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Gli indifferenti - Scienze della Formazione

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azionalmente, risolvendo problemi tecnici che comprendono anche la<br />

costituzione del necessario ethos borghese e democratico.<br />

Coerenti con il loro progetto, gli scienziati sociali si rivolgono alle<br />

élite, ai tecnocrati e ai quadri <strong>della</strong> nuova Italia che però, come abbiamo<br />

visto, tengono ben chiusa la porta <strong>della</strong> stanza dei bottoni; anzi, come<br />

scrive Giovanni Bechelloni (1974, 648) recensendo il volume, «lo iato tra<br />

il momento dell’analisi e il momento <strong>della</strong> decisione politica» va<br />

addirittura accrescendosi. Cavazza (1974, 13) descrive un malessere che<br />

rispecchia la delusione di chi, per primo, aveva creduto di poter dare un<br />

contributo alla modernizzazione dell’Italia:<br />

Vi è nel Paese, ormai da non pochi anni, una sensazione di malessere, assai<br />

diffusa, e intensamente percepita. Essa è diventata la compagna quotidiana<br />

dell’uomo di cultura che non ha perso l’uso critico dell’intelligenza;<br />

dell’operatore economico e dell’operatore sociale che s’ostinano a conferire<br />

razionalità e senso professionale al loro mestiere; di quegli strati <strong>della</strong> classe<br />

politica, periferici e inferiori, che non credono all’ineluttabilità di dover<br />

sempre e comunque convertire in dubbie manipolazioni i loro convincimenti;<br />

e, infine, la sensazione di malessere non risparmia il comune cittadino che<br />

conduce vita non impegnata ma attende ai casi suoi come meglio sa e può.<br />

Se l’infelicità descritta da Pasolini era l’infelicità chi vorrebbe starsene in<br />

pace ma non può (più), l’infelicità descritta da Cavazza è quella di chi<br />

vorrebbe fare ma (ancora) non può. L’anno è lo stesso – il 1974 – ma le<br />

due diagnosi non potrebbero essere più diverse.<br />

Difendere un confine: i sociologi e Pasolini<br />

Alla luce <strong>della</strong> storia <strong>della</strong> sociologia italiana tra la fine <strong>della</strong><br />

Seconda guerra mondiale e i primi anni Settanta, lo scontro tra Pasolini e<br />

Ferrarotti diventa facilmente comprensibile: lo scrittore è un pericolo<br />

tanto per le sue idee e le sue prese di posizione, quanto per la sua<br />

condizione di intellettuale pubblico che pretende di occuparsi di problemi<br />

che spettano ad altri. La domanda retorica del sociologo – «Il vecchio<br />

fascismo è per Pasolini singolarmente fotogenico; gli appare ancora<br />

legato a un’Italia agricola, pascolianamente proletaria, rustica, non<br />

consumistica, pronta al sacrificio… Ma chi glielo ha detto?» (Ferrarotti<br />

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