25 ).
Il Cricot 2 inizia la sua attività nel 1956, con lo spettacolo Matwa
(La piovra), tratto dall’omonima pièce di Witkiewicz, costumi di
Maria Jarema, regia di Kantor, seguito da Cyrc (Circo) opera del pit-
( 24 ) Ibidem p. 40.
( 25 ) Per altre notizie sul Cricot del periodo 1933-38 cfr. Tadeusz Kantor, testi
di Kantor, saggi di D. Bablet e di B. Eruli, nella collana Les Voies de la création
théâtrale, vol. 11, Paris, Édition du C.N.R.S., 1983. Nuova edizione rivista: T.
Kantor 1, 1990.

L’opera di Tadeusz Kantor
tore Kazimierz Mikulski, che cura anche la regia, con i costumi di
Maria Jarema.
Se il nome e la presenza di Maria Jarema legano il teatro di prima
della guerra a quello successivo, la diversità in termini artistici è ribadita
da Kantor, che voleva nel Cricot 2 una continuazione del suo
Teatro Indipendente del periodo dell’occupazione.
All’età di quaranta anni nel 1956 Kantor è un pittore affermato e
uno scenografo che lavora stabilmente nei teatri “ufficiali”.
Fin dall’inizio fu il capo indiscusso del Cricot 2, che di lì a poco
avrebbe trovato una sede stabile nei locali rinnovati della Galeria
Krzysztofory, un caffè letterario con annesso locale riservato a periodiche
esposizioni di artisti, concerti e appunto prove e spettacoli teatrali,
situato nei sotterranei di un antico palazzo al centro di Cracovia.
Il Teatro Cricot 2 fu un teatro anomalo. Non si può descrivere
come una normale compagnia di attori professionisti, ma piuttosto
una gruppo di artisti di diversa formazione (pittori, scultori, attori),
teorici e appassionati d’arte, studenti dell’Accademia di Belle Arti …
i quali si riunivano, sotto la giuda di un pittore e scenografo apprezzato
per il suo lavoro, per provare in prima persona e sperimentare
insieme un modo “non tradizionale” di fare teatro, seguendo idee di
messa in scena riconducibili ai principi delle avanguardie artistiche.
I pochi attori professionisti che facevano parte di questa compagnia
“anomala” si recavano alle prove, che si svolgevano per lo più la
sera tardi, dopo il loro quotidiano lavoro negli spettacoli serali dei
teatri di Cracovia, per ritrovare nel lavoro di Kantor quella “energia
creativa” che fortemente si concentrava nelle prove del Cricot 2.
349
Non solamente il Cricot 2 ha inventato nuove forme di espressione teatrale,
ma anche la struttura del teatro come istituzione è stata cambiata. Dall’inizio
della sua esistenza il Tetro Cricot si è imposto per un teatro senza
repertorio, piuttosto era un teatro d’esplorazione, o meglio un teatro dello
sviluppo permanente delle idee teatrali.
Il Cricot 2 ha lanciato l’idea del “teatro autonomo”, e le attuali (e spesso
finte) realizzazioni di questa idea [da parte di epigoni].
Questo è un teatro della sperimentazione nell’arte della recitazione, un teatro
degli attori che cercano nuovi metodi di recitazione e di creazione teatrale
in contatto con altre discipline artistiche ( 26 ).
I successivi cinque spettacoli, preparati nella Galeria Krzysztofory,
ad intervalli irregolari di alcuni anni, sono tutti tratti dai dram-
( 26 ) T. KANTOR, Notatki do biografii, manoscritto inedito conservato alla Cricoteka,
senza data. Il brano è citato in K. PLESNIAROWICZ, op. cit., p. 18.

350
GIUSEPPE SOLINAS
mi scritti da Stanislaw Ignacy Witkiewicz ( 27 ), secondo una formula
che Kantor aveva più volte espresso: «non recitare Witkiewicz, ma
recitare CON Witkiewicz», usata per sottolineare l’uso del testo
scritto come materiale drammatico da riutilizzare e plasmare nelle
mani del regista-demiurgo e dei suoi attori.
Dopo lo spettacolo Matwa (La piovra), realizzato nel 1956, vennero
W malim dworku (Nel piccolo maniero), 1961, primo spettacolo
realizzato alla Galeria Krzysztofory; Wariat i zakonnica (Il pazzo e
la monaca), 1963; Kurka Wodna (La gallinella acquatica), 1967; Nadobnisie
i koczkodany (Le bellocce e i cercopitechi), 1973. Umarla
Klasa (La classe morta), spettacolo del 1975 che rese Kantor e il Cricot
2 famoso in tutto il mondo, utilizza parzialmente brani presi da
Tumor Mozgowicz (Tumore cervicale).
La continuità nel rappresentare opere di Witkiewicz, artista molto
ammirato da Kantor, non deve trarre in inganno:
I lavori di Witkiewicz possono apparentemente apparire una costante nel
mio teatro, ma non sono insostituibili. Li ho scelti ogni volta per caso,
quasi in modo inconscio. Non mi preoccupo assolutamente di nessun tipo
di repertorio in teatro, neppure se si tratta di Witkiewicz ( 28 ).
Oltre il lavoro con gli attori del Cricot, Kantor dirige nel 1966, a
Baden-Baden (in Germania), una diversa versione di W malim
dworku intitolata Der Schrank (L’armadio) con attori tedeschi, e nel
1972 Les Cordonniers (I calzolai) tratto da Szewcy, di Witkiewicz, recitato
in francese con attori francesi al Théâtre 71 a Malakoff, in
Francia, dove Kantor è invitato ma non può portare i suoi attori.
Kantor inizia a dipingere “informale” al suo ritorno da Parigi nel
1955, dove si era recato per la presentazione dello spettacolo Lato w
Nohant (Estate a Nohant) di Jaroslaw Iwaszkiewicz, invitato al
Théâtre des Nations, con scene e costumi di Kantor. Si tratta della
prima visita in Francia di una compagnia polacca dopo la guerra. Finalmente
può confrontarsi con altri pittori d’avanguardia fuori dalla
Polonia e conoscere le loro opere:
Vidi molte esposizioni e raccolsi molte informazioni e materiali sulle mostre
organizzate da Michel Tapie e altri pittori americani. Incontrai alcuni
di loro come Wols, Fautrier, Mathieu, Pollock, Arnal. […] La nuova pittura
dimostrava la fine di tutte previsioni e delle inibizioni intellettuali, e
come risultato la fine di tutte le esperienze immediate. Essa era in lotta con
( 27 ) S.I. Witkiewicz (1885-1939) pittore, scrittore, filosofo e teorico dell’arte,
drammaturgo polacco.

L’opera di Tadeusz Kantor
351
forze oscure e pericolose, rivelandone la natura e i meccanismi. Per me la
pittura divenne una manifestazione della vita, una continuazione non dell’arte,
ma della vita ( 29 ).
Nel 1956, per la seconda volta dalla fine dell’epoca stalinista, insieme
con Maria Jarema, Kantor organizza una mostra dei lavori del
periodo informale.
Durante gli anni ’50 ho dipinto quadri di grandi dimensioni, con la consapevolezza
che non sarebbe stato possibile esporli ad un pubblico. Ciò nondimeno
continuai a dipingere per me stesso, perché sentivo di dover dipingere,
e dovevo dipingere in quel modo e non in altri. Senza considerarlo
come qualcosa di segreto, di “underground”. Dopotutto ero in contatto con
tutto il mondo attraverso la mia pittura, con i suoi pensieri, idee, e ritenevo
che il suo tempo sarebbe arrivato ( 30 ).
Nel 1958 inizia ad esporre fuori dalla Polonia: Stoccolma, “L’arte
del XX secolo” a Charleroi, Parigi (1959), “Dokumenta II” a Kassel
(1959), Bruxelles, Amsterdam, “XXX Biennale” a Venezia, Göteborg
(1960), New York (1961).
La prima metà degli anni ’60 è segnata da un ulteriore sviluppo
del suo percorso artistico, un ulteriore passo in avanti: è il periodo
degli “imballaggi”, e dei primi happening.
Kantor è ossessionato dalle relazioni fra l’arte e la vita, fra l’arte,
la realtà e l’oggetto:
Il problema dell’arte è sempre quello dell’oggetto. L’astrazione è la mancanza
d’oggetto e, pur tuttavia, l’oggetto esiste non nel quadro ma fuori. È
la ragione d’essere del quadro astratto. Nel Rinascimento i ritratti dei personaggi
corrispondono a questa appropriazione dell’oggetto di cui si deve
fare una copia assolutamente esatta e illusionista, in modo che appaia più
viva dello stesso oggetto. Andate al Louvre, guardate i ritratti di Leonardo
da Vinci, di Raffaello: sono più vivi dei turisti che li guardano. L’oggetto è
preso in trappola… L’oggetto è, in un modo quasi magico, veramente “riprodotto”,
come si dice oggi, però questa non è la parola esatta. È “rivendicato”,
“catturato”. Oggi il nuovo realismo e gli happening fanno la stessa
cosa ( 31 ).
( 28 ) Citato in W. BOROWSKI, op. cit., p. 49.
( 29 ) Ibidem pp. 41-42.
( 30 ) Citato in K. PLESNIAROWICZ, op. cit., p. 21.
( 31 ) Intervista a Kantor di T. KRZEMIEN, L’object devient acteur, entretien avec
Tadeusz Kantor, in «Le Théâtre en Pologne», n. 4-5, Varsavia, 1975, p. 56.

352
GIUSEPPE SOLINAS
Con l’annessione della realtà, la “cattura” (tramite imballaggio)
Kantor toglie all’oggetto di cui si impadronisce il significato originario,
la sua funzione d’uso, il suo simbolismo, riducendolo alla neutralità,
sradicandolo dal suo significato originale lo protegge: è questo
il senso dei suoi “imballaggi”.
Nella biografia di Kantor il periodo degli imballaggi e quello degli
happening si sovrappongono. Nel 1965 Kantor crea il suo primo
happening intitolato Cricotage, con un gruppo di artisti e teorici dell’arte,
i quali in seguito faranno capo alla Galleria Foksal a Varsavia.
Per Kantor
l’happening è l’arte in mezzo alla società. Se un oggetto è dipinto su una
tela, non c’è pericolo, sono le condizioni della tela, dell’illusione; ma se
questo stesso oggetto è in mezzo a noi, se lo facciamo penetrare volentieri
tra noi, per strada o in una sala, questo è happening, è l’arte che supera
l’ambito dell’arte, abbiamo raggiunto la frontiera tra la vita e l’arte ( 32 ).
Continua questo genere di attività fino al 1971, in Polonia e all’estero:
nel 1966 realizza «La linea divisoria», all’Associazione degli
Storici dell’Arte a Cracovia: vi partecipano pittori e storici dell’arte.
Sempre nel 1966 realizza a Basilea il «Grand Emballage»; nel 1967
«La lettera», a Varsavia, e, sul mar Baltico, l’«Happening panoramico
sul mare», in quattro parti: «Concerto marino», «La zattera della
Medusa», «Agricoltura sulla sabbia», «Scarabocchio erotico»; «La lezione
d’anatomia secondo Rembrandt», in tre versioni: Norimberga
(1968), Varsavia (1969 e 1971); nel 1968, a Norimberga, la «Conferenza
col rinoceronte», e a Cracovia, l’«Omaggio a Maria Jarema».
Nel 1969 realizza inoltre diversi happening per la televisione di
Saarbrücken, per il Teatro “i” (impossibile) in Yugoslavia; prende
parte all’esposizione “Happening und Fluxus” a Colonia nel 1970; e
creò «Imballaggi Concettuali» a Cracovia, alla Galeria Krzysztofory,
a Düsseldorf e a Stoccarda.
A Norimberga nel 1968 Vostell ( 33 ) mi accusò di non fare degli happening
[…] già da allora c’era nelle mie intenzioni l’idea di applicare il metodo degli
happening al teatro. […] In risposta gli spiegai che lui osservava certe
convenzioni, una via completamente ortodossa, mentre per me tutte le
convenzioni seguite in maniera ortodossa sono terribilmente noiose ( 34 ).
( 32 ) Ibidem.
( 33 ) Wolf Vostell (1932) pittore tedesco d’arte concettuale, autore di dècollages
(manifesti strappati) e di happening.
( 34 ) Kantor citato in K. PLESNIAROWICZ, op. cit., p. 24.

L’opera di Tadeusz Kantor
La realizzazione delle idee dell’happening applicate al teatro arrivano
nel 1969: in maggio, a Roma, alla Galleria Nazionale d’Arte
Moderna, invitato al Festival Premio Roma, Kantor e il Cricot 2
presentano Kurka Wodna (La gallinella acquatica), da Witkiewicz,
prima data fuori dalla Polonia del Teatro Cricot 2. La critica ne parla
entusiasta. Lo spettacolo è invitato ai festival internazionali di
Nancy e di Edimburgo degli anni seguenti.
Negli anni successivi al successo della Classe morta la produzione
pittorica di Kantor passa in secondo piano. Alla fine degli anni ’70,
primi ’80, dipinge quadri figurativi che guardano indietro ai suoi
primi lavori, come il ciclo “Questi seri gentlemen”, contemporaneo
alla Classe morta, e “Figure impacchettate”. Prepara poche esposizioni,
che tendono ad essere retrospettive: “Documentazione vivente:
l’esperienza di venti anni del Teatro Cricot 2” Galeria Krzysztofory,
Cracovia 1976; “Pittori della cerchia del Cricot 2”, Roma e Milano,
1979; “Metamorphoses”, Gallerie de France, Parigi, 1982; “Il teatro
Cricot 2 e la sua avanguardia”, Centre Georges Pompidou, Parigi,
1983; “Omaggio a Tadeusz Kantor”, Ewa Poll Gallery, Berlino,
1986.
Tra il 1987 e il 1990 produce un considerevole numero di opere
del ciclo chiamato “Più in là nient’altro”, dipinti
353
che camminavano fuori dal quadro, che, comunque, deve vincere. […]
Sono sempre andato contro l’illusione, che si trova per esempio nella struttura
della concezione scenica “all’italiana”, e perfino nella pittura. La mia
ultima serie di dipinti è costruita intorno al fatto che le figure camminano
fuori dal quadro. Uno è intitolato “Mi sono stancato di stare seduto nel
quadro. Me ne vado”, e infatti mi sono dipinto con una gamba fuori dal
quadro e l’altra che è ancora dentro. Un altro titolo: “Io sto tenendo un
quadro dove è dipinto come sto tenendo il quadro”. Cioè quello è ciò che
esso è, sebbene sia difficile da immaginare… sono piuttosto dei dipinti paradossali.
È lo stesso tipo di principio usato per creare il mio ultimo spettacolo
Nigdy tu juz nie powroce (Qui non ci tornerò più) [nel 1988], dove io
sono nel quadro e fuori: io sto sedendo in un angolo, mentre il mio manichino
si sposa […] in questo modo il personaggio dell’autore è raddoppiato,
– esso è nell’opera d’arte ma anche oltre, al di fuori ( 35 ).
Dal 1979, dopo il trionfo della Classe morta ad Edimburgo nel
1976 (e durante le lunghe tournée all’estero in tutto il mondo, dall’America
del sud al Giappone), il Cricot 2 prepara quattro spettacoli
in tutto, l’ultimo completato il giorno prima della morte improvvisa
di Tadeusz Kantor, avvenuta l’otto dicembre 1990.
( 35 ) Cfr. Tadeusz Kantor malarstwo i rzezba, cit., p. 94.

354
GIUSEPPE SOLINAS
Gli ultimi spettacoli realizzati sono: Wielopole-Wielopole preparato
e presentato a Firenze, (nelle vicinanze dell’Arena Goldoni dove
lavorò E. Gordon Craig prima dello scoppio della Prima Guerra
Mondiale), vi partecipano alcuni attori italiani che d’allora in poi faranno
parte della compagnia del Cricot 2; Niech sczezna artysci (Che
crepino gli artisti!) presentato a Norimberga nel 1985. Nigdy tu juz
nie powroce (Qui non ci tornerò più) presentato a Milano nel 1988;
Dzisiaj sa moje urodziny (Oggi è il mio compleanno) presentato a
Tolosa nel 1991.
L’incessante cammino artistico di Kantor, la continua ricerca di
superare le frontiere delle posizioni raggiunte, lo portano ad elaborare
una nuova forma di attività teatrale oltre le passate sperimentazioni
dell’happening, che chiama con un neologismo (francesizzato) derivato
dal nome del suo teatro: cricotage.
Ecco come Kantor spiega nel 1978 questo nuovo modo di “agire”
sulla scena, che segna una nuova fase della sua evoluzione artistica:
Il cricotage è equiparabile ai processi artistici propri dell’arte visuale quali i
collage, assemblage e altri.
Il cricotage è una sorta di azione che ha le sue origini nell’esperienza del Teatro
Cricot 2, e nel metodo di recitazione che è stato inventato e praticato
da questo teatro. Non è un happening, cioè non possiede delle “forme aperte”
capaci di assorbire la partecipazione degli spettatori e di ammettere la
loro eventuale influenza sull’azione, […] non é una performance, così diffusa
nel mondo attuale, […] diventata un meccanismo ripetuto, senza più rischio
e sempre più noioso. Il cricotage non rinuncia alle emozioni né alle
forti tensioni. Il cricotage fa uso della REALTÀ, liberata dalle catene del
“plot”. […] Un sentimento di imminente pericolo e conseguente disastro è
la caratteristica cruciale del cricotage. […] Infine, è un tentativo di fare, ancora
una volta, un passo in avanti, oltre La classe morta ( 36 ).
I cricotage realizzati sono cinque: Où sont les neiges d’antan? creato
nel 1978, tra La classe morta (1975) e Wielopole-Wielopole (1980). È
presentato solo tre volte, a Roma, al Palazzo delle Esposizioni, nel
gennaio 1979, vi partecipano attori polacchi. Un matrimonio alla
maniera costruttivista e surrealista presentato a Milano nel 1986 alla
fine di un seminario di un mese con gli allievi della Civica Scuola
d’Arte Drammatica Paolo Grassi di Milano. La macchina dell’amore
e della morte presentato a Kassel nell’ambito di «Documenta 8», nel
( 36 ) Dal programma di sala del cricotage Où sont les neiges d’antan?, Roma, Palazzo
delle Esposizioni, 27 gennaio 1979. Cfr. anche la partitura apparsa, in italiano,
su: «Rivista di Letteratura moderna e contemporanea», vol. XXXVII, fascicolo
3, 1984, Pacini ediz., pp. 377-389.

L’opera di Tadeusz Kantor
1987, ma creato a Milano con attori italiani. Une trés courte leçon
preparato e presentato a Charleville-Mézières nel 1988, alla conclusione
di un seminario con attori di diverse nazionalità all’Istituto Internazionale
delle Marionette. Ô douce nuit preparato e presentato
ad Avignone nel 1990, alla conclusione di un seminario con giovani
attori francesi.
Tutte le produzioni da La classe morta in poi formano un ciclo
chiamato in un primo tempo il “Teatro della morte” o il “Teatro
della memoria”, e più tardi il teatro delle “confessioni personali”. In
uno dei testi che accompagnano la sua ultima opera, Oggi è il mio
compleanno, Kantor scrive:
355
Quel che dirò non è né fraseologia né metafora. È la verità. La mia vita con
le sue fortune si sono identificate con la mia opera. Un’opera d’arte. Si realizzavano
nella mia opera. Vi trovavano la loro soluzione. La mia opera – il
quadro, lo spettacolo, il teatro, la scena – è stata ed è la mia CASA ( 37 ).
Dal 1979 il Cricot 2 è uscito dalla Galeria Krzysztofory, dove per
ventiquattro anni ha preparato tutti gli spettacoli, per cercare un’altra
sede rivolta unicamente alle attività del teatro, e ha affittato due stanze
al pianterreno e i sotterranei di un antico stabile al numero 5 della via
Kanonicza, al centro di Cracovia. Questi spazi ospitano gli uffici, l’archivio,
e dal 1988 il museo del Teatro Cricot 2, chiamato da Kantor –
che ha fortemente voluto questo spazio – la “Cricoteca”. Kantor regolarmente
ha esposto i suoi quadri qui negli anni ottanta.
La Cricoteca, alla quale è stato accordato lo status di istituzione statale,
continua a preparare e programmare esposizioni dei suoi lavori,
in Polonia e fuori, e inoltre coopera all’organizzazione di simposi dedicati
al lavoro di Kantor. Tra i più importanti ricordiamo quelli di
Bari nel 1986, in occasione del Festival dedicato al Teatro della Morte;
Parigi nel 1989, per la grande retrospettiva dedicata al Cricot 2 “Il
ritorno: il Teatro dell’Amore e della Morte”; e quello tenutosi nel
1990, l’anno della morte, alla Università Jagellonica di Cracovia.
Kantor pensò alla Cricoteca come a un (sono sue parole) “Archivio
vivente” del suo lavoro teatrale, per far sì che la sua opera si preservasse
«non in una biblioteca morta ma nella mente e nell’immaginazione
delle future generazioni» ( 38 ).
( 37 ) Dal programma di Oggi è il mio compleanno, Teatro Goldoni, Venezia,
1991.
( 38 ) Note di Kantor che introducono alle funzioni della Cricoteca, in Cricot 2
Theatre Information Guide 1986, Cracovia, 1987, p. 4.

356
GIUSEPPE SOLINAS
Dopo la sua morte, d’accordo con le sue volontà, alla Cricoteca
sono state raccolte una collezione unica di oggetti e macchine teatrali
degli spettacoli del Cricot 2, scritti teorici, progetti e appunti, film
e video, interviste su diversi supporti, migliaia di riviste in tutte le
lingue, dozzine di edizioni speciali di periodici, libri, testimonianza
del lavoro di Kantor e della sua compagnia di attori.
La Cricoteca è la sola istituzione a cui Kantor assentì; il suo teatro
non esisté mai in senso legale: ogni istituzionalizzazione avrebbe
probabilmente portato qualche vantaggio materiale – ad esempio
una sede fissa e una sala prove attrezzata e sempre disponibile – ma
avrebbe anche minacciato quella libertà dell’artista strenuamente difesa
da Kantor in tutta la sua vita.

1. Vino e pane ( 1 ).
MARIA GIOVANNA TURUDDA
J. LOTMAN E I. SILONE:
LO SPAZIO E L’EROE IN VINO E PANE
E LA VOLPE E LE CAMELIE
a. La struttura spaziale. – Pietro Spina non compare subito nel romanzo.
Nei primi due capitoli, infatti, l’azione è incorniciata dalla
casetta di don Benedetto che attende alcuni suoi ex-allievi, Nunzio
Sacca e Concettino Ragù, per festeggiare il suo settantacinquesimo
compleanno. Il prete volge lo sguardo alla valle da cui essi dovrebbero
arrivare. La posizione spaziale occupata dal sacerdote, in alto e
isolata dall’abitato, esprime, a livello simbolico, il ruolo guida che
egli ha ricoperto e ricopre agli occhi dei suoi ex-alunni, uno dottore,
l’altro funzionario di partito, con cui è in procinto di incontrarsi: secondo
la spazializzazione lotmaniana ( 2 ), don Benedetto rappresenterà
nel testo il valore della spiritualità contro una realtà che, collocata
più in basso (la valle da cui arrivano Nunzio e Concettino), si
svelerà ambigua, opaca, raggio d’azione di un sistema non condiviso
né dall’anziano prete né da Pietro Spina. I due visitatori, dunque,
‘semantizzano’ in negativo il ‘basso’ da cui provengono ma, spostandosi
verso lo spazio peculiare al loro ex-insegnante (l’alto), sembrano
muoversi in direzione delle qualità morali delle quali è stato loro
maestro.
L’incontro è per Nunzio, più che per Concettino, l’inizio del recupero
di un’umanità (in senso siloniano) perduta che lo porterà a
prestare aiuto al suo ex-compagno di studi Pietro Spina. A differen-
( 1 ) I. SILONE, Vino e pane, Milano, Mondadori 1976. I numeri in parentesi al
termine della citazione rinviano alla pagina del testo.
( 2 ) J. LOTMAN, La struttura del testo poetico, Milano, Mursia 1976.

358
MARIA GIOVANNA TURUDDA
za di Concettino, infatti, il colloquio con don Benedetto lo farà
uscire da anni d’appiattimento morale e di conformismo.
Il cammino verso il cambiamento è, però, disseminato di difficoltà,
materializzate, nel romanzo, da elementi che sembrano voler rallentare
o fermare il passo: la strada stretta e sinuosa, disseminata di
sassi, simile al letto di un torrente in secca; il gregge (“piccolo fiume
di onde giallastre”), il pastore attorniato da grossi cani bianchi. L’intervento
dell’anziano sacerdote dissipa l’ostilità diffidente del pecoraio
verso l’uniforme di partito indossata da Concettino: l’altra ‘divisa’,
quella più affidabile del prete, invalidandone il potere, smuove
la situazione d’impasse reintroducendo l’azione e consentendo, quindi,
all’intreccio di svilupparsi.
Concettino, nel varcare i confini del mondo di don Benedetto,
mantiene, invece, intatte le sue prerogative di uomo del sistema, non
spogliandosi dei simboli che lo contraddistinguono nello spazio di
pertinenza (basso); in lui non avviene, come per il compagno, il mutamento:
al termine del colloquio, tornerà indietro, a valle, immutato.
Nel terzo capitolo, Nunzio è svegliato all’alba da un uomo che lo
conduce in una stalla in cui ha trovato rifugio Pietro Spina. Di nuovo,
si mette in atto un movimento ascensionale che induce ad assimilare,
quanto a prerogative euforiche, la condizione di Pietro a
quella di don Benedetto:
La stradetta saliva sulla collina compiendo ampie giravolte… La biga arrivò
sulla sommità della collina assieme ai raggi di un sole malaticcio… La strada
era divenuta un sentiero di campagna, da cui si dominava l’intero villaggio.
(45)
Per la seconda volta, il dottore affronta un percorso in salita reso
più tormentato da ostacoli di varia natura – pioggia, freddo, vento,
strade sconnesse – che lo rafforzano, però, nel cammino interiore
inaugurato dall’incontro con il vecchio sacerdote e che lo spinge a
vedere in Pietro Spina la parte migliore di sé:
Gli raccontò le illusioni, le disillusioni, le miserie, le menzogne, gli intrighi,
la noia della sua vita professionale.
(…)
“Tu sei la parte migliore di noi stessi… Cerca di vivere, di durare. Sta veramente
attento alla tua salute.” (57)
Riconoscendosi diverso dall’amico ed ammettendo esplicitamente
la negatività dell’esistenza condotta finora, Nunzio mette in atto
un’autocritica che lo fa crescere come personaggio e che lo libera dai
lacci del conformismo da cui s’è fatto prendere:

J. Lotman e I. Silone: Lo spazio e l’eroe in Vino e Pane e La volpe e le camelie
359
Se si interpreta l’intreccio come sviluppo dell’avvenimento, come passaggio
oltre il limite semantico, diverrà evidente la reversibilità degli intrecci: il
superamento dello stesso confine nei limiti dello stesso campo semantico
può svilupparsi in due catene d’intreccio di tendenze opposte. Così, ad
esempio, il quadro del mondo che presuppone la divisione in uomini (i
vivi) e non uomini (dei, animali, morti) oppure in ‘noi’ e in ‘essi’, sottintende
due tipi d’intreccio: l’uomo che supera il confine va a visitare gli dei
e ritorna dopo essersi impossessato di qualcosa… ( 3 ).
Nella fattispecie, egli supera la limitazione imposta dalla sua condizione
originaria e, andando verso Pietro (qualitativamente diverso
da lui), riconquista la dimensione giovanile animata dalle speranze,
dai sogni, dai valori che ancora don Benedetto e Pietro Spina coltivano.
Anche quest’ultimo, però, trae arricchimento dall’incontro con il
dottor Sacca, compagno di giovinezza: al termine del colloquio, egli
capisce quanto giusta sia e necessaria la sua missione:
“Nunzio… se il mio ritorno in Italia non fosse servito che a suscitare questa
tua voce, già mi basterebbe. Quest’è la tua voce di allora, delle notti insonni
del collegio, mentre la camerata dormiva.” (57)
Pietro Spina, rivoluzionario in incognito, appare nel romanzo
quando ha già varcato in segreto il limen, quello di deportato e di
fuggiasco, per rientrare clandestinamente in Italia. Individuato a
Roma, egli, rotto l’accerchiamento, è in fuga verso la terra d’origine,
la Marsica. Per superare le barriere (non solo materiali) che la sua
condizione di ricercato impone, ha dovuto (e deve) misurarsi con
avversari di varia natura, ambientali e non. Gli è rimasta nel fisico
una traccia di questa lotta, la malattia polmonare che lo fa andare
incontro a crisi di soffocamento. A livello simbolico, essa, stimmate
della sua condizione di perseguitato, esprime l’ansante desiderio di
libertà che suggerisce, ritmandole, tutte le sue azioni.
Dopo aver superato il limite, il protagonista entra in un ‘anticampo’ semantico
posto in relazione con quello iniziale. Affinché il movimento si
fermi, il protagonista deve fondersi con esso, trasformarsi da personaggio
mobile in immobile. Se ciò non avviene, l’intreccio non si esaurisce e
l’azione continua. Così, ad esempio, l’eroe della fiaba nella situazione di
partenza non è parte del mondo cui apparterrà: è perseguitato, disconosciuto,
nasconde la sua vera natura. Poi supera il limite che separa ‘questo’ mondo,
da ‘quello’. È proprio questo limite (bosco, mare) a procurare i maggiori
pericoli. Ma nella misura in cui l’eroe, anche in ‘quel’ mondo, non si fonde
( 3 ) Ivi, p. 281.

360
MARIA GIOVANNA TURUDDA
con l’ambiente… l’intreccio non si forma: l’eroe ritorna e cambiando il suo
essere si inserisce in ‘questo’ mondo ( 4 ):
Pietro Spina non si fonderà mai con il mondo privo di libertà che
clandestinamente combatte, destinato, per le peculiarità che il narratore
gli ha attribuito, a rimanere per sempre personaggio in fieri, ciò
che consente all’azione di progredire, all’intreccio di complicarsi, al
romanzo di non chiudersi ( 5 ). Questa sua condizione di mobilità, che
nasce dall’esigenza di una condotta coerente con le proprie idee, pagata
con una solitudine costante, gli impedisce di essere come gli altri, di
arrendersi, per esempio, alle lusinghe di Margherita: cedere significherebbe
interrompere la dinamica interna del processo di trasformazione,
disperdere la carica interiore che guida la sua lotta contro il sistema,
perdere la condizione di privilegio che gli è stata assegnata.
Per contrastare il regime (e mantenere alto il confronto) deve,
però, camuffarsi adottando l’espediente, suggeritogli proprio da
Nunzio, di una maschera, l’abito talare, che gli dà un ruolo nuovo e
la nuova identità di don Paolo Spada ( 6 ).
Con queste vesti, Don Paolo, prima di giungere a Fossa dei Marsi,
attraversa il paese natale, sua “patria proibita” da cui è stato bandito
da dieci anni:
Il cuore gli batteva forte e malgrado il freddo notturno, si sentiva inondare
di sudore. Alle sue spalle la carrozzella lasciava il monte Velino, con le due
( 4 ) Ivi, p. 284.
( 5 ) In un nostro precedente lavoro abbiamo cercato di mostrare come anche
Fontamara si proponga come testo ‘aperto’: l’interrogativo finale, infatti, impedisce
ai personaggi il ritorno alla condizione di partenza. Cfr., M.G. TURUDDA, Lettura
di Fontamara, in AA.VV., Dai Fiori di parlare al Giardino incantato, Padova,
Liviana 1981.
( 6 ) L’eteronimo nasconde, forse, un riferimento emblematico a Paolo di Tarso,
apostolo e martire a causa della sua intensa opera d’evangelizzazione; ingiustamente
vittima di numerose e lunghe prigionie (a Gerusalemme, a Cesarea, a Roma, a Nicopoli
in Epiro, e, di nuovo, a Roma) nel 67 d.C., sotto Nerone, fu condannato alla
decapitazione. Anche il cognome, Spada, allude probabilmente al ruolo di combattente
per la libertà così come il nome e cognome anagrafici – Pietro Spina – sono
stati appositamente scelti per segnare, in chiave laica, il compito di chi ha l’alta missione
di divulgare un ideale, un credo ferocemente combattuto dal sistema: Pietro allude,
sempre in via ipotetica, all’apostolo di Cristo poi martirizzato a Roma (nel 67 o
64, anni della persecuzione neroniana); il cognome, Spina, è già di per sé significativo
e la sua valenza simbolica (vaga allusione al martirio di Cristo) conferma il destino
di persecuzione cui è ‘predestinato’ il protagonista del romanzo. Altri elementi spingono
a questa interpretazione: le lettere, alcune espressioni del dialogo fra Nunzio e
Pietro, il viaggio di quest’ultimo a Roma, già città ‘fatale’ per San Pietro e San Paolo.

J. Lotman e I. Silone: Lo spazio e l’eroe in Vino e Pane e La volpe e le camelie
361
sommità ancora cariche di neve, e davanti dispiegava, in tutto l’arco dell’orizzonte,
la barriera montagnosa che circonda la conca del Fucino e che,
contro quel cielo notturno e piovoso, pareva la fosca muraglia di un mondo
chiuso. La carrozzella incontrò un vasto abitato, in cui le palazzine e le ville
costruite di recente si alternavano con agglomerati fangosi di baracche e
mucchi di macerie. L’illuminazione era scarna e le zone di buio coincidevano
con i tratti di strada in cui le pozzanghere erano più larghe e profonde.
A una svolta la carrozzella fu bruscamente fermata da due carabinieri, che
subito, però, la lasciarono proseguire, appena videro che il suo unico passeggero
era un sacerdote. (77)
Tre elementi (chiuso, buio, carabinieri pericolo) creano una
contrapposizione semantica il cui secondo polo (aperto, luce sicurezza),
assente, è evocato proprio dall’insistita presenza di quelli. Il
paese natale, normalmente
mondo vicino… umano, buono, ( 7 )
è, invece, per Pietro Spina, luogo infido cui si sottrae, salvandosi, in virtù
del travestimento. Differentemente dal villaggio di Fontamara ( 8 ),
per il quale vale l’affermazione lotmaniana che
Accanto all’idea di ‘alto-basso’, l’opposizione ‘aperto-chiuso’ è un indizio
essenziale di organizzazione della struttura spaziale del testo. Lo spazio
chiuso, venendo interpretato nei testi sotto varie forme spaziali delle cose
di tutti i giorni: una casa, una città, la patria, ed attribuendosi determinati
segni come ‘nativo’, ‘caldo’, ‘sicuro’, si oppone al chiuso spazio ‘esterno’ e
ai suoi segni: ‘estraneo’, ‘nemico’, ‘freddo’, ( 9 )
lo spazio natio, la Marsica e Orta, è ormai estraneo, stretto, asfittico
e, per tutto ciò, difficile e rischioso; inoltre, poiché egli, provenendo
immutato da un altro universo senza essersi liberato delle idee e delle
convinzioni che avevano causato la sua fuga dalla casa paterna, vi ritorna
da forestiero, forse con l’intento di combattere e di modificare
il vecchio mondo, di diffondervi la ‘luce’ di un nuovo credo, di ‘dischiuderlo’
squarciando la corazza della rassegnazione e dell’ignoranza,
può rappresentare, a sua volta, per quel mondo tradizionalista un
pericolo: in condizioni di normalità, d’uniformità ideologica e di
vita, Orta sarebbe per lui un luogo caldo, sicuro, materno, protettivo
perché conosciuto (e amato).
( 7 ) J. LOTMAN, op. cit., p. 270.
( 8 ) Cfr. M.G. TURUDDA, op. cit.
( 9 ) J. LOTMAN, op. cit., p. 271.

362
MARIA GIOVANNA TURUDDA
La categoria del rischio è, però, congenita al personaggio ‘mobile’
di questa storia siloniana, costretto a muoversi dentro uno spazio
ostile perché antitetici sono i valori che si porta dentro: dalla continua
interazione fra i due mondi nasce la duplice lotta di Pietro (e il
complesso significato dell’intreccio), di persuasione dei cafoni e di
resistenza al regime.
Nel romanzo, altri personaggi, che condividono il destino di solitudine
e di esclusione di Pietro, contribuiscono ad accentuare le
qualificazioni eccentriche del protagonista del romanzo: Bianchina,
per esempio, vive in modo spregiudicato, diverso dagli standard del
sistema e della morale comune, subendo l’ostracismo della comunità
e ricevendo, invece, la solidale comprensione di don Paolo.
Nel viaggio accidentato che lo porta a Pietrasecca, alcuni scenari
(scoscese strade in salita, borghi segnati dal terremoto, tuguri affollati
di vecchi silenziosi e di bambini seminudi) svolgono un’importante
funzione simbolica, connotandosi, in quanto luoghi solitari ed angusti,
come premessa profetica ai giorni difficili che aspettano Pietro:
Dopo la cappella, la strada serpeggiava tra due colline, attraversò il ponte ( 10 )
ed entrò nella serra di Pietrasecca, dapprima ampia, poi strozzata tra ripide
pendici di rocce grigie. Tra le rocce, negli avvallamenti composti dai detriti
( 10 ) Il ponte è, come una porta, una finestra, uno specchio, una rovina, una
scala, un muro, oggetto ‘ambiguo’, un tecnema, secondo la definizione di P. Hamon
(La finestra, in AA.VV., Testo letterario e immaginario architettonico, Roma
1996), dal ruolo ambivalente: esso, oggetto ‘tecnico’ essenzialmente funzionale,
sollecita all’interno dello spazio artistico, di un testo letterario, l’immaginario creativo,
diventa simbolo: il muro e il ponte avvicinano e separano due spazi di cui la
porta (chiusa o aperta) costituisce il limen, la soglia; lo specchio riproduce l’immagine
invertita (realtà/finzione, dritto/rovescio, il doppio: cfr. il commento amaro
di Pietro di fronte alla propria immagine riflessa dallo specchio); una rovina allude
al rapporto interno/esterno, passato/presente; la finestra (apribile/chiudibile,
a vetrata o vetrina, componibile, a serranda o imperniata) “separa e unisce”, permette
di vedere e di essere visti, consente al mondo esterno di penetrare nell’io lirico
e a questo di comunicare col mondo circostante. Nella fiction siloniana, Pietro
varca per la prima volta il ponte quando arriva a Pietrasecca per prendere alloggio
nella locanda di Matalena. Il suo stato d’animo è quello di un uomo infastidito
e annoiato, costretto dalla situazione personale ad accettare le decisioni di coloro
che vogliono sottrarlo alla caccia dei fascisti. Al di là del ponticello c’è anche
la casa patrizia (l’unica abitazione prestigiosa del misero villaggio) di Cristina Colamartini
che giocherà un ruolo importante, anche se provvisorio e breve, nella
sua vita. Una seconda volta Pietro Spina attraversa il ponte, ma in direzione della
valle, ansioso, dopo le notizie giunte da Roma, di agire, di trovare qualcuno con
cui parlare e sfogare la sua rinata voglia d’azione. Seduto sul paracarro del ponte –
dunque, in una posizione spaziale intermedia tra valle e montagna, tra alto e basso
– egli dà inizio alla ‘evangelizzazione’ laica dei cafoni. Cfr. pp. 186-187.

J. Lotman e I. Silone: Lo spazio e l’eroe in Vino e Pane e La volpe e le camelie
363
delle alluvioni, si vedevano campicelli coltivati… Il traino avanzava lentamente.
La strada era incisa dai solchi della carreggiata come da due binari…
I fianchi della valle apparivano sempre più corrosi, screpolati e poveri
di vegetazione. Tra le rocce un branco di capre che brucavano a uno a uno
i pochi fili d’erba nuova… (93)
Il villaggio appariva costruito in una specie d’imbuto, incavato nella chiusura
della valle. (95)
“Pare alla fine del mondo” disse il prete…
“È un paese disgraziato” disse Magascià… (94)
attorno al villaggio la poca terra tra le rocce appariva sminuzzata in un gran
numero di campielli. Così piccoli i campi e così numerosi e alti i muri di
sassi che li dividevano, da sembrare le fondamenta di una città distrutta.
Subito dietro il villaggio la serra si chiudeva a barriera. Nessuna strada conduceva
al di là. (95)
Quando il traino attraversa il ponticello sul fiume, Pietro entra in
una dimensione spaziale (il territorio di Pietrasecca) in apparenza innocua
nonostante l’aspetto inospitale; essa costituirà, in realtà, una
trappola insidiosa poiché metterà in campo elementi accattivanti atti
a indurlo all’inazione, a sedurlo, farlo deviare, radicarlo, appiattirlo,
a produrre incrinature nella compattezza morale e ideologica che lo
rende così differente da coloro che gli stanno intorno.
Il rischio di adagiarsi nelle affettuose attenzioni della vecchia Matalena,
la locandiera, nella grettezza di una vita senza significato ma
anche senza responsabilità, nel fascino di Cristina Colamartini, nel
ritmo sonnolento del piccolo villaggio (“I soli diversivi erano i mutamenti
del tempo.”, p. 107) è colto con inquietudine da don Paolo
(“Mi sembra di essere una carogna attorniata da una nuvola di mosche…
è impossibile che io resti qui a lungo…”, p. 107) che si sente
tentato e avvinto da un languido torpore mentale: quel villaggio, assimilato
ad un imbuto dentro il quale egli scivola irresistibilmente
senza trovare appigli per frenare la ‘caduta’, sembra volerlo ingoiare,
infiacchire la sua volontà di resistenza. In un lettera all’amico Nunzio
egli confessa:
“Se potessi addormentarmi qui e domani mattina svegliarmi, mettere il basto
all’asino e andare alla vigna. Se potessi addormentarmi e svegliarmi,
non soltanto con i polmoni sani, ma anche con la testa di un uomo normale,
col cervello liberato da tutte le astrazioni. Se potessi rientrare nella vita
normale. Zappare, arare, seminare, raccogliere, guadagnarmi da vivere e la
domenica parlare con gli altri uomini. Adempiere la Legge che dice: ‘tu ti
guadagnerai la vita col sudore della fronte’. A rifletterci bene, forse l’origine
delle mie angoscie è in questa infrazione all’antica Legge, nella mia abi-

364
MARIA GIOVANNA TURUDDA
tudine di vivere tra i caffè, le biblioteche e gli alberghi, nell’aver rotto la catena
che per secoli aveva legato i miei antenati alla terra… Non son più un
contadino, ma neppure sono diventato un politico ( 11 ), mi è impossibile
tornare alla terra, ma ancora più difficile tornare nel mondo immaginario
in cui ho vissuto finora. Mi vengono pensieri strani. Ascoltami.” (114)
Subdolamente, il mondo originario, consapevolmente abbandonato
fin dalla giovinezza, un mondo duro e faticoso ma semplice,
lontano e separato dal suo, fatto di impegno intellettuale e civile, lo
lusinga aprendogli scenari di ottusa sorda tranquillità ma motivi diversi
e, in primo luogo, l’irreversibilità del processo evolutivo della
sua coscienza, gli impediscono la resa, lo scadimento delle qualità
per le quali è nel romanzo personaggio dinamico, aperto, complesso:
Il punto di partenza del movimento a intreccio, consiste nel fissare tra
l’eroe-protagonista e il campo semantico che lo circonda dei rapporti di
differenziazione e di reciproca libertà: se l’eroe coincide per propria essenza
con l’ambiente che lo circonda e non ha la capacità di differenziarsi da
esso, non si ha sviluppo di intreccio ( 12 ).
Don Paolo, pur attratto, non perde, così, le prerogative di eroe
lotmaniano, poiché non si identifica definitivamente con ‘quel’ mondo
che un tempo gli è appartenuto. Conscio dei rischi di una condizione
ibrida, annoiato dall’inattività fisica e intellettuale che accompagna
il suo soggiorno nell’eremo montano, Pietro avverte la necessità
di ‘respirare’ un’altra aria, di riannodare i fili che lo legano ai
gruppi rivoluzionari della capitale. Resiste, perciò, alle ‘tentazioni’
del piccolo borgo e con l’aiuto di Bianchina cerca di mettersi in contatto
con il mondo ideologico da cui s’è allontanato: deve uscire dalla
crisi, muoversi per allontanare da sé perplessità e tentennamenti, deve
tornare a Roma.
Durante il viaggio, egli fa una sosta a Fossa dove incontra l’avvocato
Zabaglia, vecchio socialista ormai integrato nel sistema, e alcuni
studenti affascinati dalle sue idee rivoluzionarie. Pietro, reso irriconoscibile
dal travestimento, si muove in quest’ambiente, pur antitetico,
con facilità, gratificato dall’entusiasmo con cui i giovani – ancora
nella ‘poesia’ della vita, ancora non contaminati dalla ‘prosa’ (la
professione, il matrimonio, la famiglia) – seguono le vicende del leggendario
“pazzoide rivoluzionario” Spina. La sua opera di catechesi
laica, già iniziata tra i cafoni di Pietrasecca, nella catapecchia del
( 11 ) Uguale disagio avvertirà Pietro Murica.
( 12 ) J. LOTMAN, op. cit., p. 283.

J. Lotman e I. Silone: Lo spazio e l’eroe in Vino e Pane e La volpe e le camelie
muto e nella locanda ( 13 ) di Matalena, accompagnata da un rituale
che sembra ripercorrere quello dell’Ultima Cena ( 14 ), sta producendo
inavvertitamente ma irresistibilmente i suoi effetti, resi manifesti
dalle anonime scritte rosse che inneggiano al suo nome. Nella canti-
( 13 ) La locanda (l’osteria, la cantina), assume nel testo una forte valenza simbolica:
comunemente considerata spazio disforico del vizio e della trasgressione (il
vecchio Fava, avventore quotidiano del locale, si rifiuta di bere il vino di casa propria:
365
“Ogni sera tornava alla cantina. Vi spendeva i pochi soldi che guadagnava. La moglie
finì con l’accusare Matalena…Non c’era stato mezzo. Ogni sera Fava era alla cantina,
sempre allo stesso posto.” (pp. 175-176),
è visto nel testo siloniano sia come spazio comunque diverso in relazione al piccolo
monotono mondo di Pietrasecca sia come luogo simbolico del mutamento (è
qui che Pietro semina le briciole di una dottrina tesa a modificare la secolare condizione
di asservimento dei cafoni) identificabile, a livello temporale, con la giovinezza
che, fisiologicamente ribelle al conformismo perbenista dell’ambiente domestico,
aspira al cambiamento: la casa – la ‘prosa’ nell’arco della vita umana – (la
famiglia, il lavoro, le regole) si configura come costrizione rispetto alla cantina – la
‘poesia’ – sinonimo di libertà:
“Arriva sempre un’età… in cui i giovani trovano insipido il pane e il vino della propria
casa. Essi cercano altrove il loro nutrimento. Il pane e il vino delle osterie che si trovano
nei crocicchi delle grandi strade, possono solo calmare la loro fame e la loro sete. Ma
l’uomo non può vivere tutta la sua vita nelle osterie.” (p. 213),
spiega il farmacista di Fossa a don Paolo che, da quest’ottica, è rimasto, come il
vecchio Fava, un ragazzo che si rifiuta sia alla schematizzazione tradizionalista sia a
quella che il Partito vorrebbe imporgli: egli, come tale, sarà destinato ad una “giovinezza”
costantemente insoddisfatta, all’eterna condizione di pellegrino di una
verità che continuamente gli sfugge e che costantemente insegue a dispetto di
dubbi, di sofferenze, di delusioni; a dispetto, anche, dell’esempio del padre, Ignazio,
“brav’uomo” che – come il farmacista ricorda – in gioventù amò Mazzini e
Alberto Mario e che, tornato in Marsica e sposatosi, qualche anno dopo
era irriconoscibile. Non dimenticherò mai le sue parole. “È finita la poesia, è cominciata
la prosa…” (p. 212)
La cantina del Buonumore, frequentata dai cafoni dopo la manifestazione a favore
della guerra, svolge, invece, il ruolo topico di luogo dell’oblio: il vino, che
nell’osteria di Matalena è cemento di un rapporto paritario di solidarietà e di
comprensione, qui imbruttisce, eccita e involgarisce gli animi, istupidisce. Cfr.
pp. 277-282.
( 14 ) Fin dalle prime pagine del romanzo il vino e il pane sono presenze costanti
con forte carica simbolica. Nella sua catapecchia il giovane cafone muto accompagna
il racconto di don Paolo offrendogli pane, cipolla e pomodoro (p. 173); pane
bruno e vino rosso alimentano Pietro nella stalla-presepe di Cardile; il pane bagnato
nel vino è la cosa che don Paolo (Pietro Spina/Cristo laico) gradisce maggiormente;
con un bottiglione di vino forte, sorseggiato in armonia, si celebra l’intesa
solidale fra lui e Margherita (70), si festeggia la falsa notizia della cattura di

366
MARIA GIOVANNA TURUDDA
na del villaggio, infatti, quotidianamente cresce il numero degli interlocutori
di Pietro che tenta, mentre, par inter pares, beve con essi
vino avvicinando le sue labbra a ciascun bicchiere ( 15 ), di combattere
Pietro (61), si sancisce quella che l’eroe definisce una “parentela delle anime”, si
offre, infine, complicità, confidenza, amicizia, ospitalità (160-162: in filigrana
quasi una piccola Cena; cfr. anche pp. 61, 186, 188, 321, 337). La condizione
‘etica’ per gustarlo o per avere il privilegio di apprezzarlo è che si abbia il cuore sereno,
come afferma fra’ Gioacchino (p. 162); non è un caso che chi non possiede
questa qualità morale non riesca a berlo: don Angelo, che ha scelto il basso profilo
verso il regime in polemica con don Benedetto e con don Paolo, non riesce a bere
il vino che il sagrestano ha versato nel suo bicchiere:
Don Angelo era seduto davanti al suo bicchiere di vino intatto. Egli chiuse gli occhi,
come preso da una subitanea vertigine… “Dio mio, Dio mio” egli mormorò “perché
vuoi farmi paura?” (p. 307)
( 15 ) “tutti offrirono da bere al prete. Egli ringraziò, cercò di scusarsi, ma infine dovette
accettare di fare il giro della stanza e di avvicinare le labbra a ogni bicchiere, secondo il
costume”. (p. 179)
Il titolo del romanzo, del resto, giustifica la sua assidua presenza nel testo come
elemento catalizzatore di tutti i valori simbolici ambivalenti attribuitigli dalla tradizione
iconologica: per il suo colore associato al sangue e al sacrificio, è la bevanda
simbolo della conoscenza e dell’iniziazione (di Pietro ad un nuovo ‘vangelo’, dei cafoni
alla speranza e alla solidarietà, di Bianchina alla morigeratezza, di Murica al sacrificio),
dell’ebbrezza e dello smarrimento, dell’immortalità e della solidarietà (nell’ultima
Cena, Gesù dice. “Questo è il mio sangue dell’alleanza”, con allusione al sacrificio
sanguinoso descritto nell’Esodo, 24, 8: il vino è il sangue del grappolo d’uva,
così come il pane è prodotto dai chicchi della spiga di grano. I genitori di Pietro
Murica piangono la morte del figlio ripercorrendo momenti dell’Ultima Cena: durante
la veglia funebre il vecchio padre offre ai presenti pane e vino dicendo:
“È lui che mi ha aiutato a seminare… a mietere… a macinare il grano di cui è fatto questo
pane. Prendete e mangiate, quest’è il suo pane.”… “È lui che mi ha aiutato a potare…
vendemmiare la vigna dalla quale viene questo vino. Bevete, quest’è il suo vino.” (368)
Pietro Spina commenta da un punto di vista laico e ideologico questo rito
adottando le immagini del mondo dei cafoni:
“Il pane è fatto da molti chicchi di grano… Perciò esso significa unità. Il vino è fatto da
molti acini d’uva, e anch’esso significa unità. Unità di cose simili, uguali, utili. Quindi
anche verità e fraternità, sono cose che stanno bene insieme.”
parole che un vecchio contadino chiosa in chiave simbolica:
“Il pane e il vino della comunione”… “Il grano e l’uva calpestati. Il corpo e il sangue.”
L’interpretazione metaforica del sacrificio di Pietro Murica, martire laico della
fede rivoluzionaria, passa attraverso l’evocazione dell’archetipo cristiano e trova in
esso ulteriori agganci: nove mesi (contati dalla madre dell’ucciso all’inverso, specularmente
al ritmo del tempo agricolo) servono a una donna (la vite, lo stelo di
paglia) per partorire un figlio (il grappolo, la spiga), nove ne occorrono perché
maturino il grano e l’uva.

J. Lotman e I. Silone: Lo spazio e l’eroe in Vino e Pane e La volpe e le camelie
la loro rassegnazione (“E a che servono i pensieri? La grandine cade
ugualmente.”; “Ognuno ha i suoi dolori… Il resto non c’interessa.”;
“Ognuno ha le sue pulci… si gratti.”; “A che serve lamentarsi?”), di farli
persuasi della necessità e della bontà dell’impegno e della partecipazione:
367
Tra i cafoni si sparse la voce che quella sera anche il prete sarebbe stato
presente e perciò la cantina si riempì più del solito. Vennero persone che il
prete non aveva ancora viste. In poco tempo si formò una piccola folla di
una trentina di straccioni, accovacciati per terra, l’uno accanto all’altro…
gente sottomessa e diffidente, teste trasognate su ceppi contorti e ritorti,
teste deformate dalla fame, dalle malattie, e qualche giovanotto selvatico e
rissoso. I più anziani, i notabili come Sciatàp, Magascià, Grascia, rimasero
in piedi vicino alla porta. (182)
A Roma, punto focale dell’universo politico che intende contrastare,
egli muta una seconda volta identità, riprendendo gli abiti laici
di Pietro Spina. Dopo l’iniziale disagio causato dall’ennesima trasformazione
– “Che stranezza camminare per strada senza sottana.
Era come se tutti gli guardassero le gambe. Si mise a camminare
svelto, quasi a correre e un paio di volte controllò se i pantaloni fossero
bene abbottonati”. (226) – si muove nella capitale con familiarità
circospetta per evitare passi falsi che lo metterebbero allo scoperto.
Raggiunge i suoi compagni e si fa riconoscere con l’espediente
del linguaggio cifrato, specifico e caratteristico del campo semantico
degli affiliati non integrati nel sistema, strumento con cui essi si riconoscono
come diversi dal (e nel) campo nemico. La frase di riconoscimento
è convenzionale e non compromettente: la sua genericità
lascia aperta la porta alla salvezza qualora si cada nella rete delle
spie. L’immensa città è, per quelli e per Pietro Spina, la tana del
lupo (Mussolini e il regime fascista) da cui guardarsi e in cui muoversi
con attenta diffidente cautela.
Pietro Spina, messi in atto spostamenti ed incontri frenetici, raggiunge
nel cuore del regime l’apice della sua capacità di movimento
Il non più sotterraneo legame fra l’esperienza di Cristo e quella di Murica è
rafforzato anche dalla ricorrenza del numero nove, frequente nell’iconologia cristiana
(tali sono i cori angelici, le sfere celesti; nove è per Dante il numero del cielo
e di Beatrice) simbolo della molteplicità che ritorna all’unità (processo di cui è
immagine l’Uroboros che in molti alfabeti orientali e mediorientali è simile alla
rappresentazione grafica del nove), della solidarietà cosmica e della redenzione.
Come ultima delle cifre, il numero nove è simbolo di fine e di principio, di morte
e di rinascita, del compimento di una creazione o di una gestazione, ma è, anche,
emblema della fine un ciclo o di un percorso.

368
MARIA GIOVANNA TURUDDA
(in senso lotmaniano) poiché massima è la sua diversità da uno spazio
che, indaffarato e vitale, gli appare all’alba di una bellezza morbida
e tenera ( 16 ):
Gli operai arrivavano a frotte da tutti i lati. C’era nell’aria una bellezza che
commuoveva Pietro, la bellezza di Roma, all’alba, quando le strade sono affollate
di gente che va al lavoro, parla poco e cammina diritto e in fretta. (229)
La sua ulteriore differenziazione nasce dalla sua condizione d’ambiguità
che lo pone in antitesi anche ai compagni di lotta con i quali
rischia la rottura. Pietro è, quindi, come poi lo sarà a Fossa, assolutamente
solo nel campo ‘nemico’, doppiamente assediato e minacciato
dal clima generale ostile e dall’incomprensione della ‘sua’ gente che,
dopo il rientro dall’estero, gli appare ipocrita e conformista. II malessere
diventa profondo, acuto, senza vie d’uscita: identificatosi con
uno spazio omogeneo con le sue idee (quello dei compagni rivoluzionari),
nettamente in dissenso con quello fascista, ora Pietro è in
aperto deciso contrasto anche col primo di cui non accetta più dogmi,
disciplina e preconcetti ( 17 ).
Profondamente deluso e amareggiato, s’incontra con il violinista
Uliva nell’estremo tentativo di evitare una frattura insanabile ma
Uliva è un ex-compagno che non nutre più illusioni, che ha ormai
già superato la fase che Pietro sta attraversando, che con crudo realismo
lo mette di fronte ai timori che egli non osa ancora confessare a
se stesso:
“cos’è l’opposizione? Cosa siete voi? Una burocrazia nascente. In nome di
idee diverse… e per conto di altri interessi, anche voi aspirate al potere totalitario.
Se voi vincerete… noi sudditi passeremo da una tirannia all’altra…
avremo dei mutamenti tecnici ed economici… ma questo progresso
tecnico servirà di punto d’appoggio a una dottrina ufficiale obbligatoria, a
una ortodossia totalitaria che si servirà di tutti i mezzi… per distruggere
ogni eresia e tirannizzare il pensiero individuale. All’attuale inquisizione
( 16 ) Essa, man mano che Pietro vi si inoltra, mostra scenari meno euforici, in
qualche modo armonizzandosi con la sua crescente disperazione: nuovi quartieri in
costruzione, prati invasi da gatti e cani randagi, depositi di rottami, baracche; più
tardi, mentre si dirige verso il centro, osserva quasi con disgusto (“la sua bellezza era
già intorpidita… Era già un’altra città… Roma gli ridiventò nauseante.”, 232) la
Roma ‘fascista’, ‘fuoco’ della sua tensione ideologica e della sua lotta: uomini in
uniforme, impiegati dei ministeri, preti e suore, gerarchi, dirigenti, monsignori in
calze viola.
( 17 ) Cfr. alle pp. 234-237 la discussione con Battipaglia, segretario interregionale
del partito.

J. Lotman e I. Silone: Lo spazio e l’eroe in Vino e Pane e La volpe e le camelie
369
nera succederà un’inquisizione rossa. All’attuale censura, una censura rossa.
Alle attuali deportazioni, le deportazioni rosse… Allo stesso modo dell’attuale
burocrazia… la vostra futura burocrazia identificherà se stessa col Lavoro
e i Socialismo, e perseguiterà chiunque conterà a pensare con la propria
testa…” (243/244)
Pietro, anzi, è costretto a difendere, senza convinzione, di fronte
al disilluso scetticismo di quello, idee che sente di non condividere
più, per quanto in lui resti salda la convinzione che la ‘poesia’ rivoluzionaria
sia ancora possibile, che ancora si possa ridare linfa ad
un’ideologia rimasta ingabbiata nelle formule. Quando, però, egli rivede
Romeo, suo collegamento con il Partito, che gli comunica la
sua probabile espulsione per eresia, la rottura è pressoché definitiva:
I due si strinsero la mano e si allontanarono in due direzioni opposte…
(253)
segnalata ed evidenziata dalle differenti collocazioni spaziali:
Il modello spaziale del mondo in questi testi diventa elemento di organizzazione
intorno a cui vengono costruite anche le sue caratteristiche non
spaziali ( 18 ).
Ripercorrendo la capitale, poco prima della notizia della morte
del violinista avvenuta durante la preparazione dell’attentato a Santa
Maria degli Angeli, egli ne percepisce intera l’estraneità, può constatarne
de visu la metamorfosi in città irreggimentata, preda di un totalitarismo
protervo avviato all’avventura imperialista:
Via Panisperna era messa a rumore da una cinquantina di giovani col berretto
goliardico, i quali traevano un bandierone tricolore e una tabella in
cui era scritto: “Viva la guerra”. I giovani… gridavano, urlavano, interpellavano
i passanti e cantavano… In via dei Serpenti… un altro gruppo di
studenti con un’eguale bandiera, un’eguale tabella, e che cantavano la stessa
canzone…
Vicino al Colosseo Pietro sostò a osservare un’esercitazione di ragazzi avanguardisti
mitraglieri e cannonieri. Adolescenti dai quindici ai diciassette
anni imparavano la combinazione dei pezzi… Erano seri e attentissimi,
come degli ometti… (249)
L’incontro con Annina, fidanzata di Luigi Murica, e il suo racconto
della violenza subita, restituiscono a Pietro la voglia di combattere.
( 18 ) Ivi, p. 264.

370
MARIA GIOVANNA TURUDDA
Nel viaggio di ritorno a Fossa, però, egli si rende conto che l’orgoglio
nazionalistico è dilagato anche lontano da Roma, ha contagiato
ogni luogo, ha preso tutti:
Anche il paesaggio aveva messo l’uniforme. Sul treno, nelle stazioni, sui
pali del telegrafo, sui muri, sugli alberi, sulle latrine, sui campanili, lungo
le cancellate dei giardini, lungo i parapetti dei ponti, si leggevano iscrizioni
inneggianti alla guerra… Il borgo pareva irriconoscibile sotto una decorazione
multicolore di ordini di adunata, di festoni, di bandiere, di iscrizioni
sui muri, con la biacca, la vernice, il gesso, il bitume, il carbone. (263)
L’orgasmo che percorre la folla, in delirio per l’evento, fa sentire
più forti la solitudine e il distacco di Pietro da questo mondo impazzito:
A mano a mano che si avvicinava l’ora in cui sarebbe stato trasmesso dalla
radio il proclama della guerra, la folla che già gremiva le strade, si faceva
più fitta. Da tutte le parti arrivavano motociclette automobili autocarri carichi
di poliziotti, di carabinieri, di militi, di funzionari del partito e delle
corporazioni. Dalla strada delle valli arrivavano gli asini i traini le biciclette
gli autocarri che trasportavano i cafoni. Due bande musicali compivano
per le vie del borgo volteggi, suonando e risuonando lo stesso inno fino alla
noia… Di fronte alla bottega d’un barbiere era stato esposto un cartellone
che rappresentava alcune donne abissine con lunghe mammelle… Un folto
gruppo di giovanotti si era fermato davanti al cartellone e, ridevano e guardavano
con occhi avidi.
In fondo alla piazzetta… era stato issato un apparecchio radio, incoronato
da un trofeo di bandiere… Sotto quel piccolo oggetto, dal quale dipendeva
il destino collettivo, veniva ammucchiata la povera gente… per terra… sulle
bisacce o sui basti degli asini…
La piazzetta e le vie laterali erano già gremite di gente, tuttavia l’afflusso
dei dintorni continuava ininterrotto. Arrivavano gli sciancati dalle cave di
pietra, gli orbi dalle fornaci, gli zappaterra… i vignaioli… gli abitanti della
montagna…
Arrivarono infine anche gli abitanti di Pietrasecca e vennero ammucchiati a
fianco dell’albergo Girasole. (267-268)
Diventa, allora, impellente per lui (“Se… cadi nel fiume, ti lasci
travolgere dall’acqua?”, p. 277) fare un gesto significativo che dia un
segnale diverso capace di spezzare l’onda del consenso al regime, che
riveli il lato grottesco di quest’oscena carnevalata.
Sconsolato e impaziente ma lucido, egli, protetto dall’abito talare,
muovendosi a notte fonda per il paese deserto, scrive col carbone,
sui levigati gradini della chiesa di San Giuseppe e sulla bianca facciata
dell’ufficio delle Imposte, frasi inneggianti alla pace, all’indipendenza
dei popoli africani, all’Internazionale:

J. Lotman e I. Silone: Lo spazio e l’eroe in Vino e Pane e La volpe e le camelie
371
il personaggio mobile differisce da quello immobile nella misura in cui ha il
permesso di compiere azioni proibite ad altri… L’eroe principale si comporta
in maniera diversa dagli altri personaggi ed è l’unico ad averne diritto. Una
lunga serie di eroi della letteratura… dimostra questo diritto a un comportamento
particolare (eroico, amorale, morale, pazzo, strano, ma sempre libero
dalle circostanze che sono ineluttabili per i personaggi immobili) ( 19 ).
La visita a don Angelo, curato di Fossa, e a don Benedetto, incontro
che lo mette di fronte a due modi diversi di concepire la missione
d’evangelizzazione – prudente e diligente, il primo, nello scegliere
il male minore; coerente e coraggiosamente libero da schemi,
dogmi, pregiudizi, il secondo – conferma l’eccentricità di Pietro, speculare
a quella di don Benedetto che vive, ritirato dalla vita pubblica,
nel suo eremo di Rocca dei Marsi.
Il colloquio di don Paolo con il Murica, il racconto della sua ambigua
posizione all’interno di due opposti campi semantici, tra due
fuochi – la lotta al fascismo, il collaborazionismo e i contrasti con il
Partito – inducono Pietro Spina prima ad atteggiamento ostile, severo
e chiuso, quasi spietato (“Il giovane … ansimava. Don Paolo evitava
di guardarlo in faccia…. Soffriva di arsura. Sul tavolino c’era una
bottiglia d’acqua… Ma don Paolo non pensò di invitarlo a servirsene.”,
p. 331), poi alla pietas
Don Paolo lo guardava in faccia, negli occhi… Il giovane tacque come
esausto. “Forse hai sete” gli disse don Paolo. “Bevi un po’ d’acqua.” (p. 333-
335)
motivata dalla storia personale del giovane comunista che per pagarsi
gli studi ha ceduto alla pressione del regime diventandone informatore,
muovendosi, dunque, equivocamente su due fronti ideologicamente
antitetici – fascisti/comunisti – con inevitabili lacerazioni,
sensi di colpa e crisi di coscienza, soprattutto dopo l’esperienza dolorosa
d’Annina. L’unica soluzione possibile gli appare la fuga dallo
spietato mondo metropolitano e il ritorno in provincia, in campagna,
alla casa paterna sicura e protettiva. La crisi, però, non si risolve
perché le sue origini contadine sono state contaminate dalla vita di
città: egli sente di non fare parte, ora, né dell’uno né dell’altro spazio
(come Pietro, del resto):
… chi viene dalla terra ed è stato in città non è più un contadino né un cittadino.
(333)
( 19 ) Ivi, p. 287.

372
MARIA GIOVANNA TURUDDA
Egli, don Benedetto e Pietro Spina costituiscono i personaggi
mobili del romanzo poiché tutti e tre hanno varcato il limen, tutti e
tre attraversano una crisi, ciascuno va incontro ad un destino ‘organico’,
congruente con la personale scelta di vita e la condotta morale:
Murica muore quasi consapevolmente ( 20 ) (come Berardo Viola
in Fontamara), dopo la definitiva scelta di campo; don Benedetto
mantiene inalterata l’opzione volontaria per l’isolamento, Pietro
Spina emblematicamente prosegue la sua peregrinatio chiudendo il
suo soggiorno a Pietrasecca con una fuga verso la montagna innevata.
L’ascesa difficile, tormentata, dall’esito incerto, ripropone le stesse
condizioni della prima che l’aveva portato dalle parti di Fossa
dopo l’ingresso nella clandestinità:
Salire di lì, anche in estate era un’impresa riservata ai ragazzi temerari e alle
capre; d’inverno era una fatica quasi impossibile… dalla valle saliva la nebbia.
Matasse di ovatta grigia riempivano i burroni, nascondevano le case…
La terra aveva un aspetto informe e vuoto, come se fosse disabitata… Tirava
un vento gelido che tagliava la faccia… Si avvicinava anche una bufera.
(377)
In verità, c’è, nel romanzo, un quarto personaggio – versione
femminile del protagonista, per certi versi simmetrico a Pietro Spina
– Cristina Colamartini, giovane donna che aspira alla monacazione:
se Pietro non appartiene al mondo e alla cultura del villaggio e, dunque,
potrebbe abbandonarli senza rimpianti, Cristina vorrebbe lasciarli
per entrare in monastero ma ragioni familiari (difficoltà economiche
e quattro parenti inabili) impediscono la partenza. A livello
diegetico, Cristina, non modificando la condizione originaria e non
differenziandosene dal momento che resta a Pietrasecca rinunciando
al convento, si confermerebbe personaggio immobile, statico, piatto:
I personaggi immobili dipendono dalla principale struttura del tipo di intreccio.
Essi rientrano nella classificazione e la confermano. Il passaggio oltre
i confini è vietato. Il personaggio mobile ha diritto invece ad oltrepassare
il limite. Tali sono Rastignac che fugge in volo, Romeo e Giulietta i quali
oltrepassano la barriera che separa le casate nemiche, l’eroe che abbandona
la casa paterna per entrare in monastero, o l’eroe che rompe col proprio ambiente
sociale per darsi al popolo rivoluzionario ( 21 ).
( 20 ) Il suo calvario in mano alla sprezzante milizia di Fossa evoca quello di Cristo
irriso dai soldati romani: la corona di spine è, nel caso di Pietro Murica, un
vaso da notte (la Verità), una scopa lo scettro (la Fraternità), un tappeto rosso sudicio
il manto della regalità (il Lavoro). Cfr. p. 366.
( 21 ) Ivi, p. 281.

J. Lotman e I. Silone: Lo spazio e l’eroe in Vino e Pane e La volpe e le camelie
Secondo questa tesi, la condizione di Pietro si configurerebbe
come paradigma esemplare di un intreccio romanzesco; quella di
Cristina è ad un passo dal limen o, meglio, è oltre ma in una dimensione
assolutamente privata: la sua mobilità è, infatti, tutta interna,
intima, spirituale; l’evoluzione avviene dentro di lei, le appartiene, è,
a differenza di quella di Pietro Spina, che è, insieme, di mutamento
di sé e di cambiamento della realtà circostante, sostanzialmente individuale
(“l’atto supremo dell’anima è di darsi, di perdersi per trovarsi.
Si ha quello che si dona.”, p. 362) meritevole del velato rimprovero
dell’amico che nei Colloqui le scrive:
373
“la nostra disposizione al sacrificio e all’abnegazione di noi stessi fruttificano
solo se portati nei rapporti con i nostri simili… Noi siamo responsabili anche
per gli altri… Il male da combattere… è tutto ciò che impedisce a milioni
di uomini di umanizzarsi. Anche noi ne siamo direttamente responsabili…
… non bisogna essere ossessionati dall’idea di sicurezza, neppure della sicurezza
spirituale. Vita spirituale e vita sicura, non stanno insieme. Per salvarsi
bisogna rischiare.” (362).
È per questo principio di solidarietà universale che Cristina segue
le orme di Pietro in fuga, tentando di salvarlo dai suoi nemici e dall’ostilità
dell’ambiente. Ella supera in questo modo i confini del suo
campo semantico, accogliendo, consapevole dei rischi cui va incontro,
l’ultimo insegnamento di Pietro Spina (Noi siamo responsabili
degli altri). La montagna, la neve, il vento, però, rendono vano il suo
generoso sacrificio. Cristina muore vittima dell’assalto dei lupi ( 22 ):
( 22 ) Nella locanda di Matalena, vicino al camino, su richiesta di Cristina e di
altri avventori, don Paolo racconta ‘a suo modo’, storie di martiri, attingendole
dall’Index Festorum. Egli pone l’accento sui mali di qualsiasi dittatura che pretende
un’obbedienza cieca e assoluta, sulla strenua resistenza delle vittime di un regime
totalitario, sul loro ostinato rifiuto ad abiurare alla propria fede, sul sereno coraggio
con cui affrontano il supplizio. Oggi come allora, sembra sottintendere il
falso prete, la storia è sempre la stessa. L’inclinazione al sacrificio è congenita in
Cristina, già martire in pectore e nella vita che è costretta a condurre a causa delle
difficoltà familiari (p. 128: “Gesù mi ha insegnato a tacere quando si è sotto tortura”).
Non stupisce, dunque, la sua fine, il martirio cui consapevolmente va incontro
per salvare Pietro: il lupo, immagine del Maligno nei Bestiari medievali,
l’uccide forse perché si è ‘umanizzata’ perdendo la luminosa aureola spirituale che
sempre sembra accompagnarla (cfr. p. 360: Pietro assimila il suo volto a un cristallo
incandescente; tutti a Pietrasecca la definiscono ‘angelo’, cfr. p. 108) e perché
ha trasformato in terreno il suo amore per Dio: il demonio, secondo i testi medievali,
veste i panni del lupo, segue ed insidia la razza umana, si aggira intorno agli
“ovili dei fedeli”. Fin dalla nascita il destino di Cristina è segnato da questa presenza.
Il padre, don Pasquale, racconta di quando ella, ancora nella culla, lasciata nel-

374
MARIA GIOVANNA TURUDDA
Cristina vide accorrere una belva verso di lei, apparendo e sparendo velocemente,
attraverso i fossati di neve. Da lontano ne vide apparire altre. Allora
s’inginocchiò, chiuse gli occhi e si fece il segno della croce. (379)
mentre Pietro continuerà, da solo, ad inseguire la sua utopia (Il seme
sotto la neve).
b. Il campo semantico. – Ogni testo artistico propone diversi livelli di
lettura e molteplici chiavi d’interpretazione che, spesso, sono strutturati
attorno ad un perno da cui si dipartono tutti i piani di costruzione
del testo romanzesco. L’individuazione del fulcro dell’ispirazione
artistica consente dapprima un approccio approssimativo al
suo significato, una decodificazione di superficie dalla quale procedono
le successive, più specifiche, che affrontano le implicazioni più
profonde e complesse del testo:
Il modello artistico è sempre più largo e vivo della sua interpretazione, e
l’interpretazione è sempre possibile come approssimazione ( 23 ).
Se in Fontamara l’organizzazione spaziale consente un codice d’interpretazione
non complicato, essendo lo spazio artistico omogeneo
con il campo semantico, in Vino e pane esso è reso più complesso dalla
presenza forte, insistita, di sostanza, del tema della maschera e del camuffamento
dentro il gioco dell’invenzione romanzesca che ha come
obiettivo la riproduzione ‘verosimile’ della realtà. L’introduzione di
ulteriori elementi di finzione, motivati dalla necessità di attribuire al
protagonista la prerogativa del movimento (e dunque della capacità di
mutare se stesso), impossibile, data la situazione storica dentro la quale
e in opposizione alla quale è costretto ad agire, senza l’aiuto della
maschera, rendono più ricco l’intreccio, più articolata e composita la
struttura, più seducente e produttivo il lavoro d’interpretazione.
In Fontamara gli scenari narrativi, pur nel loro pathos, possiedono
un che di farsesco volto a dare rilievo alla ‘diversità’, alla ‘stranez-
l’ovile tra le pecore, non mostrò alcuna paura davanti ad un lupo. Forse perché era
ancora “innocente”? Profeticamente Pietro commenta:
Forse… il lupo capì che era ancora piccola e pensò di tornare quando fosse più
grande.” (p. 147)
Poco prima della fuga di Pietro, alcuni lupi vengono catturati. L’usanza del
paese vuole che si faccia l’elemosina ai cacciatori che li esibiscono di casa in casa
come un trofeo. Mentre la nonna di Cristina si rifiuta, la nipote, che “fin dall’infanzia
aveva un rispetto speciale per i lupi”, insiste perché l’offerta sia fatta. (p. 364)
( 23 ) Ivi, p. 88.

J. Lotman e I. Silone: Lo spazio e l’eroe in Vino e Pane e La volpe e le camelie
za’ del piccolo mondo dei cafoni organizzato in antitesi a quello nazionale
sotto il regime fascista. Inoltre, il romanzo è corale, ha come
suo fuoco narrativo un eroe collettivo, la popolazione di Fontamara,
che conquista l’orgogliosa consapevolezza di sé attraverso un percorso
di sofferenza e di sopraffazione. Vino e pane adotta il modulo più
tradizionale dell’eroe solitario in lotta con il resto del mondo e l’intellettuale
Pietro Spina è, sicuramente, più vicino all’A. di quanto
non lo sia Berardo Viola, il cafone protagonista della riscossa fontamarese.
Frammenti biografici di Silone, infatti, emigrano nel protagonista
di Vino e pane: l’esilio, l’incomprensione ideologica, la malattia,
l’estraneità al proprio ambiente d’origine segnalata nel testo
dal modo con cui Pietro lo percepisce quando lo attraversa di notte
in carrozza:
375
Le ruote della carrozzella affondavano nella strada ghiaiata e giravano a fatica.
Quando, ecco, d’improvviso, a una svolta, a pochi passi, le prime case
di Orta, ecco il lampione elettrico sulla bottega nera del facocchio ( 24 ), all’entrata
del paese. Don Paolo chiuse gli occhi. Non voleva vedere. Il primo
ad accorgersi dell’arrivo della carrozzella fu il mastino del facocchio. Il mastino
abbaiò due o tre volte, come d’uso; poi si mise in ascolto dietro la
porta, ringhiò tra sé, in modo incerto e interrogativo. La carrozzella passò
davanti alla bottega e ne sfiorò la porta. Allora il mastino emise un lungo
altissimo ululato. Gli rispose allarmata la cagna che guardava l’orto dietro
la chiesa. Don Paolo manteneva gli occhi chiusi; ma dal rumore delle ruote
egli poté riconoscere quando la carrozza fu sull’acciottolato della piazzetta
di Orta. La cagna si mise ad abbaiare come un’isterica, svegliò i figli che
dormivano nel canile, assieme ai cuccioli, saltò contro il cancello dell’orto.
A uno a uno gli altri cani del borgo furono messi in allarme. Si svegliarono
anche quelli che erano dalla parte del mulino, i cani dei depositi del genio
civile, i cani delle stalle dei carrettieri. “Che diavolo succede?” gridò il cocchiere,
“dove siamo capitati?” Erano dai trenta ai quaranta cani ( 25 ) che
guaivano, ringhiavano, abbaiavano, ululavano da tutti i vicoli e cortili. La
carrozzella si allontanò dalle ultime case di Orta e i cani abbaiavano ancora,
poi, a uno a uno, tacquero. Quando don Paolo riaprì gli occhi, la carrozzella
era ferma a una fontana con un ampio abbeveratoio per le bestie.
Sulla fontana c’era una placca di bronzo che diceva: ‘Costruita a spese della
( 24 ) Artigiano che fabbrica cocchi, carrozze, carri; anche: vetturino.
( 25 ) J-E. CIRLOT, Dizionario dei simboli, (Milano, SIAD edizioni 1985), p. 126:
“Il cane è l’accompagnatore del defunto nel suo “viaggio notturno attraverso il
mare”: Pietro, ‘morto’ nella memoria degli abitanti poiché da molto tempo ha abbandonato
volontariamente Orta, entra nel suo paese come “un morto in transito
nel paesaggio della sua vita precedente”; dunque, la reazione dei cani marca, oltre
che quelle del protagonista rispetto al suo spazio originario, anche le peculiarità di
un luogo culturalmente e ideologicamente inattivo dal quale egli è stato costretto
a scappare.

376
MARIA GIOVANNA TURUDDA
famiglia Spina’. Don Paolo… scese dalla carrozza, raccolse dell’acqua nel
concavo della mano e bevve. Con le mani umide si rinfrescò la fronte che
bruciava. (78)
L’impressione suscitata in lui dalla canea rabbiosa e astiosa del
suo villaggio è ricordata da Pietro nei Dialoghi con Cristina:
Nel ripassare di notte attraverso il mio villaggio nativo, ho rivisto le spelonche
dell’egoismo e dell’ipocrisia da cui fuggii. Mi sono sentito come un
morto in transito nel paesaggio della sua vita precedente. Non ho udito altre
voci che latrati di cani. Essi mi parvero la trascrizione fedele dei pensieri
della maggioranza della popolazione che in quell’ora dormiva. Ah, non
sono affatto pentito del distacco. Ma quest’è l’angoscia: sono stato fedele
alla promessa? (131)
Il gesto di bere l’acqua (emblema della vita e della rinascita) risponde
alla necessità di soddisfare un bisogno fisiologico ma, al contempo,
è espressione del desiderio di attingere nuova linfa dalla fonte
familiare, così come cospargersene la fronte equivale ad un battesimo
che segna la nuova dimensione di Pietro: l’acqua, la fontana, il
‘battesimo’ marcano simbolicamente la continuità della trasformazione
già inaugurata nella stalla di Cardile Mulazzi:
Finalmente poteva riposare, confortato dal caldo tepore della febbre. Erano
i suoi primi momenti di sosta e di distensione da quando era rientrato in
Italia. (59)
“Mi pare di essere in un Presepio” egli disse a Cardile. (59)
La paglia, la presenza nella stalla di un asino e di una vacca prefigurano
il ruolo di ‘messia’ laico che Pietro sta per assumere, il suo
impegno di ‘evangelizzazione’ rivoluzionaria che trova espressione
nell’abito talare, la maschera con cui cerca di superare i controlli della
polizia. Nunzio dà voce alla trasformazione quando, osservando
Pietro abbigliato da prete, commenta:
Questi indumenti provengono dalle primitive religioni dei misteri, dei sacerdoti
di Iside e Serapide… Essi furono adottati nella Chiesa cattolica dalle
prime comunità monastiche che cercarono di salvare i valori cristiani
dalla contaminazione mondana per assicurare, a una minoranza vivente
fuori della società e in opposizione alla società, le virtù carismatiche essenziali.
Così, i riti sopravvivono alle epoche nelle quali nascono e passano da
una religione all’altra, da una società all’altra. Ora, ecco che tu, uomo iniziato
ai nuovi misteri rivoluzionari, ai misteri della materia in rivolta, vesti
gli stessi abiti neri, indumenti che da migliaia di anni sono simboli di sacrificio
e di ispirazione soprannaturale. (74)

J. Lotman e I. Silone: Lo spazio e l’eroe in Vino e Pane e La volpe e le camelie
Il travestimento, avviato da Pietro già prima del rientro clandestino
in Italia ( 26 ), sarà mantenuto per quasi tutto il corso della vicenda,
consentendogli di scoprire la sua realtà più profonda, più inaspettata:
377
Proprio il gioco, con il suo comportamento a due piani, con la possibilità
di trasferimento convenzionale in situazioni inaccessibili, nella realtà, a una
data persona, permette a questa di trovare la sua essenza profonda ( 27 ).
Avviene, anzi, in certi momenti, un processo di radicale identificazione
con il ruolo che il travestimento gli impone per salvarsi: legge
libri di devozione e vite di santi che fanno riemergere immagini
dimenticate, simboli e terrori infantili, che determinano, anche, una
sorta di fascinazione “strana e allucinante” che gli fa “ritrovare il filo
della…vita precedente”.
L’infanzia lontana e rimossa, dolce e ovattata nei ricordi, lo attrae
irresistibilmente, contrapponendosi ad una maturità disillusa, tormentata,
piena di contraddizioni e di perplessità. La doppia crisi,
ideologica ed etica, spinge Pietro a guardare con nostalgia al mondo
magico di un’infanzia spensierata e semplice evocata coi suggestivi
colori della lontananza.
Ricordare, però, nella dimensione arida di Pietrasecca, può essere
un’operazione pericolosa poiché la seduzione della memoria può fargli
perdere il contatto con la personale ambigua realtà, esporlo al rischio
dello smascheramento.
Il costume sacerdotale, d’altra parte, pesa perché lo costringe ad
un’identità costruita sulla menzogna: Cristina Colamartini (così
come i cafoni, Annina, Bianchina, Margherita, Pietro Murica) è indotta
a confidarsi con lui, a sentirsi spiritualmente compresa e appagata
perché lo conosce come don Paolo Spada non come il rivoluzionario
Pietro Spina il quale confida al diario:
“Mai la menzogna mi ha ripugnato come ora. Finché si tratta di sotterfugi
per ingannare la polizia, passi, la cosa può perfino divertirmi. Ma ingannare
Cristina, recitare con lei una commedia, tacere quello che vorrei dirle se
potessi parlare francamente, che supplizio… Il soggiorno in questo piccolo
paese, il contatto con questa gente primitiva, l’incontro di questa ragazza
( 26 ) Quando Nunzio lo vede, quasi non lo riconosce: Pietro, suo coetaneo, ha
l’aspetto di un vecchio dal viso grinzoso e giallastro. Il precoce l’invecchiamento è
stato ottenuto con l’aiuto di una miscela a base di tintura di iodio, metodo – egli
spiega allo stupefatto amico – impiegato da un rivoluzionario russo per rendersi
irriconoscibile. Cfr. p. 51.
( 27 ) J. LOTMAN, op. cit., p. 82.

378
MARIA GIOVANNA TURUDDA
mi riconducono a me stesso, quale ero quindici anni fa. In questa bellissima
Cristina ritrovo molti tratti della mia adolescenza, quasi, direi, un ritratto
di me stesso, certo un ritratto abbellito e idealizzato, una versione
femminile, ma in sostanza, uno specchio di quello che allora anch’io sentivo
e pensavo: la stessa infatuazione di assoluto, lo stesso ripudio dei compromessi
e delle finzioni della vita ordinaria, anche la stessa disponibilità al
sacrificio…” (130)
Al senso di colpa per l’inganno s’aggiunge il dubbio d’avere, in
nome del Partito, tradito i valori etici che lo fanno sentire spiritualmente
vicino alla giovane donna:
“È possibile partecipare alla vita politica, mettersi al servizio di un partito e
rimanere sincero? La verità non è diventata, per me, una verità di partito?
La giustizia, una giustizia di partito? L’interesse dell’organizzazione non ha
finito col soverchiare anche me, tutti i valori morali, disprezzati come pregiudizi
piccolo-borghesi, e non è diventato esso il valore supremo? Sarei
dunque sfuggito all’opportunismo di una Chiesa in decadenza per cadere
nel machiavellismo di una setta? Se queste sono incrinature pericolose e riflessioni
da bandire dalla coscienza rivoluzionaria, come affrontare in buona
fede i rischi della lotta cospirativa”? (132)
Il viaggio a Roma libera Pietro dall’inazione e dalle costrizioni del
travestimento. Nella capitale egli mette giù la maschera, gioca scoperto
come Pietro Spina, cessa dalla finzione non più necessaria: egli
affronta i compagni dopo essersi tolto i panni di don Paolo Spada. Il
gioco è finito, come, forse, lascia intendere la descrizione della piazza
che Pietro attraversa:
La grande piazza assolata, tra la basilica di San Giovanni e la Scala Santa
era ingombra di baracconi di luna-park in demolizione. I baracconi erano
stati già spogliati delle loro attrazioni notturne; i carpentieri abbattevano le
travi dell’ossatura, mentre venivano affastellati sugli autocarri le tende i
cartoni i lampadari i cavallucci di legno le spade di latta. Per terra giacevano
i trofei di pipe di gesso, il battello fantasma dipinto sul mare in burrasca,
la pelliccia della tigre del Bengala. (226)
È vero che egli continua ad usare accorgimenti ed espedienti tattici
per muoversi con una certa sicurezza nel cuore del regime e per incontrarsi
in segreto con i compagni, ma lo fa come Pietro Spina, come
‘piccolo’ sovversivo che vuole inaugurare la catena di NO capace di
contrastare e di mettere in crisi l’attendibilità della propaganda fascista:
“Basta che uno dica NO e l’incanto è spezzato… In ogni dittatura… un
solo uomo, anche un piccolo uomo qualsiasi, il quale continui a pensare
con la propria testa, mette in pericolo l’ordine pubblico. Tonnellate di car-

J. Lotman e I. Silone: Lo spazio e l’eroe in Vino e Pane e La volpe e le camelie
379
ta stampata propagano la parola d’ordine del regime; migliaia di altoparlanti,
centinaia di migliaia di manifesti e di fogli volanti distribuiti gratuitamente,
schiere di oratori su tutte le piazze e i crocicchi, migliaia di preti
dal pergamo ripetono fino all’ossessione, fino all’istupidimento collettivo,
quelle parole d’ordine. Ma basta che un piccolo uomo, un solo piccolo
uomo, dica NO, e quel formidabile ordine granitico è in pericolo.” (296)
2. La volpe e le camelie ( 28 ).
Pubblicato in Italia nel 1960, il romanzo, in realtà, apparve, per la prima
volta, in Svizzera, nel 1934, in una raccolta di cinque racconti.
Il titolo trae origine da una volpe che insidia i pollai e che alla
fine è catturata, e dalla Festa delle Camelie che tradizionalmente oppone
gli “uregiatt” (i conservatori) ai “rossi”.
Il testo ha una struttura circolare, ad anello visto che l’accostamento
dei due elementi del titolo riappare in chiusura di romanzo:
Luisa, figlia di Daniele, legge sul giornale la notizia del suicidio di
un giovane fascista (assimilato, nel corso della vicenda, alla volpe) e
il programma della Festa.
L’azione si svolge nel Canton Ticino dove un gruppo di svizzeri
italiani e di rifugiati politici lavora clandestinamente contro il servizio
segreto fascista. Uno di essi, Daniele – uomo di poche parole ma
di ferme convinzioni politiche – è l’eroe cui il narratore affida il
compito di guidare la lotta contro il regime.
a. L’eroe. – Secondo la tesi di Lotman, il protagonista di un testo artistico
si rivela tale nel momento in cui si differenzia dallo spazio che
gli appartiene in virtù di una serie di attribuzioni che gli conferiscono
una qualità, la mobilità (e una conseguente capacità di mutamento)
di cui gli altri personaggi sono privi. Tale prerogativa sta anche
alla base del movimento ad intreccio su cui si organizza il testo. Il
punto di partenza del movimento che conduce l’eroe in spazi differenti
da quelli di pertinenza sta
nel fissare fra l’eroe-protagonista e il campo semantico che lo circonda, dei
rapporti di differenziazione e di reciproca libertà; se l’eroe coincide per
propria essenza con l’ambiente che lo circonda e non ha la capacità di differenziarsi
da esso, non si ha sviluppo dell’intreccio ( 29 ).
( 28 ) I. SILONE, La volpe e le camelie, Milano, Mondadori 1974. I numeri in parentesi
al termine della citazione rinviano alla pagina del testo.
( 29 ) Ivi, pp. 283-284.

380
MARIA GIOVANNA TURUDDA
Il perno attorno al quale ruota tutta la vicenda di La volpe e le camelie
è costituto da alcune polarità antitetiche: vecchi/giovani, uomini/donne,
pubblico/privato, razionalità/sentimento su cui convergono
e da cui dipartono altre sotto categorie, interne a quelle principali,
tutte, comunque, espresse, a livello di struttura, da un’organizzazione
dello spazio che assegna ad ogni personaggio il ruolo ed il suo significato
nella vicenda.
Daniele, l’eroe, si differenzia dal proprio ambiente già in giovinezza
per l’aperta conflittualità con un padre autoritario cui preferisce
la compagnia dei coetanei del paese, con cui si sente in sintonia,
e quella dei profughi del villaggio vicino alla frontiera; questi ultimi,
anzi, alimentano con il loro estremismo la sua natura ribelle:
(… arrivavano periodicamente…per sfuggire alle violente repressioni che vi suscitavano
le agitazioni economiche e politiche dei “rossi”). Anche alcune idee
estreme, e per lo meno premature, del giovane Daniele sulle chiese gli eserciti e
le istituzioni in genere, erano certamente un’eco di quelle amicizie. (9)
La madre, la “buona e “compassionevole” Silvia, “nipote di un esule
della Prima Internazionale”
cresciuta… in un’astratta adorazione per gli uomini in rivolta contro l’ordine
costituito… (10),
sostiene, pur se timida e schiva, l’atteggiamento indocile di un figlio
che considera “un premio ricevuto dalla sorte per tante tribolazioni ingiustamente
sofferte.” (p. 11)
Già attraverso queste prime indicazioni si va delineando un ambiente
domestico che è all’origine del carattere insofferente e spregiudicato,
ma generoso, di Daniele: un padre tradizionalista e dispotico,
una madre docile e riservata ma sotterraneamente ribelle, forse
insoddisfatta, che cerca nella lettura, in questo fieramente e violentemente
osteggiata dal marito Ludovico, vie di fuga, alimento alle sue
fantasie, conforto al clima pesante di casa:
Il tempo che le rimaneva libero… ella lo dedicava alla lettura, che era la
sua unica inesauribile e veramente tirannica passione. Leggeva… qualsiasi
libro che le capitasse sotto mano, ma con particolare trasporto e godimento
le storie di viaggi e le biografie… (11)
Ludovico è un uomo solidamente pratico che deride la moglie
perché fantastica con la testa fra le nuvole, accontentandosi di vivere
da “parassita”; è un padre rigido che non esita ad usare con Daniele
“i colpi di frusta” con cui è solito domare i “puledri recalcitranti”;

J. Lotman e I. Silone: Lo spazio e l’eroe in Vino e Pane e La volpe e le camelie
proprietario all’antica, nonostante l’età avanzata amministra con perizia
un vasto podere. La sua severa disciplina regola i ritmi e l’atmosfera
domestici: solo lavoro duro, rigida moralità, ordine hanno la forza
d’arginare il vizio e il caos provenienti dal mondo esterno. In questo
chiuso universo non c’è spazio per la creatività né per la ribellione:
una sera, stanco delle fantasticherie di Silvia, Ludovico dà fuoco ai
suoi libri – “fomite di dissipazione” – provocando, indirettamente, il
peggioramento della salute della moglie che, dopo breve tempo, muore.
Con un altro falò, dopo il funerale, Ludovico brucia i libri superstiti.
Daniele, sconvolto, fugge dalla casa paterna e va in città.
Ha inizio il primo movimento dell’eroe che si configura come ‘risposta’
ad un’esigenza interna che, a lungo sentita, mai ha potuto
trovare sfogo dentro il mondo monolitico di Ludovico. La scomparsa
della madre gli offre l’opportunità di cambiare campo, di vedere
una soluzione all’asfittico ambiente paterno.
“Solo” e finalmente “libero”, sembrerebbe disporsi ad assaporare tutte
le opportunità che il mondo esterno, privo di costrizioni, pare offrirgli.
Sennonché, Daniele muta, cambia sì la propria condizione ma in
senso opposto a quello che ci si aspetterebbe; almeno, così sembra: diventa,
contrariamente alle attese del lettore e dei paesani, più riservato,
più guardingo, quasi una copia di Ludovico, sua immagine speculare:
In fin dei conti, Daniele gli somigliava più di quello che avesse mai sospettato
(31);
anche la sua vita sembra seguire un percorso tradizionale, disegnare
un orizzonte banale, ripercorrere la linea tracciata dal padre: si sposa
con Filomena, mette al mondo dei figli, si riconcilia con l’anziano
genitore dopo la nascita di Silvia, la primogenita, si occupa del podere
alla morte di Ludovico. Mette via, insomma, i panni del ribelle
e adotta quelli del conservatore, chiudendo con un passato che sembra
voler dimenticare:
381
Era difficile giudicare se fosse cambiato anche il suo modo di pensare; egli
non lo negava… di sicuro non amava più perdere il suo tempo in discussioni,
anzi in “chiacchiere”, come egli cominciò a chiamarle. Il suo contegno
insomma pareva confermare il vecchio detto: sovversivo a vent’anni,
conservatore a trenta. (21)
Daniele ha, per giunta, ereditato dal padre il senso forte della dignità,
l’orgoglio, la ruvidezza del carattere, la spregiudicatezza e la
generosità, il vigore, la violenza, l’inclinazione all’ira; quindi egli –
come aveva pronosticato, un po’ preoccupata, la madre – sembra

382
MARIA GIOVANNA TURUDDA
non possedere altra prospettiva che quella di ripetere il percorso di
Ludovico. Quando, ancora giovane “di non comune vigore”, doveva
assistere ai litigi dei genitori, il “forte e ruvido” Daniele “si struggeva
nello sforzo per non reagire con la violenza contro di lui” (14):
Personaggi contrapposti possono avere analogia d’aspetto (tema dello sdoppiamento,
della riflessione speculare) e trovarsi nelle stesse situazioni ( 30 ).
La violenza, così come l’ira e la ribellione, geneticamente caratteriale,
deve, però, rimanere inespressa nel figlio, soffocata dalla differenza
dei ruoli familiari e dalla distanza generazionale: Daniele, impulsivo
e indomabile come il padre, non può e non deve esercitarla, in
obbedienza al codice di comportamento imposto dal genitore. Solo da
adulto (e sarà allora anche lui padre e capofamiglia!), Daniele avrà occasione
di esprimerla contro la figlia – dopo la fuga del fascista – e
contro la volpe intrappolata sulla quale si accanirà con inaudito brutale
furore, quasi liberandosi di tutta la furia repressa negli anni.
Dopo la morte di Ludovico, Daniele lascia la città e il suo lavoro
d’operaio per tornare al podere ma è circondato dall’ostilità dei vicini
“defraudati” e scandalizzati da quell’intruso ‘cittadino’ che pretende
d’insegnare loro la strategia giusta per catturare la volpe:
“Perché sei tornato?… Forse non si vive meglio in città?”
Daniele li lasciava dire, li frequentava sempre meno e appena li salutava…
(33);
“La tagliola non serve?” disse Daniele. “È la prima volta che lo sento.”
“È la prima volta” gli rispose il vecchio con un sorriso ironico “perché prima
vivevi in città. Le volpi che si trovano in città, le vende il pellicciaio.”
Vari risero alle spalle di Daniele… (53)
A sua volta diffidente e prudente con i vicini, come anche con le
donne della sua famiglia, egli non demorde dal suo piano e, alla fine,
la sua paziente cocciuta attesa sarà soddisfatta: la bestia, la cui sorte
correrà parallela a quella del fascista, cadrà nella trappola alla stessa
stregua di quest’ultimo, attirato dall’esca Nunziatina, la piccola sarta
fiorentina ( 31 ).
( 30 ) Ivi, p. 298.
( 31 ) Nel romanzo, a più riprese, parlando delle trappole lasciate in giro per catturare
la volpe, si allude implicitamente al fascista (cfr. pp. 61, 87) da cui il sicuro
‘territorio’ di Daniele e della sua famiglia appare costantemente minacciato. Il
doppio piano della realtà e della metafora s’intersecano con frequenza, contri-

J. Lotman e I. Silone: Lo spazio e l’eroe in Vino e Pane e La volpe e le camelie
Preso possesso del podere, costruito uno spazio familiare tranquillo
e tradizionalista, Daniele si chiude dentro un mondo senza sorprese,
scontato e ordinario che dall’ottica lotmaniana lo configurerebbe
come personaggio immobile, piatto, gelosissimo delle prerogative del
suo mondo originario che, pure, in giovinezza, aveva aspramente contestato
fino ad abbandonarlo. In realtà, questo è ciò che egli mostra ai
paesani, è l’apparenza, la maschera con cui, con la stessa cocciutaggine
con cui ha messo in piedi la finzione dell’uomo conformista, copre un
gioco pericoloso di cui neppure i familiari sono a conoscenza: lavora,
infatti, clandestinamente contro il regime fascista con una determinazione
fredda che non esclude il ricorso all’inganno e alla violenza, se
ciò serve alla causa. A Silvia che lo aiuta nel lavoro agricolo e che nutre
il dubbio di compiere un gesto gratuito e malvagio nell’uccidere i parassiti
delle piante, Daniele, seguendo il filo segreto di un ragionamento
mentre sembra rispondere alle perplessità della figlia, ribadisce
la necessità della crudeltà (“Non bisogna aver pietà dei parassiti”) come
strumento di difesa contro chiunque rappresenti una minaccia. Il dialogo,
trapassando dall’universo animale a quello umano, si trasforma
in lezione etica sul concetto d’onestà, sul diverso modo d’intenderla,
sul modo differente di porsi di fronte alla realtà storica:
383
“Agostino chiama parassiti anche certi uomini… Eppure non sarebbe mica
lecito ucciderli.”
“Non è la stessa cosa” ammise Daniele.
“Credi che Agostino sia crudele?” continuò la ragazza.
“Macché” rispose Daniele. “È un uomo di cuore, un uomo generoso.” (58)
Contro il principio egoistico del “farsi i fatti propri”, è necessario
prendere posizione, compromettersi, essere ‘onesti’, appunto:
“Papà… credi che ad Agostino possa capitare qualche guaio?… Ho l’impressione
che lui, i guai, se li cerchi da sé. Perché non si fa i fatti suoi, come
gli altri?”
“È troppo onesto.” (60)
buendo a rendere più allarmante la condizione del protagonista costretto a muoversi
su due territori, quello privato (tradizionalista e familiare, in piena luce) e
quello politico (segreto e rischioso, notturno), che si contaminano rendendo più
ardua per Daniele la separazione (limen) fra il gioco cospirativo e il ruolo di capofamiglia.
È significativo, per esempio, che Luisa, orgoglio paterno, venga da lui assimilata
per la sua delicata morbida bellezza ad una tortora che sta per spiccare il
volo (cfr. p. 49) e che il carro allegorico protagonista della Festa delle Camelie
rappresenti una volpe “che stringe una candida colomba tra le zanne” (p. 157):
ella è già caduta vittima del fascino del fascista (la volpe di cui metaforicamente
parlano il funzionario di partito e Daniele) che l’ha usata per spiare il padre.

384
MARIA GIOVANNA TURUDDA
Proprio in questo dialogo ‘coperto’, in cui i due interlocutori si
muovono su piani differenti di linguaggio senza che venga esplicitato
il senso vero della conversazione, emerge la sostanza di Daniele, il
suo essere personaggio mobile, di una mobilità segreta, sconosciuta
ai più, accuratamente celata dietro il ruolo di capofamiglia e di contadino
serio, tradizionalista, burbero e solitario. La maschera nasconde
agli occhi della famiglia, della società e del regime il mutamento
intervenuto in lui già dalla giovinezza con la frequentazione
dei gruppi rivoluzionari e dei fuoriusciti: lo spazio domestico e il podere
sono la copertura che gli consente di rimanere se stesso, di non
tradire la coerenza ideologica dentro l’anticampo del conformismo e
della quotidianità. Il mondo familiare è, per quest’eroe, rischio e insicurezza,
finzione e inganno, affetto e spietatezza proprio perché la Storia
gli ha imposto il ruolo della doppiezza necessaria per affermare il
principio della libertà e della giustizia all’interno di una realtà storica
da cui ideologicamente si sente lontano e si differenzia: il fascismo.
Ma Daniele, proprio perché eroe-protagonista del romanzo, mostra
ulteriori qualificazioni che lo fanno diverso anche dai compagni
di lotta: Agostino, Franz, l’avvocato. Una di queste, il culto per
l’amicizia solidale, fatta di complicità e di comprensione dei limiti e
delle diversità dell’altro, costituisce, forse, la nota dominante del
Daniele segreto, la sua forza.
Agostino, già nel dialogo di Daniele con la figlia, si qualifica
come uomo duro, spietato, della durezza crudele di chi, onest’uomo
generoso – secondo la definizione dell’amico – la sente necessaria
per combattere un avversario altrettanto aspro e inesorabile, responsabile,
per di più, della morte del fratello. Allora si può capire anche
il suo sarcastico commento su Nunziatina lucidamente scelta da lui
per essere sacrificata alla causa antifascista, vittima inconsapevole di
un intrigo volto a prendere in trappola l’ufficiale:
“Per la prima volta in vita sua… la poveretta ha un protettore. Non ti dico
la sua riconoscenza. Meno male che è vecchia.” (78)
La donna, infatti, che appare personaggio patetico per gli equivoci
anche divertenti costruitile attorno dal narratore, all’oscuro del
tragico ruolo che le è stato assegnato, addirittura riconoscente verso
Agostino che la ha “salvata”, è, come altri personaggi siloniani (Berardo
Viola, Cristina Colamartini, Pietro Murica, Luca), “innocente”
capro espiatorio, incapace di difendersi e che nessuno difende:
persino Daniele, che ella considera “uomo brusco, ma di buon cuore”,
la lascerà sola al momento della tragedia dell’espulsione.

J. Lotman e I. Silone: Lo spazio e l’eroe in Vino e Pane e La volpe e le camelie
La dura logica della lotta clandestina impedisce ad Agostino (ma
anche a Daniele) debolezze e cedimenti. Su Franz Agnusdei, obiettore
di coscienza, non-violento, egli esprime un giudizio severo ritenendolo
“un bambino” “ridicolo” che ha messo “d’accordo Carlo
Marx con Gesù Cristo”, cogliendo alcuni aspetti della personalità
del falegname che Daniele, invece, giudica segni della sua lealtà e
della sua coerenza ideologica e morale.
Dopo la rissa, risolta da Agnusdei in virtù della propria agilità e
forza fisiche, oltre che della presenza di spirito, Agostino è costretto
a rivedere il suo atteggiamento. Il processo di revisione critica è,
d’altra parte, speculare: anche Franz nutre riserve sull’amico di Daniele,
ne censura, poiché la ritiene, dal suo punto di vista rigorosamente
etico, moralmente sbagliata e inefficace, la strategia di lotta
che fa ricorso alla violenza e alla menzogna; nessuna giustificazione,
dunque, per il comportamento di Agostino, né quella del dolore e
della rabbia e, neppure, quella, più universale, della fragilità umana.
Daniele, legato ad Agostino da rapporti di lealtà, d’amicizia solidale
e d’intesa ideale, spiega a Franz la natura dell’amico:
385
“Dovresti capirlo… Agostino aveva una rabbia da sfogare, un dolore recente.”
“Lo so” disse Franz. “Ma non c’è di peggio che portare nella politica i propri
risentimenti privati.”
“Non pretendere troppo” protestò Daniele. “Siamo tutti dei poveri uomini,
non angeli.”
“Ma se ci comportiamo come i nostri avversari, da bruti” ribatté Franz “in
che siamo diversi?”
“Me lo chiedi?” disse. “Non lo sai?”
Franz non si lasciò scomporre.
“Lo so” rispose. “Il fine ultimo, vuoi dire. Ma anche il loro ideale, astrattamente
parlando, è nobile. A riflettere a mente serena, la patri l’ordine la
tradizione non sono mica spregevoli, non ti pare? È la violenza che le rende
false e odiose.” (77)
La logica non violenta d’Agnusdei, necessaria come discrimine
dall’avversario “bruto” che ha eletto la violenza a sistema, si contrappone
all’irruenza sanguigna di Agostino e alla pacatezza di Daniele
che, sempre, a differenza degli altri due, trova elementi di giustificazione
per i compagni di lotta, quella comprensione che, invece, fino
alla fine non manifesterà verso l’avversario politico né verso la famiglia.
Anche nei confronti dell’avvocato, collegamento di Daniele con i
compagni di lotta, l’eroe protagonista rivela forti elementi di diversità
sia nel carattere che nel comportamento che nel modo di concepi-

386
MARIA GIOVANNA TURUDDA
re la politica. Il primo, rigido uomo di partito, antepone tutto alle
ragioni ideologiche, non accettando a priori comportamenti ribelli:
Agostino costituisce, dal suo punto di vista, un rischio per la causa
antifascista a causa della sua passione per le donne e del suo temperamento
impulsivo: la disciplina di partito, prima di tutto – sostiene
da funzionario – “occorre essere neutri”.
Daniele, all’opposto, rifiuta (e ha sempre rifiutato fin dalla giovinezza)
qualsiasi ortodossia poiché per lui è prioritario “essere uomo”
(pp. 103-104) e in questa dimensione la lealtà, la comprensione, la
complicità sono esigenze morali ed è perciò che, mentre il Partito
nella figura dell’avvocato si connota come anticampo, lo ‘spazio’ fisico
e ideologico che egli divide con Franz e con Agostino non entra
mai in crisi per tutta la durata della vicenda, cementato, oltre che
dall’unità dell’obiettivo, da una solidarietà che va oltre le possibili
perplessità ideologiche individuali.
L’ingresso nello spazio domestico di un estraneo, per di più appartenente
al partito avversario, il giovane fascista Cefalù di cui Silvia
s’innamora, introduce nel campo dell’eroe, che, come abbiamo
detto, ha forzato la propria natura ribelle, adattandola e incanalandola
dentro il registro della quotidianità tranquilla e conformista per
celarvi l’attività sovversiva, note di dissonanza che mettono in crisi i
rapporti familiari. S’incrinano quelli tra padre e figlia e quello coniugale
che entrano in regime d’aperta ostilità: Daniele non capisce
Silvia e stupisce dell’entusiasmo della moglie per questo “buon partito”,
un ragioniere, una persona istruita, simpatica, distinta, di buona
famiglia (p. 98), insomma uno che, con infastidita ironia, egli definisce
un “benpensante”, esattamente all’opposto dell’altro pretendente,
Agostino, “onest’uomo… povero” (p. 36) che gode, però,
della sua fiducia:
“A me sembra un giovane onesto” ella aggiunse.
“Onesto?… Sai cosa io intendo per uomo onesto?”
“… onesto è onesto. Mio padre, per esempio, non era forse un uomo onesto?
Anche i miei zii sono sempre stati rispettati come onest’uomini.”
“Vedo che tu neppure sospetti cosa io possa intendere per uomo onesto…
Si capisce, onesto in confronto ai tempi che corrono.”
Filomena rimase a bocca aperta. (103)
Il coraggio di “non farsi i fatti propri” in tempi che richiedono
impegno di lotta per la giustizia e la libertà, andare controcorrente
rispetto ad un clima di dilagante convenzionalismo, questo è il concetto
d’onestà di Daniele, qualità che egli non riconosce a Cefalù il
quale sembra allineato con quella maggioranza alla quale egli nega

J. Lotman e I. Silone: Lo spazio e l’eroe in Vino e Pane e La volpe e le camelie
dignità e rispetto. Il colloquio con la figlia che sino a questo momento
egli ha sentito a sé affine, è illuminante:
387
“Mi auguravo per te un uomo non banale…”
“Un eroe?”…
“No, semplicemente un uomo onesto.”
“Non credo che l’uomo da me scelto sia disonesto.”
“Gli è consentito di andare e venire attraverso questa maledetta frontiera,
con passaporto regolare. Mi basta per farmene un’idea.”
“Egli non si occupa di politica.”
“Sotto una dittatura è uno dei più comodi modi di essere disonesto.” (109)
La delusione non ferma la lotta, fa aumentare la diffidenza (mai
abbandonata neppure dentro le pareti domestiche) che finisce per diventare
esplicita – “In questo lavoro non mi sono mai fidato di nessuno,
se lo vuoi sapere. Neppure delle mie figlie. Ho sempre fatto tutto
da me.” (p. 141) – mettendo in crisi il suo rapporto con l’universo familiare
e il suo vigore ideologico: la responsabilità di capofamiglia
contrasta con la sua libertà d’azione politica poiché famiglia e podere
gli legano le mani, l’imprigionano al luogo, disperdono la sua tensione
alla lotta che ha bisogno di impegno e di dedizione totali:
“Io non posso mica cambiare di nuovo residenza. Ho una famiglia a carico,
un podere.”
“Ecco perché” proseguì Agostino sul tono recriminatorio “secondo certuni,
la rivoluzione non possono farla che gli scapoli e i poveri.” (144)
La diffidenza si trasforma in ira e in sfiducia quando Daniele s’accorge
che l’ospite, penetrato nella sua casa subdolamente, è sparito.
La sua violenza evoca quella di Ludovico contro i libri sopravissuti al
primo rogo: il fuoco con cui Daniele brucia la stampa clandestina
evoca il falò dei libri di Silvia, sua madre; il gesto con cui sono dati
alle fiamme gli opuscoli compromettenti riporta alla mente quello di
Ludovico contro le manie fantastiche della moglie; in entrambi i
casi, infine, il narratore parla di autodafè:
La signora Silvia assistette ai preparativi dell’autodafè senza pronunciare
una parola, pallida ed esterrefatta; i suoi occhi erano fissi su Daniele. (16)
L’autodafè durò mezz’ora. (134)
Ma l’effetto più devastante è dato dal senso d’inutilità che Daniele
(come Agostino) prova: la sfiducia che sentiva nei confronti della sua
famiglia (tutte donne, peraltro: la moglie Filomena, le due figlie, Silvia
e Luisa) sembra travolgere convinzioni politiche e motivazioni di

388
MARIA GIOVANNA TURUDDA
lotta: il suo ruolo familiare e quello di antifascista gli pongono interrogativi
quasi irrisolvibili (“Non credo più a nulla… A nulla.”, p. 140)
che determinano uno stato di impotente confusione da cui tenta di
uscire con la ‘risorsa’ della violenza cieca sfogata sulla volpe finalmente
presa in trappola, e contro la figlia, responsabile della sua crisi personale
e di quella della rete clandestina:
Con la schiena arcuata, facendo leva sulle zampe libere, la bestia cercava di
liberare l’arto prigioniero, dimenandosi disperatamente, eccitata dal dolore,
dal chiasso isterico delle galline…
Egli afferrò un’accetta… e cominciò ad assestare all’animale colpi furibondi,
con una forza come se dovesse abbattere una quercia. Ripetutamente e
con violenza crescente la colpì sulla schiena, sulla testa, nel ventre, sulle
zampe e continuò a colpire anche dopo che l’aveva ridotta una poltiglia
sanguinosa. (151)
“Un consiglio” disse sottovoce. “Che si nasconda. Che non si faccia vedere
dai miei occhi. Ora sarei capace di ucciderla.” (133)
In preda allo smarrimento, in uno spazio esterno neutro e neutrale
– una strada – Daniele dibatte con Agostino il problema della
congruità ideologica e dell’utilità della lotta:
“… si tratta di capire il senso di quello che facciamo… Tu non li conosci i
signori burocrati dei sindacati. Essi sono imborghesiti fino al midollo, specialmente
quelli d’origine proletaria. I migliori… non sognano che l’imborghesimento
degli operai. Non capisco perché dovrebbero aiutare la nostra
lotta… Io invece mi chiedo se non siamo dei pazzi… Mi chiedo se tutto
ciò abbia un senso…” (161-163)
L’uccisione della volpe si pone come antefatto simbolico al suicidio
di Cefalù allo stesso modo con cui la scomparsa di quella aveva,
in precedenza, fatto da premessa iconica alla fuga del fascista.
A questo punto, proprio il gesto imprevisto di Cefalù si pone
come spartiacque, avvenimento (in senso lotmaniano) che muta l’ottica
con cui Daniele ha guardato fino a questo momento all’avversario
che, invadendo il suo territorio, s’è reso responsabile del disagio
familiare: la sua morte violenta fa scattare la pietà, mette allo scoperto,
anche nei confronti del nemico, quella capacità di comprensione
della complessa realtà individuale che Daniele aveva riservato finora
solo ai compagni di lotta (“Mi dispiace per quel povero ragazzo…
Non era cattivo.”, p. 165), eco delle parole pronunciate poco prima
dalla moglie alla notizia del ritrovamento del cadavere:
“Non era cattivo… Egli non ha voluto tradirci.” (161)

J. Lotman e I. Silone: Lo spazio e l’eroe in Vino e Pane e La volpe e le camelie
L’evento – il riconoscimento delle qualità morali dell’avversario,
giunto al termine di una dolorosa fase di stupore, di paura, di preoccupazione
che a livello fisico s’esprime in una sorta di annichilimento,
di collasso che ne invecchia e indurisce i tratti – rende più elastica
la sua proverbiale durezza etica, tante volte rimproveratagli dalla
moglie, facendolo trapassare in un anticampo che ha, ora, le stesse
prerogative di quello iniziale: l’azione si ferma, l’intreccio ha fine.
La frase, posta in chiusura di romanzo (“Mentre tu prepari il caffè…
io salgo un momento da lei.”, p. 165), riconcilia Daniele con la
figlia, ricompone la sua interna lacerazione di padre e di sovversivo,
ora più dialettico col mondo domestico e con quello circostante.
Un’altra polarità s’intreccia con quella privata del protagonista ed
interessa esclusivamente l’universo familiare chiuso (protetto e isolato
dall’esterno) dentro uno spazio architettonico, la casa, che costringe
chi la abita a condividere spazi, rituali, consuetudini, codici.
Quando Daniele, dopo l’esperienza in città, ritornato al paese si accasa,
mette su famiglia e gestisce il podere paterno, sembra che niente
sia mutato, che l’impronta lasciata dal rude Ludovico sia indelebile: si
vive, in casa di Daniele, con gli stessi ritmi e gli stessi codici che il vecchio
padre aveva imposto alla sua famiglia. Filomena, Silvia e Luisa accettano
senza discutere la volontà di un capofamiglia chiuso, guardingo,
di poche parole allo stesso modo con cui, a suo tempo, Silvia, le due
figlie e Daniele avevano subito il volere tirannico di Ludovico. C’è,
però, in casa dell’antifascista un fattore diverso, la predominanza del
sesso femminile che lo costringe a fare i conti con una realtà sconosciuta
in casa del padre: il legame intenso con la figlia maggiore, a lui caratterialmente
speculare, lo pone di fronte all’universo delle emozioni e
dei sentimenti, introducendo nella linearità razionale della sua esistenza
una variabile ingovernabile che mette in crisi la sua funzione di padre,
il suo impegno di lotta, la sostanziale compattezza del gruppo familiare:
il legame di Silvia e di Cefalù, fieramente combattuto da Daniele
proprio a causa dei sospetti sul giovane, inaugura la fase critica che
trova la sua acme nel suicidio del fascista. Le donne di casa coltivano, in
questa fase, dinamiche reciprocamente solidali che determinano l’isolamento
di Daniele: Filomena, per la prima volta quasi irriconoscibile al
marito, difende le ragioni di Silvia; questa si chiude in un silenzio addolorato
e ostile; Luisa, la figlia minore, osserva stando a margine, senza
prendere partito ma fondamentalmente critica verso il genitore.
La situazione è tanto più rimarchevole se si tiene conto che Filomena,
figura grigia e opaca, relegata in casa ad “accudire ai lavori
domestici da sola…”, donna eternamente triste, rassegnata a non la-
389

390
MARIA GIOVANNA TURUDDA
mentarsi più, non si è mai consentita rimproveri, censure, interrogativi
su Daniele; che Silvia ha sempre goduto di una affettuosa complicità
col padre; che Luisa ha finora avuto nelle vicende familiari un
ruolo trascurabile data la giovane età.
Il diritto alla felicità e all’amore, in nome del quale ogni ostacolo
deve essere rimosso e le ragioni del cuore affermate con volontà ostinata
e orgogliosa, è la molla che marca la differenza delle donne da
Daniele: la storia d’amore di Silvia e di Cefalù oppone Filomena a
Daniele e questi a Silvia; Luisa, dapprima passiva e indifferente, si
schiera, dopo la fuga del fascista e il suo suicidio, con la madre e con
la sorella: è proprio lei a trinciare il giudizio più severo e pungente
su Daniele “uomo come tutti gli altri”, rigido, autoritario, egoista,
ma sarà ancora lei a segnare il momento della riconciliazione.
A causa dell’equivoco che spinge le donne, che niente sanno dell’attività
clandestina del congiunto, ad attribuire la sua ostilità verso
Cefalù alla tradizionale diffidente gelosia di un padre per la figlia
prediletta, si determinano, dentro l’ambiente familiare, due spazi
antagonisti esattamente corrispondenti al sesso e al grado di sensibilità
di chi li occupa e che s’intrecciano con quelli ‘segreti’ del Daniele
sovversivo: da un lato lo spazio femminile unito dalla complicità,
dalla comprensione, da una sensibilità più acuta capace d’intuire la
sostanziale bontà di Cefalù; dall’altro, quello di Daniele, rimasto
solo e isolato nella sua caparbia resistenza al ‘nemico’.
Il lettore sa quali siano le vere motivazioni che stanno alla base
del suo rifiuto ostinato, sa che le qualità del giovane – la distinzione,
il perbenismo, il lavoro, la posizione sociale, lo schieramento ideologico
– tanto decantate dalle donne di Daniele – costituiscono, per
quest’ultimo, altrettanti demeriti e, perciò, serio motivo della sua
antipatia e della sua avversione.
Daniele, però, legato al segreto, non può svelare le reali ragioni
della sua diffidenza e deve accettare, quasi senza reagire, l’ostracismo
femminile e in particolare l’incomprensione e il mutismo di Silvia
che, dopo la fuga di Cefalù, si chiude in un silenzio smarrito, scomparendo,
poi, del tutto dalla scena narrativa.
La fuga del fascista sembra dare ragione all’atteggiamento cauto e
critico del capofamiglia ma il risultato è che la sua ostinazione appare,
alle sue donne, eccessiva ed ingiustificata, oltre che misteriosa,
come lo è una parte della sua vita sulla quale Luisa e Filomena ora
s’interrogano:
“Se ci vuole bene, perché fa quelle cose?… Quelle cose pericolose, nascoste?”

J. Lotman e I. Silone: Lo spazio e l’eroe in Vino e Pane e La volpe e le camelie
391
“Non saprei spiegartelo… lui è sempre stato a quel modo, anche prima che
ci sposassimo. Non puoi pensare quanti spaventi, quanti pianti segreti mi
sia costato. Speravo che col tempo e coi figli gli sarebbe bastata la famiglia.
Invece…”
“Cosa ne ricava? Quale vantaggio?”
“Nessuno, anzi gli costa strapazzi e denaro. Ma è come se in quel rischio
egli avesse riposto il suo onore.”
“Il suo onore d’uomo, il suo orgoglio. Temo che, senza di esso, per lui la
vita non avrebbe senso.” (151-153)
Il pianto abituale di Filomena nasce dalla consapevolezza di non
poter modificare la situazione, ormai antica, di mistero e di pericolo
dentro la quale il marito si muove, attratto da essa come lei lo è dai
figli e dalla famiglia:
La madre riprese a piangere senza ritegno. Era il suo modo di accettare la
vita e la sua condizione di donna. Era vissuta con l’idea fissa della disgrazia;
l’aveva aspettata per tanti anni; si poteva dire che fosse nata per aspettarla.
Finalmente era arrivata; essa non mostrava ancora il suo intero aspetto, ma
indubbiamente era giunta. (137)
La diversità di temperamento e di progetto di Daniele e di Filomena
si pone all’origine del loro rapporto coniugale squilibrato e determina,
all’interno di uno spazio comune, un’ulteriore suddivisione in
microspazi autonomi cui corrispondono modi differenti di comportamento
e categorie ideali contrapposte: i figli, la famiglia, l’amore per
l’una, l’orgoglio, l’onore, la lotta per l’altro. Fino alla morte di Cefalù
i due mondi si escludono reciprocamente, parlano linguaggi differenti.
Filomena, riferendosi alla volpe che fa razzia di polli, inconsapevolmente
dà una definizione della qualità della sua vita coniugale:
“Oggi un pericolo, domani un altro… non si ha mai pace.” ( 55)
Donna insicura, emotivamente fragile, una “nullità”, Filomena
(come la suocera Silvia) è sempre vissuta all’ombra del marito, subendone
umori e volontà, così che l’improvviso mortale malessere di
Daniele è da lei percepito come ennesima minaccia ad un equilibrio
familiare già precario, costantemente sospeso:
Il respiro di lui somigliava al rantolo d’un agonizzante…
Incerta sul da fare, Filomena si sedette accanto al letto. Era avvilita di sentirsi
incapace di prendere una decisione. Ripensando alla propria vita, si
rendeva conto che in realtà non ne aveva mai prese. Il malessere del marito…
era per lei una prova terrificante, dato che lui non era mai stato malato,
neanche di un semplice raffreddore. Nella mente di Filomena, la resistenza
fisica del marito e la sua volontà costituiva l’ordine naturale su cui
era fondata la stabilità della famiglia. (153)

392
MARIA GIOVANNA TURUDDA
Il suicidio del fascista, traumatico per tutti, frantuma le barriere
d’incomprensione, restituisce Daniele alla famiglia, rende chiaro il
lato oscuro della sua vita, svela alle donne una dimensione sconosciuta
del loro uomo, la compassione. Non solo; essa dà a Filomena
un’insolita fermezza di propositi, la forza di uscire dalla sua proverbiale
rassegnazione, la capacità di reagire alla fatalistica dipendenza
dal marito. L’eventualità che questi possa compiacersi per la morte
del giovane l’inorridisce e le fa ipotizzare uno scenario nuovo, inconsueto:
“Non credo che Silvia ed io resteremmo in questa casa… Malgrado l’età,
un posto di serva lo troverei ancora…”
Era come se in lei si fosse spezzata una corda troppo tesa. (162-163)
L’inaspettata commozione del marito allontana questo rischio, ripristina
l’equilibrio.
La scena finale è chiusa proprio dal personaggio femminile più
giovane e più inesperto (quello, anche, meno focalizzato dal narratore),
Luisa, erede di un’antica pratica saggezza:
“Le lagrime non risuscitano i morti, ma che altro si può fare?” (165).

MONICA CASSARINO
LA SICILIA BABBA DI GESUALDO BUFALINO
SOMMARIO: 1. La “pelle” Sicilia. – 2. Una provincia di ragazze “mafiose”. – 3. Alla
ricerca del paese perduto.
La letteratura ci ha fornito numerosi esempi di autori dai cui scritti
emerge un forte attaccamento per il paese natio o per quello in cui si è
scelto di stabilire fissa dimora. O, se non un vero e proprio trasporto,
perlomeno quella certa atmosfera, quel particolare modo di esprimersi
o di porsi di fronte alla realtà che scaturiscono naturaliter dall’aver assorbito,
magari inconsciamente, gli umori della propria terra.
Vari tasselli, ciascuno corrispondente agli apporti culturali di
ogni regione (e talvolta, in qualche ambito regionale, delle singole
provincie), compongono pertanto il variegato mosaico della letteratura
italiana. Il tassello-Sicilia, o, con terminologia mutuata da Dante
Isella, il “foglio-Sicilia” ( 1 ), vanta una lunga tradizione di scrittori
che hanno contribuito, e continuano a contribuire, alla sua creazione,
a partire da Verga, Capuana, passando per Pirandello, Brancati,
Tomasi di Lampedusa, Vittorini, Sciascia, fino a Consolo e Camilleri,
per citare due autori tuttora viventi.
Ha tutte le carte in regola per essere annoverato “in cotanto senno”
Gesualdo Bufalino, scrittore siciliano scomparso nel 1996, venuto
alla ribalta, all’età di sessant’anni, dopo la pubblicazione del suo
( 1 ) Isella ipotizza infatti la possibilità di delineare «[…] una nuova carta della
letteratura italiana. Nuova, cioè non più rappresentata in una proiezione monocentrica
e monolinguistica, secondo l’impianto risorgimentale dell’illustre modello
della Storia del De Sanctis […] descritta invece […] con riguardo alla diversa
individualità delle culture regionali che ne compongono la discorde concordia.
Fuori, naturalmente, anche solo dal sospetto di attardati municipalismi; ma senza
appiattire i rilievi, senza decolorare la variegata singolarità degli apporti». Cfr. D.
ISELLA, I lombardi in rivolta, Einaudi, Torino 1984, p. VIII.

394
MONICA CASSARINO
primo fortunato romanzo, Diceria dell’untore, che gli valse il Premio
Campiello 1981. Nella sua poliedrica produzione letteraria, che conta
opere di narrativa, saggistica, poesia, traduzioni specie dal francese, si
possono riscontrare infatti tematiche, sentimenti, atmosfere, valori sociali,
peculiarità tali da farlo entrare di diritto nella schiera degli autori
conterranei connotati da quella specificità del sentire definita da Leonardo
Sciascia, in un saggio ormai celebre, “sicilitudine”. Tutti i suoi
scritti sono permeati da un forte senso di appartenenza alla realtà isolana
e soprattutto a quel “triangolino di Sicilia”, la provincia di Ragusa,
e ancor più a Comiso, il paese natale in cui lo scrittore è vissuto
fino alla fine dei suoi giorni. Non si pensi però a prodotti letterari che
sanno di stantio, frutto di un ripiegamento nostalgico e di gusto provinciale.
«Al contrario […]. Conformemente alla migliore tradizione
degli scrittori siciliani, in Bufalino convivono un’inequivocabile identità
isolana […] e un forte respiro cosmopolitico, un bisogno assai radicato
di dialogare, appropriandosene, con le linee principali della cultura
europea» ( 2 ). Uomo che ha dedicato pressoché tutta l’esistenza
alle lettere, al piacere per il sapere, che ha letto tous le livres nel chiuso
del suo studio-biblioteca, Bufalino dimostra la sua “sicilianità” anche
per quest’esigenza, che lo accomuna ai più grandi scrittori dell’isola, di
allargare i propri orizzonti culturali e di confrontarsi con altre civiltà
letterarie, senza rinchiudersi in una compiaciuta contemplazione del
proprio mondo isolano o in una sterile lamentazione dei propri mali.
Una cultura a trecentosessanta gradi, la sua, che non si limita all’universo
letterario, antico e moderno, italiano e straniero, ma spazia anche
in quello musicale, cinematografico, delle arti figurative, e che costituisce
l’ossatura di ogni sua pagina.
Può essere interessante un approccio all’opera bufaliniana tale da
porre nella dovuta evidenza l’amore viscerale dell’autore per la sua
terra d’origine, espresso soprattutto, ma non solo, negli scritti che
corrono sul filo della memoria, per la quale Bufalino nutre un vero e
proprio culto proustiano. Si tratta in particolare di quei testi riguardanti
la Sicilia e i siciliani racchiusi nel neologismo bufaliniano “sicilianerie”,
dato che – ci avverte Maria Corti – «Bufalino è un autore
che ha penetrato molto la sua terra, ed è forse tra gli scrittori del
Novecento quello che l’ha penetrata di più» ( 3 ). Rientrano così in
( 2 ) N. ZAGO, Bufalino, fedeltà e letteratura, in G. BUFALINO, Essere o Riessere.
Conversazione con Gesualdo Bufalino, a cura di P. Gaglianone e L. Tas, Omicron,
Roma 1996, pp. 58-59.
( 3 ) G. QUATRIGLIO, Dicerie e menzogne di Bufalino, “Giornale di Sicilia”, 13
novembre 1992.

La Sicilia babba di Gesualdo Bufalino
questa definizione i suoi commenti a libri fotografici quali Comiso
ieri. Immagini di vita signorile e rurale, (poi ripubblicato accresciuto
col titolo Il tempo in posa. Immagini di una Sicilia perduta), Saline di
Sicilia e L’isola nuda; il volumetto Museo d’ombre, incentrato sul suo
paese d’infanzia; il volume antologico Cento Sicilie. Testimonianze
per un ritratto; e le raccolte di saggi ed elzeviri La luce e il lutto e Il
fiele ibleo. Senza contare poi tutti quei saggi, articoli giornalistici, interventi
di argomento siciliano inclusi in volumi miscellanei, come
Cere perse, Saldi d’autunno e Pagine disperse. Ed è quasi superfluo
sottolineare che anche le sue opere narrative, poetiche ed aforistiche
pullulano di paesaggi, personaggi, atmosfere ed espressioni isolane.
Fare della Sicilia l’oggetto della propria scrittura è, secondo lo stesso
Bufalino, una sorta di condicio sine qua non per ogni autore siciliano:
395
Impossibile per uno scrittore siciliano non scrivere della Sicilia: della sua
gente, dei luoghi, della storia, dei vizi, delle virtù… Di qualunque argomento
ragioni, anche il più eccentrico, il siciliano ragiona in effetti sempre
della Sicilia, e di sé dentro la Sicilia, e della Sicilia dentro di sé. Esplicitamente
o copertamente; ripetendosi o correggendosi o contraddicendosi…
in un perpetuo processo d’approssimazione a una nebulosa che fugge ( 4 ).
1. La “pelle” Sicilia. – Definire ed inserire in uno schema rigido le
caratteristiche antropologico-culturali di un popolo, di individui appartenenti
ad una medesima area geografica ed etnica, risulta sempre
un’operazione ardua ed arbitraria. Ciò è ancor più vero per una regione
come la Sicilia. «Una terra […] difficile da capire» ( 5 ), la definiva
Sciascia. Posta al centro del Mediterraneo, è stata un crocevia
attraversato da più razze e culture diversissime tra loro, le cui tracce
son rimaste non soltanto nei bellissimi monumenti sparsi un po’ dovunque,
ma anche nella psicologia stessa degli abitanti:
[…] la Sicilia ha avuto la sorte di trovarsi a far da cerniera nei secoli fra la
grande cultura occidentale e le tentazioni del deserto e del sole, tra la ragione
e la magia, le temperie del sentimento e le canicole della passione. Soffre,
la Sicilia, di un eccesso d’identità […] ( 6 ).
( 4 ) G. BUFALINO, Pre-testo, in Il fiele ibleo, Avagliano, Cava dei Tirreni 1996, p. 7.
( 5 ) L. SCIASCIA, Sicilia e sicilitudine, in La corda pazza, Adelphi, Milano 1991,
p. 12.
( 6 ) G. BUFALINO, L’isola plurale, in La luce e il lutto, in Opere 1981-1988,
“Classici Bompiani”, Milano 1996, a cura di M. Corti e F. Caputo, p. 1140.

396
MONICA CASSARINO
Per cui ogni siciliano porta in sé caratteristiche contraddittorie,
lascito delle varie etnie qui succedutesi: il sentimento dell’armonia e
la tendenza all’ironia dai greci; l’inclinazione alla voluttà e ai piaceri
mentali dagli arabi; il senso della lealtà e del coraggio dai normanni
e il gusto barocco per l’iperbole, gli eccessi e al contempo la coscienza
tragica della precarietà della vita dagli spagnoli. Da questa situazione
discende quel concetto di Sicilia “plurale” divenuto in
Bufalino un topos letterario ricorrente di fondamentale importanza
per comprendere le mille facce dell’isola:
Dicono gli atlanti che la Sicilia è un’isola e sarà vero, gli atlanti sono libri
d’onore. Si avrebbe però voglia di dubitarne, quando si pensa che al concetto
d’isola corrisponde solitamente un grumo compatto di razza e costumi,
mentre qui tutto è mischiato, cangiante, contraddittorio, come nel più
composito dei continenti. Vero è che le Sicilie sono tante, non finirò di
contarle. Vi è la Sicilia verde del carrubo, quella bianca delle saline, quella
gialla dello zolfo, quella bionda del miele, quella purpurea della lava.
Vi è una Sicilia “babba”, cioè mite, fino a sembrare stupida; una Sicilia
“sperta”, cioè furba, dedita alle più utilitarie pratiche della violenza e della
frode. Vi è una Sicilia pigra, una frenetica; una che si estenua nell’angoscia
della roba, una che recita la vita come il copione di carnevale; una, infine,
che si sporge da un crinale di vento in un accesso di abbagliato delirio… ( 7 ).
La consapevolezza di tale “eccesso di identità” non fa che costituire
per gli abitanti isolani un’ulteriore fonte di sentimenti ambigui:
da un lato vi è l’orgoglio di sentirsi in qualche modo privilegiati per
esser stati collocati dalla sorte in una terra per così dire “al centro
dell’universo”; dall’altro essi avvertono però
[…] la sofferenza di non sapere districare fra mille curve e intrecci di sangue
il filo del proprio destino. […] Ogni siciliano è, di fatti, una irripetibile
ambiguità psicologica e morale. Così come l’isola tutta è una mischia di
lutto e di luce ( 8 ).
Proprio La luce e il lutto è il titolo scelto dallo scrittore per il suo primo
volume di “sicilianerie”. Con questi due termini, riuniti bufalinianamente
in ossimoro ( 9 ) allitterante, egli intende indicare quella dualità
( 7 ) Ibidem. Questo saggio è stato significativamente posto dall’autore come introduzione
generale alla raccolta antologica G. BUFALINO-N. ZAGO, Cento Sicilie.
Testimonianze per un ritratto, La Nuova Italia, Firenze 1993, pp. V-VII.
( 8 ) G. BUFALINO, L’isola plurale, cit., pp. 1140-1141.
( 9 ) Bufalino rivela una significativa attrazione nei confronti dell’accostamento
di aspetti contraddittori della realtà. A livello letterario ciò si manifesta con la pre-

La Sicilia babba di Gesualdo Bufalino
dell’animo siciliano in costante tensione tra le pulsioni vitali, qui più che
altrove irruenti in virtù della violenza lancinante del sole, e la dolorosa
consapevolezza della morte che serpeggia sotterranea infettando ogni
cosa, e in primis la mente dell’uomo, di un forte senso leopardiano della
caducità del tutto. Per questo motivo per il siciliano la morte appare
397
[…] incredibile, inaccettabile […]. Altrove la morte può forse giustificarsi
come l’esito naturale d’ogni processo biologico; qui appare uno scandalo,
un’invidia degli dei ( 10 ).
Ed è ugualmente questa una delle ragioni per cui il tema della
morte ha prepotentemente sedotto numerosi autori dell’isola, da
Verga a De Roberto, da Pirandello a Brancati, da Tomasi di Lampedusa
a Sciascia, fino a Bufalino, appunto, e prima ancora i filosofi
che qui, nell’antica Magna Grecia, hanno distillato il loro pensiero.
Lo scrittore comisano, nel non facile tentativo di sondare l’intricato
animo dei suoi conterranei, e di riflesso il proprio, non tralascia
nessun elemento, nessuna situazione storica o geografica che si rifletta
nella morale e nella psicologia delle persone, così da dare il proprio
personalissimo e proficuo contributo alla comprensione di un
popolo complesso, inserendosi in tal modo nel novero di quegli intellettuali
siciliani le cui opere vanno pian piano a costituire altrettanti
capitoli di quello che Massimo Onofri definisce “un unico libro
sulla Sicilia”, dandone «[…] una visione sempre più articolata e
coerente, […] forse un’isola di carta, ma non per questo meno vera
nella tenace volontà di chi vi ha creduto o ha finto di farlo, nella coscienza
di tante generazioni di lettori» ( 11 ).
Così è, ad esempio, per la celebre teoria dell’insularità enunciata
da Pirandello nel suo discorso commemorativo su Verga, ripresa da
Lampedusa con l’immagine della “terrificante insularità d’animo”
che sconfina in una sorta di follia da parte dei siciliani nel ritenersi
in qualche modo perfetti e contenti del loro stato, e racchiusa successivamente
da Sciascia nel termine “sicilitudine”, comprensivo di
tutti i contrastanti aspetti che compongono lo spirito degli abitanti
dell’isola, e soprattutto di quell’«[…] illusione che una siffatta insu-
dilezione per la figura retorica dell’ossimoro, riscontrabile in più sedi, tematica e
stilistica anzitutto, ma anche formale. Lo dimostrano numerosi titoli delle sue
opere: L’amaro miele, Argo il cieco ovvero i sogni della memoria, La luce e il lutto, Il
fiele ibleo, I languori e le furie, Tommaso e il fotografo cieco.
( 10 ) G. BUFALINO, L’isola plurale, cit., p. 1141.
( 11 ) M. ONOFRI, L’isola delle ombre, “La Voce Repubblicana”, 4-5 luglio 1991.

398
MONICA CASSARINO
larità […] costituisca privilegio e forza là dove negli effetti, nella
esperienza, è condizione di vulnerabilità e debolezza: e ne sorge una
specie di alienazione, di follia, che sul piano della psicologia e del
costume produce atteggiamenti di presunzione, di fierezza, di arroganza;
[…] e sul piano della storia la capacità di rendere le cose nuove
strumenti di regole antiche» ( 12 ). Ecco come Bufalino porta ad ulteriore
sviluppo una siffatta teoria:
[…] è destino d’ogni isola essere sola nell’angoscia dei suoi sigillati confini;
infelice e orgogliosa di questo destino. Donde viene che i suoi figli, stretti
tutt’intorno dal mare, sbanditi dalla florida terraferma, prede ricorrenti
d’ogni razza di marinai, quindi obbligati a mescersi con cento sangui stranieri,
siano spinti a farsi isole dentro l’isola e a chiudere dall’interno la porta
della propria solitudine col presuntuoso proposito di rovesciare le parti,
diventando a loro volta carcerieri e tiranni del mondo…
Isole dentro l’isola: questo è appunto lo stemma della nostra solitudine,
che vorrei con vocabolo inesistente definire “isolitudine”, con ciò intendendo
il trasporto di complice sudditanza che avvince al suo scoglio ogni
naufrago […] ( 13 ).
Vivere in un’isola si rivela dunque un’arma a doppio taglio: la Sicilia
è una sorta di “tana”, di “reggia” invalicabile in cui rifugiarsi
per difendersi dalle insidie del mondo e coltivare sdegnosamente
un’altera coscienza di sé, e allo stesso tempo una “trappola”, una
“prigione” che esclude i suoi abitanti dal commercio con la nazione
alla quale pure appartengono. Il forte senso dell’“isolitudine”, suggestivo
vocabolo coniato dallo stesso scrittore, porta con sé quell’intimo
dissidio, quell’«[…] oscillazione fra claustrofobia e claustrofilia,
fra odio e amor di clausura […]» ( 14 ) da cui ogni isolano è lacerato
quando deve decidere se allontanarsi o meno dalla propria terra.
L’“isolitudine” bufaliniana sfocia nell’autore in un autentico sentimento
claustrofilo, di cui si ha il riflesso pressoché in tutta la sua
produzione letteraria e che si traduce, in sede narrativa, nella creazione
di tutta una serie di luoghi e ambienti racchiusi di cui il claustrale
sanatorio della “Rocca”, teatro delle vicende di Diceria dell’untore,
è il capostipite ( 15 ).
( 12 ) L. SCIASCIA, Sicilia e sicilitudine, cit., p. 14.
( 13 ) G. LEONE-G. BUFALINO, L’isola nuda, Bompiani, Milano 1988; il testo bufaliniano
è ora inserito nel suo volume Saldi d’autunno, Bompiani “Nuovo Portico”,
Milano 1990, pp. 16-17.
( 14 ) G. BUFALINO, L’isola plurale, cit., p. 1141.
( 15 ) Alcuni di questi luoghi isolati e raccolti li possiamo trovare nei racconti de
L’uomo invaso. È il caso, ad esempio, dell’arca di Noè, vissuta come una tana pro-

La Sicilia babba di Gesualdo Bufalino
Pienamente partecipe della natura al contempo lieta e dolorosa
individuata nei suoi conterranei ed efficacemente condensata nell’aforisma
«Questo luttuoso lusso d’essere siciliani» ( 16 ), Bufalino si è
soffermato, come per una sfida, a indagare la complessa realtà della
Sicilia con l’amore e l’indulgenza, ma anche l’obiettività, di un figlio
nei riguardi della madre.
Non ha mai fatto mistero del rapporto conflittuale con la sua terra,
un vero e proprio odi et amo, isola verso la quale nutre da un lato
un sentimento «[…] di rigetto […] per il grumo levantino e facinoroso,
per l’intreccio di frode e forza e sole sleale che si suol chiamare
mafia […]» e dall’altro «[…] un legame identificatorio e carnale
[…]. Questo dunque è il mio paradosso: di sentirmi per cultura e
lingua mentale totus europaeus; e di non potermi o volermi scrollare
di dosso la pelle Sicilia» ( 17 ).
Dalle pagine bufaliniane, come in un racconto lungo mai concluso
e che sveli di volta in volta aspetti nuovi e diversi, vien fuori
un’immagine inedita della Sicilia, estranea ai luoghi comuni e alle
399
tettiva, sorta di utero che preserva dalla malvagità che è nel mondo, del racconto
L’uscita dall’arca ovvero il disinganno; o del monastero inaccessibile e ben separato
dal resto in cui viene segregato il novizio Basilio a custodia di una scelta dei libri
più importanti nel tentativo di difenderli dall’enorme proliferazione di tarli che di
essi si cibano, del racconto Le visioni di Basilio ovvero la battaglia dei tarli e degli
eroi. Ancora, lo scenario principale de Le menzogne della notte, romanzo pseudostorico
insignito del Premio Strega nel 1988, è rappresentato da uno sperduto isolotto
imprendibile da ogni lato, disabitato e privo di vegetazione, sulla cui sommità
si erge la lugubre fortezza nella quale sono reclusi i quattro condannati a morte,
rei di lesa maestà. Anche la residenza balneare in cui si svolge la vicenda del romanzo
Qui pro quo, un giallo sui generis, si rivela un luogo circoscritto, completamente
isolato dal resto del mondo dopo un violento nubifragio immediatamente
successivo all’evento delittuoso. Molte varianti del tema della tana protettiva si
possono registrare inoltre nei singoli episodi che scandiscono l’esistenza del protagonista
dell’autobiografia immaginaria Calende greche. Nell’ultimo romanzo,
Tommaso e il fotografo cieco, si giunge infine a un’ipotesi di segregazione volontaria
nell’angusto seminterrato di un fatiscente condominio romano da parte dell’io
narrante Tommaso Mulè, giornalista aspirante scrittore affetto da un sentimento
di deprecatio vitae tutto bufaliniano, vanamente intenzionato a non lasciarsi coinvolgere
dalle urgenze della vita.
( 16 ) G. BUFALINO, Il malpensante. Lunario dell’anno che fu, in Opere …, cit.,
p. 1045. Più che di aforismi veri e propri, aventi pretesa di verità, si tratta in realtà
di una “raccolta di aforismi, note azzurre, fusées, greguerias, obiter dicta, goliarderie,
malumori e umori”, come l’autore stesso li definisce nella quarta di copertina.
( 17 ) G. BUFALINO, Cur? Cui? Quis? Quomodo? Quid? Atti del wordshow-seminario
sulle maniere e le ragioni dello scrivere, Associazione culturale “Agorà”, Taormina
1989, edizione non venale, pp. 74-75.

400
MONICA CASSARINO
raffigurazioni folcloristiche sempre in agguato, indagata con un approccio
di tipo non sociologico o campanilistico, ma affettivo ed
emotivo, basato sulle esperienze personali dell’autore. Un modo di
accostarsi all’isola sul quale ha sicuramente influito la particolare
temperie della zona di appartenenza: la semplice circostanza, per Bufalino,
di aver sempre vissuto a Comiso, piccolo borgo del “Far Sud”
com’egli definisce la provincia ragusana, non rimane un mero accidente
biografico, ma si configura come elemento condizionante la
visione del mondo, lo spirito e le scelte tematiche dello scrittore.
2. Una provincia di ragazze “mafiose”. – Posta nell’estremo lembo
sud-orientale della Sicilia, la provincia di Ragusa, la meno estesa e
una delle meno popolose dell’isola, è incastonata tra le provincie di
Siracusa ad est, di Catania a nord e di Caltanissetta ad ovest, fino a
tuffarsi a sud nelle calde acque del Mediterraneo. Un appartato angolo
di terra che ha ottenuto pieno diritto di cittadinanza letteraria
grazie all’elegante rêveur siciliano, il quale nelle sue pagine, tra le
tante Sicilie raccontate dagli scrittori isolani,
[…] ne racconta, […] ne immagina una. Parziale, legata a una gente particolare,
a una topografia circoscritta; ma emozionante e leggendaria come
un mito di tempi perduti ( 18 ).
Il territorio ragusano, dominato dalla catena montuosa degli
Iblei, corrisponde quasi perfettamente a quella che era la Contea di
Modica, la cui istituzione vien fatta risalire al 1296, quando le contee
di Modica e Ragusa furono riunite in un unico stato feudale dal
nuovo re di Sicilia Federico d’Aragona, che ne affidò l’amministrazione
ai Chiaramonte. Sotto il dominio di questa potente casata siciliana
la contea conobbe fasti e splendori acquisendo sempre maggiore
importanza, fino a che, pur fra alterne vicissitudini, sotto la successiva
reggenza dei Cabrera e degli Henriquez-Cabrera, ambedue di
origine spagnola, meritò alla fine del XV secolo l’appellativo di regnum
in regno, con una propria amministrazione ed un’autonomia
dal potere centrale praticamente assoluta.
Varcare questa «[…] marca più estrema d’Italia, a un parallelo
ch’è più o meno quello di Tunisi» ( 19 ), significa penetrare in una
delle tante Sicilie, quella “babba”, che ha sviluppato e mantenuto
( 18 ) G. BUFALINO, La Contea di Modica, in Il fiele ibleo, cit., p. 101.
( 19 ) G. BUFALINO, Autoritratti a richiesta. 1., in Saldi d’autunno, cit., p. 243.

La Sicilia babba di Gesualdo Bufalino
per secoli delle caratteristiche particolari, abitudini e peculiarità a
vari livelli, tali da rendere immediata l’impressione di esser giunti in
una zona circoscritta, una specie di isola nell’isola, con qualità ben
definite. Una Sicilia diversa, insomma, distinta soprattutto da quella
centro-occidentale assai più nota, e non sempre, purtroppo, per motivi
edificanti: «[…] queste due Sicilie sono divise etnicamente, nel
costume, in certi modi di delinquere e del vivere la propria sicilitudine.
[…] distinguo una Sicilia orientale, in cui prevale la civiltà del
carrubo e dell’albero, […] del miele e […] della lava, in cui prevale
la componente greca, una componente di luce, di armonia e a modo
suo di dolcezza, dall’altra Sicilia, in cui prevale la componente di
zolfo, di miseria e di furore estivo» ( 20 ). Bufalino si è reso felice interprete
di questa Sicilia “altra”, facendone emergere i vari aspetti
così come, lungo lo scorrere inesorabile degli anni, egli ne ha avuto
diretta e profonda esperienza. «A differenza di altri scrittori siciliani
che descrivono una Sicilia ideale, magari di tipo barocco, qui no, qui
c’è la Sicilia vera alla ribalta» ( 21 ), scrive giustamente Maria Corti.
L’autore comisano non si stanca di rimarcare le differenze tra
questa parte misconosciuta dell’isola e la restante e di sottolinearne
le particolari caratteristiche che ne fanno una sorta di enclave tutta
da scoprire:
401
Qui s’incontreranno città civili, di nobile architettura; popolazioni che, per
avere patito meno la piaga del latifondo, e per avere serbato meglio l’eredità
della luce greca, sono state fino a poco fa pressoché immuni dalla tentazione
mafiosa, salvandosene attraverso una temperata saviezza, una gentile
misura dell’anima. Dico “saviezza”, dico “misura”, benché, a giudicare dai
suoi edifici, questa sia terra di sfoghi barocchi. Solo che qui anche il barocco
si bagna in un cielo di tenere fantasie, non si esalta di funebri zolfi ma si
placa nel calcare dorato delle nostre cave.
[…] In conclusione qui comincia una Sicilia diversa, in questa marca di
frontiera vi attende un regalo inatteso di urbanità e d’ironia ( 22 ).
In ciascuno dei dodici comuni in cui si divide la provincia iblea si
respira infatti un’atmosfera pacata ed amichevole, aliena dai ritmi
frenetici e convulsi che si incontrano generalmente nelle città delle
altre provincie. Di frequente è la stessa ubicazione a conferire loro
un inconsueto fascino, come accade ai tre centri montani Monteros-
( 20 ) M. MORACE, Gesualdo Bufalino e la terra di Sicilia, “Azione”, 27 maggio
1982.
( 21 ) G. QUATRIGLIO, Dicerie e menzogne di Bufalino, cit.
( 22 ) G. BUFALINO, Comiso, ancora, in La luce e il lutto, cit., pp. 1250-1251.

402
MONICA CASSARINO
so Almo, Giarratana e Chiaramonte Gulfi, i quali, arrampicati sulle
colline degli Iblei, suggeriscono naturalmente l’immagine di un pittoresco
presepe rupestre. Dopo il terribile terremoto che, nel 1693,
distrusse questa zona, la maggior parte delle città e dei paesi colpiti
rifiorì all’insegna del barocco, in un tripudio di fastosi palazzi, magnifiche
chiese e scenografiche scalinate. Così, la provincia ragusana
in particolare può esser considerata una provincia autre anche per la
tipica espressione del barocco, che si differenzia da quello del resto
della Sicilia, sorto un secolo prima. Scicli, Ragusa e Modica sono
perfettamente rappresentative da questo punto di vista. Non a caso
Modica, l’ex capitale della contea, è stata scelta da Bufalino come
suggestiva ambientazione del romanzo Argo il cieco ovvero i sogni della
memoria. La cittadina, un groviglio di case arrampicate ai lati di
una profonda vallata solcata da un lungo Corso che la divide in Alta
e Bassa suggerendo l’icastica immagine bufaliniana di Modica come
paese «in figura di melagrana spaccata» ( 23 ), con le sue strade e viuzze
che si attorcigliano in arditi ghirigori e le numerose ripide scale,
preludio di inaspettate apparizioni quali antichi palazzi nobiliari o
preziose chiese barocche, ben si presta ad ospitare i tormentati turbamenti
amorosi del giovane Gesualdo, io narrante del romanzo dai
molti risvolti autobiografici e dalle molteplici implicazioni esistenziali.
Bufalino ebbe modo di conoscere ed apprezzare i paesi iblei fin
da piccolo, quando, alzandosi ancor prima dell’alba, accompagnava
il padre fabbro ferraio che su di un carro si dirigeva alla volta di quei
paesi per vendervi nelle fiere domenicali un vasto repertorio di attrezzi
agricoli da lui stesso forgiati. Quei viaggi notturni sui carri,
emozionante esperienza avventurosa e in certo qual modo formativa,
furono un utile apprendistato per il piccolo Bufalino:
Fu bello, dopo il tragitto attraverso le paure e le intemperie notturne,
asciugarsi al sole della domenica nella piazza di Bìscari, gremita di gente in
vacanza. Era il giorno del patrono […]. Ottenni di perdermi fra la folla, lasciando
mio padre ai suoi patteggi e mercati. […] quella domenica e le altre
che seguirono e nelle quali lo accompagnai, me ne andai solo a zonzo,
da improvvisato turista, battendo passo a passo ogni quartiere dei paesi della
contea. Fu un gusto che mi durò. Non m’attrassero più le vetrine dei
giocattoli né i banconi di giuggiulene, ma cercavo viuzze solinghe e pietre,
soprattutto, pietre alleate insieme a far casa, cattedrale, palazzo. Fu in questo
modo che conobbi nel cuore le città gloriose di qui […]. Così, da una
( 23 ) G. BUFALINO, Argo il cieco ovvero i sogni della memoria, in Opere …, cit.,
p. 238.

La Sicilia babba di Gesualdo Bufalino
403
domenica all’altra imparai ad amare la mia terra e, se non la sua gente,
troppo simile a me perché mi piacesse, i suoi rusticani e pur mirabili monumenti
( 24 ).
Con la singolare caratteristica di paesi e città ancora “a misura
d’uomo”, i dodici comuni iblei sembrano dunque incarnare il mito
leopardiano della “piccola città” in cui è possibile instaurare rapporti
non superficiali con gli uomini e le cose e provare sentimenti autentici
e profondi, preclusi dalla vita alienante delle grandi città. Ciò ha
maggior rilevanza se si considera che queste “piccole città” appartengono
ad una sorta di zona circoscritta, la cui prerogativa era fino a
non molto tempo fa, e lo è tuttora anche se in misura minore, quella
di essere una provincia tranquilla e laboriosa, ospitale e gentile, dai
costumi pacati e del tutto refrattari alla violenza:
Una provincia che gli altri siciliani chiamano «babba», con un sorriso.
«Babba» vuol dire bonaria, innocente, ed è epiteto meritato, se è vero che
qui negli ultimi dieci anni il numero dei morti ammazzati è vergognosamente
basso, rispetto a qualunque altro sito dell’isola ( 25 ).
Le ragioni dell’esistenza di questa oasi felice in cui la mafia non
ha messo radici sono molteplici, e tali da determinare quasi una
spaccatura, ben delimitata tra l’altro da precisi confini, tra la zona
occidentale, più torva e turbolenta, e quella orientale o ionica, come
preferisce denominarla Bufalino per sottolinearne la derivazione greca.
Oltrepassando il fiume-argine contro la piena del male isolano
per eccellenza («c’è una specie di confine ideale, l’Ippari della mia
infanzia, ora ridotto ad un greto di sassi, tra Comiso e Vittoria, e
cioè tra questa Sicilia “babba” e il resto») ( 26 ), ci si introduce in quell’area
compresa tra le provincie ragusana e siracusana il cui progressivo
assottigliarsi lo scrittore lamenta con desolazione.
Il mancato costituirsi del latifondo, condizione privilegiata per
l’allignare dell’originaria mafia agrario-rurale, spiega perché questa
zona goda di un simile privilegio. Se è vero poi che le invasioni dei
popoli più disparati avvicendatisi nell’isola lungo i secoli hanno lasciato
il loro segno, ecco che un altro fattore si aggiunge a determinare
il carattere e l’indole dei siciliani di parte orientale: l’eredità
( 24 ) G. Bufalino, Carri di notte, in La luce e il lutto, cit., pp. 1265-1266.
( 25 ) G. Bufalino, La Contea di Modica, cit., p. 99.
( 26 ) M. ONOFRI, Gesualdo Bufalino, ovvero la geometria delle passioni, “La Voce
Repubblicana”, 6-7 maggio 1988, p. 7.

404
MONICA CASSARINO
greca. Forte è stato infatti, in quella che era un tempo la Magna
Grecia, l’influsso delle componenti di armonia, luce, bellezza ed ironia
tramandate dall’antica civiltà assieme al sentimento funebre e all’alternanza
di razionalità ed irrazionalità. Bufalino, nel delineare
l’immagine dell’isola nettamente divisa in due zone contrapposte,
tiene a porre in evidenza proprio l’ascendenza ionica della “sua” parte
di Sicilia: «Quella occidentale è la Sicilia delle zolfare, del patimento.
La orientale invece è ironica, più lieta, più mediterranea: una
Sicilia dove la terra è nera di lava ma l’influenza greca si impone con
una forza mitopoietica» ( 27 ).
I modi pacati e gentili degli abitanti, onesti ed operosi e non dediti
alle oscure pratiche della violenza, l’aria placida e al contempo
allegra e ben disposta che qualunque forestiero respira ancor oggi
nelle cittadine della provincia ragusana, sono dunque un piacevole
retaggio greco e dell’ex contea modicana, che avendo vissuto per secoli
in quasi totale indipendenza rispetto al potere centrale, in una
sorta di hortus conclusus, ha potuto preservare le sue caratteristiche
distintive e tramandarle intatte nel tempo.
Lo scrittore comisano, figlio di quella porzione di terra grecocatalana,
ha maturato un animus e una visione del mondo lontani dal
sentire mafioso e del tutto estranei a ogni forma di violenza. Le corde
bufaliniane vibrano perciò preferibilmente per gli aspetti più attivi,
vitali e positivi dell’isola, quelli che maggiormente conosce e ha
fatto propri, inducendolo a scrivere più della Sicilia “amabile” che
dell’“amara”, e ciò per obiettiva incompetenza e inesperienza, non
per indifferenza. Bufalino, che per questa precisa scelta è stato più
volte accusato di scarso impegno civile ed è stato spesso ingiustamente
posto a paragone col conterraneo Sciascia, figura principe di
intellettuale engagé, rivendica la propria personale vena artistica che
lo porta lontano dalla pur nobilissima vocazione di portavoce della
collettività. Professatosi in più occasioni scrittore di dubbi, non di
certezze, l’autore comisano può avanzare cautamente solo qualche
consiglio circa il problema del fenomeno mafioso, senza sentirlo
come un doveroso obbligo, trattandone magari in saggi o articoli di
argomento apparentemente diverso, ma che offrono lo spunto per
laconiche ed incisive riflessioni sulla mafia. Linfa vitale di quest’ultima,
a parere dell’autore, è principalmente ciò ch’egli definisce “analfabetismo
morale”, quell’ignoranza che impedisce di vedere al di là
( 27 ) A. MONCADA, «La celebrità è un terremoto che mi tiene lontano da Mozart»,
“Corriere Medico”, 19 gennaio 1982.

La Sicilia babba di Gesualdo Bufalino
degli angusti limiti in cui la sorte ha imposto al singolo di vivere, e
di conoscere ed apprezzare valori e costumi che non siano quelli
consueti di degradazione. Fedele all’assiduo magistero letterario, lo
scrittore siciliano predica l’alto valore pedagogico della bellezza e
dell’arte in sé, affidando alla cultura in generale e ai libri in particolare
una nobilissima seppur involontaria funzione catartica ed educativa,
capace di fornire un utile contributo nella lotta contro la degradazione
morale e dei costumi.
Tali convinzioni bufaliniane le ritroviamo condensate nel risvolto
di copertina ( 28 ), scritto dall’autore stesso, de La luce e il lutto. La
posizione particolare, alla soglia del testo, è fondamentale per fornire
da subito al lettore la chiave interpretativa con cui accostarsi alla raccolta
di “sicilianerie”, vero e proprio atto d’amore tributato dallo
scrittore alla sua terra:
405
Ho scritto molto sulla Sicilia negli ultimi anni. Più dell’antica che dell’odierna,
più dell’amabile che dell’amara. Non perché non vedessi o non patissi
l’intreccio di frode e violenza che sempre più pare presiedere al nostro destino,
ma per un sentimento d’incompetenza e d’inanità, del quale, se una regola
mi era possibile trarre, era di non promuovermi giudice o pedagogo,
chirurgo o clinico della mia gente ma di sommessamente capirla.
M’è venuto detto una volta d’avere imparato a non rubare ascoltando Mozart.
Non suggerisco ora quartetti e sonate contro i mali dell’isola. Però resto
convinto, che a guarire l’analfabetismo morale da cui (non solo noi, non solo
noi) siamo afflitti, possano un poco servire, sebbene fatti d’aria, anche le nostalgie,
le favole e i sogni. Operi dunque ciascuno come meglio riesce: chi da
coscienza critica e avvocato di tutti; chi da testimonio privato e tragediatore
di sé. Così io per primo, in questo libro, che pur insegue, attraverso lievi e
gravi occasioni di costume, viaggio e memoria, un’idea di Sicilia iperbolica,
doppiamente gonfia di vita e di morte, ancora una volta ho più proposto
emozioni che non esposto ragioni. Lusingandomi che quelle sappiano non
meno di queste spiegarci agli altri e, prima che agli altri, a noi stessi.
La provenienza privilegiata da quel triangolino di luce greca e
umori soavi distante dalla Sicilia di sangue e raccapriccio influisce
naturalmente anche su talune scelte di Bufalino in sede narrativa e
poetica. Come quella di utilizzare il termine mafia e i suoi derivati
( 28 ) Importanza fondamentale riveste per lo scrittore siciliano il paratesto, quel
corredo cioè costituito dal titolo, dalla dedica, dall’epigrafe, dall’indice, dalle pre e
postfazioni, dalle didascalie dei capitoli e, appunto, dai risvolti e dalla quarta di
copertina (quasi sempre di paternità bufaliniana anche questi ultimi), che si pone
al di fuori del testo vero e proprio. Nel nostro autore tale corredo si configura infatti
come parte integrante dell’opera stessa, essenziale per comprenderne il senso,
le intenzioni, gli snodi imprevisti e, talvolta, per esserne al contrario fuorviati.

406
MONICA CASSARINO
non nel senso attuale e deteriore, ma in quello originario e positivo,
corrente una volta in tutta la Sicilia e perdurato fino a pochi decenni
fa nella provincia iblea, impiegato a definire la bellezza, l’eccellenza,
la superiorità e attribuito a persone o cose che abbiano un che di elevato,
di accattivante, di altero, tale da imporle alla vista.
Nel primo romanzo bufaliniano, ad esempio, circa le ragazze
sgargiantemente vestite a festa incontrate dal protagonista e la compagna
Marta in un paesetto dell’entroterra palermitano, così parla
l’autore:
[…] camminavano come signore, distribuendo a destra e a manca la tenera
mafia degli occhi ( 29 ).
A indicare, verrebbe da dire stilnovisticamente, l’irresistibile potere
di attrazione dello sguardo fiero e consapevole della propria forza
di queste donne ( 30 ).
La locuzione suddetta ricompare nell’ultimo verso della poesia Di
un difficile oracolo:
[…] Ma io non sono che il drago custode
dei tuoi polsi in burrasca, un pescatore
di maree che origlia dalla riva.
Anche infelice, se non fosse il lampo
che inatteso sorride e mi dà scampo
nella tenera mafia dei tuoi occhi ( 31 );
sempre per porre in rilievo la facoltà seducente degli occhi della
donna, capace tra l’altro di donare felicità a chi li contempli. Motivo
in più per osservare come il termine mafia venga usato in una accezione
del tutto positiva.
( 29 ) G. BUFALINO, Diceria dell’untore, “I Grandi Tascabili” Bompiani, Milano
1992, p. 112.
( 30 ) A proposito di tale espressione, strana e inopportuna per chi sia abituato a
intendere la parola mafia in ben altri contesti, così commenta Bufalino: «Effettivamente,
nei posti dove son vissuto, dove ho passato tutti i miei anni, noi adoperiamo
il termine “mafioso” in quel preciso e – direi – unico senso. Diciamo per
esempio “sta picciotta è mafiusa” per indicare nella donna raffinatezza ed eleganza.
Ma la verità è un’altra: che il triangolo nel quale io vivo – gli Iblei, il siracusano
e Comiso – è immune dalla mafia». Cfr. F. MAMMANA, Bufalino: voler così bene
alla vita da essere “intimo della morte”, “Giornale del Sud”, 14 ottobre 1982.
( 31 ) G. BUFALINO, Di un difficile oracolo, in L’amaro miele, Einaudi, Torino
1996, p. 98.

La Sicilia babba di Gesualdo Bufalino
Non solo le persone, ma anche le cose paiono possedere la capacità
di attrarre irresistibilmente, tanto da far affermare al protagonista
di Argo il cieco che
[…] dai fornelli accesi un odore di sarde mafiosamente si leva ( 32 ).
Questi usi della parola mafia (che l’autore applica perfino a un
gallo dipinto dal celebre pittore comisano Salvatore Fiume, per indicarne
l’altera maestosità) risultano pertinenti per chi sia cresciuto
nelle lievi atmosfere di «[...] una inedita Sicilia ionica, dove “mafioso”
voleva dire “sgargiante, superbo, leggiadro”, e si diceva di una
ragazza» ( 33 ).
Fissando stabile dimora nel ristretto perimetro dell’appartata provincia
ragusana, abitata da ragazze (ed uomini in genere) di una malizia
bonaria, Bufalino è riuscito a fare della propria autoreclusione
condizione privilegiata da cui osservare il mondo e in cui assaporarne,
senza le distrazioni di altre caotiche provincie, le mille attrattive
e manifestazioni. Evidentemente la vita isolata di provincia, quando
sia sapientemente “riempita” da determinate occupazioni, affina lo
spirito e favorisce i lunghi, quieti colloqui con l’anima; giungendo
infine, laddove trovi una sensibilità capace e ben disposta, a far maturare
dei prodotti letterari come quelli dello scrittore comisano, che
dalla stessa realtà provinciale ha tratto spesso proficua ispirazione
per testi che congiungono insularità e vastità esistenziale.
3. Alla ricerca del paese perduto. – Specola appartata da cui scrutare il
mondo indisturbati e nel cui silenzioso ritiro spingere in profondità
lo scandaglio dei propri pensieri, Comiso, «[…] piccolo borgo dal
nome sdrucciolo, fra gl’Iblei e il mare» ( 34 ), è il paese che ha dato i
natali a Gesualdo Bufalino.
Lo scrittore, che ha trascorso tutta l’esistenza, a parte sporadici allontanamenti,
nel paese natale, considera quest’ultimo l’alma mater
cui tributare riconoscenza e affetto, e lo fa nel modo che gli è più
congeniale: scrivendone. Comiso può così vantare un repertorio di
pagine letterarie di tutto rispetto che lo vedono protagonista, ad
( 32 ) G. BUFALINO, Argo il cieco, cit., p. 252.
( 33 ) G. BUFALINO, Nota 1982 a Museo d’ombre, “I Grandi Tascabili” Bompiani,
Milano 1993, p. 5.
( 34 ) G. BUFALINO, Giustificazione, in Museo d’ombre, cit., p. 17.
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MONICA CASSARINO
opera di chi ha saputo accostarglisi con le premure, e le insofferenze,
generalmente concesse ad un essere vivente. «Un ritratto di paese è
più arduo del ritratto di un uomo» ( 35 ), confessa l’autore comisano
quasi a discolparsi di un’eventuale inadeguatezza nel renderne vivide
e pregnanti le figurazioni. «Ma Bufalino ha saputo catturare, quasi
fotografare con le parole, immagini visive ed emotive del suo paese
natale, restituendocele intensificate o affascinanti» ( 36 ). Egli è stato
infatti esploratore instancabile e attento di ogni angolo di quel fazzoletto
di terra da cui ha saputo trarre proficuo nutrimento e le ragioni
per ribattezzarlo, da patria anagrafica, patria dell’anima.
È soprattutto la Comiso della sua memoria quella sulla quale l’autore
ha indugiato più a lungo. E si capisce perché. Il recupero memoriale
di luoghi, personaggi, eventi a noi cari si configura per lo scrittore
siciliano quale rimedio curativo e linfa vitale che consente, sia pur
in maniera temporanea e non sempre fedele, di far rivivere momenti
felici o che si vuole siano stati felici, regalando la gioiosa illusione di
bloccare il tempo corruttore e contrastare per un po’ la morte incombente.
Conscio del margine di inganno insito in ogni processo di riproduzione
di realtà trascorse, Bufalino non esita perciò a far rivivere
sulla pagina la Comiso d’antan, ridisegnandone il profilo di paese prevalentemente
artigianale e contadino, che produceva per lo più per il
fabbisogno locale ed era soggetto, impotente, a tutte le intemperie,
vessato dall’alternarsi di alluvioni e siccità; un paese povero, ma non
triste.
Era bella, Comiso, nel ventisette, nel trentadue, nel trentacinque. Bella ma
povera; lieta ma povera. Non c’era acqua a sufficienza, allora, e gli acquivendoli
la recavano di porta in porta, ogni quartara un soldo, su carri tirati
da asini stanchi. Le case erano tutte a un piano, nane, magre, ma le rallegrava,
sullo stipite, un’improvvisa pergola di gelsomino ( 37 ).
Sono particolarità semplici, posti piccoli e apparentemente insignificanti,
avvenimenti minuti, quelli rievocati dallo scrittore comisano,
tali da caratterizzare il suo paese “al tempo dei lampioni”: gli
orti di cavoli che lo circondavano e che fungevano, per gli scanzonati
ragazzini sempre a caccia di nuovi diversivi, da luogo magico in
cui compiere importanti esperienze formative; il fiume Ippari, sorta
di barriera naturale contro la mafia, che un tempo scorreva generoso
( 35 ) G. BUFALINO, Comiso, ancora, cit., p. 1253.
( 36 ) F. CAPUTO, Il paese plurimo, “La Sicilia”, 12 aprile 1998.
( 37 ) G. BUFALINO, Comiso, ancora, cit., p. 1252.

La Sicilia babba di Gesualdo Bufalino
d’acque e rappresentava una fonte di imprevedibili e affascinanti
scoperte; la piazza Fonte Diana, con al centro la sorgente dedicata
alla dea, secoli or sono alimentante il complesso termale romano
adiacente, la cui esigua circonferenza contrassegnata da negozi e associazioni
varie Bufalino amava rimarcare anche quotidianamente,
costituendo per lui un punto di riferimento stabile e rassicurante,
benché il tempo crudele si incarichi di cancellare o mutare con una
certa celerità la certezza costante di determinati edifici o di determinate
presenze umane.
La realtà comisana si anima nelle pagine bufaliniane di quel senso
del teatro pregnante nell’indole dei siciliani e che investe ogni evento
della vita quotidiana, dalle sfide elettorali ai corteggiamenti amorosi,
dai discorsi concitati tra comari alle risse tra bande rivali, dalle
vendite ambulanti alle cerimonie funebri. Tutto il paese sembra anzi
comporsi in un’enorme scenografia di cui ciascun angolo si offre
come palcoscenico naturale:
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[…] a Comiso appartiene un destino di leggenda e di opra dei pupi, qui
non c’è un marciapiedi dove non venga voglia di farsi prestare una sedia e
sedersi a guardare. Poiché Comiso è una città-teatro, un carro di Tespi ambulante,
arenatosi, come una paranza di Donnalucata, sul primo dosso
asciutto che s’è trovato davanti. Questo spiega l’aria di volubile invenzione
e improvvisazione scenica che si sente circolare dovunque.
La stessa planimetria urbana, così mossa e pittoresca nel suo intreccio di saliscendi
e gradoni, appare come uno scenario già disposto, offerto alle sorprese
e alle peripezie dello spettacolo. Strade come quella di San Leonardo,
prigioniera fra due siepi di ballatoi giganteschi; viuzze come le tante che riversano
i loro ruscelli di scale fin sul Corso della Grazia; slarghi e sagrati
dall’avventuroso profilo, come quelli delle due chiese nemiche, del Municipio,
del Mercato; vie e piazze tutte sembrano proporsi come fondali e
quinte ideali per i quotidiani mimiambi della vita cittadina ( 38 ).
Proprio le due “chiese nemiche”, la chiesa Madre o Matrice e la
chiesa dell’Annunziata, storicamente poste in rivalità dai loro accesi
devoti, offrono il destro a Bufalino per descrivere una delle secolari
tradizioni religiose del suo paese che prende vita in occasione dei riti
della Settimana Santa ed accende ulteriormente l’antagonismo tra le
due basiliche specie il giorno della Domenica di Pasqua, durante
[…] l’epico momento della processione detto “’a paci”, quando i due simulacri
del Cristo e della Madonna, fra le acclamazioni dei devoti e il commento
furioso delle bande musicali, si vengono incontro a precipizio, come
( 38 ) G. BUFALINO, Comiso città teatro, in La luce e il lutto, cit., pp. 1246-1247.

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MONICA CASSARINO
a voler mimare un rinnovellato patto d’amore e di pace fra il Figlio risorto
e la Madre esultante. Di queste “paci”, rappresentate a più riprese nel corso
della Domenica, la più saporita è naturalmente quella che, a sfida, i Nunziatari
effettuano proprio di fronte alla Basilica rivale della Matrice, in un
sinuoso e angusto serpente di strade, che dai tempi della guerra libica ha
preso il nome di Stretto dei Dardanelli.
[…] Ma il culmine e il fragoroso climax dello scontro si ha la sera, nell’ora
dei fuochi d’artificio, quando dopo ogni boato di moschetteria risuona, rivolto
all’avversario intontito, il grido provvisoriamente trionfale: “Va falla!”
(“va a farne un’altra uguale”; di feste, cioè) ( 39 ).
Molti sono i testi dedicati dall’autore interamente al suo paese. Nel
1976, ancor prima di divenire uno scrittore noto al pubblico, aveva
collaborato alla stesura di un volume miscellaneo, Comiso viva, che
raccoglie vari contributi locali. Vi apparve in verità nelle multiple vesti
di coordinatore, prefatore, autore di alcuni interventi (in particolare
Museo d’ombre, che costituisce il nucleo originario dell’omonima opera
poi edita autonomamente nel 1982), e della postilla a commento
della parte iconografica che chiude il libro. Qui egli sostiene con forza
l’opportunità di completare i testi con foto capaci di rievocare con immediatezza
e fedeltà immagini lontane nel tempo di un luogo che ci è
caro. Così da risultare al contempo «[…] un’occasione di rimpatrio
mentale per tutti coloro che sono andati via dal nostro paese, né vi
sono più tornati […]», e stimolo di riflessione per i residenti che «[…]
passano mille volte al giorno con occhi bendati dall’abitudine accanto
ad ogni aspetto d’arte e di vita locale» ( 40 ), non riuscendo a coglierne
spesso accenti particolari. Senza contare che l’importanza di queste testimonianze
non si esaurisce a livello locale: dalle schegge di vita vissuta
in un paese si sprigionano spesso realtà riscontrabili ovunque, con
le debite peculiarità e in proporzioni magari maggiori, ma che a volte
difficilmente si colgono in tale vastità, e da cui trarre insegnamenti e
valori validi in ogni situazione.
Le vecchie fotografie ingiallite scattate a cavallo tra Otto e Novecento
da alcuni notabili comisani offrirono a Bufalino l’allettante
opportunità di cimentarsi in una ricostruzione “filologica” della vita
del suo paese. Il risultato fu l’affascinante volume Comiso ieri. Immagini
di vita signorile e rurale, pubblicato nel 1978. Volti ed episodi,
frammenti di vita quotidiana in una dimora patrizia della piccola
Comiso rurale di fine ’800 riemersero inopinatamente dal nulla.
( 39 ) Ivi, pp. 1247-1248.
( 40 ) G. BUFALINO, Queste foto, in AA.VV., Comiso viva, a cura di G. Bufalino,
Edizioni Pro Loco, Comiso 1976, p. 443.

La Sicilia babba di Gesualdo Bufalino
L’innegabile valore documentario delle foto sarebbe rimasto freddo
dato oggettivo, privo d’anima, senza l’elegante ed accurata introduzione
bufaliniana che rivelò l’autore al mondo delle lettere. Bufalino,
infatti, è riuscito a regalare quel «[…] romanzo non scritto, dove
lievitano le sterminate virtualità della vita e della memoria» ( 41 ) alle
situazioni e ai personaggi ritratti, calandoli in un ambiente storicosociale
ben definito e che allarga i suoi orizzonti varcando i confini
delle ville rurali da cui lo scrittore prende l’abbrivo.
Ma il vero “monumento” alla memoria del suo paese d’infanzia è
Museo d’ombre, prezioso libriccino che in una serie di immagini altamente
liriche ma continuamente sorvegliate dall’ironia, censisce il
catalogo di vecchi mestieri, piccoli angoli e posti mutati dal tempo,
motti dialettali sprizzanti una loro filosofia di vita, minuti avvenimenti
di paese e semplici personaggi rivitalizzati con tutta la loro carica
umana. Omaggio alla scomparsa “civiltà della bottega” ai cui valori
lo scrittore si è educato e a cui è rimasto irrimediabilmente affezionato,
il libro costituisce anche una debole protesta contro l’eccessiva
velocità della storia,
411
[…] contro il plurimo scempio della natura, dei manufatti, dei linguaggi e
costumi, che si consuma senza tregua sotto i nostri occhi, e imbarbarisce e
rovina ogni istituto assai prima che riesca a diventare abitudine. […]
Il tempo, si sa, macina piano ma fino. Perché mai tanta fretta di anticiparne
le inesorabili cernite? Perché non cercare di frodare un po’ la forza degli
anni? ( 42 ).
Il tentativo di frode si attua qui tramite la parola, che fissa per
sempre, riportandolo in vita, il mondo personale e privato dell’autore
che si lega e si intreccia strettamente con quello di tutta una civiltà
ormai tramontata, irta di difficoltà ma degna di rimpianto per
Bufalino in virtù di quella “sottintesa alleanza fra l’uomo e le cose”
che vigeva correntemente.
Lampionai, riparatori di piatti e ombrelli, venditori di lupini; il
mitico castello di Canicarao, la cripta di cappuccini imbalsamati,
piccoli quartieri e angoli segreti; espressioni vernacole nutrite spesso
( 41 ) Così l’autore stesso nel risvolto di copertina de Il tempo in posa. Immagini
di una Sicilia perduta, Sellerio “Diorama”, Palermo 1992. Si tratta della nuova
edizione di Comiso ieri, arricchita da un nuovo saggio e da ulteriore materiale fotografico
d’epoca; il tutto introdotto da un Antefatto che ricostruisce, avvolgendolo
in un’aria da leggenda, l’episodio del ritrovamento delle lastre avvenuto quindici
anni prima.
( 42 ) G. BUFALINO, Giustificazione, in Museo d’ombre, cit., p. 20.

412
MONICA CASSARINO
di uno scetticismo tutto bufaliniano; ricordi di scuola, dei primi
amori, di balli e di serenate; volti scoloriti dal tempo di semplici esseri
umani che trascinano con estrema innocenza la loro stranita esistenza:
sono queste le “care ombre” della Comiso degli anni ’30.
Bufalino, andando dietro alle «[…] pedate furtive della storia minore,
quasi sempre più maestra d’ogni altra» ( 43 ), ricrea il mondo
dorato dell’infanzia nel tentativo di riappropriarsi, almeno per un
po’, dell’antica fisionomia del proprio paese, trasformato da mutamenti
cui l’uomo non riesce a tener dietro e che giungono a farlo
sentire spesso “straniero in patria”. Come tanti intellettuali siciliani,
anche lui aveva dovuto fare i conti col dilemma partire-rimanere, vagheggiando
più volte la fuga da un piccolo paese di provincia per
certi versi soffocante e limitante, ma scegliendolo infine quale tana
protettiva, che «[…] riassumeva […] ogni concepibile luogo di intimità
collettiva: mercato, arengo, chiesa, teatro, camposanto…» ( 44 ).
Lo sconforto che lo assale al mutare di luoghi a lui cari e familiari,
dinanzi al sorgere di nuovi quartieri con cui non ha alcuna dimestichezza
e alla perdita della maggior parte degli amici, lo spinge a
rifugiarsi preferibilmente nella dimensione memoriale per ricreare
dentro di sé il suo intimo universo, convinto anche del valore imprescindibile
e fondante dei ricordi per la stessa esistenza dell’uomo
(Memini ergo sum, amava ripetere Bufalino). Lo scrittore comisano,
che non è sicuramente un lodatore delle “magnifiche sorti e progressive”,
ma nemmeno un cieco detrattore del progresso in sé e per sé,
non è contrario alle innovazioni tout court e all’inevitabile mutare di
cose e situazioni ad opera dell’uomo. Ne condanna però le forsennate
precipitazioni e gli stravolgimenti che hanno significato la cancellazione
di taluni valori sostituiti con altri di discutibile identità, il
disgregarsi di quella rassicurante coesione comunitaria di un tempo,
e lo sparire di confortanti presenze, uomini e cose, il cui troppo rapido
ricambio è ulteriore fonte di spaesamento e disorientamento
per l’uomo in preda alle angosce esistenziali.
Si tratta di una pessimistica concezione della vita coerente con la
totale sfiducia che lo scrittore nutre nei confronti della storia, «lastrico
di fossili ideologici, collana inerte di errori» ( 45 ). Un pessimismo
di lunga data nel Meridione, che in Sicilia in particolare, da Verga
in poi, ha dato origine ad un filone letterario tuttora vitale. Ma la vi-
( 43 ) Ivi, p. 21.
( 44 ) Ivi, p. 16.
( 45 ) G. BUFALINO, Autoritratti a richiesta. 2., in Saldi d’autunno, cit., p. 248.

La Sicilia babba di Gesualdo Bufalino
sione nichilistica della vita, il cupio dissolvi che aleggia ovunque nella
pagina bufaliniana nasce anche dall’influsso della grande letteratura
decadente della sua formazione culturale e soprattutto da due devastanti
esperienze personali che lo educarono precocemente alla morte:
la partecipazione alla guerra, cui fu chiamato poco più che ventenne,
e la malattia ai polmoni che lo colpì di lì a poco e di cui l’autore
ha lasciato il ricordo romanzato nella sua opera prima. Da tutto
ciò scaturisce il suo aborrimento per qualsiasi forma di violenza, per
i processi storici che necessitano di guerre per attuarli, ed il suo rifiuto
pressoché totale di ogni tipo di ideologia, che lo ha spinto con
sempre maggiore convinzione a rintanarsi nel proprio paese, lontano
da qualsiasi tipo di clamore, a coltivare un sempre crescente «[…] trasporto
per ciò che dura e resiste – luoghi, solidali gerghi, abitudini
oneste, strette di mano – nel fondo della mia provincia sperduta» ( 46 ).
Comiso, divenuto ben presto il suo ubi consistam, ha seguito però
il naturale processo che lo ha portato gradatamente a evolversi in città,
assorbendone inevitabilmente non soltanto i vantaggi di uno sviluppo
atto a migliorare le condizioni generali di vita, ma anche i
poco piacevoli effetti collaterali in termini di caos, vita frenetica e
inquinamento di vario tipo. Ed in più, preoccupantissima novità
agli occhi di chi ha sempre posto l’accento sulle caratteristiche di pacatezza
e di abitudini savie e miti di questa porzione di isola, «[…] i
contagi della più trasgressiva e torva Sicilia» ( 47 ) che potrebbero far
scatenare uno stravolgimento totale del consueto sembiante morale
del paese.
Bufalino non tralascia di soffermarsi anche sulla situazione attuale
del suo borgo natio, spesso fonte per lui di rammarico e di dolore.
Ma, come sempre, lo fa obbedendo alla propria visione del mondo e
alle sue personali convinzioni.
Quando Comiso, nei primi anni ’80, divenne sede di una base
missilistica della NATO assurgendo a notorietà quasi in contemporanea
con il professore di provincia in pensione autore del romanzorivelazione
Diceria dell’untore, Bufalino, considerato una sorta di
«[…] inviato speciale permanente sul fronte del fuoco» ( 48 ), venne
ripetutamente interpellato sull’argomento e soprattutto sulle innumerevoli
manifestazioni di pace che in quegli anni imperversavano
per le piazze e le vie comisane, protestando contro la guerra nucleare
413
( 46 ) Ibidem.
( 47 ) G. BUFALINO, Lettera da Comiso, dopo i missili, in Saldi d’autunno, cit., p. 39.
( 48 ) G. BUFALINO, Disarmati fino ai denti, in La luce e il lutto, cit., p. 1238.

414
MONICA CASSARINO
e “l’invasione americana”. Per nulla preoccupato dai «[…] missili
nel proprio giardino» ( 49 ), lo scrittore, non imbrigliato in vischiose
costrizioni ideologiche, riusciva ad avere una visione obiettiva e distaccata
della questione. Con lo sguardo costantemente rivolto al di
là del contingente, non puerilmente atterrito perciò dal fatto di essere
l’obiettivo prioritario di un’eventuale guerra atomica, egli considerava
la questione locale delle testate nucleari inserendola in un
contesto ben più ampio, quello della pace universale, l’unico vero
ideale in cui si possa credere. Una pace che certamente non si sarebbe
potuta raggiungere con gli ingenui movimenti pacifisti, di cui
non sfuggiva a Bufalino la prevalente strumentalizzazione politica
che implicava un’istanza di disarmo unilaterale. L’autore siciliano
analizzò piuttosto il problema dei missili a Comiso dal punto di vista
delle conseguenze che una simile realtà avrebbe comportato nel
tessuto umano e paesaggistico del suo paese. Lo turbava in primo
luogo il prevedibile sconvolgimento che si sarebbe arrecato alla fisionomia
a lui familiare del borgo natio. Ma ancor più destava in lui
preoccupazione l’intromissione di nuovi elementi umani, che difficilmente
si sarebbero integrati cogli abitanti.
[…] Comiso rischia d’essere quanto prima […] sbattezzata, invasa, stravolta.
Non penso ai missili, dicendo questo […], bensì a un’intrusione diversa, che
ne rappresenta il condimento fatale e distruggerà presto, sta già distruggendo,
quello che sopravvive della mia e nostra cultura nativa. Di una doppia
intrusione, si tratta: da un lato soldati, tecnici, salmerie, congegni, tutto un
apparato di inodora, insapora, luccicante efficienza, destinato da oggi in poi
a mescolarsi strettamente con la nostra vita, a premervi sopra col suo prepotere
di forza, denaro, alloglossia; dall’altro i pittoreschi, sbrindellati, ora miti
ora protervi, ora salmodianti ora maledicenti, partigiani e santoni di pace che
in buona o mala, in ottima o pessima fede, sono qui accorsi da tutte le parti
del mondo: una Corte dei Miracoli, la quale, sia che ripugni, sia che insospettisca,
sia che commuova, pare anch’essa risoluta ad accamparsi senza limite
di tempo sui nostri marciapiedi e le nostre soglie ( 50 ).
Il 1991 è l’anno dello smantellamento definitivo dei Cruise della
base militare. Comiso, con gran sollievo dei suoi abitanti, Bufalino
in testa, poteva dunque tornare alla sua riposante tranquillità:
[…] pare certo che Cruisetown, come l’ho soprannominata una volta, sia
destinata a riassumere il suo battesimo storico, quel trisillabo sdrucciolo a
noi così caro, così ostico all’universale […]. Poco male: ridursi da clamoro-
( 49 ) Ivi, p. 1239.
( 50 ) G. BUFALINO, Notizie da Cruisetown, in Cere perse, in Opere …, cit., p. 886.

La Sicilia babba di Gesualdo Bufalino
so e planetario emblema di morte a placida, dimessa, anonima comunità di
periferia nazionale, sarà per noi tutti […] una felice degradazione ( 51 ).
Pur considerando il breve “periodo nucleare” e le normali evoluzioni,
il paese bufaliniano è rimasto comunque una cittadina dalle dimensioni
ancora umane. Caratteristica principale, questa, che ha portato lo
scrittore alla scelta decisiva di restarvi. Senza per questo rinunciare all’altra
patria, altrettanto necessaria, confezionata in maniera del tutto
personale coi libri degli autori più disparati. A conferma ulteriore del
suo essere scrittore moderno e cosmopolita, Bufalino così sostiene:
415
Dissi e scrissi che la mia patria più vera era la mia biblioteca, là dove mi
parlavano in un sublime esperanto, mischiati insieme e consanguinei, Emily
Dickinson e Gogol, Baudelaire e Novalis, Ka–lida–sa e Machado…
Ciò nonostante (considero questa una contraddizione provvidenziale), la
complicità con gli spiriti sommi di tutti i tempi e paesi […] non è bastata a
mortificare dentro di me il nucleo germinale e indelebile del mio essere siciliano.
Nello stesso tempo in cui mi proclamo e mi battezzo europeo e
planetario, sento altrettanto forte levarsi dal profondo di me il richiamo
della mia identità e radice mediterranea ( 52 ).
Riandando col pensiero a rivisitare in ogni aspetto la Comiso del
tempo che fu, Bufalino ne ha tratto infinite suggestioni per le sue pagine
e soprattutto una ragione di vita, riuscendo a fronteggiare la profonda
vena malinconica e l’angoscia per l’incessante assalto degli anni
anche facendo del valore delle radici e della memoria, lui miscredente,
una sorta di fede in cui credere per sopravvivere. Ciò non significa peraltro
che egli si sia rinchiuso in un bozzolo sterilmente grondante di
nostalgia e fossilizzato a rimpiangere invano i tempi andati. Le innumerevoli
finestre aperte su molteplici mondi gli consentivano infatti di
scavalcare quella sorta di siepe leopardiana che è Comiso, ostacolo necessario
per far scattare il desiderio di sfondare gli orizzonti. Raccontando
se stesso attraverso la terra che ama, Bufalino, con una personalissima
cifra stilistica sempre sorvegliata ( 53 ), spazia da una realtà ristretta
a cieli infiniti, toccando tutti i temi propri dell’uomo e mettendone
a nudo, senza falsi pudori, l’ineluttabile condizione di fragilità.
( 51 ) G. BUFALINO, Lettera da Comiso, dopo i missili, cit., pp. 37-38.
( 52 ) G. BUFALINO, Istruzioni per l’uso della Sicilia, in Il fiele ibleo, cit., pp. 12-13.
( 53 ) Lo stile bufaliniano è stato efficacemente definito da Nunzio Zago “tono
Bufalino”, intendendo indicare con ciò la «[…] cifra inconfondibile dello stile,
sempre in equilibrio fra pena e artificio, verità e leggenda, realismo e calligrafia».
Cfr. N. ZAGO, Bufalino, fedeltà e letteratura, cit., p. 57.

GIANNETTA MURRU CORRIGA
PERCHÉ L’ORZO DIVENTI PANE
I SAPERI FEMMINILI PERDUTI
Di pane ricavato da grano duro ( 1 ) e da farine bianchissime, dà
notizia in Sardegna nella seconda metà del Cinquecento, Francesco
Fara. Risalgono però soltanto alla seconda metà del Settecento le prime
dettagliate informazioni sulle pratiche cerealicole e sulla panificazione
di grano e orzo, e non solo (Delitala 1990). Nella letteratura
agronomica di fine Settecento troviamo anche riferimenti alle varietà
di cereali localmente coltivate; su di esse si diffonde in particolare
Andrea Manca dell’Arca, argomentandone le caratteristiche, l’adattabilità
ai diversi suoli, la maggiore o minore resa in farina e pane:
Rispetto alla qualità de’ grani, si distinguono in quest’Isola diverse specie,
quali differenze non tanto si conoscono nel grano battuto, quanto nelle spighe,
mentre da’ colori e forma di esse, siccome da’ medesimi grani prende
diverse denominazioni, e sono le seguenti: frumento rosso, di maravizza, di
nave, coda d’acciaio, d’ariste negre, bianco o cano, aracemo, berbichino, senza
arista […] Le prime quattro specie, cioè: rosso, di maravizza, di nave, e coda
d’acciaio, sono di grano più pesante, indi rendono di più in farina e pane
(2000: 69).
Se il grano dei Sardi si caratterizza per una ricca biodiversità, come
attestano le numerose e fantasiose denominazioni locali, l’orzo è pro-
( 1 ) I suoli sardi, si sa, sono produttori di grano duro, Triticum durum, e di orzo
Hordeum vulgare, fino dai tempi più antichi, come reperti archeologici attestano.
Risalgono, infatti, al IV millennio a.C. (grotta di Mara-Filiestru, SS), le più antiche
tracce di pratiche cerealicole in Sardegna. Reperti paleobotanici carbonizzati
costituiti per il 90% da cariossidi d’orzo sono stati rinvenuti nel complesso nuragico
Genna Maria di Villanovaforru (IX-VIII sec. a.C.) (Lilliu 2000); e una notevole
quantità di orzo e grano hanno portato alla luce gli scavi del nuraghe Nurdole
(VII-VI sec. a.C.) in territorio di Orani (Fadda-Madau 1991). Un granaio di fibre
vegetali intrecciate risalente all’epoca romana imperiale è stato rinvenuto nel nuraghe
S. Pietro di Torpè.

418
GIANNETTA MURRU CORRIGA
dotto nell’isola in una sola varietà, l’orzo comune, dotato di “veste
che dal grano non si distacca”. Rispetto al frumento, nota ancora
Manca dell’Arca, l’orzo è cereale di minor pregio e valore, perché ha
una più bassa resa in grani e in farine, e tempi di conservazione di
molto inferiori; offre tuttavia anche qualche vantaggio: si coltiva dappertutto
e con minor fatica, e si presta ad una diffusa, sana alimentazione
sotto forma di minestre rinfrescanti:
solo si conosce d’una sorte o qualità, cioè del commune, che fa le spighe irsute
con la tonica, o veste, che dal grano non si distacca, poiché di quell’altra
spezie, che chiamano orzola, o dell’orzo di Francia di qualità frumentacea,
non trovasi qui […] Non è, però, grano di molta durata, mentre se si
lascia più d’anni due, rimangono solo le gusce: quello che è destinanto per
convertirlo in farina, è meglio macinarlo subito raccolto, perché si sperimenta
vantaggio nella quantità, peso e qualità della farina.
Non è in tanta stima la farina dell’orzo per pane, siccome per minestra, fresca
e salutevole, massime d’estate. Ne i villaggi di montagna la povera gente
mangia di questo pane in mancanza di frumento (2000: 77-78).
Ad un diffuso uso alimentare dell’orzo ( 2 ) nell’isola fa riferimento,
negli stessi anni, il Censore Generale Giuseppe Cossu in una Memoria
redatta nel 1780:
l’orzo serve per tre oggetti, uno per far, durante l’estate la minestra detta di
farro rinfrescante, e saporita, altri, quantunque pochi, ne fanno le orzate, e
conserve, ed in molte ville per farne pane, usanza della quale ne abbiamo
memoria in diversi tratti della Sagra Scrittura, che in più luoghi non tanto
mangiano nell’estate, ma eziandio tutto l’anno, o di pura farina d’orzo, o
meschiandola chi col terzo, chi colla metà, e chi con due terzi di farina di
fromento (in Murru Corriga, 1993: 13).
Nella Memoria, significativamente intitolata Discorso sopra gli avvantaggi
e disavvantaggi della sarda panisazione con i mezzi di rimediare
a questi per accelerare le operazioni, e ricavare maggiore mole di
pane, il Cossu, mosso da un ideale di “buon governo” e con l’intento
di rendere il pane un bene alla portata di tutti e disponibile per l’in-
( 2 ) La rilevanza del consumo dell’orzo nella storia dell’alimentazione dei sardi
trova riscontro in numerosi termini di derivazione latina e spagnola:
– dal latino hordeum (orzo) derivano: òrgiu, òriu, (orzo); òrriu (granaio cilindrico
di canna intrecciata); orriàre (mettere il grano nella bugnola) (Wagner 1960).
– dal latino farrum derivano: farre/i, farruntu (semolino d’orzo); farìkru /farigu
(semola d’orzo); farrana nuor. (erbaio di orzo); farra, camp. (farina di grano).
– dallo spagnolo sebada (orzo) deriva probabilmente sebàda, nome di un dolce
tradizionale barbaricino oggi confezionato con farina di grano.

Perché l’orzo diventi pane
tera popolazione ( 3 ), affronta con rigore i numerosi aspetti e problemi
attinenti alla panificazione nell’isola: enumera i diversi cereali:
grano (duro e tenero, saraceno, meschiglia), orzo, ma anche altre
materie prime, quali ghiande e patate, delle quali i sardi fanno uso
per la panificazione; descrive, comparandole, le più diffuse e collaudate
tecniche di molitura dei cereali, di raffinazione e lavorazione
delle farine, di modellazione e cottura del pane, divulgando anche
conoscenze relative a nuovi metodi e tecniche praticati fuori dall’isola.
Soprattutto analizza le relazioni che intercorrono fra tipi di pane
prodotti e materie prime, strumenti e procedure utilizzati.
Riferisce anche, il Cossu, che oltre al grano duro, che è quello più
diffusamente coltivato, si produce in Sardegna un altro tipo di frumento,
dal “volgo” denominato mazza bianca, e che, seppure considerato
tenero nell’isola, “in paragone dell’altro, egli non è di quei
grani in terra ferma riconosciuti per teneri” ( 4 ) (idem).
Nel Novecento, quando per le pressioni esercitate da agronomi e
istituzioni agrarie si era ormai diffusa in tutta l’isola la produzione della
varietà di grano duro Capelli (dal nome del senatore che l’aveva selezionata),
molti contadini sardi seminavano ancora orgiu sardu e trigu
sardu, e cioè quelle varietà di cereali prodotte nelle terre dei padri e dei
nonni, selezionate dalla secolare esperienza e sapienza de is antigus.
Oggi la produzione granaria standardizzata ha notevolmente impoverito
la biodiversità e con essa la ricchezza del patrimonio genetico
dei cereali della Sardegna, ma gli anziani ne ricordano ancora
molti nomi: trigu biancu, trigu corantinu, trigu murru baxu, trigu arrubiu,
trigu sciscilloni, nell’oristanese; cinixu, dent’e cani, su fogu pissinu,
co’e accriaxu, brenti bianca (forse sa mazza bianca di cui parla il
Cossu) nel cagliaritano.
Non di soli nomi si tratta: con essi emerge dalla memoria un patrimonio
di conoscenze sulle quali per lungo tempo si è fondata la
sopravvivenza nelle campagne. A partire dal settecentesco Discorso di
G. Cossu e seguendo la documentazione che successivamente si arricchisce
ad opera di osservatori e studiosi delle tradizioni sarde fino
agli studi più recenti (Delitala 1993), si delinea una continuità nelle
pratiche della panificazione che ha la profondità storica della “tradizione
culturale”. Delineare una tradizione significa far emergere uno
( 3 ) La preoccupazione di ridurre i tempi e i costi di produzione del pane è alla
base anche di un progetto “relativo alla sostituzione dei 53 mulini (azionati da somari)
esistenti nella regia munizione di Cagliari con 6 mulini a vento e a maniglia” inoltrato
dal Censore Generale a Torino nel 1792 (Zedda Macciò 1983: 162).
419

420
GIANNETTA MURRU CORRIGA
“stile etnico” impresso nei comportamenti, nelle attività lavorative e
negli strumenti di cui la comunità o il gruppo si serve; e significa anche
individuare e ricostruire scelte produttive e tecniche adottate nei
rapporti con la natura, nei saperi atti a controllarla, che hanno contribuito
a creare una biodiversità locale, selezionando i cereali, riproducendo
certe varietà di grano o di orzo piuttosto che altre.
Tra i pani quotidiani, i pani biscottati di grano e di orzo, a sfoglie
sottili e croccanti, di forma circolare o rettangolare, ancora qualche
decennio fa erano esclusivi delle regioni interne della Sardegna, a
prevalente economia pastorale. La forma rettangolare, la più arcaica,
segnalava in modo particolare la condizione di colui al quale innanzitutto
quel pane era destinato: il pastore errante, che doveva adattare
alla forma e dimensioni della bisaccia la forma e dimensioni del
pane quotidiano.
Ti facan che ass’orzu
Non augurare mai a nessuno la sorte dell’orzo, non dico di quella che gli
tocca come biada alle bestie, ma di quell’altra che consiste in tanti maltrattamenti,
uno dietro l’altro, e di altrettante torture, perché diventi pane
(Cambosu, 1989: 131).
Così suona nel racconto di uno scrittore sardo il detto popolare
barbaricino: ti facan che ass’orzu / mancu a su peius nemigu lu nês. A
( 4 ) Si tratta verosimilmente di uno di quei grani che fino a qualche decennio fa
gli studiosi di agronomia definivano “turgidi”. Scriveva in proposito il Crescini:
“Diffusione limitata, oggi più che nel passato, hanno i grani turgidi (Tr. Turgidum)
detti, sul nostro mercato, anche semi-duri. La loro area di coltivazione si
confonde, a volte, con quella dei grani duri” (1951: 33). Suggerisco a tal proposito
alcuni rapidi interrogativi:
• poiché le tassonomie agronomiche oggi non contemplano una varietà di grano
“semi-duro”, come deve essere interpretata l’informazione del Cossu?
• corrisponde, il grano mazza bianca al/ai grani sardi considerati teneri: trigu tenuru
(prodotto nel cagliaritano), trigu biancu, trigu biancale, trigu Cossu, trigu
montanu (prodotti nel nuorese)? Grani tutti caratterizzati da scarsa resa in semola
e maggior resa in farina;
• corrispondono l’uno (mazza bianca) e gli altri al grano “bianconato”, nel cagliaritano
detto brenti bianca, che si produce normalmente in suoli dilavati e
perciò carenti di azoto? Fenomeno soprattutto frequente nei terreni di montagna,
dove i suoli, generalmente poco profondi, sono più soggetti all’azione di
dilavamento delle acque;
• il grano “bianconato” come il grano tenero è caratterizzato da maggior resa in
farina; c’è forse un nesso tra questo fatto e la consuetudine diffusa nel centro
Sardegna di confezionare un pane a “spianata”, bianco e morbido, il cosiddetto
pane modde o pane lentu?

Perché l’orzo diventi pane
differenza del grano, che è un cereale nudo, l’orzo è un cereale vestito;
e da questa diversità, dalla connaturata ritrosia a spogliarsi delle
glume che lo rivestono è derivato il proverbiale trattamento riservato
all’orzo destinato all’alimentazione umana. Destino caduto nell’oblio
dacché la panificazione dell’orzo, alcuni decenni or sono, fu
definitivamente abbandonata a esclusivo beneficio del pane di grano,
che più facilmente del pane d’orzo si presta ad assumere consistenza
e forme diverse. Alla ricchezza tipologica e morfologica del pane di
grano fa infatti riscontro l’estrema sobrietà dei tipi e delle forme del
pane d’orzo. Fino agli anni Cinquanta i tipi di pane de orzu o de orgiu,
confezionati nell’isola erano sostanzialmente tre: carasau o fresa,
pistoccu, moddizzosu ( 5 ) o moddighina.
Più diffusamente consumato rispetto al grano, l’orzo era infatti il
solo cereale che il suolo avaro della montagna concedesse in quantità
sufficiente al fabbisogno delle comunità locali. Se è vero che in generale
la distinzione fra ricchi e poveri passava innanzitutto attraverso la distinzione
fra chi consumava pane di grano e chi consumava pane d’orzo,
ciò è un po’ meno vero per le comunità rurali dell’interno dell’isola,
nelle quali si praticava la pastorizia transumante e dove il consumo
del pane d’orzo era generalizzato e comune, in qualche misura almeno,
a tutti i ceti sociali (Murru Corriga 1994). Prodotto nei villaggi della
montagna centrale (Barbagia), il carasau, pane a sfoglie biscottate grandi
e sottili e di lunga durata si confezionava in due varianti:
– orgiathu o olgiattu, di pura semola d’orzo, o anche di semola e farina
mescolate in percentuali variabili;
– tippe o pan ’e granuga, di farine integrali, oppure di semola e cruschello.
Prodotto in zone di bassa montagna, prevalentemente in Ogliastra
e nel Gerrei, il pistoccu, a sfoglie biscottate più piccole e spesse,
di più breve durata, era prodotto con farina e semola d’orzo, e più
spesso con la sola farina. Sia il carasau sia il pistoccu potevano essere
confezionati anche con sfarinati misti di orzo e grano, in percentuali
variabili.
La panificazione dell’orzo e l’elaborazione tipologica dei pani
sono da riconnettere a fattori vari: le risorse cerealicole localmente
disponibili; le varietà di orzo selezionate; i lieviti, d’orzo o di grano; i
procedimenti tecnici adottati; non ultimo, lo stile di vita delle comunità
pastorali e le esigenze di consumo dei pastori nomadi.
( 5 ) Focaccia di farine integrali, indurisce rapidamente; si confezionava nei villaggi
cerealicoli di pianura e di collina quando si era consumata la scorta domestica
di grano, o in tempo di carestia o di estrema indigenza familiare.
421

422
GIANNETTA MURRU CORRIGA
Mentre rinvio, per una più precisa e ordinata descrizione del processo
della panificazione dell’orzo, ad un mio scritto precedente
(1994), in queste brevi note mi propongo di richiamare l’attenzione
su alcuni problemi già in esso affacciati, e su alcune differenze operative
che contribuiscono a produrre, in due regioni contigue, pani biscottati
simili ma in qualche misura diversi.
Il carasau e il pistoccu di orzo, infatti, pur avendo molte caratteristiche
comuni sono anche diversi, e tali sono considerati da chi li
confezionava e consumava. A ripercorrere oggi il processo della panificazione
dell’orzo appaiono più duri, per dirla sotto metafora, i
“maltrattamenti” che le ogliastrine devono infliggere all’orzo perché
diventi pistoccu, rispetto ai maltrattamenti che le barbaricine gli devono
infliggere perché diventi carasau. Di queste differenze manca,
nelle donne stesse, una precisa consapevolezza.
La trasformazione dell’orzo in pane a lunga conservazione ha richiesto
l’elaborazione di un complesso sistema di conoscenze empiriche
che si esplicano: nella selezione di varietà ritenute più adatte alla
panificazione; nelle lunghe operazioni preliminari rivolte a spogliare
l’orzo dalle glume che lo rivestono; nell’uso di un lievito “speciale”;
nella manipolazione e messa in forma della pasta, fino alla duplice
cottura dei pani.
Tenteremo di individuare relazioni tra saperi ed efficacia tecnica,
e di ipotizzare connessioni tra morfologia dei pani e procedimenti
tecnici; facendo emergere, laddove possibile, l’esistenza di conoscenze
e saperi impliciti che traducendosi in gesto tecnico non trovano
tuttavia formale espressione nel linguaggio verbale (Angioni 1986).
Concordemente l’orzo è da tutti ritenuto un cereale adatto anche
ai suoli meno profondi e soleggiati, che si accontenta di poche cure:
karrasame su nasu e lassami in pasu / sfregami il naso e lasciami a riposo,
suona ancora un detto barbaricino.
Le cure ( 6 ) si limitavano nel passato ad una zappatura tra marzo e
aprile, senza diserbo; a luglio avveniva la raccolta. Questa poteva essere
più tardiva, ad agosto, se in famiglia scarseggiava la manodopera
femminile (in Barbagia tutto il ciclo, tranne la semina, era di competenza
femminile) e la manodopera familiare doveva far fronte ad altre
necessità.
( 6 ) Il ciclo produttivo può avere diversa durata. Normalmente la semina avviene
in autunno, tra ottobre e novembre, dopo le prime piogge (semina in beranu mannu),
ma può essere fatta ad inverno inoltrato, tra gennaio e febbraio (semina in beraneddu)
se l’autunno è troppo asciutto (l’orzo è detto in questo caso orzu barantinu).

Perché l’orzo diventi pane
Alla panificazione veniva destinato quello che viene genericamente
denominato orgiu sardu (orzo sardo), e che, come suggeriscono i genetisti
agrari, potrebbe corrispondere ad una o ad una serie di varietà locali,
423
con origini antiche e complesse, alle quali gli agricoltori attribuiscono il
nome generico di orgiu sardu o olgiu saldu. […] e che presentano come caratteristiche
distintive comuni una taglia molto alta, una spiga lassa polistica
ed in particolare la porzione prossimale della resta che rimane saldamente
legata al lemma anche in seguito alla trebbiatura (Papa, 1992).
Le donne, soprattutto le donne barbaricine distinguevano comunque
differenti tipi di orzo ed erano attente alle qualità che potevano dare
maggiore resa in pane. A Fonni, dove sono più elevate sas terras de orgiu
(le terre da orzo), a s’orgiu melangiu (orzo pallido) prodotto nel Campidano
si preferiva l’orzo prodotto nella montagna, nel quale distinguevano
due “varietà”: orgiu ’odi longu (orzo a coda lunga) o orgiu langiu
(orzo magro), ricco in farina; orgiu ishodau (senza coda) con granello
piccolo e rotondo avvolto da piccole glume, più ricco in semola, di gran
lunga preferito al primo. Secondo le panificatrici ogliastrine l’orzo era
tutto a “coda lunga”; distinguevano però anch’esse diversi tipi: orgiu sardu
o antigu (con granelli più piccoli ma più saporiti), orgiu ’e Drugale
(orzo di Dorgali) e orgiu ’e casta. Quest’ultimo, si dice: “portato da fuori,
fruttava di più, faceva più farina, ma era anche meno gustoso”.
Prima della molitura, l’orzo veniva purgato e poi fatto arridare o
assare, e cioè essiccare, in un forno ben caldo ma spento. Diversamente
dal grano duro che doveva essere bagnato, prima della macinazione
l’orzo non solo non poteva essere bagnato (come del resto il
grano tenero) ma doveva essere essiccato. Solo l’essiccazione rende
possibile la separazione delle cariossidi dalle glume che le ricoprono,
e dalle quali si produce con la molitura una crusca assai grossa (ilingione),
utilizzabile solo come alimento per i cavalli.
L’essiccazione dell’orzo produce però un effetto collaterale, non
voluto e, per quanto ci risulta, ignorato dalle donne: priva le cariossidi
della capacità germinativa, più precisamente di quell’inturgidimento
che si produce nel grano duro quando viene bagnato, dal quale
deriva un aumento del glutine, al quale si deve l’elasticità e plasticità
della pasta lavorata. Dappertutto in Sardegna il grano, prima
della molitura, veniva necessariamente “bagnato”, ma in modi diversi
così sinteticamente rappresentati dalle donne:
– sabonai su trigu (lavare il grano): comportava una vera e propria
lavatura, che quando eseguita col crivello permetteva contemporaneamente
anche una perfetta pulizia dei granelli; richiedeva poi
una perfetta e ben controllata asciugatura ( 7 );

424
GIANNETTA MURRU CORRIGA
– fai s’acqua a su trigu (fare l’acqua al grano): il giorno precedente la
molitura si aspergeva d’acqua il grano contenuto in sa crobi, rivoltandolo
ripetutamente e poi lasciandolo “riposare”, così da ricavarne
maggior quantità di farina.
La tradizionale “lavatura” del grano non era dunque una semplice
pratica igienica, ma era un’operazione cruciale, che dava l’avvio ad
una serie concatenata di eventi biochimici: arrivando al “cuore” della
cariosside, l’inumidimento ne favorisce, infatti, la rapida germinazione,
facendo aumentare il glutine, da cui si producono i fermenti
attivi della pasta. La lavatura, o l’inumidimento del grano duro hanno
avuto probabilmente origine proprio dalla necessità di rendere
turgide le cariossidi, assicurando una spontanea capacità lievitante
alle farine, rendendo di conseguenza più malleabile la pasta, e assicurando
pertanto una migliore resa in pane.
La proverbiale difficoltà a trasformare l’orzo in pane, comunemente
attribuita ad una sua intrinseca diversità: il vestito, sarebbe
dunque in realtà in grande misura indotta dai modi culturali della
sua trasformazione per il consumo umano, e precisamente dall’essiccazione,
il primo “duro trattamento” riservato all’orzo; che favorisce
l’eliminazione delle glume, rendendolo adatto al consumo umano,
ma nel contempo abbassa il grado di umidità dei granelli inibendone
la spontanea capacità germinativa. Perché l’orzo diventi pane è necessario
reintegrare o risuscitare proprio questa capacità, e a ciò ha
provveduto, come vedremo, la scienza empirica delle donne sarde
con l’invenzione di un lievito d’orzo, su ghimisone o pane’onu.
In Ogliastra (Secci, 1997-98) l’orzo veniva sottoposto, dopo l’essiccazione,
ad un maltrattamento ulteriore, sa pistadura: riempito un
sacchetto con una certa quantità di orzo, veniva energicamente sbattuto
sullo scalino della porta di casa oppure sopra un sasso. Tale trattamento,
affermano le anziane donne d’Ogliastra, era indispensabile
per favorire la separazione delle “codette” dalle cariossidi, da sottoporre
poi ad una ulteriore cernita. A questa operazione era destinata
sa saccedda de pistare orgiu (Baunei) o saccedda de strumpai (Talana) o
saccu po scoai s’orgiu (Sadali), sacco di pelo di capra appositamente
confezionato al telaio dalle donne.
Sa pistadura non veniva però esercitata in Barbagia; non solo nei
paesi come Fonni, dove le donne hanno selezionato una varietà di
( 7 ) Un’anziana di Sadali, comunità al confine tra Barbagia e Ogliastra, ricorda
che, una volta lavato il grano alla fontana e fatto scolare nei cesti di canne, lo lasciava
“riposare” per alcune ore dentro sacchi di lino, per aumentarne la resa, facendolo
infine xuttai e arridai (asciugare ed essiccare) al sole (Meloni, 1996-97).

Perché l’orzo diventi pane
orzo con granello piccolo e rotondo, “senza coda” e rivestito da piccole
glume, ma neppure in quei paesi, come Teti, dove si panificava
solo orzo a “coda lunga”. Sono state dunque diverse, in Sardegna, le
soluzioni adottate per rendere nudo un cereale vestito, problema
cruciale cui la scienza agronomica cerca oggi di rispondere con la cosiddetta
“perlatura” dell’orzo e con interventi di ingegneria genetica.
A Fonni, dove il pane quotidiano era per tutti, ricchi e poveri,
s’orgiathu, ogni sei mesi, dunque due volte all’anno, in concomitanza
con la partenza e col ritorno dei pastori dalla grande transumanza, le
donne erano costrette, per molte settimane consecutive, a panificare
grandi quantità d’orzo. Ciò spiega probabilmente l’interesse delle
donne, impegnate anche nel lavoro della campagna (cerealicoltura e
orticoltura), a selezionare una varietà di orzo che rendesse loro meno
gravosa la panificazione.
A Teti, dove i pastori praticavano una transumanza di corto raggio,
le donne panificavano con intervalli di due o tre mesi sa fresa, sia
di grano sia di orzo; cosa che rendeva forse la panificazione dell’orzo
meno gravosa che a Fonni, e di conseguenza meno pressante il problema
della “coda” dell’orzo.
In Ogliastra le donne panificavano, con cadenza settimanale ( 8 ),
oltre il grano e l’orzo anche le ghiande, sottoposte anch’esse a pistadura
nella saccedda de pistare orgiu. Le donne ogliastrine, più direttamente
legate al lavoro domestico e artigianale (la manifattura e vendita
delle sacceddas assicurava a molte un sia pur piccolo introito)
erano verosimilmente più interessate a sfruttare a fondo una tecnica
comunque usata per le ghiande, sa pistadura, piuttosto che ad ottenere
dai loro uomini (ai quali era affidata la cerealicoltura) la selezione
di una varietà d’orzo più leggermente vestita.
Pani, lieviti e farine
Almeno dal Settecento fino alla metà del Novecento, quando si
diffondono ovunque nell’isola i mulini elettrici, la macinatura dei
cereali veniva normalmente fatta in Barbagia con i mulini ad acqua e
in Ogliastra invece con le mole asinarie. Ciò pone un interessante interrogativo
sui caratteri specifici dell’ambiente tecnico ogliastrino,
dato che le condizioni idro-orografiche sono generalmente favorevoli
( 8 ) La panificazione del pistokku in Ogliastra, proprio perché fatta a cadenze
molto ravvicinate e utilizzando materie prime varie si basava principalmente sul lavoro
individuale della padrona di casa, diversamente dalla panificazione del karasau,
in un certo senso più specializzata, che richiedeva la cooperazione di più donne
e una distribuzione codificata di ruoli e funzioni.
425

426
GIANNETTA MURRU CORRIGA
allo sfruttamento dell’energia idraulica. La spiegazione del mancato
impianto dei mulini va dunque cercata altrove, forse nelle condizioni
produttive e nelle pratiche alimentari della regione, dove una popolazione
scarsa e distribuita in comunità isolate fra loro si alimentava
in grande misura, ancora nella prima metà del Novecento, del prodotto
di una cerealicoltura povera, integrata dalla panificazione delle
ghiande. Dove, cioè, l’esiguità della quantità annua di cereali da macinare
non era tale da giustificare l’abbandono della strumentazione
tradizionale, a favore di un’innovazione tecnologica ad alto tasso di
investimenti (Da Re, 1990).
La macina idraulica, si sa, produce sfarinati più sottili rispetto alla
macina ad asinello. Per quanto nulla sia emerso in proposito dalle testimonianze
orali, si può forse anche ipotizzare che la diversa forma e
consistenza fra carasau e pistoccu, a sfoglie grandi e sottili l’uno, a
sfoglie piccole e spesse l’altro, abbia una qualche relazione con le differenze
prodotte nel macinato dai diversi sistemi di molitura.
Sia in Barbagia sia in Ogliastra la panificazione dell’orzo presupponeva
l’uso del lievito d’orzo: su ghimisone per l’orgiathu e su pane’onu
per il pistoccu. Al di là dei modi diversi di denominarlo, si
tratta fondamentalmente dello stesso tipo di fermento, la cui preparazione
poteva però comportare operazioni in parte diverse.
A forma di grande focaccia, su ghimisone si ottiene col semplice impasto,
non lavorato, di semola ed acqua. Si inforna nel forno molto
caldo, ma senza fiamma o braci, fino alla formazione di una crosta
bruna. Si lascia raffreddare, per giorni, al lento raffreddarsi delle pareti
del forno, e infine si mette a “maturare” dentro un canestro coperto da
teli di lana. Si ottiene, con questo lungo processo, nella parte interna e
morbida del ghimisone, la fermentazione di microrganismi e l’attivazione
di enzimi che mescolati all’impasto di semola e acqua lo renderanno
manipolabile ed elastico, e atto alla panificazione.
Un ghimisone, che normalmente aveva il peso di cinque chilogrammi,
era sufficiente per panificare due starelli di orzo (80 kg), e il
numero di ghimisones variava a seconda della quantità complessiva di
semola da confezionare.
Il pane’onu, ottenuto anch’esso da un impasto non lavorato di semola
(farigu) e acqua, aveva forma di pagnotta. Variava la tecnica di
cottura: a Urzulei, infatti, come in Barbagia, si usava farlo cuocere al
forno, a Baunei e a Talana, invece, si faceva cuocere in su testu (Baunei)
o preda’e pane’onu (Talana), piccola lastra di granito collocata
sopra un treppiede e riscaldata alla brace.
Confezionato con un chilogrammo di semola, un pane’onu era
sufficiente per lavorare dieci chilogrammi di farina, da cui si ricava-

Perché l’orzo diventi pane
vano trenta spianate, che una volta cotte, divise in due sfoglie e biscottate
avrebbero prodotto sessanta pezzi di pistoccu.
Appena cotto il pane’onu veniva bagnato con acqua tiepida, frammentato
e infine posto in un secchiello di sughero, su tulbiu, accuratamente
coperto con teli di lana. I frammenti del pane’onu venivano
conservati fra due strati di foglie di carrubo che avrebbero reso il
pane “dulce e bonu”.
Nella preparazione del pistoccu, all’impasto di farina d’orzo e di
pane’onu si aggiungeva sempre il lievito di grano, su premmentu.
Questo era normalmente disponibile perché la gran parte delle famiglie
panificavano settimanalmente anche piccole quantità di frumento.
Per quanto riguarda invece l’orgiathu la situazione era più variegata:
poteva essere confezionato col solo ghimisone (Fonni, Gavoi,
Orotelli), oppure anche col premmentu di grano (Teti, Dorgali,
Nuoro). Non è chiaro se il ricorso al solo ghimisone sia da porre in
relazione con l’uso di sola semola d’orzo, come di fatto era a Fonni e
a Gavoi, e se l’aggiunta del premmentu di grano sia da porre in relazione
con l’uso di semola e farina, come di fatto era a Teti e Dorgali.
Come pure resta da chiarire perché il lievito d’orzo, che si chiami
ghimisone o pane’onu, sia sempre confezionato con la semola e mai
con la farina. Possiede, la prima, superiore efficacia fermentativa rispetto
alla seconda?
Il pane’onu è considerato dalle donne ogliastrine un “legante”
piuttosto che un lievito, come viene invece definito su premmentu di
grano. In Barbagia il ghimisone viene anch’esso definito un “legante”
nei paesi dove la panificazione relativamente regolare del grano,
come a Teti, permette l’aggiunta del premmentu di grano, mentre a
Fonni, dove raramente veniva panificato il grano e dove dunque non
si disponeva normalmente del premmentu, il ghimisone è considerato,
allo stesso titolo, legante e lievito.
Le donne sanno perfettamente che l’essiccamento agevola l’eliminazione
delle glume; non sanno, però, che esso ha anche un effetto
negativo: l’impoverimento del glutine, da cui consegue la difficile
manipolazione e lievitazione della pasta.
Il ghimisone e il pane’onu, sciolti e mescolati nell’impasto di farine
d’orzo apportano i fermenti necessari perché il miracolo si compia,
trasformando l’impasto in pasta e questa in pane. Il ghimisone /pane’onu
supplisce alla mancanza di glutine fornendo alla pasta la capacità
di lievitare “naturalmente” ma lentamente; come ben sanno le
donne di Fonni, che dovevano spesso ricorrere alla benedizione del
prete o alle pratiche contro s’ocru malu per sollecitare la pasta a solle-
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GIANNETTA MURRU CORRIGA
varsi. Il premmentu di grano, quando le condizioni ne consentono
l’uso, ha invece, probabilmente, la funzione di rafforzare l’azione del
lievito d’orzo e di accelerare i tempi di fermentazione della pasta.
In Sardegna oggi non si produce orzo per la panificazione ma esclusivamente
per l’alimentazione animale (Papa, 1992). I grandi cambiamenti
intervenuti nella vita economica e sociale a partire dal secondo
dopoguerra, e il benessere generale che ne è derivato, hanno infatti determinato
profondi mutamenti nello stile di vita anche alimentare delle
comunità rurali. Il grano, che proviene ormai in grande misura dal
mercato esterno, è un bene alla portata di tutti i ceti sociali, e i pastori,
perché divenuti sedentari o comunque agevolati nella mobilità dalla
meccanizzazione dei trasporti, non dipendono più, per la loro alimentazione,
dal pane a lunga conservazione. Consumano ancora il carasau
e il pistoccu di grano, di più breve durata rispetto al carasau e al pistoccu
d’orzo, per adesione ad una radicata consuetudine che sempre meno
ha però riscontro nelle esigenze della vita materiale di oggi.
Le anziane panificatrici concordemente affermano che gli sfarinati
prodotti dalle macchine preindustriali e separati con la stacciatura
domestica erano di qualità superiore rispetto a quelli prodotti con la
macinazione e stacciatura industriali, eccessivamente “riscaldati” e di
grana troppo sottile, poco adatta a produrre le semole necessarie alla
confezione di tipi diversi di lieviti e di pani.
Il pane biscottato di orzo, più difficilmente ottenibile, sembra,
anche con le farine di produzione industriale, viene abbandonato.
Certamente il sapore “austero” del pane d’orzo (come in generale il
sapore dei cosiddetti “cereali poveri”) può aver contribuito anche a
dare, sotto il profilo alimentare, minore prestigio sociale e più scarsa
carica simbolica all’orzo rispetto al grano.
Il venir meno delle ragioni che per secoli avevano sostenuto la panificazione
dell’orzo ha reso dunque antieconomico il lungo, complesso
e faticoso lavoro delle donne, lasciando desueta e ignorata la
loro scienza empirica; non diversamente da quanto è accaduto in generale
per la produzione di quei beni che, non prestandosi facilmente
alla meccanizzazione, non si presentavano sul piano sociale neppure
provvisti di quel prestigio che ne avrebbe giustificato il mantenimento
della produzione artigianale.
Si va però profilando oggi, grazie al rilievo dietetico e anche terapeutico
attribuito dalle scienze dell’alimentazione ad alcuni componenti
dell’orzo, una’inversione di tendenza nelle scelte e nei gusti alimentari
diffusi; che potrebbe costituire la premessa per un rilancio
della panificazione dell’orzo.

Perché l’orzo diventi pane
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Finito di stampare nel mese di settembre 2003
presso lo stabilimento litotipografico
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