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UNIVERSITÉ PARIS-SORBONNE POLEMONE L ... - e-Sorbonne

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<strong>UNIVERSITÉ</strong> <strong>PARIS</strong>-<strong>SORBONNE</strong><br />

ÉCOLE DOCTORALE Mondes Anciens et Médiévaux<br />

Laboratoire de recherche ROME et SES RENAISSANCES : "Arts, archéologie,<br />

littératures, philosophie"<br />

T H È S E<br />

pour obtenir le grade de<br />

DOCTEUR DE L’<strong>UNIVERSITÉ</strong> <strong>PARIS</strong>-<strong>SORBONNE</strong><br />

Discipline/ Spécialité : LANGUES ET LITTÉRATURES ANCIENNES<br />

Présentée et soutenue par :<br />

Tessa MARZOTTO<br />

le : 28 Avril 2012<br />

<strong>POLEMONE</strong> L'ATENIESE, Scolarca<br />

dell'Academia Antica. Testimonianze.<br />

Sous la direction de :<br />

JURY:<br />

Monsieur Carlos LÉVY Professeur, Université Paris-<strong>Sorbonne</strong>.<br />

Monsieur Carlo ALTINI Professeur, Scuola di Alti Studi della Fondazione<br />

Collegio San Carlo di Modena.<br />

Monsieur Carlos LÉVY Professeur, Université Paris-<strong>Sorbonne</strong>.<br />

Monsieur Emidio SPINELLI Professeur, La « Sapienza » Università di Roma.<br />

Monsieur Tiziano DORANDI Professeur, CNRS U.P.R. 76 Villejuif France.<br />

Monsieur Mauro BONAZZI Professeur, Università degli Studi di Milano.


Polemone l'Ateniese,<br />

scolarca dell'Academia antica.<br />

Testimonianze<br />

Tesi di Tessa Marzotto<br />

Dottorato in Scienze della Cultura<br />

curriculum « Filosofia »<br />

Scuola di Alti Studi della Fondazione San Carlo di Modena<br />

Co-tutelle de thèse avec l'Université Paris-<strong>Sorbonne</strong>, Paris IV<br />

(école doctorale 1 «Mondes anciens et médiévaux»).<br />

Direttori di ricerca / Directeurs de thèse:<br />

Prof. Tiziano Dorandi,<br />

Prof. Carlos Lévy,<br />

Prof. Emidio Spinelli,<br />

Prof. Mauro Bonazzi.


To my mother,<br />

To my family,<br />

To the memory of my cousin Gus.


Debiti di riconoscenza<br />

Ringrazio Tiziano Dorandi in quanto primo promotore di questa ricerca. Nell'arco degli anni la sua<br />

precisione filologica e il suo rigore scientifico mi hanno fornito un modello prezioso. Ringrazio<br />

Carlos Lévy per aver offerto un contributo di primaria importanza all'approfondimento delle<br />

dinamiche filosofiche implicite nei testi. La sua disponibilità, pazienza e vivacità intellettuale mi<br />

hanno aiutato a mantenere alta la motivazione nel corso di tutto il lavoro. Ringrazio Emidio Spinelli<br />

e Mauro Bonazzi per aver accettato di buon grado di partecipare a questa ricerca. Ringrazio David<br />

Sedley per avermi accolto alla Faculty of Classics di Cambridge durante un intensissimo e nevoso<br />

semestre. Ringrazio la Fondazione del Collegio San Carlo per avermi dato la possibilità di<br />

intraprendere la mia ricerca dottorale, per aver curato le insidie burocratiche di una cotutela<br />

internazionale di tesi e per non avermi mai fatto mancare l'appoggio di cui ho avuto bisogno.<br />

Ringrazio l'école doctorale Mondes anciens et médiévaux de l'Université Paris-<strong>Sorbonne</strong> per<br />

l'accoglienza ricevuta. Ringrazio il personale de la Bodleian Library di Oxford, de la Bibliothèque<br />

Nationale de France François Mitterand, de la Bibliothèque de l'Ècole Normale Superieure de Paris,<br />

de la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze e di Roma, de la Biblioteca della Fondazione<br />

Collegio San Carlo di Modena, de la Classical Faculty Library of the University of Cambridge,<br />

senza il cui lavoro la mia ricerca non sarebbe stata possibile. Ringrazio quei colleghi studenti,<br />

incontrati nel mio vagare tra le varie università, che hanno voluto condividere con me la loro<br />

passione : Massimo Cerulo, Alberto Fragio Gistau, Giulia Maria Chesi, Georgia Tsuni, Serena<br />

Feloj, Marco Versiero. Infine ringrazio la mia famiglia e i miei amici per avermi incoraggiata,<br />

sostenuta, presa in giro, rinfrancata, aiutata quando più ne avevo bisogno.


Indice<br />

Introduzione i-lxxxiii<br />

Indice delle testimonianze 1-5<br />

Testimonia Biographica 6-38<br />

(T.1 – T.20)<br />

Testimonia de Polemone scholarca<br />

et Historia Academiae 39-54<br />

(T.21 – T.35)<br />

Il bios di Polemone 55-131<br />

Fonti principali, elementi della narrazione e cronologia 51-79<br />

La 'conversione' 79-96<br />

Polemone, discepolo di Senocrate 96-99<br />

Polemone, scolarca dell'Academia 99-122<br />

La rubrica letteraria 122-131<br />

Testimonia Philosophica 132-417<br />

(T. 36 – T. 59)<br />

Polemo dixit 417-426<br />

(T. 60 – T. 64)<br />

Appendice 427-436<br />

Bibliografia 437-475


Introduzione<br />

Ho costruito una struttura sfaccettata<br />

in cui ogni breve testo sta vicino agli altri<br />

in una successione che non implica<br />

una consequenzialità o una gerarchia<br />

ma una rete<br />

entro la quale si possono tracciare molteplici percorsi<br />

e ricavare conclusioni plurime e ramificate<br />

Italo Calvino, Lezioni americane<br />

Polemone l’Ateniese diresse la scuola, fondata da Platone sul suolo del parco<br />

dell'Academia, per oltre quarant’anni, tra il 314/313 e il 270/269 a.C. 1 . Egli visse in un<br />

periodo storico caratterizzato da profondi cambiamenti sociali e politici 2 e verosimilmente<br />

vide arrivare e stabilirsi ad Atene due grandi maestri del pensiero filosofico del mondo<br />

ellenistico, Epicuro 3 e Zenone di Cizio 4 . Meno di cinquant’anni erano passati dalla morte<br />

di Platone che Polemone già risiedeva stabilmente nel giardino dell’Academia 5 , al fine di<br />

continuarne la pratica di insegnamento. Le fonti antiche ci informano che a Platone<br />

successe il nipote Speusippo, che dopo la morte di Speusippo i giovani discepoli scelsero<br />

1 La data di inizio dello scolarcato di Polemone è riportata da Diogene Laerzio (di seguito D.L.) IV 14 e 16. Tale<br />

indicazione risale con buona probabilità ad Apollodoro. Mentre la data della morte viene riportata dal Chronicon di<br />

Eusebio/Gerolamo.<br />

2 Si considerino ad esempio tra le molteplici vicende politiche che caratterizzano l’epoca dei Diadochi dopo la morte<br />

di Alessandro Magno nel 323, quali l’ “elezione” in Atene di Demetrio del Falero nel 317 a ,<br />

la costituzione timocratica di tale periodo che interrompe la tradizione democratica ateniese, l’arrivo nel 307 di<br />

Demetrio detto il Poliercete, figlio di Antigono Monoftalmo, accolto da molti come un liberatore e come il<br />

restauratore della democrazia, e infine le alterne fortune del Poliercete nel contrastare i suoi avversari politici<br />

durante l’ampio conflitto per la spartizione dell’immensa eredità lasciata da Alessandro. v. Musti (1990), cap. XI :<br />

‘L’Alto Ellenismo’, pp. 695-817 ; WAFO (1984), vol. VII, part I : The Hellenistic World, chapter 2 : E. Will, ‘The<br />

succession to Alexander’, pp. 23-61.<br />

3 Epicuro acquistò un terreno ad Atene e vi aprì la sua scuola, il , tra il 307/306 e il 305/304 a.C.<br />

4 Zenone di Cizio frequentò secondo le fonti antiche l’Academia di Polemone. È possibile congetturare inoltre che<br />

Zenone continuasse ad assistere alle lezioni di Polemone anche dopo aver costituito una cerchia di discepoli intorno<br />

a sè. v. D.L. VII 2 ; VII 25 ; Suidas, Lex. s.v. = Polemo frr. 85, 86, 88 Gigante.<br />

5 PHerc. 1021 e 164 : Acad. hist. col. XIV 32 e D.L. IV 19 = Polemo frr. 44, 45 Gigante<br />

i


Senocrate, e che a quest’ultimo successe Polemone 6 . Non possediamo un grande numero<br />

di informazioni sulle modalità di successione degli scolarchi dell’Academia, tuttavia ci<br />

sono ragioni per pensare che, nel designare il nuovo capo della scuola, al criterio della<br />

predilezione personale da parte dell’ultimo scolarca si aggiungesse anche il parere<br />

‘democraticamente’ espresso dai discepoli della scuola 7 . Per quanto non sia contestabile<br />

l'importante ruolo giocato dall'Academia nella formazione dei giovani ateniesi e non,<br />

risulta difficile affermare con sicurezza cosa abbia significato esattamente al tempo di<br />

Polemone dirigere l’Academia: quale consapevolezza egli avesse di essere uno dei primi<br />

eredi della dorata tradizione platonica e come egli intendesse rapportarsi a tale eredità,<br />

nessuna fonte coeva ce lo dice esplicitamente; in generale, quale sia la posizione o il ruolo<br />

specifico di Polemone nella storia della filosofia antica non è cosa facile a dirsi.<br />

I limiti cronologici della vita di Polemone lo pongono in rapporto con la prima fase di quel<br />

periodo storico comunemente denominato come Ellenismo, secondo la categoria coniata<br />

negli studi di J.G Droysen per il periodo successivo alle conquiste di Alessandro Magno:<br />

un periodo storico caratterizzato dall'apertura dei confini della cultura greca a nuove aree<br />

del mondo, all'Asia, all'Egitto e all'Europa, e segnato di conseguenza da profondi<br />

rivolgimenti culturali, sociali, politici e religiosi. L'apertura del mondo ellenistico<br />

determina verosimilmente un'uguale apertura alla molteplicità anche nel contesto<br />

filosofico ateniese, per cui è possibile considerare l'attività di insegnamento del terzo<br />

scolarca dell'Academia in relazione a una scena filosofica caratterizzata dal confronto con<br />

una proliferazione di istanze e novità concettuali. L'influenza della figura di Pirrone, la<br />

ricezione di alcuni elementi della saggezza indiana, la provocatorietà della filosofia cinica,<br />

la coesistenza sul medesimo territorio di diverse scuole filosofiche contribuiscono<br />

verosimilmente ad una rapida evoluzione negli insegnamenti e nelle posizioni della scuola<br />

academica diretta da Polemone. Per quanto questo studio rinunci preliminarmente a<br />

fornire un'immagine omnicomprensiva e perfettamente organica del pensiero del terzo<br />

scolarca, in ragione della natura e della frammentarietà delle notizie a nostra disposizione,<br />

si tenterà di promuovere una quanto più precisa contestualizzazione dell'evoluzione della<br />

scuola academica all'interno del periodo ellenistico, sia esso inteso come un periodo di<br />

inquietudine politica o come una fase di globale apertura inter-culturale.<br />

6 PHerc. 1021 e 164 : Acad. hist. col. XIV 14 = T. 1; D.L IV 16 = T. 2; Suidas, Lex. s.v. j = T. 35; Cic.,<br />

De orat. III 18, 67 = T. 36 ; Eusebius, Praeparatio evangelica XVI 4, 13 = T. 33; Augustinus, De civitate Dei XIX<br />

1 = T. 59 ; v. Polemo frr. 34-39 Gigante.<br />

7 PHerc. 1021 e 164 : Acad. hist. Col. VI 41 : i giovani (veaniskoi) votano prima di decidere che sarebbe stato<br />

Senocrate a guidarli.<br />

ii


Gli studi che menzionano il terzo scolarca e tentano di riassumerne il pensiero si trovano<br />

generalmente avvolti da un grande imbarazzo, provocato innanzitutto dalla scarsità di<br />

informazioni. Raramente ci si è azzardati a fornire un’esposizione coerente e strutturata<br />

delle dottrine sostenute da Polemone. Eduard Zeller nella seconda parte del suo<br />

monumentale lavoro, Die Philosophie der Griechen in ihrer geschichtlichen Entwicklung<br />

dargestellt, pone di seguito al noto compendio della filosofia di Platone una rassegna del<br />

pensiero dei suoi immediati successori, dedicando un capitolo a Speusippo, un’altro<br />

capitolo a Senocrate, ma solo due pagine alla figura di Polemone, classificato tra ‘gli altri<br />

filosofi dell’Academia’ 8 . In queste pagine, Zeller riconosce la difficoltà di discernere i<br />

contorni del pensiero di Polemone, considerata la scarsità di elementi a disposizione e<br />

l’isolamento reciproco delle varie definizioni a lui riconducibili, e sostiene infine che da<br />

una rassegna delle testimonianze antiche pervenuteci sia possibile affermare in ultima<br />

istanza che gli insegnamenti di Polemone, per quanto a prima vista prossimi allo spirito<br />

dei filosofi cinici 9 , siano stati in perfetto accordo con quelli di Platone, Speusippo e<br />

Senocrate, sopratutto per quanto concerne l’etica e il ruolo della virtù 10 . In seguito<br />

Cornelia J. de Vogel nel secondo volume della sua raccolta dei testi più significativi del<br />

pensiero dei filosofi greci, dedicato a Aristotele, ai primi peripatetici e alla prima<br />

Academia, riporta otto testimonianze su Polemone e sottolinea così come fondamentali 1)<br />

l’episodio della conversione alla filosofia, 2) la sua impassibilità di fronte agli eventi o<br />

, 3) il principio della vita secondo la natura, 4) la teoria dei<br />

(desunta da Cicero, De finibus II, 34-35 = T. 42) e 5) l’idea che la<br />

virtù sia la prima condizione per la felicità 11 . Diversamente William K.C. Guthrie nel<br />

1978, nel quinto volume della sua History of Greek Philosophy, non ritiene opportuno fare<br />

pressoché alcuna menzione di Polemone 12 tra gli associates di Platone, preferendo<br />

concentrarsi su Eudosso, Speusippo, Senocrate ed Eraclide Pontico. Polemone appartiene<br />

di fatto alla seconda generazione di eredi del platonismo e il suo rapporto rispetto al<br />

8 Zeller (1889), pp. 1045-1049.<br />

9 Ivi, p. 1045. Ciò viene detto in particolare a proposito della testimonianza in D.L. IV, 18 secondo la quale Polemone<br />

era solito dire che ci si dovrebbe esercitare nelle azioni e non nelle teorie dialettiche (v. oltre).<br />

10 Ivi, p. 1046. Tuttavia la sezione sull’Academia antica si conclude (p. 1049) con l’affermazione lapidaria che solo<br />

una porzione dell’eredità spirituale di Platone è confluita insieme al suo giardino nell’Academia, mentre il<br />

patrimonio completo passò ad Aristotele, il quale era del resto pronto a superare il maestro.<br />

11 De Vogel (1953), pp. 294-300 : Polemo, Crates and Crantor.<br />

12 Guthrie (1978), v. p. 482 , dove discutendo dell’etica di Senocrate lo studioso scozzese ammette che : « there may<br />

be some confusion here between Xenocrates and Polemo, his successor as head of the Academy ».<br />

iii


pensiero del maestro fondatore risulterebbe verosimilmente filtrato dagli insegnamenti di<br />

Senocrate.<br />

Una scrupolosa attenzione per l’Academia antica, in quanto primo ambito di ricezione e<br />

trasmissione del pensiero platonico, è sorta in epoca contemporanea in conseguenza degli<br />

studi pubblicati dalla scuola di Tubinga sulle dottrine non scritte di Platone, le cui tracce<br />

sarebbero da ricercarsi negli scritti dei suoi discepoli e in particolare in quei testi che<br />

riportano le critiche mosse a Platone dal discepolo Aristotele. Hans J. Krämer tra gli altri<br />

ha ripercorso le linee di continuità e discontinuità nella tradizione platonica a partire dalla<br />

prima Academia antica 13 . Nell'ipotesi di Krämer il fattore di fondamentale continuità della<br />

storia dell'Academia è rappresentato dalla persistenza dei metodi della dialettica, i quali<br />

sarebbero stati codificati sistematicamente dai primi successori di Platone, come ha fatto<br />

ad esempio Aristotele nei Topici; gli stessi strumenti dialettici sarebbero stati inoltre<br />

assimilati e impiegati con grande talento da Arcesilao per la confutazione dello stoicismo<br />

di Zenone di Cizio 14 . L'ipotesi di Krämer si avvale inoltre di un'interpretazione del motto<br />

polemoniano, - lo stesso che sembrava invece permettere a Zeller di avvicinare la figura di<br />

Polemone al cinismo (v. nota 9) - per dare sostegno all'idea di una formalizzazione della<br />

dialettica da parte dei primi successori di Platone : nel noto passo di Diogene Laerzio (IV,<br />

18 : « ἔφασκε δὲ ὁ Πολέμων δεῖν ἐν τοῖς πράγμασι γυμνάζεσθαι καὶ μὴ ἐν τοῖς<br />

διαλεκτικοῖς θεωρήμασι », v. T. 2) 15 Krämer non vi legge infatti un'opposizione semplice<br />

tra theoria (in questo contesto 'teoria dialettica', quindi 'logica') e praxis (azione), quanto<br />

piuttosto l'articolazione dinamica del rapporto tra teoria etica e prassi etica, dove per teoria<br />

etica si deve intendere la dialettica dell'interrogazione intorno ad un tema, una 'ginnastica'<br />

dell'interrogazione (ἐρώτησις), con le sue regole precisamente definite 16 , in cui le<br />

questioni etiche vengono affrontate per tipologie di 'problemi', ovvero da un punto di vista<br />

formale 17 . Polemone avrebbe dunque reagito contro una tendenza al formalismo dialettico<br />

interna alla scuola academica. La particolarità di questa lettura sta nel considerare il motto<br />

polemoniano, non come una semplice ripresa della posizione già socratica sulla necessaria<br />

coerenza tra pensiero e azione, ma come una sua puntuale applicazione nella definizione<br />

dell'attività filosofica. Tuttavia, per quanto la lettura di Krämer del motto polemoniano<br />

13 Krämer (1971).<br />

14 v. Lévy (1992), pp. 20-22, dove di discute l'ipotesi di Krämer in relazione ai rapporti di Arcesilao con il pensiero di<br />

Platone.<br />

15 T. 1 = D.L. IV, 18; PHerc. 1021 e 164 : Acad. hist. col XIV 3 sqq.<br />

16 Arist., Top.: 104 b 1.<br />

17 Krämer (1971), p. 33-34. Krämer (1983), p. 155, nel commentare il medesimo passo aggiunge un riferimento alla<br />

filosofia cinica di Antistene come presentata in DL VI, 11: « τήν τ' ἀρετὴν τῶν ἔργων εἶναι, μήτε λόγων πλείστων<br />

δεομένην μήτε μαθημάτων»<br />

iv


possa essere considerata sostanzialmente corretta, il rifiuto del formalismo dialettico,<br />

coltivato indipendentemente dall'applicazione pratica dei suoi risultati, potrebbe alludere<br />

ad una polemica non necessariamente interna alla scuola academica. Come già ricordato, è<br />

il nome di Aristotele ad essere generalmente associato a una codificazione delle regole<br />

formali della dialettica; inoltre, nel contesto culturale greco tra IV e III secolo, la scuola<br />

megarica era famosa per le sue sofisticate competenze dialettiche: Diodoro Crono<br />

ricevette il soprannome de 'il dialettico' e, per quanto ci è dato di ricostruire dalle fonti,<br />

approfondì il potenziale dialettico del paradosso, attraverso l'uso del sorite e di altre<br />

strategie argomentative pensate per ridurre la posizione dell'avversario ad una<br />

contraddizione 18 . Vista dunque la vivacità dialettica del contesto filosofico al quale<br />

Polemone appartiene, il suo motto non può essere posto a colpo sicuro in relazione a un<br />

dibattito esclusivamente interno alla scuola, più di quanto non possa essere letto in<br />

relazione ad un giudizio più ampio sull'attività delle altre scuole filosofiche. Nell'ambito<br />

della presente ricerca il motto polemoniano verrà studiato in relazione al testo che lo<br />

contiene, ossia in relazione al resoconto biografico e alle sue dinamiche di costituzione. Il<br />

tema della coerenza tra il pensiero del filosofo e la sua attitudine concreta è infatti uno<br />

degli elementi ricorrenti nei resoconti biografici del periodo ellenistico e come tale diventa<br />

un indizio sul tipo di relazione intrattenuta da Polemone con il suo contesto culturale<br />

d'appartenenza.<br />

La volontà e l’esigenza storica di approfondire la nostra conoscenza dei personaggi di tale<br />

contesto ha portato da una parte a stabilire i confini delle prove testuali a nostra<br />

disposizione attraverso raccolte filologicamente accurate dei frammenti 19 e dall’altra allo<br />

sviluppo in molteplici direzioni di una prospettiva critica approfondita sui rapporti tra le<br />

dottrine di Platone e i suoi primi successori. Harold Cherniss con un breve e densisissimo<br />

scritto che riporta il testo di tre lezioni tenute a Berkeley già nell’aprile del 1942 20 , passa in<br />

rassegna i materiali testuali riguardanti la prima generazione di discepoli o associati di<br />

Platone, lasciando in conclusione uno spazio molto esiguo alla possibile influenza di<br />

dottrine esposte solo oralmente, per la ricezione e interpretazione del pensiero del maestro<br />

da parte di Speusippo, Senocrate e Aristotele, e sottolineando invece con forza l’effetto di<br />

distorsione che anche le letture dei discepoli più prossimi procurarono a tale pensiero.<br />

18 v. Sedley (1979), pp. 74-120.<br />

19 v. Isnardi Parente (1980); Isnardi Parente (1982); Taràn (1981).<br />

20 Cherniss (1945).<br />

v


L’analisi puntuale del metodo polemico di Aristotele e la riscontrata propensione di<br />

quest’ultimo per una trattazione congiunta di dottrine tra loro teoreticamente divergenti<br />

inducono Cherniss a rifiutare l’idea di una piena attendibilità delle testimonianze<br />

aristoteliche sulle dottrine (scritte o non scritte) di Platone 21 . Nondimeno le posizioni<br />

filosofiche difese da Speusippo e Senocrate rivelerebbero un’originalità di pensiero e<br />

rielaborazione dei principi dottrinali platonici, che non necessita tuttavia di postulare altre<br />

fonti del pensiero del maestro diverse dai dialoghi a nostra disposizione 22 .<br />

Uno dei grandi meriti di tali considerazioni è stato quello di ravvivare l’interesse per lo<br />

statuto filosofico e istituzionale dell’Academia antica e portare l’attenzione degli studiosi<br />

sui numerosi dibattiti che animavano le scuole filosofiche ateniesi dopo la morte di<br />

Platone. Cherniss propone inoltre di considerare la pratica di insegnamento di Platone<br />

all’interno della sua scuola come non paragonabile alla moderna attività academica per la<br />

trasmissione delle conoscenze, in qualunque accezione essa venga intesa, ma piuttosto<br />

come l’attività di una stimata guida filosofica per la formulazione di questioni teoretiche,<br />

interessata maggiormente a fornire un criticismo metodologico, piuttosto che a richiedere<br />

un’adesione dogmatica alle proprie dottrine 23 .<br />

Questo tipo di approccio alla storia dell'Academia sembra tuttavia essere in contraddizione<br />

con quanto emerge invece dalla letteratura 'dossografica', in base alla quale la critica è<br />

portata a pensare che dopo la morte del suo fondatore la scuola abbia subito una certa<br />

trasformazione, perlomeno in ciò che concerne il ruolo e l’attitudine degli scolarchi. È<br />

un'idea generalmente diffusa che il pensiero di Platone abbia esercitato un'influenza<br />

'autoritativa' sulle riflessioni dei suoi primi successori alla guida della scuola e che questi<br />

ultimi abbiano concepito il loro ruolo di scolarchi come custodi della dottrina del maestro.<br />

Questa è del resto l'immagine della prima fase della storia dell'Academia che alcune<br />

testimonianze sul pensiero di Polemone contenute nel testo di Cicerone (v. Leg. I, 37 = T.<br />

37; Ac.libri I, 34-35 = T. 41) tendono a veicolare; l'intenzione di questo tipo di<br />

testimonianze è chiaramente quella di tracciare una distinzione netta tra una prima fase<br />

21 Ivi, p. 51 : « This is Aristotle’s invariable procedure : to recast into the terms of his own philosophy the statements of<br />

other philosophers and then to treat as their “real meaning” the implications of the statements thus translated. »<br />

22 Ivi, p. 59 : « So the Plato reflected with different distorsions in the criticism of Aristotle and the heterodox systems<br />

of Speusippus and Xenocrates is not a hypothetical Plato of lecture platform or seminar, but the Plato of the<br />

dialogues still extant in their entirety. »<br />

23 Ivi, p.65 : « If the account of Eudemus as reported by Simplicius is accurate, Plato’s role appears to have been not<br />

that of a “ master” or even of a seminar director distributing subjects for research reports or prize essays, but of an<br />

individual thinker whose insights and skill in the formulation of a problem enables him to offer general advice and<br />

methodical criticism to other individual thinkers who respect his wisdom and who may be dominated by his<br />

personality but who consider themselves at least as competent as they consider him in dealing with the details of<br />

special subjects. »<br />

vi


della storia dell'Academia, presentata come fedele al pensiero di Platone, ed una seconda<br />

fase della medesima tradizione, in cui invece l'attitudine di Arcesilao, oggi comunemente<br />

etichettata come 'scettica', avrebbe determinato una rottura e una deviazione all'interno<br />

della genuina tradizione platonica. Per quanto tuttavia l'uso di aggettivi come 'dogmatico'<br />

o 'scettico' risenta dei limiti interpretativi di ogni retroproiezione storica 24 , è legittimo<br />

domandarsi fino a che punto si possano determinare le caratteristiche specifiche della fase<br />

più antica di trasmissione del pensiero di Platone 25 .<br />

Si consideri a titolo d’esempio che una delle opere dell’academico Crantore, discepolo di<br />

Polemone, di cui ci è giunta notizia è un commentario al Timeo di Platone dove secondo le<br />

testimonianze di Proclo e Plutarco 26 l’autore proponeva precisi criteri interpretativi<br />

dell’opera, forse anche in polemica con Aristotele e la sua interpretazione letterale di tale<br />

testo, dando così avvio ad una tradizione lunghissima di esegesi del testo platonico. Se<br />

dunque l’autonomia ermeneutica potrebbe essere stata una caratteristica costante<br />

nell’attività dei membri dell’Academia, è anche vero che il riferimento alle opere del<br />

fondatore della scuola e una dichiarata fedeltà al loro significato più profondo sembrano<br />

acquistare velocemente una grande importanza, tanto da indurre gli studiosi a considerare<br />

il pensiero dei primi scolarchi nell’ottica di un processo di consolidamento dottrinale e di<br />

uno sforzo per fornire una versione sistematica e coerente delle dottrine platoniche 27 , come<br />

un ausilio dunque al pensiero del maestro. Margherita Isnardi Parente afferma nella sua<br />

interpretazione dei frammenti di Senocrate che il compito prefissatosi da questo scolarca è<br />

quello di recare alla filosofia platonica un giustificazione () completa e, a questo<br />

scopo, egli si sarebbe dedicato a un grande lavoro di revisione esegetica 28 .<br />

24 L'uso di entrambi gli aggettivi, 'scettico' e 'dogmatico', risponde alle esigenze esplicative moderne e contemporanee.<br />

Tuttavia non è in questi termini che la questione veniva discussa dagli antichi. La differenza tra una prospettiva che<br />

oggi chiameremmo 'dogmatica' e una che chiameremmo 'scettica' appare dalle divergenti risposte date ad<br />

interrogativi del tipo: in che misura è possibile per l'uomo accedere alla conoscenza del vero? Esistono nozioni certe<br />

ed evidenti? Platone ha sostenuto delle dottrine come certe? Qual'è il metodo da applicarsi nel progresso delle<br />

conoscenze? Si noti che all'interno delle posizioni comunemente etichettate in modo uniforme come 'scettiche' sono<br />

reperibili diversi orientamenti: solo all'interno della tradizione academica sembrerebbe esserci una considerevole<br />

differenza tra l'epoché peri pantwn, a cui Arcesilao sembrerebbe essersi attenuto, l'articolazione dell'epoché con un<br />

criterio di verosomiglianza per l'orientamento dell'azione pratica nella posizione di Carneade, e l'adozione da parte<br />

di Filone di Larissa dell'idea che le cose sono per natura conoscibili anche se non in virtù di una relazione immediata<br />

dell'uomo rispetto alla natura come volevano gli stoici, v. Lévy (2008a).<br />

25 v. il quadro critico-metodologico delineato da Isnardi-Parente (1986), pp. 359-376.<br />

26 Proclus, in Tim., I 76.1-2 ; 277.8 -10, v. Tarrant (2007), vol. I, book I : Proclus on the Socratic State and Atlantis;<br />

Plutarchus, Mor. 1012f-1013a : / De animae procreatione in Timaeo, v. C. Hubert,<br />

H. Drexler (eds.), Plutarchus, Moralia, vol. VI, fasc. 1, Teubner, Lipsia 1959.<br />

27 v. Krämer (1983), p. 9-11, dove si parla di una theologische Systematik, sviluppata a partire dal Timeo, e di una<br />

progressiva sistematizzazione in ambito epistemologico e etico. Cfr. le caute osservazioni di Tarrant (2000), pp. 21-<br />

22.<br />

28 Isnardi Parente (1982), pp. 36-37. Nell'articolo preliminare alla comparsa dell'edizione dei frammenti di Senocrate,<br />

Isnardi Parente (1981), p. 134-135, notava come il tema della fedeltà di Senocrate agli insegnamenti di Platone fosse<br />

un cliché della letteratura biografica fino all'epoca di Proclo, da leggersi come speculare rispetto alla presentazione<br />

vii


Come Polemone poi si inserisca in questa tradizione è difficile dirlo. Le fonti a nostra<br />

disposizione non ci permettono a colpo sicuro di inserirlo nel contesto di questo ampio<br />

dibattito sull’interpretazione delle dottrine platoniche; il già citato passo di Diogene<br />

Laerzio 29 allora viene talvolta impiegato per affermare che Polemone preferì esercitarsi<br />

nelle azioni pratiche piuttosto che nelle questioni teoriche 30 . Per questa ragione John<br />

Dillon in The Heirs of Plato fa di Polemone un ‘champion of ethical praxis’ 31 e asserisce<br />

che ci si potrebbe ragionevolmente aspettare da un uomo dello stampo di Polemone una<br />

certa ‘impazienza’ per quanto concerne lo sviluppo di intricate posizioni dottrinali; questo<br />

sarebbe dunque il motivo, continua Dillon, per il quale non troviamo il nome di Polemone<br />

associato a nessuno speciale contributo nel campo della logica o della fisica (nonostante si<br />

possa esprimere qualche riserva per quanto riguarda quest’ultimo campo) 32 . Una certa<br />

importanza può essere attribuita a questo scolarca invece nel campo dell’indagine sui<br />

principi dell’etica e, sottolinea Dillon, si potrebbe discutere in questo contesto dell’origine<br />

della nota teoria stoica del fine ultimo () della vita umana come vivere in accordo<br />

con la natura () 33 . Le conclusioni a cui lo studioso<br />

irlandese perviene infine suggeriscono che, per quanto non sembri possibile distinguere<br />

nettamente tra loro le posizioni sull’etica di Senocrate e Polemone, quest’ultimo potrebbe<br />

effettivamente aver costituito lo stimolo per la formulazione da parte di Zenone della sua<br />

peculiare dottrina morale. Il più grande contributo di Polemone dunque sarebbe<br />

presumibilmente da ricercarsi proprio nell’ambito dell’etica e Dillon lo descrive nei<br />

termini di un ‘incremento d’austerità’ nella dottrina dell’Academia, che anticiperebbe in<br />

modo significativo quello di Zenone e dei suoi successori 34 . Ancora più complessa ed<br />

insicura sarebbe la valutazione della dottrina abbracciata da Polemone nell’ambito della<br />

fisica o cosmologia. Il suggestivo frammento dei Placita di Aezio conservato da Stobeo, in<br />

invece di Aristotele come in opposizione rispetto agli insegnamenti di Platone.<br />

29 T. 1: D.L. IV 18-19 ; PHerc. 1021 e 164 : Acad. hist. col XIV 3 sqq.<br />

30 v. Von Fritz (1952), col. 2526, 10-21.<br />

31 Dillon (2003), pp. 156-176.<br />

32 Si noti che un rifiuto esplicito delle indagini fisiche e logiche coincide con uno degli esiti del pensiero cinico, v. DL<br />

VI, 103.<br />

33 Ivi, p.160. Cf. SVF I 179 : D.L VII 87 :<br />

« <br />

» e Stobaeus, Ecl. II 75 :<br />

« o<br />

» cfr. Cic., Fin. IV 14 ; III 21.<br />

34 Ivi, p. 166.<br />

viii


cui si dice che Polemone dichiarava il mondo essere (un) Dio 35 , spinge Dillon a equiparare<br />

la posizione di Polemone con quella di altri academici, come ad esempio Filippo di<br />

Opunte, e con la tendenza ad affermare che la divinità coincide con l’Anima del mondo,<br />

entità perfettamente immateriale, per quanto composta di fuoco purissimo, e non<br />

trascendente. Ci si potrebbe dunque domandare se sia possibile anche in questo contesto<br />

intravedere un’anticipazione di dottrine stoiche, quali la caratterizzazione della divinità<br />

come fuoco (u£/) 36 , il principio di immanenza del divino nel cosmo e, a partire<br />

dai resoconti ciceroniani sul pensiero cosmologico dell’Academia antica 37 , anche la coppia<br />

principio attivo - principio passivo caratteristica del pensiero stoico 38 . Numerosi problemi<br />

tuttavia devono essere affrontati prima di poter ascrivere in modo veramente persuasivo i<br />

resoconti ciceroniani delle posizioni dell'Academia antica al pensiero genuino di<br />

Polemone. L’esegesi dei testi filosofici di Cicerone è in ultima istanza il terreno<br />

potenzialmente più fecondo per ricavare un certo numero di testimonianze sulle posizioni<br />

dottrinali del terzo scolarca, tuttavia è doveroso considerare che ciò è reso problematico,<br />

in particolare, dall’influenza su tali testi di Antioco d’Ascalona, controversa personalità<br />

filosofica del I secolo a.C., la cui operazione storiografica di recupero del pensiero della<br />

prima Academia ha destato giudizi contrastanti nella critica sia antica che moderna. Una<br />

valutazione attenta di tale influenza si rivela dunque cruciale allo scopo di una ricerca che<br />

ha come oggetto Polemone. Se si ammette una certa affidabilità di fondo nei resoconti<br />

offerti da Antioco sulle dottrine degli antichi, come fanno John Dillon e David Sedley 39 ,<br />

sulla base dell’idea che presentare ai propri contemporanei un totale falso storico sarebbe<br />

stato controproducente per Antioco stesso, è possibile ipotizzare che alcune delle posizioni<br />

derivate dall'ermeneutica filosofica di Antioco prendano direttamente ispirazione dalle<br />

riflessioni filosofiche di Polemone. Senza pretendere di dissipare interamente le ombre<br />

intorno a questo personaggio, Dillon afferma infine con una certa sicurezza che Polemone<br />

(forse semplicemente sulla scia del maestro Senocrate) deve aver sufficientemente colpito<br />

Zenone di Cizio e, molto dopo, Antioco d’Ascalona, da poter esser considerato non solo<br />

come colui che fa da ponte tra il platonismo e lo stoicismo, ma anche come un elemento<br />

35 Aetius, Placita, apud Stobaeus, Eclogae I 1, 29b : « »= T. 62 (Polemo<br />

dixit)<br />

36 v. SVF I 120 = Stobaeus, Ecl. I 25, 3 ; SVF II 774 = D.L. VII 156. Cfr. SVF I 157 = Aetius I 7, 23 : «<br />

(scil.)».<br />

37 v. Cic., Ac. libri I, 24-29.<br />

38 Dillon (2003), p. 168-170.<br />

39 Sedley (2002).<br />

ix


chiave per il rifiorire del platonismo dogmatico nel I secolo a.C 40 .<br />

Fornito un quadro di riferimento, per quanto approssimativo, degli studi concernenti<br />

l’Academia antica e in particolare la figura di Polemone, risulta ormai chiaro quali<br />

considerevoli difficoltà interpretative derivino dalla stato frammentario e eterogeneo delle<br />

testimonianze antiche arrivate fino a giorni nostri 41 . Abbiamo visto come la stessa<br />

testimonianza possa venir impiegata per costruire immagini tra loro divergenti<br />

dell'attitudine filosofica di Polemone: influenzato dal cinismo, oppure interessato al<br />

rapporto tra interrogazione dialettica e applicazione pratica, o anche indifferente alle<br />

puntigliosità della dottrina e campione di prassi etica, Polemone potrebbe essere le tre cose<br />

insieme o anche nessuna. Il contorno della figura di Polemone si fa ancora più incerto<br />

quando si considera che l'unica possibilità di recuperare alcuni aspetti dell'articolazione<br />

del suo pensiero dipende dalla nostra comprensione del suo ruolo all'interno della<br />

complessa impresa filosofica di Antioco d'Ascalona: si noti che il contributo di Antioco<br />

alla tradizione del platonismo è stato considerato altenativamente come la tappa<br />

fondamentale di preparazione del medio- e neo-platonismo, o come un'operazione<br />

sincretica di combinazione del pensiero stoico, academico e peripatetico, o anche come<br />

una sorte di frode filosofica, per cui la selezione arbitraria di elementi dottrinali da varie<br />

scuole di pensiero renderebbe la sua proposta filosofica del tutto inattendibile. Il pensiero<br />

di Polemone potrebbe allora esser stato impiegato fedelmente nell'ambito di un recupero<br />

della tradizione 'dogmatica', oppure potrebbe esser stato piegato alla fusione sincretica di<br />

una molteplicità di tradizioni, oppure potrebbe anche esser stato abusivamente impiegato<br />

in modo del tutto strumentale. Se si può escludere il terzo scenario, anche solo per<br />

'principio speranza', rimane tuttavia notevole la discrepanza tra i primi due: nel primo caso<br />

sarebbe infatti possibile considerare il terzo scolarca come una figura assolutamente<br />

cruciale nella mediazione dottrinale tra la filosofia academica e lo stoicismo, nel secondo<br />

caso invece il pensiero di Polemone risulterebbe oggi accessibile quasi quanto uno degli<br />

ingredienti di una torta all' uscita dal forno.<br />

Marcello Gigante tra il 1976 e il 1978 42 ha pubblicato 140 frammenti su Polemone,<br />

riunendo così la maggior parte delle prove testuali e organizzandole per sezioni tematiche<br />

40 Dillon (2003), p. 175-176.<br />

41 Si noti che recentemente Harold Tarrant ha parlato di Polemone nei termini di « something of a mystery who has<br />

left us few fragments with any philosophical meat in them », v. Tarrant (2007), p. 27.<br />

42 Gigante (1977) ; Gigante (1978), p. 395.<br />

x


sulla base del contenuto generale delle testimonianze. L'edizione dei frammenti è<br />

accompagnata da una breve introduzione, ma è sprovvista di un commentario. Lo scopo<br />

principale di questa ricerca è allora quello di aumentare la fruibilità delle testimonianze,<br />

studiandone il contesto di provenienza e procedendo in direzione di una valutazione<br />

comparativa del loro valore. Si tratterà di compiere un lavoro di tipo archeologico nel<br />

contenuto delle fonti, per portare alla luce le dinamiche di formazione di alcuni tratti della<br />

tradizione e la loro capacità di veicolare una testimonianza di tipo storico-filosofico. Una<br />

particolare importanza viene accordata alle testimonianze provenienti da contesti di tipo<br />

filosofico, affinché dalla lettura complessiva del lavoro possa emergere un'immagine<br />

generalmente meno idiosincratica della posizione di Polemone all'interno della tradizione<br />

platonica. Le testimonianze vengono dunque preliminarmente raggruppate in quattro<br />

diverse categorie in base a differenze di tipo contenutistico: I - i resoconti biografici<br />

(Testimonia biographica); le testimonianze sullo scolarcato di Polemone e la storia<br />

dell'Academia (Testimonia de Polemone scholarca et historia Academiae); le<br />

testimonianze filosofiche (Testimonia philosophica); infine, le rare testimonianze che si<br />

presentano come citazioni letterali di un discorso diretto attribuito a Polemone,<br />

sinteticamente etichettate come « Polemo dixit ».<br />

Ogni categoria di testimonianza viene studiata in modo differente, cercando di calibrare la<br />

metodologia d'approccio in base alla tipologia del testo. Poiché lo scopo della ricerca è<br />

quello di studiare gli impieghi del nome di Polemone all'interno delle fonti e di mettere in<br />

risalto le dinamiche di interferenza retorico-letteraria, o di costruzione filosofica, o anche<br />

di riduzione dossografica, che determinano le varie modalità d'impiego del nome dello<br />

scolarca, si è tentato di adattare gli strumenti d'analisi alle diverse problematiche sollevate<br />

dai vari tipo di testo:<br />

- I resoconti biografici vengono studiati in modo da fornire una visione d'insieme della<br />

tradizione che, a partire dal bios redatto all'origine da Antigono di Caristo, ha prodotto i<br />

vari 'racconti della conversione' di Polemone. Si sceglie deliberatamente di presentare i<br />

testi dei bioi solo per intero e non prima per intero e poi frantumati in più porzioni di<br />

informazione, come invece accade nella raccolta di Gigante. Il numero complessivo dei<br />

frammenti risulta in questo modo considerevolmente ridotto. Alcune delle caratteristiche<br />

del testo del biografo Antigono di Caristo vengono congetturalmente dedotte dalle due<br />

versioni di Filodemo di Gadara e Diogene Laerzio dei medesimi resoconti biografici. A<br />

partire da questa ipotetica ricostruzione si è cercato di analizzare gli elementi specifici dei<br />

bioi dei filosofi academici, con particolare attenzione per quello di Polemone, considerati<br />

xi


sia di per sé, sia comparativamente in relazione agli altri resoconti biografici di origine<br />

antiogonea a noi pervenuti. La figura di Polemone viene allora letta all'interno di un<br />

congetturale gioco di immagini riflesse, che chiama in causa anche la figura di Pirrone di<br />

Elide e quella di Zenone di Cizio.<br />

- Le testimonianze sullo scolarcato e sulla storia dell'Academia ricevono invece un<br />

trattamento più scarno: corredate di una traduzione e di poche note di riferimento, il lavoro<br />

non aspira a dare un contributo veramente rilevante alla ricerca specialistica su questo tipo<br />

di testi.<br />

- Il focus principale del lavoro si manifesta invece nelle testimonianze filosofiche,<br />

composte prevalentemente da una serie di estratti delle opere filosofiche di Cicerone,<br />

affiancati da due testi di Plutarco, da una testimonianza di Clemente Alessandrino e da una<br />

di Agostino di Ippona. I testi sono in questo caso corredati da un commentario organizzato<br />

in tre sezioni (analisi del contesto; commentario analitico (A); commentario sintetico (B)),<br />

al fine di presentare estensivamente i risultati delle indagini lessicali, filosofiche e<br />

filologiche che si è ritenuto opportuno fare sul testo. Non si tratta tuttavia di un<br />

commentario funzionale solo alla comprensione del testo di Cicerone o di Plutarco o di<br />

Clemente Alessandrino; si tratta piuttosto di un commentario di inquadramento della<br />

testimonianza sul pensiero di Polemone, sensibile sopratutto alle modalità d'impiego, più o<br />

meno strumentale, polemico o dialetticamente orientato, del nome del terzo scolarca in un<br />

contesto filosofico. In particolare, il lavoro di commentario sulle testimonianze<br />

ciceroniane si interessa prevalentemente al lessico e alle espressioni linguistiche del<br />

repertorio ciceroniano, considerandone dove possibile la derivazione da un lessico<br />

filosofico di matrice greca, che Cicerone si incarica esplicitamente di rendere accessibile<br />

in lingua latina. Affinché le implicazioni filosofiche e la coerenza delle scelte lessicali<br />

ciceroniane risaltino agli occhi del lettore, si cerca di fornire quanti più paralleli testuali<br />

all'interno dell'opera ciceroniana e nelle altre fonti a nostra disposizione. L'uso di<br />

determinate strategie argomentative viene inoltre contestualizzato all'interno dell'attività<br />

filosofica del suo autore, di modo che il lettore possa ottenere un quadro generale<br />

dell'arsenale argomentativo delle varie personalità coinvolte nella costruzione del testo<br />

ciceroniano. All'interno del commentario vengono infine forniti i riferimenti ai dibattiti<br />

portati avanti dalla critica moderna a proposito dei testi considerati.<br />

– Le testimonianze della categoria « Polemo dixit », vengono corredate di riferimenti utili<br />

all'interpretazione, senza voler indulgere alla tentazione di collocarli all'interno di una<br />

presentazione sistematica del pensiero di Polemone.<br />

xii


Nel complesso la struttura del lavoro manca probabilmente di omogeneità: nè la forma, nè<br />

il metodo sono gli stessi dall'inizio alla fine. Tuttavia si è preferito rendere visibile la<br />

molteplicità di approcci sperimentati durante la ricerca, piuttosto che fornire l'illusione di<br />

un esposizione continua e uniforme. La speranza è che questa scelta risulti giustificata dal<br />

trovare la specificità di ogni testo messa in risalto e dunque la fruibilità delle<br />

testimonianze complessivamente aumentata. Questa introduzione intende inoltre<br />

ricapitolare le premesse, le procedure e i risultati delle analisi condotte sui frammenti, al<br />

fine di fornire un orientamento complessivo nei materiali che il resto del lavoro intende<br />

mettere a disposizione.<br />

I resoconti biografici<br />

Le testimonianze sulla vita di Polemone sono state riunite e studiate nell'ambito di questa<br />

ricerca, lasciando preliminarmente da parte ogni velleità di estrazione di elementi di tipo<br />

filosofico-dottrinale. Il resoconto biografico infatti non sembra presentarsi primariamente<br />

come il veicolo dell'istanza filosofica di un autore, quanto piuttosto come l'immagine della<br />

sua coerenza in quanto personaggio pubblico 'esemplare'. Il che non significa del resto che<br />

il resoconto biografico non possa incidentalmente veicolare elementi filosofici, riadattati<br />

alle esigenze narrative. A partire dal testo di Filodemo di Gadara e di Diogene Laerzio è<br />

possibile ricostruire le linee portanti dei bioi redatti da Antigono di Caristo su Polemone e<br />

gli altri filosofi academici, la cui relativa vicinanza storica al contesto narrato li rende una<br />

testimonianza di prim'ordine. Inoltre da uno studio complessivo dei frammenti superstiti<br />

dei resoconti biografici di Antigono si delineano le caratteristiche ricorrenti della<br />

narrazione: quali tematiche vengono preferite nella costruzione del bios antigoneo e quali<br />

sono le relazioni possibili tra i vari resoconti. Risulta confermata l'ipotesi secondo la quale<br />

il biografo non si sofferma sugli elementi di tipo tecnico-dottrinale della vita di un<br />

filosofo, quanto invece si sforza di cogliere tutti i momenti di interazione pubblica tra il<br />

filosofo e la collettività. La varietà di aneddoti illustrativi dell'attitudine filosofica del<br />

personaggio ritrae generalmente una situazione in cui il filosofo è esposto allo sguardo<br />

esterno dell'uomo comune: si pensi all'aneddoto su Pirrone che si rifugia sopra un albero,<br />

o alla presenza di Polemone nel teatro di Atene, o ancora ai banchetti in cui si poteva<br />

avvistare Zenone di Cizio in compagnia di Antigono Gonata. Le storie che generalmente il<br />

xiii


iografo predilige sembrano provenire da un repertorio di aneddoti di dominio pubblico, i<br />

quali contribuiscono direttamente alla formazione di un'immagine del filosofo ad uso della<br />

collettività della polis. Elementi ricorrenti della narrazione sono gli usi e i costumi della<br />

quotidianità concreta del filosofo, in particolare in relazione all' 'uso dei piaceri':<br />

all'alimentazione e al sesso. A proposito di Zenone, Antigono forniva i più minuti dettagli<br />

sulla sua dieta a base di piccoli pani e miele. A proposito di Licone peripatetico non si<br />

tralascia di dare un resoconto completo del lusso della sua mensa e della sua propensione<br />

per i banchetti. Sempre attraverso Antigono siamo informati delle preferenze sessuali di<br />

Zenone e del suo discepolo Perseo. Il resoconto biografico sorprende il fondatore dello<br />

stoicismo nei momenti più intimi e negli atteggiamenti che oggi diremmo più<br />

compromettenti. Elemento fondamentale del bios di Polemone è l'illustrazione dettagliata<br />

della sua giovinezza dissoluta, dell'intemperanza con la quale andava freneticamente alla<br />

ricerca dei servizi della prostituzione. Senza dubbio il rapporto del filosofo con le passioni<br />

e i piaceri è uno dei temi portanti nella costruzione del resoconto biografico, il quale<br />

risulta giustificato dall'intento generale soggiacente al resoconto stesso. Il rapporto con l'<br />

'uso dei piaceri' risulta infatti essere un campo di prova privilegiato rispetto al quale<br />

giudicare la coerenza tra le parole e le azioni del filosofo. Il tema della 'coerenza' del<br />

filosofo traspare da diversi luoghi dei frammenti antigonei : a proposito di Pirrone (DL IX,<br />

62) si legge che « era coerente anche nella vita », poiché il suo comportamento pratico<br />

rispecchiava la sua riflessione teorica sull'inaffidabilità dei sensi; inoltre il noto motto<br />

polemoniano (DL IV, 18) che « bisogna esercitarsi nelle azioni e non nei ragionamenti<br />

dialettici » è una diretta conseguenza del principio generale per cui non bisogna « essere in<br />

contraddizione con se stessi ». Una conferma del fatto che la collettività cittadina ricercava<br />

generalmente nella figura di un filosofo un esempio paradigmatico di coerenza<br />

comportamentale si ricava dal testo del decreto degli ateniesi in favore di Zenone,<br />

riportato da Diogene Laerzio, dove si legge « esortando alla virtù e alla temperanza i<br />

giovani che venivano a frequentarlo, (Zenone) li induceva a ciò che è moralmente<br />

migliore, fornendo a tutti con la propria vita un esempio coerente rispetto ai discorsi che<br />

svolgeva » (DL VII, 10).<br />

Posto allora che uno degli scopi soggiacenti al resoconto biografico è quello di fornire gli<br />

elementi utili per la formazione di un giudizio generale sulla coerenza della figura del<br />

filosofo, il quale risulta condiviso o condivisibile dal punto di vista della collettività con la<br />

quale il personaggio necessariamente si relaziona, è possibile affermare che gli elementi<br />

trasmessi da Diogene Laerzio e Filodemo di Gadara sul bios antigoneo di Polemone<br />

xiv


contribuiscono alla formazione di un'immagine complessivamente positiva della statura<br />

filosofica del terzo scolarca dell'Academia. L'intemperanza della giovinezza di Polemone<br />

viene presentata come una fase delimitata della sua vita, completamente superata una volta<br />

venuto in contatto con gli insegnamenti filosofici di Senocrate. Polemone viene quindi<br />

descritto come la guida di una compatta e armoniosa comunità di discepoli, la cui<br />

attitudine esemplare presenta alla collettività un modello di austerità e autocontrollo sulle<br />

proprie emozioni. La sua vita presenta un sottile compromesso tra il relativo isolamento<br />

del filosofo sul suolo dell'Academia, lontano dai disordini della vita politica della polis, e<br />

un positivo rapporto intrattenuto con la cittadinanza, per cui lo si vede partecipare ai<br />

festival teatrali e farsi carico della stima che la città gli tributa attraverso l'esemplarità<br />

della sua attitudine. Si noterà a questo proposito che uno dei vari aneddoti illustrativi<br />

dell'impassibilità di Polemone descrive la reazione del filosofo di fronte ai rivolgimenti<br />

politici nella città di Atene: « e quando ci fu un sommovimento in città, dopo essersi<br />

informato di ciò che accadeva, rimase indifferente » (DL IV, 18). Verosimilmente proprio<br />

questa sua 'nobiltà' di carattere gli garantisce la stima della collettività (v. DL IV, 19;<br />

Philod. col. XIV, 35-41).<br />

Un'analisi comparativa dei frammenti dei resoconti antigonei lascia affiorare dei rapporti<br />

di specularità e opposizione tra i vari personaggi presi in considerazione. Il peripatetico<br />

Licone viene ad esempio presentato come il sovvertitore delle tradizioni onorevoli istituite<br />

da Platone e Speusippo all'interno dell'Academia. Il suo amore per il lusso e le gioie della<br />

tavola non viene corredato da un giudizio morale, ma è verosimile che stridesse con le<br />

aspettative generali nei confronti della vita di un filosofo. Inoltre, un certo numero di<br />

corrispondenze lessicali e narrative stimola una lettura parallela dei bioi di Pirrone e<br />

Polemone da una parte e di Polemone e Zenone dall'altra. Pirrone e Polemone<br />

condividono uno stile di vita appartato, caratterizzato da fermezza e inalterabilità; ma se<br />

nel resoconto biografico di Pirrone non mancano accenni di ridicolizzazione, come<br />

quando di lui si dice che aveva bisogno di esser salvato dai discepoli per non rischiare la<br />

sua vita sotto a un carro o di fronte a un precipizio (DL IX, 62), o come quando perde la<br />

pazienza con la sorella, nel resoconto biografico di Polemone invece la dignità della figura<br />

del filosofo non risulta mai messa in discussione. La specularità dei due personaggi appare<br />

evidente nei due anedotti in cui entrambi si ritrovano a doversi confrontare con la stessa<br />

situazione paradigmatica: Pirrone inseguito da un cane si era rifugiato sopra un albero,<br />

giustificandosi con un passante con il famoso motto: « è cosa ardua trovar scampo<br />

dall'uomo » (DL IX, 66); Polemone invece attaccato anche lui da un cane al polpaccio,<br />

xv


« non impallidì neppure » (DL IV, 17; Philod., col. XII, 21-24). Se consideriamo allora che<br />

l'attitudine 'scettica' ante litteram di Pirrone sembra avere nel resoconto antigoneo dei<br />

risvolti ridicoli, ma che « (Antigono di Caristo) era solito dire che bisogna acquisire solo<br />

la disposizione d'animo (diathesis) di Pirrone » (DL IX, 64), la figura di Polemone risulta<br />

invece essere una versione perfettamente coerente dell'attitudine impassibile e ferma di<br />

Pirrone: Polemone sembrerebbe essere il vero « Pirrone », ovvero il vero maestro di<br />

coerenza tra pensiero e azione, il vero esempio di inalterabilità e saggezza. Anche tra il<br />

genere di vita di Polemone e Zenone stoico sussistono numerosi punti di contatto:<br />

entrambi vivono lontano dalla folla e in comunione con un discepolo (prediletto), ma nel<br />

caso di Zenone il non « amare la folla » si riduce a un 'fastidio' nei confronti delle altre<br />

persone, per cui il filosofo finisce per assumere comportamenti in un certo qual modo<br />

eccentrici, evitando di sedersi tra due persone, facendo in modo di non andare in giro con<br />

più di tre o quattro persone, e stabilendo un compenso per le sue lezioni al sol fine di<br />

evitare il formarsi di un gruppo numeroso (DL VII, 13-14). Il rapporto con i discepoli<br />

inoltre nel caso di Polemone viene descritto come una perfetta concordia, mentre nel caso<br />

di Zenone Antigono menziona una scenetta colorita in cui Perseo viene incoraggiato e<br />

aiutato da Zenone a portare a buon fine l'incontro con una suonatrice di flauto, insieme ad<br />

altri esempi di un approccio quantomeno brusco nel correggere i difetti dei suoi discepoli.<br />

La figura di Polemone in ultima analisi incarnerebbe in modo perfettamente coerente<br />

l'ideale stoico e pirroniano, che invece gli altri due filosofi non sembrano esser riusciti a<br />

mantenere nel concreto delle loro azioni. Polemone è più pirroniano di Pirrone e più stoico<br />

di Zenone di Cizio; o meglio, la tradizione academica, in questa prospettiva, viene<br />

presentata come già dotata di tutti quegli elementi filosofici che storicamente vengono<br />

invece considerati l'apporto specifico della filosofia stoica e pirroniana. È da segnalare qui<br />

un punto di importante convergenza tra l'intento desunto dai resoconti biografici e la<br />

posizione assunta successivamente da Antioco d'Ascalona, secondo la quale lo stoicismo<br />

sarebbe grossomodo il risultato di una mutuazione di elementi platonici dal pensiero di<br />

Polemone ad opera di Zenone di Cizio.<br />

Lo stato frammentario delle testimonianze sull'opera biografica di Antigono di Caristo e la<br />

nostra dipendenza da testimonianze indirette non ci permettono tuttavia di attribuire con<br />

certezza al biografo una specifica intenzionalità rispetto alle immagini restituite dai<br />

frammenti; esse potrebbero infatti derivare dal particolare impiego del testo da parte ad<br />

esempio di Diogene Laerzio e Filodemo di Gadara o di una fonte intermedia. Tuttavia<br />

xvi


sembra doveroso ricordare come dai resoconti biografici emerga un'immagine<br />

complessivamente benevola del gruppo dei filosofi academici: essi risultano essere un<br />

modello di concordia e coesione per la collettività e un esempio comportamentale di<br />

fermezza e coerenza per il singolo cittadino.<br />

Uno degli elementi del bios di Polemone, in particolare, ha conosciuto indipendentemente<br />

dagli altri una larga fortuna nella letteratura posteriore sia greca che latina. Il passaggio<br />

repentino del giovane Polemone da un genere di vita assolutamente dissoluto ad un genere<br />

di vita radicalmente opposto in seguito all'incontro con Senocrate è stato letto come un<br />

esempio di 'conversione' alla filosofia e riproposto in vario modo nella letteratura non solo<br />

biografica. Orazio impiega la figura di Polemone nella costruzione satirica di un<br />

argomento contro la follia amorosa. La menzione della 'conversione' di Polemone assume<br />

immediatamente una valenza ampiamente esortativa e viene integrata nel repertorio<br />

retorico delle figure del cambiamento radicale. In questa veste si ritrova tra gli exempla di<br />

Valerio Massimo, in una lettera di Frontone all'imperatore Marco Aurelio e anche nei<br />

carmina cristiani di Gregorio di Nazianzo. La 'conversione' di Polemone offre del resto un<br />

interessante spunto comico-satirico a Luciano, il quale sceglie di mettere in scena nel Bis<br />

accusatus una diatriba forense tra l'Ubriachezza e l'Academia a proposito del furto da<br />

parte della seconda del giovane Polemone. Un impiego in un contesto più propriamente<br />

filosofico della vicenda di Polemone è riscontrabile in due passaggi delle Dissertazioni di<br />

Epitteto, dove il nome di Polemone viene rifunzionalizzato a seconda del contesto come<br />

esempio di un giovinetto suscettibile di un cambiamento radicale, o di un giovinetto la cui<br />

cura per l'apparenza fisica rivela una potenziale propensione per il 'bello'.<br />

A partire dall'immagine iconica della vita dei filosofi academici restituita dai bioi<br />

antigonei è possibile inoltre cercare di arricchire di qualche elemento l'immagine storica<br />

della vita istituzionale della scuola avviata da Platone. Affrontando la spinosa questione<br />

dello statuto istituzionale dell'Academia e del ruolo ricoperto dal terzo scolarca al suo<br />

interno, il lettore viene messo di fronte alle numerose difficoltà affrontate dalla critica dal<br />

punto di vista metodologico, storico, archeologico e giuridico. Le testimonianze<br />

biografiche su Polemone permettono, all'interno di questo quadro problematico, di pensare<br />

al tempo del suo scolarcato come a un periodo di consolidamento istituzionale della vita<br />

interna alla scuola: i discepoli di Polemone inaugurano infatti una pratica di residenza più<br />

o meno stabile sul suolo del parco dell'Academia, in vicinanza dell'esedra, al fine di poter<br />

xvii


esser vicini al maestro; inoltre il gruppo più stretto di consociati composto da Polemone,<br />

Cratete, Crantore e Arcesilao sembra aver optato per una sepoltura comune, a<br />

completamento del sodalizio praticato in vita, per il volere di Polemone stesso, il quale<br />

sembra così attingere alle pratiche consolidate all'interno di altre associazioni cittadine<br />

come quella degli homotaphoi, per dare un volto immediatamente riconoscibile alle<br />

pratiche associative proprie della scuola filosofica.<br />

In relazione alle caratteristiche generali dei resoconti biografici vengono studiate anche<br />

quelle peculiari informazioni che compongono la 'rubrica letteraria' dei bioi dei filosofi<br />

academici. Nel testo di Diogene Laerzio troviamo una serie di dettagliati riferimenti ai<br />

gusti letterari di Polemone, Cratete, Crantore, Arcesilao e Menedemo : Omero viene<br />

menzionato da tutti e quattro i filosofi come autorità massima in poesia e Arcesilao sembra<br />

addirittura aver pensato il suo rapporto con il padre dell’epopea nei termini di un rapporto<br />

d’amore. Se Polemone è detto ammirare lo stile di Sofocle in opposizione a quello di<br />

Euripide, Crantore prediligeva invece quest’ultimo in ragione del suo uso poetico del<br />

linguaggio comune. La poesia di Pindaro inoltre veniva ammirata sia da Polemone sia da<br />

Arcesilao. Omero e i tragici costituiscono per i filosofi academici un riferimento culturale<br />

senza dubbio ovvio e il loro apprezzamento non sembra a prima vista poter significare<br />

niente di particolarmente originale per qualcuno che risiede nell’Atene del IV o del III<br />

secolo a.C. Tenendo tuttavia presente l’antica querelle tra filosofia e poesia e la relazione<br />

di almeno apparente conflitto nei dialoghi platonici tra la parola dei poeti e la parola del<br />

filosofo, per cui si è parlato di ‘rifiuto della poesia’ da parte di Platone, l’enfasi sugli<br />

interessi letterari del gruppo di academici diventa significativa e precisamente motivata.<br />

Nonostante le descrizioni della perfetta impassibilità di Polemone di fronte alle<br />

rappresentazioni teatrali e alla lettura dei testi poetici, non è possibile parlare nè di rifiuto<br />

nè di ostilità nei confronti della rappresentazione tragica 43 . Al contrario, il resoconto<br />

biografico di Polemone tiene a sottolineare che egli era un « ammiratore di Sofocle<br />

() e sopratutto di quei versi alla cui composizione, secondo il poeta della<br />

Commedia, “un cane molosso sembrava avesse partecipato” e di quelli che, secondo<br />

Frinico, non sono “nè edulcorati, nè mischiati, ma (hanno il sapore dell’autentico vino) di<br />

Pramno” » 44 . Polemone dunque leggeva Sofocle volentieri e ammirava in particolare certi<br />

versi che Diogene Laerzio designa facendo ricorso alle parole di altri due maestri del<br />

43 Punto di partenza teorico è qui la prospettiva adottata da Babut (1985), pp. 72-92.<br />

44 D.L. IV, 20. Cfr. Arist., Rhet. 1404 b 20-21.<br />

xviii


teatro greco. Non è facile determinare se queste fossero state selezionate già da Polemone<br />

stesso o meno; in ogni caso si nota che le due frasi fanno riferimento a una tipologia<br />

precisa di versi. Alcuni versi di Sofocle, secondo un’espressione di Aristofane, davano<br />

l’impressione che « un cane molosso » aveva preso parte alla loro composizione : ciò sta a<br />

significare che tali versi davano l’impressione di esser stati redatti con estrema attenzione<br />

e tensione morale. Parimenti, la seconda frase, presa in prestito da Frinico, presenta una<br />

similitudine tra i versi della poesia e i differenti tipi di vino, portando l’attenzione<br />

sull’antagonismo tra i versi che sono « edulcorati », mescolati ad elementi estranei alla<br />

loro natura, e quelli che invece hanno un profumo autentico, anche se forse più aspro,<br />

come il vino di Pramno. Dietro i giudizi letterari dei filosofi academici è possibile infine<br />

scorgere un principio allo stesso tempo sia etico che estetico: i versi di un poeta sembrano<br />

infatti esser giudicati in base all'effetto che essi ottengono sul lettore. Un principio di<br />

coerenza tra la parola e l'azione, del resto particolarmente rilevante nell'ambito della<br />

rappresentazione tragica, sottende agli interessi letterari del filosofo, superando i limiti di<br />

quella dicotomia netta tra poesia e filosofia, provocatoriamente delineata in alcuni testi<br />

platonici.<br />

Le testimonianze filosofiche<br />

Cicerone afferma esplicitamente che le opere filosofiche di Polemone furono studiate ed<br />

approvate da Antioco d'Ascalona (Luc. 131-132 = T. 39). Negli anni '50 del I secolo a.C.<br />

Cicerone faceva infatti riferimento agli insegnamenti appresi 40 anni prima da Antioco a<br />

proposito del pensiero del filosofo academico vissuto tra IV e III secolo a.C. La distanza<br />

temporale dell'autore dai fatti narrati è dunque doppia: attingendo nell'ultima parte della<br />

sua vita ai ricordi della sua formazione filosofica, Cicerone recupera la menzione di uno<br />

dei suoi maestri ad una fase molto più antica del dibattito filosofico. Cicerone era dunque<br />

a conoscenza dell'impiego del pensiero di Polemone da parte di Antioco, ma non vi sono<br />

indizi che il suo rapporto con il terzo scolarca si spinga oltre: niente lascia credere infatti<br />

che Cicerone avesse potuto o voluto consultare direttamente le già menzionate opere di<br />

Polemone, il cui contenuto non viene mai preso in considerazione autonomamente o, se lo<br />

è, l'assenza di un riferimento esplicito rende per noi praticamente impossibile reperirne a<br />

colpo sicuro la presenza. Non è possibile nemmeno escludere categoricamente che<br />

xix


Cicerone avesse accesso ai testi degli academici antichi 45 o che la sua conoscenza delle<br />

loro posizioni fosse interamente filtrata dagli insegnamenti di Antioco. La ricerca sulle<br />

testimonianze filosofiche prende dunque le mosse da uno studio dei pattern di citazione<br />

del nome di Polemone, combinato con uno studio della ricezione delle tattiche<br />

argomentative antiochee all'interno dei testi filosofici di Cicerone, al fine di poter<br />

inquadrare come maggior precisione la questione del rapporto dell'autore rispetto al<br />

contenuto della testimonianza che fornisce.<br />

Un primo stereotipo di citazione risulta immediatamente reperibile: il nome del terzo<br />

scolarca ricorre nel corpus filosofico ciceroniano prima di tutto come icona della<br />

tradizione vetero academica, spesso in associazione con i nomi degli altri esponenti della<br />

filosofia academico-peripatetica, chiamata a rappresentare la prima fase di ricezione del<br />

pensiero platonico. Il rinnovo di un'attenzione rivolta alla tradizione vetero-academica, in<br />

aperta opposizione rispetto alla fase storica dominata dall'interpretazione 'scettica' e<br />

inaugurata da Arcesilao, è il marchio dell'operazione storiografica di Antioco, all'interno<br />

della quale tuttavia la storia della tradizione è già evidentemente una diretta espressione di<br />

una dinamica di interpretazione del 'vero' significato del platonismo. La storiografia<br />

antiochea della tradizione platonica non è dunque un resoconto puramente storico, nel<br />

senso della storia di una serie di avvenimenti che si riallaccia in modo più o meno diretto a<br />

una testimonianza di tipo oculare, quanto piuttosto una riscrittura polemica e<br />

filosoficamente orientata dei rapporti interni di una tradizione condivisa; non è esagerato<br />

infatti dire che i resoconti storiografici antiochei sono innanzitutto uno strumento<br />

dell'interpretazione, impiegati per corroborare l'interpretazione 'dogmatica' dell'identità<br />

platonica. Uno studio di queste testimonianze implica dunque uno studio della modalità di<br />

presentazione ciceroniana dell'operazione filosofica di Antioco d'Ascalona. I testi di<br />

Cicerone sono del resto la principale fonte a nostra disposizione sulla figura di Antioco e<br />

sulla sua proposta filosofica 46 , il che complica enormemente la possibilità di distinguere<br />

all'interno del testo ciceroniano quali elementi dipendano direttamente dal pensiero di<br />

Antioco e quali elementi invece derivino dall'interferenza della prospettiva adottata da<br />

Cicerone stesso su tale pensiero. Dipendiamo dunque doppiamente dal testo ciceroniano<br />

per reperire i criteri di inquadramento del doppio processo di assimilazione e ricostruzione<br />

45 Cicerone non menziona esplicitamente nessuno dei titoli delle opere nè di Speusippo, nè di Senocrate, nè di<br />

Polemone, ma dimostra di essere a conoscenza del testo della Consolatio di Crantore, v. Luc. 135; Tusc. I, 115; III,<br />

12.<br />

46 Una raccolta delle testimonianze è disponibile in Mette (1987), pp. 25-63. Un'altra importante testimonianza sul<br />

discorso etico di Antioco si trova nel testo del libro XIX del De civitate Dei di Agostino, il quale dichiara di rifarsi al<br />

testo del De philosophia di Varrone, che a sua volta avrebbe accolto le posizioni di Antioco.<br />

xx


che ha come risultato la presenza del nome di Polemone all'interno del corpus ciceroniano:<br />

sempre e solo all'interno del testo di Cicerone si possono cercare le componenti della<br />

descrizione del ruolo di Polemone all'interno dell'operazione storiografica di Antioco e le<br />

ragioni stesse di tale operazione, non prima però di aver chiarito quale rapporto sussista tra<br />

Cicerone e le informazioni trasmesse dal suo testo, ovvero quale rapporto sussista tra<br />

Cicerone e l'operazione storiografica di Antioco che impiega il nome di Polemone.<br />

Il problema di Antioco<br />

La posizione di Cicerone rispetto ad Antioco può esser considerata quantomeno<br />

ambivalente. In numerosissime occasioni il testo ciceroniano fa riferimento alla<br />

personalità di Antioco come a quella di un grande e stimabile filosofo che ha esercitato<br />

un'influenza determinante sul contesto ateniese e romano. Si potrebbe quasi avere<br />

l'impressione che gran parte del contesto filosofico di Cicerone ruotasse intorno ad<br />

Antioco: Bruto, con il quale Cicerone dialoga non solo di arte oratoria, ma sopratutto di<br />

filosofia (v. De finibus, Tusculanae Disputationes, De natura deorum), aveva studiato con<br />

il fratello di Antioco, Aristo 47 . Molte figure importanti nella vita di Cicerone erano entrate<br />

a un certo punto a contatto con gli insegnamenti di Antioco, il generale Lucullo, che<br />

Cicerone dice di aver sostenuto politicamente affinché gli fosse tributato il trionfo, lo volle<br />

al suo seguito in Asia Minore 48 , l'amico e rivale Pisone lo ascoltò ad Atene 49 , lo stimato e<br />

temuto erudito Varrone poteva esser considerato un sostenitore della posizione di<br />

Antioco 50 ; anche Pomponio Attico, che generalmente presentava se stesso come<br />

'epicureo', avrebbe ammesso di esser stato quasi interamente convinto a passare dalla parte<br />

di Antioco 51 . Cicerone stesso, – e questo è un punto fondamentale – lo annovera tra i suoi<br />

maestri sullo stesso piano di Diodoto, Filone e Posidonio 52 , e quando Antioco era già<br />

morto, fece lo sforzo di rendere visita a suo fratello Aristo ad Atene. Non c'è modo quindi<br />

di esagerare l'importanza che l'insegnamento filosofico di Antioco ebbe nel contesto<br />

culturale-filosofico in cui visse Cicerone 53 . Tuttavia asserire l'importanza filosofica di<br />

47 v. Ac.libri I, 12.<br />

48 v. Luc. 4.<br />

49 v. Fin. V, 8; cfr. Fin. V, 14 = T. 50: Contesto.<br />

50 v. Ac.libri I, 34-35 = T. 41: Contesto.<br />

51 v. Leg. I, 54.<br />

52 v. ND I, 6.<br />

53 Cfr. Barnes (1989), pp. 61-62.<br />

xxi


Antioco non significa poter indulgere nella tentazione di far dei testi di Antioco il<br />

principale ed unico modello per la produzione filosofica ciceroniana. Sebbene Antioco<br />

venga presentato come un filosofo di grandissimo rispetto (Leg. I, 54: « A.: Ergo<br />

adsentiris Antiocho, familiari meo (magistro non audeo dicere) quocum vixi, et qui me ex<br />

nostris paene convellit hortulis deduxitque in Academiam perpauculis passibus. M.: Vir<br />

iste fuit ille quidem prudens et acutus et in suo genere perfectus mihique, ut scis,<br />

familiaris; cui tamen ego adsentiar in omnibus necne mox videro »; Brutus 315: « cum<br />

Antiocho veteris Academiae nobilissimo ac prudentissimo philosopho... »; Luc. 113 = T.<br />

38 : « Antiochus (...) qui me valde movet, vel quod amavi hominem, sicut ille, me, vel quod<br />

ita iudico, politissimum et acutissimum omnium nostrae memoriae philosophorum »;<br />

Luc. 4: “Cum autem e philosophis ingenio scientiaque putaretur Antiochus Philonis<br />

auditor excellere (...)”; Luc, 63: “nec mirum nam numquam arbitror contra Academiam<br />

dictum esse subtilius”; Luc. 69: “Quamvis igitur fuerit acutus, ut fuit, tamen inconstantia<br />

levatur auctoritas”; Fin. V, 75: “sed haec a Antiocho, familiari nostro, dicuntur multo<br />

melius et fortius quam a Stasea dicebantur”) 54 , è anche vero però che Cicerone si sforza<br />

nella sua produzione filosofica di precisare la sua distanza rispetto alle tesi di Antioco. In<br />

ambito epistemologico Cicerone contesta la retroproiezione antiochea del dogmatismo<br />

stoico sul pensiero degli antichi Academici (v. Luc. 113 = T. 38). In ambito etico invece<br />

contesta la coerenza della distinzione antiochea tra vita beata e vita beatissima, come<br />

anche il tentativo di mantenere insieme il principio dell'autarchia della virtù e la presenza<br />

di altri beni oltre alla virtù nella definizione del sommo bene (Tusc. V, 30 = T. 52). Non<br />

sembrerebbe tuttavia corretto affermare che l'attitudine filosofica di Cicerone nei confronti<br />

di Antioco è puramente critica. Esistono infatti interessanti punti di convergenza tra<br />

l'interesse di Antioco per la tradizione antica, in particolare per la possibilità di riunire su<br />

un unico fronte l'istanza academica e l'istanza peripatetica, e l'interesse di Cicerone per il<br />

patrimonio culturale che la medesima doppia tradizione mette a disposizione (v. Fin. V, 7-<br />

8 : "Ex eorum enim scriptis et institutis cum omnis doctrina liberalis, omnis historia,<br />

omnis sermo elegans sumi potest, (...). Atque ego: Scis me, inquam, istud idem sentire,<br />

Piso, sed a te opportune facta mentio est", cfr. commento a T. 49; cfr. anche Fin. IV, 4: "a<br />

veteribus Peripateticis Academicisque, qui re consentientes vocabulis differebant, eum<br />

54 Elementi ricorrenti dei giudizi di Cicerone su Antioco sono il motivo dell'amichevolezza dei rapporti: v. familiari<br />

Ac.libri I, 13; Leg. I, 54; Fin. V, 75; e le sue grandi capacità retoriche-argomentative (prudens e acutus sono<br />

aggettivi ricorrenti (cfr. piqano/n - deino/n); anche le testimonianze di Plutarco menzionano la qualità del suo<br />

parlare (Plut. Cic. 4, 1: « τῇ μὲν εὐροίᾳ τῶν λόγων αὐτοῦ καὶ τῇ χάριτι κηλούμενος »), aggiungendo anche un<br />

riferimento alle capacità retoriche e politiche di Antioco (Plut. Cic. 4.4: “αὖθις ὥσπερ ὄργανον ἐξηρτύετο τὸν<br />

ῥητορικὸν λόγον καὶ ἀνεκίνει τὴν πολιτικὴν δύναμιν”).<br />

xxii


locum, quem civile recte appellaturi videmur, Graeci politiko/n, graviter et copiose esse<br />

tractatum. (...)"). Nella misura in cui Cicerone intende rendere accessibili in lingua latina<br />

le linee portanti della filosofia antica (Ac.libri I, 3: "philosophiam veterem illam a<br />

Socratem ortam..."), egli si dedica intensamente allo studio e all'approfondimento teorico<br />

delle posizioni filosofiche a cui Antioco fa riferimento. Cicerone lascia inoltre intendere<br />

che il continuo riferimento a Bruto nelle sue opere filosofiche è giustificato dai loro studia<br />

communia (v. Fin. III, 6) 55 ; anche il dialogo (fittizio) con il personaggio di Varrone si apre<br />

dando per scontata una comune formazione filosofica e una comune ammirazione per<br />

l'Academia antica, (v. l'uso della I persona plurale in passi come Ac.libri I, 5: "nos autem<br />

praeceptis dialecticorum et oratorum etiam quoniam utramque vim virtutem esse nostri<br />

putent"; Ac.libri I, 7: "si vero Academiam veterem persequamus, quam nos, ut scis,<br />

probamus, quam erit illa acute explicanda nobis!", che plausibilmente implica un comune<br />

orizzonte di pensiero tra Cicerone e Varrone). Infine il personaggio di Cicerone afferma<br />

esplicitamente, nel contesto di un'autonoma analisi dei termini del dibattito etico, che non<br />

è facile per lui trovare una posizione etica che sia più 'probabile' 56 di quella formulata da<br />

Polemone, dai peripatetici antichi e da Antioco (v. Luc. 139 = T. 40: "quamquam a<br />

Polemonis et Peripateticorum et Antiochi finibus non facile divellor nec quicquam habeo<br />

adhuc probabilius") 57 . Sembrano dunque convivere nella produzione filosofica ciceroniana<br />

due diversi atteggiamenti nei confronti delle proposte filosofiche di Antioco, per cui da<br />

una parte la difesa di un'interpretazione scettica della tradizione academica lo porta a<br />

contestare l'epistemologia dogmatica di Antioco e a mantenere uno spirito critico anche<br />

55 Il concetto di studia communia delimita un terreno condiviso di studio della filosofia, che distingue Cicerone e i suoi<br />

interlocutori dal resto della società romana, senza però implicare un'univoca affiliazione filosofica. Il concetto figura<br />

allo stesso modo nella supplicatio a Catone (Ad fam. XV, 4, 6, Aug. 51: « Haec igitur, quae mihi tecum communis<br />

est, societas studiorum atque artium nostrarum, quibus a pueritia dediti et devincti soli prope modum nos<br />

philosophiam veram illam et antiquam, quae quibusdam oti esse ac desidiae videntur, in forum atque in ipsam<br />

aciem paene deduximus, tecum agit de mea laude »), per cui è evidente che il terreno comune non è rappresentato<br />

dalla coincidenza delle rispettive posizioni filosofiche, quanto piuttosto dalla convergenza più generale dei loro<br />

interessi per la filosofia greca. L'uso dell'espressione 'vera philosophia' (v. Tusc. IV, 6: « itaque illius verae<br />

elegantique philosophiae, quae ducta a Socrate in Peripateticis adhuc permansit et idem alio modo dicentibus<br />

Stoicis, cum Academici ... ») non implica necessariamente un riferimento ad un'univoca posizione filosofica, quanto<br />

piuttosto un contrasto tra l'approccio nobile alla filosofia greca di Cicerone e Catone e l'approccio invece volgare di<br />

altri contemporanei, come per esempio gli epicurei Amafinio e Rabirio (v. Ac.libri I, 5; Tusc. IV, 6-7). Un<br />

riferimento più preciso all'origine 'platonica' dello stoicismo, che permetterebbe di riunire Cicerone e Catone<br />

all'interno della stessa famiglia filosofica, è supposto da Lévy (1992), pp. 107-109. Diversa la lettura di Glucker<br />

(1988), p. 48.<br />

56 Il termine come noto ha precise implicazioni epistemologiche non trascurabili visto il contesto della discussione<br />

degli Academica. v. commento alla testimonianza. Cfr. anche Ad Att. XIII, 19, 3-5: « In eis (sc. libris<br />

Academicorum) quae erant contra a)katalhyi/an praeclare collecta ab Antiocho Varroni dedi, ad ea ipse respondeo,<br />

(…) sunt (…) vehementer piqana/ Antiochia: quae diligenter a me expressa acumen habent Antiochi, nitorem<br />

orationis nostrum, si modo is est aliquis in nobis ».<br />

57 I tre passi qui citati vengono menzionati da Reid (1885), p. 15-16, come prova di un 'qualified approval of<br />

Antiochus' da parte di Cicerone.<br />

xxiii


ispetto alle sue elaborazioni dottrinali in ambito etico, dall'altra invece gli strumenti<br />

interpretativi impiegati da Antioco vengono considerati una risorsa, uno stimolo<br />

all'appropriazione del potenziale filosofico e culturale di Platone e Aristotele.<br />

Constatando la portata dell'influenza di Antioco sul testo ciceroniano la critica ha in vario<br />

modo formulato l'ipotesi di un'adesione di Cicerone al pensiero di Antioco, che si<br />

rifletterebbe in particolare nella produzione degli anni '50. In ragione dell'importanza<br />

accordata ad elementi della filosofia stoica, vetero academica e peripatetica, il complesso<br />

della produzione filosofica di Cicerone è stato definito da parte di molti critici come<br />

'eclettico', fino a che una precisa contestualizzazione del termine ha fatto cadere in disuso<br />

il ricorso indiscriminato alla categoria 58 . La metodologia academica di cui Cicerone<br />

intende avvalersi in modo autonomo potrebbe bastare di per sé a spiegare la libertà con la<br />

quale egli esamina le differenti istanze filosofiche del periodo ellenistico e seleziona gli<br />

elementi di queste, che soddisfano dal suo punto di vista requisiti di verosimiglianza e<br />

coerenza teorica. Fornire tuttavia una descrizione pienamente soddisfacente della<br />

particolare interpretazione dello statuto epistemologico del metodo academico assunto da<br />

Cicerone non è senza difficoltà, non essendo affatto escluso che alcuni aspetti del rapporto<br />

di Cicerone con lo scetticismo academico si siano evoluti nel tempo o siano stati<br />

progressivamente rielaborati.<br />

In seno alla corrente interpretativa che contesta l'uso del termine 'eclettico' per la filosofia<br />

ciceroniana, J. Glucker ha argomentato a favore dell'ipotesi di un'articolazione in tre fasi<br />

del pensiero di Cicerone: dall'entusiasmo giovanile per gli insegnamenti di Filone di<br />

Larissa e per lo scetticismo academico Cicerone sarebbe passato per una fase di<br />

affiliazione all' 'Academia antica' di Antioco d'Ascalona, per poi ritornare intorno al 45<br />

a.C. allo scetticismo di Carneade e Filone di Larissa 59 . L'ipotesi di Glucker viene<br />

argomentata non tanto a partire da uno studio dei presunti elementi antiochei presenti nelle<br />

opere di Cicerone, quanto piuttosto a partire dalle varie descrizioni della sua 'affiliazione'<br />

filosofica 60 : secondo la lettura di Glucker, nei testi appartenenti alla terza fase del suo<br />

pensiero, Cicerone inserirebbe alcune allusioni ad un cambiamento di orientamento e a<br />

una precedente associazione con l'Academia antica (v. Ac.libri I, 13; ND I, 6), mentre in<br />

altri luoghi della produzione ciceroniana sarebbero reperibili proprio alcuni indizi<br />

58 v. Donini (1982); Dillon, Long (1988);<br />

59 v. Glucker (1988), p. 53. N.B. Ogni riferimento allo scetticismo di Filone di Larissa è reso problematico dalla<br />

questione dell 'innovazioni filoniane' in ambito epistemologico, v. Brittain (2001).<br />

60 Cfr. Sedley (1989), pp. 97-119.<br />

xxiv


dell'adesione di Cicerone alla prospettiva di Antioco (Pro Murena 63-64; Ad fam. XV, 4,<br />

6; Div. I, 17-22; Leg. I, 39) 61 . In compenso però nel prologo del V libro del De finibus<br />

Cicerone descrive se stesso come rappresentante dell'istanza academico-scettica già nel<br />

contesto del suo viaggio ad Atene nel 79 a.C. (v. Fin.V, 7 = T. 49 : ab hac Academia nova<br />

ad veterem illam vocare). Anche volendo minimizzare la credibilità storica del prologo,<br />

tuttavia, come ammette anche Glucker, non è possibile affermare che Cicerone abbia mai<br />

esplicitamente ripudiato lo scetticismo academico; anche nella sua presunta fase antiochea<br />

il rispetto per l'interpretazione scettica della tradizione platonica non lo avrebbe mai<br />

abbandonato 62 . Cicerone non si spinge mai (se non per concessione argomentativa) a<br />

qualificare come 'nova' l'Academia di Arcesilao e Carneade, come invece voleva<br />

Antioco 63 , pur accettando l'idea che Arcesilao abbia per primo dedotto dall'approccio<br />

socratico alla filosofia che niente di ciò che si percepisce con i sensi o con la mente può<br />

essere detto certo (v. De orat. III, 67 = T. 36: "Arcesilas primum, qui Polemonem audierat,<br />

ex variis Platonis libris sermonibusque Socraticis hoc maxime arripuit, nihil esse certi,<br />

quod aut sensibus aut animo percipi possit"). Anche qualora esponga un punto di vista<br />

critico rispetto alle conseguenze destabilizzatrici dello scetticismo carneadeo, in<br />

particolare in ambito politico (Leg. I, 39), non scivola mai nell'elogio del dogmatismo. Ne<br />

consegue che anche nel punto di maggiore vicinanza rispetto al pensiero di Antioco,<br />

Cicerone manterrebbe comunque un margine di distanza e autonomia. La descrizione che<br />

Cicerone stesso fornisce della differenza sostanziale tra il suo approccio alla filosofia di<br />

Antioco e quello per esempio di Lucullo può essere dunque applicata ad ogni fase del<br />

pensiero ciceroniano: "Haec tibi, Lucullo, si es adsensus Antiocho, familiari tuo, tam sunt<br />

defendenda quam moenia, mihi autem bono modo tantum quantum videbitur".<br />

Si noterà inoltre che a partire dai testi ciceroniani dove l'operazione di Antioco viene<br />

contestata, ovvero a partire da quei passaggi dove Cicerone accusa Antioco di una<br />

illegittima retroproiezione sugli antichi di questioni e terminologie maturate solo con il<br />

fiorire dello stoicismo, oppure dove lo accusa di non potersi dire legittimamente<br />

academico, ma di essere molto più simile agli stoici (Luc. 132 = T. 39 : « germanissimus<br />

stoicos »; Luc. 137 : "sed ille noster est plane, ut supra dixi, Stoicus, perpauca<br />

balbutiens";), oppure anche a partire da quei passaggi dove si dice che l'unico motivo che<br />

61 Gli stessi passi vengono discussi da una diversa prospettiva in Lévy (1992), pp. 113-118.<br />

62 v. Glucker (1988), pp. 53, e n. 60.<br />

63 v. Ac.libri I, 46, dove l'uso dell'aggettivo è solo un gesto di cortesia nei confronti dell'interlocutore; in altri contesti<br />

(v. De orat. III, 68; Leg. I, 39) Cicerone opta per 'recens' o 'recentior', che non contiente le implicazioni dispregiative<br />

di 'nova'.<br />

xxv


spinse Antioco a prendere le distanze dallo scetticismo academico era il desiderio di avere<br />

una propria scuola (Luc. 70), sembra essersi originata una tradizione ostile rispetto ad<br />

Antioco, di cui un chiaro esempio è reperibile nei testi di Agostino (Contra Ac. III, 18, 41:<br />

"faeneus ille Platonicus Antiochus (...) igitur Antiochus, (...), auditis Philone Academico et<br />

Mnesarcho Stoico in Academiam veterem quasi vacuam defensoribus et quasi nullo hoste<br />

securam velut adiutor et cuius inrepserat nescio quid inferens mali de Stoicorum<br />

cineribus, quod Platonis adyta violaret"; De civ. Dei XIX, 3 ex.: "Antiocho...quem sane<br />

Cicero in pluribus fuisse Stoicum quam veterem Academicum vult videri"), il quale sembra<br />

aver preso in considerazione solo l'aspetto critico del rapporto di Cicerone con Antioco.<br />

Agostino sembra convinto che lo scopo di Cicerone fosse solo quello di distruggere la<br />

plausibilità degli argomenti epistemologici avanzati da Antioco a favore del maestro<br />

Filone e non tiene conto dell'ambivalenza dell'impiego da parte di Cicerone di strategie<br />

antiochee nell'ambito dell'etica o nella presentazione storiografica della tradizione<br />

academica 64 . La medesima ostilità rispetto ad Antioco si riscontra in un passaggio di<br />

Plutarco (Cicero 4, 1: "ἐν τοῖς δόγμασιν ἐνεωτέριζεν"; 4, 2: "φιλοτιμίᾳ τινὶ καὶ<br />

διαφορᾷ πρὸς τοὺς Κλειτομάχου καὶ Φίλωνος συνήθεις τὸν Στωικὸν ἐκ μεταβολῆς<br />

θεραπεύων λόγον ἐν τοῖς πλείστοις"), il quale può essere però confrontato con altri<br />

passi plutarchei in cui la figura dell'Ascalonita non viene associata a nessun giudizio<br />

negativo (v. Lucullus 42, 3 : "τῆς παλαιᾶς [scil. Ἀκαδημεία], πιθανὸν ἄνδρα καὶ δεινὸν<br />

εἰπεῖν τότε προστάτην ἐχούσης τὸν Ἀσκαλωνίτην Ἀντίοχον"; Brutus 2, 3) 65 ; Il passo<br />

plutarcheo della Vita di Cicerone riprende il tema del desiderio d'onore (φιλοτιμίᾳ) come<br />

motivazione della disputa che oppose Antioco agli altri esponenti della scuola academica<br />

(cfr. Cic., Luc. 70). Questo tipo di giudizio denigratorio è del resto contestualizzabile<br />

anche nel passo plutarcheo all'interno della disputa epistemologica (v. il riferimento a<br />

"ὑπὸ τῆς ἐναργείας καὶ τῶν αἰσθήσεων" in Plut., Cic. 4, 2), per cui la sua portata deve<br />

essere valutata in relazione alla particolare prospettiva scettico-academica che lo ha<br />

64 Si noti che il testo del Contra Academicos, redatto da Agostino nel momento in cui egli abbraccia un nuovo genere<br />

di vita come 'platonico' e 'cristiano', ha la funzione di lavoro preparatorio per la definizione della sua nuova identità,<br />

in contrasto con un precendente interesse per le posizioni degli academici 'scettici', che egli reperiva in particolare<br />

nel testo ciceroniano degli Academica (v. Retract. I, 1, 1, 4; De vita beata I, 4; Conf. V, 10, 19; Conf. V, 14, 24-25;<br />

Conf. VI, 11, 18; v. O' Meara (1951), pp. 14-18; Testard (1958), pp. 93-97; Mourant (1966), pp. 67-96). L'ostilità nei<br />

confronti di Antioco rientra dunque all'interno di una dinamica di rifiuto generalizzato per la tradizione precendente<br />

alla riscoperta plotiniana del vero 'platonismo', che Agostino ritiene invece di poter leggere in armonia con il<br />

cristianesimo (v. King (1995), vi-xiii). Il rapporto stretto tra le posizioni di Antioco e quelle stoiche potrebbe inoltre<br />

aver motivato la posizione di Agostino contro l'Ascalonita, in quanto pericoloso punto di contatto con la tradizione<br />

materialista.<br />

65 Babut (1969), p. 198, ritiene che il passaggio dalla vita di Cicerone rifletta l'opinione di Plutarco su Antioco, ma è<br />

altrettanto probabile che esso attinga le sue informazioni direttamente o indirettamente dall'opera ciceroniana.<br />

xxvi


prodotto 66 . In ambito epistemologico Cicerone poteva 'legittimamente' accusare Antioco di<br />

aver assunto una posizione vicina al dogmatismo stoico ed estranea alla tradizione<br />

academica, questo non significa però che intendesse presentare il complesso<br />

dell'operazione filosofica di Antioco come una semplice (dilettantesca) copia del pensiero<br />

stoico. L'estensiva discussione dei suoi metodi e delle sue conclusioni nel corpus<br />

ciceroniano mostra al contrario quanto seriamente Cicerone prendesse in considerazione<br />

l'operazione ermeneutica di Antioco.<br />

Un problema di altro genere si pone qualora si voglia considerare quale fosse il margine di<br />

autonomia di Cicerone rispetto alla conoscenza dei filosofi antichi a cui Antioco<br />

d'Ascalona faceva riferimento, ovvero quanto fosse possibile per Cicerone valutare<br />

autonomamente la legittimità della presentazione antiochea del pensiero di Speusippo,<br />

Senocrate, Polemone, Aristotele e Teofrasto, attraverso una conoscenza diretta o<br />

quantomeno non filtrata da Antioco (o da Panezio o da Posidonio) 67 dei testi di questi<br />

autori. Anche i due filosofi stoici, ci dice Cicerone, avevano dimostrato un grande<br />

interesse per le figure di Platone, Aristotele e i loro discepoli (v. Fin. IV, 79). Dunque,<br />

potenzialmente, ogni riferimento ad un punto di dottrina degli antichi, come anche ogni<br />

citazione testuale, potrebbe essere confluita nel testo ciceroniano per l'intermediazione di<br />

uno dei testi di Antioco, Panezio, Posidonio 68 etc. La vera domanda tuttavia non è da dove<br />

Cicerone prenda una certa citazione, quanto piuttosto in che misura Cicerone è capace di<br />

assimilare il contenuto di una citazione e rendersi autonomo dalle sue eventuali fonti.<br />

Antioco infatti non si limitava a fare riferimento alla produzione filosofica degli antichi<br />

academici come Speusippo, Senocrate e Polemone, ma sosteneva una sostanziale identità<br />

di vedute tra la scuola academica e la scuola peripatetica di Aristotele e Teofrasto, il che<br />

comportava verosimilmente un complesso lavoro di selezione e rielaborazione testuale. È<br />

importwnte allora notare come Cicerone sembri mostrare una piena consapevolezza non<br />

solo del potenziale ermeneutico di questa tesi di Antioco, ma anche dei suoi limiti. Nel<br />

66 v. anche Sext.Emp., PH I 235: « ὁ Ἀντίοχος τὴν Στοὰν μετήγαγεν εἰς τὴν Ἀκαδημίαν, ὡς καὶ εἰρῆσθαι ἐπ' αὐτῷ<br />

ὅτι ἐν Ἀκαδημίᾳ φιλοσοφεῖ τὰ Στωικά· ἐπεδείκνυε γὰρ ὅτι παρὰ Πλάτωνι κεῖται τὰ τῶν Στωικῶν δόγματα. ὡς<br />

πρόδηλον εἶναι τὴν τῆς σκεπτικῆς ἀγωγῆς διαφορὰν πρός τε τὴν τετάρτην καὶ τὴν πέμπτην καλουμένην<br />

Ἀκαδημίαν »; Eusebius, Praep. Ev. XIV, 9.<br />

67 Lo stesso problema di valutazione dell'estensione dell'influenza del pensiero di Antioco sul testo ciceroniano si<br />

ripete in modo identico nel caso del pensiero dei due filosofi stoici Panezio e Posidonio, i quali non solo sono<br />

oggetto di particolare stima da parte di Cicerone, ma sembrerebbero aver sottoposto la dottrina stoica ad un'apertura<br />

critica nei confronti delle posizioni filosofiche del platonismo e dell'aristotelismo, v. Philod. Stoic.Hist. (PHerc.<br />

1018), col. LXI = fr. 1 Van Straaten; T. 1 Alesse.<br />

68 Posidonio sembra aver interpellato i primi interpreti di Platone su molte questioni, in particolare sulla concezione<br />

dell'anima come 'numero', v. Vogel (1954), pp. 120-122.<br />

xxvii


contesto della discussione sullo scetticismo academico Cicerone lascia infatti che il<br />

personaggio di Varrone presenti la tesi della sostanziale identità filosofica dell'istanza<br />

academica e peripatetica, ma non senza che l'accento ricada su alcune importanti<br />

precisazioni a proposito del rapporto tra Aristotele e la teoria delle idee platoniche, come<br />

anche a proposito di Teofrasto e la concezione della virtù. Nel complesso la problematicità<br />

di alcuni aspetti della posizione peripatetica viene sfruttata a favore della presentazione<br />

dell'istanza stoica come degna depositaria dell'eredità platonica: a differenza degli<br />

interventi distruttivi di Aristotele e Teofrasto (per non parlare degli altri peripatetici!), la<br />

filosofia stoica sarebbe una ben intenzionata 'correzione'. L'associazione di Academia e<br />

Peripato sul medesimo fronte è esemplificativa dello sforzo di Antioco di creare un<br />

resoconto dell'identità academica opposto e alternativo rispetto a quello scettico, da cui<br />

deriva il poter considerare l'istanza stoica come molto più affine e non radicalmente<br />

antagonista. Tuttavia Cicerone non si ferma a questo resoconto e nell'ambito della sua<br />

produzione filosofica fornisce al lettore numerosi elementi per poter considerare<br />

autonomamente la problematicità della prospettiva storiografica di Antioco: grazie al testo<br />

ciceroniano apprendiamo infatti che Zenone veniva accusato di essersi appropriato in<br />

modo indebito di elementi dell'istanza academica (v. Leg. I, 55; Tusc. V, 34); che nel<br />

periodo ellenistico i filosofi peripatetici e i filosofi stoici avevano definito le loro rispettive<br />

posizioni etiche in aperto antagonismo (Fin. III); che esiste inoltre un punto di frattura non<br />

trascurabile tra la posizione etica degli antichi academici, di Polemone in particolare, e<br />

quella elaborata da Zenone, che non può esser qualificata come una correzione, ma solo<br />

come un dissenso, ovvero una divergenza filosofica (v. Fin. IV, 45 = T. 45); infine, se<br />

esiste una posizione etica uniformamente attribuibile ai filosofi vetero-academici e<br />

peripatetici, Teofrasto deve essere escluso dal gruppo per l'importanza che egli sembra<br />

aver attribuito ai beni esterni, al contributo della 'fortuna', per il possesso della felicità (v.<br />

Tusc. V, 30 = T. 52). Queste ed altre precisazioni si trovano discusse in modo più o meno<br />

esplicito all'interno del corpus ciceroniano e risentono verosimilmente della conoscenza<br />

diretta da parte dell'autore di un contesto in cui l'operazione di Antioco veniva ampiamente<br />

discussa, criticata, ed eventualmente riformulata. Si noterà tuttavia che la discussione<br />

originata dalle posizioni assunte da Antioco, almeno nel modo in cui ne testimonia<br />

Cicerone, non sembra stimolare un ritorno esegetico ai testi, ma si limita a coltivare<br />

un'esposizione coerente che concili o quantomeno renda conto di tutte le varie<br />

problematiche dei dibattiti del periodo ellenistico. Ad esempio: quando si discute del<br />

rapporto di filiazione del pensiero stoico dalla tradizione platonica, per la precisione del<br />

xxviii


pensiero di Zenone a partire dagli insegnamenti di Polemone, l'alternativa tra 'correzione' e<br />

'divergenza' non viene in nessun luogo risolta a partire da un confronto puntuale tra i testi<br />

dei due filosofi; al contrario si può dire che non venga risolta affatto e lo scopo del testo<br />

ciceroniano sembra essere solo quello di fornire al lettore la possibilità di rendersi conto<br />

dell'esistenza di letture tra loro divergenti, rinunciando ad imporre un'opinione univoca<br />

sulla questione. Questo può essere giustificato alla luce dell'intenzione generale del testo<br />

di Cicerone, più interessato a fornire un immagine complessiva del dibattito filosofico<br />

ellenistico in lingua latina, che ad addentrarsi nell'esegesi testuale; non si tratta allora di<br />

determinare una volta per tutte quali siano state le posizioni difese da una certa autorità<br />

filosofica, quanto piuttosto esaminare fino a che punto un certo filosofo possa<br />

coerentemente affermare quello che afferma. Ne consegue che in questa fase del dibattito<br />

filosofico il miglior erede della tradizione platonica non è tanto colui che più fedelmente<br />

ne riporta le dottrine, quanto piuttosto colui che nel dialogo con le altre istanze riesce a<br />

fornire la versione più coerente di quel pensiero originatosi con Platone.<br />

Insistere sull'ambivalenza del rapporto di Cicerone con Antioco significa del resto<br />

considerare il problema delle fonti di Cicerone da un punto di vista diametralmente<br />

opposto rispetto a quello messo in pratica dalla Quellenforschung, il quale parte invece<br />

dall'assunto che la presenza di elementi del pensiero di un filosofo nel testo di Cicerone<br />

implica la dipendenza più o meno completa rispetto a un testo in cui quel pensiero si<br />

trovava esposto 69 . Questo metodo, se aveva il vantaggio di trasformare il testo ciceroniano<br />

in una ricchissima miniera di citazioni di testi altrimenti perduti, risulta incapace di<br />

rendere conto del margine d'intervento della particolare prospettiva filosofica e culturale di<br />

Cicerone sul suo testo. Non tenendo conto della differenza tra l'impiego di elementi<br />

antiochei e l'assimilazione autonoma degli stessi, la menzione del nome di Antioco<br />

sembrava un indizio sufficiente per affermare l'utilizzo dei suoi scritti come fonte. Allo<br />

stesso tempo la presenza all'interno di un testo di un elemento a vario titolo riconducibile<br />

al pensiero di Antioco poteva esser addotto come prova a favore dell'influenza<br />

complessiva di Antioco sul testo. Ad esempio, il primo editore dei frammenti di Antioco,<br />

Georg Luck 70 , sebbene adottasse un criterio strettamente nominale per la selezione dei<br />

frammenti, considerava che qualora Cicerone o qualche altro autore offriva una sintesi, o<br />

69 Cfr. e.g. Thiaucourt (1885); v. Glucker (1978), p. 391: « there is hardly a philosophical work in the Ciceronian<br />

corpus in which the influence of Antiochus as a source – for the whole work or for sections of it – has not been<br />

upheld by some modern scholars at some time or other »; Mette (1986-1987), pp. 27-29;<br />

70 Luck (1953); cfr. Mette (1986-1987), pp. 9-63.<br />

xxix


quello che poteva apparire come una sintesi, di materiali platonici e peripatetici, questo<br />

potesse essere un indizio sufficiente dell'impiego di Antioco come fonte, visto che<br />

effettivamente Antioco insisteva sull'unità sostanziale della tradizione academico-<br />

peripatetica. La tendenza espressa dall'applicazione di questo metodo in direzione<br />

dell'identificazione di una fonte unica per la composizione dei testi o di sezioni dei testi di<br />

Cicerone ha avuto inoltre come conseguenza, non solo quella di estendere oltre il<br />

verificabile l'influenza dei testi o degli insegnamenti antiochei sulla produzione<br />

ciceroniana, ma anche quello di considerare di seconda mano la maggior parte delle<br />

citazioni ciceroniane dai testi più antichi.<br />

Gli studi ciceroniani si confrontano allora da sempre con il grande paradosso, per cui il più<br />

grande mediatore della filosofia ellenistica nel mondo romano avrebbe di fatto conosciuto<br />

un numero piuttosto esiguo di testi filosofici. Il paradosso risulta insopportabile soprattutto<br />

da quando Cicerone, in epoca relativamente recente, si è liberato definitivamente della<br />

cattiva reputazione di copista che si era tentati talvolta di assegnargli. Un modo per<br />

risolvere il paradosso è quello di distinguere tra la personale cultura filosofica che<br />

Cicerone può aver acquisito tra gli scaffali della sua biblioteca o in quelle dei suoi amici e<br />

i testi da lui effettivamente impiegati nella redazione delle sue opere. Così ad esempio<br />

faceva già Giambelli (1891-1892), p. 295, che in mancanza di prove definitive dell'uso<br />

diretto da parte di Cicerone delle opere biologiche di Aristotele, verosimilmente invece<br />

assimilate da Antioco, ci tiene a precisare che, pur preferendo affidarsi, per le contingenze<br />

della scrittura, alle modalità d'impiego del testo aristotelico da parte di Antioco, Cicerone<br />

poteva comunque averne 'notizia letteraria'. Il rapporto di Cicerone con il testo aristotelico<br />

è in un certo senso al cuore del paradosso. Le cose sono relativamente più semplici infatti<br />

nel caso di Platone: la qualità e l'abbondanza della citazione ciceroniana del testo<br />

platonico permettono infatti di affermare con una certa ragionevolezza che Cicerone aveva<br />

diretto accesso a una molteplicità di testi platonici 71 . Questa convinzione viene inoltre<br />

rafforzata dal fatto che Cicerone si è impegnato direttamente nella traduzione latina del<br />

testo del Timeo e probabilmente anche del Protagora 72 ; il caso del testo aristotelico è<br />

71 v. De Graff (1940), 143-153;<br />

72 Non è da escludersi che le due traduzioni, come anche quella dell'Economico di Senofonte, non fossero destinate ad<br />

una circolazione pubblica, ma venissero effettuate per scopi di studio privato, v. Hirzel (1895), p. 457-458, n. 1.<br />

Ampiamente dibattuta è la questione sulla qualità del lavoro di traduzione ciceroniano. Lo studio di Poncelet (1957),<br />

tende ad esempio sottolineare i limiti intrinseci delle scelte di traduzione di Cicerone e le carenze della lingua latina<br />

nel trasporre le strutture linguistiche e la specificità concettuale di quella greca. Maggiormente simpatetiche rispetto<br />

agli sforzi fatti da Cicerone nell'elaborazione di un linguaggio filosofico adeguato sono invece le conclusioni di<br />

Moreschini (1979) e Lambardi (1982). Su questa seconda linea d'indagine Lévy (1992b), p. 93 ss. pone l'accento<br />

xxx


invece radicalmente differente, soprattutto perché sembrerebbe esserci generalmente<br />

preclusa la possibilità di verificare con quale abbondanza e precisione citazioni<br />

aristoteliche confluissero nel testo ciceroniano: partendo dal presupposto che Antioco e di<br />

conseguenza anche Cicerone avessero fatto ampiamente riferimento alle opere essoteriche,<br />

tra cui i famosi dialoghi di Aristotele, opere, in generale per noi perdute, o ridotte a un<br />

numero più o meno esiguo di frammenti, come il Protreptico, l' Eudemo, il Sulla<br />

ricchezza, le citazioni implicite o esplicite del testo aristotelico che noi siamo capaci di<br />

riconoscere nell'opera di Cicerone si basano in gran parte su ricostruzioni indirette o su<br />

congetture difficilmente verificabili. Di conseguenza anche il dubbio che ci sia affatto un<br />

rapporto diretto tra i due autori è quantomai agevolato.<br />

Si è tentato del resto di negare che Cicerone, anche volendo, avrebbe potuto leggere i testi<br />

aristotelici e di affermare che doveva necessariamente avvalersi di compendi manualistici.<br />

Tuttavia si noterà che nei suoi scritti egli si sforza di fornire un'immagine di se stesso<br />

come dedito allo studio diretto dei testi (Fin. III, 10: "Tum ille: tu autem cum ipse tantum<br />

librorum habeas, quos hic tantem requiris? Commentarios quosdam, inquam,<br />

Aristotelios"). Egli dice esplicitamente di essere un ammiratore dello stile di Aristotele e<br />

Teofrasto (v. De orat. I, 49; Luc. 119: ""flumen orationis aureum fundens Aristoteles").<br />

Anche se gli esiti della teoria retorica ciceroniana sono tanto distanti da quella aristotelica<br />

da sembrare di ignorare il contenuto dei testi a noi noti, già nell'opera giovanile del De<br />

inventione, Cicerone descrive con qualche dettaglio il metodo di Aristotele di esposizione<br />

delle teorie retoriche dei predecessori (Div. II, 6-7), che diventa per lui un modello per una<br />

selezione autonoma dal repertorio del passato; inoltre Cicerone sembra essersi impegnato<br />

in un rapporto mimetico con le opere di Aristotele, quasi quanto con quelle di Platone,<br />

come si vede dall'intenzione soggiacente al testo dei Topica e come verosimilmente<br />

risultava evidente dalla lettura a noi preclusa (se non in forma frammentaria)<br />

dell'Hortensius, redatto "ad exemplum Protreptici" 73 . Nell'epistolario ciceroniano inoltre si<br />

trovano numerosi riferimenti che suggeriscono un' imitazione della forma esteriore dei<br />

proemi e dei dialoghi aristotelici (Ad Att. IV, 16, 2; Ad. fam. I, 9, 23; Ad Att. XIII, 19, 4).<br />

sull'originalità della fiducia accordata da Cicerone al potenziale della lingua latina come lingua della filosofia. Le<br />

scelte di traduzione ciceroniana non solo definiscono pionieristicamente i parametri dell'arte del vertere, ma sono il<br />

principale strumento attraverso cui attuare l'auspicata mediazione e assimilazione tra la filosofia dei greci e il mondo<br />

romano. Attraverso l'integrazione di una profonda conoscenza della « storia letteraria » di ogni termine, Cicerone<br />

riesce a trasformare il processo di traduzione nell'espressione della propria mentalità filosofica e culturale,<br />

contribuendo autonomamente alla mise en forme e all'interpretazione delle questioni filosofiche, in modo da renderle<br />

quanto più apprezzabili da parte del pubblico romano.<br />

73 Cfr. Giamblico, VIII, 47-48 Teubner, passo greco quasi perfettamente identico alle parole latine del frammento<br />

ciceroniano, frammento in August. Contra Iul.Pel. IV, 15, 78 (Fr. 95 Muller) sulla crudeltà dei predoni etruschi sui<br />

prigionieri, confermato da Servio (ad Aen. VIII, 479; Val Max. IX, 2, ext. 10);<br />

xxxi


In una lettera al fratello Quinto è reperibile infine una menzione delle opere politiche di<br />

Aristotele nel contesto di una descrizione del processo di redazione del De re publica 74 .<br />

Del resto per quanto riguarda il patrimonio librario di Cicerone, la relazione di amicizia<br />

con Pomponio Attico gli consente un accesso privilegiato ai testi greci che quest'ultimo era<br />

capace di procurargli attingendo direttamente dal mercato ateniese. Cicerone manifesta<br />

all'amico la volontà di leggere direttamente ad esempio alcune opere del peripatetico<br />

Dicearco ed eventualmente avvalersene nella sua produzione filosofica, v. Ad. Att. XIII,<br />

32, 2: "Dicaearchi peri£ yuxh=j utrosque velim mittas et kataba/sewj, tripolitiko/n non<br />

invenio, et epistulam eius, quam ad Aristoxenum misit. Tres eos libros maxime nunc<br />

vellem; apti essent ad id quod cogito". Cicerone dunque, se la spedizione ha avuto buon<br />

esito, leggeva alcuni testi di Dicearco, il cui contenuto conosceva indirettamente e<br />

intendeva verificare da vicino. Un'ostacolo però tra Cicerone e una lettura diretta di<br />

Aristotele sarebbe però rappresentato dalla particolare vicenda che riguarda i testi di<br />

Aristotele. È abitudine della critica infatti partire dalla storia riportata da Strabone, per cui<br />

la biblioteca di Aristotele sarebbe stata ereditata da Neleo di Scepsi, trasferita da questo<br />

nella Troade e poi sotterrata dai suoi eredi perché non finisse nelle mani degli agenti della<br />

biblioteca della monarchia di Pergamo, i libri sarebbero stati riscoperti da un bibliofilo<br />

chiamato Apellicone, riportati ad Atene, e poi finiti nel bottino di guerra di Sulla. I libri di<br />

Aristotele sarebbero dunque arrivati a Roma per via di Sulla, al loro riordino avrebbe<br />

contribuito anche il famoso grammatico Tirannione di Amisus e poi successivamente<br />

sarebbero stati oggetto di lavoro filologico da parte di Andronico di Rodi (Strabo, (12, 1,<br />

54) XIII, 608-609; Plut. Vita di Sulla, 26) 75 . Il silenzio di Cicerone su tutta questa vicenda<br />

rappresenta agli occhi di molti un fatto stranissimo e quasi un argomento a favore dell'idea<br />

che Cicerone avrebbe potuto ignorare la presenza dei preziosissimi autographa di<br />

Aristotele a Roma. Lo sgomento dovrebbe aumentare qualora si consideri che è ben<br />

attestata invece una relazione diretta tra Cicerone e il grammatico Tirannione, lo stesso che<br />

Lucullo avrebbe fatto schiavo durante le guerre mitridatiche, e che portato a Roma, si<br />

sarebbe inserito talmente bene negli ambienti culturali pompeiani, che ebbe accesso al<br />

prezioso bottino librario di Sulla e Cicerone gli affidò il riordino della sua biblioteca (ad<br />

Att. IV, 4, 7; 8, 2, v. Düring (1957), T. 74 c) e di quella del fratello. Ma perché Cicerone<br />

avrebbe dovuto assolutamente parlare dello schiavo erudito che gli rimise a posto i libri o<br />

delle leggende sui libri di Aristotele? L'arrivo a Roma del bottino di guerra dovrebbe<br />

74 Ad Qu.fr. III, 5, 1 = 25 Schakleton, Bailey: « Aristotelem denique quae de re publica et praestanti viro scribat ipsum<br />

loqui ».<br />

75 v. Gottschalk (1987), pp. 1083-1094.<br />

xxxii


costituire, secondo la storia riportata da Strabone, il momento di riapparizione dei testi<br />

aristotelici precedentemente scomparsi e inaccessibili anche ai filosofi peripatetici. In<br />

questo caso il silenzio di Cicerone sarebbe in effetti indice quantomeno di scarsa<br />

sensibilità culturale, ma che i testi di Aristotele fossero inaccessibili durante tutto il<br />

periodo ellenistico, oltre ad essere inverosimile, viene contradetto dalle testimonianze di<br />

Ateneo (Deipn. I, 2) e degli scoliasti che sostengono che i libri di Aristotele furono portati<br />

da Atene e Rodi ad Alessandria per il volere di Tolomeo Filadelfo. La confusione<br />

probabilmente nasce dal fatto che parlando dei 'libri di Aristotele' le fonti menzionate non<br />

distinguono tra autographa e apographa, tra gli originali di Aristotele e le copie che di<br />

essi possono esser state fatte per la biblioteca di Alessandria o per chiunque potesse<br />

permettersene una 76 . Anche volendo indulgere ad attribuire veridicità storica alla storia<br />

riportata da Strabone si può pensare che i libri in questione siano in realtà solo gli<br />

originali, la cui temporanea scomparsa non avrebbe impedito la circolazione di copie e la<br />

conoscenza diretta del pensiero aristotelico. In questo caso il silenzio di Cicerone verte su<br />

una curiosità bibliofila, che per quanto molto interessante, gli possiamo probabilmente<br />

perdonare. Che Cicerone taccia invece sul lavoro filologico di Andronico di Rodi è<br />

ritenuto ancora più grave. Ma il fatto risulta sorprendente solo da una prospettiva, come la<br />

nostra, che tende a fare del lavoro editoriale di Andronico un punto di assoluta svolta nella<br />

tradizione testuale 77 ; Cicerone tuttavia non si dedica quasi mai a questioni di critica<br />

testuale, la sola eccezione, forse, essendo la questione dell'autenticità dell'Etica<br />

Nicomachea (Fin. V, 12), la quale è sufficiente per dimostrare una sua certa<br />

consapevolezza di un vivace dibattito contemporaneo sulle opere di Aristotele, ritenuto<br />

probabilmente parte del lavoro di altri 'addetti'. Inoltre, è bene ricordare come i testi<br />

filosofici di Cicerone facciano riferimento innanzitutto al contesto della sua formazione<br />

giovanile. I dibattiti e i personaggi menzionati da Cicerone sono quelli che animavano la<br />

scena culturale quarant'anni prima della redazione effettiva dei testi; per questo motivo<br />

mancano completamente riferimenti a personalità filosofiche eminenti come Enesidemo o<br />

Lucrezio.<br />

In conclusione, per quanto a Cicerone non fosse verosimilmente precluso l'accesso<br />

materiale alle opere di Aristotele, o almeno ad una parte di esse, non possiamo dire con<br />

sicurezza se Cicerone verificasse o meno i possibili riferimenti testuali dell'operazione<br />

ermeneutico-storiografica di Antioco d'Ascalona attraverso una lettura diretta dei testi,<br />

76 v. già Giambelli (1891), p. 252; cfr. Barnes (1997).<br />

77 Per una relativizzazione dell'importanza del lavoro editoriale di Andronico di Rodi, v. Barnes (1997), pp. 29-66.<br />

xxxiii


innanzitutto perché la sua discussione delle posizioni di Antioco non ruota intorno ad un<br />

lavoro esegetico sulle dottrine presentate come convergenti, ma tende piuttosto a<br />

discuterne dialetticamente gli esiti. Al centro del testo filosofico ciceroniano non si<br />

trovano infatti i testi né di Platone né di Aristotele, ma il loro eventuale impiego da parte<br />

degli interpreti posteriori del platonismo, dell'aristotelismo e dello stoicismo. La natura<br />

dialettica, prima ancora che esegetica, del dibattito filosofico del periodo ellenistico, fa in<br />

modo che l'attenzione si sposti dalla lettera del testo alla possibilità di appropriazione del<br />

senso del testo; e dall' appropriazione multipla di un testo alla coerenza del ragionamento<br />

in cui eventualmente un testo si trova impiegato in modo per così dire 'strumentale'.<br />

Esempio: nella critica della posizione etica di Antioco Cicerone contesta la validità della<br />

distinzione tra una vita beata e una vita beatissima, che permetteva di conciliare l'idea che<br />

la virtù è autosufficiente al conseguimento della vita felice con il fatto che non bisogna<br />

escludere il valore di altri beni, come quelli del corpo, per la vita massimamente felice (v.<br />

Tusc. V, 30 = T. 52). Nel far ciò Cicerone non chiede ad Antioco quali siano i suoi<br />

riferimenti testuali per la distinzione che introduce, non contesta dunque la legittimità<br />

dell'interpretazione di Antioco, dubitando che Aristotele, Polemone o qualcuno degli altri<br />

filosofi antichi possano aver sostenuto una tesi tanto debole, né tantomeno fornisce<br />

un'interpretazione alternativa del pensiero degli antichi, quanto piuttosto affronta la<br />

posizione di Antioco da un punto di vista dialettico, opponendogli un argomento che<br />

potrebbe facilmente figurare nell'arsenale stoico: cosa c'è di più felice della vita felice? La<br />

debolezza dell'ermeneutica storiografica di Antioco viene mostrata non sul piano esegetico<br />

quanto sul piano della coerenza teorica. Dal punto di vista del metodo ciceroniano poco<br />

importa dunque se alla base del pensiero di Antioco vi sia un interpretazione più o meno<br />

genuina dei testi degli antichi, nella misura in cui questa interpretazione deve rispondere<br />

innanzitutto ad esigenze di tipo filosofico. La migliore interpretazione in ultima istanza<br />

non dipende, dalla prospettiva di Cicerone, dalla maggiore o minore fedeltà al testo, ma<br />

dalla sua coerenza complessiva.<br />

Nel contesto di questa ricerca si ritiene sufficiente rendere conto dell'ambivalenza del<br />

rapporto di Cicerone rispetto al pensiero di Antioco e mettere in risalto le diverse modalità<br />

di presentazione degli argomenti di origine antiochea a seconda dei diversi contesti. Si<br />

consideri ad esempio la profonda differenza tra l'approccio alle posizioni di Antioco nel<br />

libro IV e V del De finibus, in cui Cicerone si avvale degli argomenti antiochei per portare<br />

l'attenzione sui punti deboli della teoria stoica, e la critica delle posizioni di Antioco nel<br />

xxxiv


testo delle Tusculanae; nonostante la vicinanza temporale dei due testi, è evidente che<br />

Cicerone, come si avvale della prospettiva di Antioco per una critica delle posizioni<br />

stoiche, allo stesso modo si avvale dell'arsenale stoico per criticare le posizioni di Antioco.<br />

Il riferimento alle tesi di Antioco, alle sue categorie storiografiche e concettuali, non si<br />

limita del resto alle esposizioni in cui viene esplicitamente menzionato; nel De oratore<br />

III, 67 = T. 36, Cicerone riprende l'idea di una convergenza dottrinale tra Academia e<br />

Peripato, ma in un modo tale che non risulta incompatibile con una valutazione positiva<br />

del contributo di Arcesilao. L'idea di Antioco si trova dunque rifunzionalizzata all'interno<br />

di un discorso il cui esito si discosta radicalmente dalle intenzioni antiochee; qualcosa di<br />

simile probabilmente accade anche nel testo del De legibus I, 37 = T. 37, dove l'idea della<br />

discrepanza solo verbale tra la posizione vetero-academica / peripatetica e la posizione di<br />

Zenone non viene interpretata alla luce di un principio di continuità tra le due tradizioni.<br />

Cicerone in questo contesto sembra invece pronto a sollevare la questione della legittimatà<br />

dell'usurpazione stoica di un territorio filosofico appartenente all'Academica (v. Leg. I,<br />

55).<br />

L'articolazione del rapporto di Cicerone con gli strumenti argomentativi impiegati da<br />

Antioco esce fuori in tutta la sua complessità attraverso uno studio approfondito dell'uso (e<br />

riuso) della Carneadia divisio. Cicerone ci tiene a far sapere al lettore che Antioco era<br />

solito impiegare un particolare strumento dialettico appreso verosimilmente nell'ambito<br />

della sua formazione academica, v. Fin. V, 16: "Quod quoniam in quo sit magna dissensio<br />

est, Carneadia nobis adhibenda divisio est, qua noster Antiochus libenter uti solet". La<br />

Carneadia divisio è uno schema d'organizzazione dialettica di una moltiplicità di posizioni<br />

etiche, la cui coerenza viene testata sulla base di una premessa ritenuta comunemente<br />

valida. L'ambito d'utilizzo di questo strumento è prevalentemente il dialogo più o meno<br />

polemico tra le diverse istanze filosofiche. I testi ciceroniani sono ancora una volta la<br />

nostra fonte principale sull'uso di questo strumento, per cui arrivare a distinguere con<br />

precisione le diverse modalità d'impiego dello strumento stesso richiede un intenso sforzo<br />

d'analisi e una buona dose di congetturalità. A partire dal testo del Lucullus è possibile<br />

affermare che, insistendo sul panorama di divergenza filosofica (dissensio) tra le varie<br />

istanze dogmatiche del periodo ellenistico, i filosofi academici potevano argomentare, che,<br />

posto che tutte le istanze dogmatiche sostengono l'unicità della verità e il suo rispettivo<br />

possesso, ne consegue che non possono tutte aver ragione e un grande numero è destinato<br />

a rivelarsi scorretto (v. Luc. 147: "qui de bonis contrariisque rebus tanto opere discrepant<br />

xxxv


ut, cum plus uno verum esse non possit, iacere necesse sit tot tam nobiles disciplinas").<br />

L'uso della divisio in ambito academico prevedeva dunque verosimilmente l'enfatizzazione<br />

della dissensio dogmatica ed al contempo l'organizzazione delle varie istanze etiche<br />

all'interno di un'argomentazione dialettica, in modo da mostrarne più facilmente le<br />

rispettive debolezze (v. Luc. 131-132 = T. 39). Sappiamo inoltre che uno degli esiti delle<br />

argomentazioni di Carneade era quello di mostrare come la posizione etica stoica fosse<br />

riducibile dialetticamente a quella avversaria. Si congettura dunque che in relazione alla<br />

comune premessa naturalistica del discorso etico, per cui l'indagine del fine ultimo della<br />

vita dell'uomo parte da un'indagine dei primi istinti naturali, la posizione stoica venisse<br />

costretta ad ammettere che i primi oggetti di appropriazione naturale hanno lo stesso<br />

statuto che anche l'istanza peripatetica gli attribuisce, con la sola differenza che gli stoici li<br />

qualificano come 'preferibili', mentre i peripatetici li qualificano come 'beni'. La differenza<br />

tra le due posizioni filosofiche che nel corso del periodo ellenistico si erano<br />

reciprocamente combattute viene ridotta a una differenza puramente terminologica e non<br />

sul fondo delle cose (v. Fin. III, 41: "Carneades tuus (...) propterea quod pugnare non<br />

destitit in omni hac quaestione, quae de bonis et malis appelletur, non esse rerum Stoicis<br />

cum Peripateticis controversiam, sed nominum"; Tusc. V, 120: "cum ea re, non verbis<br />

ponderarentur, causam esse dissidendi negabat") 78 . In alternativa gli stoici possono<br />

scegliere di negare il valore della premessa naturalistica, ma con il conseguente risultato di<br />

ritrovarsi allineati sulla stessa posizione degli indifferentisti come Aristone e Pirrone o<br />

degli intellettualisti come Erillo, esclusi dalla divisio in ragione di un diverso intendimento<br />

delle premesse del discorso etico 79 . La strategia argomentativa carneadea sottoponeva<br />

dunque verosimilmente l'istanza stoica a una doppia pressione critica di revisione dei<br />

propri assunti dottrinali. Nelle mani di Antioco invece l'uso della divisio sfrutta la<br />

dialettica revisionista dell'istanza stoica e peripatetica per affermare positivamente la<br />

coerenza di una posizione etica che sostenga nella formula del telos la presenza allo stesso<br />

tempo della virtù morale e degli oggetti di appetizione naturale. All'interno della versione<br />

della divisio presentata del V libro del De finibus sembra possibile reperire alcuni degli<br />

elementi già funzionali alla strategia carneadea, combinati però con delle aggiunte<br />

verosimilmente antiochee. Le premesse della divisio (Fin. V, 16-17), ovvero i criteri in<br />

78 N.B. La strategia argomentativa che minimizza le differenze teoriche sostanziali tra Peripato e Stoa in ambito etico,<br />

giocando sull'opposizione verbis – re viene comunemente associata ad Antioco d'Ascalona. È invece opportuno<br />

considerare che Cicerone ascrive inequivocabilmente a Carneade l'origine di tale strategia e che essa è stata<br />

impiegata a seconda dei contesti per ottenere conclusioni tra loro anche molto diverse e non equivalenti.<br />

79 v. Fin. IV, 47; 60; 69; per un esposizione del 'dilemma' con il quale vengono confrontati gli stoici, v. Lévy (1980),<br />

pp. 238-251.<br />

xxxvi


ase ai quali vengono selezionate le posizioni etiche che entrano a far parte della divisio e<br />

quelle che invece ne rimangono escluse, risultano compatibili con l'argomentazione<br />

carneadea, che si suppone avesse bisogno di individuare un punto di partenza per la<br />

valutazione della coerenza interna delle varie istanze filosofiche tra cui quella stoica e lo<br />

individuasse proprio in un'assunto comune di tipo naturalistico. Anche la distinzione<br />

introdotta tra 'far di tutto per un fine indipendentemente dal suo raggiungimento' e 'far di<br />

tutto per ottenere un fine' (Fin. V, 19: facere omnia (x) causa, etiamsi id assequi nequeas /<br />

etiamsi non consequare ; obtinenda) inoltre risulta funzionale ad una strategia di<br />

isolamento che ha come target la posizione stoica, la quale figura da sola sul versante del<br />

'far di tutto per un fine indipendentemente dal suo raggiungimento'. Carneade poteva in<br />

questo modo trarre vantaggio dal trasformare quello che per gli Stoici era motivo di vanto,<br />

ovvero il fatto che la loro posizione non fosse analoga a nessun'altra, in un fattore di<br />

ridicolizzazione e indebolimento 80 . L'ultima parte della divisio invece, dove i tre potenziali<br />

oggetti della saggezza pratica vengono considerati in connessione con il concetto di<br />

honestas (Fin.V, 21), non sembra discendere direttamente dalle stesse premesse che hanno<br />

dato forma alle prime due serie di opinioni de summo bono. A differenza di quanto<br />

stabilito dalle premesse, in quest'ultima serie si considera l'oggetto dei primari impulsi<br />

naturali non più come da solo perfettamente sufficiente alla definizione del bene ultimo,<br />

ma tutto ad un tratto lo si trova in connessione con il valore morale. Nella prima parte<br />

della divisio si nota che il valore morale veniva introdotto in forma aggettivale (honestum)<br />

come il risultato di un ragionamento pratico a partire dai primari impulsi naturali 81 ; mentre<br />

nell'ultima serie della divisio il concetto di moralità (honestas) si trova congiunto o<br />

combinato in forma sostantiva con ognuno dei tre oggetti dell'inclinazione primaria ad<br />

illustrare la composizione del fine ultimo. Da un confronto con l'uso varroniano della<br />

divisio, di cui Agostino offre una testimonianza nel testo del XIX libro del De civitate Dei<br />

(v. T. 59), si deduce che un modo per giustificare la struttura dell'ultima serie di posizioni<br />

etiche consiste nell'asserire che il rapporto con gli oggetti di appetizione naturale deve<br />

essere considerato anche alla luce dello sviluppo ulteriore della vita dell'uomo, quando per<br />

effetto dell'insegnamento (doctrina) viene assimilata la virtus, v. De civ.Dei XIX, 1, 2: "ut<br />

80 La distinzione prende di mira in particolare la posizione di Antipatro, il quale distingueva il concetto di skopos come<br />

obiettivo di un'azione da quello di telos come fine di un'azione morale, attraverso il paragone dell'arciere: l'arciere fa<br />

tutto il possibile per colpire il bersaglio, anche se il fine non è il colpirlo, ma il fare tutto ciò che è in suo potere per<br />

colpirlo; cfr. Fin. III, 22 = fr. 18 SVF III; v. Ioppolo (1980), pp. 92-94; LS. 64 F. v. Soreth (1968).<br />

81 v. Fin. V 7, 19 : « ex eo autem quod statuerit esse quo primum natura moveatur, exsistet recti etiam ratio atque<br />

honesti, quae cum aliquo uno ex tribus illis congruere possit, ut aut id honestum sit, facere omnia voluptatis<br />

causa… »<br />

xxxvii


vel virtus, quam postea doctrina inserit"; 3, 1: "quapropter eadem virtus, id est, ars<br />

agendae vitae, cum acceperit prima naturae, quae sine illa erant, sed tamen erant etiam<br />

quando eis doctrina adhuc deerat, (...)"; Tuttavia il testo ciceroniano tace sulle ragioni di<br />

questo passaggio evolutivo e omette anche di fornire una spiegazione della nozione di<br />

'associazione'/'combinazione' implicita nelle formule complesse o composite del fine<br />

ultimo. La composizione di due elementi eterogenei rappresenta la terza opzione anche di<br />

quella che è nota come Chrysippea divisio, ovvero l'argomentazione riduttivista di<br />

Crisippo, per cui tutte le teorie etiche possono essere presentate come il perseguimento o<br />

della moralità, o del piacere, o di una somma dei due (v. Fin. III, 30; Luc. 138-139 = T. 40,<br />

n. 2). Nell'argomentazione crisippea la terza opzione veniva facilmente scartata giocando<br />

sul concetto di 'contaminazione' della moralità, per cui ogni tentativo di articolare la virtù<br />

con le altre appetizioni naturali della vita umana viene considerato come una forma<br />

camuffata di edonismo che aspira all'apparenza della virtù. Carneade, ci informa Cicerone,<br />

si era applicato alla difesa di quella definizione composita del telos, associata in certi<br />

contesti al nome di Callifone, tanto da dare l'impressione di sostenerla come propria 82 . È<br />

evidente la portata polemica della posizione assunta speculativamente da Carneade nel<br />

tentativo di ribaltare l'argomentazione dell'avversario stoico. Questo non garantisce però<br />

che la Carneadia divisio nella sua forma originaria (posto che sia mai esistita una forma<br />

'originaria') prevedesse l'aggiunta di un'ulteriore premessa per la terza e ultima serie di<br />

opinioni sul sommo bene, che permettesse di inserire la virtù a fianco degli oggetti di<br />

appetizione naturale. Il nome di Carneade viene infatti associato nelle varie versioni delle<br />

divisiones ethicae anche alla posizione semplice "summum bonum esse frui rebus is quas<br />

primas natura conciliavisset" (T. 39 : Luc. 131-132; Fin. V, 20); per cui si deduce che ogni<br />

posizione patrocinata dal filosofo academico viene selezionata verosimilmente solo in<br />

base al suo potenziale dialettico in un determinato contesto polemico. L'aggiunta di<br />

un'ulteriore premessa in cui la virtù morale guadagni preminenza è invece assolutamente<br />

necessaria, non tanto per l'accessoria menzione degli altrimenti sconosciuti Callifone e<br />

Dinomaco o del peripatetico marginale Diodoro, quanto piuttosto per l'inserimento della<br />

posizione degli antichi, v. Fin. V, 21: "Iunctae autem et duplices expositiones summi boni<br />

tres omnino fuerunt, nec vero plures, si penitus rerum naturam videas, esse potuerunt.<br />

Nam aut voluptas adiungi potest ad honestatem, (...), aut prima natura, ut antiquis, quos<br />

eosdem Academicos et Peripateticos nominamus". L'influenza della storiografia antiochea<br />

82 v. Luc. 131: « voluptatem autem et honestatem finem esse Callipho censuit »; Luc. 139: « ut Calliphontem sequar,<br />

cuius quidem sententiam Carneades ita studiose defensitabat ut eam probare etiam videretur »;<br />

xxxviii


su quest'ultimo passaggio è evidente già nell'uso del termine 'antiqui' per designare<br />

congiuntamente e indistintamente academici e peripatetici; essa risulta altrettanto<br />

percepibile nella sezione dedicata alla refutatio delle posizioni della divisio. Tutte le<br />

posizioni semplici della seconda serie della divisio vengono infatti confutate in base ad<br />

una nuova considerazione, che va ad aggiungersi alla premessa naturalistica, ovvero in<br />

base all'assunto che "in qualunque modo si definisca il sommo bene, se questo è tale che la<br />

moralità è assente, in quel sistema non possono perdurare nè i doveri, nè la virtù, nè le<br />

relazioni di amicizia" 83 . Il trinomio composto da officia, virtutes e amicitiae, ovvero i<br />

cardini della società civile, che il discorso etico sembrerebbe chiamato a garantire<br />

filosoficamente, esige la presenza del concetto di moralità nella definizione del telos.<br />

Nessun elemento della refutatio in conclusione può attribuirsi verosimilmente all'originale<br />

impostazione della Carneadia divisio, non solo perché la definizione patrocinata<br />

speculativamente da Carneade viene sbrigativamente accantonata, ma sopratutto perchè gli<br />

argomenti impiegati non vanno nella direzione di isolare la posizione stoica a suo<br />

detrimento, quanto piuttosto introducono nuove premesse funzionali ad un suo almeno<br />

parziale recupero. La conclusione del resto si discosta interamente dall'intenzione<br />

carneadea : "rimangono gli stoici, i quali avendo copiato tutto dai peripatetici e dagli<br />

academici, hanno seguito le stesse idee sotto altri nomi" 84 . L'esito della dialettica di<br />

Antioco intende allora offrire una giustificazione dello sforzo sia di revisione teorica delle<br />

istanze etiche del periodo ellenistico, sia delle dinamiche di conciliazione dei punti forti di<br />

ogni posizione all'interno di un unico orizzonte di pensiero in cui lo stoicismo, l'etica degli<br />

antichi academici e quella dei peripatetici si trovano sullo stesso piano. Quando Antioco<br />

riprende l'idea carneadea che tra stoici e peripatetici non sussista una divergenza<br />

sostanziale, ma soltanto una differenza terminologica 85 , non si tratta più di mettere in luce<br />

provocatoriamente i limiti di coerenza delle varie istanze etiche, ma piuttosto di trovare un<br />

terreno comune in cui le varie istanze filosofiche contribuiscono ad una concezione<br />

completa del fine della vita umana. Questo esito dogmatico viene ottenuto attraverso un<br />

uso rifunzionalizzato della dialettica carneadea, combinato con l'assunto speculativo<br />

dell'identità filosofica di Academia e Peripato. La dogmaticità della conclusione<br />

'antiochea' non impedisce a Cicerone, in altri contesti argomentativi, di appropriarsi a sua<br />

83 Fin. V, 22: « Quocumque enim modo summum bonum sic exponitur, ut id vacet honestate, nec officia nec virtutes in<br />

ea ratione nec amicitiae constare possunt »; Cfr. Fin. II, 38: « Reicietur etiam Carneades, nec ulla de summo bono<br />

ratio aut voluptatis non dolendive particeps aut honestatis expers probabitur ».<br />

84 Ivi : « Restant Stoici, qui cum a Peripatetici et Academicis omnia transtulissent, nominibus aliis easdem res secuti<br />

sunt ».<br />

85 Cfr. ND I, 16: « Antiocho enim Stoici cum Peripateticis re concinere videntur, verbis discrepare ».<br />

xxxix


volta dello strumento e impiegarlo per presentare il suo personale approccio alla dissensio<br />

dei filosofi dogmatici in ambito etico e la sua ricerca prudente del probabile. Nella sua<br />

personale appropriazione Cicerone non manca per altro di affermare che esiste una non<br />

trascurabile incongruenza tra la posizione etica stoica e quella vetero-academica, v. Luc.<br />

132 = T. 39 : "Erit igitur res iam in discrimine, nam aut Stoicus constituatur sapiens aut<br />

veteris Academiae. Utramque non potest, est enim inter eos non de terminis sed de tota<br />

possessione contentio"; per quanto riguarda invece l'identità delle posizioni etiche<br />

dell'Academia e del Peripato, Cicerone si limita a dire che rispetto alla definizione del fine<br />

ultimo fornita dagli academici antichi, in particolare da Polemone, Aristotele e i suoi<br />

consociati sembrano "avvicinarsi molto precisamente a questa posizione" (Luc. 131 = T.<br />

39: "huc proxime videntur accedere"; cfr. De orat. III, 67 = T. 36 : nihil ab<br />

Aristotele...magnopere dissenserunt ; Tusc. V, 83: "Peripatetici nec multo veteres<br />

Academici secus"). Cicerone non contesta che sia possibile avvicinare le posizioni etiche<br />

di Aristotele e Polemone, ma preferisce evitare l'idea antiochea di una perfetta identità.<br />

Cicerone in ultima analisi offriva al lettore romano diverse opzioni di utilizzo del<br />

medesimo strumento dialettico, ricordando la sua origine carneadea, la sua funzione<br />

dogmatica all'interno della storiografia ermeneutica di Antioco d'Ascalona e anche la<br />

possibilità di ricollocarlo all'interno di un discorso comparativo il cui obiettivo si ferma al<br />

livello epistemologico del 'probabile' o 'verosimile'.<br />

I testi di Cicerone come fonte della filosofia ellenistica<br />

L'importanza dei testi filosofici di Cicerone come fonte della filosofia ellenistica non ha<br />

più bisogno di essere dimostrata. Altrettanto chiara per la critica è la complessità dei testi<br />

ciceroniani e la necessità di una chiara definizione del proprio approccio metodologico.<br />

Cicerone, dopo essere stato a lungo considerato dal punto di vista filosofico alla stregua di<br />

un maldestro copista, viene oggi invece riconosciuto come il più importante mediatore tra<br />

il pensiero filosofico greco e la cultura latina. Una profonda attenzione per le dinamiche di<br />

assimilazione e mediazione proprie dell'impresa culturale di Cicerone è dunque<br />

condizione preliminare per l'uso del testo ciceroniano ai fini di una qualsiasi ricostruzione<br />

storico-filosofica. Dal punto di vista della metodologia della ricerca è doveroso<br />

xl


puntualizzare quanto più precisamente possibile la modalità di approccio al testo e<br />

delimitarne gli assunti principali.<br />

1) 'Assimilazione': Il rapporto che Cicerone intrattiene con i testi che impiega come fonti<br />

per le sue trattazioni viene valutato a partire dall'operazione culturale presentataci<br />

dall'autore: un'esposizione in lingua latina del pensiero filosofico, affinché anche in questo<br />

ambito la cultura romana possa emanciparsi dal monopolio della lingua greca e<br />

contestualmente appropriarsi dei benefici derivanti da questo tipo di disciplina (v. Tusc. I,<br />

5: "philosophia iacuit usque ad hanc aetatem nec ullum habuit lumen litterarum<br />

Latinarum; quae inlustranda et excitanda est"; Div. I, 1; 6-7; ND I, 17). La responsabilità<br />

culturale consapevolmente assunta da Cicerone porta in primo piano il rapporto che egli<br />

intrattiene con le opere dei filosofi greci, talvolta come traduttore, talvolta come<br />

divulgatore e interprete. Cicerone descrive se stesso a più riprese come dedito allo studio<br />

diretto dei testi degli antichi filosofi, e allo stesso tempo come impegnato in una attiva<br />

riflessione personale sui dibattiti filosofici contemporanei. Formula questioni, riprende<br />

questioni, la sua mente è il campo arato dai suoi studi filosofici ed è da essa che Cicerone<br />

si aspetta i frutti 86 . Allo stesso tempo, considerare Cicerone come un 'filosofo',<br />

nell'accezione antica o moderna del termine, indipendentemente dal particolare contesto<br />

culturale in cui egli opera, significherebbe sottovalutare la complessità del rapporto di<br />

Cicerone con la filosofia dei greci 87 . Cicerone, per quanto dissemini la sua opera con<br />

elementi autocelebrativi, non si arroga mai un'originalità di pensiero, nel senso in cui lo<br />

farebbe un qualunque filosofo moderno o contemporaneo. Al contrario quando si tratta di<br />

descrivere il rapporto dei suoi testi rispetto alla produzione dei filosofi greci, sminuisce<br />

l'originalità del suo intervento qualificando le sue opere come apographa (Ad Att. XII,<br />

52). Sulla base di questo tipo di affermazioni la critica ha ritenuto legittimo andare alla<br />

ricerca nel testo di Cicerone della copia latina di passaggi tratti dalle opere di filosofi<br />

greci.<br />

Oggi, facendo tesoro degli insegnamenti derivanti tanto dai successi quanto dai fallimenti<br />

della Quellenforschung 88 , si ritiene necessario considerare i testi delle opere filosofiche<br />

86 v. la metafora d'apertura nel Brutus.<br />

87 v. Gildenhard, Gargnano 2011.<br />

88 In tempi recenti la fortuna dei metodi della Quellenforschung si è drasticamente ridimensionata. Ci si rende infatti<br />

conto che l'adozione di criteri interni al testo per trasferire la paternità del contenuto di un testo ciceroniano ad una<br />

delle sue fonti ha condotto ad argomentazioni di tipo circolare: un certo passaggio di Cicerone viene attribuito a una<br />

delle sue possibili fonti, perché un altro passaggio simile lo è già stato. Conseguenza di questo metodo è non<br />

soltanto l'estensione non giustificata dell'influenza di una fonte sul testo ciceroniano, ma anche la riduzione di<br />

quest'ultimo ad una sovrapposizione meccanica di testi di altri autori. Tuttavia la pratica della 'critica delle fonti'<br />

xli


ciceroniane innanzitutto come quello che dichiarano di essere: un'esposizione in lingua<br />

latina della filosofia dei greci. Nei testi ciceroniani confluisce dunque il risultato<br />

dell'interazione tra i testi della cultura filosofica greca, a cui Cicerone ha avuto accesso,<br />

tanto durante la sua formazione, quanto durante la fase più propriamente di redazione dei<br />

suoi lavori, e il contesto culturale, sociale e politico a cui Cicerone appartiene. Questa<br />

interazione presuppone un complesso lavoro di assimilazione, trasposizione, traduzione e<br />

rielaborazione, affinché la presentazione dei contenuti risulti efficace in relazione al<br />

pubblico romano 89 . Presuppone innanzitutto un lavoro filosoficamente intelligente. La<br />

particolare forma mentis filosofica, politica e retorica 90 dell'autore rimane altresì<br />

l'innegabile filtro attraverso il quale le trattazioni filosofiche di Cicerone prendono forma.<br />

2) 'Molteplicità': I testi filosofici non si concentrano sull'esposizione della dottrina di una<br />

sola scuola filosofica. Proprio perché formatosi filosoficamente all'interno del contesto<br />

academico la sua prospettiva filosofica si interessa primariamente al vaglio della coerenza<br />

delle posizioni dogmatiche sostenute dalle varie istanze filosofiche. I testi ciceroniani<br />

intendono offrire una prospettiva quanto più completa possibile su l'intero contesto<br />

filosofico con il quale Cicerone è personalmente entrato in contatto negli anni della sua<br />

formazione. Essi si sforzano di ricostruire nei limiti del possibile i presupposti storici e<br />

dottrinali delle dispute filosofiche che hanno animato il periodo ellenistico, da un punto di<br />

vista che ritiene se stesso, a torto o a ragione, tra tutti il più imparziale, ovvero la<br />

prospettiva scettico-academica posta di fronte alle varie posizioni dogmatiche. Uno dei<br />

metodi di cui Cicerone si avvale è quello della disputatio in utramque partem, orientato<br />

alla ricerca del probabile / verisimile in ogni questione 91 ; in esso si conciliano sia la<br />

formazione filosofica di Cicerone, sia la sua formazione retorica, ovvero lo sviluppo di<br />

(source-criticism) continua ad essere una risorsa importante per l'analisi della costruzione del testo ciceroniano,<br />

sopratutto in quei contesti in cui l'autore stesso fa esplicito riferimento alle sue fonti; ovvero non in funzione della<br />

ricostruzione del testo originario, ma in funzione dello studio delle modalità di assimilazione e adattazione dei testi<br />

greci nell'opera di Cicerone. Si veda il caso dei primi due libri del De Officiis, v. Dyck (1996), pp. 18-21.<br />

89 v. Davies (1971), p. 107: « For it will reflect not merely the inclinations and calibre of its author, but also a wealth of<br />

literary tradition and historical development. Like all accomplishments, literary and philosophical, it will not exist in<br />

vacuo; it will be a child of its time, moulded and influenced by a mutiple causation of which its author may indeed<br />

be only half aware ».<br />

90 v. Michel (1961).<br />

91 v. Luc. 7-8: "Nos autem quoniam contra omnes dicere quae videntur solemus, non possumus quin alii a nobis<br />

dissentiant recusare: (...); neque nostrae disputationes quidqum aliud agunt nisi ut in utramque partem dicendo<br />

eliciant et tamquam exprimant aliquid quod aut verum sit aut ad id quam proxime accedat. Nec inter nos et eos qui<br />

se scire arbitrantur quidquam interest nisi quod illi non dubitant quin ea vera sint quae defendunt, nos probabilia<br />

multa habemus, quae sequi facile, adfirmare vix possumus"; Off. II, 8 : "Contra autem omnia disputatur a nostris,<br />

quod hoc ipsum probabile elucere non posset, nisi ex utraque parte causarum esset facta contentio"; Il 'probabile' e<br />

il suo risvolto pratico viene attribuito a Carneade, v. Luc. 99.<br />

xlii


una capacità argomentativa non puramente al servizio di un dogma e la ricerca del<br />

discorso migliore a sostegno di una causa; l'interesse di Cicerone si rivolge allora<br />

prevalentemente alla forza di un argomento, alla coerenza nell'uso del sillogismo, ai punti<br />

deboli di una teoria, generalmente meglio visibili nel confronto con le altre istanze<br />

filosofiche. Non si può negare che Cicerone mostri poi particolare interesse per alcuni<br />

temi piuttosto che altri, tra cui il tema autarchia della virtù, il rapporto tra vita attiva e vita<br />

contemplativa, i doveri della vita dell'uomo; in ambito etico in generale Cicerone risulta<br />

interessato a mostrare quali fondamenti filosofici possano contribuire a dare sostegno ai<br />

valori cardine della società romana come lui la concepisce. A tal fine il discorso<br />

ciceroniano conserva la predilezione socratica per il concetto di virtù morale: v. De off. III,<br />

20: "...splendidius haec ab iis disserentur quibus quidquid honestum est, idem utile videtur<br />

nec utile quicquam quod non honestum"; .<br />

3) 'Dialogo': Il contesto dialogico di molte opere filosofiche risponde a precise intenzioni<br />

retoriche e filosofiche; attraverso la forma dialogica Cicerone si pone in una linea di<br />

continuità con Platone e Aristotele 92 , avvalendosi al contempo della possibilità di fornire<br />

un resoconto dinamico del contesto dialettico del periodo ellenistico. La scelta dei<br />

personaggi è del resto lontana dal rispondere a casuali esigenze di finzione scenica.<br />

Affidando l'esposizione delle principali dottrine filosofiche ad importanti esponenti della<br />

società romana, Cicerone offre un'inaspettata rappresentazione performativa del potenziale<br />

filosofico della cultura latina. Egli sfida così gli ultimi residui di diffidenza nei confronti<br />

dei tecnicismi delle dispute filosofiche e presenta al pubblico romano l'importante<br />

contributo che le varie scuole filosofiche sono capaci di dare al sistema educativo e<br />

politico del mondo romano. Ogni interlocutore viene accuratamente scelto in base alla sua<br />

capacità di rappresentare plausibilmente il punto di vista di un'istanza filosofica, sulla base<br />

o di una frequentazione diretta di un'esponente eminente della scena filosofica, o di un<br />

vivo e comprovato interesse per le questioni dibattute. È inoltre importante considerare il<br />

significato e la provocatorietà politica delle scelte drammatiche ciceroniane 93 , per cui<br />

l'otium filosofico, per quanto culturalmente estraneo alla mentalità dell'aristocrazia<br />

romana, viene progressivamente giustificato come una forma di attività politicamente<br />

rilevante; Negli anni della crisi della repubblica romana, Cicerone presenta la sua<br />

produzione filosofica non solo come il risultato di una determinata situazione politica, in<br />

92 v. Hirzel (1895), pp. 457 - 552.<br />

93 Per un efficace esposizione delle modalità con cui Cicerone porta avanti il suo progetto politico attraverso mezzo<br />

letterari, v. in particolare Gildenhard (2007).<br />

xliii


cui un'azione diretta sulla scena pubblica gli è da un certo momento in poi<br />

progressivamente preclusa, ma anche e sopratutto come una diretta espressione della<br />

cultura e dei valori di una certa classe politica, la cui primaria intenzione è quella di<br />

opporre resitenza rispetto ai rivolgimenti in atto nella società romana. Il progetto filosofico<br />

di Cicerone in ultima istanza rappresenta una forma di contributo attivo alla società<br />

romana, la cui importanza assume progressivamente sempre più rilievo quanto più gli<br />

viene negato un accesso diretto alla scena politica. Cicerone sembrerebbe allora ripiegare<br />

sempre di più su un identità filosofica in aggiunta a quella di retore e uomo politico<br />

nell'estremo tentativo di contribuire alla società a cui appartiene.<br />

4) 'Traduzione': Il vocabolario filosofico ciceroniano è il risultato di attente scelte di<br />

traduzione del linguaggio filosofico greco e come tale va considerato. Cicerone dissemina<br />

nei testi numerosi indizi per il lettore in corrispondenza dei suoi sforzi di traduzione: non<br />

solo si compiace di fornire il corrispettivo greco ogni qual volta si introduca un termine<br />

tecnico del linguaggio filosofico [Luc. 17: comprehensio – kata/lhyin; perspecuitate aut<br />

evidentia – e)nargei/a; 94 Luc. 18: visum – fantasi/a; Luc. 22: notitiae – e)nnoi/ai; Luc. 24:<br />

adpetitio – o(rmh/; Luc, 36: adsensio atque adprobatio – sugkata/qesij; Luc. 38: quod<br />

accomodatum ad naturam – oi)kei=on; Luc. 59: adsensionis retentio – e)poxh/; Luc. 78:<br />

decreta – do/gmata; Luc. 130: neutram in partem moveri – a)diafori/a ; Ac.libri I, 25:<br />

qualitas – poio/thj; Ac.libri I, 41: comprendibile – katalhpto/n; Fin. III, 17:<br />

comprehensiones vel perceptiones – katalh/yeij; Fin. III, 20: aestimabile – a)ci/a;<br />

officium – kaqh=kon; Fin. III, 21: notio – e)/nnoia; convenientia – o(mologi/a; Fin. 23:<br />

appetitio animi – o(rmh/; Fin. III, 24 (Cfr. Fin. V, 17): recta aut recte facta – katorqw/mata;<br />

Fin. III, 35: perturbatio – pa/qoj 95 ; Fin. III, 52: producta vel promota / praeposita vel<br />

praecipua – prohgme/na; remota / reiecta – a)poprohgme/na (cfr. Fin. IV, 72); Fin. III, 53 –<br />

a)dia/foron – indifferens; Fin. III, 69: incommoda et commoda – dusxrhsth/mata,<br />

eu)xrhsth/mata; Fin. V, 23: tranquillitas animi – eu)qumi/a (cfr. Fin. V, 87) etc.], ma segnala<br />

anche attraverso numerosi procedimenti espressivi l'approssimatività linguistica delle sue<br />

scelte di traduzione: Cicerone opta talvolta per un'accumulazione lessicale, ossia, invece di<br />

un unico termine, propone coppie terminologiche, per tentare di coprire attraverso la<br />

94 Si noti la difficoltà incontrata nel rendere invece a)kata/lhpton, per cui in Luc. 18 si usa la perifrasi "negaret<br />

quicquam esse quod comprehendi posset".<br />

95 La traduzione di pa/qoj viene calibrata rispetto al suo uso filosofico, una scelta di tipo puramente semantico,<br />

spingerebbe Cicerone ad adottare 'morbum', ma, in considerazione dell'uso stoico del termine per designare affezioni<br />

come la misericordia e l'ira, egli preferisce 'perturbatio'.<br />

xliv


congiunzione di più termini il campo semantico del corrispettivo greco 96 ; talvolta invece è<br />

l'uso di quaedam a segnalare lo sforzo di traduzione. Cicerone vuole che il lettore<br />

riconosca le dinamiche delle sue scelte di traduzione e a più riprese si ferma a riflettere<br />

sull'opportunità e la sensatezza di tali operazioni. Si tratta in un certo qual modo di una<br />

forma di istruzione partecipata, che invita il lettore a considerare l'origine greca del<br />

linguaggio filosofico e il processo di adattamento alla lingua latina a cui viene soggetto.<br />

Per il vocabolario tecnico Cicerone non adotta un principio rigido di univocità della<br />

traduzione, per cui per ogni termine greco si dovrebbe adottare un unico vocabolo latino;<br />

al contario le scelte di traduzione di Cicerone, per quanto complessivamente coerenti,<br />

sembrano mutare a seconda del contesto e probabilmente in relazione ad un<br />

approfondimento progressivo delle questioni teoriche; esistono inoltre termini per i quali<br />

egli preferisce fornire esplicitamente più di un corrispettivo possibile, questo è il caso per<br />

esempio di te/loj, reso con finis, summum, ultimum, extremum (v. Fin. I, 42); esistono poi<br />

singoli concetti del linguaggio filosofico greco per cui Cicerone stenta a trovare un<br />

corrispettivo soddisfacente e che evita dunque di menzionare nell'originale greco: il caso<br />

tra tutti più eclatante è proprio quello di oi)kei/wsij - di così grande importanza per la<br />

presente ricerca -, in forma sostantiva o verbale (l' aggettivo viene tradotto in Luc. 38<br />

come 'quod accomodatum ad naturam' e nella traduzione del passo del Timeo 34a come<br />

'aptissumus'), per cui la traduzione ciceroniana sembrerebbe esser costretta a trasformare il<br />

senso dell'espressione greca e ad oscillare tra le varie opzioni proposte. In Fin. III, 16,<br />

l'espressione "sibi conciliari et commendari" intende verosimilmente svolgere la funzione<br />

dell'espressione verbale oi)keiou=sqai e(aut%=. 97 I sostantivi conciliatio e commendatio<br />

potrebbero dunque esser considerati il corrispettivo della forma sostantiva oi)kei/wsij, v.<br />

Fin. III, 21: prima conciliatio; Fin. III, 63: naturalis commendatio. Tuttavia i due termini<br />

latini non risultano essere appannaggio esclusivo della teoria stoica, come invece si pensa<br />

lo sia stata la forma sostantiva del termine greco. Conciliatio e commendatio si trovano<br />

impiegati anche nell'esposizione della posizione edonista di Epicuro e Aristippo (v. Fin. II,<br />

35: "in prima commendatione"; Fin. II, 99: "commendatio puerorum"), laddove le fonti<br />

greche parlano invece di prw=ton oi)kei/on (v. Clem.Alex. Str. II, 21, 128, v. T. 58:<br />

Contesto; Alex. De anima libri mantissa 150); inoltre il testo ciceroniano declina talvolta i<br />

96 v. l'illustrazione del suo metodo in Fin. III, 15 : « nec tamen exprimere verbum e verbo necesse erit, ut interpretes<br />

indiserti solent, cum sit verbum quod idem declaret magis usitatum. Equidem soleo etiam, quod uno Graeci, si aliter<br />

non possumus, idem pluribus verbis exponere. Et tamen puto concedi nobis oportere si quando minus occurret<br />

latinum » ; v. Lévy (1992b), pp. 95 ss.<br />

97 Sull' uso di concilio e commendo, cfr. Fin. I, 52; Fin. II, 98; Fin. III, 23; Fin. IV, 19; Fin. IV, 25.<br />

xlv


due termini al plurale, v. Fin. III, 22: "primae conciliationes naturae"; Fin. IV, 26: "tantae<br />

commendationes a natura", in modo da sembrare far riferimento ad una serie di istruzioni<br />

per il futuro sviluppo dell'essere vivente, piuttosto che ad un principio unico di conformità<br />

naturale. La traduzione ciceroniana in ultima istanza sembrerebbe non distinguere tra<br />

oi)kei/wsij e prw=ta oi)kei/a. Di conseguenza l'uso dell'espressione 'commendatio naturae'<br />

nel contesto dell'esposizione dell'etica vetero-academica e peripatetica (v. Fin. V, 33:<br />

"commendatione natura"; Fin. V, 40: "prima commendatione naturae"; Fin. V, 41: "prima<br />

illa commendatio, quae a natura nostri facta est nobis"; Fin. V, 46: "a prima<br />

commendatione naturae") 98 non può essere considerata una prova sufficiente per<br />

l'attribuzione dell'uso tecnico del concetto greco di oi)kei/wsij in questo ambito da parte<br />

dei filosofi menzionati. Non è possibile in ultima istanza fare pieno e incondizionato<br />

affidamento sulla coerenza lessicale del linguaggio filosofico ciceroniano, il quale<br />

nonostante tutti gli sforzi risulta non solo soggetto ai limiti della lingua latina, ma anche<br />

(e sopratutto) ad un processo di uniformizzazione lessicale derivato dalle esigenze<br />

comparative del contesto polemico del periodo ellenistico. Ancora più problematica è la<br />

resa dei costrutti preposizionali, in cui le preposizioni latine si rivelerebbero inadeguate a<br />

svolgere le stesse funzioni di quelle greche. Si osserva ad esempio che nella traduzione<br />

ciceroniana del Timeo in molte occasioni Cicerone tende all'omissione di espressioni come<br />

kata£ fu/sin, kata£ tauto/n, kata£ tau/ta 99 , con il risultato che la versione latina<br />

sopprimerebbe la sfumatura di conformità e ripetizione regolare espressa dalla<br />

preposizione greca. Dal punto di vista della resa delle posizioni filosofiche del periodo<br />

ellenistico, se dovessimo assumere la stessa tendenza all'omissione nei trattati ciceroniani,<br />

le conseguenze non sarebbero ovviamente senza importanza, considerando in particolare<br />

che l'eventuale confronto filosofico tra Polemone e Zenone è avvenuto verosimilmente<br />

intorno al significato del bi/oj kata£ fu/sin. Si prenda ad esempio in considerazione la<br />

spinosa questione del concetto di ta£ prw=ta kata£ fu/sin (v. T. 40: Luc. 138-139, pp. 202-<br />

216), ovvero di quegli elementi come salute, buona costituzione fisica, bellezza, etc. che si<br />

trovano al centro del dibattito etico del periodo ellenistico. La Stoa e il Peripato<br />

sembrerebbero infatti a un certo momento aver sostenuto due posizioni diametralmente<br />

opposte rispetto allo statuto di tali elementi: considerati dei 'beni' dal punto di vista<br />

aristotelico, gli stessi oggetti figurerebbero come del tutto 'indifferenti' ai fini del<br />

conseguimento del fine della vita umana all'interno della teoria stoica. Zenone avrebbe<br />

98 Sulla problematicità dell'associazione del sostantivo conciliatio con l'aggettivo prima, v. Lee (2002), p. 102, n. 17.<br />

99 v. Poncelet (1957), pp. 54-55.<br />

xlvi


inoltre introdotto una terminologia speciale per questa categoria di elementi per spiegare<br />

come essi possono effettivamente assumere un 'valore' all'interno di una scelta pratica:<br />

l'essere di qualcosa kata£ fu/sin o para£ fu/sin lo rende di fatto prohgme/non o<br />

a)poprohgme/non, nel momento in cui l'uomo si trovi effettivamente a scegliere come<br />

orientarsi nel mondo (v. Fin. III, 51-52). Fornire dunque una lista di oggetti designati come<br />

ta£ kata£ fu/sin ha perfettamente senso all'interno delle due teorie, per quanto gli esiti<br />

teorici siano diametralmente opposti: in ambito stoico ta£ kata£ fu/sin determina il<br />

contenuto (di per sé neutro) di una scelta pratica, mentre in ambito peripatetico definisce<br />

cumulativamente il fine della vita umana. L'espressione greca ta£ prw=ta kata£ fu/sin<br />

aggiunge poi alla nozione di 'conformita' naturale di certi elementi piuttosto che altri la<br />

nozione di 'primarietà', alludendo così al principio del discorso etico per cui le prime<br />

manifestazioni naturali vengono considerate indice fondamentale della direzione in cui va<br />

ricercato anche il fine della vita dell'uomo. Questo valore aggiunto rende in un certo senso<br />

problematico l'uso della nozione nella ricostruzione della dottrina stoica, poiché, come si è<br />

visto fa già parte della strategia critica prima carneadea e poi anche antiochea spingere la<br />

posizione stoica ad ammettere un'allineamento dottrinale con il peripato su quali siano i<br />

'primi oggetti di appetizione naturale'; Ci sono invece ragioni per pensare che gli stoici<br />

come premessa del discorso etico si limitassero a sottolineare che la condizione di<br />

possibilità di ogni appetizione è il principio unico di oi)kei/wsij, o conformità naturale a se<br />

stessi (Fin. III, 16; v. T. 42 : Fin. II, 34-35, Contesto). Qualora si ammetta allora che ogni<br />

qualvolta il testo ciceroniano impiega espressioni come prima naturae, prima naturalia,<br />

etc. in realtà si può supporre l'omissione della preposizione kata/ e quindi l'occultamento<br />

del concetto di ta£ prw=ta kata£ fu/sin, 100 si perde la possibilità di differenziare<br />

filosoficamente i contesti in cui Cicerone ricorre alla preposizione secundum, per rendere<br />

inequivocabilmente l'espressione prw=ta kata£ fu/sin, [v. Fin. V, 18: "...quae prima<br />

secundum naturam nominant, proficiscuntur, in quibus numerant incolumitatem<br />

conservationemque omnium partium, valetudinem, sensus integros, doloris vacuitatem,<br />

viris, pulchritudinem, cetera generis eiusdem, quorum similia sunt prima in animis quasi<br />

virtutum igniculi et semina"; Fin. V, 20: "fruendi rebus iis, quas primas secundum<br />

naturam esse diximus, Carneades defensor disserendi causa fuit"; Fin. V, 45: "Utrum enim<br />

sit voluptas in iis rebus quas primas secundum naturam esse diximus necne sit..."] e quelli<br />

100 Questo è quello che fa ad esempio Poncelet (1957), p. 109, anche nel caso dell'espressione 'prima a natura data' di<br />

Fin. II, 34-35 = T.?, per cui de Vogel (1953), pp. 294-300, tra gli altri, attribuisce a Polemone l'uso del concetto ta£<br />

prw=ta kata£ fu/sin.<br />

xlvii


invece in cui eventualmente gioca sulla flessibilità d'uso dell'avverbo greco fu/sei, v. Luc.<br />

138-139 = T. 40: prima naturae commoda. Talvolta chiaramente visibile, talvolta<br />

occultato dalla resa latina, l'originale greco rimane in ogni caso il filo conduttore per ogni<br />

parziale e congetturale ricostruzione dottrinale. Si terrà inoltre presente che le scelte<br />

lessicali ciceroniane sono anche il risultato di una mediazione culturale, ossia il veicolo<br />

della prospettiva eminentemente romana con cui Cicerone fa dialogare le questioni<br />

filosofiche formulate dal mondo greco: si veda ad esempio l'impiego dei concetti di<br />

auctoritas (p. 206 ss; 288 ss.) e di princeps (p. 304 ss.).<br />

Al fine di orientarsi nelle dispute che oppongono le varie scuole nel periodo ellenistico, si<br />

tenga sempre presente la complessa sovrapposizione di piani polemici. La formazione<br />

filosofica di Cicerone gli permette infatti di descrivere nel dettaglio l'evoluzione dei<br />

dibattiti filosofici originatesi nel III secolo a.C. e proliferati, seppur in modo discontinuo,<br />

fino al I secolo a.C. Il testo di Cicerone si sforza dunque di rendere conto di una<br />

sovrapposizione di piani polemici attraverso l'elaborazione di categorie storiografiche non<br />

esenti da rilevanti connotazioni filosofiche. Si considerino i casi paradigmatici degli<br />

Academica e del De finibus.<br />

Academica :<br />

Il complesso testo degli Academica, per quanto accessibile solo attraverso due porzioni di<br />

testo appartenenti a due diverse fasi redazionali, fa riferimento ad almeno tre fasi distinte<br />

del dibattito epistemologico. Il preambolo del Lucullus (10-12), facendo riferimento al<br />

contenuto della precedente discussione riportata dal testo perduto del Catulus, allude ad<br />

una polemica contra Philonem, ossia a un dibattito provocato dalle posizioni assunte da<br />

Filone di Larissa, a cui Antioco d'Ascalona avrebbe risposto con la composizione di una<br />

opera intitolata Sosus 101 . La discussione epistemologica che oppone Filone e Antioco<br />

costituisce lo strato più recente del complesso dibattito epistemologico di cui Cicerone<br />

rende testimonianza; il testo del Lucullo manifesta infatti l'esigenza di risalire ad una fase<br />

più antica e più ardua 102 del dibattito: "Ad Arcesilan Carneademque veniamus" (Luc. 12),<br />

in cui i filosofi academici si sono cimentati nella confutazione del dogmatismo stoico.<br />

101 v. Glucker (1978); Lévy (1992a); Brittain (2001).<br />

102 Filone di Larissa viene messo da parte come un avversario minus acer, lenior, probabilmente perché Antioco<br />

sembrava aver fornito una confutazione convincente della posizione espressa da Filone nei « libri romani ». La<br />

necessità di risalire alle fasi più antiche del dibattito corrisponde verosimilmente all'esigenza di fornire un quadro<br />

completo sul dibattito tra scetticismo academico e dogmatismo, eliminando l'impressione che le posizioni assunte da<br />

Filone siano rappresentative di tutta la storia dell'Academia.<br />

xlviii


All'origine del dibattito si trovano le argomentazioni di Arcesilao contro le definizioni<br />

fornite da Zenone del concetto di fantasi/a katalhptikh/ su cui si basa la concezione<br />

stoica della conoscenza (Luc. 77-78); Arcesilao si sarebbe dimostrato pronto ad accettare<br />

la validità della definizione zenoniana, per poi argomentare che nessuna delle<br />

rappresentazioni dell'uomo ne soddisfa i requisiti 103 e che dunque è giusto per l'uomo<br />

saggio sospendere il giudizio e non dare l'assenso a nessuna delle sue rappresentazioni.<br />

L'atteggiamento critico di Arcesilao in ultima istanza piega la definizione stoica a<br />

sostenere una tesi contraria a quella in relazione alla quale è stata creata. Successivamente<br />

il contributo di Carneade al medesimo dibattito si sarebbe svolto in opposizione alle<br />

argomentazioni avanzate da Crisippo 104 e Antipatro 105 . Le difficoltà di ricostruzione di<br />

questa già complessa fase del dibattito sono aumentate dal fatto che, a proposito delle<br />

posizioni effettivamente assunte da Carneade, sembrano esserci state profonde divergenze<br />

interpretative all'interno della stessa Academia, per cui la lettura di Clitomaco dello<br />

scetticismo carneadeo diverge da quella proposta da Metrodoro e anche da quella di<br />

Filone 106 . Cicerone presenta come oggetto di particolare controversia l'idea, probabilmente<br />

sostenuta da Filone (nei libri romani), che secondo Carneade il saggio formula talvolta<br />

delle opinioni 107 . Secondo la definizione stoica, il formulare un opinione (do/ca)<br />

corrisponde a dare l'assenso (sugkata/qhsij) a una rappresentazione non catalettica,<br />

dunque la tesi (eventualmente) sostenuta da Carneade equivarrebbe a dire che il saggio dà<br />

talvolta l'assenso a una rappresentazione falsa, il che non solo è incompatibile con la<br />

definizione di saggio, ma sopratutto entra in conflitto con il principio scettico<br />

fondamentale per cui il saggio non dà l'assenso a nessuna delle sue rappresentazioni. Con<br />

maggiore insistenza, il testo ciceroniano attribuisce a Carneade l'uso del concetto di<br />

'rappresentazione probabile' o 'rappresentazione probabile e senza ostacolo' 108 , il quale<br />

103 Una rappresentazione è catalettica se 1) proviene da cio che è (ex eo quod esset); 2) si imprime in accordo con ciò<br />

che è (sicut esset, impressum et signatum et effictum); 3) è tale che non potrebbe venire da ciò che non è (v. Luc. 77<br />

« hic Zenonem vidisse acute nullum esse visum quod percipi posset, si id tale esset ab eo quod est ut eiusdem modi<br />

ab eo quod non est posset esse »). Stando al testo ciceroniano la terza clausula sarebbe stata stimolata dai quesiti<br />

sollevati da Arcesilao. Cfr. DL VII, 46; SE Adv. Math. VII, 248.<br />

104 v. Luc. 87.<br />

105 v. Luc. 28; 109, dove Carneade ribatte all'obiezione formulata da Antipatro che se qualcuno afferma che niente può<br />

essere percepito (come vero), deve ammettere che almeno questo fatto, che niente può essere percepito (come vero),<br />

può essere percepito (come vero). Carneade risponde che nemmeno l'impossibilità della percezione fa eccezione e<br />

pertanto non può essere percepita (come vera).<br />

106 v. Luc. 78 "equidem Clitomacho plus quam Philoni aut Metrodoro credens hoc magis ab eo disputatum quam<br />

probatum puto".<br />

107 v. Luc. 59: "Carneadem autem etiam heri audiebamus solitum esse eo delabi interdum ut diceret opinaturum, id est<br />

peccaturum, esse sapientem"; Luc. 67; Luc. 78.<br />

108 v. Luc. 33: "quam ob rem sive tu probabilem visionem sive probabilem et quae non impediatur, ut Carneades<br />

volebat, sive aliud quid proferes quod sequare, ad visum illud de quo agimus tibi erit revertendum"; Luc. 99: "Duo<br />

placet esse Carneadi genera visorum, in uno hanc divisionem, alia visa esse quae percipi possint, alia quae percipi<br />

xlix


fornisce la possibilità di un orientamento nel mondo senza implicare un assenso da parte<br />

del soggetto. Il concetto ricopre inoltre una funzione cruciale nell'interpretazione<br />

ciceroniana del metodo academico. È evidente infine che anche gli esiti più recenti del<br />

dibattito epistemologico presuppongono un riferimento agli strati precedenti e allo stesso<br />

tempo che l'esposizione ciceroniana non può essere ridotta a un semplice resoconto<br />

storico 109 .<br />

De Finibus III-IV :<br />

Lo scambio dialettico tra Cicerone e Catone implica almeno tre fasi precedenti del<br />

dibattito etico : Ad una I fase del dibattito appartiene la polemica che ha opposto stoici e<br />

peripatetici sulla questione del telos, in cui gli stoici avrebbero difeso la completa<br />

autosufficienza della virtù rispetto alla felicità umana e i peripatetici avrebbero invece<br />

argomentato a favore della rilevanza di altri beni ai fini della felicità, v. Fin. II, 68:<br />

"Pugnant Stoici cum Peripatetici. Alteri negant quidquam esse bonum nisi quod honestum<br />

sit, alteri plurimum se et longe longeque plurimum honestati, sed tamen in corpore et<br />

extra esse quaedam bona. Et certamen honestum et disputatio splendida! Omnis est enim<br />

de virtutis dignitate contentio". La tesi stoica secondo la quale la virtù è l'unico bene si<br />

pone in aperta opposizione rispetto alla posizione aristotelica secondo la quale una<br />

molteplicità di beni contribuisce alla piena realizzazione della felicità umana. Esiste<br />

inoltre un dibattito interno allo stoicismo sullo statuto di ta£ adiafora/, ovvero di tutti<br />

quegli elementi nei confronti dei quali si esercita una appetizione naturale, che lo stoico<br />

dissidente Aristone di Chio insisteva nel dichiarare perfettamente indifferenti, in polemica<br />

con le proposte terminologiche di Zenone, che invece, come si è visto, in relazione<br />

all'orientamento pratico sembrerebbe aver distinto al loro interno due categorie: le cose<br />

preferite, le cose respinte (prohgme/na o a)poprohgme/na) 110 ; La disputa tra Zenone e<br />

Aristone può essere inoltre collocata all'interno di un dibattito intrascolastico più ampio in<br />

cui l'etica stoica era tenuta a rispondere alle obiezioni peripatetiche su come si determina<br />

praticamente l'azione dell'uomo.<br />

Nella II fase del dibattito Carneade si inserisce nel contesto polemico, affermando<br />

non possint, in altero autem alia visa esse probabilia, alia non probabilia, ; itaque quae contra sensus contraque<br />

perspicuitatem dicantur ea pertinere ad superiorem divisionem, contra posteriorem nihil dici opponere; quare ita<br />

placere, tale visum nullum esse ut perceptio consequeretur, ut autem probatio, multa"<br />

109 v. Lévy (1992a), in part. p. 2.<br />

110 v. Ioppolo (1980), in part. pp. 149-154.<br />

l


provocatoriamente che la polemica è solo terminologica e che le due scuole in fondo<br />

difendono la stessa posizione (v. Tusc. V, 120: "Quorum controversia solebat tamquam<br />

honorarius arbiter iudicare Carneades. Nam cum, quaecumque bona Peripateticis, eadem<br />

Stoicis commoda viderentur, neque tamen Peripatetici plus tribuerent divitiis, bonae<br />

valetudini, ceteris rebus generis eiusdem quam Stoici, cum ea re, non verbis<br />

ponderarentur, causam esse dissidendi negabat"; 111 cfr. Ac. pr. II – Luc. 16, dove è già<br />

Arcesilao ad accusare Zenone di non introdurre niente di nuovo – nihil novi – a parte<br />

alcune innovazioni terminologiche) 112 ; L'attacco di Carneade, si desume anche altrove in<br />

Cicerone (Tusc. V, 120), intende mostrare come gli stoici si limitino a denominare<br />

'indifferenti' 'quelle cose che sono in accordo con la natura', che invece i peripatetici<br />

chiamano apertamente 'beni', finendo per entrare in contraddizione con l'assunto<br />

fondamentale della loro stessa riflessione etica, ovvero la continuità tra l'istinto dell'uomo<br />

e la virtù morale (v. Lévy (1992), p. 40-42). La riflessione carneadea affronta il problema<br />

dello statuto delle 'cose in accordo con la natura' all'interno del percorso che porta alla<br />

felicità 113 nel contesto di una discussione dialettica sulla coerenza delle teorie etiche del<br />

periodo ellenistico. Carneade intendeva probabilmente mostrare che, se gli stoici<br />

attribuiscono un valore (oggettivo) alle 'cose in accordo con la natura', allora la loro<br />

posizione coincide con quella dei peripatetici, nonostante le differenze terminologiche,<br />

altrimenti, se gli stoici rifiutano che le 'cose in accordo con la natura' abbiano un valore,<br />

allora la loro posizione coincide con quella degli 'indifferentisti' Aristone di Chio e Pirrone<br />

di Elide, ovvero con una posizione autocontraddittoria, poiché, volendo stabilire il primato<br />

assoluto della virtù, finiscono per privare la virtù di qualunque applicazione pratica,<br />

rendendola dunque inefficace ed inutile (v. Fin. II, 43 : "Dum enim in una virtute sic<br />

omnia esse voluerunt, ut eam rerum selectione exspoliarent nec ei quicquam aut unde<br />

oriretur darent, aut ubi niteretur, virtutem ipsam, quam amplexabantur, sustulerunt"; Fin.<br />

III, 11-12; Fin. IV, 78). Dunque, tenendo conto che la posizione di Aristone di Chio è stata<br />

confutata da Crisippo e che dunque lo stoicismo ha preso atto della contraddittorietà di un<br />

indifferentismo radicale, se ne deduce che la posizione stoica non può che coincidere con<br />

quella peripatetica. Catone nel libro III del De finibus risponde direttamente alla<br />

provocazione di Carneade e lo fa rievocando le linee principali della prima fase del<br />

111 v. Algra (1997), p. 126, n. 50.<br />

112 v. anche gli esiti più tardi della questione in Porphirius, In Cat. p. 237, 30 Kalbfleisch = SVF II 393).<br />

113 si conservano le tracce di una difesa da parte di Carneade ''per fini dialettici'' della formula del telos "frui<br />

principiis naturalibus" (Fin. II, 35), "nihil bonum nisi naturae primis bonis aut omnibus aut maximis frui"<br />

(Tusc. V. 84; "Introducebat etiam Carneades, non quo probaret sed ut opponeret Stoicis, summum bonum esse<br />

frui rebus iis quas primas natura conciliavisset" (Luc. 131 = T. 39)<br />

li


dibattito (Fin. III, 41: "His igitur ita positis, inquit, sequitur magna contentio, quam<br />

tractatam a Peripateticis mollius (...) [I fase] Carneades tuus (...) propterea quod pugnare<br />

non destitit in omni hac quaestione, quae de bonis et malis appelletur, non esse rerum<br />

Stoicis cum Peripateticis controversiam, sed nominum [II fase]"), sforzandosi di mostrare<br />

come nell'insieme della teoria etica stoica (Fin. III, 14: "totam Zenonis Stoicorumque<br />

sententiam") possano coesistere il principio fondamentale che la virtù è l'unico bene e un<br />

criterio oggettivo di scelta fondato sulla natura, senza del resto far concessioni alla<br />

posizione peripatetica.<br />

La rievocazione delle fasi più antiche del dibattito etico (tra III e II secolo a.C. : stoici vs<br />

peripatetici; Carneade vs stoici) non svolge una funzione meramente storiografica.<br />

L'intento di Cicerone non è quello di istruire il pubblico romano sulla storia dei dibattiti<br />

filosofici, quanto piuttosto quello di fornire le coordinate indispensabili alla comprensione<br />

del dibattito più recente ovvero dell'operazione filosofica di Antioco d'Ascalona. Poiché la<br />

storiografia antiochea riprende i metodi e le categorie concettuali carneadee, attingendo<br />

così dal repertorio argomentativo academico in cui si è svolta la sua formazione, il testo<br />

ciceroniano ha bisogno di dare testimonianza delle fasi precendenti del dibattito<br />

intrascolastico, in cui i medesimi metodi e il medesimo arsenale concettuale servivano gli<br />

scopi dello 'scetticismo' academico, affinché appaia chiaramente al lettore l'originalità o<br />

rivoluzionarietà rispetto alla tradizione precedente degli esiti 'dogmatici' dell'operazione di<br />

Antioco, la quale costituisce dunque in piena regola una III fase di dibattito; Antioco<br />

infatti rilegge la provocazione carneadea in chiave positiva e intende attraverso di essa<br />

consolidare il terreno di incontro tra la tradizione platonica e la tradizione stoica,<br />

tracciando tra le due una linea di continuità, la quale risulta al contempo funzionale alla<br />

sua lettura dogmatica della prima fase della storia dell'Academia. Ne risulta che al<br />

contesto polemico di opposizione tra l'istanza peripatetica e l'istanza stoica va ad<br />

aggiungersi un nuovo interlocutore, l'istanza vetero-academica, la quale viene detta<br />

coincidere con quella peripatetica, permettendo una trasformazione radicale dei rapporti di<br />

antagonismo tra i due agenti del dibattito: i due avversari filosofici vengono infatti<br />

inquadrati nella medesima relazione di filiazione filosofica rispetto alla tradizione<br />

platonica; Aristotele e i peripatetici in virtù del rapporto di diretta discepolanza con<br />

Platone; gli stoici in virtù di un - vero o presunto - rapporto maestro - discepolo tra<br />

Polemone e Zenone. La sovrapposizione di piani polemici risulta in ultima istanza cruciale<br />

per la comprensione dell'operazione filosofica di Antioco.<br />

lii


Le altre fonti<br />

L'uso strumentale del nome di Polemone nel contesto di un'argomentazione filosofica è<br />

confermato dalle altre fonti a nostra disposizione. Nessuno dei testi pervenutici affronta il<br />

pensiero del terzo scolarca indipendentemente da una discussione polemicamente orientata<br />

della storia dell'Academia o delle posizioni etiche ad essa attribuibili. Le testimonianze<br />

provenienti dai testi di Plutarco ad esempio attestano la persistenza del dibattito intorno al<br />

concetto di to£ kata£ fu/sin come principio del discorso etico (v. T. 56, cfr. T. 43), capace<br />

di tracciare una linea di filiazione filosofica tra la scuola peripatetica e academica e lo<br />

stoicismo. Come già nell'uso carneadeo del concetto, si tratta anche in questo contesto di<br />

mettere a confronto l'etica stoica con l'etica peripatetica e academica, al fine di sottolineare<br />

le incongruenze della prima a vantaggio della seconda. L'intento polemico del testo è a tal<br />

punto evidente che l'autore non ritiene affatto necessario fornire un'esposizione completa<br />

delle posizioni etiche delle varie scuole per contestualizzare il discorso, ma si limita ad<br />

accennare brevemente ad un punto di controversia generalmente noto, usando i nomi degli<br />

scolarchi dell'Academia e del Peripato come pure icone teoriche. A partire da una<br />

prospettiva invece generalmente più simpatetica con lo stoicismo e in generale con<br />

un'istanza di tipo 'dogmatico', il nome del terzo scolarca ricopre la funzione specifica di<br />

spartiacque storico tra due fasi distinte della storia dell'Academia, che mira come noto ad<br />

inquadrare l'impostazione filosofica di Arcesilao come un'innovazione priva di continuità<br />

rispetto alla tradizione platonica precedente. È per questo che nella citazione da Crisippo il<br />

nome di Polemone, insieme a quello di Stratone per la scuola peripatetica, corrisponde ad<br />

un limite temporale che isola la tradizione academica più antica da quella più recente (v. T.<br />

57, cfr. T. 41; T. 59).<br />

L'unico testo che si discosta dagli schemi fin qui presentati è a prima vista quello di<br />

Clemente Alessandrino. Il padre della chiesa raccoglie una vastissima varietà di doxai sul<br />

telos della vita umana e fornisce per ogni esponente citato della scuola academica una<br />

diversa esplicitazione del discorso etico (v. T. 58). L'autore non intende evidentemente<br />

fornire un'impressione di uniformità della tradizione academica o stoica, nella misura in<br />

cui le divergenze di opinione degli antichi filosofi sembrano giocare a favore dell'unicità<br />

della verità della dottrina cristiana. Il diverso intento dialettico, in questo caso del tutto<br />

esterno alle dispute originatesi nel periodo ellenistico, mette dunque a disposizione una<br />

versione della storia della posizione etica dei filosofi academici alternativa (e<br />

probabilmente in opposizione) a quella fornita in origine da Antioco d'Ascalona.<br />

liii


Il resoconto fornito da Agostino di Ippona invece dichiara esplicitamente di derivare da<br />

una testo di marcata ispirazione antiochea. La fonte per l'esposizione del pensiero degli<br />

antichi è il testo redatto dall'erudito Varrone De philosophia (v. T. 59). La frequentazione<br />

diretta di Antioco da parte di Varrone e lo statuto di 'interlocutore antiocheo' attribuitogli<br />

nei testi ciceroniani lasciano pensare che l'influenza di Antioco sul testo del grande erudito<br />

romano sia considerevole. Senza voler tuttavia escludere un margine di rielaborazione<br />

personale della posizione del maestro da parte di Varrone, si noterà che sussistono notevoli<br />

punti di convergenza tra la presentazione ciceroniana e la presentazione agostiniana della<br />

storia della tradizione academica secondo Antioco. Si ritrova innanzitutto la distinzione<br />

temporale tra una fase più antica legittima ed una fase più recente degenerata, equivalente<br />

ad una critica all'impostazione 'scettica' degli academici recenti, che qualifica in modo<br />

inequivocabile il tentativo di recupero-estrazione di un'istanza 'dogmatica' autoritativa<br />

all'interno della tradizione platonica. Da Antioco a Varrone e poi ad Agostino si assiste a<br />

vari mutamenti di prospettiva, per cui l'uso strumentale dell'etica degli antichi non è<br />

perfettamente equivalente nei tre autori. Agostino intende infatti allo stesso tempo<br />

ridicolizzare la molteplicità di opinioni sul sommo bene degli antichi filosofi pagani ed<br />

istituire un dialogo tra l'istanza platonica e la dottrina cristiana. A questo scopo le<br />

informazioni che attinge da Varrone gli agevolano la strutturazione del discorso, ma non<br />

impediscono un suo personale intervento critico.<br />

Dossografia e Dialettica:<br />

La maggior parte delle testimonianze filosofiche su Polemone, in particolare i testi di<br />

Cicerone e Clemente Alessandrino, vengono spesso considerati come appartenenti al<br />

genere dossografico. Nella critica moderna rivolta ai testi filosofici dell'antichità i termini<br />

dossografia e dossografico vengono correntemente impiegati per indicare un certo tipo di<br />

testo caratterizzato da uno dei seguenti fenomeni: la pratica di registrazione delle opinioni<br />

dei filosofi ad opera di altri filosofi o storici antichi; l'esposizione strutturata e riassuntiva<br />

delle principali dottrine di una scuola filosofica; una forma acerba di storiografia 114 . Come<br />

114 Cfr. Runia (2008), p. 15: « Diels invented the term 'doxography' and it soon passed into general scholarly currency.<br />

But the term has never been adequately defined and continues to be used in a number of different ways. The<br />

following four meanings, going from narrow to broad, are indicative of the diversity of current usage: (1) The<br />

liv


è noto, il termine non era in uso nell'antichità 115 e si impose nel XIX-XX secolo grazie<br />

all'opera del filologo tedesco Hermann Diels Doxographi Graeci (1879), il quale si<br />

proponeva di studiare i rapporti di filiazione e dipendenza di alcuni testi 'storiografici'<br />

antichi dedicati nello specifico a questioni di fisica 116 . Il risultato fondamentale del lavoro<br />

di Diels è generalmente noto come l' ipotesi Aëtius, secondo la quale esisterebbe una fonte<br />

comune per i testi presi in considerazione, i Placita di Aezio, i cui materiali deriverebbero<br />

a loro volta da una fonte più antica, speculativamente chiamata Vetusta Placita da Diels,<br />

dalla quale dipenderebbero, tra gli altri, anche alcuni passaggi 'storiografici' di Cicerone e<br />

Varrone. Secondo lo studio di Diels, inoltre, l'origine della storiografia filosofica in ambito<br />

fisico – e dunque anche di ciò che egli chiamava dossografia – sarebbe rintraccibile in<br />

un'opera del discepolo di Aristotele, Teofrasto, dedicata alle opinioni dei filosofi antichi<br />

che si erano occupati di fisica 117 . Ne consegue per esempio che le informazioni<br />

frammentarie sui Presocratici reperibili nel testo ricostituito di Aezio dipenderebbero in<br />

linea (più o meno) diretta dal testo di Teofrasto.<br />

Detto in modo sommario, il conio moderno del termine dossografia è stato funzionale alla<br />

delimitazione di un genere letterario, attraverso cui si sarebbe inaugurata nell'antichità<br />

l'organizzazione delle informazioni disponibili sul pensiero filosofico di predecessori o<br />

contemporanei. Secondo l'ipotesi di Diels, il genere sarebbe stato inaugurato all'interno del<br />

Peripato e l'influenza dell'opera di Teofrasto in particolare sarebbe rimasta incontrastata<br />

fino alla fine dell'antichità.<br />

Il testo di Diels ha provocato senza dubbio un importante rinnovamento degli studi sulla<br />

tradition of Placita-literature and related writings as collected by Diels; (2) The broader tradition of discussion and<br />

summary of ancient philosophical doctrines; (3) All reportage of ancient philosophical doctrine not recorded in the<br />

philosophers' original works; (4) The practice of doing the history of philosophy by discussing philosophers'<br />

doctrines (and not the problems they are tackling) ».<br />

115 Come nota Pfeiffer (1968), p. 154, fu probabilmente H. Usener, Doktorvater di Diels, a coniare il termine. Nella<br />

letteratura antica superstite il genere letterario delimitato dal termine moderno 'dossografia' non sembra aver<br />

ricevuto una teorizzazione specifica. Il composto più prossimo è paradocogra/foj (Tzetz. Hist. II 151), il quale<br />

tuttavia designa un raffinato genere letterario interessato al 'meraviglioso' (qauma/sia), praticato ad esempio da<br />

Callimaco nella raccolta 'Collezione delle meraviglie di tutta la terra, classificate per luogo'. v. O. Wenskus, L.<br />

Daston, "Paradoxographoi," in Der neue Pauly, vol. 9, Stuttgart, 2000, cols. 309-314; Mansfeld, Runia (1996-2010),<br />

vol. I<br />

116 i.e. I Placita philosophorum dello pseudo Plutarco; l' Historia philosopha dello pseudo Galeno; alcuni passi di<br />

filosofia naturale contenuti nelle Eclogae di Giovanni Stobeo; alcuni passi simili della Graecarum affectionum<br />

curatio di Teodoreto.<br />

117 v. DL V, 48, dove nella prima lista complementare delle opere di Teofrasto figura un opera in 16 libri il cui titolo al<br />

genitivo è Fusikw=n docw=n a', b', d' ktl.. Diels intendeva il titolo nel senso di fusikw=n do/cai 'Le opinioni dei<br />

filosofi della natura'. Un ulteriore significato è però sintatticamente possibile a partire dal nominativo plurale<br />

fusikai£ do/cai, ovvero 'Opinioni relative alla filosofia della natura'; v. J. Mansfeld (1992), p. 64 e n. 7, 8.<br />

lv


tradizione classica ed è stato per un tempo considerabilmente lungo il testo canonico della<br />

filologia in questo ambito. Il metodo impiegato nei Doxographi Graeci rappresenta<br />

un'applicazione – all'epoca avanguardistica – del metodo scientifico generalmente<br />

impiegato nello studio della tradizione manoscritta e storicamente (anche se non del tutto<br />

legittimamente) associato al nome del classicista tedesco Karl Lachmann 118 . La produzione<br />

di prove filologiche cogenti nello studio della tradizione storiografica analizzata da Diels<br />

passa dunque per l'applicazione del metodo sinottico, il quale inserisce sistematicamente i<br />

testi presi in considerazione in una relazione di dipendenza stemmatica, esattamente come<br />

succede nello studio delle varianti manoscritte di un testo. L'adozione di un tale metodo si<br />

ripercuote evidentemente sul tipo di risultati raggiunti dalla ricerca sui testi dossografici.<br />

In base ad esso, infatti, la qualità delle informazioni contenute nei testi viene valutata in<br />

rapporto alla vicinanza del testo rispetto al (presunto) archetipo. Le aggiunte posteriori o<br />

gli elementi di orginalità chiaramente individuabili in un testo diventano così l'equivalente<br />

di una glossa accessoria di un copista, se non un'interferenza nociva alla ricostruzione del<br />

testo originario.<br />

Lo stesso metodo e la stessa fiducia nella scientificità dei suoi risultati si ritrova nello<br />

studio di Michelangelo Giusta, I dossografi di etica (1964-1967), volto ad estendere il<br />

campo di indagine inaugurato da Diels ai testi antichi che si occupano di etica. I testi presi<br />

in considerazione da Giusta provengono principalmente dalle Vite di Diogene Laerzio, dal<br />

De Finibus e dalle Tusculanae disputationes di Cicerone, dalle Eclogae di Giovanni<br />

Stobeo, dal De Platone et eius dogmate di Apuleio e dal Didaskalikos di Alcinoo. Giusta<br />

ritiene di poter mostrare particolari analogie tra questi testi, tali da dimostrare la loro<br />

rispettiva dipendenza da una medesima fonte. L'analisi si rivolge principalmente ad<br />

analogie di tipo strutturale riscontrate nella successione degli argomenti all'interno dei testi<br />

presi in considerazione. Giusta esclude che tali analogie di ordinamento siano spiegabili in<br />

base alle consuetudini del genere letterario a cui i testi appartengono, e ritiene opportuno<br />

postulare, come già Diels, l'esistenza di un testo archetipo, i Vetusta Placita di etica 119 , da<br />

cui, secondo dinamiche specifiche, ogni testo attingerebbe i suoi materiali.<br />

Secondo l'ipotesi di Giusta, inoltre, la successione degli argomenti di una qualunque delle<br />

dossografie etiche prese in considerazione ricalcherebbe lo schema diairetico associato al<br />

nome di Eudoro di Alessandria, filosofo academico, la cui opera era oggetto di grande<br />

118 v. Timpanaro (1963), dove si dimostra che il 'metodo di Lachmann' non è di fatto stato inventato da Lachmann e<br />

venne oltretutto impiegato dal classicista tedesco in modo incongruo.<br />

119 v. Giusta (1964-1967), vol. I, cap. III, pp. 191 ss.<br />

lvi


ammirazione da parte di [Ario Didimo] 120 , autore a sua volta di una celebre opera, a noi<br />

frammentariamente nota tramite l'antologia di Giovanni Stobeo.<br />

La ricezione dell'opera di Giusta 121 tuttavia si è scontrata con una nuova tendenza critica,<br />

pronta a mostrare una certa diffidenza rispetto ai risultati ottenuti dal metodo di Diels. In<br />

particolare la critica non ha ritenuto convincenti le prove offerte da Giusta a favore<br />

dell'identità strutturale dei testi. Le ricerche recenti sulla dossografia hanno di fatto<br />

denunciato i limiti dell'ipotesi di una fonte unica e contestato radicalmente il metodo della<br />

Quellenforschung, nella misura in cui essa applica alla tradizione di un genere letterario,<br />

composto da più testi di più autori, lo stesso approccio 'meccanico' applicato in filologia<br />

alla tradizione manoscritta di un singolo testo. Se è vero che la tradizione di ogni singolo<br />

testo che ci sia parvenuto dal mondo antico è avvenuta (più o meno) meccanicamente per<br />

copia diretta, niente ci permette di pensare che lo stesso sia avvenuto nella tradizione<br />

antica di un genere letterario per quanto marginale e ad uso per così dire 'scolastico'.<br />

Gli studi di J. Mansfeld oggi in questo campo insistono invece sul fatto che le strutture<br />

espositive caratteristiche del genere dossografico (diaereseis) affondano le loro radici nei<br />

principi della dialettica aristotelica 122 . Già Giusta aveva ritenuto opportuno studiare la<br />

struttura dei testi in relazione alle categorie aristoteliche, legando saldamente il genere<br />

dossografico alla tradizione peripatetica 123 . Aristotele fornisce infatti una serie di istruzioni<br />

funzionali alla discussione delle questioni fondamentali di ogni disciplina e queste<br />

sembrano determinare in larga misura la struttura della discussione tradizionale, in<br />

particolare, nell'ambito di una trattazione 'scolastica'. L'organizzazione sistematica della<br />

trattazione forniva allora una griglia orientativa affinché lo studente/lettore potesse<br />

120 L'identità storica dell'autore noto come 'Ario Didimo' rimane controversa. Dopo esser stato a lungo identificato con<br />

Ario di Alessandria, filosofo alla corte di Augusto (70/75 a.C circa), la sua identità e la plausibilità del suo nome<br />

sono state messe radicalmente in questione da Göransson (1995), pp. 182-226. Risposte piuttosto persuasive al<br />

criticismo di Göransson, possono essere reperite in Mansfeld / Runia (1996), p. 241; rimangono dunque ancora<br />

almeno parzialmente validi gli argomenti di Hahm (1990), pp. 3035-3047; in ragione della particolare prospettiva di<br />

Dox. A e Dox. C, particolarmente controversa rimane l'identificazione di Ario Didimo con il filosofo Ario che figura<br />

nella lista aggiuntiva di filosofi stoici nel testo di Diogene Laerzio VII (Par. gr. 1759 e alcuni dei suoi discendenti),<br />

v. Glucker (1979), pp. 349-350. Importanti considerazioni onomastiche che associano entrambi i nomi di Ario<br />

Didimo con l'Egitto e Alessandria si trovano in J.N. Bremmer (1998), pp. 156-160. Al personaggio di Ario Didimo<br />

viene attribuita esplicitamente dal testo la sezione sull'etica peripatetica (Dox. C). La possibilità invece di attribuire<br />

la Dox. A e la Dox. B ad Ario Didimo rimane soggetta a forti dubbi.<br />

121 v. Moraux (1973), vol. I, pp. 264 ss; Kerferd (1967), pp. 156-158; Kerferd (1971), pp. 371-373; Boyancé (1967), pp.<br />

246-249; Joly (1966). pp. 289-290.<br />

122 Mansfeld (1986b), pp. 23-59; Mansfeld (1989a), pp. 311-342; Mansfeld (1990), pp. 3056-3229; Mansfeld (1992),<br />

pp. 61-111.<br />

123 Giusta (1964-1967), vol. II, pp. 9-17 e ss.<br />

lvii


acquisire una certa autonomia di movimento nella moltitudine delle questioni affrontate<br />

all'interno di una disciplina 124 . Secondo le direttive aristoteliche inoltre è buona pratica<br />

fornire un elenco delle opinioni diffuse su una particolare questione al fine di ottenere un<br />

panorama completo dello 'stato della materia' e organizzare la discussione di conseguenza.<br />

Se, come sembra, le affinità strutturali tra i testi presi in considerazione dagli studi sulla<br />

dossografia sono spiegabili in base alla persistenza di schemi argomentativi di stampo<br />

aristotelico, viene immediatamente meno la necessità di postulare una fonte unica. E ancor<br />

più radicalmente risulta generalmente inappropriato parlare di 'genere letterario' per i testi<br />

dossografici, nella misura in cui questi risultano prevalentemente essere sezioni di testi<br />

dedicati all'indagine filosofica di una materia, più che testi propriamente dotati di una loro<br />

autonomia. Inoltre, alla luce di quanto fin qui ricordato, anche l'uso dell'aggettivo<br />

'storiografico' per descrivere la natura dei testi in questione diventa problematico. La<br />

conservazione di informazioni preziose da un punto di vista storico sembrerebbe essere<br />

infatti solo un effetto collaterale rispetto allo scopo dialettico delle liste di opinioni dei<br />

filosofi. Si può certo supporre che un certo grado di accuratezza e fedeltà nel riportare le<br />

opinioni degli interlocutori chiamati in causa fosse funzionale al valore della discussione<br />

dialettica che ne conseguiva, ma numerosi esempi ci insegnano invece che il contesto<br />

polemico tra le diverse istanze filosofiche nel mondo antico favoriva spesso una<br />

presentazione quantomeno riarrangiata, per non dire deliberatamente deformata, delle<br />

posizioni degli avversari.<br />

Come si determina allora il valore storiografico dei passaggi dossografici? Come si<br />

considerano quei testi in cui i passaggi dossografici si ampliano fino a occupare lo spazio<br />

di un'intera opera? Come valutare la plausibilità dell'ipotesi che alcuni autori antichi<br />

consultassero nella redazione dei loro testi opere manualistiche tipologicamente molto<br />

simili? Queste mi sembrano essere alcuni dei questiti ancora aperti nell'ambito del<br />

rinnovamento degli studi sui testi dossografici.<br />

La mia attenzione si sofferma in particolare su due testi del corpus dossografico: il De<br />

finibus (libri IV e V) di Cicerone e i suoi rapporti con la dossografia peripatetica presente<br />

nelle Eclogae di Giovanni Stobeo e riconducibile all'opera dossografica di [Ario Didimo].<br />

Tra questi due testi la critica ha rilevato interessanti affinità contenutistiche e in particolare<br />

124 v. Cic. Fin. IV, 16: « Quae quidem ars efficit, ne necesse sit isdem de rebus semper quasi dictata decantare neque a<br />

commentariolis suis discedere ».<br />

lviii


una convergenza lessicale nell'impiego di una terminologia di matrice stoica adattata<br />

all'esposizione della teoria etica peripatetica. Determinare con precisione la natura di tali<br />

convergenze equivale ad approfondire le ragioni e le dinamiche interne alla dossografia<br />

ciceroniana, la cui più profonda problematicità sta esattamente nell'uso di categorie<br />

concettuali controverse. L'uso da parte di Cicerone di nozioni generalmente associate con<br />

lo stoicismo per descrivere i punti di forza della teoria etica academico-peripatetica, a<br />

seconda della prospettiva critica che si adotta, può venir liquidato come un anacronismo<br />

lessicale senza fondamento oppure al contrario diventare la prova provata dell'origine<br />

vetero-academica di alcuni concetti stoici. Un altro modo di valutare la questione, ed<br />

eventualmente capire quale porzione di verosimiglianza ognuna delle due strategie appena<br />

menzionate dischiudere, contestualizza l'apparizione delle convergenze lessicali<br />

nell'ambito dossografico (ovvero dialettico) a cui appartengono, studia questo contesto nei<br />

suoi elementi costitutivi e nella formazione di un giudizio complessivo sull'evoluzione dei<br />

concetti privilegia gli indizi interni ai testi o desumibili dall'analisi comparativa. Nel<br />

contesto della presente ricerca si è cercato di fornire un'applicazione di quest'ultimo<br />

approccio.<br />

Secondo l'ipotesi di Giusta le convergenze tra i due testi sono spiegabili, come già<br />

anticipato, in base alla dipendenza da un'unica fonte, che [Ario Didimo] seguirebbe<br />

fedelmente, mentre Cicerone cercherebbe di fondere (in modo maldestro) con elementi del<br />

pensiero di Antioco d'Ascalona. Nello sforzo di determinare l'esatta estensione nel testo di<br />

Cicerone della contaminazione dell'originale esposizione dossografica con elementi<br />

antiochei si consuma l'analisi di Giusta, il quale ritiene, in ultima istanza, di poter trovare<br />

in [Ario Didimo] un testimone affidabile, per quanto abbreviato dalla mano impietosa di<br />

un epitomatore, della struttura originale della fonte archetipa. È naturale dunque che le<br />

analisi che si sono basate sull'ipotesi di Giusta abbiano impiegato il testo di [Ario Didimo]<br />

per fornire supporto all'opinione secondo la quale l'esposizione ciceroniana dei principi<br />

dell'etica nel libro V del De finibus contiene elementi genuinamente peripatetici. In<br />

particolare, il fatto che sia il testo di [Ario Didimo] che quello di Cicerone attribuiscano al<br />

Peripato una teoria dell'oi)kei/wsij a fondamento dell'etica 125 dimostrerebbe che la teoria ha<br />

un'origine peripatetica antica, al contrario di quanto generalmente sostenuto dagli<br />

interpreti [a proposito della matrice fondamentalmente stoica della teoria stessa] 126 . I<br />

125 v. passi citati a p.xliv-xlv di questa Introduzione: Fin. V, 33; Fin. V, 40; Fin. V, 41; Fin. V, 46.<br />

126 v. Giusta (1964-1967), p. 284-285; Magnaldi (1991), p. ix, punto 5; pp. 14. ss.<br />

lix


isultati di un'analisi di tipo meramente strutturale, dunque, si ripercuotono direttamente<br />

sull' interpretazione del contenuto specifico di un testo, nonostante questo non rientri nel<br />

suo obiettivo primario. È legittimo infatti affermare che, in un'opera come quella di<br />

Giusta, l'interpretazione contenutistica risulta meramente funzionale alla conferma delle<br />

analisi strutturali, lasciando dunque spazio a perplessità e dubbi rispetto alla loro validità,<br />

qualora il principio dell'analisi strutturale venga contestato. Nel particolare caso dell'opera<br />

di Giusta, la scarsa fortuna riscontrata dai principi della sua analisi ha colpito anche i<br />

risultati delle sue dettagliate e molto spesso non prive di interesse analisi contenutistiche.<br />

Riteniamo ad esempio che Giusta non abbia avuto affatto torto a voler ridimensionare<br />

l'influenza diretta di Antioco d'Ascalona sui testi presi in considerazione, ponendosi così<br />

in contrasto con una certa tendenza critica che trovava proprio in Antioco la fonte unica<br />

della dossografia etica e non solo 127 . Giusta fornisce infatti diversi validi contributi nella<br />

sua ricerca di un criterio per determinare quali testi contengano traccie degli aspetti<br />

costitutivi del pensiero di Antioco e quali ne siano invece esenti. E sembrerebbe inoltre<br />

aver ragione nel limitare al testo di Cicerone la presenza di questi elementi, escludendoli<br />

invece nel caso del testo di [Ario Didimo]. Tuttavia la ricezione e assimilazione del<br />

pensiero di Antioco da parte di Cicerone viene pensata da Giusta in termini per così dire<br />

meccanici, per cui egli ritiene che, alla stregua di un cattivo copista, Cicerone abbia<br />

mescolato materiali provenienti da due diverse fonti e che il prodotto finale debba venir di<br />

nuovo scomposto e sezionato per ottenere un'immagine intellegibile dei suoi elementi<br />

costitutivi.<br />

Prima ancora di procedere ad un recupero non arbitrario dei pregi (e dei difetti) del lavoro<br />

dei nostri predecessori è doveroso testare direttamente sui testi in oggetto i nuovi<br />

strumenti interpretativi che le ricerche più recenti ci mettono a disposizione. Si procederà<br />

dunque a reperire nei due autori le traccie degli schemi organizzativi di stampo aristotelico<br />

e a verificarne la loro funzione. Questo dovrebbe agevolare la comparazione dei due testi:<br />

una comparazione non più di tipo strutturale, ma circa l'uso di uno stesso strumento<br />

dialettico. Il ritorno al metodo di Aristotele ci permette inoltre di approfondire la relazione<br />

tra i diversi tipi di strutture diairetiche ricorrenti nei testi dossografici. Non trascurabili<br />

differenze sussistono infatti tra :<br />

127 v. e.g. Madvig (1876), Excursus VII, p. 847, per cui Fin. IV, Fin. V e la Dox. C di Ario Didimo deriverebbero tutte<br />

da Antioco.<br />

lx


a) le liste di opinioni dei filosofi su un dato argomento, siano queste etichettate o<br />

meno con il nome di un filosofo, come ad esempio la Carneadia divisio o la Chrysippea<br />

divisio;<br />

b) la suddivisione dell'oggetto di una discussione in genere e specie 128 ,<br />

primariamente funzionale alla definizione sintetica di un oggetto (genere + differenze<br />

specifiche), come ad esempio nella ripartizione dei beni 'secondo Aristotele' nella Dox. A<br />

di Ario Didimo (p. 56, 8-23 Wachsmuth);<br />

e c) l'organizzazione tematica dell'indagine scientifica secondo molteplici<br />

partizioni e sottopartizioni, a partire dalla scansione fondamentale di qewri/a e pra/cij, fino<br />

ad arrivare ad esempio alla diai/resij di Eudoro di Alessandria (Dox. A, p. 42 ss).<br />

Tuttavia per tutte queste tre diverse forme di trattazione organizzata si può riscontrare l'uso<br />

del medesimo termine diai/resij/divisio. Ciò che le accomuna è presumibilmente un<br />

rapporto con la dialettica intesa come tecnica della discussione filosofica.<br />

Come noto, Nei Topici Aristotele esplicita una serie di regole per il controllo della<br />

diai/resij, dove per diai/resij si intende il metodo ereditato da Platone per 'andare a<br />

caccia' della definizione di un oggetto [b)]. Le innovazioni apportate al metodo da<br />

Aristotele rispecchiano il suo diverso paradigma di interpretazione della realtà, per cui la<br />

definizione di un oggetto non equivale alla scoperta delle 'forme' o 'idee' di cui l'oggetto<br />

partecipa, ma interpella cosa esso sia (to£ ti ei)=nai) per mezzo delle categorie dell'essere:<br />

individuato il 'genere' dell'oggetto, si procede a esaminarne la specie, la differenza<br />

specifica, le qualità, gli accidenti essenziali e inessenziali, etc. Sempre nei Topici, inoltre,<br />

Aristotele raccomanda nell'ambito di una qualsiasi ricerca pratica o teoretica di reperire e<br />

selezionare con criterio le opinioni già accreditate:<br />

Τὰς μὲν οὖν προτάσεις ἐκλεκτέον ὁσαχῶς διωρίσθη περὶ προτάσεως, ἢ<br />

τὰς πάντων δόξας προχειριζόμενον ἢ τὰς τῶν πλείστων ἢ τὰς τῶν<br />

σοφῶν, καὶ τούτων ἢ πάντων ἢ τῶν πλείστων ἢ τῶν γνωριμωτάτων, ἢ<br />

τὰς ἐναντίας ταῖς φαινομέναις*, καὶ ὅσαι δόξαι κατὰ τέχνας<br />

128 v. Plato, Phaedrus 266 b; il metodo diairetico ricopre una funzione estremamente importante nei cosidetti dialoghi<br />

della maturità di Platone (Phileb.; Soph.; Polit.). Estensivamente impiegato all'interno dell'Academia antica (v. il<br />

riferimento nella commedia di Epicrate, fr. 11K), il metodo viene approfondito e perfezionato da Aristotele, v.<br />

Balme (1987), pp. 69-89.<br />

lxi


εἰσίν.<br />

Bisogna scegliere le proposizioni in tutti i modi in cui si è distinto intorno alla<br />

proposizione, discutendo o le opinioni di tutti o quelle della stragrande<br />

maggioranza o quelle dei sapienti e, di questi, o di tutti o della massima parte o<br />

dei più noti, oppure le non contrarie a quelle che hanno carattere di evidenza* 129<br />

e tutte le opinioni che sono conformi alle arti.<br />

(Top. 105 a 34- b1. Tr. it. M. Zanatta)<br />

ἐκλέγειν δὲ χρὴ καὶ ἐκ τῶν γεγραμμένων λόγων, τὰς δὲ διαγραφὰς<br />

ποιεῖσθαι περὶ ἑκάστου γένους ὑποτιθέντας χωρίς, οἷον περὶ ἀγαθοῦ<br />

ἢ περὶ ζῴου, καὶ περὶ ἀγαθοῦ παντός, ἀρξάμενον ἀπὸ τοῦ τί ἐστιν.<br />

παρασημαίνεσθαι δὲ καὶ τὰς ἑκάστων δόξας (…).<br />

È necessario scegliere le proposizioni anche dai discorsi scritti e fare le rispettive<br />

liste su ogni genere, poste separatamente sotto dei titoli: per esempio, « sul<br />

bene » o « sull'essere vivente », e a proposito di ogni bene, cominciando dal che<br />

cos'è. E bisogna che siano indicate le opinioni di ciascun (…).<br />

(Top. 105 b 14-16. tr. it. M. Zanatta modif.)<br />

Su un'accurata selezione e catalogazione delle opinioni degli altri si costituisce dunque il<br />

fondamento doxastico del metodo dialettico aristotelico. Ne consegue che la presentazione<br />

stessa di un problema passa attraverso l'esposizione delle opinioni molteplici che su di<br />

esso sono state sostenute, ovvero, non sussiste un problema dialettico laddove non vi sia<br />

divergenza [anche solo possibile] d'opinione. Il criterio di selezione delle opinioni inoltre<br />

non può essere casuale ma deve rispettare innanzitutto il 'limite di argomentabilità'<br />

caratteristico della discussione dialettica. Vengono allora escluse tutte le posizioni<br />

'paradossali', nel senso di posizioni che contrastano con la normale percezione dei sensi o<br />

che mettono in discussione le fondamentali consuetudini comportamentali 130 . Dopodiché<br />

vengono selezionate quante più opinioni possibili. Tra tutte le opinioni collezionabili però<br />

129 Un'interpretazione differente di ἐ ναντίας ταῖ ς φαινομέναις è 'contrarie al senso comune', v. Owen (1975); in ogni<br />

caso si tratta di un riferimento polemico nei confronti di quelle posizioni filosofiche paradossali, menzionate poco<br />

prima, come ad esempio quella di Eraclito « che tutte le cose sono in movimento » (Top. 104 b 21-24).<br />

130 Top. 105 a 2-9.<br />

lxii


sembrerebbero veramente indispensabili alla discussione dialettica quelle dei più noti<br />

saggi o esperti in materia, sempre che non entrino in contrasto con le opinioni comuni e i<br />

risultati dei saperi tecnici. Nel passaggio dei Topici si trova infine abbozzato un principio<br />

di catalogazione per argomento, che suona straordinariamente familiare a chi abbia una<br />

qualche esperienza di testi dossografici.<br />

Come risulta chiaramente espresso negli studi di J. Mansfeld, non è difficile mettere le<br />

liste dossografiche di opinioni filosofiche [a)] in relazione con la metodologia aristotelica.<br />

Un tale accostamento permette oltretutto di chiarire la funzione di tali liste e metterne in<br />

risalto l'originario potenziale dialettico laddove quest'ultimo sia scivolato in secondo<br />

piano. Nel caso specifico della Carneadia divisio 131 e della Chrisippea divisio 132 , il loro<br />

ruolo di strutturazione attiva della discussione dialettica è già stato accuratamente notato<br />

dagli interpreti che si sono interessati alle opere filosofiche di Cicerone 133 . In mano a<br />

Carneade o a Crisippo una lista di opinioni funziona come una griglia di valutazione della<br />

coerenza di una dottrina e non sussiste dubbio alcuno sulla valenza dialettica dei criteri di<br />

scelta e di presentazione dei suoi materiali. Questo tipo di divisiones, così come le<br />

vediamo impiegate nei testi di Cicerone, si presenta allora come un raffinato strumento<br />

dialettico passibile di diverse modifiche e innovazioni, le quali diventano di nuovo<br />

interamente apprezzabili qualora vengano ricollocate sullo sfondo aristotelico di partenza.<br />

Ad esempio, la scelta olistica di Carneade di non limitarsi alle sole opinioni effettivamente<br />

sostenute in ambito etico, ma di considerare anche quelle soltanto possibili 134 , appare come<br />

una rottura dei limiti 'storici' della divisio aristotelica, che permette alla discussione<br />

dialettica di intervenire nel dibattito etico in modo radicale, trattandone anche i<br />

fondamenti puramente teorici. Oppure, il riduttivismo di Crisippo, che accorpava più<br />

doxai in base alla loro presunta omogeneità formale, probabilmente omettendo<br />

l'attribuzione nominale delle opinioni ai vari filosofi, si presenta come una negligenza nei<br />

confronti delle istruzioni aristoteliche, ovvero come l'indice di un diverso intendimento dei<br />

fondamenti della dialettica. Inoltre, l'esclusione dei cosidetti relicti, Pirrone, Erillo e<br />

Aristone di Chio 135 , dalla divisio Carneadia e la pressione in direzione della posizione di<br />

131 Cic., Fin. II 11, 34-35 ; Fin. V 6, 16- 8, 22 ; Tusc. V, 30, 84 ; Luc. 131.<br />

132 Cic. Luc. 138; Fin. IV, 28.<br />

133 Lévy (1992a), pp. 337-376; Annas (2007), pp. 189-223;<br />

134 v. Cic., Fin. V, 16: « non modo quod fuissent adhuc philosophorum de summo bono, sed quot omnino esse possent<br />

sententiae » ; August., De Civ.Dei XIX, 1: « non quae iam essent sed quae esse possent »<br />

135 v. Cic. Fin. V, 23: « Iam explosae eiectaeque sententiae Pyrrhonis, Aristonis, Erilli, quod in hunc orbem quem<br />

circumscripsimus incidere non possunt, adhibendae omnino non fuerunt »; cfr. De off. I, 6.<br />

lxiii


quest'ultimi a cui viene sottoposta la dottrina stoica 136 acquisiscono un'ulteriore valenza se<br />

spiegate in base ai criteri aristotelici di selezione delle opinioni. Le posizioni<br />

dell'indifferentismo di Pirrone e Aristone o dell'intellettualismo di Erillo infatti non<br />

trovano posto nella selezione carneadea perché 'già abbandonate' (Luc. 129: « Omitto illa<br />

quae relicta iam videntur »; cfr. Tusc. V, 85). In termini aristotelici questo significa che<br />

non rientrano già da molto tempo tra le opinioni accreditate, ovvero che la loro para-<br />

dossalità è stata abbondantemente riconosciuta. Quando Carneade, o per sua vece<br />

Cicerone/Antioco, ne menziona la triste sorte, allora, sta sostanzialmente minacciando la<br />

posizione stoica di fare la stessa fine dei relicti, di essere esclusa dal dibattito etico, perché<br />

potenzialmente formalmente vicina alla loro posizione e dunque incompatibile con il<br />

'limite di argomentabilità' richiesto dalla discussione dialettica.<br />

Il terzo tipo [c)] di diai/resij / divisio organizza invece la discussione di una materia per<br />

argomenti e sotto-argomenti. La sua funzione dialettica, a parte il fatto di fornire un certo<br />

ordine alla discussione, è meno evidente rispetto alle altre applicazioni del metodo<br />

diairetico. Tuttavia anche le scelte in merito alla ripartizione di una materia veicolano,<br />

come mi sforzerò di mostrare, importanti informazioni sull'impostazione dialettica<br />

adottata.<br />

Nelle opere retoriche di Cicerone sono reperibili numerosi passaggi che documentano la<br />

ricezione di una metodologia di stampo aristotelico applicata all'organizzazione del<br />

discorso del buon oratore. Nel quadro dell'agenda ciceroniana, volta al recupero e alla<br />

promozione del connubio tra eloquentia e sapientia, tra strumenti retorici e formazione<br />

filosofica, il riferimento alla metodologia aristotelica è di fondamentale importanza, nella<br />

misura in cui permette di distinguere un uso della retorica di stampo per così dire sofistico<br />

da un uso dell'arte oratoria filosoficamente fondato. Particolare rilievo viene dato alla<br />

parte dell'arte retorica che si occupa dell' inventio (« excogitatio rerum verarum aut veri<br />

similium quae causam probabilem reddant ») in contrasto con altre concezioni all'epoca<br />

dominanti: punti focali della teoria di Cicerone diventano i to/poi o loci (« la<br />

localizzazione degli argomenti e dei ragionamenti » 137 ) e la parte della retorica che si<br />

136 e.g. Fin. IV, 47; v. Lévy (1980), pp. 238-251; Lévy (1984), pp. 120-121.<br />

137 Cic. Part.or. 2 : « C. Quibus rebus fides fit ? P. Argumentis, quae ducuntur ex locis aut in re ipsa insitis aut<br />

adsumptis. C. Quos vocas locos ? P. In quibus latent argumenta. C. Quid est argumentum ? P. Probabile inventum<br />

ad faciendam fides ».<br />

lxiv


occupa delle qe/seij o quaestiones infinitae 138 . Cicerone abbandona allora l'impostazione<br />

che egli stesso aveva assunto all'epoca della redazione del De inventione, per ritrovarsi in<br />

un certo qual modo d'accordo con Ermagora di Temno, retore della scuola di Rodi, a suo<br />

tempo aspramente criticato 139 , nel sostenere che anche il genere della quaestio (infinita) –<br />

ovvero un discorso in termini 'generali' senza specificazioni particolari 140 –, è di<br />

competenza dell'oratore. Allo stesso modo l'impiego della metodologia aristotelica<br />

significa lasciarsi alle spalle anche la teoria di Ermagora, le cui ripartizioni, per quanto<br />

sofisticate, non hanno la stessa efficacia dei loci. Del resto, quando fa riferimento alla<br />

teoria dei Topici di Aristotele, Cicerone è consapevole che solo una ristretta cerchia di<br />

persone in ambito retorico è familiare con essa:<br />

« Quod quidem minime sum admiratus eum philosophum (scil. Aristoteles)<br />

rhetori non esse cognitum, qui ab ipsis philosophis praeter admodum paucos<br />

ignoretur; quibus eo minus ignoscendum est, quod non modo rebus eis quae ab<br />

illo dictae et inventae sunt allici debuerunt, sed dicendi quoque incredibili<br />

quadam cum copia tum etiam suavitate. »<br />

(Cic., Topica 3)<br />

Nell'opera che dedica interamente ai to/poi, Cicerone si fa carico della responsabilità di<br />

rendere la sostanza del testo aristotelico accessibile ad un pubblico più ampio, adattando le<br />

potenzialità tecniche del metodo aristotelico alle esigenze del suo interlocutore, Trebazio,<br />

un giurista. Quest'ultimo, stando al proemio dei Topica, per quanto interessato al testo di<br />

Aristotele, lo avrebbe trovato troppo ostico e pur essendosi rivolto a un insegnante di<br />

retorica per avere una guida in merito sarebbe tornato da Cicerone una volta riscontrato<br />

che l'insegnante non aveva familiarità con la teoria in questione (Cic. Top. 1-4) 141 . La<br />

138 Cic. Part.Or. 1-2: « C. Quid ? Quaestio quasnam habet partis ? P. Infinitam, quam consultationem appello, et<br />

definitam, quam causam nomino » ; Quint., Inst. III, 5: « Item convenit quaestiones esse aut infinitas aut finitas.<br />

Infinitae sunt, quae remotis personis et temporibus et locis ceterisque similibus in utramque partem tractantur, quod<br />

Graeci qe/sin dicunt, Cicero propositum, alii quaestiones universales civiles, alii quaestiones philosopho<br />

convenientis, Athenaeus partem causae appellat ».<br />

139 De Inv. I, 7-8: « nam quibus in rebus summa ingenia philosophorum plurimo cum labore consumpta intellegimus,<br />

eas sicut aliquas parvas res oratori attribuere magna amentia videtur. (…) verum oratori minimum est de arte loqui,<br />

quod hic fecit, multo maximum ex arte dicere, quod eum minime potuisse omnes videmus ».<br />

140 v. la definizione di Ermagora riportata da Cicerone in De inv. I, 8: « quaestionem autem eam appellat quae habeat<br />

in se controversiam in dicendo positam sine certarum personarum interpositione, ad hunc modum: “Ecquid sit<br />

bonum praeter honestatem?” “Verine sint sensus?” “Quae sit mundi forma?” “Quae sit solis magnitudo?” ». cfr.<br />

De orat. III, 109-118.<br />

141 v. Reinhardt (2003), commentario ai §§ 1-5, dove si argomenta a favore della plausibilità dei fatti narrati dal<br />

proemio. Si tratterebbe infatti di un esempio di narrativa proemiale tipicamente ciceroniano, dove un avvenimento<br />

reale, preso come ispirazione iniziale, si mescola con elementi della finzione e dello stile. In questo caso la storia<br />

lxv


particolare applicazione alla materia giuridica che Cicerone presenta nel testo dei Topica<br />

potrebbe far perdere di vista l'originalita e la portata del recupero della teoria aristotelica.<br />

Tuttavia risulta chiaro che con la teoria dei to/poi viene riproposto (niente di meno che) un<br />

metodo dell'inventio capace di affrontare questioni generali in modo sistematico. E questa<br />

è solo una parte del ben più complesso piano di 'riforma' della retorica messo in atto da<br />

Cicerone, di cui fa parte ad esempio anche la riproposizione della teoria del pa/qoj e<br />

dell'h)=qoj, ispirata come è noto alla Retorica di Aristotele (v. De oratore II). Numerose<br />

riserve possono certamente essere espresse sul modo in cui Cicerone assimila e rielabora il<br />

metodo aristotelico dei to/poi ed è evidente che per ogni conio latino del vocabolario<br />

tecnico si possano constatare, non solo importanti differenze concettuali tra la teoria di<br />

Aristotele e l'interpretazione di Cicerone, ma anche numerose e sovrapposte interferenze<br />

culturali. Ciò non toglie tuttavia che l'intento primario sia quello di consegnare la teoria<br />

aristotelica al mondo culturale romano nel modo migliore possibile 142 .<br />

Particolarmente rilevante per lo scopo di questo studio è l'applicazione della teoria dei loci<br />

delineata da Cicerone alla qe/sij / propositum / quaestio infinita in Topica 81-86. In questa<br />

congiunzione di un metodo dell'inventio con il genere delle interrogazioni non solo si attua<br />

il programma ciceroniano di riunificazione di eloquenza e filosofia, ma si rimescolano<br />

radicalmente i confini delle due discipline. L'importanza di questo gesto di Cicerone non<br />

può essere esagerata. Questa è la griglia ad uso universale che se ne ricava:<br />

Ogni propositum (o qe/sij o quaestio infinita) si distingue in 2 parti:<br />

1) Cognitio (qewri/a) 143<br />

2) Actio (pra/cij) 144<br />

1) Cognitio : a) Coniectura : « sit necne »<br />

• a1) sitne aliquid 145<br />

• a2) unde ortum sit 146<br />

• a3) quae id causa effecerit 147<br />

dell'ignoranza del retore rifletterebbe l'avversione ciceroniana per un certo tipo di retorica scolastica e la sua volontà<br />

di posizionare il suo testo nella tradizione dei topoi aristotelici.<br />

142 Cfr. Riposati (1947), p. 9 ss.; Guillemin (1955), pp. 209-230, in part. 210, 219-223; Huby (1989); v. Fortenbaugh<br />

(2005), sul più ampio tema dell'affidabilità di Cicerone come fonte delle dottrine retoriche di Aristotele e Teofrasto.<br />

143 ex. « ut si quaeratur a naturane ius profectum sit an ab aliqua quasi condicione hominum et pactione ».<br />

144 ex. « sitne sapientis ad rem publicam accedere ».<br />

145 ex. « ecquidnam sit honestum, ecquid aequum re vera; an haec tantum in opinione sint ».<br />

146 ex. « natura an doctrina possit effici virtus ».<br />

147 ex. « quibus rebus eloquentia efficiatur ».<br />

lxvi


) Definitio : « quid sit »<br />

• a4) de commutatione rei 148<br />

• b1) Notio 149<br />

• b2) Proprietas 150<br />

• b3) Divisiones / Partitio 151<br />

c) Distinctio iuris et iniuriae : « quale sit »<br />

2) Actio : d) ad officium 158<br />

• b4) Descriptio (xarakth=ra) 152<br />

• c1) simpliciter<br />

• c2) comparate<br />

- de expetendo fugiendoque 153<br />

- de aequo et iniquo 154<br />

- de honesto et turpi 155<br />

- de eodem et alio 156<br />

- de maiore et minore 157<br />

e) ad motum animi vel gignendum vel sedandum planeve tollendum<br />

- cohortationes ad defendendam rem publicam, ad laudem, ad gloriam<br />

(incitationes, miserationesque flebiles)<br />

- rursusque oratio tum iracundiam restinguens, tum metum eripiens,<br />

tum exsultantem laetitiam comprimens, tum aegritudinem abstergens.<br />

La critica 159 ha del resto già messo abbondantemente in risalto il fatto che la teoria dei loci<br />

non corrisponde ad un qualche tipo di organizzazione tematica, quanto piuttosto uno<br />

specchietto di argomentazioni-tipo, scorrendo il quale si arriva a considerare un problema<br />

148 ex. « possitne eloquentia commutatione aliqua converti in infantiam ».<br />

149 ex. « sitne id aequum quod ei qui plus potest utile est ».<br />

150 ex. « in hominemne solum cadat an etiam in belvas aegritudo ».<br />

151 ex. « Divisio et eodem pacto partitio sic: triane genera bonorum sint ».<br />

152 ex. « qualis sit avarus, qualis assentator ceteraque eiusdem generis, in quibus et natura et vita describitur ».<br />

153 ex. « si expetendae divitiae, si fugienda paupertas ».<br />

154 ex. « Aequumne sit ulcisci a quocumque iniuriam acceperis ».<br />

155 ex. « Honestumne sit pro patria mori? ».<br />

156 ex. « Quid intersit inter amicum et assentatorem, regem et tyrannum ».<br />

157 ex. « eloquentiane pluris sit an iuris civilis scientia »<br />

158 ex. « suscipiendine sint liberi ».<br />

159 Reinhardt (2003), p. 346.<br />

lxvii


complesso da una varietà di punti di vista. In particolare lo schema dei loci intende<br />

facilitare l'inquadramento della natura di una questione al fine di applicarvi il tipo<br />

adeguato di modalità argomentativa. La rilevanza filosofica del metodo che si delinea a<br />

partire dai loci è perfettamente evidente.<br />

Nel libro III del De oratore, a proposito dei loci communes (così chiamati a veteribus)<br />

Cicerone mette in risalto la pratica di inaugurare una disputatio con un discorso de<br />

universo genere in utramque partem (De orat. III, 106-107), una pratica comune per<br />

Academici e Peripatetici e che Cicerone intende restituire alla pratica oratoria: « si illam<br />

praeclaram et eximiam speciem oratoris perfecti et pulchritudinem adamastis, aut vobis<br />

haec Carneadia aut illa Aristotelia vis comprendenda est » (72). Cicerone parla della<br />

separazione tra la filosofia e l'eloquenza come di un'assurda scissione del cuore dalla<br />

lingua (61: « hinc discidium illud extitit quasi linguae atque cordis, absurdum sane et<br />

inutile et reprendendum, ut alii nos sapere, alii dicere docerent »), una delle cui<br />

conseguenze più gravi è quella di aver per così dire 'sottratto' ingiustamente all'eloquenza<br />

il diritto di occuparsi in termini formali dei vari argomenti pro e contro « de virtute, de<br />

officio, de aequo et bono, de dignitate, utilitate, honore, ignominia, praemio, poena... »<br />

(107). Al fine di riabilitare la pratica della discussione in utramque partem, come è noto,<br />

Cicerone insiste a più riprese sul fatto che essa costituiva una parte essenziale del<br />

curriculum formativo all'interno della scuola di Aristotele 160 :<br />

in hac [scil., quaestio a propriis personis et temporibus ad universi generis<br />

orationem traducta (quae) appellatur qe/sij] Aristoteles adulescentis non ad<br />

philosophum morem tenuiter disserendi, sed ad copia rhetorum, in utramque<br />

partem ut ornatius et uberius dici posset, excercuit idemque locus – sic enim<br />

appellabat – quasi argumentorum notas tradidit unde omnis in utramque partem<br />

traheretur oratio.<br />

(Cic., Orator 46)<br />

È doveroso domandarsi se anche questo recupero della tradizione peripatetica e la<br />

convergenza sull'uso di uno stesso metodo argomentativo tra Aristotele e l'Academia<br />

160 Cfr. cfr. Cic. Fin. V, 10: « Disserendique ab isdem non dialectice solum, sed etiam oratorie praecepta sunt tradita,<br />

ab Aristoteleque principe de singulis rebus in utramque partem dicendi exercitatio est instituta, ut non contra omnia<br />

semper, sicut Arcesilas, diceret, et tamen ut in omnibus rebus, quicquid ex utraque parte dici posset, expromeret »;<br />

De orat. III, 80; DL V, 3. Glucker (1978), p. 34, n. 79.<br />

lxviii


'scettica' di Carneade sia stato suggerito a Cicerone da Antioco 161 . Tuttavia si noterà che<br />

nonostante l'uso di una strategia molto simile a quella impiegata da Antioco, il recupero<br />

della congiunzione tra retorica e filosofia, ovvero della congiunzione tra i metodi<br />

dell'argomentazione topologica, dell'esercizio in utramque partem, e dei contenuti delle<br />

questioni filosofiche, non viene mai associato da Cicerone con il nome di Antioco e ci<br />

sono buone ragioni per credere che costituisca il contributo specifico di Cicerone nel<br />

processo di assimilazione e trasmissione della tradizione retorica e filosofica.<br />

È all'interno del Peripato e dell'Academia 'scettica' infatti che secondo Cicerone sembrano<br />

essersi conservate le uniche tracce del connubio originario tra sapere e dicere (o tra<br />

sapienter sentiendi [scientia] e ornate dicendi [scientia]). Lo stesso Socrate 162 , a cui viene<br />

imputata la responsabilità dell'esecrabile separazione (per un avversione ben fondata nei<br />

confronti delle vicende politiche: « a re autem civili et a negotiis animi quodam judicio<br />

abhorrerent » (59)), viene descritto come « omnium eruditorum testimonio totiusque<br />

iudicio Graeciae, cum prudentia et acumine et venustate et subtilitate, tum vero<br />

eloquentia, varietate, copia (...)» (60); la differenza tra Aristotele e gli altri academici<br />

discepoli di Platone viene poi posta interamente sul piano delle doti oratorie: « copia<br />

fortasse et certe varietate dicendi pares non fuerunt » (67); Arcesilao viene ricordato per<br />

lo stile del suo discorso: « quem ferunt eximio quodam usum lepore dicendi » (67); e dalla<br />

fonte fino all'estuario, tutte queste doti confluiscono in Carneade: « hinc haec recentior<br />

Academia manavit, in qua extiti divina quadam celeritate ingeni dicendique copia<br />

Carneades » (68). Non è sorprendente allora che l'oratore ideale di Cicerone debba<br />

rivolgersi ai filosofi academici e peripatetici per recuperare alcuni indispensabili<br />

strumenti. Il genere dell'oratio civilis, di pertinenza dell' orator ciceroniano, viene allora<br />

suddiviso in due parti, l'una de finita controversia e l'altra infinite de universo genere (De<br />

orat. III, 109). Il primo tipo (causa aut controversia) corrisponde a un discorso dove il<br />

161 Antioco offre a Cicerone l'esempio di un recupero in chiave dogmatica di pratiche argomentative raffinatesi durante<br />

la fase scettica della storia dell'Academia; si veda l'uso 'dogmatico' della Carneadia divisio (v. Fin. V, 16: « ex quo,<br />

id quod omnes expetunt, beate vivendi ratio inveniri et comparari potest. Quod quoniam in quo sit magna dissensio<br />

est, Carneadia nobis adhibenda divisio est, qua noster Antiochus libenter uti solet »); allo stesso modo sembrerebbe<br />

aver insistito sullo uso non scettico della disputatio in utramque partem all'interno della tradizione peripatetica o<br />

addirittura aver voluto distinguere nettamente tra il contra omnia disserere attribuito agli scettici e l'argomentazione<br />

in utramque partem ricondotta ad un retaggio aristotelico, al fine di presentare la posizione di Arcesilao e Carneade<br />

come una forma di scetticismo radicale (v. Fin. V, 10: « Disserendique ab isdem non dialectice solum, sed etiam<br />

oratorie praecepta sunt tradita, ab Aristoteleque principe de singulis rebus in utramque partem dicendi exercitatio<br />

est instituta, ut non contra omnia semper, sicut Arcesilas, diceret, et tamen ut in omnibus rebus, quicquid ex utraque<br />

parte dici posset, expromeret »; De orat. III, 80); v. commento a De orat. III, 67 = T. 36 : contra.<br />

162 Socrate nel De oratore viene sottoposto a critica in qualità di prototipo della figura del saggio che si ritira nella sfera<br />

privata già delineata nel De inventione I, 1-5: « ... »; l'excursus del III libro del De oratore può essere legittimamente<br />

letto in parallelo con il prologo del I libro dell'opera giovanile di Cicerone in ragione delle affinità strutturali e<br />

contenutistiche tra i due testi, v. Renaud (Gargnano 2011).<br />

lxix


tempo, il luogo e l'agente sono determinati e si suddivide a sua volta nei tre generi : lites,<br />

deliberationes, laudationes 163 . Rispetto a questo genere di oratio civilis, che<br />

tradizionalmente definiva l'ambito della retorica, anche i filosofi sembrano aver<br />

conservato un certo interesse, e Filone di Larissa, filosofo academico e maestro di<br />

Cicerone, viene menzionato come un abile insegnante non solo di filosofia, ma anche di<br />

retorica 164 :<br />

Nam illud alterum genus, quod est temporibus, locis, reis definitum, optinent<br />

atque id ipsum lacinia. Nunc enim apud Philonem, quem in Academia [maxime]<br />

vigere audio, etiam harum iam causarum cognitio exercitatioque celebratur. (De<br />

orat. III, 110)<br />

Questo spiega perché i possedimenti rimasti in mano all'oratore contemporaneo vengano<br />

nel testo descritti come un « parvum et litigiosum praediolum » (108), uno spazio già<br />

esiguo, minacciato dalle incursioni dei filosofi come Filone di Larissa e più in generale<br />

sottoposto alle critiche dei filosofi, siano essi academici, stoici o peripatetici (v. De orat. I,<br />

43) 165 . Ma è il secondo tipo di oratio di cui si interessa realmente Cicerone, quello della<br />

quaestio infinita quasi proposita consultatio, la quale viene sì talvolta menzionata come<br />

una parte della retorica, « sed neque vim neque naturam eius nec partis nec genera<br />

proponunt, ut praeteriri omnino fuerit satius quam attactum deseri » (110). Il soggetto del<br />

verbo proponunt è ellittico. Può dunque riferirsi vagamente ai retori e ai filosofi che hanno<br />

adottato la distinzione retorica quaestio finita / quaestio infinita, oppure alla cerchia di<br />

Filone, oppure, più verosimilmente, sottointendere lo stesso soggetto dei precedenti verbi<br />

al plurale « definiunt » e « dicunt », ovvero « nunc quidem illi qui ex particula parva urbis<br />

163 Cfr. Cic., De inv. 1, 7-8: « ...Aristotelem autem...tribus in generibus rerum versari rhetoris officium putavit,<br />

demonstrativo, deliberativo, iudiciali...et, quemadmodum nostra quidem fert opinio, oratoris ars et facultas in hac<br />

materia tripertita versari existimanda est. Nam Hermagoras quidem ne quid dicat attendere nec quid polliceatur<br />

intellegere videtur, qui oratoris materiam in causam et in questionem dividat, causam esse dicat rem, quae habeat in<br />

se controversia, in dicendo positam cum personarum certarum interpositione; quam nos quoque oratori dicimus<br />

esse adtribuitam (nam tres eas partes, quas ante diximus, subponimus, iudicialem, deliberativam,<br />

demonstrativam) ».<br />

164 n.b. le pratica 'retorica' e la pratica 'filosofica' vengono mantenute distinte nelle lezioni di Filone, v. Cic. Tusc. II, 9:<br />

« Itaque mihi semper Peripateticorum Academiaeque consuetudo de omnibus rebus in contrarias partis disserendi<br />

non ob eam causam solum placuit, quod aliter non posset, quid in quaque re veri simile esset, inveniri, sed etiam<br />

quod esset ea maxum dicendi exercitatio. Qua princeps usus est Aristoteles, deinde eum qui secuti sunt. Nostra<br />

autem memoria Philo, quem nos frequenter audivimus, instituit alio tempore rhetorum praecepta tradere, alio<br />

philosophorum: ad quam nos consuetudinem a familiaribus nostri adducti in Tuscolano, quod datum est temporibus<br />

nobis, in eo consumpsimus ».<br />

165 Si noti in particolare come il personaggio di Scevola testimoni del conflitto tra le scuole filosofiche e i retori, contro<br />

i quali i filosofi peripatetici, ad esempio, erano pronti a dimostrare che gli strumenti della retorica si trovavano<br />

meglio esposti nelle opere di Aristotele e Teofrasto.<br />

lxx


ac loci nomen habent et Peripatetici philosophi aut Academici nominantur ...» (109). In<br />

ogni caso per le ulteriori suddivisioni del genere della quaestio infinita (111-118) Cicerone<br />

si emancipa dalla tradizione fino a qui considerata, il cui approccio in materia è a suo<br />

giudizio quantomeno superficiale (« nunc enim inopia reticere intelleguntur » (110)).<br />

Nella lunga frase che designerebbe il soggetto dei verbi al plurale (« dicunt », « definiunt »<br />

« proponunt » etc.) viene esplicitata un'opposizione tra due modalità diverse di riferirsi ai<br />

filosofi: una modalità contemporanea (« nunc...ex particula parva urbis ac loci nomen<br />

habent ») e una modalità più antica (« olim autem propter eximiam rerum maximarum<br />

scientiam a Graecis politici philosophi appellati »), che riprende la scansione temporale<br />

della storia dell'assurda separazione; 'prima dell'assurda scissione' il termine filosofo<br />

designava l'uomo 'politico' che riuniva in sé capacità oratorie e conoscenze salde e il cui<br />

appellativo rimandava al valore del suo ruolo per tutta la 'polis' (v. Licurgo, Pittaco e<br />

Solone (56); oppure Temistocle, Pericle 166 e Teramene (59)), 'dopo l'assurda scissione'<br />

invece i filosofi diventati professionisti della conoscenza ricevono appellativi dalle piccole<br />

porzioni della città che sono i luoghi dove si riuniscono. Non c'è dubbio che Filone faccia<br />

parte dei filosofi di professione 'secondo la modalità contemporanea' e che, nonostante la<br />

sua competenza nell'ambito della cognitio et exercitatio causarum, il suo approccio alla<br />

quaestio infinita, come anche quello di tutti gli altri suoi consociati, venga considerato<br />

insufficiente dal discorso di Cicerone. In base a questo passo si deve dunque escludere che<br />

l'ispiratore del piano ciceroniano di riforma della retorica sia unicamente Filone di<br />

Larissa 167 .<br />

Lo schema di classificazione di ogni discussione che Cicerone propone in seguito (De or.<br />

III, 111-118) 168 rimedia alle insufficienze rintracciate nella precedente ripartizione e si<br />

presenta perfettamente sovrapponibile alla griglia dei loci applicati precedentemente<br />

considerata:<br />

1) ad cognoscendum<br />

2) ad agendum<br />

166 Cfr. Plato, Phaedr. 270 a.<br />

167 vs Arnim (1898), pp. 87-114; Brittain (2001), pp. 339-340); Reinhardt (2003), pp. 7-17, 346-347; cfr. Philippson<br />

(1939), col. 1108; Mansfeld (1990), pp. 3193-3205. Sembrerebbe opportuno distinguere tra l'idea della preminenza<br />

assoluta della 'sapienza eloquente', sintesi ideale di capacità oratorie e contenuto filosofico, che Cicerone avrebbe<br />

potuto reperire anche negli insegnamenti di Filone di Larissa (v. Lévy (1992a), pp. 98-103), e l'articolazione<br />

concreta del progetto ciceroniano di riforma della retorica attraverso il recupero della quaestio infinita e la teoria dei<br />

loci applicati, che invece implica un rapporto diretto con strumenti di stampo aristotelico. Filone potrebbe allora<br />

essere considerato l'ispiratore del progetto ciceroniano solo a patto di ammettere tra i suoi interessi un recupero di<br />

elementi metodologici attribuiti ad Aristotele.<br />

168 Cfr. Part. Or. 61-67.<br />

lxxi


1) Cognitio : a) Coniectura : « sitne »<br />

b) Definitio : « quid sit »<br />

a1) sitne aliquid 169<br />

a2) quae sit origo cuiusque rei 170<br />

a3) causa aut ratio 171<br />

a4) de immutatione 172<br />

• b1) Quid in communi mente quasi impressum sit 173<br />

• b2) quid cuiusque sit proprium 174<br />

• b3) res distribuitur in partes 175<br />

• b4) quae forma et quasi naturalis nota cuiusque sit<br />

describitur 176<br />

c) Consecutio : « quid quamque rem sequitur »<br />

2) Ad agendum : d) in officii 182<br />

• c1) simplex<br />

• c2) ex comparatione<br />

- de expetendis fugiendisve rebus 177<br />

- de aequo aut iniquo 178<br />

- de honesto aut turpi 179<br />

- idemne sit an aliquid intersit 180<br />

- quid praestat aliud alii 181<br />

e) in animorum aliqua permotione aut gignenda aut sedanda tollendave<br />

169 ex. « sitne in humano genere sapientia »; « natura sit ius inter homines an opinionibus ».<br />

170 ex. « quod sit initium legum aut rerum publicarum ».<br />

171 ex. « cur doctissimi homines de maximis rebus dissentiant ».<br />

172 ex. « ut si disputetur num interire virtus in homine aut num in vitium possit converti ».<br />

173 ex. « idne sit ius quod maxime parti sit utile ».<br />

174 ex. « ornate dicere propriumne sit oratoris an id etiam aliquis praeterea possit ».<br />

175 ex. « quot sint genera rerum expetendarum, ut sintne tria, corporis, animi, externarumque rerum ».<br />

176 ex. « avari species, seditiosi, gloriosi ».<br />

177 ex. « expetendine honores sint, num fugienda paupertas ».<br />

178 ex. « Aequumne sit ulcisci iniurias etiam propinquorum ».<br />

179 ex. « sitne honestum gloriae causa mortem obire ».<br />

180 ex. « ut metuere et vereri, ut rex et tyrannus, ut assentator et amicus ».<br />

181 ex. « optime cuiusque sapientes an populari laude ducantur »<br />

182 ex. « quo in genere quid rectum faciendumque sit quaeritur, cui loco omnis virtutum et vitiorum est silva subiecta ».<br />

lxxii


(cohortationes, obiurgationes, consolationes, miserationes, omnisque ad<br />

omnem animi motum et impulsio et, si ita res ferat, mitigatio).<br />

La prima parte della classificazione (cognitio) Cicerone dichiara di ricavarla da dei non<br />

meglio precisati 'uomini molto dotti': « Atque eae quidem disceptationes quae ad<br />

cognitionem referuntur sic fere a doctissimis hominibus describuntur » (117). E poco dopo<br />

parla in generale della nuova tecnica dell'argomentazione come di qualcosa preso dalle<br />

stesse persone da cui i cultori dell'eloquenza sono stati derubati: « sumenda sunt nobis ab<br />

eis ipsis a quibus expilati sumus ». Ritornando alla storia dell' 'assurda separazione' se ne<br />

ricava che l'eloquenza è stata privata dei suoi diritti dai filosofi (Socrate in primis) che<br />

hanno criticato e disprezzato l'arte retorica. Tra questi filosofi tuttavia esistono dei<br />

doctissimi homines da cui Cicerone attinge l'idea dei topoi applicati alla cognitio. Che<br />

questi innominabili filosofi siano Aristotele e i peripatetici 183 viene suggerito non solo dal<br />

particolare statuto di cui gode Aristotele nei testi di Cicerone 184 , in particolare a proposito<br />

dei suoi contributi all'organizzazione ed elaborazione dei principi della retorica 185 , ma<br />

sopratutto dal fatto che tutta la classificazione viene presentata nei Topica innanzitutto<br />

come un'esplicitazione di una metodologia aristotelica in origine, adattata alle esigenze<br />

dell'interlocutore di Cicerone.<br />

L'orator ciceroniano dunque padroneggia la dialettica in utramque partem d'origine<br />

aristotelica 186 e sopratutto la teoria dei loci applicati, che gli consente di reperire<br />

facilmente le diverse modalità argomentative che ogni particolare materia richiede 187 ,<br />

trasferendo inoltre la discussione dal piano del particolare al piano dell'universale:<br />

183 A proposito del rapporto dei peripatetici contemporanei di Cicerone con la retorica, v. Quint., Inst. Or. II, 15, 19:<br />

« quorum fuit Ariston, Critolai Peripatetici discipulus, cuius hic finis est: scientia videndi et agendi in quaestionibus<br />

civilibus per orationem popularis persuasionis ».<br />

184 v. e.g. Tusc. I, 7: « Aristoteles, vir summo ingenio, scientia, copia, cum motus esset Isocratis rhetoris gloria, dicere<br />

docere etiam coepit adolescentes et prudentiam cum eloquentiam iungere, sic nobis placet nec pristinum dicendi<br />

studium deponere et in hac maiore et uberiore arte versari. ».<br />

185 v. De inventione II, 5.<br />

186 La dissertatio in utramque partem rientra allo stesso modo nella descrezione ciceroniana del suo metodo academico<br />

in Luc. 7-8: « neque nostra disputationes quidquam aliud agunt nisi ut in utramque partem dicendo eliciant et<br />

tamquam exprimant aliquid quod aut verum sit aut ad id quam proxime accedat »; cfr. Ac.libri I, 46: « Plato, cuius<br />

in libris nihil adfirmatur et in utramque partem multa disseruntur ». Si assume generalmente che l'attitudine<br />

academica manifestata da Cicerone nel testo degli Academica corrisponda all'interpretazione clitomachea della<br />

scetticismo academico, piuttosto che a quella filoniana dei 'libri romani', v. Lévy (1992a).<br />

187 v. Reinhardt (2003), p. 11-12, per il quale la teoria dei loci è sostanzialmente un metodo per argomentare in<br />

utramque partem sulla medesima proposizione, potenzialmente supportato da frasi come De part.or. 51: « quoniam<br />

in utramque partem sunt exempla et item ad coniecturam faciendam loci ».<br />

lxxiii


Noverit igitur hic quidem orator quem summum esse volemus argumentorum et<br />

rationum locos. Nam quoniam, quicquid est quod in controversia aut in<br />

contentione versetur, in eo aut sitne aut quid sit aut quale sit quaeritur: sitne,<br />

signis; quid sit, definitionibus; quale sit, recti pravique partibus – quibus ut uti<br />

possit orator, non ille volgaris, sed hic excellens, a propriis personis et<br />

temporibus semper, si potest, avocata controversiam 188 . Latius enim de genere<br />

quam de parte disceptare licet, ut quod in universo sit probatum id in parte sit<br />

probari necesse – haec igitur quaestio a propriis personis et temporibus ad<br />

universi generis orationem traducta appellatur qe/sij.<br />

(Orator 44-45)<br />

Questo breve excursus nelle opere retoriche di Cicerone intende fornire la base per la<br />

comprensione delle premesse argomentative delle opere filosofiche e in particolare del De<br />

finibus. Tutta l'opera infatti è costruita secondo i principi di un'argomentazione dialettica,<br />

che dà voce a prospettive antagoniste. Il modo probabilmente più efficace di inquadrare i<br />

rapporti tra il libro III, dedicato alla dottrina stoica, e il libro IV, dove l'esposizione del<br />

pensiero degli 'antichi filosofi' è funzionale alla critica della dottrina stoica, è quello di<br />

considerare i due testi come complementari, le due parti di una narrativa filosofica in<br />

utramque partem. Al centro della discussione sta infatti il conflitto tra l'etica peripatetica e<br />

l'etica stoica, che Catone nel libro III si è sforzato di descrivere come sostanzialmente<br />

insanabile, ma che Carneade – e seguendo il suo esempio, seppur per diverso fine, anche<br />

Antioco d'Ascalona – era pronto a presentare, in modo deliberatamente provacatorio,<br />

come riducibile ad una semplice divergenza terminologica. La modalità argomentativa<br />

prescelta da Cicerone nel libro IV è quella di un confronto non al livello delle minuzie<br />

dottrinali, ma a livello generale e formale: « ...universa enim illorum ratione cum tota<br />

vestra confligendum puto » (IV, 3). Il conflitto filosofico viene inoltre presentato come un<br />

conflitto tra diverse modalità argomentative: da una parte l'ordinata precisione di chi<br />

procede per 'definizioni' e 'divisioni', dall'altra l'argomentare trasandato e oscuro degli<br />

stoici 189 : « primum enim illa quae subtiliter disserenda erant polite apteque dixerunt tum<br />

188 Cfr. Part.or. 9 : « Quoniam igitur omne, quod in controversiam venit, id aut sit necne sit aut quid sit aut quale sit<br />

quaeritur, in primo coniectura valet, in altero definitio, in tertio ratio » ; Fin. I, 29.<br />

189 Cfr. Fin. III, 3; Tusc. III, 13: "qui (Stoici) breviter astringere solent argumenta"; ND II, 20; un giudizio sprezzante<br />

per le modalità argomentative della loro scuola viene espresso anche a proposito dei divulgatori romani<br />

dell'epicureismo, v. Ac.libri I, 5: (Varro loquitur) « non posse nos Amafini aut Rabiri similes esse, qui nulla arte<br />

adhibita de rebus ante oculos positis vulgari sermone disputant, nihil definiunt, nihil partiuntur, nihil apta<br />

interrogatione concludunt, nullam denique artem esse nec dicendi nec disserendi putant ».<br />

lxxiv


definientes, tum partientes, ut vestri etiam; sed vos squalidius, illorum vides quam niteat<br />

oratio » (IV, 5) 190 . Viene poi introdotta la distinzione tra i due generi di argomentazione<br />

che definiscono la quaestio finita e infinita nei Topica per elogiare la completezza<br />

dell'ambito di competenza dei filosofi academici e peripatetici: « Nam, quidquid quaeritur,<br />

id habet aut generis ipsius sine personis temporibusque aut iis adiuncti facti aut iuris aut<br />

nominis controversiam. Ergo in utroque exercebantur, eaque disciplina effecit tantam<br />

illorum utroque in genere dicendi copiam » (IV, 6). Gli stoici invece hanno trascurato l'arte<br />

dell' inventio in generale e fanno un estensivo uso dei paradossi, intollerabile dal punto di<br />

vista della dialettica di stampo aristotelico. L'excursus sulle modalità argomentative degli<br />

antichi prosegue oltre 191 e sfocia in un elogio dell' inventio e della teoria dei loci : « Nam e<br />

quibus locis quasi thesauris argumenta depromerentur, vestri ne suspicati quidem sunt,<br />

superiores autem artificio et via tradiderunt. (...) » (IV, 10), che, alla luce di quanto<br />

esposto fino a qui, sarebbe estremamente strano se fosse solo un'ulteriore elemento scelto<br />

a caso nella lista delle acquisizioni degli antichi.<br />

Prima di approdare al vero argomento del testo, ovvero la quaestio sul sommo bene,<br />

Cicerone offre un resumé estremamente conciso degli importanti contributi degli antichi<br />

anche nell'ambito della fisica, per ribadire il principio che non c'era alcun motivo valido<br />

per cui gli stoici dovessero emanciparsi dalla tradizione precendente. Tuttavia ci sono<br />

ragioni per pensare che gli effetti del riconoscimento della superiorità dell'arte del<br />

ragionamento degli antichi non rimangano confinati nello spazio dell'excursus preliminare<br />

sulla dialettica. Tenendo presente la griglia dei loci applicati si comprendono infatti le<br />

scelte di Cicerone nell'ambito degli argomenti impiegati. La questione della definizione<br />

del sommo bene viene infatti considerata come una questione su ciò che produce il sommo<br />

bene dall'origine 192 fino all'esito finale 193 (« quid sit »: origo, causa), mentre tutta la<br />

190 Cfr. Top. 6-7: « cum omnis ratio diligens disserendi duas habeat partis, unam inveniendi, alteram iudicandi,<br />

utriusque princeps, ut mihi quidem videtur, Aristoteles fuit; Stoici autem in altera elaboraverunt; iudicandi enim<br />

vias diligenter persecuti sunt ea scientia, quam dialektikh/n appellant, inveniendi artem, quae topikh/ dicitur, quae<br />

et ad usum potior erat et ordine naturae certe prior, totam reliquerunt. Nos autem, quoniam in utraque summa<br />

utilitas est, et utramque, si erit otium, persequi cogitamus, ab ea, quae prior est, ordiemur. »<br />

191 Fin. IV, 8: « Quid enim ab antiquis ex eo genere quod ad disserendum valet praetermissum est? Qui et definierunt<br />

plurima et definiendi artes reliquerunt, quodque est definitioni adiunctum, ut res in partes dividatur, id et fit ab illis<br />

et quem ad modum fieri oporteat traditur; item de contrariis, a quibus ad genera formasque generum devenerunt.<br />

Iam argumenti ratione conclusi caput esse faciunt ea quae perspicua dicunt, deinde ordinem sequuntur, tum, qui<br />

verum sit in singulis, extrema conclusio sit ».<br />

192 Fin. IV, 15: « Itaque ab iis constitutio illa prima naturae, a qua tu quoque ordiebare, his prope verbis exponitur:<br />

Omnis natura vult esse conservatrix sui, ut et salva sit et in genere conservetur suo (...) »; Fin. V, 23: « Nam cum<br />

omnis haec quaestio de finibus et quasi de extremis bonorum et malorum ab eo proficiscatur quod diximus naturae<br />

esse aptum et accomodatum, quodque ipsum per se primum appetatur, (...) »; Fin. V, 23-24: « Ergo instituto<br />

veterum, quo etiam Stoici utuntur, hinc capiamus exordium. Omne animal se ipsum diligat ac, simul ut ortum est, id<br />

agit, ut se conservet, (...) ».<br />

193 Fin. IV, 25: « Sumus igitur homines; ex animo constamus et corpore, quae sunt cuiusdam modi, nosque oportet, ut<br />

lxxv


divergenza d'opinioni tra peripatetici e stoici sul valore rispettivo dei beni dell'anima, dei<br />

beni del corpo e dei beni esterni viene trattata come una questione « quale sit » 194 e in<br />

particolare de expetendo fugiendoque. Quest'ultima in base alla griglia dei loci è diversa<br />

dalla questione « quale sit » de honesto turpique che invece riguarda i beni e i mali<br />

dell'anima soltanto 195 . Le due questioni su cosa sia legittimo perseguire come un bene e<br />

cosa invece sia 'onesto' fare risultano qualitativamente separate. Un tale inquadramento<br />

viene poi affiancato dalla modalità argomentativa di tipo comparativo 196 , che insiste sul<br />

contributo parziale di ogni bene, sicuramente minore quello dei beni del corpo, ma allo<br />

stesso tempo imprescindibile dal punto di vista academico-peripatetico. Il tutto, come<br />

mostra il seguente passo, si regola in base alla teoria dei loci applicati:<br />

Ad tertium genus quaestionis, in quo quale sit quaeritur, in comparationem ea<br />

cadunt quae paulo ante in comparationis loco enumerata sint. In illud autem<br />

genus in quo de expetendo fugiendoque quaeritur adhibentur ea quae sunt aut<br />

animi aut corporis aut externa vel commodo vel incommoda. Itemque cum de<br />

honesto turpique quaeritur, ad animi bona aut mala omnis oratio dirigenda est.<br />

Relativamente al terzo tipo di questioni, in cui si investiga della qualità di una<br />

cosa, gli aspetti enumerati nel topos comparativo si prestano alla comparazione.<br />

Nel tipo invece in cui si investiga de expetendo fugiendoque ci si occupa dei<br />

vantaggi o svantaggi relativi all'anima o relativi al corpo o esterni. Inoltre se si<br />

investiga de honesto turpique, tutto il discorso è rivolto ai beni o ai mali<br />

dell'anima.<br />

(Topica 89)<br />

In conclusione, se si tiene conto della natura dialettica dei libri IV e V del De finibus,<br />

ovvero del fatto che il testo è costruito in modo da rispondere agli argomenti avanzati<br />

dallo stoicismo contro la tesi peripatetica e a sua volta controattaccare con una serie di<br />

prima appetitio naturalis postulat, haec diligere constituereque ex his finem illum summi boni atque ultimi »; Fin. V,<br />

24: « Ita finis bonorum existit secundum naturam vivere sic affectum, ut optime affici possit ad naturamque<br />

accommodatissime ».<br />

194 v. Part.or. 11: « rerum autem bonarum et malarum tria genera sunt ; nam aut in animis aut in corporibus aut extra<br />

esse possunt ».<br />

195 Per cui: Fin. IV, 28: « uno autem modo in virtute sola summum bonum recte poneretur, si quod esset animal, quod<br />

tantum ex mente constaret, id ipsum tamen sic, ut ea mens nihil haberet in se, quod esset, ut valetudo est ». v.<br />

Part.or. 19 : « Tertio autem in genere, in quo quale sit quaeritur, aut de honestate aut de utilitate aut de aequitate<br />

dicendum est. De honestate sic, ut honestumne sit pro amico periculum aut invidiam subire ».<br />

196 Fin. IV, 29-31; Fin. V, 38.<br />

lxxvi


critiche ai punti più sensibili della dottrina etica stoica, si ammetterà che l'eventuale<br />

successione dei temi trattati dipende dall'evoluzione degli argomenti dialettici. Dunque<br />

piuttosto che cercare lo schema della presunta scansione tematica del testo si presterà<br />

attenzione alle sue strategie argomentative. A tal proposito riportare in primo piano gli<br />

strumenti della dialettica aristotelica così come essi vennero assimilati e rielaborati dalla<br />

tradizione da cui Cicerone attinge è di enorme aiuto.<br />

Per quanto riguarda le affinità tra i testi di Cicerone e i frammenti dell'opera di Ario<br />

Didimo ci sono buoni motivi per pensare che si possano ottenere buoni risultati andando<br />

alla ricerca di qualche traccia di ricezione della metodologia aristotelica. D.E. Hahm è<br />

riuscito infatti a mettere in risalto la natura in un certo qual modo dialettica del testo che<br />

abbiamo a disposizione, nonostante gli effetti visibili del processo di epitomazione e<br />

riduzione, da lui accuratamente studiati 197 . Tra la sezione dedicata all'etica stoica (Dox. B)<br />

e la sezione dedicata all'etica peripatetica sussistono infatti evidenti relazioni che Hahm<br />

identifica come l'effetto di una 'strutturazione inversa' : il ruolo principiale affidato alla<br />

teoria dell' oi)kei/wsij nell'esposizione dell'etica peripatetica sarebbe il risultato di una<br />

prospettiva dialettica che insiste sulle possibilità di armonizzare le due dottrine. Una tale<br />

prospettiva dialettica sarebbe visibile nella Dox. A nelle vesti di un principio storiografico<br />

che si articola intorno ai concetti di sumfwni/a e polufwni/a. 198 Controparte del concetto<br />

dialettico/dossografico di diafwni/a e delle sue applicazione in ambito scettico, il concetto<br />

di polufwni/a risolve nel testo le difficoltà interpretative del pensiero di Platone: « to£ de/<br />

ge polu/fwnon tou= Pla/twnoj . Ei)/rhtai de£ kai£ ta£ peri£ tou= te/louj<br />

au)t%= pollaxw=j. Kai£ th£n me£n poikili/an th=j fra/sewj e)/xei dia£ to£ lo/gion kai£<br />

megalh/goron, ei)j de£ tau)to£ kai£ su/mfwnon tou= do/gmatoj suntelei=. Tou=to d' e)sti to£<br />

kat' a)reth£n zh=n » (49, 25- 50,5 Wachsmuth); « Pla/twn polu/fwnoj w)/n, ou)x w(/j tinej<br />

oi)/ontai polu/docoj, pollaxw=j di$/rhtai ta)gaqo/n ». È possibile dunque che il testo<br />

intendesse risolvere allo stesso modo anche le discrepanze tra stoici e peripatetici.<br />

197 Hahm (1990), pp. 2935-3055.<br />

198 Nb numerosi dubbi possono essere avanzati a proposito della provenienza delle tre dossografie A, B e C dalla mano<br />

del medesimo autore, v. la recente discussione di Bonazzi (2011), pp. 443-446. La dossografia A si distingue<br />

nettamente dalle altre due per stile e contenuto, tanto che la critica ne ha ipotizzato o la funzione di introduzione<br />

(Diels (1879), contestato da Giusta (1964-1967), vol. II, pp. 140-147) o la derivazione da un'altra opera del<br />

medesimo autore (Hahm (1990), pp. 3033-3034). Entrambe le ipotesi sono state sottoposte alla critica intransigente<br />

di Goränsson (1995), pp. 223-225. A nostro avviso sussistono delle affinità strutturali tra la dossografia A e la<br />

dossografia B, che permettono di stabilire un legame tra i due testi. La più evidente di queste affinità è la l'uso della I<br />

persona nei passaggi di raccordo in entrambi i testi, che differisce dalle pratiche abituali di Stobeo e può essere<br />

dunque attribuito all'autore dei due testi, sia esso Ario Didimo o meno. Rimangono tuttavia esigue le prove testuali a<br />

favore di un rapporto tra le Dox. A e B e la Dox. C., l'unica espressamente riconducibile all'opera di Ario Didimo.<br />

lxxvii


Ulteriori e importanti informazioni sulla costruzione delle dinamiche argomentative del<br />

testo sono date dalla menzione della famosa diai/resij di Eudoro di Alessandria nella Dox.<br />

A (42, 7-45, 10). Come anticipato in precedenza la diai/resij di Eudoro, secondo l'ipotesi<br />

di Giusta, sembrava fornire la scansione tematica adottata dalla maggioranza dei testi<br />

dossografici di etica, tuttavia una volta accertata l'impossibilità di ridurre le varianti<br />

d'esposizione dossografica ad uno schema coincidente con quello fornito da Eudoro,<br />

rimane poco chiara la funzione della diai/resij, sia all'interno del testo di [Ario Didimo],<br />

sia in relazione alla tradizione con cui si confronta. In via preliminare si noterà che lo<br />

schema di Eudoro viene enfaticamente presentato dall'autore del testo in alternativa e in<br />

opposizione rispetto alla diai/resij di Filone di Larissa e il motivo per questa sostituzione<br />

viene esplicatamente dichiarato in quanto segue:<br />

Ἐγὼ δ' εἰ μὲν ἀργοτέρως διεκείμην, ἀρκεσθεὶς ἂν αὐτῇ συνεῖρον ἤδη<br />

τὰ περὶ τῶν ἀρεσκόντων, τῇ τῆς ἑξαμερείας ἐπικουφιζόμενος<br />

περιγραφῇ· ἡγούμενος δ' ἐμαυτῷ πρέπειν πρὸ παντὸς τὴν οὐσίαν δεῖν<br />

ἐπισκοπεῖν οὗ τις πραγματεύεται, κἄπειτα ποιότητα τὴν περὶ αὐτὴν<br />

καὶ ποσότητα, καὶ τούτοις ἐφεξῆς τὸ πρὸς τί, νομίζω προς<br />

επιπονητέον τε εἶναι καὶ τὰ ἄλλων ἐπισκοπεῖν, καθάπερ οὐ πάντων,<br />

οὕτω τῶν περὶ ταῦτα διενεγκάντων.<br />

Sei io fossi più negligente, sarei soddisfatto così e ora comincerei a riunire le<br />

dottrine (dei filosofi / placita) sulla base di questa descrizione in sei parti. Ma<br />

poiché penso che mi si addica prima di tutto dover investigare l'essenza di ciò di<br />

cui ci si occupa, poi la sua qualità e quantità, e di seguito a queste la relazione,<br />

ritengo che bisogna far lo sforzo di investigare anche le opinioni degli altri, se<br />

non di tutti almeno di quelli che in questo campo si sono distinti.<br />

(p. 41, 26-42, 6 Wachsmuth)<br />

La differenza fondamentale tra le due diaire/seij consiste allora in una differenza<br />

innanzitutto metodologica: quello di Filone di Larissa è uno schema costruito sulla base di<br />

un'analogia tra il ruolo del filosofo rispetto all'anima e il ruolo del medico rispetto al corpo<br />

(« Ἐοικέναι δέ φησι τὸν φιλόσοφον ἰατρῷ »), che determina una ripartizione della<br />

materia in sei parti: discorso protreptico, sui beni e mali, sul fine, sui generi di vita: privata<br />

lxxviii


e pubblica, discorso ipotetico (p. 40-41 Wachsmuth); mentre il secondo schema proposto,<br />

quello di Eudoro d'Alessandria, soddisfa implicitamente l'esigenza di strutturare<br />

l'investigazione di una materia secondo le categorie d'origine aristotelica : ou)si/a, poio/thj,<br />

poso/thj, pro£j ti/ 199 . Dal punto di vista di [Ario Didimo] la trattazione del discorso etico<br />

va organizzato secondo una ripartizione per tipologie di problemi:<br />

Ὁ μὲν οὖν ἠθικὸς λόγος εἰς ταῦτα καὶ τοσαῦτα τέμνοιτ' ἄν· ἀρκτέον<br />

δὲ τῶν προβλημάτων, προτάττοντα τὰ γένη κατὰ τὴν ἐμοὶ φαινομένην<br />

διάταξιν, ἥντινα πείθομαι πρὸς τὸ σαφέστερον διῃρηκέναι.<br />

Il discorso etico deve essere ripartito in questo modo: bisogna cominciare dai<br />

problemi, proponendone prima i vari generi secondo la successione che mi è<br />

sembrata opportuna, la quale sono persuaso abbiano suddiviso nel modo più<br />

saggio.<br />

(p. 45, 7-10 Wachsmuth)<br />

Ed infatti la diai/resij di Eudoro è caratterizzata dal fatto di affontare ogni indagine 'per<br />

problemi', il che comporta una applicazione alla materia di varie strategie<br />

d'argomentazione a seconda del soggetto trattato (to/poi):<br />

Ἔστιν οὖν Εὐδώρου τοῦ Ἀλεξανδρέως, Ἀκαδημικοῦ φιλοσόφου,<br />

διαίρεσις τοῦ κατὰ φιλοσοφίαν λόγου, βιβλίον ἀξιόκτητον, ἐν ᾧ πᾶσαν<br />

ἐπεξελήλυθε προβληματικῶς τὴν ἐπιστήμην, ἧς ἐγὼ διαιρέσεως<br />

ἐκθήσομαι τὸ τῆς ἠθικῆς οἰκεῖον.<br />

Esiste la diaresis del discorso filosofico di Eudoro di Alessandria, filosofo<br />

academico, un libro che val la pena procurarsi, nel quale ogni conoscenza viene<br />

esposta per problemi, e della cui diairesis io stesso esporrò ciò che pertiene<br />

all'etica.<br />

(p. 42, 7-11 Wachsmuth)<br />

Καὶ ὁ μὲν περὶ τὴν θεωρίαν τῆς καθ' ἕκαστον ἀξίας λόγος εἰς<br />

199 Cfr. Giusta (1964-1967), vol. II, pp. 12-18.<br />

lxxix


τοσούτους τόπους γενικοὺς τέμνεται· (…).<br />

E il discorso teorico sul valore di ciascuna cosa si suddivide in questi topoi<br />

generici: (…).<br />

(p. 43, 14-16 Wachsmuth)<br />

Si noterà inoltre che l'impiego della metodologia dialettica aristotelica viene<br />

accuratamente distinto dall'uso retorico e poetico della similitudine per definire le parti di<br />

una materia di indagine. Già Cicerone nei Topica, per distinguere accuratamente il<br />

rapporto tra genere e specie dal rapporto tra tutto e parti, allude alla confusione tra le due<br />

nozioni, equiparandola alle approssimative strategie definitorie di retori e poeti, per cui<br />

l'uso della metafora e della translatio verbi ha certamente un effetto di piacevolezza nel<br />

discorso, ma manca dell'acume necessario per distinguere due cose che sono soltanto<br />

simili:<br />

Formas qui putat idem esse quod partis, confundit artem et similitudine quadam<br />

conturbatus non satis acute quae sunt secernenda distinguit. Saepe etiam<br />

definiut et oratore et poetae per translationem verbi ex similitudine cum aliqua<br />

suavitate. Sed ego a vestris exemplis nisi necessario non recedam.<br />

Chi ritenesse che le specie sono la stessa cosa delle parti, confonderebbe la tecnica e<br />

confuso da una certa somiglianza non distinguerebbe in modo sufficientemente preciso<br />

le cose che vanno tenute separate. Spesso infatti gli oratori e i poeti definiscono per<br />

traslazione di una parola a partire da una somiglianza con una certa piacevolezza. Ma io<br />

se non è necessario non voglio scostarmi dai vostri esempi.<br />

(Topica 31-32)<br />

La differenza tra la diai/resij di Filone di Larissa e la diai/resij di Eudoro di Alessandria<br />

corrisponde dunque alla differenza tra due prospettive filosofiche che fanno usi opposti<br />

degli strumenti dell' ars dicendi. In contrasto con l'uso tradizionale della similitudine tra<br />

filosofia e medicina, Eudoro ricorre ad un'applicazione degli strumenti della<br />

dialettica/retorica aristotelica, per cui le questioni dell'etica vengono affrontate 'per<br />

problemi', facendo verosimilmente ricorso ad una classificazione 'topica' degli argomenti<br />

da trattare. Il che significa che Eudoro, come Cicerone, attraverso il recupero di una<br />

lxxx


metodologia di stampo aristotelico, supera i limiti della separazione tra ars dicendi e ars<br />

cognoscendi ed elabora un metodo d'organizzazione sistematica delle questioni<br />

filosofiche. Allo stesso tempo riceve ulteriore conferma l'ipotesi che Filone di Larissa non<br />

sia l'ispiratore principale di questa importante evoluzione nell'approccio alle materie<br />

filosofiche.<br />

In conclusione sembrebbe possibile collocare entrambi gli autori, Cicerone e [Ario<br />

Didimo], nella medesima corrente culturale interessata al recupero di certi elementi della<br />

dialettica aristotelica applicati all'elaborazione delle questioni filosofiche. Nell'ambito<br />

dell'etica questo recupero si trova affiancato dalla costituzione di un terreno di incontro e<br />

comparazione tra l'etica stoica e l'etica peripatetica, il quale ruota intorno al concetto<br />

fondamentale di oi)kei/wsij e ai suoi diversi esiti all'interno delle due dottrine.<br />

Nei testi ciceroniani le due teorie vengono riportate ad un minimo comun denominatore<br />

costituito da un principio di auto-conservazione dell'essere vivente: « Sed primum positum<br />

sit nosmet ipsos commendatos esse nobis primamque ex natura hanc habere appetitionem,<br />

ut conservemus nosmet ipsos. Hoc convenit » (Fin. IV, 25). « Iure igitur gravissimi<br />

philosophi initium summi boni a natura petiverunt et illum appetitum rerum ad naturam<br />

accommodatarum ingeneratum putaverunt omnibus, qui continetur ea commendatione<br />

naturae qua se ipsi diligunt » (Fin. V, 33). L'esposizione ciceroniana conserva ampiamente<br />

le tracce dell'applicazione del metodo dialettico della divisio Carneadia, per cui<br />

l'allineamento delle varie dottrine etiche su un principio naturalistico costituisce il punto di<br />

partenza per la valutazione della coerenza di ogni posizione 200 . Tuttavia si noterà che<br />

l'esplicitazione del concetto di oi)kei/wsij come un principio di auto-conservazione<br />

rappresenta già un'interpretazione non scontata del contenuto della 'commendatio naturae',<br />

che favorisce in partenza l'impostazione peripatetica rispetto a quella stoica. Quando<br />

invece lo stesso principio figura nell'esposizione didimea dell'etica peripatetica (« Kai£<br />

prw=ton me£n o)re/gesqai tou= ei)=nai, fu/sei ga£r %)keiw=sqai pro£j e(auto/n, di' o(£ kai£<br />

proshko/ntwj a)smeni/zein me£n e)n toi=j kata£ fu/sin, dusxerai/nein de£ e)pi£ toi=j para£<br />

fu/sin. (…) Fi/lon ga£r ei)=nai h(mi=n to£ sw=ma, fi/lhn de£ th£n yuxh/n, fi/la de£ ta£ tou/twn<br />

me/rh kai£ ta£j duna/meij kai£ ta£j e)nergei/aj,


swthri/aj th£n a)rxh£n gi/gnesqai th=j o(rmh=j kai£ tou= kaqh/kontoj kai£ th=j a)reth=j »<br />

(pp.118, 11-119, 4 Wachsmuth).) 201 , la tensione dialettica della divisio Carneadia non<br />

risulta più visibile e il principio risulta perfettamente integrato allo stesso tempo con<br />

elementi d'origine peripatetica (fi/la de£ ta£ tou/twn me/rh kai£ ta£j duna/meij kai£ ta£j<br />

e)nergei/aj) e con elementi d'origine stoica (gi/gnesqai th=j o(rmh=j kai£ tou= kaqh/kontoj).<br />

L'esposizione di [Ario Didimo] sembra dunque riflettere una fase più avanzata del<br />

confronto tra le due istanze filosofiche, dove la definizione della dottrina peripatetica<br />

avviene attraverso l'integrazione spontanea e per così dire pacifica di un vocabolario<br />

tecnico di matrice stoica 202 .<br />

Infine un'ulteriore importante differenza sussiste tra l'impostazione generale dei due testi:<br />

Cicerone si fa infatti portavoce di una prospettiva storiografica molto particolare, per cui<br />

esporre la teoria etica peripatetica corrisponde a fare riferimento alla tradizione degli<br />

'antichi', una tradizione presentata come omogenea e di cui sono esponenti allo stesso<br />

modo filosofi academici come Senocrate e Polemone e filosofi peripatetici come<br />

Aristotele e Teofrasto. Questa prospettiva storiografica è verosimilmente la firma della<br />

storiografia filosofica di Antioco d'Ascalona, per il quale il recupero dell'aristotelismo<br />

passa attraverso un recupero della tradizione più antica della scuola academica. Nessuna<br />

traccia della firma di Antioco è invece presente nel testo di Ario Didimo, dove Aristotele e<br />

i peripatetici rappresentano una scuola filosofica a sè stante e nessuna menzione è fatta del<br />

pensiero etico degli academici antichi.<br />

Per concludere: nei testi etichettati come dossografici è riscontrabile un uso estensivo di<br />

principi dialettici aristotelici in origine. L'ipotesi di una fonte unica può esser dunque<br />

legittimamente sostituita da uno studio accurato della trasmissione e ricezione di elementi<br />

della dialettica aristotelica attraverso l'evoluzione della filosofia ellenistica e in particolare<br />

all'interno della scuola academica 203 . L'uso carneadeo della divisio delle opinioni<br />

filosofiche in ambito etico dimostra l'ampia malleabilità dello strumento dialettico e la sua<br />

enorme influenza sull'evoluzione del dibattito filosofico. Dall'esigenza di stabilire un<br />

terreno comune di confronto dialettico scaturisce inoltre l'evoluzione del lessico tecnico di<br />

ogni scuola in direzione di un patrimonio terminologico comune. Infine l'applicazione di<br />

201 v. anche 122, 3; 123, 9; 125, 23; 126, 2 Wachsmuth.<br />

202 Cfr. Görgemanns (1983), pp. 165-189, in part. p. 181.<br />

203 Cfr. Runia (2008), p. 19: « ...the earlier Peripatetic collections of material have been reworked by the Sceptical<br />

Academy ».<br />

lxxxii


categorie logiche e di griglie topiche ad uso argomentativo facilita la strutturazione della<br />

trattazione di una materia. Ne consegue che i cosiddetti testi dossografici presentano forti<br />

analogie contenutistiche e terminologiche riconducibili non tanto alla dipendenza da<br />

un'unica fonte testuale, quanto piuttosto al comune uso di un certo arsenale argomentativo<br />

più o meno accuratamente codificato.<br />

lxxxiii


Indice delle Testimonianze<br />

T. 1 : PHILODEMUS, ACADEMICORUM HISTORIA (PHERC. 1021 E 164), COLL. IV, 8-16; IV, 38SS.;<br />

XIII; XIV; XV; XVI, 9.<br />

T. 1BIS : PHILODEMUS, ACADEMICORUM HISTORIA (PHERC. 1021 E 164), COLL. S; Q; XII, 39 –<br />

XIII, 16; XX, 4-13.<br />

T. 2: DIOGENES LAERTIUS, VITAE PHILOSOPHORUM IV, 16-20.<br />

T. 2BIS: DIOGENES LAERTIUS IV, 21 ; 22 ; 24 ; 25 ; 27.<br />

T. 3: HORATIUS, SATURAE II 3, 250 SQQ.<br />

T. 4 : PORPHYRION, AD HORATII SUTURAS II, 3, 254.<br />

T. 4BIS: PS. ACRON, IN QUINTUM HORATIUM FLACCUM, SAT. II 3, 254.<br />

T. 5: VALERIUS MAXIMUS VI CAP. 9 EXT. 1 ED. KEMPF, P. 316 SQ.<br />

T. 6 : PLUTARCHUS, QUOMODO ADULATOR AB AMICO INTERNOSCATUR 71E-F.<br />

T. 7 : EPICTETUS, DISSERTATIONES AD ARRIANO DIGESTAE III 1, 14.<br />

T. 8 : EPICTETUS, DISSERTATIONES AB ARRIANO DIGESTAE IV 11, 30.<br />

T. 9: LUCIANUS, BIS ACCUSATUS SIVE TRIBUNALIA, SECT. 13.<br />

T. 10: LUCIANUS, BIS ACCUSATUS SIVE TRIBUNALIA, SECT. 16-19.<br />

T. 11: M. C. FRONTO, AD MARCUM AURELIUM CAESAREM I 9, 5.<br />

1


T. 12: ORIGENES, CONTRA CELSUM I 64 (SC 132, R.2005, P. 254).<br />

T. 13: ORIGENES, CONTRA CELSUM III 67 (SC 136, 1968, P. 152S.).<br />

T. 14: THEMISTIUS, PROTREPTIKO£S NIKOMHDEU=SIN EI=S FILOSOFI/AN, ORATIO XXIV, 303B - 304A<br />

([ED. DINDORF P. 365-366;] ED. DOWNEY / NORMAN, VOL. II, P.102-103).<br />

T. 15 : GREGORIUS NAZIANZENUS, CARMINA I 10 DE VIRTUTE, VV. 793-807 (PG 37, 737-738).<br />

T. 16 : COSMAS HIEROSOLYMITANUS, AD CARMINA S. GREGORII THEOL., PG 38, 579 SQ.<br />

T. 17 : AUGUSTINUS, EPIST. CXLIV (PL 33, P. 591-592 ; CSEL 44, GOLDBACHER ED., 1904, P.<br />

263-264).<br />

T. 18: AUGUSTINUS, CONTRA JULIANUM HAERESIS PELAGIANAE DEFENSOREM I, 7, 35 (PL 44, 665-<br />

666).<br />

T. 19 : HIERONYMUS, COMM. IN OSEE I 1, 2, ED. M. ADRIAEN, CCL 76, 1969, P. 9.<br />

T. 20 : CHORICIUS, OR. 8, 1, 19 (P. 116, 16-21 FOESTER, RICHTSTEIG, EDS.).<br />

T. 20 : COSMAS HIEROSOLYMITANUS, AD CARMINA S. GREGORII THEOL., PG 38, 579 SQ.<br />

T. 21: STRABO, GEOGRAPHICA XIII 1, 67.<br />

T. 22 : PLUTARCHUS, DE EXILIO 603 B-C.<br />

T. 23 : CLEMENS ALEXANDRINUS, STROMATA I, XIV 63,4 – 64,1, P. 40 STÄHLIN.<br />

T. 24 : NUMENIUS, DE ACADEMICORUM A PLATONE DEFECTIONE I, FR. 1 LEEMANS = FR. 24 DES PLACES<br />

(AP. EUSEBIUS, PR. EV. XIV 4, 16-59).<br />

T. 24BIS : NUMENIUS, DE ACADEMICORUM A PLATONE DEFECTIONE, I, FR. 2 LEEMANS = FR. 25 DES<br />

PLACES (AP. EUSEBIUS, PRAEPARATIO EVANGELICA XIV 5, 10- 6, 7).<br />

2


T. 25 : LUCILIUS, SATURAE 754-755 MARX ( = 539-540 TERZAGHI-MARIOTTI).<br />

T. 26 : SEXTUS EMPIRICUS, PYRRHONIANAE HYPOTYPOSES I, 220.<br />

T. 27 : ATHENAEUS, DEIPNOSOPHISTAE II 44E.<br />

T. 28 : ATHENAEUS, DEIPNOSOPHISTAE X, 419C.<br />

T. 29 : PSEUDO-GALENUS, DE HISTORIA PHILOSOPHICA, 3 (DIELS, DOX. P. 599, 11 SQQ., MEKLER P.<br />

114).<br />

T. 30 : DIOGENES LAERTIUS, VITAE PHILOSOPHORUM I, 14.<br />

T. 31 : DIOGENES LAERTIUS, VITAE PHILOSOPHORUM VII, 2 ; 20 ; 25 ; 162.<br />

T. 32 : EUSEBIUS / HIERONYMUS, CHRONICON, OL. 127,3 (P. 130, 21).<br />

T. 33 : EUSEBIUS, PRAEPARATIO EVANGELICA XIV 4, 13-16.<br />

T. 34 : AUGUSTINUS, CONTRA ACADEMICOS III 17, 38.<br />

T. 35 : SUIDAS, LEXICON, S.V. : ΒΆΡΟΣ; ΔΙΟΓΈΝΗΣ; ΔΏΡΙΟΣ; ΖΉΝΩΝ; ΞΕΝΟΚΡΆΤΗΣ; ΠΛΆΤΩΝ; ΠΟΛΈΜΩΝ;<br />

ὙΠΌΧΥΤΟΣ ΟἾΝΟΣ.<br />

T. 36 : CICERO, DE ORATORE III, 18, 67.<br />

T. 37 : CICERO, DE LEGIBUS I 13, 37-38.<br />

T. 38 : CICERO, ACADEMICA PRIORA II – LUCULLUS 113.<br />

T. 39 : CICERO, ACADEMICA PRIORA II – LUCULLUS 42, 131-132.<br />

T. 40 : CICERO, ACADEMICA PRIORA – LUCULLUS 45, 138-139.<br />

T. 41 : CICERO, ACADEMICA POSTERIORA – ACADEMICI LIBRI I 9, 34-35.<br />

3


T. 42 : CICERO, DE FINIBUS BONORUM ET MALORUM II, 11, 34-35.<br />

T. 43 : CICERO, DE FINIBUS BONORUM ET MALORUM, IV, 3.<br />

T. 44 : CICERO, DE FINIBUS BONORUM ET MALORUM, IV, 14-15.<br />

T. 45 : CICERO, DE FINIBUS BONORUM ET MALORUM IV, 16, 45.<br />

T. 46 : CICERO, DE FINIBUS BONORUM ET MALORUM IV, 18, 50-51.<br />

T. 47 : CICERO, DE FINIBUS BONORUM ET MALORUM IV, 22, 61.<br />

T. 48 : CICERO, DE FINIBUS BONORUM ET MALORUM V, 1, 2.<br />

T. 49 : CICERO, DE FINIBUS V, 3, 7.<br />

T. 50 : CICERO, DE FINIBUS BONORUM ET MALORUM V, 5, 14.<br />

T. 51 : CICERO, DE FINIBUS BONORUM ET MALORUM V, 31, 93-94.<br />

T. 52 : CICERO, TUSCULANAE DISPUTATIONES V, 30.<br />

T. 53 : CICERO, TUSCULANAE DISPUTATIONES V, 39.<br />

T. 54 : CICERO, TUSCULANAE DISPUTATIONES V, 87.<br />

T. 55 : CICERO, TUSCULANAE DISPUTATIONES V, 37, 109.<br />

T. 56 : PLUTARCHUS, DE COMMUNIBUS NOTITIIS ADVERSUS STOICOS 1069E – 1070B.<br />

T. 57 : PLUTARCHUS, DE STOICORUM REPUGNANTIIS 1045F – 1046D.<br />

T. 58 : CLEMENS ALEXANDRINUS, STROMATA II, 22, 133, 4-7, P. 186 STÄHLIN.<br />

4


T. 59 : AUGUSTINUS, DE CIVITATE DEI XIX 1, 3.<br />

T. 60 : PLUTARCHUS, DE COHIBENDA IRA 462 D.<br />

T. 61 : PLUTARCHUS, AD PRINCIPEM INERUDITUM 780 D.<br />

T. 62 : STOBAEUS, ECLOGAE I, 1, SEZIONE 29B, P. ? ED. WACHSMUTH = AETIUS, PLACITA I, 7, 29.<br />

T. 63 : JOANNES STOBAEUS, ANTHOLOGIUM, III 11, 2T.<br />

T. 64 : CLEMENS ALEXANDRINUS, STROMATA VII CAP. VI 32, 9, P. 24 STÄHLIN.<br />

5


Testimonia Biographica<br />

T. 1 : PHILODEMUS, ACADEMICORUM HISTORIA (PHERC 1021 E 164), COLL. IV, 8-16; IV, 38; XIII;<br />

XIV; XV; XVI, 9.<br />

IV Ce-<br />

nokra/thj te sug[genh£j w)/n,]<br />

10 Mh/trwn ka[i£ o(] Ai)twl[o£j )A]-<br />

dei/mantoj [kai£ Kra/ntwr Soleu£j]<br />

kai£ Kra/thj 'A[q]na[i=oj kai£ o(]<br />

Mesh/n[ioj . . . . . . .,kai£ )Olum]-<br />

pia/dhj. [. . . . . . kai£ Pole/]-<br />

15 mwn )A[qhn]ai=oj, o(/[j diede/]-<br />

cato th£[n diatribh/n: toi=j d']<br />

a) /lloij<br />

...<br />

/<br />

(<br />

<br />

40 <br />

h<br />

<br />

<br />

<br />

45 <br />

XIII <br />

<br />

<br />

<br />

5 <br />

<br />

<br />

6


10 <br />

n<br />

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15 <br />

<br />

<br />

<br />

<br />

20 <br />

<br />

<br />

<br />

<br />

25 <br />

<br />

<br />

<br />

<br />

30 <br />

<br />

<br />

<br />

<br />

35 <br />

<br />

<br />

<br />

<br />

40 <br />

<br />

<br />

<br />

<br />

45 <br />

XIV <br />

7


5 <br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

10 <br />

<br />

<br />

<br />

<br />

15 <br />

<br />

<br />

<br />

<br />

20 .]rexhs[. . . . . . . .]uk[<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

25 <br />

<br />

<br />

<br />

<br />

30 <br />

<br />

<br />

<br />

<br />

35 <br />

<br />

<br />

<br />

<br />

8


40 <br />

<br />

<br />

<br />

<br />

45 <br />

<br />

XV <br />

<br />

<br />

<br />

5 <br />

<br />

<br />

<br />

<br />

10 <br />

<br />

<br />

<br />

<br />

15 <br />

<br />

<br />

<br />

<br />

20 <br />

<br />

<br />

<br />

<br />

25 <br />

<br />

26bis <br />

. . . . . . . .]and[. .]m[<br />

. .<br />

<br />

30 <br />

<br />

9


Traduzione 1<br />

<br />

<br />

[. . . . . . . . . .]sthwstele[. . .<br />

35 <br />

<br />

<br />

<br />

<br />

40 <br />

<br />

<br />

<br />

<br />

45 <br />

<br />

XVI [K]ra/ntwr de£ Soleu=si, w(/j<br />

fhsi, qaumazo/menoj de/o[n]<br />

kate/lipe th£n eu)mer[i/an],<br />

kai£ parageno/menoj )Aq[h/na]-<br />

5 ze prw=ton me£n Cenokra/-<br />

touj h)/kouen, u)/steron de£<br />

meta£ Pole/mwnoj e)sxo/la-<br />

zen, kai/toi polu£ diafe/rw[n]<br />

e)n oi(=j e)/pa[ize]n.<br />

Discepoli di lui (scil. Senocrate) tramandano … Senocrate suo parente, Metron e Adimanto<br />

Etolo e Crantore di Soli e Cratete di Atene e il Messenio … e Olimpiade di … e Polemone di<br />

Atene che ebbe la scuola. Ad altri però …<br />

(…)<br />

Visto che era originario del demo di Oion, come dice Antigono, figlio di Filostrato, uno dei<br />

primi cittadini tra gli Ateniesi – si diceva che apparteneva a coloro che per un certo tempo<br />

1 tr. it. a cura di T. Dorandi (Storia dei Filosofi. Platone e l'Academia, Napoli 1991, pp. 189-192) leggermente<br />

modificata.<br />

10


aveva allevato cavalli per le corse dei carri. Si racconta anche che [Polemone] da giovane era<br />

da principio intemperante, al punto che aveva anche partecipato da ubriaco a un corteo di<br />

festaioli attraverso il Ceramico in pieno giorno; ebbe la vergogna di subire da parte di sua<br />

moglie un processo per maltrattamento: gli piacevano infatti i ragazzini e gli adolescenti; lui<br />

che portava con se diverse monete per essere in grado di ottenere facilmente i servigi di chi<br />

incontrava. Catturato da Senocrate ed entrato in contatto con lui, cambiò a tal punto il suo<br />

modo di vivere che non alterò mai più le sembianze del suo volto, non cambiò più la sua<br />

attitudine né il tono della sua voce, ma li manteneva identici anche quando era più scontento.<br />

Sopratutto si sforzava di non avere paura dei cani; si dice infatti che un cane rabbioso lo aveva<br />

attaccato e gli aveva strappato il poplite; gli altri che avevano assistito alla scena per caso<br />

impallidirono e si impaurirono, ma lui... coloro che sono ben disposti...quando hai visto che<br />

gli avversari prevalgono. Nei teatri rimaneva seduto impassibile, mentre gli altri reagivano in<br />

relazione al testo. Sembra inoltre che sia stato piuttosto piccolo di taglia, pur avendo<br />

di nobile, simile a quei quadri che manifestano sicurezza e secchezza, come dice<br />

Melanto, poiché era dotato della dignità tipica di un (buon) cittadino. Si adirava però contro<br />

coloro che conducono l'esame delle questioni all'impossibile, dicendo che bisogna esercitarsi<br />

nelle azioni concrete. Perciò quando argomentava evitava ogni soleicismo e si asteneva da<br />

ogni raffinatezza esagerata, come si potrebbe dire, era una ammiratore entusiasta dell'armonia<br />

pindarica. E anche se aveva rifuggito la vita pubblica e aveva mostrato timidezza di fronte a<br />

ogni assemblea di folla e aveva domandato che lo si lasciasse tranquillo come coloro che<br />

vivono in eremitaggio … grazie ad un attitudine socievole e addirittura piacevole nei<br />

confronti della citta. E … veniva ammirato e lodato in ogni circostanza per la sua fedeltà e<br />

saggezza. Fu apprezzato anche perché visse al di fuori di ogni macchinazione e disonestà.<br />

Nemmeno...tribunale o ufficio pubblico, se non avesse ritenuto necessaria la prova. Ci teneva<br />

soltanto a vivere fuori città, di modo che la maggior parte dei suoi discepoli avevano costruito<br />

delle capanne nel giardino (della scuola) per rimanere con lui il più possibile. Sembra inoltre<br />

che da giovane ammirò Senocrate, come dimostra ciò che dice a suo elogio, e lo imitava in<br />

tutte le cose. Si dice anche che fosse un ammiratore di Sofocle e sopratutto … la voce … .<br />

Arcesilao disse che passando dalla scuola di Teofrasto (all'Academia), Polemone e i suoi<br />

discepoli gli apparvero come degli dèi o dei sopravvissuti di quegli uomini antichi derivanti<br />

dalla Razza d'oro, cosa che [poco]... aver una tale natura … dicevano che aveva imparato<br />

sopratutto da Platone. Speusippo e Senocrate... di Senocrate avendo lasciato...i giovani con<br />

dignità e dedizione al lavoro. Dopo di che ...Cratete...(Polemone) essendosi innamorato …<br />

una delle guide dell'Academia, il quale si distingueva tra gli efebi per la bellezza del suo<br />

corpo, per quanto fosse tra quelli che hanno raggiunto l'età matura, volendo tirare dalla sua<br />

11


parte il giovane non cedette né si lasciò intimorire, ma lottò a lungo e “cantò” 2 contro di<br />

quello, fino ad ottenere il suo scopo e a portare Cratete dalla sua parte. Crantore, come dice<br />

(Antigono), pur essendo ammirato dagli abitanti di Soli, seguendo una necessità (?), lasciò il<br />

successo e giunto a Atene, dapprima udí Senocrate, poi fu condiscepolo insieme con<br />

Polemone, sebbene fosse molto diverso per le cose con cui si divertiva.<br />

T. 1 BIS : PHILODEMUS, ACADEMICORUM HISTORIA (PHERC 1021 E 164), COLL. S; Q; XII, 39 –<br />

XIII, 16; XX, 4-13.<br />

S ou(toj d ) e)n gh=j fi/lhj o)/x-<br />

qoisi kalo/n e)f[h krufqh=-<br />

nai: d[iabebaiou]me/nou<br />

de£ tou= Po[l]e/mwn[o]j kai£ no-<br />

mi/zontoj au)to£n dei=n e)-<br />

n ai(=j au)toi£ me/llousin te-<br />

qh=nai qh/kaij, ei)=pen w(j ou)/-<br />

te pro/teron a)nt[e/]t[ei]n a[u)]-<br />

twi pw/pote ou) /t[e] nu=[n.<br />

...<br />

Q pro£]<br />

to[u= P]ole/[mwnoj] kata£ Filok[r]a/-<br />

thn e)glipe[i=n] to£n bi/on. )An-<br />

ti/gonoj de£ gr[a/]fei dio/ti «P[o]-<br />

le/mwnoj te[l]euth/santoj<br />

o( K[ra/t]hj diai[d]eca/meno/j [te]<br />

t[h£n di]atrib[h£]n kai£ kriqe[i£j a)/-<br />

cioj ei)=]nai t[h=]j h(gemoni/a[j<br />

. . . . .]rwn [to/]n au)to£n [. . .<br />

...<br />

2 v. Dorandi (1999), note complementarie, p. 47.<br />

12


Traduzione 3<br />

XVII teleu-<br />

40 [th/san]to[j d]e£ Pole/mw[noj<br />

. . . . .]lw . h)=n, e[i)=]ta [Kta/thtoj]<br />

XVIII to£n bi/on e)glipo/ntoj au)[to£j]<br />

kaq' au(to/n, e)kxwrh/santoj<br />

au)tw=i th=j diatribh=j Sw-<br />

krati/dou tino/j, o(£n dia£ to£ pres-<br />

5 bu/taton ei)=nai proesth/san-<br />

q' e(autw=n oi( neani/skoi sun-<br />

elqo/ntej. Kai£ to£ me£n prw=-<br />

ton ei)p[w£n] qe/sin e)pexei/rei<br />

kata£ th£n a)po£ Pl[a/]twno/j te<br />

10 kai£ Speusi/ppou [dia]mei/na-<br />

san e( /wj Pole/m[wno]j ai( /re-<br />

sin: [ei)=]ta meta£ [to]u=ton<br />

par[ec]e/bh to£ [t]h=j )Ak[a]dhmei-<br />

kh=j a)gwgh=j [h)£] ge/n[o]j h)£ sxh=-<br />

15 ma th=i ge dh£ f[a/s]ei [t]e kai£ t[h=i]<br />

dialusei . I [. . . . . . . ] ton<br />

...<br />

XX pol-<br />

5 lw=n toi/nun e)[c a]u)tou= maq[h]tw=n<br />

genome/nwn th=i mn[h/]mhi<br />

paredo/qhsan )Aridei/kaj<br />

te (Ro/dioj kai£ Dwro/qeoj Tel-<br />

fou/sioj kai£ Dionu/sioj kai£<br />

10 Zw/puroj Kolofw/nioi k[ai£]<br />

Tel[e]klh=j [Me]taponti=-<br />

noj [o( k]ai£ Pole/mwnoj a)-<br />

[kou/saj] pr[o/]teron [- - -]<br />

Egli (scil. Crantore) disse: “Nelle colline della propria terra è bello esser sepolti”. Poiché però<br />

3 tr. it. a cura di T. Dorandi (Storia dei Filosofi. Platone e l'Academia, Napoli 1991, pp. 193-194), leggermente<br />

modificata.<br />

13


Polemone aveva rafforzato il proposito ed espresso l'opinione che lui (Crantore) doveva<br />

essere sepolto nelle tombe in comune, come a loro volta essi stessi, egli disse: “Non mi sono<br />

opposto a lui (scil. Polemone) prima né (lo voglio fare) ora”.<br />

(…)<br />

Dopo la morte di Polemone … (Arcesilao) … in seguito, quando Cratete venne meno alla<br />

vita, (tenne l'Academia) sotto la propria responsabilità perché liberò per lui la direzione della<br />

scuola un certo Socratide che i giovani membri (dell'Academia) radunatisi elessero loro capo<br />

poiché era il più vecchio. E prima (Arcesilao), dopo aver preso in considerazione una tesi,<br />

prendeva posizione nel modo corrispondente all'indirizzo della scuola che perdurava già da<br />

Platone e Speusippo fino a Polemone. In seguito, però, dopo questo (Polemone), superò sia il<br />

carattere sia il modo di comportarsi dell'educazione academica e ciò sia con l'argomentazione<br />

affermativa sia con quella che contesta.<br />

(…)<br />

Dei molti dunque che divennero suoi (di Arcesilao) discepoli furono tramandati alla memoria<br />

Aridica di Rodi e Doroteo Telfusio e Dionisio e Zopiro Colofonii e Telecle di Metaponto, che<br />

prima ascoltò Polemone e – ro (…).<br />

T. 2 : DIOGENES LAERTIUS, VITAE PHILOSOPHORUM IV, 16-20.<br />

hN<br />

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s<br />

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)A £ <br />

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14


4 <br />

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5 <br />

<br />

<br />

6 <br />

<br />

<br />

<br />

<br />

7<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

4 v. Suidas, Lex. s.v. / = Polemo fr. 102 Gigante.<br />

5 v. Suidas, Lex. s.v. = Polemo fr. 46 Gigante.<br />

6 v. Suidas, Lex. s.v. Ba/roj = Polemo fr. 105 Gigante ; Dw/rioj = Polemo fr. 104 Gigante.<br />

7 v. Suidas, Lex. s.v. = Polemo fr. 117 Gigante.<br />

15


Traduzione<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

Polemone era figlio di Filostrato, Ateniese del demo di Oion. Da giovane era talmente<br />

intemperante e dissoluto che teneva su di sé del denaro per essere pronto a soddisfare i suoi<br />

desideri; ma ne nascondeva anche in degli anfratti. Anche nell'Academia si trovò incollata a<br />

una colonna una sua moneta da tre oboli destinata ad un uso simile a quello di cui abbiamo<br />

detto. Un giorno, in seguito a una scommessa con i suoi giovani (amici), entrò ubriaco e cinto<br />

di una corona nella scuola di Senocrate. Quest'ultimo per niente sconcertato continuò il suo<br />

discorso allo stesso modo. Si trattava della moderazione. Il ragazzo ascoltandolo fu poco a<br />

poco catturato e in questo modo divenne così dedito al lavoro da superare tutti gli altri e<br />

succedere (a Senocrate) alla guida della scuola, a partire dalla centosedicesima Olimpiade.<br />

Antigono di Caristo, nelle Vite, dice che il padre di Polemone era primo tra i cittadini e che<br />

allevava cavalli per la corsa con i carri. Dice inoltre che Polemone subì da parte di sua moglie<br />

un processo per maltrattamento, poiché aveva dei rapporti con dei giovinetti. Quando però<br />

cominciò a far filosofia, rafforzò il suo carattere a tal punto che manteneva la stessa attitudine<br />

in ogni occasione. Anche la sua voce era immutabile. Per questo motivo Crantore venne<br />

catturato da lui. Infatti mentre un cane rabbioso gli strappava il poplite fu il solo a non<br />

impallidire; e quando vi furono dei sommovimenti in città, dopo essersi informato di ciò che<br />

succedeva, rimase impassibile. Negli spettacoli teatrali era la persona meno commossa.<br />

Quantomeno, un giorno che Nicostato, soprannominato Clitemnestra, leggeva a lui e a<br />

Cratete, qualche verso del Poeta, Cratete si lasciò commuovere, mentre lui era come se non<br />

avesse sentito. Si può dire di lui quanto dice il pittore Melanzio nell'opera Sulla pittura. Egli<br />

dice infatti che sulle opere d'arte, ma anche sui caratteri, deve diffondersi una certa sicurezza e<br />

secchezza. Polemone diceva che bisogna esercitarsi nelle azioni concrete e non nelle<br />

disquisizioni dialettiche, (per non apparire) come qualcuno che abbia ingoiato un manuale di<br />

armonia aver praticato la musica: tali uomini sarebbero ammirati per la loro abilità<br />

dialettica, ma si troverebbero in contraddizione con loro stessi per quanto riguarda il loro<br />

comportamento. Era dunque raffinato e nobile, condannando però le espressioni “condite con<br />

16


aceto e silfo” che Aristofane attribuisce a Euripide, le quali come afferma egli stesso:<br />

sono sconcezze contro natura fatte su un grosso pezzo di carne<br />

Inoltre dicono che quando argomentava a favore o contro una tesi non stava seduto, ma<br />

argomentava camminando. Grazie alla sua nobiltà d'animo era onorato in città; inoltre viveva<br />

appartato e passava il suo tempo nel giardino (dell'Academia), per abitare vicino al quale i<br />

discepoli avevano costruito delle piccole capanne accanto al santuario delle Muse e all'esedra.<br />

Sembrerebbe poi che Polemone imitasse Senocrate in tutto, e Aristippo nel quarto libro Sulla<br />

dissolutezza degli antichi riferisce che ne era innamorato. In ogni caso, Polemone ne ha<br />

sempre fatto menzione e fece propria la sincerità, l'austerità di quell'uomo e la gravità tipica<br />

del modo dorico. Era un ammiratore di Sofocle e amava sopratutto quei passi in cui, secondo<br />

il commediografo, nella stesura dei suoi versi<br />

un cane molosso forse partecipò<br />

con lui, e quegli altri che, secondo Frinico, erano<br />

non mosto, non miscela, ma puro vino di Pramno.<br />

Era solito dire che Omero è il Sofocle dell'epopea e Sofocle l'Omero della tragedia.<br />

Morì ormai anziano di consunzione dopo aver lasciato un numero considerevole di scritti.<br />

E c'è questo nostro componimento rivolto a lui:<br />

Non te ne accorgi? Sono la tomba di Polemone,<br />

che un malanno qui pose, sofferenza terribile per gli uomini.<br />

Non Polemone, ma il suo corpo:<br />

infatti egli stesso lo lasciò a terra,<br />

quando stava per ascendere alle stelle.<br />

T. 2BIS : DIOGENES LAERTIUS IV, 21 ; 22 ; 24 ; 25 ; 27<br />

Kra/thj patro£j me£n h)=n 'Antige/nouj < )Aqhnai=oj >, Qria/sioj de£ tw=n dh/mwn, kai£<br />

a)kroath£j a(/ma kai£ e)rw/menoj Pole/mwnoj: a)lla£ kai£ diede/cato th£n sxolh£n au)tou=. Kai£<br />

ou( /twj a)llh/lw e)filei/thn, w(/ste kai£ zw=nte ou) mo/non tw=n au)tw=n h)/sthn e)pithdeuma/twn,<br />

a)lla kai£ me/xri sxedo£n a)napnoh=j e)cwmoiw/sqhn a)llh/loin kai£ qano/nte th=j au)th=j<br />

tafh=j e)koinwnei/thn. (/Oqen )Antago/raj ei)j a)/mfw tou=ton e)poi/hse to£n tro/pon:<br />

mnh/mati t%=de Kra/thta qeoude/a kai£ Pole/mwna<br />

e) /nnepe kru/ptesqai, cei=ne, pererxo/menoj,<br />

a) /ndraj o(mofrosu/n$ megalh/toraj, w(=n a) /po mu=qoj<br />

17


...<br />

i(ero£j h)/issen daimoni/ou sto/matoj,<br />

kai£ bi/otoj kaqaro£j sofi/aj e)pi£ qei=on e)ko/smei<br />

ai)w=n' a)stre/ptoij do/gmasi peiqo/menoj.<br />

Th£n de£ oi)/khsin )Arkesi/laon me£n e) /xein meta£ Kra/ntoroj, Pole/mwna de£ su£n Kra/thti<br />

meta£ Lusikle/ouj tino£j tw=n politw=n. =)Hn de/, fhsi/n, e)rwmenoj Kra/thj me/n, w(j<br />

proei/rhtai, Pole/mwnoj: )Arkesi/laoj de£ Kra/ntoroj.<br />

...<br />

Kra/ntwr Soleu£j qaumazo/menoj e)n t$= e(autou= patri/di a)ph=ren ei)j )Aqh/naj kai£<br />

Cenokra/touj dih/kouse Pole/mwni susxola/zwn. ... Fasi£ de£ au)to£n e)rwthqe/nta ti/ni<br />

qhraqei/h u(po£ Pole/mwnoj, ei)pei=n t%= mh/t' o)cu/teron mh/te baru/teron a)kou=sai<br />

fqeggome/nou. ou(=toj nosh/saj ei)j to£ )Asklhpiei=on a)nexw/rhse ka)kei= peripa/tei: oi( de£<br />

pantaxo/qen pros$/esan au)t%=, nomi/zontej ou) dia£ no/son, a)lla£ bou/lesqai au)to/qi<br />

sxolh£n susth/sasqai. w(=n h)=n kai£ 'Arkesi/laoj qe/lwn u(p' au)tou= susth/nai Pole/mwni,<br />

kai/per e)rw=ntoj, w(j e)n t%= peri£ )Arkesila/ou le/comen. a)lla£ kai£ au)to£n u(gia/nanta<br />

diakou/ein Pole/mwnoj, e)f' %(= kai£ ma/lista qaumasqh=nai.<br />

...<br />

kai£ kate/streye pro£ Pole/mwnoj kai£ Kra/thtoj, u(drwpik$= diaqe/sei nosh/saj.<br />

Traduzione<br />

Cratete, figlio di Antigene, era ateniese ; per la precisione, era del demo di Tria, e fu al<br />

contempo discepolo e amato di Polemone ; inoltre gli succedette nella direzione della scuola. I<br />

due avevano un così grande affetto l'uno per l'altro che, in vita, non solo avevano le stesse<br />

abitudini, ma si sforzavano di assomigliarsi l'un l'altro, perfino nel respirare ; inoltre, nella<br />

morte, ebbero la stessa tomba in comune. Per questo Antagora compose una poesia per<br />

entrambi del seguente tenore :<br />

(…)<br />

Straniero che passi, ricordati<br />

che in questa tomba giacciono Cratete divino e Polemone,<br />

uomini generosi per concordia, dal cui labbro ispirato<br />

si levarono sacre parole.<br />

E una vita pura di sapienza, fondata su salde dottrine,<br />

li adornava per un tempo divino senza fine.<br />

In effetti Arcesilao abitava insieme a Crantore, mentre Polemone insieme a Cratete e un certo<br />

Lisicle, un concittadino. Cratete del resto, si dice che fosse l'amato di Polemone, come è stato<br />

18


detto in precedenza, mentre Arcesilao lo era di Crantore.<br />

(…)<br />

Crantore di Soli, per quanto fosse ammirato nella sua patria, salpò per Atene e divenne<br />

discepolo di Senocrate insieme con Polemone. (…) Dicono poi che quando gli fu chiesto per<br />

che cosa Polemone lo avesse conquistato, egli rispose che era stato conquistato per averlo<br />

udito parlare con un tono né troppo acuto né troppo grave. Quando Crantore si ammalò, si<br />

ritirò nel santuario di Asclepio e là era solito passeggiare. Da ogni parte la gente veniva da lui,<br />

nella convinzione che non fosse lì per una malattia, ma che vi volesse istituire una scuola. Tra<br />

costoro c'era anche Arcesilao, che desiderava esser presentato a Polemone da Crantore, di cui<br />

era amante, come diremo trattando di Arcesilao. Ma una voltà guarito, continuò ad essere<br />

discepolo di Polemone, e anche per questo fu molto ammirato.<br />

(…)<br />

Trapassò prima di Polemone e di Cratete, poiché si ammalò di idropisia.<br />

T. 3 : HORATIUS, SATURAE II 3, 250 SQQ.<br />

Si puerilius his ratio esse evincet amare,<br />

nec quicquam differre, utrumne in pulvere, trimus<br />

quale prius, ludas opus, an meretricis amore<br />

sollicitus plores: quaero, faciasne quod olim<br />

mutatus Polemo? Ponas insignas morbi,<br />

fasciolas, cubital, focalia, potus ut ille<br />

dicitur ex collo furtim carpsisse coronas,<br />

postquam est inpransi correptus voce magistri?<br />

Polemo fr. 18 Gigante.<br />

Traduzione<br />

E se ti dimostro che ancor più da bambini è innamorarsi e che non fa differenza se giochi in<br />

terra come a tre anni, o se ti disperi invocando l’amore di una sgualdrina ; dico, faresti come<br />

19


Polemone quando si convertì ? Lasceresti le insegne della tua malattia, la sciarpa, le fasce, i<br />

cuscini, come lui fece (si dice) dopo una cena (ubriaco), strappandosi via, di nascosto, la<br />

ghirlanda di fiori dal collo, mortificato ai richiami del suo sobrio maestro?<br />

T. 4 : Porphyrion, Ad Horatii suturas II, 3, 254.<br />

« mutatus Polemon ». Polemon fuit Atheniensis iuvenis luxuriosus et perditus, qui cum<br />

comisabundus incederet per urbem, audisse fertur e proximo Xenocratis vocem disputantis.<br />

Deinde introisse ad deridendum, ut erat coronatus unguentatusque. Quo viso senex<br />

perseveravit et invectus in luxuriam coegit Polemonem paenitere sui et coronas abicere<br />

sumptoque philosophi habitu tantus vir postea fuit, ut dignus existimatus sit, qui Xenocrati<br />

succederet.<br />

Polemo fr. 19 Gigante<br />

Traduzione<br />

Così fu convertito Polemone. Era questi un giovane ateniese, lussurioso e dissoluto, il quale<br />

una volta che girava per la città gozzovigliando, si dice che per puro caso sentisse la voce di<br />

Senocrate il quale stava discutendo di filosofia: entrò allora così come si trovava, con la<br />

corona in testa e spalmato di inguenti, con l’intenzione di deriderlo. Vistolo, il vecchio<br />

continuò senza scomporsi e con le sue invettive contro la lussuria costrinse Polemone a<br />

pentirsi e gettar via le corone. Rivestito l’abito del filosofo, divenne in seguito uomo tale da<br />

esser ritenuto degno di succedere allo stesso Senocrate.<br />

20


T. 4bis: Ps. Acron, In Quintum Horatium Flaccum, Sat. II 3, 254 8 .<br />

Polemon atheniensis perditae luxuriae fuit, qui ad scholam Xenocratis philosophi ebrius<br />

venisse narratur seris ac floribus redimitus; cum ab auditoribus perturbaretur, prohibuit<br />

magister, et luxuriae crimina accusare coepit in tantum, ut Polemon luxuria relicta,<br />

praecipuus auditor exstiterit atque ita in amorem venit philosophiae disciplinae [venit], ut<br />

post magistrum ipse docuerit. Aliter: Polemon adulescens ad scholas Xenocratis ebrius<br />

venit, quando ille disputabat de continentia, pudicitia, iustitia, temperantia et sobrietate<br />

diciturque insigna luxuriae deposuisse, cum fuisset philosophi oratione commotus.<br />

Assente nella raccolta di Gigante, la testimonianza è stata rinvenuta da Tiziano Dorandi.<br />

Traduzione<br />

Polemone ateniese fu di tale depravata intemperanza che si dice fosse arrivato alla scuola del<br />

filosofo Senocrate ubriaco avvolto da ghirlande e fiori ; il maestro rifiutò di venir disturbato<br />

dal pubblico e cominciò a biasimare i vizi dell'intemperanza in tal modo che Polemone,<br />

abbandonata l'intemperanza, diventò un eccellente discepolo e si innamorò a tal punto<br />

dell'insegnamento della filosofia che dopo il maestro insegnò lui stesso. Altrimenti :<br />

Polemone da giovane arrivò ubriaco alla scuola di Senocrate, mentre questo argomentava sul<br />

tema della moderazione, della castità, della giustizia, della temperanza e della sobrietà, e si<br />

dice che questi avesse deposto i simboli dell'intemperanza, nel momento in cui venne scosso<br />

dal discorso del filosofo.<br />

T. 5: VALERIUS MAXIMUS VI CAP. 9 EXT. 1 ED. KEMPF, P. 316 SQ<br />

Adtento studio nostra commemoravimus: remissiore nunc animo aliena narretur. Perditae<br />

luxuriae Athenis adulescens Polemo, neque inlecebris eius tantum modo, sed etiam ipsa<br />

infamia gaudens, cum e convivio non post occasum solis, sed post ortum surrexisset<br />

domumque rediens Xenocratis philosophi patente, ianuam vidisset, vino gravis, unguentis<br />

8 v. F. Hauthal (ed.), Acronis et Porphyrionis Commentarii in Q. Horatium Flaccum, Berlin 1864-1866.<br />

Nell'edizione di O. Keller, Lipsia 1904, qualche variante grafica.<br />

21


delibutus, sertis capite redimito, perlucida veste amictus refertam turba doctorum hominum<br />

scholam eius intravit. Nec contentus tam deformi introitu consedit etiam, ut clarissimum<br />

eloquium et prudentissima praecepta temulentiae lasciviis elevaret. Orta deinde, ut par<br />

erat, omnium indignatione Xenocrates vultum in eodem habitu continuit omissaque re,<br />

quam disserebat, de modestia ac temperantia loqui coepit. Cuius gravitate sermonis<br />

resipiscere coactus Polemo primum coronam capite detractam proiecit, paulo post<br />

brachium intra pallium reduxit, procedente tempore oris convivalis hilaritatem deposuit, ad<br />

ultimum totam luxuriam exuit uniusque orationis saluberrima medicina sanatus ex infami<br />

ganeone maximus philosophus evasit. Peregrinatus est huius animus in nequitia, non<br />

habitavit.<br />

Polemo fr. 20 Gigante; Xenocrates fr. 45 IP.<br />

Traduzione<br />

Abbiamo ricordato con attenta cura esempi nostrani : narriamo ora, con meno teso impegno,<br />

di quelli stranieri. Un giovane ateniese estremamente depravato, Polemone, che godeva non<br />

solo delle proprie dissolutezze, ma addirittura della propria cattiva fama, si era allontanato da<br />

un convito non al tramonto, ma al sorgere del sole. Mentre tornava a casa, veduta aperta la<br />

porta di casa del filosofo Senocrate, pieno di vino, profumato di unguenti, con la testa recinta<br />

da una ghirlanda di fiori e con addosso abiti trasparenti, entrò nella sua scuola, affollata di<br />

dotti ; e, non contento di esservi entrato in condizioni così pietose, vi si sedette persino,<br />

intenzionato a disturbare con la sua petulanza da ebbro le nobili parole e i saggissimi precetti<br />

del filosofo. Mentre tutti, com’era naturale, mostravano il proprio sdegno, Senocrate non batté<br />

ciglio e, troncato l’argomento del suo discorso, venne a parlare della modestia e della<br />

temperanza. Polemone, costretto dalla gravità di quelle parole a tornare in sé, prima si tolse<br />

dalla testa e gettò a terra la corona, poco dopo ritirò il braccio entro il mantello, poi smise di<br />

atteggiare il suo viso come quello di un convitato reso allegro dal vino, infine abbandonò ogni<br />

lussuria e, guarito dalla saluberrima medicina di un solo discorso, da quel malfamato<br />

crapulone che era divenne un grandissimo filosofo. Il suo spirito peregrinò nel male, ma non<br />

vi soggiornò a lungo.<br />

22


T. 6 : PLUTARCHUS, QUOMODO ADULATOR AB AMICO INTERNOSCATUR 71E-F.<br />

ὁ γοῦν Πλάτων ἔλεγε νουθετεῖν τῷ βίῳ τὸν Σπεύσιππον, ὥσπερ ἀμέλει καὶ<br />

Πολέμωνα Ξενοκράτης ὀφθεὶς μόνον ἐν τῇ διατριβῇ καὶ ἀποβλέψας πρὸς αὐτὸν<br />

ἐτρέψατο καὶ μετέθηκεν.<br />

Cfr. Polemo fr. 21 Gigante; Speusippus T 24b Tarán; Xenocrates fr. 42 IP.<br />

Traduzione<br />

Platone diceva di aver ammonito Speusippo con il solo esempio della sua vita, e allo stesso<br />

modo anche Senocrate riuscì a commuovere quello (Polemone) e a fargli mutare vita con il<br />

solo mostrarsi a lui nella sua scuola e per non aver fatto altro che guardare verso di lui.<br />

T. 7 : EPICTETUS, DISSERTATIONES AD ARRIANO DIGESTAE III 1, 14.<br />

πόσοι δ' ἄλλοι νέοι ἐφ' ἡλικίας πολλὰ τοιαῦτα διαμαρτάνουσιν; τινά ποτ' ἀκούω<br />

Πολέμωνα ἐξ ἀκολαστοτάτου νεανίσκου τοσαύτην μεταβολὴν μεταβαλεῖν. ἔστω,<br />

οὐκ ᾤετό με Πολέμωνα ἔσεσθαι· (...)<br />

cfr. Polemo fr. 22 Gigante.<br />

Traduzione<br />

Quanti altri giovani, a quest’età cadono in tanti falli, come i miei ? So di un certo Polemone<br />

che, da incontinente qual’era in sommo grado, ha fatto un cambiamento completo ! Bene :<br />

supponiamo ch’egli ritenesse ch’io non sarei stato Polemone : (…).<br />

23


T. 8 : EPICTETUS, DISSERTATIONES AB ARRIANO DIGESTAE IV 11, 30.<br />

διὰ τοῦτο καὶ Πολέμωνος ἥψαντο οἱ λόγοι οἱ Ξενοκράτους ὡς φιλοκάλου<br />

νεανίσκου· εἰσῆλθεν γὰρ ἔχων ἐναύσματα τῆς περὶ τὸ καλὸν σπουδῆς, ἀλλαχοῦ δ'<br />

αὐτὸ ζητῶν.<br />

Cfr. Polemo fr. 23 Gigante; Xenocrates fr. 46 IP.<br />

Traduzione<br />

I discorsi di Senocrate riuscirono a toccare Polemone, proprio perché era un giovane<br />

entusiasta del bello ; riteneva infatti di andare verso i barlumi di una seria attenzione nei<br />

confronti del bello, ma lo cercava altrove.<br />

T. 9: LUCIANUS, BIS ACCUSATUS SIVE TRIBUNALIA, SECT. 13.<br />

ΕΡΜΗΣ<br />

Μέθη κατὰ τῆς Ἀκαδημείας περὶ Πολέμωνος ἀνδραποδισμοῦ.<br />

ΔΙΚΗ<br />

Ἑπτὰ κλήρωσον.<br />

Cfr. Polemo fr. 24 Gigante.<br />

Traduzione<br />

Hermes<br />

L'Ubriachezza contro l'Academia, in relazione alla persona di Polemone, per riduzione allo<br />

24


stato di schiavitù.<br />

Giustizia<br />

Sorteggia sette giudici.<br />

T. 10: LUCIANUS, BIS ACCUSATUS SIVE TRIBUNALIA, SECT. 16-19.<br />

Ἀκούετε, ὦ ἄνδρες δικασταί, πρότερα τὰ ὑπὲρ τῆς Μέθης· ἐκείνης γὰρ τό γε νῦν ῥέον.<br />

Ἠδίκηται ἡ ἀθλία τὰ μέγιστα ὑπὸ τῆς Ἀκαδημείας ἐμοῦ, ἀνδράποδον ὃ μόνον εἶχεν<br />

εὔνουν καὶ πιστὸν αὐτῇ, μηδὲν αἰσχρὸν ὧν προστάξειεν οἰόμενον, ἀφαιρεθεῖσα τὸν<br />

Πολέμωνα ἐκεῖνον, ὃς μεθ' ἡμέραν ἐκώμαζεν διὰ τῆς ἀγορᾶς μέσης, ψαλτρίαν ἔχων καὶ<br />

κατᾳδόμενος ἕωθεν εἰς ἑσπέραν, μεθύων ἀεὶ καὶ κραιπαλῶν καὶ τὴν κεφαλὴν τοῖς<br />

στεφάνοις διηνθισμένος. καὶ ταῦτα ὅτι ἀληθῆ, μάρτυρες Ἀθηναῖοι ἅπαντες, οἳ μηδὲ<br />

πώποτε νήφοντα Πολέμωνα εἶδον. ἐπεὶ δὲ ὁ κακοδαίμων ἐπὶ τὰς τῆς Ἀκαδημείας θύρας<br />

ἐκώμασεν, ὥσπερ ἐπὶ πάντας εἰώθει, ἀνδραποδισαμένη αὐτὸν καὶ ἀπὸ τῶν χειρῶν τῆς<br />

Μέθης ἁρπάσασα μετὰ βίας καὶ πρὸς αὑτὴν ἀγαγοῦσα ὑδροποτεῖν τε κατηνάγκασεν καὶ<br />

νήφειν μετεδίδαξεν καὶ τοὺς στεφάνους περιέσπασεν καὶ δέον πίνειν κατακείμενον,<br />

ῥημάτια σκολιὰ καὶ δύστηνα καὶ πολλῆς φροντίδος ἀνάμεστα ἐπαίδευσεν· ὥστε ἀντὶ τοῦ<br />

τέως ἐπανθοῦντος αὐτῷ ἐρυθήματος ὠχρὸς ὁ ἄθλιος καὶ ῥικνὸς τὸ σῶμα γεγένηται, καὶ<br />

τὰς ᾠδὰς ἁπάσας ἀπομαθὼν ἄσιτος ἐνίοτε καὶ διψαλέος εἰς μέσην ἑσπέραν κάθηται<br />

ληρῶν ὁποῖα πολλὰ ἡ Ἀκαδήμεια ἐγὼ ληρεῖν διδάσκω. τὸ δὲ μέγιστον, ὅτι καὶ<br />

λοιδορεῖται τῇ Μέθῃ πρὸς ἐμοῦ ἐπαρθεὶς καὶ μυρία κακὰ διέξεισι περὶ αὐτῆς. Εἴρηται<br />

σχεδὸν τὰ ὑπὲρ τῆς Μέθης. ἤδη καὶ ὑπὲρ ἐμαυτῆς ἐρῶ, καὶ τὸ ἀπὸ τούτου ἐμοὶ ῥευσάτω.<br />

ΔΙΚΗ<br />

Τί ἄρα πρὸς ταῦτα ἐρεῖ; πλὴν ἀλλ' ἔγχει τὸ<br />

ἴσον ἐν τῷ μέρει.<br />

ΑΚΑΔΗΜΕΙΑ<br />

Οὑτωσὶ μὲν ἀκοῦσαι πάνυ εὔλογα, ὦ ἄνδρες δικασταί, ἡ συνήγορος εἴρηκεν ὑπὲρ τῆς<br />

25


Μέθης, ἢν δὲ κἀμοῦ μετ' εὐνοίας ἀκούσητε, εἴσεσθε ὡς οὐδὲν αὐτὴν ἠδίκηκα. Τὸν γὰρ<br />

Πολέμωνα τοῦτον, ὅν φησιν ἑαυτῆς οἰκέτην εἶναι, πεφυκότα οὐ φαύλως οὐδὲ κατὰ τὴν<br />

Μέθην, ἀλλ' οἰκεῖον ἐμοὶ τὴν φύσιν, προαρπάσασα νέον ἔτι καὶ ἁπαλὸν ὄντα<br />

συναγωνιζομένης τῆς Ἡδονῆς, ἥπερ αὐτῇ τὰ πολλὰ ὑπουργεῖ, διέφθειρε τὸν ἄθλιον τοῖς<br />

κώμοις καὶ ταῖς ἑταίραις παρασχοῦσα ἔκδοτον, ὡς μηδὲ μικρὸν αὐτῷ τῆς αἰδοῦς<br />

ὑπολείπεσθαι. καὶ ἅ γε ὑπὲρ ἑαυτῆς λέγεσθαι μικρὸν ἔμπροσθεν ᾤετο, ταῦτα ὑπὲρ ἐμοῦ<br />

μᾶλλον εἰρῆσθαι νομίσατε· περιῄει γὰρ ἕωθεν ὁ ἄθλιος ἐστεφανωμένος, κραιπαλῶν, διὰ<br />

τῆς ἀγορᾶς μέσης καταυλούμενος, οὐδέποτε νήφων, κωμάζων ἐπὶ πάντας, ὕβρις τῶν<br />

προγόνων καὶ τῆς πόλεως ὅλης καὶ γέλως τοῖς ξένοις. Ἐπεὶ μέντοι γε παρ' ἐμὲ ἧκεν, ἐγὼ<br />

μὲν ἔτυχον, ὥσπερ εἴωθα ποιεῖν, ἀναπεπταμένων τῶν θυρῶν πρὸς τοὺς παρόντας τῶν<br />

ἑταίρων λόγους τινὰς περὶ ἀρετῆς καὶ σωφροσύνης διεξιοῦσα· ὁ δὲ μετὰ τοῦ αὐλοῦ καὶ<br />

τῶν στεφάνων ἐπιστὰς τὰ μὲν πρῶτα ἐβόα καὶ συγχεῖν ἡμῶν ἐπειρᾶτο τὴνσυνουσίαν<br />

ἐπιταράξας τῇ βοῇ· ἐπεὶ δὲ οὐδὲν ἡμεῖς ἐπεφροντίκειμεν αὐτοῦ, κατ' ὀλίγον – οὐ γὰρ<br />

τέλεον ἦν διάβροχος τῇ Μέθῃ – ἀνένηφε πρὸς τοὺς λόγους καὶ ἀφῃρεῖτο τοὺς στεφάνους<br />

καὶ τὴν αὐλητρίδα κατεσιώπα καὶ ἐπὶ τῇ πορφυρίδι ᾐσχύνετο, καὶ ὥσπερ ἐξ ὕπνου<br />

βαθέος ἀνεγρόμενος ἑαυτόν τε ἑώρα ὅπως διέκειτο καὶ τοῦ πάλαι βίου κατεγίγνωσκεν.<br />

καὶ τὸ μὲν ἐρύθημα τὸ ἐκ τῆς Μέθης ἀπήνθει καὶ ἠφανίζετο, ἠρυθρία δὲ κατ' αἰδῶ τῶν<br />

δρωμένων· καὶ τέλος ἀποδρὰς ὥσπερ εἶχεν ηὐτομόλησεν παρ' ἐμέ, οὔτε ἐπικαλεσαμένης<br />

οὔτε βιασαμένης, ὡς αὕτη φησίν, ἐμοῦ, ἀλλ' ἑκὼν αὐτὸς ἀμείνω ταῦτα εἶναι<br />

ὑπολαμβάνων. Καί μοι ἤδη κάλει αὐτόν, ὅπως καταμάθητε ὃν τρόπον διάκειται πρὸς<br />

ἐμοῦ. – τοῦτον, ὦ ἄνδρες δικασταί, παραλαβοῦσα γελοίως ἔχοντα, μήτε φωνὴν ἀφιέναι<br />

μήτε ἑστάναι ὑπὸ τοῦ ἀκράτου δυνάμενον, ὑπέστρεψα καὶ ἀνένηψα καὶ ἀντὶ<br />

ἀνδραπόδου κόσμιον ἄνδρα καὶ σώφρονα καὶ πολλοῦ ἄξιον τοῖς Ἕλλησιν ἀπέδειξα· καί<br />

μοι αὐτός τε χάριν οἶδεν ἐπὶ τούτοις καὶ οἱ προσήκοντες ὑπὲρ αὐτοῦ. Εἴρηκα· ὑμεῖς δὲ<br />

ἤδη σκοπεῖτε ποτέρᾳ ἡμῶν ἄμεινον ἦν αὐτῷ συνεῖναι.<br />

ΔΙΚΗ<br />

Ἄγε δή, μὴ μέλλετε, ψηφοφορήσατε, ἀνάστητε· καὶ ἄλλοις χρὴ δικάζειν.<br />

ΕΡΜΗΣ<br />

Πάσαις ἡ Ἀκαδήμεια κρατεῖ πλὴν μιᾶς.<br />

ΔΙΚΗ<br />

26


Παράδοξον οὐδέν, εἶναί τινα καὶ τῇ Μέθῃ τιθέμενον. καθίσατε οἱ τῇ Στοᾷ πρὸς τὴν<br />

Ἡδονὴν λαχόντες περὶ τοῦ ἐραστοῦ δικάζειν· ἐγκέχυται τὸ ὕδωρ. ἡ κατάγραφος ἡ τὰ<br />

ποικίλα σὺ ἤδη λέγε.<br />

Cfr. Polemo fr. 25 Gigante.<br />

Traduzione<br />

Ascoltate, uomini del tribunale, prima la parte dell'Ubriachezza: questa è quantomeno la sua<br />

arringa. La sciagurata ha subito da me, l’Academia, il massimo dei torti, essendo stata privata<br />

del solo schiavo affezionato e fedele, convinto inoltre che nessuna delle azioni da lei ordinate<br />

fosse riprovevole. Era costui quel Polemone, che di giorno folleggiava in mezzo alla piazza e<br />

cantava, avendo con sé delle citariste, dal mattino alla sera, affogato sempre nel vino e nella<br />

crapula, col capo infiorato dalle corone. E della verità di questo sono informati tutti gli<br />

Ateniesi, che mai videro Polemone sobrio. Ma quando lo sciagurato condusse i suoi festaioli<br />

alle porte dell’Academia, abituato com’era a condurli da tutti, questa lo fece suo schiavo<br />

strappandolo con la violenza dalle mani dell’Ubriachezza e, portatolo a casa sua, lo costrinse<br />

a bere acqua, lo rieducò alla sobrietà, lo spogliò delle corone e, mentre avrebbe dovuto bere<br />

sdraiato a banchetto, gli insegnò misere parolette tortuose, piene di un assillante pensiero. Ne<br />

seguì che, se prima di allora gli fioriva il rosso sul volto, ora lo sventurato è divenuto pallido e<br />

rattrappito e, dimentico di tutte le canzoni, siede talvolta senza mangiare né bere fino a mezza<br />

sera per non interrompere quel bel mucchio di chiacchere che io, l’Academia, gli insegno a<br />

fare. Ma il peggio è che, sobillato da me, insulta l’Ubriachezza e dice male di lei a non finire.<br />

Questo Polemone, che costei dice essere suo schiavo, era di indole non volgare né incline<br />

all’Ubriachezza, ma affine alla mia. Fu lei la prima a sequestrarlo, giovane ancora e<br />

plasmabile, con l’aiuto del Piacere, che l’assiste in tutto, e lo corruppe, lo sventurato,<br />

consegnandolo alle orge e alle sgualdrine in maniera che non gli restò neppure un briciolo di<br />

pudore. […] Lo sventurato, infatti, andava in giro fin dall’alba incoronato, ubriaco fradicio,<br />

accompagnato dai flauti attraverso la piazza, mai un momento sobrio, e schiamazzava con la<br />

sua brigata alle porte di tutti, oltraggio vivente agli antenati e all’intera città, zimbello per gli<br />

stranieri. Ma quando venne da me, capitò che io stessi trattando per i miei compagni presenti i<br />

temi della virtù e della moderazione; si fermò lì col flauto e le corone e prima, disturbando<br />

con le sue grida, cercò di sciogliere la nostra riunione, ma poiché noi non ci eravamo affatto<br />

27


curati di lui, a poco a poco – non essendo interamente inzuppato dall’Ubriachezza – aprì la<br />

mente ai nostri discorsi, si tolse le corone, zittì la flautista e, mentre lo assaliva la vergogna<br />

della veste di porpora, come svegliandosi da un sonno profondo vide in quale stato si trovava<br />

e condannò la sua vita passata. Il rossore dell’ubriachezza scoloriva e scompariva, ma<br />

arrossiva per il pudore che gli ispiravano i suoi trascorsi. Alla fine, così come si trovava, passò<br />

nel mio campo, e non perché io l’avessi sollecitato o costretto, come dice costei, ma di sua<br />

spontanea volontà giudicando migliore la mia parte. E adesso chiamami lui, perché possiate<br />

apprendere come io l’ho trasformato. Costui, o giudici, quando lo presi con me, era un tipo<br />

ridicolo che non riusciva, per colpa del vino puro, né a spiccicare parola né a stare in piedi. Io<br />

lo rimisi sulla buona strada, gli ridiedi la sobrietà e feci di lui, dello schiavo che era, un uomo<br />

equilibrato, saggio, tenuto dai Greci in grande considerazione; e lui e i suoi congiunti per lui<br />

mi sono grati di questo.<br />

T. 11: M. C. FRONTO, AD MARCUM AURELIUM CAESAREM I 9, 5.<br />

Pro Polemone rhetore, quem mihi tu in epistula tua proxime exhibuisti tullianum, ego in<br />

oratione, quam in senatu recitavi, philosophum reddidi, nisi me opinio fallit, perantiquum.<br />

Ad quid tu dicas, Marce quemadmodum tibi videtur fabula Polemonis a me descripta?<br />

Plane multum mihi facetiarum contulit istic Horatius Flaccus, memorabilis poeta mihique<br />

propter Maecenatem ac Maecenatianos hortos meos non alienus. Is namque Horatius<br />

sermonum libro secundo fabulam istam Polemonis inseruit, si recte memini, hisce<br />

versibus: -<br />

Cfr. Polemo fr. 26 Gigante.<br />

Mutatus Polemon ponas insignia morbi,<br />

fasciolas, cubital, focalia, potus ut ille<br />

dicitur ex collo furtim carpsisse coranas<br />

postquam et impransi correptus voce magistri.<br />

28


Traduzione<br />

In cambio del tuo retore Polemone, che tu recentemente nella tua lettera mi presentasti come<br />

ciceroniano, io restituii, nel discorso che presentai in senato, un filosofo, se non erro, molto<br />

antico. Tu, o Marco, hai qualcosa da dire su come ti sembra che io abbia riprodotto la storia di<br />

Polemone? Certo mi ha offerto, a questo proposito, molte facezie Orazio Flacco, poeta da<br />

ricordarsi e a me non estraneo per via di Mecenate e dei giardini mecenaziani. Orazio infatti<br />

inserì nel secondo libro delle sue Satire questa storia di Polemone, se ben ricordo, con questi<br />

versi:<br />

(come) Polemone quando si convertì, che tu lasci le insegne della tua<br />

malattia, la sciarpa, le fasce, i cuscini, come lui fece (si dice) dopo<br />

una cena (ubriaco), strappandosi via, di nascosto, la ghirlanda di fiori<br />

dal collo, mortificato ai richiami del suo sobrio maestro.<br />

T. 12: ORIGENES, CONTRA CELSUM I 64 (SC 132, R.2005, P. 254).<br />

Εἰ δ' ἐπὶ τῷ προτέρῳ βίῳ ὀνειδίζειν μέλλοιμεν τοῖς μεταβαλοῦσιν, ὥρα καὶ<br />

Φαίδωνος ἡμᾶς κατηγορεῖν καὶ φιλοσοφήσαντος, ἐπεί, ὡς ἡ ἱστορία φησίν, ἀπὸ<br />

στέγους αὐτὸν μετήγαγεν εἰς φιλόσοφον διατριβὴν ὁ Σωκράτης. Ἀλλὰ καὶ τὴν<br />

Πολέμωνος ἀσωτίαν, τοῦ διαδεξαμένου Ξενοκράτην, ὀνειδίσομεν φιλοσοφίᾳ· δέον<br />

κἀκεῖ τοῦτ'αὐτῆς ἀποδέξασθαι, ὅτι δεδύνηται ὁ ἐν τοῖς πείσασι λόγος ἀπὸ<br />

τηλικούτων μεταστῆσαι κακῶν τοὺς προκατειλημμένους ἐν αὐτοῖς. Καὶ παρὰ μὲν<br />

Ἕλλησιν εἷς τις Φαίδων καὶ οὐκ οἶδα εἰ δεύτερος καὶ εἷς Πολέμων μεταβαλόντες<br />

ἀπὸ ἀσώτου καὶ μοχθηροτάτου βίου ἐφιλοσόφησαν, ⌊ παρὰ δὲ τῷ Ἰησοῦ οὐ μόνοι<br />

τότε οἱ δώδεκα ἀλλ' ἀεὶ καὶ πολλαπλασίους, οἵτινες γενόμενοι σωφρόνων χορὸς<br />

λέγουσι περὶ τῶν προτέρων·<br />

cfr. Polemo fr. 27 Gigante.<br />

Traduzione<br />

29


Se poi dobbiamo rimproverare per la loro vita precedente coloro che sono cambiati, ci sarebbe<br />

per noi l’occasione di criticare anche Fedone, che pure fu filosofo, dal momento che, come<br />

racconta la storia, Socrate lo condusse da un lupanare allo studio della filosofia. Inoltre noi<br />

rimprovereremo alla filosofia la dissolutezza di Polemone, che successe a Senocrate nella<br />

guida della scuola. In questi esempi bisogna evidenziare questo particolare della filosofia, che<br />

la ragione ha potuto, in quelli che sono stati convinti, liberare da così grandi mali coloro che<br />

vi erano precedentemente immersi. E tra i Greci un solo Fedone – non so infatti se ce ne sia<br />

un secondo – e un solo Polemone, dopo essere cambiati da una vita dissoluta ed assai<br />

malvagia, si dedicarono alla filosofia. Fra i discepoli di Gesù invece, non solo i dodici in quel<br />

tempo, ma sempre più numerosi sono quelli che si dice che rispetto ai predecessori siano<br />

divenuti un coro di saggi…<br />

T. 13: ORIGENES, CONTRA CELSUM III 67 (SC 136, 1968, P. 152S.).<br />

Καὶ τοῦτο δὲ ψεῦδος ἀπὸ τῆς περί τινων φιλοσοφησάντων ἱστορίας ἀποδείκνυται.<br />

Τίς γὰρ ἀνθρώπων οὐκ ἂν ἐν τοῖς ἐξωλεστάτοις τάσσοι τὸν ὅπως ποτὲ ὑπομείναντα<br />

εἶξαι δεσπότῃ, ἐπὶ τέγους αὐτὸν ἱστάντι, ἵνα πάντα τὸν θέλοντα αὐτὸν<br />

καταισχύνειν παραδέξηται; Τοιαῦτα δὲ περὶ τοῦ Φαίδωνος ἱστορεῖται. Τίς δὲ τὸν<br />

μετὰ αὐλητρίδος καὶ κωμαστῶν τῶν συνασωτευσαμένων εἰσβαλόντα εἰς τὴν τοῦ<br />

σεμνοτάτου Ξενοκράτους διατριβήν, ἵν' ἐνυβρίσῃ ἄνδρα, ὃν καὶ οἱ ἑταῖροι<br />

ἐθαύμαζον, οὐ φήσει πάντων μιαρώτατον εἶναι ἀνθρώπων; Ἀλλ' ὅμως ἴσχυσε λόγος<br />

καὶ τούτους ἐπιστρέψας ποιῆσαι ἐπὶ τοσοῦτον διαβεβηκέναι ἐν φιλοσοφίᾳ, ὥστε<br />

τὸν μὲν ὑπὸ Πλάτωνος κριθῆναι ἄξιον τοῦ τὸν περὶ τῆς ἀθανασίας διεξοδεῦσαι<br />

Σωκράτους λόγον καὶ τὴν ἐν τῷ δεσμωτηρίῳ εὐτονίαν αὐτοῦ παραστῆσαι, οὐ<br />

φροντίσαντος τοῦ κωνείου ἀλλ' ἀδεῶς καὶ μετὰ πάσης γαλήνης τῆς ἐν τῇ ψυχῇ<br />

διεξοδεύσαντος τοσαῦτα καὶ τηλικαῦτα, οἷς μόγις παρακολουθεῖν καὶ οἱ πάνυ<br />

καθεστηκότες καὶ ὑπὸ μηδεμιᾶς ἐνοχλούμενοι περιστάσεως δύνανται· τὸν δὲ<br />

Πολέμωνα, ἐξ ἀσώτου γενόμενον σωφρονέστατον, διαδέξασθαι τὴν τοῦ διαβοήτου<br />

ἐπὶ σεμνότητι Ξενοκράτους διατριβήν.<br />

30


Cfr. Polemo fr. 28 Gigante.<br />

Traduzione<br />

Ma si dimostra che anche questo è menzogna, in base alla storia riguardante alcuni filosofi.<br />

Chi, infatti, non porrebbe tra i più abominevoli fra gli uomini colui che sopportò, in un modo<br />

o nell’altro, di cedere a un padrone che lo collocò in un lupanare, perché accogliesse chiunque<br />

desiderasse disonorarlo ? Tali cose però si raccontano su Fedone. Ma chi non affermerebbe<br />

che è il più turpe di tutti gli uomini colui che si è cacciato, insieme a una suonatrice di flauto e<br />

a dei compagni di bagordi, nella scuola del nobilissimo Senocrate, per oltraggiare un uomo<br />

che anche i suoi compagni ammiravano ? Ma tuttavia la ragione fu capace di convertire<br />

costoro e di farli avanzare così tanto nella filosofia, che l’uno fu giudicato da Platone degno di<br />

esporre il discorso di Socrate sull’immortalità e di rivelare la sua fermezza all’interno della<br />

prigione, quando Socrate, senza preoccuparsi della cicuta, ma senza timore e con ogni<br />

tranquillità dell’anima, trattò così tanti e così grandi argomenti, che a stento possono afferarli<br />

anche quelli che sono assai fermi e non sono disturbati da nessuna circostanza avversa.<br />

L’altro, invece, Polemone, divenuto assai saggio da depravato che era, fu il successore nella<br />

scuola di Senocrate, famoso per dignità. Perciò Celso non è veritiero, quando afferma che<br />

« nessuno potrebbe cambiare completamente, nemmeno con la punizione, quelli che peccano<br />

per natura e ci sono abituati ».<br />

T. 14: THEMISTIUS, PROTREPTIKO£S NIKOMHDEU=SIN EI=S FILOSOFI/AN, ORATIO XXIV, 303B - 304A<br />

([ED. DINDORF P. 365-366;] ED. DOWNEY / NORMAN, VOL. II, P.102-103).<br />

ἤδη γοῦν τισι καὶ θέα ψιλὴ τῷ θεωμένῳ ταύτην ἤρκεσεν εἰς κοσμιότητα τὸν βίον<br />

μεταρρυθμίσαι. καὶ ὅ γε Πολέμων ὁ Ἀττικός, ὁ κώμοις καὶ αὐλοῖς καὶ μέθαις πολλὰ<br />

δὴ πρότερον ἐντρυφήσας, ὅτε τὴν Ξενοκράτους σύνοικον φιλοσοφίαν προσέβλεψεν,<br />

αὐλοὶ μὲν ἐκεῖνοι φροῦδοι καὶ κῶμοι καὶ ἔρως ὁ πάνδημος Πολέμωνος ἐκπεσόντες<br />

τῆς ψυχῆς ἠμελήθησαν, ὁ δὲ to£ καθαρώτατον τῆς φιλοσοφίας ἀντιλαβὼν εἰς<br />

τοσοῦτον τῷ πόθῳ προὔκοψεν ὥστε καὶ τελεταῖς τοῦ θεοῦ τιμηθῆναι.<br />

31


Polemo fr. 29 Gigante.<br />

Traduzione<br />

Tanto è vero che qualche volta è stata sufficiente la semplice visione della filosofia per<br />

migliorare nel decoro e nella temperanza il modo di vivere di colui che la guardava. Quando<br />

Polemone Attico, che per lungo tempo si era divertito fra bagordi, canti e bevute, vide la<br />

filosofia vivere in comunione intima con Senocrate, furono completamente dimenticati e<br />

scomparvero dall’animo suo i canti, gli amori volgari, i festini. Egli scelse in luogo di tutto<br />

questo la parte più pura della filosofia, giungendo a un grado tale di passione per essa da venir<br />

giudicato degno dell’iniziazione ai divini misteri.<br />

T. 15 : GREGORIUS NAZIANZENUS, CARMINA I 10 DE VIRTUTE, VV. 793-807 (PG 37, 737-738).<br />

Cfr. Polemo fr. 30 Gigante.<br />

Ou)d' o( Pole/mwn e) /moi ge sighqh/setai:<br />

kai£ ga£r to£ qau=ma tw=n a) /gan laloume/nwn.<br />

h)=n me£n to£ pro/sqen ou(=toj ou)k e)n sw/frosi,<br />

kai£ li/an ai)sxro£j h(donw=n u(phre/thj<br />

e)pei£ d' e) /rwti tou= kalou= katesxe/qh,<br />

su/mboulon eu(rw£n, ou)k e) /xw d' ei)pei=n ti/na,<br />

ei( /t' ou)=n sofo/n tin', ei) /q' e(auto£n, a)qro/wj<br />

tosou=ton w) /fqh tw=n paqw=n a)nw/teroj,<br />

w(/sq' e( /n ti qh/sw tw=n e)kei/nou qauma/twn.<br />

e(tai=ran ei)seka/lei tij a)krath£j ne/oj:<br />

h( d' w(j pulw=noj h)=lqe, fasi/, plhsi/on,<br />

th=j d' h)=n proku/ptwn Pole/mwn e)n ei)ko/ni,<br />

tau/thn i)dou=sa, kai£ ga£r h)=n sebasmi/a,<br />

a)ph=lqen eu)qu£j kai£ qe/aj h(tthme/nh,<br />

w(j zw=nt' e)paisxunqei=sa to£n gegramme/non.<br />

32


Traduzione<br />

E io non tacerò di Polemone : infatti si tratta di una cosa degna di meraviglia tra quelle assai<br />

decantate. Dapprima costui non era tra i continenti, ché anzi era assai turpe schiavo dei<br />

piaceri. Ma quando fu conquistato dall’amore del bene trovando un consigliere che non so<br />

dire chi fosse, se un saggio o se stesso, subito si mostrò tanto superiore alle passioni, che<br />

debbo ricordare almeno un atto, tra i suoi, degno di ammirazione. Un giovane dissoluto fece<br />

venire una meretrice, la quale come giunse, dicono, vicino al portone di casa, vedendo<br />

Polemone in un’immagine che sporgeva sul davanti di esso (e infatti era veneranda), subito se<br />

ne andò vinta da quella visione, vergognandosi davanti a lui in immagine come se fosse vivo.<br />

T. 16 : COSMAS HIEROSOLYMITANUS, AD CARMINA S. GREGORII THEOL., PG 38, 579 SQ.<br />

792 Ou)d' o) Pole/mwn e) /moige sighqh/setai:<br />

793 Kai£ ga£r to£ qau=ma tw=n a) /gan laloume/nwn:<br />

Ou(=toj o( Pole/mwn ta£ me£n prw=ta la/gnoj ge/gonen kai£ filh/donoj: ou) ga£r e)n<br />

a)nqrw/poij ai)sxro/teron oi(=o/n te h)=n h) £ lagno/teron eu(rei=n: tosou=ton de£ h) /lasen<br />

swfrosu/nhj, w( /ste tino£j e(tairizome/nhj neani/sk% parepome/nhj kata/ tina pulew=na e)f'<br />

o( £n ei)kw£n a)ne/keito tou= Pole/mwnoj, mellou/shj ei)sie/nai, to£n Pole/mwna gegramme/non<br />

qeasame/nhn, dro/m% fugei=n le/getai th£n e(tai/ran, ptoh/sasan tou= Pole/mwnoj th£n<br />

qewri/an e)k mo/nhj th=j grafi/doj: Pole/mwn de£ i(storei= ta£ kaq' (/Ellhnaj, w(j )Iw/shppoj<br />

kai£ Fi/lwn ta£ kaq' (Ebrai/ouj.<br />

Cfr. Polemo fr. 31 Gigante.<br />

Traduzione<br />

“E io non tacerò di Polemone”<br />

“infatti si tratta di una cosa degna di meraviglia tra quelle assai decantate”<br />

Polemone era dapprima lussurioso e dedito ai piaceri; non si trova infatti tra gli uomini<br />

qualcuno più scellerato e lussurioso di lui; ma a tal punto si diede alla temperanza che, si dice<br />

33


che un'etéra con una certa consuetudine alla prostituzione, mentre era in compagnia di un<br />

giovane e si apprestava ad entrare in un vestibolo, nel quale stava un'icona di Polemone,<br />

avendo visto la rappresentazione di Polemone fuggì di corsa, spaventata dalla vista della sola<br />

immagine di Polemone. Polemone infatti illustra le gesta dei Greci, come Ioseph e Filone<br />

quelle degli Ebrei.<br />

T. 17 : AUGUSTINUS, EPIST. CXLIV (PL 33, P. 591-592 ; CSEL 44, GOLDBACHER ED., 1904, P.<br />

263-264).<br />

Xenocrates Polemonem, ut scribitis et nos ex illis litteris recordamur, de fruge temperantiae<br />

disputando non solum ebriosum verum et tunc ebrium ad mores alios repente convertit.<br />

Quamquam ergo ille, sicut prudenter et veraciter intellexistis, non deo fuerit adquisitus sed<br />

tantum a dominatu luxuriae liberatus, tamen ne id ipsum quidem, quod melius in eo<br />

factum est, humano operi tribuerim sed divino. Ipsius namque corporis, quod est infirmum<br />

nostrum, si qua bona sunt sicut forma et vires et salus et si quid eius modi est, non sunt nisi<br />

ex deo creatore ac perfectore naturae; quanto magis animi bona donare nullus alius<br />

potest! Quid enim superbius vel ingratius cogitare potest humana vecordia, si putaverit,<br />

cum carne pulchrum deus faciat hominem, animo castum ab homine fieri? Hoc in libro<br />

christianae Sapientiae sic scriptum est: Cum scirem, inquit, quia nemo esse potest<br />

continens, nisi deus det, et hoc ipsum erat sapientiae scire cuius esset hoc donum (Sap. 8,<br />

21). Polemo ergo si ex luxurioso continens factus ita sciret, cuius esset hoc donum, ut eum<br />

abiectis superstitionibus gentium pie coleret, non solum continens sed etiam veraciter<br />

sapiens et salubriter religiosus existeret, quod ei non tantum ad praesentis vitae honestem<br />

verum et ad futurae inmortalitatem valeret. (...)<br />

Et tamen malus Polemo magis ebrietate inveterati erroris evertitur.<br />

Cfr. Polemo fr. 33 Gigante. Xenocrates fr. 47 IP.<br />

Traduzione<br />

Senocrate come voi mi scrivete e come ricordo anch'io dalle letture classiche, in una<br />

34


conferenza sui vantaggi della temperanza, convertì d'un tratto a un tenore di vita morigerato<br />

Polemone, che non solo era un ubriacone, ma in quel momento era anche ubriaco. Sebbene<br />

quello, come saggiamente avete compreso, non fosse guadagnato alla causa di Dio, ma<br />

liberato soltanto dalla tirannia della dissolutezza, tuttavia non attribuirei neppure questo suo<br />

mutamento in meglio all'opera di un uomo, ma di Dio. Poiché i beni del corpo stesso, cioè<br />

dell'infima parte di noi, quali sono ad esempio la bellezza, le forze, la salute e qualunque altro<br />

bene di tale genere, non provengono se non da Dio creatore e perfezionatore della natura: con<br />

quanto maggior ragione nessun altro può darci i beni dell'anima! Qual pensiero più orgoglioso<br />

e più ingrato potrebbe nutrire la pazza mente umana, che reputare che Dio renda bello l'uomo<br />

nel fisico, e che l'essere reso casto nell'anima provenga dall'uomo? Nel libro della Sapienza<br />

cristiana sta scritto: Poiché sapevo che nessuno può essere continente, se Dio non lo concede;<br />

ed era già questo un frutto della sapienza, il sapere cioè da chi ci è concesso questo dono. Se<br />

dunque Polemone, divenuto temperante, da sensuale che era, avesse saputo di chi fosse questo<br />

dono, in modo da adorarlo con sentimenti di vera pietà, liberandosi dalle superstizioni dei<br />

pagani, sarebbe stato esaltato non solo per la temperanza, ma anche per la verace sapienza e<br />

per la salutare religione, né gli sarebbe giovato solo per l'onestà della vita presente, ma anche<br />

per l'immortalità della vita futura.<br />

Eppure il cattivo Polemone preferisce lasciarsi trascinare alla rovina dall'ebbrezza del suo<br />

inveterato errore.<br />

T. 18: AUGUSTINUS, CONTRA JULIANUM HAERESIS PELAGIANAE DEFENSOREM I, 7, 35 (PL 44, 665-<br />

666).<br />

Ego quidem pro dilectione quae mihi est erga te, quam Deo propitio quibuslibet conviciis<br />

absit ut de medullis mei cordis exstirpes, mallem, fili Juliane, ut juventute meliore atque<br />

fortiore te vinceres, et animositatem (quid aliud quam humanam?), qua cupis tuam,<br />

qualiscumque sit, quoniam tua jam facta est, praevalere sententiam, potentiore pietate<br />

superares; et sicut Polemo, luxuriae coronis sensim capite detractis eisque abjectis, manum<br />

pallio subdidit, os et vultum formavit ad verecundiam, ad extremum totum se illi, ad quem<br />

deridendum venerat, discipulum tradidit; sic et tu loquentibus tibi tot venerabilibus viris,<br />

maximeque episcopo Ambrosio in integritate catholicae fidei etiam tui mali doctoris et<br />

deceptoris ore laudato, et episcopis Basilio et Joanne, quos tu quoque in sanctis eruditis<br />

35


veridica attestatione posuisti, tanquam coronas ebriosorum abjiceres laudes Pelagianorum,<br />

quibus tanquam magnus eorum defensor extolleris; et stilum, ut mitius dixerim,<br />

contumeliosum, non tanquam pallio pudoris absconderes, sed tanquam manu emendatiore<br />

confringeres; tuumque pectus veritate complendum, non Platonico Xenocrati, sed istis<br />

sacerdotibus christianis, vel potius in eis ipsi Domino Christo, non velut qui nunc primum<br />

veneris, traderes, sed velut qui recesseras, redderes.<br />

Cfr. Polemo fr. 32 Gigante.<br />

Traduzione<br />

L'amore che mi lega a te, figlio Giuliano, e che, con l'aiuto di Dio, tu non potrai estirpare<br />

dall'intimo del mio cuore con nessuna offesa, mi spinge a desiderare che tu vinca te stesso con<br />

una gioventù migliore e più forte e che, con una più ardente pietà, vinca l'animosità - umana<br />

animosità, che altro potrebbe essere? - con cui brami far prevalere la tua tesi, qualunque essa<br />

sia, solo perché è tua. Il tuo comportamento sia come quello di Polemone, che, deponendo<br />

gradualmente dalla testa la corona della lussuria e disprezzandola, pose le mani sotto il<br />

mantello, accomodò il viso e l'aspetto a modestia e, da ultimo, si abbandonò come discepolo<br />

nelle mani di colui che era venuto a deridere. Allo stesso modo, mentre ti parlano tanti uomini<br />

venerabili e soprattutto il vescovo Ambrogio, lodato per la sua integrità di fede anche dalla<br />

bocca del tuo cattivo maestro ed ingannatore, ed i vescovi Basilio e Giovanni, che tu stesso,<br />

con vera testimonianza, hai collocato tra i santi ed eruditi, vorrei che tu disprezzassi, come le<br />

corone degli ubriachi, le lodi dei pelagiani dai quali sei acclamato come il più grande loro<br />

difensore. Più che nascondere col manto del pudore la tua penna sprezzante - per usare un<br />

termine più pacato -, vorrei che la spezzassi con mano decisa a correggersi. Vorrei che aprissi<br />

il tuo cuore per farlo riempire di verità non al platonico Senocrate, ma a questi sacerdoti di<br />

Cristo o, meglio ancora, per mezzo di essi allo stesso Cristo Signore, non come chi viene a lui<br />

per la prima volta, ma come uno che ritorna dopo essersene allontanato.<br />

36


T. 19 : HIERONYMUS, COMM. IN OSEE I 1, 2, ed. M. Adriaen, CCL 76, 1969, p. 9.<br />

Qua ratione praedicent virum eruditissimum Xenocratem, qui Polemonem<br />

luxuriosissimum iuvenem inter psaltrias atque tibicines et impudicas mulieres ebrium et<br />

hedera coronatum fecit aboedire sapientiae, et adolescentem turpissimum mutavit in<br />

sapientissimum philosophorum. Cur Socratem ad caelum levent, qui Phaedonem...de<br />

lupanari...in Academiam transtulerit?<br />

Cfr. Polemo fr. ? Gigante<br />

Traduzione<br />

Per quale motivo elogiano Senocrate, uomo eruditissimo, che fece obbedire alla sapienza<br />

Polemone, giovane lussuriosissimo, ubriaco tra le suonatrici di cetra, le flautiste e altre donne<br />

impudiche, coronato con l'edera, e trasformò un adolescente scelleratissimo in un filosofo<br />

sapientissimo; perché innalzano al cielo Socrate, che portò Fedone da un bordello<br />

all'Academia?<br />

T. 20 : Choricius, or. 8, 1, 19 (p. 116, 16-21 Foester, Richtsteig, eds. 9 ).<br />

οὔκουν ὤφθη τις οὕτως ἀναιδείᾳ προσκείμενος, ὃς οὐ προσβλέψας αὐτὸν ἠρυθρία<br />

καί πως αὐτὸς ἑαυτοῦ κοσμιώτερος ἐγεγόνει, καθάπερ τὸν Πολέμωνα λόγος, ἐπειδὴ<br />

τὸν Ξενοκράτην προσέβλεψε, τὴν προτέραν ἀποβαλεῖν ἀταξίαν, ὀψοφαγίαν τε καὶ<br />

αὐλοὺς καὶ μέθην καὶ τὸ κωμάζειν αἰσχρῶς.<br />

Assente nella raccolta di Gigante, la testimonianza è stata rivenuta da Tiziano Dorandi.<br />

9 Richard Förster and Eberhard Richtsteig, Choricii Gazaei opera, Leipzig, Teubner, 1929 (repr. Stuttgart,<br />

1972).<br />

37


Traduzione<br />

Non si è assolutamente mai visto qualcuno così dedito all'impudenza, il quale non arrossisca<br />

guardando se stesso e che sia diventato tanto più ordinato di se stesso, quanto la razionalità di<br />

Polemone, dopo aver visto Senocrate, gettò via la precedente confusione, la ghiottoneria, i<br />

flauti, l'ubriachezza e lo stare in compagnia in modo vergognoso.<br />

38


T. 21: STRABO, GEOGRAPHICA XIII 1, 67.<br />

Testimonia de Polemone scholarca<br />

et historia Academiae<br />

ἐκ δὲ τῆς Πιτάνης ἐστὶν Ἀρκεσίλαος ὁ ἐκ τῆς Ἀκαδημίας, Ζήνωνος τοῦ Κιτιέως<br />

συσχολαστὴς παρὰ Πολέμωνι.<br />

Cfr. Polemo fr. 77 Gigante; Arcesilaus T. 1C 2 Mette;<br />

Di Pitane era Arcesilao, membro dell'Academia, condiscepolo insieme a Zenone di Cizio<br />

presso Polemone 10 .<br />

T. 22 : PLUTARCHUS, DE EXILIO 603 B-C.<br />

ἡ δ' Ἀκαδήμεια, τρισχιλίων δραχμῶν χωρίδιον ἐωνημένον, οἰκητήριον ἦν<br />

Πλάτωνος καὶ Ξενοκράτους καὶ Πολέμωνος αὐτόθι σχολαζόντων καὶ<br />

καταβιούντων τὸν ἅπαντα χρόνον πλὴν μίαν ἡμέραν, ἐν ᾗ Ξενοκράτης καθ'<br />

ἕκαστον ἔτος εἰς ἄστυ κατῄει Διονυσίων καινοῖς τραγῳδοῖς ἐπικοσμῶν, ὡς ἔφασαν,<br />

τὴν ἑορτήν.<br />

Cfr. Polemo fr. 47 Gigante; Xenocrates fr. 22 IP.<br />

Traduzione<br />

L'Academia, che non era altro che un pezzo di terreno acquistato per tremila dracme, fu la<br />

dimora di Platone, di Senocrate e di Polemone, che vi insegnarono e vi soggiornarono tutto il<br />

tempo, eccetto un giorno all'anno, quando Senocrate scendeva in città per vedere le tragedie<br />

10 Cfr. T. 41 = Ac.libri I, 34-35.<br />

39


messe in scena alle Nuove Dionisie, e la sua presenza, come si diceva, onorava la festa 11 .<br />

T. 23 : CLEMENS ALEXANDRINUS, STROMATA I, XIV 63,4 – 64,1, P. 40 STÄHLIN.<br />

Σωκράτους δὲ ἀκούσας Ἀντισθένης μὲν ἐκύνισε, Πλάτων δὲ εἰς τὴν Ἀκαδημίαν<br />

ἀνεχώρησε. παρὰ Πλάτωνι Ἀριστοτέλης φιλοσοφήσας μετελθὼν εἰς τὸ Λύκειον<br />

κτίζει τὴν Περιπατητικὴν αἵρεσιν. τοῦτον διαδέχεται Θεόφραστος, ὃν Στράτων, ὃν<br />

Λύκων, εἶτα Κριτόλαος, εἶτα Διόδωρος. Σπεύσιππος δὲ Πλάτωνα διαδέχεται, τοῦτον<br />

δὲ Ξενοκράτης, ὃν Πολέμων. Πολέμωνος δὲ ἀκουσταὶ Κράτης τε καὶ Κράντωρ, εἰς<br />

οὓς ἡ ἀπὸ Πλάτωνος κατέληξεν ἀρχαία Ἀκαδημία. Κράντορος δὲ μετέσχεν<br />

Ἀρκεσίλαος, ἀφ' οὗ μέχρι Ἡγησίνου ἤνθησεν Ἀκαδημία ἡ μέση. εἶτα Καρνεάδης<br />

διαδέχεται Ἡγησίνουν καὶ οἱ ἐφεξῆς· Κράτητος δὲ Ζήνων ὁ Κιτιεὺς ὁ τῆς Στωϊκῆς<br />

ἄρξας αἱρέσεως γίνεται μαθητής. τοῦτον διαδέχεται Κλεάνθης, ὃν Χρύσιππος καὶ οἱ<br />

μετ' αὐτόν.<br />

Cfr. Polemo fr. 4, 67 Gigante; Xenocrates fr. 72 IP; Arcesilaus T. 4A Mette<br />

Traduzione<br />

Scolaro di Socrate fu Antistene, che introdusse il cinismo. Platone poi si ritirò nell'Academia;<br />

e Aristotele dopo aver studiato filosofia con Platone, passò al Liceo e fondò la scuola<br />

peripatetica. A lui succedette Teofrasto, a questi Stratone, a Stratone Licone, poi Critolao, poi<br />

11 Isnardi Parente (1980), p. 189, nota come questa testimonianza rappresenti un'altra attestazione relativa<br />

all'Academia che esclude Speusippo dal novero di coloro che effettivamente vi abitarono, mentre vi include,<br />

oltre Platone, Senocrate e Polemone; secondo l'editrice dei frammenti di Speusippo e Senocrate, la<br />

testimonianza sembra ribadire la non politicità dell'atteggiamento di Senocrate, volontariamente ritiratosi<br />

dalla vita della città nella tranquillità della scuola, anche in questo già chiaramente anticipatore di quello che<br />

sarà il tipo più comune dello scolarca ellenistico di lì a pochi anni. Tuttavia è bene notare che già per Platone<br />

l'attività di insegnamento nell'Academia coincide con il ritirarsi dalla scena politica di Atene o quantomeno in<br />

un cambiamento radicale nella forma di partecipazione alla vita collettiva e alla politica in generale; la<br />

testimonianza di Plutarco, alla luce di ciò, può essere letta come l'attestazione del fatto che il filosofo non<br />

rinuncia mai completamente al rapporto con la collettività e partecipa insieme ad essa agli eventi più<br />

importanti della vita cittadina. Invece che di un radicale isolamento, pur nell'intensificazione della vita<br />

comunitaria della scuola, attraverso la residenza stabile sul territorio dell'Academia di scolarca e discepoli, si<br />

tratta in realtà di un'attestazione del contatto mantenuto tra il filosofo e la città (v. Il bios di Polemone, pp.<br />

95-117).<br />

40


Diodoro. Speusippo poi succede a Platone, e a lui Senocrate, cui segue Polemone. Di<br />

Polemone furono discepoli Cratete e Crantore, con i quali terminò l'antica Academia sorta con<br />

Platone. Con Crantore poi ebbe a che fare Arcesilao, dal quale fu fondata l'Academia di<br />

mezzo che fiorì fino ad Egesino. Poi ad Egesino succede Carneade e così via gli altri che<br />

seguono. Di Cratete fu poi allievo Zenone di Cizio, iniziatore della scuola Stoica. Succede a<br />

Zenone Cleante, a questi Crisippo e i seguaci.<br />

T. 24 : NUMENIUS, DE ACADEMICORUM A PLATONE DEFECTIONE I, FR. 1 LEEMANS = FR. 24 DES PLACES<br />

(AP. EUSEBIUS, PR. EV. XIV 4, 16-59).<br />

ε. ΠΕΡΙ ΤΗΣ ΠΡΩΤΗΣ ΚΑΤΑ ΠΛΑΤΩΝΑ ΔΙΑΔΟΧΗΣ<br />

Ἐπὶ μὲν τοίνυν Σπεύσιππον τὸν Πλάτωνος μὲν ἀδελφιδοῦν, Ξενοκράτη δὲ τὸν διάδοχον<br />

τὸν Σπευσίππου, Πολέμωνα δὲ τὸν ἐκδεξάμενον τὴν σχολὴν παρὰ Ξενοκράτους ἀεὶ τὸ<br />

ἦθος διετείνετο τῶν δογμάτων σχεδὸν δὴ ταὐτόν, ἕνεκά γε τῆς μήπω ἐποχῆς ταυτησὶ τῆς<br />

πολυθρυλήτου τε καὶ εἰ δή τινων τοιούτων ἄλλων. ἐπεὶ εἴς γε τἄλλα πολλαχῇ<br />

παραλύοντες, τὰ δὲ στρεβλοῦντες, οὐκ ἐνέμειναν τῇ πρώτῃ διαδοχῇ· ἀρξάμενοι δὲ ἀπ'<br />

ἐκείνου καὶ θᾶττον καὶ βράδιον διίσταντο προαιρέσει ἢ ἀγνοίᾳ, τὰ δὲ δή τινι αἰτίᾳ ἄλλῃ<br />

οὐκ ἀφιλοτίμῳ ἴσως. καὶ οὐ μὲν βούλομαί τι φλαῦρον εἰπεῖν διὰ Ξενοκράτη, μᾶλλον μὴν<br />

ὑπὲρ Πλάτωνος ἐθέλω. καὶ γάρ με δάκνει ὅτι μὴ πᾶν ἔπαθόν τε καὶ ἔδρων σῴζοντες τῷ<br />

Πλάτωνι κατὰ πάντα πάντῃ πᾶσαν ὁμοδοξίαν. καίτοι ἄξιος ἦν αὐτοῖς ὁ Πλάτων, οὐκ<br />

ἀμείνων μὲν Πυθαγόρου τοῦ μεγάλου, οὐ μέντοι ἴσως οὐδὲ φλαυρότερος ἐκείνου, ᾧ<br />

συνακολουθοῦντες σεφθέντες τε οἱ γνώριμοι ἐγένοντο πολυτιμητίζεσθαι αἰτιώτατοι τὸν<br />

Πυθαγόραν.<br />

Cfr. Polemo fr. 3 Gigante; Speusippus fr. 30 IP = T. 20 Tarán ; Xenocrates fr. 77 IP.<br />

Traduzione<br />

Sulla prima succesione dei discepoli di Platone.<br />

Ora, con Speusippo, il nipote di Platone, con Senocrate, il successore di Speusippo, con<br />

41


Polemone che ricevette lo scolarcato da Senocrate, la dottrina non smise di conservare<br />

attentamente lo stesso carattere, per il fatto che quantomeno non esisteva ancora quella<br />

famosa “sospensione del giudizio” e altri principi del genere. D'altraparte, sugli altri punti,<br />

eliminando certe idee e torturandone delle altre, non si attennero all'eredità originale; a partire<br />

da questo punto, non tardarono a dividersi, più o meno velocemente, volontariamente o a loro<br />

insaputa, a volte forse per ragioni non prive di ambizione. Non intendo però parlar male di<br />

Senocrate, quanto piuttosto difendere Platone. Poiché quel che mi lascia contrariato è che non<br />

abbiano fatto di tutto, patendo ogni sofferenza, per mantenere rispetto a Platone, in ogni<br />

dottrina e con constanza, una perfetta unanimità d'opinione. Eppure Platone lo avrebbe<br />

meritato da parte loro: lui, essere superiore, forse non inferiore al grande Pitagora, un maestro<br />

a cui la fedeltà e la venerazione dei discepoli, hanno più di tutto valso onori divini 12 .<br />

T. 24BIS : NUMENIUS, DE ACADEMICORUM A PLATONE DEFECTIONE, I, FR. 2 LEEMANS = FR. 25 DES<br />

PLACES (AP. EUSEBIUS, PRAEPARATIO EVANGELICA XIV 5, 10- 6, 7).<br />

Πολέμωνος δὲ ἐγένοντο γνώριμοι Ἀρκεσίλαος καὶ Ζήνων· πάλιν γὰρ αὐτῶν<br />

μνησθήσομαι ἐπὶ τέλει. Ζήνωνα μὲν οὖν μέμνημαι εἰπὼν Ξενοκράτει, εἶτα δὲ Πολέμωνι<br />

φοιτῆσαι, αὖθις δὲ παρὰ Κράτητι κυνίσαι· νυνὶ δὲ αὐτῷ λελογίσθω ὅτι καὶ Στίλπωνός τε<br />

μετέσχε καὶ τῶν λόγων τῶν Ἡρακλειτείων. ἐπεὶ γὰρ συμφοιτῶντες παρὰ Πολέμωνι<br />

ἐφιλοτιμήθησαν ἀλλήλοις, συμπαρέλαβον εἰς τὴν πρὸς ἀλλήλους μάχην ὁ μὲν<br />

Ἡράκλειτον καὶ Στίλπωνα ἅμα καὶ Κράτητα, ὧν ὑπὸ μὲν Στίλπωνος ἐγένετο μαχητής,<br />

12 Isnardi Parente (1982), Commento p. 306-308, nota come questa testimonianza di Numenio faccia<br />

riferimento alla fase più tarda di quella tendenza storiografico-filosofica nei riguardi dell'Academia, di cui<br />

Cicerone ci offre l'aspetto ellenistico e tardo-ellenistico. Anche per il medioplatonismo, in particolare per<br />

Numenio, la storia dell'Accademia si configura nella successione di : l'insegnamento di Platone ; un<br />

contenuto metafisico-dogmatico ; una fase di relativa fedeltà a Platone ; la rottura scetticizzante che<br />

costituisce un tradimento ; e infine il ritrovamento dell'autentico Platone e il suo recupero compiuto dalla<br />

metafisica del tardo platonismo. Una certa tendenza critica è portata a dar credito all'idea di un ritorno di<br />

Numenio al platonismo 'autentico', ritorno fondato su Senocrate, la cui dottrina anticiperebbe già i temi del<br />

medioplatonismo. Tuttavia in questo brano Numenio non sembra accettare in pieno la tesi della retta<br />

interpretazione di Platone da parte dell'Academia antica, e parla di una oscurità originaria dell'insegnamento<br />

di Platone che avrebbe impedito alla stessa sua primitiva scuola, pur nei suoi intenti di fedeltà, di<br />

comprenderlo del tutto correttamente. Nel commento o parafrasi che Eusebio fa del brano di Numenio (v. T.<br />

33) questa riserva nel confronto dell'Accademia antica, senza eccezione neanche per quello che è ritenuto il<br />

più fedele degli allievi di Platone, Senocrate, è accentuata in maniera piuttosto forte. Per Eusebio la<br />

degenerazione del platonismo, con l'introduzione di dottrine estranee e virtualmente contraddittorie rispetto<br />

all'insegnamento di Platone, comincia fin dall'Accademia antica, come è chiaro dal significato del verbo<br />

streblou=n, "tormentare", costringere il dettato platonico genuino. v. Des Places (ed.), Numénius, Fragments,<br />

Les Belles Lettres, Paris 1973, p. 14-15.<br />

42


ὑπὸ δὲ Ἡρακλείτου αὐστηρός, κυνικὸς δὲ ὑπὸ Κράτητος· ὁ δ' Ἀρκεσίλαος Θεόφραστον ἴσχει καὶ<br />

Κράντορα τὸν Πλατωνικὸν καὶ Διόδωρον, εἶτα Πύρρωνα, ὧν ὑπὸ μὲν Κράντορος πιθανουργικός, ὑπὸ<br />

Διοδώρου δὲ σοφιστής, ὑπὸ δὲ Πύρρωνος ἐγένετο παντοδαπὸς καὶ ἴτης καὶ οὐδέν. ὅ καὶ ἐλέγετο περὶ<br />

αὐτοῦ ᾀδόμενόν τι ἔπος παραγωγὸν καὶ ὑβριστικόν· πρόσθε Πλάτων, ὄπιθεν [δὲ] Πύρρων, μέσσος<br />

Διόδωρος.<br />

[...]<br />

Οἱ δ' οὖν ἔνθεν ἀφορμηθέντες, ὅ τε Ἀρκεσίλαος καὶ Ζήνων, ὑπὸ τοιούτων ἀρωγῶν,<br />

ἀμφοτέροις συμπολεμούντων λόγων, τῆς μὲν ἀρχῆς ὅθεν ἐκ Πολέμωνος ὡρμήθησαν<br />

ἐπιλανθάνονται, διαστάντες δέ γε καὶ σφέας αὐτοὺς ἀρτύναντες ...<br />

Cfr. Polemo frr. 78, 83, 90 Gigante; Zeno fr. 11 VonArnim??; Krantor T. 3 Mette; Arcesilaus T. 2 Mette.<br />

Traduzione<br />

Polemone ebbe come discepoli Arcesilao e Zenone; tornerò a parlare di loro verso la fine. Di<br />

Zenone mi ricordo di aver detto che aveva frequentato Senocrate, poi Polemone e che in<br />

seguito aveva appreso presso Cratete il cinismo; ma adesso ammettiamo anche che ebbe la<br />

sua parte di Stilpone e delle discussioni eraclitee. Quando infatti, dopo esser stati condiscepoli<br />

presso Polemone, Arcesilao e Zenone divennero rivali, presero come alleati nel loro<br />

contenzioso, l'uno (Zenone) Eraclito e Stilpone, insieme a Cratete; questi gli insegnarono,<br />

Stilpone la combattività, Eraclito l'austerità, Cratete il cinismo; Arcesilao, invece, ebbe Teofrasto, il<br />

platonico Crantore, Diodoro, poi Pirrone, che gli insegnarono, Crantore la persuasione, Diodoro i sofismi,<br />

Pirrone la versatilità, la .... Di modo che si diceva di lui, per canzonarlo, un verso parodistico e ... "Platone<br />

davanti, Pirrone di dietro e Diodoro nel mezzo".<br />

[…]<br />

In ogni caso, coloro che ebbero questo inizio, Arcesilao e Zenone, con il contributo dei<br />

sopramenzionati filosofi e gli argomenti dialettici a favore dell'uomo e dell'altro,<br />

dimenticarono il loro punto di partenza, Polemone; presero le distanze e si armarono l'un<br />

contro l'altro.<br />

43


T. 25 : LUCILIUS, SATURAE 754-755 MARX ( = 539-540 TERZAGHI-MARIOTTI).<br />

cfr. Polemo fr. 40 Gigante.<br />

Traduzione<br />

adde eodem tristis ac severus philosophus<br />

Polemo et amavit, morte huic transmisit suam<br />

scolen quam dicunt<br />

Aggiungi a questo, era un filosofo triste e severo<br />

Polemone pure lo amava, alla sua morte<br />

gli trasmise la scuola, come dicono.<br />

T. 26 : SEXTUS EMPIRICUS, PYRRHONIANAE HYPOTYPOSES I, 220.<br />

λγ τίνι διαφέρει τῆς Ἀκαδημαϊκῆς φιλοσοφίας ἡ σκέψις.<br />

Φασὶ μέντοι τινὲς ὅτι ἡ Ἀκαδημαϊκὴ φιλοσοφία ἡ αὐτή ἐστι τῇ σκέψει· διόπερ ἀκόλουθον<br />

ἂν εἴη καὶ περὶ τούτου διεξελθεῖν. Ἀκαδημίαι δὲ γεγόνασιν, ὡς φασὶ πλείους [ἢ],<br />

τρεῖς, μία μὲν καὶ ἀρχαιοτάτη ἡ τῶν περὶ Πλάτωνα, δευτέρα δὲ καὶ μέση ἡ τῶν περὶ<br />

Ἀρκεσίλαον τὸν ἀκουστὴν Πολέμωνος, τρίτη δὲ καὶ νέα ἡ τῶν περὶ Καρνεάδην καὶ<br />

Κλειτόμαχον· ἔνιοι δὲ καὶ τετάρτην προστιθέασι τὴν περὶ Φίλωνα καὶ Χαρμίδαν, τινὲς δὲ<br />

καὶ πέμπτην καταλέγουσι τὴν περὶ [τὸν] Ἀντίοχον.<br />

Cfr. Polemo fr. 5, 79 Gigante; Arcesilaus F. 1 Mette.<br />

Traduzione<br />

Come differiscono la filosofia academica e lo scetticismo?<br />

Alcuni dicono che la filosofia academica è la stessa cosa dello scetticismo, perciò sarebbe<br />

44


coerente occuparsi anche di questa questione. Ci sono state, come dicono, tre Academie: la<br />

prima, la più antica, quella dei discepoli di Platone; la seconda, quella di mezzo, è quella dei<br />

discepoli di Arcesilao, l'allievo di Polemone; la terza, quella nuova, è quella dei discepoli di<br />

Carneade e Clitomaco. Alcuni aggiungono una quarta, l'Academia di Filone e Carmida e<br />

alcuni riconoscono come quinta quella di Antioco.<br />

T. 27 : ATHENAEUS, DEIPNOSOPHISTAE II 44E.<br />

Πολέμων δ' ὁ Ἀκαδημαικὸς ἀρξάμενος ἀπὸ τριάκοντα ἐτῶν ὑδροπότησε μέχρι<br />

θανάτου, ὡς ἔφη Ἀντίγονος ὁ Καρύστιος.<br />

cfr. Polemo fr. 49 Gigante.<br />

Traduzione<br />

Polemone l'Academico bevve acqua a partire da trent'anni fino alla morte, come dice<br />

Antigono di Caristo.<br />

T. 28 : ATHENAEUS, DEIPNOSOPHISTAE X, 419 C.<br />

Ἀρίστων δ' ὁ φιλόσοφος ἐν Ἐρωτικῶν Ὁμοίων δευτέρῳ Πολέμωνά φησι τὸν<br />

Ἀκαδημαικὸν παραινεῖν τοῖς ἐπὶ δεῖπνον πορευομένοις φροντίζειν ὅπως ἡδὺν<br />

πότον ποιῶνται μὴ μόνον εἰς τὸ παρόν, ἀλλὰ καὶ εἰς τὴν αὔριον.<br />

Cfr. Polemo fr. 51 Gigante; Aristo Ceus fr. 24 Wehrli.<br />

Traduzione<br />

Il filosofo Aristone, nel secondo libro delle Affinità erotiche, riferisce che l'Academico<br />

45


Polemone raccomandava a chi si recava a un banchetto di regolarsi in modo tale che le bevute<br />

fossero piacevoli non solo nel presente, ma anche il giorno dopo.<br />

T. 29 : PSEUDO-GALENUS, DE HISTORIA PHILOSOPHICA, 3 (DIELS, DOX. P. 599, 11 SQQ., MEKLER P.<br />

114).<br />

τοίνυν μάλιστα διενηνοχὼς τῶν ἄλλων ἐπὶ φιλοσοφίαν ἐλθόντων,<br />

ὡς ἂν φαίη τις, ἀνεπίφθονον τὴν Σωκρατικὴν μαρτυρίαν παρεσχηκὼς τῆς ἀρχαίας<br />

λεγομένης ἀκαδημίας κατῆρξε [διαβεβοημένος]. μὲν οὖν χρόνον τινὰ<br />

βραχὺν ἐπὶ τῆς αὐτοῦ αἱρέσεως διαμεμενηκὼς, ἀρθριτικοῖς δὲ νοσήμασι περιπεσὼν<br />

ἀντ' αὐτοῦ κατέστησε τῶν δογμάτων ἐξηγητήν. μετὰ<br />

δὲ τοῦτον † ἐπεὶ καὶ ἦν αὐτὸς ἐπὶ τοὺς λόγους τοῦ καὶ<br />

γέγονε καθηγητής, εἰς ὃν κατέληξεν ἡ ἀρχαία ἀκαδημία. τοῦ δὲ<br />

ἀκουστὴς ἦν , ὃς τὴν μέσην ἀκαδημίαν ἐπινενόηκεν,<br />

ἥτις μέχρις ἐπιμεμένηκεν. τούτου δὲ κατέστη διάδοχος,<br />

τῆς νέας ἀκαδημίας τὰς ἀρχὰς συνεώρακεν· ἧς μετέσχεν. εἰσὶ<br />

δὲ πρὸς ταύταις πάσαις ἀκαδημίαι δύο νεώτεραι, ὧν τῆς μὲν προτέρας προέστη<br />

, δὲ τῆς ἐφεξῆς.<br />

Cfr. Polemo fr. 6 Gigante; Speusippus T 12 Tarán ; fr. 19 IP ; Xenocrates fr. 253 IP ; Krantor T. 4B Mette;<br />

Arcesilaus T. 4B Mette.<br />

Traduzione 13<br />

Platone dunque superò di molto gli altri che si diedero alla filosofia e, come si potrebbe dire,<br />

rese superiore all'invidia la testimonianza socratica : egli fu l'iniziatore dell'Academia<br />

cosiddetta antica. Speusippo poi rimase per breve tempo nella stessa scuola ; ben presto,<br />

afflitto da mali artritici, pose al suo posto Senocrate come interprete delle dottrine platoniche.<br />

A questo succedette Polemone, che si dedicò anche lui all'esegesi della filosofia platonica ;<br />

egli fu maestro di Crantore, con il quale si chiude l'Academia antica. Discepolo di Crantore fu<br />

13 tr.it. a cura di L. Torraca (I dossografi greci, Padova 1961), p. 379, leggermente modificata.<br />

46


Arcesilao, che fondò l'Academia di mezzo, che durò fino ad Egesino. Successore di quello fu<br />

Carneade, che diede inizio all'Academia nuova. A questa appartenne Clitomaco. Oltre a tutte<br />

queste vi sono ancora due Academie più recenti, di cui la prima ebbe come scolarca Filone, la<br />

successiva Antioco.<br />

T. 30 : DIOGENES LAERTIUS, VITAE PHILOSOPHORUM I, 14.<br />

Kαταλήγει δὲ ἡ μὲν εἰς Κλειτόμαχον καὶ Χρύσιππον καὶ Θεόφραστον [ἡ Ἰωνική]· ἡ<br />

δὲ Ἰταλικὴ εἰς Ἐπίκουρον. Θαλοῦ μὲν γὰρ Ἀναξίμανδρος, οὗ Ἀναξιμένης, οὗ<br />

Ἀναξαγόρας, οὗ Ἀρχέλαος, οὗ Σωκράτης ὁ τὴν ἠθικὴν εἰσαγωγών· οὗ οἵ τε ἄλλοι<br />

Σωκρατικοὶ καὶ Πλάτων ὁ τὴν ἀρχαίαν Ἀκαδήμειαν συστησάμενος· οὗ Σπεύσιππος<br />

καὶ Ξενοκράτης, οὗ Πολέμων, οὗ Κράντωρ καὶ Κράτης, οὗ Ἀρκεσίλαος ὁ τὴν μέσην<br />

Ἀκαδήμειαν εἰσηγησάμενος· οὗ Λακύδης ὁ τὴν νέαν Ἀκαδήμειαν φιλοσοφήσας· οὗ<br />

Καρνεάδης, οὗ Κλειτόμαχος. καὶ ὧδε μὲν εἰς Κλειτόμαχον.<br />

cfr. Polemo fr. 1 Gigante; Speusippus T 13 Tarán; Krantor T. 4C Mette; Arcesilaus T. 4C Mette.<br />

Traduzione<br />

La filosofia ionica termina con Clitomaco, Crisippo e Teofrasto ; quella italica, invece, con<br />

Epicuro. Discepolo di Talete fu Anassimandro, del quale fu discepolo Anassimene, di cui fu<br />

discepolo Anassagora, di cui fu discepolo Archelao, di cui fu discepolo Socrate, che<br />

introdusse l'etica. Di lui furono discepoli gli altri socratici e Platone, il quale fondò l'antica<br />

Academia ; suoi allievi furono Speusippo e Senocrate, di cui fu allievo Polemone, di cui<br />

furono allievi Crantore e Cratete, di cui fu allievo Arcesilao, che inaugurò l'Academia di<br />

mezzo ; di lui fu allievo Lacide, che diede inizio alla filosofia della nuova Academia. Di<br />

Lacide fu discepolo Carneade, del quale fu discepolo Clitomaco. E così la filosofia ionica<br />

finisce con Clitomaco 14 .<br />

14 v. il commentario di Tarán (1981), p. 212, il quale sostiene che « so far as the Old Academy is concerned this<br />

is the standard version of "successions" ». La testimonianza deve essere però messa in relazione con le altre<br />

attestazioni della medesima tradizione, tenendo conto delle varianti, più o meno significative che subisce la<br />

nomenclatura adottata per designare le varie fasi della storia dell'Academia : cfr. T. 26 = Sext.Emp., PH I,<br />

220 ; T. 29 = Pseudo-Galenus, Hist. Philos. 3 (Diels (1879), p.599, 14-17)) ; T. 35 = Suidas, s.v. Pla/twn ; T.<br />

47


T. 31 : DIOGENES LAERTIUS, VITAE PHILOSOPHORUM VII, 2 ; 20 ; 25 ; 162.<br />

Διήκουσε δέ, καθάπερ προείρηται, Κράτητος· εἶτα καὶ Στίλπωνος ἀκοῦσαί φασιν<br />

αὐτὸν καὶ Ξενοκράτους ἔτη δέκα, ὡς Τιμοκράτης ἐν τῷ Δίωνι· ἀλλὰ καὶ Πολέμωνος.<br />

---<br />

λέγοντος δέ τινος αὐτῷ περὶ Πολέμωνος ὡς ἄλλα προθέμενος ἄλλα λέγει,<br />

σκυθρωπάσας ἔφη, “πόσου γὰρ ἠγάπας τὰ διδόμενα;”<br />

---<br />

ἤδη δὲ προκόπτων εἰσῄει καὶ πρὸς Πολέμωνα ὑπ' ἀτυφίας, ὥστε φασὶ λέγειν<br />

ἐκεῖνον, “οὐ λανθάνεις, ὦ Ζήνων, ταῖς κηπαίαις παρεισρέων θύραις καὶ τὰ δόγματα<br />

κλέπτων Φοινικικῶς μεταμφιεννύς.”<br />

---<br />

Παραβαλὼν δὲ Πολέμωνι, φησὶ Διοκλῆς ὁ Μάγνης, μετέθετο, Ζήνωνος ἀρρωστίᾳ<br />

μακρᾷ περιπεσόντος.<br />

cfr. Polemo fr. 85 ; 87 ; 88 ; 93 Gigante.<br />

Traduzione<br />

Come si è detto, Zenone fu discepolo di Cratete ; poi si dice che abbia seguito le lezioni di<br />

Stilpone e quelle di Senocrate per dieci anni, come riporta Timocrate nel Dione ; nonché<br />

quelle di Polemone.<br />

---<br />

Siccome uno gli diceva (scil. a Zenone) a proposito di Polemone, che, dopo aver annunciato<br />

un argomento, ne svolgeva un altro, si rabbuiò e disse : « che apprezzamento davi degli<br />

argomenti proposti ? »<br />

---<br />

41 = Cic., Ac.libri I, 34-35; le testimonianze offrono una prova cumulativa dell'associazione tra la divisione<br />

in più fasi della storia dell'Academia e l'esautorazione dell'impostazione 'scettica' di Arcesilao come una<br />

innovazione rispetto alla prima fase di 'fedele esegesi' nella storia della scuola di Platone. Il potenziale<br />

polemico e propagandistico di questo tipo di testimonianze non deve allora essere sottovaluto.<br />

48


Quando ormai aveva fatto buoni progressi, privo com'era di presunzione, entrò anche alla<br />

scuola di Polemone. Per questo Polemone disse : « non mi sfugge Zenone che sei venuto da<br />

me passando attraverso la porta del giardino e, rubando le dottrine, cambi loro d'abito,<br />

rivestendole alla fenicia ».<br />

---<br />

Dopo aver incontrato Polemone, dice Diocle di Magnesia, Aristone cambiò orientamento<br />

proprio quando Zenone era caduto in una lunga malattia.<br />

T. 32 : EUSEBIUS / HIERONYMUS, CHRONICON, OL. 127,3 (P. 130, 21).<br />

Polemon philosophus moritur, post quem Arcesilas et Crates habentur.<br />

Addenda polemonea ; Arcesilas T. 4F Mette.<br />

Traduzione<br />

Polemone il filosofo mori; dopo di lui si considerano Arcesilao e Cratete.<br />

T. 33 : EUSEBIUS, PRAEPARATIO EVANGELICA XIV 4, 13-16.<br />

Καὶ τοὺς αὐτοῦ δὲ τοῦ Πλάτωνος διαδόχους φέρε τῷ λόγῳ θεωρή-<br />

σωμεν. Πλάτωνά φασιν ἐν Ἀκαδημίᾳ συστησάμενον τὴν διατριβὴν πρῶτον<br />

Ἀκαδημαϊκὸν κληθῆναι καὶ τὴν ὀνομασθεῖσαν Ἀκαδημαϊκὴν φιλοσοφίαν συστήσασθαι.<br />

μετὰ δὲ Πλάτωνα Σπεύσιππον τὸν ἐξ ἀδελφῆς Πλάτωνος, τῆς Ποτώνης, εἶτα<br />

Ξενοκράτην, ἔπειτα Πολέμωνα τὴν διατριβὴν ὑποδέξασθαι. τούτους δὲ ἀφ' ἑστίας<br />

ἀρξαμένους εὐθὺς τὰ Πλατωνικά φασι παραλύειν, στρεβλοῦντας τὰ τῷ διδασκάλῳ<br />

φανέντα ξένων εἰσαγωγαῖς δογμάτων, ὥστε σοι μὴ εἰς μακρὸν ἐλπίζειν τὴν τῶν<br />

θαυμαστῶν ἐκείνων διαλόγων ἰσχὺν ἀποσβῆναι ἅμα τε τῇ τοῦ ἀνδρὸς τελευτῇ καὶ τὴν<br />

τῶν δογμάτων διαδοχὴν συναποτελευτῆσαι, μάχης ἐντεῦθεν καὶ στάσεως ἀπὸ τῶνδε<br />

49


ἀρξαμένης, οὔποτε καὶ εἰς δεῦρο διαλειπούσης, τοὺς τὰ αὐτῷ φίλα ζηλοῦν<br />

ἀσπαζομένους οὐδένας μὲν οὐδὲ ὄντας, πλὴν εἰ μὴ εἷς που ἢ δεύτερος ἐν ὅλῳ τῷ βίῳ ἢ<br />

καί τινες ἄλλοι κομιδῇ βραχεῖς τὸν ἀριθμόν, οὐδ' αὐτοὶ πάμπαν ἀλλότριοι τῆς<br />

ἐπιπλάστου σοφιστείας· ἐπεὶ καὶ οἱ πρόσθεν τὸν Πλάτωνα διαδεξάμενοι τοιοίδε τίνες<br />

διαβέβληνται. Πολέμωνα γάρ φασι διαδέξασθαι Ἀρκεσίλαον, ὃν δὴ κατέχει λόγος<br />

ἀφέμενον τῶν Πλάτωνος δογμάτων ξένην τινὰ καί, ὥς φασι, δευτέραν συστήσασθαι<br />

Ἀκαδημίαν.<br />

Cfr. Polemo frr. 38, 84 Gigante; Speusippus fr. 31 IP = T. ? Tarán; Xenocrates fr. 78 IP.<br />

Traduzione<br />

Esaminiamo anche nel discorso i successori di Platone stesso. Si dice che Platone,<br />

avendo fondato la sua scuola nell'Academia, per primo venne chiamato 'academico' e fondò la<br />

filosofia chiamata 'academica'. Dopo Platone, Speusippo, figlio di sua sorella Potone, poi<br />

Senocrate, poi Polemone presero la direzione della scuola. Cominciando dalle loro mense, si<br />

misero subito ad eliminare gli elementi platonici, a torturare le opinioni del maestro,<br />

introducendovi dottrine estranee, tanto che non ti ci vorrà molto per immaginare che la forza<br />

di questi meravigliosi dialoghi si spense e che alla morte di quel grande uomo morì anche il<br />

suo patrimonio dottrinale, poiché a partire da quel momento fu all'origine di battaglie e<br />

divisioni ininterrotte fino ai giorni nostri, non essendoci nessuno che contasse qualcosa che<br />

desiderasse emulare le dottrine a lui care, forse uno o due in tutto l'arco della sua vita, in<br />

compagnia di qualche altro forse, pochi di numero, e non completamente esenti loro stessi<br />

dalla falsità sofistica. In seguito quei tali successori di Platone vennero criticati. Si dice infatti<br />

che Arcesilao succedette a Polemone, il quale si separò dalla dottrina platonica per fondare<br />

un'Academia nuova, la seconda, stando a quanto si dice.<br />

T. 34 : AUGUSTINUS, CONTRA ACADEMICOS III 17, 38.<br />

Haec et alia huiusmodi mihi videntur inter successores eius (i.e. Platonis), quntum poterant, esse servata, et<br />

pro mysteriis custodita. Non enim aut facile ista percipiuntur, nisi ab eis qui se ab omnibus vitiis mundantes,<br />

50


in aliam quamdam plus quam humanam consuetudinem vindicaverint; aut non graviter peccat quisquis ea<br />

sciens quoslibet homines docere voluerit.<br />

Itaque Zenonem principem Stoicorum, cum iam quibusdam auditis et creditis in scholam<br />

relictam a Platonem venisset, quam tunc Polemo retinebat, suspectum habitum suspicor<br />

nec talem visum, cui Platonica illa velut sacrosanta decreta facile prodi commitique<br />

deberent, priusquam dedidicisset ea, quae in illam scholam ab aliis accepta detulerat.<br />

Moritur Polemo, succedit ei Archesilas Zenonis quidem condiscipulus, sed sub Polemonis<br />

magisterio. Quamobrem cum Zeno sua quadam de mundo, et maxime de anima, propter quam vera<br />

philosophia vigilat, sententia delectaretur, dicens eam esse mortalem, nec quidquam esse praeter hunc<br />

sensibilem mundum, nihilque in eo agi, nisi corpore; nam et Deum ipsum ignem putabat: prudentissime<br />

atque utilissime mihi videtur Archesilas, cum illud late serperet malum, occultasse penitus<br />

Academiae sententiam, et quasi aurum inveniendum quandoque posteris obruisse. Quare<br />

cum in falsas opiniones ruere turba si pronior, et consuetudine corporum omnia corporea<br />

facillime, sed noxie credatur; instituit vir acutissimus atque humanissimus, dedocere potius<br />

quos patiebatur male doctos quam docere quos dociles non arbitrabatur. Inde illa omnia<br />

nata sunt quae novae Academiae tribuuntur, quia eorum necessitatem veteres non<br />

habebant.<br />

Cfr. Polemo frr. 56, 80, 91 Gigante<br />

Traduzione<br />

Ritengo che tali dottrine ed altre simili furono conservate esclusivamente tra i suoi successori,<br />

per quanto possibile, e difese con dottrina esoterica 15 . Infine o esse non sono intese<br />

agevolmente se non da coloro che, purificandosi da tutti i vizi, si ritraggono, in una specie di<br />

associazione di spiriti eletti ovvero non commette grave colpa chi conoscendole le vorrà<br />

insegnare a qualsiasi uomo. Ed ecco la mia ipotesi. Zenone, capo degli Stoici, entrò nella<br />

scuola fondata da Platone e allora diretta da Polemone dopo che era stato uditore e seguace di<br />

alcuni filosofi. Ma fu ritenuto sospetto e non stimato tale che si potessero liberamente<br />

manifestare e affidare come leggi sacre le dottrine platoniche. Prima doveva dimenticare le<br />

teorie che, derivate da altri, aveva introdotto nell'Academia. Muore Polemone e gli succede<br />

Arcesilao, condiscepolo di Zenone mentre era uditore di Polemone. Zenone stava formulando<br />

una sua tesi sul mondo e in particolare sull'anima, a favore della quale veglia la vera filosofia.<br />

15 Il testo si inserisce nel contesto di una più ampia discussione storico-critica sull'esoterismo dell'Accademia<br />

(17, 37- 19, 41).<br />

51


Affermava che essa è mortale e che non v'è se non questo mondo sensibile e che in esso non<br />

compie attività alcuna se non mediante il corpo. Pensava perfino che anche dio fosse fuoco. Il<br />

male cominciava a diffondersi. Mi pare quindi attendibile che Arcesilao, con singolare<br />

avvedutezza e capacità organizzativa, occultasse del tutto la vera dottrina dell'Academia e che<br />

la sotterrasse come oro da trovarsi più tardi dai posteri. Ora la moltitudine è più incline a<br />

cadere in false opinioni e per il continuo contatto con la materia si finisce col credere,<br />

facilmente ma dannosamente, che tutte le cose siano corporee. Egli dunque, uomo assai<br />

intelligente e colto, decise di far disimparare piuttosto a coloro che doveva tollerare come<br />

male istruiti anziché fare imparare a coloro che reputava meno capaci d'istruirsi. Da qui<br />

provennero tutte le tesi che si attribuiscono alla Nuova Academia. I predecessori non ne<br />

avevano bisogno.<br />

T. 35 : SUIDAS, LEXICON, s.v. : Βάρος; Διογένης; Δώριος; Ζήνων; Ξενοκράτης; Πλάτων;<br />

Πολέμων; Ὑπόχυτος οἶνος.<br />

Βάρος·<br />

περὶ Πολέμωνος· ἦν δὲ καὶ τὸ βάρος οἱονεὶ Δώριός τις οἰκονομία.<br />

Διογένης·<br />

ὄνομα φιλοσόφου, τοῦ καὶ Κυνός. τί χρὴ περὶ τῆς ἀνδρείας Διογένους<br />

λέγειν, τῆς πραότητος Ξενοκράτους, τῆς Ἀριστοτέλους εὐμουσίας, τῆς Θεοφράστου<br />

βαρύτητος, Ζήνωνος τῶν αὐστηρῶν καὶ γενναίων τρόπων, Πλάτωνος σεμνότητος,<br />

Πολέμωνος ἐγκρατείας· τούτων γὰρ οὐκ ἔστιν ὅστις οὐ πάντα ἀγαθὸς ὢν διέφερεν<br />

ὅμως τοῦ πλησίον καταπολύ.<br />

Δώριος·<br />

ὄνομα κύριον. καὶ τήν τε ἀκακίαν καὶ τὸν αὐχμὸν ὁ<br />

Πολέμων ἐνεδέδυτο Ξενοκράτους καὶ τὸ βάρος, οἱονεὶ Δώριος οἰκονομία.<br />

Ζήνων·<br />

(...) μαθητὴς δὲ ἦν Κράτητος τοῦ Κυνικοῦ, εἶτα Πολέμωνος τοῦ Ἀθηναίου.<br />

Ξενοκράτης·<br />

Ἀγάθωνος ἢ Ἀγαθάνορος, Χαλκηδόνιος, μαθητὴς καὶ διάδοχος μετὰ<br />

Σπεύσιππον Πλάτωνος· τοῦ δὲ Πολέμων, τοῦ δὲ Κράντωρ.<br />

52


Πλάτων·<br />

(…) ἐπρίατο δὲ αὐτὸν Ἀννίκερίς τις Λίβυς καὶ ἀφῆκε. διέτριβε δὲ ἐν τῇ<br />

Ἀκαδημίᾳ παιδεύων· καὶ διεδέξαντο τὴν σχολὴν αὐτοῦ καθ' ἕνα οἵδε· Σπεύσιππος,<br />

Ξενοκράτης, Πολέμων, Κράντωρ, Κράτης. οἱ δὲ Σωκρατίδες, Ἀρκεσίλαος, Λακύδης,<br />

Εὔανδρος Φωκαεύς, Δάμων, Λεοντεύς, Μοσχίων, Εὔανδρος Ἀθηναῖος, Ἡγησίνους,<br />

Καρνεάδης, Ἁρμάδας.<br />

Πολέμων·<br />

Φιλοστράτου ἢ Φιλοκράτους, Ἀθηναῖος, φιλόσοφος, μαθητὴς<br />

Ξενοκράτους τοῦ Πλάτωνος διαδόχου καὶ αὐτὸς ἡγησάμενος τῆς Ἀκαδημίας.<br />

ἐγεγόνει δὲ σφόδρα ἄσωτος· εἶτα ἐφιλοσόφησε. καὶ πολλὰ μὲν συνέγραψε βιβλία,<br />

οὐδὲν δὲ αὐτοῦ φέρεται. ἔχαιρε δὲ Ὁμήρῳ τε καὶ Σοφοκλεῖ καὶ ἴσως ἔχειν ἑκάτερον<br />

αὐτῶν σοφίας ἔλεγεν· ὥστε καὶ φάσκειν Ὅμηρον μὲν Σοφοκλέα ἐπικόν, Σοφοκλέα<br />

δὲ Ὅμηρον τραγικόν.<br />

Ὑπόχυτος οἶνος·<br />

ὁ γλυκύς. ἦν δὲ ὁ Πολέμων ὁ φιλόσοφος οὐ γλυκὺς οὐδ' ὑπόχυτος,<br />

ἀλλὰ Πράμνιος.<br />

v. Polemo fr. 105 ; 106 ; 104 ; 86 ; 36 ; 2 ; 12 ; 17 ; 95 ; 119 ; 118 Gigante. v. T. 2 = DL IV, 16-20. La Suda<br />

riprende lemmi tratti da altre fonti, in questo caso la dipendenza dal testo di Diogene Laerzio è evidente.<br />

Traduzione<br />

: riguardo a Polemone. Gli apparteneva anche la gravità tipica del modo dorico.<br />

: nome di filosofo, anche del Cinico. Cosa bisogna dire del coraggio di Diogene,<br />

della mitezza di Senocrate, della cultura di Aristotele, della gravità di Teofrasto, dei modi<br />

austeri e nobili di Zenone, dell'assennatezza di Platone, della continenza di Polemone ? Tra<br />

questi infatti pur essendo tutti degni di stima non vi è nessuno che non differisca per lo più dal<br />

suo vicino.<br />

: nome autorevole. E modo dorico. Polemone fece proprie la sincerità e l'austerità di<br />

Senocrate, tipici del modo dorico 16 .<br />

16 v. p. 70, sul riferimento al « modo dorico » come topos socratico.<br />

53


: (…) fu discepolo di Cratete cinico, poi di Polemone ateniese.<br />

: figlio di Agatone o Agata(e)nore, di Calcedonia, fu discepolo e successore dopo<br />

Speusippo di Platone ; suo discepolo fu Polemone, e di questo Crantore.<br />

: (…) lo comprava un certo Anniceride libico e lo affrancava ; passava il tempo<br />

insegnando ai giovani nell'Academia ; e gli succedevano alla guida della scuola nell'ordine :<br />

Speusippo, Senocrate, Polemone, Crantore, Cratete, Socratide, Arcesilao, Lacide, Evandro di<br />

Focea, Damone, Leonteo, Moschione, Evandro ateniese, Egesino, Carneade, (C)Armada.<br />

: figlio di Filostrato o Filocrate, ateniese, filosofo, discepolo di Senocrate<br />

successore di Platone e lui stesso diresse l'Academia. Era stato dissoluto all'eccesso ; poi<br />

cominciò a fare filosofia. Scrisse anche molti libri, nessuno tramandatoci. Amava Omero e<br />

Sofocle e diceva di loro che avevano uguale sapienza ; tanto da affermare che Omero è il<br />

Sofocle dell'epica e Sofocle, l'Omero della tragedia.<br />

: mosto, il filosofo Polemone non era né mosto, né miscela, ma puro vino di<br />

Pramno.<br />

54


Il bios di Polemone<br />

Fonti principali, elementi della narrazione e cronologia<br />

Premessa metodologica<br />

Le fonti biografiche antiche, considerate le loro caratteristiche specifiche, impongono un<br />

approccio estremamente cauto, qualora si intenda impiegarle ai fini di una ricostruzione<br />

storico-filosofica. I vari generi della letteratura biografica antica, le sue possibili origini ed<br />

evoluzioni, hanno attirato l’attenzione degli studiosi non solo per la rilevanza letteraria del<br />

genere, ma anche per la complessità e polimorficità della loro natura. Quali testi considerare<br />

come primi esemplari del genere? Qual è la relazione tra biografia e autobiografia? Quali<br />

interessi o scopi soggiacciono ai resoconti biografici? Questi sono solo alcuni degli<br />

interrogativi ricorrenti in quest’ambito. Per quanto riguarda l’oggetto della presente indagine<br />

è opportuno constatare che le biografie dei filosofi sollevano una serie di problematiche<br />

specifiche, ulteriormente complicate dal fatto che lo sviluppo della biografia come genere<br />

letterario sembra esser avvenuto nel mondo antico in stretto rapporto con la filosofia. Basti<br />

considerare che la trasmissione del pensiero di Socrate è avvenuta esclusivamente attraverso<br />

racconti di tipo biografico sulle sue abitudini quotidiane e sugli anedotti caratterizzanti la sua<br />

vita. La proliferazione di materiale aneddotico come veicolo di un'istanza filosofica è<br />

altrettanto evidente nelle testimonianze sulla filosofia cinica. In seguito, secondo la communis<br />

opinio, Aristotele e la sua scuola avrebbero contribuito alla fioritura del genere letterario<br />

attraverso la collezione e sistematizzazione di materiale biografico. La relazione tra il Peripato<br />

in particolare e l'evoluzione della biografia come genere letterario ha interessato<br />

abbondantemente la critica 17 . In questa sede ci limiteremo a ricordare quali caveat specifici si<br />

impongano nel caso delle biografie dei filosofi: qualora la biografia di un filosofo sia stata<br />

redatta da un esponente di una delle varie scuole filosofiche del periodo ellenistico è doveroso<br />

domandarsi in che modo la prospettiva filosofica dell’autore abbia influito sulla costruzione<br />

del resoconto biografico, vale a dire quanto un intento polemico o elogiativo abbia<br />

17 Un valido orientamento in questa materia è fornito da Momigliano (1971). Si vedano inoltre gli studi di Leo<br />

(1901); Dihle (1956); Lefkowitz (1981); e le interessanti osservazioni sul metodo di ricavare notizie<br />

"biografiche" dai testi dei poeti, associato al peripatetico Cameleonte in Arrighetti (1987).<br />

55


determinato il taglio dato ad un materiale biografico potenzialmente neutro. Al di fuori di<br />

questi casi, invece, è del tutto incerto quale debba essere l’assunto generale di partenza,<br />

ovvero quale sia l’interesse dell’autore, il suo pubblico di riferimento, le modalità di<br />

elaborazione del bios di un filosofo. In particolare il materiale aneddotico sembra aver avuto<br />

un'importanza non solo letteraria, ma anche filosofica, che oggi non risulta più<br />

immediatamente accessibile. In tutte le storie che hanno per protagonisti i filosofi cinici, per<br />

esempio, l'aneddoto di vita e l'aforisma filosofico sono un tutt'uno 18 , ma questo non significa<br />

che ogni resoconto biografico tenti di veicolare in modo obiettivo l'istanza filosofica del<br />

personaggio rappresentato.<br />

Estrarre elementi di rilevanza filosofica dai resoconti biografici dei filosofi antichi è possibile<br />

allora nella misura in cui si prenda atto della natura non necessariamente 'storico-filosofica' di<br />

una biografia nel mondo antico. La biografia di un filosofo non viene redatta necessariamente<br />

con lo scopo di costituire il veicolo della riflessione teorica del personaggio in oggetto, come<br />

del resto la biografia di un poeta non è l’esposizione delle peculiarità stilistiche e letterarie<br />

delle opere del poeta ; essa piuttosto tende a fornire un’immagine del personaggio in<br />

questione di tutt’altro genere, mettendone in risalto gli aspetti concreti della vita, piuttosto che<br />

gli aspetti teorici complessi. O almeno questo sembra essere il caso delle fonti che ci troviamo<br />

a considerare in questa sede. In generale il personaggio di un filosofo va considerato<br />

all’interno di un resoconto biografico innanzitutto come una ‘figura testuale’ e non come<br />

l’‘autore’ di una dottrina filosofica.<br />

Ciò non significa che non può esservi in assoluto un principio filosofico o propriamente<br />

storico alla base della redazione di un resoconto biografico; significa piuttosto che in linea di<br />

principio un biografo può interessarsi alla vita di un filosofo senza l’obbligo di sobbarcarsi<br />

implicazioni filosofiche profonde. Si evita a partire da queste premesse di andare alla ricerca<br />

di tali implicazioni, laddove non vi siano chiari indizi della legittimità di questa operazione.<br />

Tuttavia, le scelte narrative adottate da un biografo, spesso tese a verificare la coerenza del<br />

personaggio, sono indicative di una determinata aspettativa generale nei confronti di simili<br />

soggetti; il resoconto biografico presenta la figura del filosofo, ponendosi in dialogo con una<br />

certa idea di esemplarità comportamentale ed emozionale, che la società antica sembra aver<br />

progressivamente elaborato come l'attributo proprio del filosofo 19 . Inoltre è interessante notare<br />

come il vocabolario adottato nelle descrizioni dell’attitudine di un filosofo rispecchi una<br />

determinata evoluzione linguistica: il campo semantico dell'impassibilità e del perfetto<br />

controllo su se stessi, ad esempio, diventa preminente nel vocabolario delle biografie del<br />

18 Cfr. Deleuze (1969), p. 183.<br />

19 Cfr. Sellars (2009), pp. 15-32.<br />

56


periodo ellenistico, tanto da lasciar credere che lo spessore filosofico della figura in oggetto<br />

venga giudicato prevalentemente in relazione a questo aspetto della sua attitudine<br />

comportamentale, senza prendere del resto seriamente in considerazione la particolare<br />

posizione che il personaggio assume filosoficamente in rapporto al concetto di 'passione',<br />

'emozione', 'impassibilità' etc. Infine le impressioni lasciate nella letteratura posteriore da<br />

elementi di tipo biografico risultano spesso, e in modo particolare nel caso della presente<br />

ricerca, persistenti e di lungo periodo, tanto da permettere di tracciare una storia delle<br />

associazioni letterarie e retoriche rispetto al nome del filosofo preso in considerazione, del<br />

tutto indipendente dalla storia della ricezione delle dottrine del medesimo filosofo.<br />

Le fonti<br />

Il IV libro delle Vite di Diogene Laerzio e l’Academicorum historia di Filodemo di Gadara<br />

sono le nostre fonti principali sulla vita di Polemone 20 . Tra i due testi sussistono strette<br />

consonanze dal punto di vista del contenuto e dell’ordine dell’esposizione: entrambi<br />

esordiscono con una descrizione della giovinezza dissoluta di Polemone, a cui fanno seguito<br />

l’episodio della ‘conversione’ alla filosofia, in conseguenza dell’incontro con Senocrate, e una<br />

descrizione ricca di particolari sul carattere moderato e impassibile del filosofo durante il<br />

resto della sua vita. Le affinità tra i testi dei due autori si estendono al di là del bios di<br />

Polemone e interessano ugualmente i resoconti biografici di tutto il gruppo di filosofi<br />

academici vissuti tra la fine del IV e l’inizio del III secolo a.C.: Crantore, Cratete e<br />

Arcesilao 21 . La critica è concorde nel considerare quale fonte comune di tali resoconti le<br />

Biografie di Antigono di Caristo 22 , autore vissuto nel III secolo a.C, che fu anche scultore e<br />

storico dell’arte. Gli studi di Tiziano Dorandi sul testo papiraceo di Filodemo di Gadara e sul<br />

quarto libro di Diogene Laerzio hanno consentito in epoca recente di riproporre una<br />

ricostruzione almeno parziale dell’opera di Antigono. Riesaminando ed integrando le ipotesi<br />

precedentemente formulate dalla critica, Dorandi ribadisce come il testo di Filodemo sembri<br />

riportare l’opera di Antigono in modo più vicino al modello rispetto a quello di Diogene 23 . In<br />

considerazione dunque dell’estensione e della qualità delle citazioni alla lettera attribuite<br />

esplicitamente ad Antigono nel testo di Filodemo 24 , l’ipotesi che appare più verosimile è<br />

20 D.L. IV, 16-20: tr. it. a cura di M. Gigante in Diogene Laerzio, Vite dei Filosofi, (“Biblioteca Universale<br />

Laterza” prima edizione accresciuta) Roma/Bari 1983; cfr. tr. fr. e ‘Introduction (au livre IV)’ a cura di T.<br />

Dorandi, in Diogène Laërce, Vies et Doctrines des Philosophes Illustres, Paris 1999, pp. 467-487 e pp. 503-<br />

506. Per la ricostruzione del testo e una traduzione dell’Academicorum Historia di Filodemo v. Dorandi<br />

(1991). Il testo del bios di Polemone occupa le colonne IV 25-45-XIII – XV.<br />

21 D.L. IV, 21-45; Philodemus, Acad. Hist., coll. XVI-S-R-Q-XVII-XVIII-XIX-XX.<br />

22 A partire da von Wilamowitz-Moellendorff (1881).<br />

23 Dorandi (1999), ‘Introduction’, pp. XI-LXXXI. v. anche Dorandi (1992), pp. 3761- 92.<br />

24 v. Philodemus, Acad. Hist., coll. IV, 25; IV, 39; XVI, 1-2; Q, 5-6.<br />

57


quella secondo cui Filodemo avrebbe lavorato a partire da un testo di Antigono di prima<br />

mano, mentre Diogene su una fonte intermedia in cui sarebbero confluite informazioni<br />

provenienti anche da altri autori 25 . Nel caso specifico del bios di Polemone, ad esempio, nel<br />

testo di Diogene Laerzio troviamo l’indicazione della data di inizio dello scolarcato « nella<br />

CXVI Olimpiade », la quale proverrebbe dal Chronicon di Apollodoro, e la notizia che<br />

Polemone era ‘innamorato’ di Senocrate, la quale viene esplicitamente attribuita da Diogene<br />

Laerzio al IV libro dell’opera Sulla sensualità degli antichi di uno pseudo-Aristippo 26 . Le<br />

fonti del bios di Polemone a nostra disposizione attingono dunque la maggior parte delle loro<br />

informazioni, anche se secondo modalità diverse, dall’opera di uno stesso autore, Antigono di<br />

Caristo, i cui resoconti biografici riscontrarono notevole successo nell’antichità 27 . Tale opera<br />

si presume sia stata composta da Antigono negli anni della sua vecchiaia, ripercorrendo sul<br />

filo della memoria i tratti più degni di nota della vita dei grandi filosofi appartenuti alla sua<br />

epoca, così come egli ne aveva fatto personalmente esperienza 28 . Ci rimangono di essa<br />

frammenti di varia estensione 29 dai bioi di Pirrone e Timone, rappresentanti di una posizione<br />

cosiddetta scettica 30 , degli academici Polemone, Crantore, Cratete, Adimanto d’Etolia 31 e<br />

Arcesilao, del peripatetico Licone, di Menedemo d’Eretreia, e degli stoici Zenone e Dionigi<br />

d’Eraclea. Gli elementi caratteristici dei bioi dei filosofi academici ancora accessibili a partire<br />

dai frammenti possono allora essere messi in risalto a partire dal confronto puntuale con i<br />

resoconti biografici degli altri personaggi di diverso orientamento filosofico.<br />

25 v. Dorandi (1999), p. XLV-XLVIII.<br />

26 v. Dorandi (2007), pp. 157-172.<br />

27 Cfr. von Wilamowitz-Moellendorff (1881), p. 127-129; Dorandi (1999), ‘Introduction’ pp. xxxiii ss.: Dorandi<br />

nota che il successo delle Biografie di Antigono di Caristo deve esser stato molto grande se si tiene conto<br />

della vasta influenza che hanno esercitato non solo sulle generazioni immediatamente posteriori ad Antigono,<br />

ma anche su Filodemo, Aristocle, Ateneo e Diogene Laerzio. Nel mondo romano è attestata la conoscenza dei<br />

bioi di Antigono da parte di Svetonio, v. G. Körtge, In Suetonii de viris illustribus libros inquisitionum capita<br />

tria, Dissertationes Philologae Halenses XIV, Halis Sax. 1901, pp. 268-272.<br />

28 von Wilamowitz-Moellendorff (1881), p.127 ritiene che Antigono avesse conosciuto personalmente<br />

Menedemo in Eretria e Polemone, Cratete e Crantore ad Atene, quando questi vivevano ancora tutti insieme,<br />

al più tardi intorno al 270 e Zenone e Pirrone nell’ultima parte della loro vita. Anche Dihle (1956), p.107 è<br />

convinto che Antigono selezioni i personaggi delle sue Biografie in base ad una personale esperienza delle<br />

eminenti personalità filosofiche del suo tempo. D’altro canto è stato rilevato dalla critica, sulla base di punti<br />

di convergenza tra Antigono e altre tradizioni biografiche, che spesso gli episodi narrati appartengono a storie<br />

‘di dominio pubblico’, diffuse presso più autori, v. Dorandi (1999), p. li.<br />

29 L’estensione e il numero di tali frammenti dopo il lavoro di Wilamowitz è stata riconsiderata da Dorandi. Al<br />

di là della citazione esplicita del nome del biografo, i frammenti di Antigono sono reperibili grazie alla<br />

convergenza e parziale sovrapposizione testuale tra Diogene Laerzio, Filodemo di Gadara e Ateneo.<br />

30 Si noti che l’aggettivo in senso tecnico è attestato per la prima volta solo nel II secolo d.C. ad uso<br />

del retore Favorino, v. Aulus Gellius, Noct. Att. XI, 5, per designare i filosofi pirroniani, ovvero quanti si<br />

richiamavano alla figura e all’insegnamento di Pirrone. Cfr. Pirrone T. 56 Decleva Caizzi.<br />

31 È incerto se l’episodio della vita di Adimanto di Etolia, discepolo di Senocrate, che Filodemo riconduceva a<br />

Antigono (Philod., Acad. Hist., col. R 1-11, secondo la ricostruzione di Gaiser delle linee 10-11: «<br />

» ) appartenga a un bios interamente dedicato a questo personaggio o se<br />

piuttosto fosse inserito all’interno del resoconto biografico di uno degli Academici già menzionati. Dorandi<br />

(1999), p. LIX, propende per la seconda tra queste ipotesi.<br />

58


Antigono su Pirrone e Timone<br />

Da un punto di vista generale si nota che i resoconti biografici su Pirrone e Timone<br />

contengono informazioni variamente articolate sulla vita dei due filosofi. Nel caso di Pirrone,<br />

Antigono forniva una descrizione vivida del suo modo di condursi. Difatti nella versione del<br />

bios offerta da Diogene Laerzio 32 leggiamo che Pirrone, uomo in origine senza reputazione<br />

( ) 33 , viveva appartato e in solitudine (), per esser<br />

stato influenzato dalle parole rivolte al suo maestro Anassarco da un saggio indiano a<br />

proposito dell’impossibilità di insegnar qualcosa di buono a qualcuno quando si frequenta la<br />

corte di un re. Egli manteneva sempre salda la propria attitudine<br />

(), senza interrompere il proprio discorso, anche se<br />

l’interlocutore lo piantava in asso nel bel mezzo, nonostante da giovane fosse stato di carattere<br />

irrequieto 34 . Se ne andava in giro vagabondando con chi più gli piacesse 35 e non si accorgeva<br />

di ciò che accadeva intorno: un giorno che il suo maestro Anassarco cadde in un pantano, egli<br />

gli passò accanto senza prestargli soccorso; Antigono riferisce inoltre che proprio il maestro<br />

lasciato in difficoltà lodava la sua indifferenza e la sua mancanza di attaccamento<br />

(), che nessuno disprezzava le sue ricerche filosofiche, in<br />

considerazione delle sue abilità sia nel discorso continuo (), sia nel<br />

domanda e risposta (). Molti, compresi Nausifane ed Epicuro, ammiravano la<br />

sua attitudine o il suo genere di vita<br />

() ; la sua patria lo fece gran<br />

sacerdote 36 e a causa sua esentò tutti i filosofi dal pagare imposte. In termini generali le<br />

stranezze comportamentali del filosofo vengono presentate come esempi di ricerca della virtù:<br />

« Sorpreso una volta a parlare a se stesso (), a chi gliene chiedeva la causa disse<br />

che si esercitava a essere virtuoso () ». Di particolare interesse per la<br />

critica è la testimonianza riconducibile ad Antigono sulla sfiducia radicale di Pirrone nei<br />

32 D.L. IX, 62-64= Antigone fr. 2A Dorandi = Pirrone T.10 Decleva Caizzi.<br />

33 L’indicazione di una origine umile non significa necessariamente un intento denigratorio. È da notare che<br />

l’accento posto su simili informazioni, se poste in relazione con il successivo dedicarsi alla filosofia di tali<br />

personaggi sembrano piuttosto mettere in risalto il radicale miglioramento nel genere di vita e argomentare a<br />

favore dell’accessibilità della filosofia da parte di tutti, senza distinzione d’origine sociale. Cfr. Gigon (1946),<br />

p. 1-21.<br />

34 D.L. IX, 63. Si noti la problematicità testuale di questo passo. La lacuna presente è stata colmata dagli<br />

editori attraverso congetture divergenti.<br />

35 Il motivo del ‘vagabondare in giro’ è tipico della descrizione del filosofo cinico, indifferente rispetto alle<br />

norme della vita comune. Cfr. Plinius, Nat. Hist. VII 2, 22. Per uno studio dei rapporti tra Pirrone e il<br />

cinismo, anche al di là di un piano strettamente storico, v. Brancacci (1981), pp. 211-242.<br />

36 Per un’interpretazione del rapporto tra l’attitudine generale di Pirrone e la carica di Gran Sacerdote<br />

attribuitagli dalla città di Elide v. Lévy (1997), pp. 5 e 12-13. Già Robin (1944), pp. 9-10, propone, come<br />

quadro di collocazione dell’attitudine indifferente di Pirrone, il suo contesto sociale cittadino d’appartenenza<br />

e ne sottolinea le differenze rispetto all’attitudine di Socrate.<br />

59


confronti delle sensazioni: «(Pirrone) si comportava in modo conseguente anche nella vita<br />

(), nulla scansando e da nulla guardandosi, stando saldo di fronte<br />

a tutto ( ), carri, se capitasse, precipizi o cani, nulla affatto concedendo ai<br />

sensi (). Ma veniva salvato, secondo quanto<br />

raccontano coloro che seguono Antigono di Caristo, dagli amici che lo accompagnavano» 37 . Il<br />

comportamento indifferente di Pirrone di fronte ai pericoli del mondo sta a dimostrare la<br />

coerenza tra la sua posizione filosofica e la sua vita. Tuttavia l’apprezzabile consequenzialità<br />

tra teoria e pratica nella figura di Pirrone non impedisce che riecheggino qua e là nel testo le<br />

risate della servetta tracia che deride Talete caduto nel pozzo. Se da un lato l’attitudine<br />

generale di Pirrone poteva essere sfruttata dalla tradizione scettica posteriore, in quanto<br />

descrizione della possibilità reale e concreta dello scetticismo, ci troviamo qui di fronte ad una<br />

almeno parziale critica di tale attitudine. L’immagine della cerchia di amici, che segue Pirrone<br />

ovunque vada per impedire che si faccia del male, di fatto contiene in sé qualche cosa di<br />

ridicolo, tant’è che Enesidemo, filosofo del I secolo a.C., impegnato nel recupero di un<br />

fondamento pirroniano per l’ scettica, fornirà un immagine del comportamento di<br />

Pirrone antitetica rispetto alla tradizione originatasi con Antigono 38 . Risalenti ad Antigono<br />

sono inoltre due aneddoti che rafforzano i dubbi sulla coerenza interna della figura di<br />

Pirrone 39 : l’uno narra che Pirrone inseguito da un cane si sia rifugiato sopra ad un albero e<br />

che agli spettatori che si prendevano gioco di lui abbia risposto con la celebre frase: « è cosa<br />

ardua trovar scampo dall’uomo »; l’altro invece racconta come Pirrone si fosse arrabbiato con<br />

sua sorella a proposito di un sacrificio da compiere e come, rimproverato da un amico, perchè<br />

non si comportava in accordo né con i suoi discorsi né con la sua impassibilità, abbia risposto:<br />

« È forse nei confronti di una donna che si deve dar prova di impassibilità? » 40 .<br />

Su Timone di Fliunte invece le informazioni provenienti da Antigono su base accertabile sono<br />

meno numerose, ma sappiamo almeno che, oltre alla ricchezza e varietà della produzione<br />

letteraria, veniva menzionato il fatto che Timone era amante dei giardini e si occupava<br />

principalmente dei propri affari<br />

37 D.L. IX 62; tr. it. a cura di Decleva Caizzi (1981b), v. T6 p. 31 e p. 85; v. commento pp. 150-156.<br />

38 Ivi. v. l’espressione « ». Enesidemo diceva invece che<br />

Pirrone « non agiva in ogni circostanza senza precauzioni () ».<br />

Per un vaglio critico delle diverse tradizioni che alla figura di Pirrone hanno fatto riferimento v. Decleva<br />

Caizzi (1981a).<br />

39 Aristocles ap. Eusebius, Praep. Evang. XIV, 18, 26; D.L. IX, 66 = Antigone frr. 4A e 4B Dorandi. Cfr.<br />

Pirrone T. 15A-15B Decleva Caizzi, commento p. 166, dove si sottolinea come “nell’insieme questi aneddoti<br />

non siano solo il frutto di tradizioni ostili e maligne” nella misura in cui “contribuiscono a chiarirci il senso<br />

della posizione di Pirrone”.<br />

40 È da notare che in Aristocle di Messene (ap. Eusebius) si fa riferimento all’ di Pirrone<br />

(« »), mentre in Diogene Laerzio il termine<br />

utilizzato è (« »), v. oltre.<br />

60


(« <br />

») 41 . Certo è che, se davvero Antigono intendeva presentare un punto di vista in qualche<br />

modo critico del genere di vita condotto da Pirrone, uno dei suoi principali interlocutori di<br />

parere quantomeno discordante era proprio Timone, il quale in certi contesti viene considerato<br />

il primo divulgatore 42 del pensiero e dello stile di vita di Pirrone. La critica ha già messo in<br />

risalto la polivalenza della figura di Pirrone nei testi delle fonti che si interessano alla sua<br />

figura 43 e risulta ormai evidente che il quadro fornito da Antigono si discosta ampiamente<br />

dall’«orizzonte metaforico arcaico e sacrale» 44 sul quale invece Timone poneva il proprio<br />

maestro. Che la costruzione antigonea del personaggio di Pirrone si sviluppi secondo linee<br />

opposte rispetto a quelle adottate dal discepolo Timone è chiaro già dall’andamento degli<br />

aneddoti che ad Antigono vengono fatti risalire e che mettono in scena un Pirrone in<br />

difficoltà, inseguito da un cane, spazientito dalla sorella, interpellato da un interlocutore<br />

esterno che punta il dito su una possibile contraddizione tra il comportamento concreto del<br />

filosofo e le sue dottrine.<br />

Antigono sugli academici<br />

Diversamente, le fonti dei bioi dei filosofi academici lasciano affiorare un'immagine<br />

complessivamente benevola delle figure di Polemone, Cratete, Crantore e Arcesilao, che<br />

potrebbe eventualmente suggerire una certa simpatia di Antigono per quest’ultimi. In via<br />

preliminare appare legittimo considerare i quattro filosofi academici come un gruppo<br />

compatto, piuttosto che come individualità singole a causa di certe indicazioni fornite dal<br />

biografo stesso: Polemone, Crantore, Cratete e Arcesilao sono detti aver vissuto in comune e<br />

in perfetta concordia l’uno con l’altro: « Cratete divideva la mensa presso Crantore e questi<br />

vivevano in perfetto accordo () anche con Arcesilao. Arcesilao abitava<br />

con Crantore e Polemone e Cratete insieme a un loro concittadino, Lisicle » 45 . Sempre per<br />

sottolineare la compattezza del gruppo Antigono menziona la scelta peculiare di avere tutti<br />

41 D.L. IX 110-112 = Antigone fr. 5-7 Dorandi. Nel testo di Diogene Laerzio si può anche leggere « Antigono<br />

dice che amava anche bere…» () e che nella sua produzione<br />

letteraria figuravano « versi osceni » (). Tuttavia alcuni editori (v. Wachsmuth (1885)) ritengono<br />

opportuno correggere con , «amico dei poeti»,in ragione del contesto, e<br />

con « Immagini », titolo di un opera di Timone che Diogene cita ai §§ 65 e 105. Cfr.<br />

Diogène Laërce, Vies et doctrines des philosophes illustres, Paris, 1999, pp. 1140, n. 4 e 7, a cura di J.<br />

Brunschwig.<br />

42 v. Di Marco (1989); Clayman (2009), recensito in Dorandi (2010). Si può considerare come decisivo il<br />

trasferimento di Timone ad Atene, centro di vivaci scambi culturali e accesi dibattiti filosofici, dove dimorò<br />

fino alla morte (v. D.L. IX, 110), v. Dal Pra (1950), pp.109-110. Su Timone “profeta” di Pirrone (Sextus<br />

Empiricus, Adv.math. I 53) v. anche Chiesara (2003), p. 35.<br />

43 Ferrari (1981), pp. 337-370.<br />

44 Ivi, p. 369.<br />

45 D.L. IV 22.<br />

61


una sepoltura comune, avvenuta inizialmente su proposta di Polemone e poi docilmente<br />

accettata da tutti. Secondo l’aneddoto 46 , Crantore che vagheggiava di essere sepolto in patria,<br />

di fronte al desiderio di Polemone risponde : « non mi sono mai apposto né prima, né ora ».<br />

La sepoltura comune di Polemone e Cratete viene presentata come il pendant nella morte<br />

della comunanza e assimilazione reciproca sperimentata in vita 47 . I quattro academici sono<br />

dunque il fulcro di una comunità compatta, che Antigono dichiara essere « ammirati dalla<br />

cittadinanza », senza esser « avidi del favore popolare » 48 , un modello dunque per la<br />

collettività. In particolare il bios di Polemone, come si vedrà in dettaglio, e quello di Arcesilao<br />

si soffermano sulla descrizione delle loro virtù e sull’ineccepibile genere di vita da loro<br />

condotto nell’Academia. In definitiva si può considerare la prospettiva generale adottata da<br />

Antigono in questo contesto attraverso il filtro del giudizio emesso da Arcesilao non appena<br />

entrato in contatto con il gruppo degli academici : Antigono riferisce che abbandonata la<br />

scuola di Teofrasto per frequentare l’Academia, Arcesilao disse che il gruppo composto da<br />

Polemone e i suoi discepoli, Cratete e Crantore, « gli apparvero come degli dèi o dei<br />

sopravviventi degli uomini dei tempi antichi, degli uomini della Razza d’oro » 49 .<br />

Antigono su Licone e Zenone<br />

Di tono decisamente opposto è quello che leggiamo a proposito del peripatetico Licone 50 . Se<br />

stiamo a quello che riporta Ateneo, autore di lingua greca vissuto tra il II e il III secolo d.C.,<br />

Antigono aveva fornito una dettagliata descrizione della predilezione di Licone per il lusso,<br />

per i banchetti e per le cortigiane. Appena arrivato ad Atene per la sua formazione per prima<br />

cosa si era informato del prezzo dei banchetti e delle tariffe delle etere. Poi anche quando si<br />

trovò alla testa del Peripato il suo gusto per i banchetti e per il lusso non venne meno, tanto<br />

che il Peripato veniva considerato un gruppo di dubbia moralità (« poli/teuma ponhro£n »<br />

(Athenaeus, XII, 547). Il giudizio sprezzante da parte di Antigono nei confronti della condotta<br />

di Licone traspare chiaramente. Le cerimonie e i sacrifici che scandivano la vita della scuola<br />

passano per momenti di fasto esagerato, che poco hanno a che fare con l'ideale di una vita<br />

filosofica: « Tutto ciò sembrava estraneo alla ragione e alla filosofia e più proprio alla lussuria<br />

46 v. Philod., Acad. Hist., col. XIV, 36-41; D.L. IV 19, 39-41.<br />

47 D.L. IV 21.<br />

48 D.L. IV 22.<br />

49 Philod., Acad. Hist. col. XV, 5-10 = Antigone fr. 9A Dorandi = Polemo fr. 61 Gigante; cfr. D.L. IV, 22 (‘Vita<br />

di Cratete’) = Antigone fr. 14 Dorandi. Dorandi suggerisce che la giusta collocazione di questo passaggio è in<br />

conclusione del bios di Polemone, piuttosto che in quello di Cratete, come si evince anche dal testo di<br />

Filodemo, v. Dorandi (1999), p. lvi e lxxvi. La rilevanza di questa testimonianza può essere valutata da<br />

molteplici punti di vista e un esame accurato verrà condotto più avanti; ci basta qui notare che essa testimonia<br />

di un atteggiamento senza dubbio favorevole nei confronti del gruppo di filosofi academici.<br />

50 Athenaeus XII, 547d-548b = Antigone fr. 23 Dorandi.<br />

62


e alle cerimonie » 51 . Ateneo sulla scia di Antigono lascia intendere che Licone è il pervertitore<br />

delle tradizioni istituite da Platone e Speusippo al fine di onorare gli dèi e riunirsi nel modo<br />

che conviene a persone dedite alla cultura. Il rapporto di Licone con il denaro è esplicitato a<br />

più riprese sia attraverso il riferimento ai nove oboli versati dai membri della scuola, che non<br />

bastano mai a coprire le spese dei suoi banchetti, sia attraverso la menzione della sua costosa<br />

ed elegante casa in città, dove c’era posto per venti letti da banchetto. Non c’è spazio alcuno<br />

in questi riferimenti per la descrizione di un’attitudine propriamente filosofica.<br />

A proposito invece dello stoico Zenone 52 , Antigono forniva numerose informazioni sulla sua<br />

dieta, sulle sue abitudini sessuali e sui rapporti che intratteneva con gli altri, alcune delle quali<br />

vengono significativamente impiegate da Ateneo nel contesto di una critica antistoica fondata<br />

sull’accusa di corruzione dei bambini e d’ipocrisia 53 . Diogene Laerzio, seguendo Antigono,<br />

riferisce che Zenone non rinnegò mai Cizio come sua patria, che la sua dieta era a base di<br />

piccoli pani, miele e un po’ di vino leggero e profumato, che aveva l’abitudine di andare con i<br />

giovinetti, ma una o due volte si rivolse a una prostituta « per non sembrare misogino ».<br />

Inoltre quando una volta il suo discepolo Perseo, con il quale condivideva l’alloggio, si trovò<br />

in imbarazzo, perché avrebbe voluto portare in casa una suonatrice di flauto assoldata durante<br />

un banchetto, Zenone reagì incoraggiandolo e chiudendoli insieme dentro casa 54 . Antigono<br />

riferiva anche il fatto che il filosofo stoico non amava la folla e che aveva rapporti amichevoli<br />

con il re di Macedonia, Antigono Gonata : « si dice che Zenone era capace di adattarsi a tutte<br />

le circostanze, tanto che il re Antigono si divertiva spesso insieme a lui e andavano insieme ai<br />

festini del citaredo Aristocle, ma dopo Zenone si appartava » 55 ; Il biografo riferiva inoltre un<br />

aneddoto su come Zenone si fosse comportato con un uomo particolarmente vorace che non<br />

lasciava niente ai compagni: un giorno che gli venne presentato da mangiare un grande pesce,<br />

lo prese come se volesse mangiarlo lui soltanto e all’uomo che lo guardava con stupore disse:<br />

« come credi che i tuoi compagni di vita supportino la tua voracità giorno dopo giorno se tu<br />

non puoi nemmeno tollerare la mia? » 56 . Quest’ultima testimonianza, così come si trova,<br />

staccata dal suo contesto di provenienza, si apre a differenti interpretazioni possibili e non è<br />

detto volesse esprimere un qualche giudizio sui metodi di insegnamento di Zenone e sul modo<br />

51 Athenaeus, XII, 548 a.<br />

52 Antigone frr. 32-39 Dorandi.<br />

53 v. Athenaeus XIII, 563 e ; 565 d = Antigone frr. 33A ; 37 Dorandi.<br />

54 Athenaeus XIII, 607e; D.L. VII, 13 = Antigone frr. 34A e 34B Dorandi.<br />

55 D.L. VII, 13-14 = Antigone fr. 35B Dorandi ; cfr. la traduzione di Gigante, in Diogene Laerzio, Vite dei<br />

filosofi, « Biblioteca Universale Laterza » prima edizione accresciuta, 1983, vol.1, p.247 : « Si adattava<br />

tuttavia – dicono – con facilità ad ogni circostanza, così che spesso il re Antigono partecipò con lui a qualche<br />

festino ed insieme si recarono talvolta a far baldoria dal citaredo Aristocle (ma poi Zenone di soppiatto se la<br />

svignava »; cfr. Athenaeus, Epit. XIII, 603 e = Antigone fr. 35A Dorandi, il quale riporta la Vita di Zenone di<br />

Antigono di Caristo letteralmente.<br />

56 D.L. VII, 19; Athenaeus VIII, 345 c-d = Antigone fr. 38B e 38A Dorandi.<br />

63


in cui promuoveva la virtù all’interno del suo gruppo di compagni; in ogni caso non sembra<br />

tuttavia particolarmente gratificante della saggezza del filosofo stoico. Ritroviamo qui il tema<br />

dei banchetti e della prostituzione a far da sfondo sociale alle figure dei filosofi come già per<br />

il peripatetico Licone.<br />

Antigono biografo<br />

Da un punto di vista generale dunque è stato già notato dalla critica che Antigono, nel trattare<br />

dei filosofi del suo tempo rivolge la sua attenzione non tanto alle dottrine da loro patrocinate,<br />

quanto piuttosto alle loro virtù e personalità morali, calate nel contesto della vita quotidiana e<br />

della realtà sociale e culturale dell’epoca. Egli non è certamente uno storico della filosofia, nel<br />

senso moderno di quest’espressione, e la sua preoccupazione non è di tipo strettamente<br />

dottrinale. Ciò che dei filosofi Antigono racconta appartiene alla dimensione del modo di vita<br />

di questi illustri personaggi, ne esemplifica le abitudini e il regime fin nei dettagli, mette in<br />

relazione il filosofo con le esigenze della vita quotidiana, con le emozioni e con le passioni.<br />

Ci può dunque sorprendere il realismo della scrittura di Antigono, sebbene sia opportuno<br />

considerare che l’importanza assunta dal modo di vita, prima ancora del contenuto dottrinale,<br />

nelle istanze filosofiche del periodo ellenistico 57 , si rifletteva verosimilmente sull’immagine<br />

comune che la gente aveva dei filosofi stessi 58 . La collettività infatti giudicava verosimilmente<br />

dello spessore filosofico di un personaggio, non tanto dalle sottigliezze della sua dottrina,<br />

quanto dall’attitudine generale della sua vita, dalle manifestazioni dei tratti del suo carattere,<br />

dalla coerenza e fermezza del suo comportamento 59 . In questo senso Antigono sembra<br />

attingere dal repertorio più o meno accurato dell’immagine ‘comune’ dei filosofi 60 , ovvero<br />

dell’immagine che di un filosofo poteva farsi un suo concittadino, incontrandolo sulla<br />

pubblica piazza o ascoltando ciò che di lui si raccontava in giro. I dettagli che Antigono<br />

fornisce sulla vita di queste personalità filosofiche sono di tipo concreto e relazionale : gli<br />

aneddoti che corredano i bioi colgono solitamente il filosofo in un momento di reazione<br />

57 v. Joly (1956), p. 128 ss. ; Momigliano (1971), p. 69 ss.<br />

58 A conferma dell'ampia diffusione del tema dei modi di vita, si veda ad esempio il frammento di una<br />

commedia di Anassippo, , (PCG II, 1 = Athenaeus IX, 403e) dove il verbo <br />

viene applicato parodisticamente alla formazione di un giovane cuoco che deve imparare a distinguere quale<br />

cibo sia più appropriato rispetto al genere di vita () di ognuno.<br />

59 Si consideri la notizia in Diogene Laerzio riguardo al decreto degli Ateniesi in favore di Zenone (D.L. VII,<br />

9-12). Si possono certamente avanzare dubbi sulla sua veridicità storica, tuttavia ci interessa qui notare che<br />

gli onori attribuiti a Zenone dalla cittadinanza non derivano direttamente dal contenuto delle sue riflessioni<br />

ma dal fatto che egli abbia fornito «a tutti con la propria vita un esempio conforme ai discorsi che svolgeva<br />

(D.L. VII, 10)».<br />

60 Cfr. Dihle (1956), p. 107-115, che a partire da premesse diverse arriva a conclusioni simili. Dihle argomenta<br />

che le indagini peripatetiche intorno agli avrebbero non soltanto influenzato fortemente lo sviluppo del<br />

genere biografico, ma anche che l’affermazione della stabilità dell’, derivante da tali indagini, fosse una<br />

acquisizione generalizzata all’epoca in cui Antigono di Caristo scrive.<br />

64


spontanea ad una situazione particolare, a cui difatti un certo numero di spettatori assiste (v. i<br />

passanti che deridono Pirrone, l’amico che rimprovera quest’ultimo di essere incoerente,<br />

l’accento posto sui banchetti e le frequentazioni dei potenti nella vita di Zenone); queste<br />

biografie finiscono dunque per restituirci una certa ‘immagine pubblica’ del filosofo, fatta non<br />

di opinioni personali e atteggiamenti idealizzati, ma di abitudini concrete e pubblicamente<br />

riscontrabili. In conclusione, i bioi ignorano le questioni di tipo filosofico-speculativo nella<br />

misura in cui si interessano all’uomo-filosofo e al tipo di relazioni che egli intrattiene con la<br />

realtà politica e sociale che lo circonda. È da notarsi tuttavia che, nel fornire tale immagine<br />

del filosofo nel suo rapporto con la realtà, il biografo difficilmente può prescindere del tutto<br />

dall’istanza filosofica che il suo personaggio incarna ed oltretutto le sue scelte stilistiche e<br />

contenutistiche finiscono per rivelare una concezione più o meno precisa di quali siano,<br />

secondo l’autore, gli elementi caratteristici di una vita propriamente filosofica. Antigono si<br />

differenzia così da altre tradizioni della letteratura biografica greca dal punto di vista del<br />

movente, dello scopo e della struttura della narrazione 61 e, in ultima istanza, rende accessibile<br />

un’immagine vivace e articolata del milieu in cui le varie figure di filosofi si inseriscono.<br />

Tenendo presente quest’attitudine del biografo e l’impressione di generale benevolenza nei<br />

confronti del gruppo dei filosofi academici, la lettura del bios di Polemone può risultare<br />

particolarmente feconda. Se infatti le chiare traccie nel testo di Diogene Laerzio sui bioi degli<br />

immediati predecessori di Polemone alla guida dell’Academia, Speusippo e Senocrate di una<br />

tradizione biografica e aneddotica, per così dire, malevola 62 rendono tali testimonianze<br />

scarsamente attendibili, nel caso di Polemone, invece, tentare di trarre qualche conclusione sul<br />

tipo di personaggio che Antigono intendeva descrivere e su quali caratteristiche egli tende ad<br />

attribuirgli può rivelarsi maggiormente gratificante.<br />

Il bios di Polemone tra Filodemo e Diogene<br />

Tenendo presente l’attitudine specifica e il contesto culturale d’origine degli autori dei due<br />

61 Vari sono stati i tentativi della critica di confronto tra i bioi di Antigono e altri generi biografici e<br />

memorialisti della letteratura greca: in rapporto alla biografia “alessandrina”, alla biografia “peripatetica”, a<br />

gli di Senofonte e Isocrate e alla biografia “post-socratica”; Dorandi è incline a ribadire<br />

l’impressione che l’opera di Antigono sia dotata di una struttura e di una composizione veramente a parte,<br />

che non si ritrova in nessun’altra opera parvenutaci, se non per alcuni aspetti particolari. v. Dorandi (1999),<br />

‘Intoduction’ (pp. xxxix-xliv e pp. lxxvii-lxxx)<br />

62 Sia sufficiente ricordare la caratterizzazione di Speusippo come incline all’ira e ai piaceri (D.L. IV, 1) e di<br />

Senocrate come tardo di ingegno e oggetto di scherno da parte del maestro, quando confrontato con il più<br />

intelligente Aristotele (D.L. IV 4, 6). La questione della scarsa attendibilità di tali resoconti biografici viene<br />

affrontata da Isnardi Parente (1981), p. 129-162. v. anche Dorandi (1992), p. 3761-3770.<br />

65


testi che riportano il bios di Polemone e rallegrandoci che la verve polemica tipica di<br />

Filodemo in questo caso lasci spazio ad un interesse più di tipo storiografico 63 , è opportuno<br />

inoltrarsi in un’analisi comparata della struttura dei due testi.<br />

Nel testo di Filodemo si possono leggere indicazioni sul demo di provenienza di Polemone,<br />

Oion in Atene, e sulla sua appartenenza a una famiglia di nobili cittadini: « figlio di Filostrato,<br />

che apparteneva agli Ateniesi più nobili e si diceva che era uno di quelli che, per un certo<br />

tempo, allevarono cavalli per le corse con i carri » 64 . Segue poi una breve descrizione del<br />

genere di vita che Polemone condusse da giovane : « sfrenato nella maniera più audace al<br />

punto che una volta era andato in giro ubriaco attraverso il Ceramico in pieno giorno<br />

(<br />

) » 65 .<br />

Il Ceramico era un demo di Atene che si estendeva a nord dell’Agora fino all’area<br />

dell’Academia, il cui nome deriva dalla presenza di un quartiere di artigiani vasai ; il<br />

Ceramico era innanzitutto un’area di sepoltura e da qui prendeva inizio anche la strada sacra<br />

per Eleusi 66 . Si comprende bene allora come in questo luogo prendersi la libertà di mostrarsi<br />

in publico ubriaco durante le ore diurne equivaleva a condursi in modo sfacciatamente<br />

sfrenato. La descrizione della giovinezza di Polemone in Filodemo viene affiancata alla<br />

notizia, degna di nota, che sua moglie intentò contro di lui un processo vergognoso<br />

(« » col. XIII, 4-5) per malversazione, in ragione del suo<br />

essere amante di fanciulli e giovinetti 67 ; di seguito il testo aggiunge « in ogni caso portava<br />

con sé denaro per poter aver sùbito rapporti con chiunque incontrava » 68 . La sfrenatezza di<br />

Polemone era dunque cosa di dominio collettivo: il riferimento al Ceramico e al processo<br />

giudiziario sottolineano la dimensione pubblica dell’immagine del giovane Polemone, ricco e<br />

corrotto, che abusava del vino e dei servizi della prostituzione. Subito di seguito il testo di<br />

Filodemo introduce il tema del cambiamento radicale nel genere di vita di Polemone grazie<br />

all’incontro con Senocrate e dice: « catturato da Senocrate e venuto in contatto con lui, a tal<br />

punto cambiò il suo modo di vita () che non sfigurò<br />

mai l’aspetto del volto e non cambiò il suo portamento e nemmeno la tensione della voce, ma<br />

63 v. Dorandi (1990), pp. 2407-2423.<br />

64 Philod., Acad. Hist., col. IV, 39-43, tr. it. in Dorandi (1991a), p. 190 e ss.<br />

65 Philod., Acad. Hist., col. IV, 43-XIII, 3.<br />

66 C. Höcker, s.v. Kerameikos, Der Neue Pauly, Enzyklopädie der Antike, Band 6, Stuttgart-Weimar 1999, p.<br />

430. Alla strada sacra per Eleusi forse ammicca l’uso del termine (da che, oltre a “andare<br />

con musica e canti”, “far baldoria”, significa anche “andare in processione” Lys. 14.25) per descrivere<br />

l’allegra brigata di Polemone e i suoi compagni. Cfr. l’aneddoto su Zenone (D.L. VII, 3) e il riuscitissimo<br />

tentativo da parte di Cratete cinico di metterlo in imbarazzo facendogli portare attraverso il Ceramico una<br />

pentola di zuppa di lenticchie, che mette in risalto la dimensione pubblica e l’idea di un’esposizione al<br />

giudizio collettivo contenute nel riferimento al Ceramico.<br />

67 Su quest’episodio v. oltre, p. 21, n. 85.<br />

68 Philod., Acad. Hist. col. XIII, 3-10.<br />

66


conservò ciò sempre nello stesso stato () anche quando era di cattivo<br />

umore » 69 .<br />

In Diogene Laerzio l’ordine dato alla materia è leggermente riarrangiato (v. Tabella 1): dopo<br />

la menzione del demo e del nome del padre di Polemone, la descrizione della sua giovinezza<br />

intemperante e dissoluta viene più strettamente connessa all’indicazione che portava sempre<br />

su di sè del denaro per soddisfare i suoi piaceri; Diogene approfondisce poi la questione del<br />

denaro e dice che Polemone aveva l’abitudine di conservarne nascosto nelle crepe di un muro,<br />

tanto che un giorno nell’Academia venne ritrovata una moneta da « tre oboli » attaccata ad<br />

una colonna, precedentemente appartenuta a Polemone e destinata al soddisfacimento dei suoi<br />

notori piaceri 70 . In seguito il testo di Diogene introduce, con una ricchezza di particolari che<br />

invece manca al testo di Filodemo, l’episodio dell’incontro fortuito, quanto determinante, di<br />

Polemone con Senocrate: un giorno Polemone, ubriaco e con in testa una corona 71 , fece una<br />

scommessa con i suoi giovani amici e fece irruzione nel luogo dove Senocrate teneva lezione;<br />

quest’ultimo, senza dare alcun segno di fastidio per il gesto goliardico e irrispettoso del<br />

giovane, non si scompose minimamente e continuò il suo discorso, il quale, caso volle,<br />

vertesse sulla temperanza o moderazione 72 ; Polemone ascoltando le parole di Senocrate ne<br />

rimase poco a poco conquistato e finì per diventare il più zelante dei suoi discepoli, fino poi a<br />

succedergli alla guida della scuola, « nella CXVI Olimpiade » 73 . In seguito Diogene menziona<br />

esplicitamente le Biografie di Antigono di Caristo come fonte sia dell’indicazione che il padre<br />

di Polemone era tra i primi cittadini di Atene e allevatore di cavalli, sia della notizia che<br />

Polemone subì un processo da parte di sua moglie : « che l’accusava di aver rapporti sessuali<br />

con giovinetti » 74 .<br />

69 Ivi, XIII, 10-19.<br />

70 D.L. IV, 16. Tre oboli era forse il prezzo per una prostituta. Cfr. Dumont (1987), p.86 : dove il riferimento al<br />

‘triobolo’ del bios di Polemone viene considerato come un rinvio al cinismo e messo in relazione al verso di<br />

un epigramma di Cratete cinico in Diogene Laerzio (D.L. 6, 86) in cui ci si prende gioco del compenso<br />

convenzionale di ‘un triobolo’ per la lezione di un filosofo.<br />

71 È questo forse lo stesso episodio del Ceramico a cui fa riferimento Filodemo? In entrambi i casi si fa<br />

riferimento all’ubriachezza del giovane Polemone in compagnia. L’area del Ceramico confinava con<br />

l’Academia ed è facile immaginare che il gruppo di amici insieme al quale Polemone viene avvistato nel<br />

Ceramico sia lo stesso con il quale scommette di aver il coraggio di entrare nel luogo dove Senocrate teneva<br />

la sua lezione.<br />

72 D.L. IV 16: «». cfr. D.L. IX 63 su<br />

Pirrone che porta a termine il suo discorso anche se interrotto e piantato in asso:<br />

«<br />

»<br />

73 Ibidem.<br />

74 Ivi, IV, 17.<br />

67


Tabella 1 75<br />

Philodemus coll. IV, 38- XIII, 19 Diogenes Laertius IV, 16-17.<br />

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•Demo e<br />

origine<br />

paterna<br />

•Giovinezza<br />

dissoluta<br />

•Processo<br />

•Denaro<br />

•“Catturato”d<br />

a Senocrate<br />

•Inalterabilità<br />

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h<br />

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s<br />

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•Demo<br />

•Giovinezza<br />

dissoluta<br />

•Denaro<br />

•“Catturato”<br />

da<br />

Senocrate<br />

•Scolarcato<br />

•Indicazione<br />

cronologica<br />

•Origine<br />

paterna<br />

•Processo<br />

•Inalterabilit<br />

à<br />

L’ordine dell’esposizione del testo di Filodemo appare maggiormente lineare dal punto di<br />

vista cronologico rispetto a quello di Diogene: quest’ultimo infatti descrive la giovinezza<br />

dissoluta di Polemone in apertura, arriva all’episodio dell’incontro con Senocrate, che lo<br />

porterà a diventare scolarca dell’Academia, per poi tornare di nuovo a fornire informazioni<br />

generali e su una fase della vita di Polemone, che verosimilmente precede l’incontro con<br />

Senocrate e il dedicarsi alla filosofia. Ci troviamo tuttavia di fronte a un caso in cui il testo di<br />

Diogene presenta maggiori informazioni rispetto a quello di Filodemo e sviluppa con<br />

abbondanza di particolari motivi presenti solo in nuce in quest’ultimo. Paragonando i due testi<br />

e assumendo che Filodemo riproduca più fedelmente il resoconto antigoneo, sarebbe anche<br />

possibile pensare che le informazioni fornite da Antigono vengano nel testo di Diogene<br />

integrate con informazioni provenienti da un’altra fonte, più esplicita a proposito, sia dell’uso<br />

del denaro da parte di Polemone, sia dell’episodio dell’incontro con Senocrate; sembra infatti<br />

75 Il metodo di presentazione sinottica del testo di Diogene e di Filodemo è stato impiegato da von<br />

Wilamowitz-Moellendorff (1881), per dimostrare la dipendenza dei due testi da una medesima fonte. In<br />

questo contesto l'uso di una presentazione in parallelo intende semplicemente agevolare il confronto tra la<br />

successione degli argomenti nei due testi.<br />

68


che Diogene (o la sua fonte) prenda le mosse da Antigono : « Polemone era figlio di<br />

Filostrato, ateniese del demo di Oion », ma che in seguito volga lo sguardo su un diverso<br />

testo. Da un’altra fonte deriva senza dubbio la data di inizio dello scolarcato, verosimilmente<br />

da Apollodoro. Tuttavia Diogene torna immediatamente a seguire da vicino l’andamento del<br />

testo così come lo testimonia Filodemo, cita Antigono esplicitamente e aggiunge le due<br />

interessanti informazioni sulla giovinezza di Polemone (la sua nobile origine e il processo<br />

subito dalla moglie), anche se queste meglio avrebbero figurato nella parte iniziale della sua<br />

esposizione. È da notare inoltre che tra i due testi non sussiste una reale discrepanza: le<br />

informazioni supplementari fornite dal testo di Diogene si allacciano con precisione a punti<br />

del testo di Filodemo 76 e non entrano in conflitto con esso, piuttosto lo corredano di due<br />

aneddoti aggiuntivi che non è da escludere provenissero anch’essi da Antigono.<br />

Il resoconto antigoneo in ultima istanza costruisce un netto contrasto tra la giovinezza<br />

dissoluta del giovane aristocratico e la sua vita virtuosa da filosofo in seno all’Academia.<br />

Nella descrizione delle sue virtù l’accento è posto sull’impassibilità e dignità della sua<br />

attitudine generale. Il testo di Filodemo menziona il fatto che non mostrava di aver paura dei<br />

cani, anche se uno « di quelli rabbiosi lo aveva attaccato e gli aveva strappato il poplite » 77 ,<br />

che anche negli spettacoli teatrali rimaneva impassibile («» col. XIII 38-<br />

39), che era di statura piuttosto piccola ma aveva qualcosa di nobile « che somiglia ai quadri<br />

che emanano sicurezza di sé e durezza<br />

(), come dice Melanto, perché era<br />

dotato di serietà politicamente efficace () » 78 . Segue<br />

un importante riferimento al fatto che Polemone « provava disgusto per coloro che portano<br />

all’impossibile le questioni teoriche, ritenendo che uno debba esercitarsi nelle questioni<br />

pratiche » 79 , il quale ha fornito la base per un interpretazione della figura di Polemone come<br />

‘campione’ di un’etica della prassi e sul quale dovremo ritornare a più riprese in seguito.<br />

Ulteriori indicazioni riguardo lo stile argomentativo di Polemone, i suoi gusti letterari e il suo<br />

rapporto con la collettività ateniese si susseguono in Filodemo fino alla menzione del giudizio<br />

ammirato di Arcesilao e il paragone con la « razza d’oro » 80 . La lacunosità del testo di<br />

Filodemo ci impedisce di seguire da vicino l’andamento del bios per quasi una ventina di<br />

76 Il motivo dell’uso del denaro è introdotto dal testo di Filodemo nella frase<br />

«/» (XIII, 7-10) e<br />

l’episodio dell’incontro con Senocrate presenta delle affinità con l’episodio del Ceramico menzionato da<br />

Filodemo, v. nota 36.<br />

77 Philod. col. XIII, 20-27.<br />

78 Ivi, col. XIII, 43 – XIV, 3.<br />

79 Ivi, col. XIV, 3-7 (traduzione mia).<br />

80 Ivi, col. XV, 3-10.<br />

69


linee ed è dunque possibile constatare soltanto che in conclusione veniva menzionato Cratete<br />

e l’impegno con il quale Polemone riuscì a sottrarrlo a una delle altre ‘guide’ dell’Academia :<br />

« volendo trarre via il giovane (Cratete), (Polemone) né cedette né si intimorì, ma lottò a<br />

lungo contro di lui e gli si rivoltò finché ottenne quel che voleva e trascinò Cratete dalla sua<br />

parte » 81 .<br />

Il testo di Diogene Laerzio è fondamentalmente concorde con quello di Filodemo nella<br />

descrizione dell’attitudine di Polemone una volta venuto in contatto con la filosofia, ma<br />

ancora una volta presenta qualche dettaglio in più (v. Tabella 2): questo menziona infatti che<br />

Polemone fu poi capace di mantenere sempre la sua voce immutata e aggiunge che proprio<br />

questa caratteristica attrasse Crantore 82 ; ad illustrare l’impassibilità del filosofo impiega<br />

l’episodio del cane che gli morse il poplite e il fatto che negli spettacoli teatrali non mostrava<br />

alcuna forma di emozione, ma tra l’una e l’altra indicazione aggiunge « e quando ci fu un<br />

sommovimento in città, dopo essersi informato di ciò che accadeva rimase indifferente<br />

( ) »; inoltre il perfetto controllo sulle sue emozioni di fronte a<br />

manifestazioni artistiche è illustrato anche dall’aneddoto secondo il quale un giorno l’attore<br />

Nicostrato diede lettura di suoi versi (oppure di versi di Omero) a Polemone e Cratete e,<br />

mentre quest’ultimo si emozionò visibilmente, Polemone rimase come se non avesse sentito.<br />

Anche il riferimento alle “questioni pratiche”, in quanto preferibili alla “disquisizioni<br />

dialettiche”, in Diogene viene presentato corredato di un interessante paragone con chi<br />

« avrebbe ingurgitato un manuale di musica senza averla mai praticata » ed esplicitato con la<br />

frase : « tali uomini desterebbero ammirazione per la loro abilità dialettica, ma sarebbero in<br />

contraddizione con loro stessi per il loro comportamento » 83 .<br />

81 Ivi, col. XV, 40-46. Questo passo sembrerebbe alludere all'antagonismo tra i diversi tipi di educazione,<br />

filosofica e non, disponibili contemporaneamente sul suolo dell'Academia. La natura pubblica delle lezioni<br />

permetteva ai vari maestri di riconoscere i giovani più intellettualmente dotati ed eventualmente contendersi<br />

il ruolo di guida alla loro educazione.<br />

82 D.L. IV, 17: «».<br />

83 D.L. IV, 18.<br />

70


Tabella 2<br />

Philodemus coll. XII, 20 - XIV, 7 Diogenes Laertius IV, 17- 18<br />

<br />

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<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

(…)<br />

•Cane<br />

•A teatro<br />

•Piccola<br />

statura<br />

ma<br />

•Natura<br />

nobile<br />

•Come le<br />

pitture di<br />

Melanto<br />

•Virtù<br />

politica<br />

•« Bisogna<br />

esercitarsi<br />

nelle<br />

azioni »<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

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<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

•Cane<br />

•Disordini<br />

in città<br />

•A teatro<br />

•Lettura di<br />

versi<br />

•Come le<br />

pitture di<br />

Melanto<br />

•« Bisogna<br />

esercitarsi<br />

nelle<br />

azioni »<br />

Nella descrizione dello stile letterario di Polemone ancora una volta i due testi divergono<br />

leggermente (v. Tabella 3) : il testo di Diogene dice che lo stile di Polemone era raffinato e<br />

nobile e aggiunge un riferimento e una citazione di Aristofane sulle espressioni « condite con<br />

l’aceto e con il silfo », tipiche di Euripide e evitate, invece, da Polemone 84 ; mentre Filodemo<br />

connette il giudizio negativo di Polemone su « coloro che portano all’impossibile le questioni<br />

teoriche » con il suo stile argomentativo e dice: « Pertanto anche quando trattava le tesi<br />

parlava in modo da non essere rimproverato dal punto di vista linguistico e ha evitato anche<br />

tutte le finezze esagerate ed era entusiasta ammiratore dell’armonia al modo di Pindaro, come<br />

si potrebbe dire » 85 . Sul modo di argomentare di Polemone, Diogene dice inoltre che dei<br />

problemi che venivano sottoposti alla sua attenzione discuteva non seduto ma camminando 86 .<br />

Seguono poi due riferimenti al fatto che la città aveva ammirazione per lui e al fatto che<br />

conduceva la sua vita lontano dalla sfera pubblica nel giardino dell’Academia, dove i suoi<br />

84 Ibidem.<br />

85 Philod. col. XIV, 7-12.<br />

86 D.L. IV, 19.<br />

71


discepoli avevano costruito piccole capanne; entrambi i riferimenti sono presenti anche nel<br />

testo di Filodemo 87 .<br />

Da questo punto in poi tuttavia i testi dei due autori non corrono più in parallelo e Diogene<br />

cita esplicitamente Aristippo sul rapporto tra Senocrate e Polemone, fondato sull’amore che<br />

quest’ultimo nutriva per il maestro 88 , che lo conduceva a imitarlo in ogni aspetto, a citarlo in<br />

continuazione e a imitarne la sincerità, austerità e gravità « tipica del modo dorico ». Il<br />

riferimento allo stile spartano è già un topos socratico (Plato, Pr. 342 b-c ; Gorg. 515 e ;<br />

Aristoph. Uccelli 1281-1282), da comprendersi probabilmente come una critica implicita<br />

invece dello stile ateniese, prima ancora di diventare un motivo centrale della predicazione<br />

cinica. In chiusura Diogene ritorna sui gusti letterari di Polemone e dice che era ammiratore di<br />

Sofocle e in particolare dei versi di quest’ultimo alla cui composizione, con una citazione da<br />

Aristofane, « un cane molosso forse partecipò », oppure di quelli che sono, con le parole del<br />

comico Frinico, « non mosto, non miscela, ma puro vino di Pramno » 89 . Polemone diceva<br />

inoltre che Omero era il Sofocle dell’epopea e Sofocle l’Omero della tragedia 90 . Infine<br />

Diogene riferisce che morì in tarda età di consunzione e che lasciò una mole rispettabile di<br />

scritti e conclude apponendo un epigramma da lui stesso composto, in cui si allude alla morte<br />

per consunzione e all’idea che, mentre il corpo di Polemone si trova deposto sotto la sua<br />

tomba, lui stesso invece è montato verso gli astri 91 .<br />

Tabella 3<br />

Philodemus coll. XIV,7 – XV, 46 Diogenes Laertius IV, 18-20<br />

(…)<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

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<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

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<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

•Vs<br />

raffinmenti<br />

•Ammiratore<br />

dell’<br />

« armonia » di<br />

Pindaro<br />

•Vita ritirata<br />

•Buoni<br />

rapporti con la<br />

città<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

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<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

87 D.L. IV, 19; Philod. col. XIV, 35-41; = Polemo frr. 44-45 Gigante.<br />

88 D.L. IV 19. Su questa testimonianza dello Pseudo-Aristippo, v. oltre p. 40, n. 127.<br />

89 D.L. IV 20.<br />

90 Ibidem. v. oltre: ‘La rubrica letteraria’.<br />

91 Ibidem.<br />

72<br />

•Natura<br />

nobile<br />

•Vs stile<br />

euripideo<br />

•Argomentare<br />

passeggiando<br />

•Buoni<br />

rapporti con<br />

la città<br />

•Vita ritirata<br />

•Le casette<br />

dei discepoli<br />

•Emulo di<br />

Senocrate


•Le casette dei<br />

discepoli<br />

•Ammirazione<br />

per Senocrate<br />

•Estimatore di<br />

Sofocle<br />

•Arcesilao & i<br />

sopravvissuti<br />

della Razza<br />

d’oro.<br />

???<br />

Speusippo<br />

Senocrate<br />

???<br />

•Conquista di<br />

Cratete<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

<br />

•Estimatore di<br />

Sofocle<br />

•« Omero,<br />

Sofocle<br />

epico ;<br />

Sofocle,<br />

Omero<br />

tragico »<br />

•Morte<br />

•Epigramma<br />

Il resoconto biografico su Polemone gioca chiaramente sull’opposizione tra la sua giovinezza<br />

estremamente dissoluta e la sua vita filosofica estremamente virtuosa. Dal punto di vista<br />

73


lessicale entrambi i resoconti di Filodemo e Diogene convergono su numerosi aggettivi e<br />

sostantivi contenenti un giudizio sulla qualità morale della vita del filosofo (v.<br />

Philod. col. IV, 44-45, D.L. IV 16 ; Philod. col. XIII 43-44, D.L. IV<br />

18 ; D.L. 19 ; /=Philod. col. XIV 24, D.L. IV 18 ;<br />

Philod. col. XIII 44-45, D.L. IV 18 ;<br />

Philod. col. XIV 2-3 ; Philod. col. XIV 27-<br />

28 ). Di questo tipo di elementi si componeva verosimilmente la scrittura di Antigono.<br />

Per molti aspetti il filosofo academico appare come una tra le più dignitose figure che<br />

popolano i frammenti dei bioi di Antigono. Il suo completo dominio sulle passioni e la sua<br />

inalterabile impassibilità di fronte a qualunque tipo di avvenimento costituiscono un apice di<br />

perfezione, rispetto al quale l’attitudine filosofica di un Pirrone, che si rifugia sopra un albero<br />

per fuggire da un cane o che si arrabbia con la sorella, appare improvvisamente svalutata.<br />

Inoltre la sua vita appartata e tranquilla, lontana dai subbugli politici della città e in perfetta<br />

armonia con i discepoli sembrerebbe un modello positivo, rispetto al quale le baldorie di<br />

Zenone con Antigono Gonata e i modi talvolta bruschi con i discepoli destano qualche<br />

perplessità. L’incompletezza dei frammenti dell’opera di Antigono non ci permette di<br />

affermare se il caso di Polemone (e in generale degli academici fino ad Arcesilao) fosse o<br />

meno un caso unico nelle Biografie, tuttavia a partire dai materiali a nostra disposizione non<br />

sembrerebbe troppo azzardato sottolineare la posizione di favore accordata alla scuola<br />

academica rispetto ad altre istanze filosofiche. Ci colpisce innanzitutto il confronto a livello<br />

biografico tra Polemone e Pirrone da una parte e Zenone dall’altra per via dei numerosi punti<br />

di contatto tra le rispettive caratterizzazioni dei singoli personaggi, tanto da sollevare la<br />

domanda se il biografo intedesse in effetti costruire le sue biografie l’una a contrasto con<br />

l’altro, scuola contro scuola, ovvero attitudine filosofica contro attitudine filosofica.<br />

Un’analisi del lessico impiegato nelle tre biografie è capace di farci avanzare di qualche passo<br />

su questa pista.<br />

Preliminarmente non si può evitare di prendere in conto la mancata uniformità lessicale nelle<br />

fonti per i frammenti di Antigono di Caristo. Nel caso specifico del bios di Polemone, di<br />

fronte alle divergenze lessicali tra Filodemo e Diogene si tende senza dubbio a favorire la<br />

versione di Filodemo e, per quanto rilevanti, le varianti sinonimiche adottate da Diogene<br />

vengono ascritte a una sensibilità culturale posteriore. È questo il caso ad esempio della<br />

descrizione lessicalmente divergente dell’attitudine di Polemone di fronte alla<br />

rappresentazione teatrale (Philod. col. XIII 38-39 ; D.L. IV 18, v. tabella 2), dove in Filodemo<br />

leggiamo « nei teatri rimaneva impassibile ( ) »,<br />

mentre in Diogene « nei teatri non mostrava alcuna partecipazione emozionale<br />

74


( ) ». La tarda apparizione nella letteratura<br />

dell’aggettivo adottato da Diogene induce a pensare che la scelta lessicale propria di Antigono<br />

sia meglio testimoniata dal testo di Filodemo. In considerazione dell’alto carico filosofico del<br />

termine , si apre inoltre un ulteriore campo di indagine sulla più o meno marcata<br />

consapevolezza di Antigono riguardo le implicazioni filosofiche del lessico adottato. Si<br />

prenda allora in considerazione un ulteriore esempio di rilevante divergenza lessicale nelle<br />

fonti che si richiamano ad Antigono : come già accennato, Aristocle di Messene (ap.<br />

Eusebius) designa l’attitudine di Pirrone con il termine <br />

(« »), mentre in Diogene<br />

Laerzio il termine utilizzato è (« »). Nel caso in cui<br />

ci fidassimo della versione di Aristocle, dovremmo constatare una coincidenza lessicale<br />

importante nella costruzione delle due figure di Pirrone e Polemone nei resoconti biografici di<br />

Antigono 92 , mentre in alternativa, se volessimo ammettere da parte di Antigono l’uso del<br />

termine adiaphoria, così come in Diogene, ci troveremmo di fronte ad un chiaro esempio di<br />

uso accurato di una terminologia filosofica di tipo tecnico. La questione è complicata<br />

notevolmente dal fatto che i testi di Timone possono di fatto costituire il retroterra testuale per<br />

le scelte lessicali di Diogene Laerzio per la caratterizzazione che ci fornisce di Pirrone, ma i<br />

frammenti a nostra disposizione delle opere di Timone non corroborano né l’una, né l’altra<br />

terminologia. Pirrone è detto nei versi di Timone e(Silloi fr. 783), e la<br />

sua attitudine filosofica lo rende (Indalmoi fr. 842 l. 4). Se prendiamo in senso<br />

tecnico il terzo di questi aggettivi, forse avremmo una base per escludere che adiaphoria sia il<br />

termine adatto per descrivere l’attitudine filosofica di Pirrone, a meno di non voler ridurre il<br />

concetto di ugualianza perfettamente equilibrata a quello di indifferenza.<br />

In generale si nota che Antigono sottolinea con obiettività la particolare natura del genere di<br />

vita di Pirrone (v. le espressioni : «» e<br />

«» in D.L IX 64) e questo costituisce un elemento di riferimento<br />

implicito costante anche negli altri bioi.<br />

Il modo di condursi di Pirrone viene descritto 1) come marcatamente solitario<br />

(«» e «» 93 , D.L.<br />

IX 63), 2) perfettamente stabile (« » D.L. IX 63) e<br />

3) come capace di suscitare l’ammirazione dei singoli e della collettività (v. la menzione di<br />

Epicuro « » e del fatto che veniva tenuto in buona considerazione « »<br />

92 v. Spanneut (1996), p. 4643-4651.<br />

93 Decleva Caizzi (1981b), p. 159, ricorda come il verbo in Diogene Laerzio alluda a una voluta<br />

ricerca della solitudine e come oltre a Pirrone e Polemone questo venga applicato anche a Epimenide (I 112)<br />

ed Eraclito (IX 3). Per quanto riguarda invece il verbo si noti D.L. IX, 38 su Democrito.<br />

75


dalla sua città). Esattamente lo stesso tipo di linguaggio viene adottato nel bios di Polemone :<br />

si veda innanzitutto l’enfasi posta sul termine in D.L. IV 18 e in secondo luogo le<br />

espressioni «» e «» in<br />

Philod. col. XIV 12-16, che descrivano l’atteggiamento solitario dello scolarca. Il passaggio a<br />

una vita filosofica in Polemone è descritto poi in primo luogo come l’abbracciare un'attitudine<br />

stabile (v. « <br />

» D.L. IV 17). Inoltre sono numerosi i punti in cui nella<br />

testimonianza antigonea si ribadisce l’ammirazione nei confronti di Polemone e del suo<br />

gruppo (v. « » Philod. col. XIV 26-27 ;<br />

« » D.L. IV 19 ;<br />

« » D.L. IV 24 ; « »<br />

Philod. col. R 5-6). È invece più difficile determinare quale sia il rapporto tra le descrizioni<br />

dell’impassibilità o indifferenza dei due personaggi di Pirrone e Polemone.<br />

Si nota innanzitutto che l’attitudine generale di Pirrone viene associata da Antigono a una<br />

posizione di tipo scettico che mette in discussione l’affidabilità generale dell’esperienza dei<br />

sensi 94 . Diversamente in Polemone il motivo dell’imperturbabilità sembra andare nella<br />

direzione di una descrizione dello straordinario controllo del saggio rispetto alle sue emozioni<br />

e reazioni, senza ulteriori implicazioni di carattere epistemologico. Antigono opta per una<br />

esemplificazione concreta e puntuale dell’attitudine generale di Polemone, facendo<br />

riferimento tanto all’inalterabilità dell’espressione del volto e della voce, quanto all’assenza di<br />

partecipazione emozionale nelle rappresentazioni teatrali e negli imprevisti della vita<br />

individuale e collettiva. Ne consegue che, se giudicato in base ai parametri dell’inalterabilità<br />

del saggio, promossa a livello teorico dalla figura di Pirrone, il filosofo academico Polemone<br />

spicca per eccellenza a livello pratico. Si ricorderà infine che i due filosofi, confrontati nei<br />

resoconti antigonei con lo stesso tipo di avvenimento, ovvero l’arrivo di un cane minaccioso 95 ,<br />

reagiscono in modi opposti, l’uno scappa via impaurito sopra un albero, l’altro invece non si<br />

scompone e si lascia azzannare un poplite, generando lo sconcerto e la preoccupazione degli<br />

astanti. Quella di Polemone dunque appare nel resoconto antigoneo come una versione più<br />

forte e coerente della medesima impassibilità attribuita a Pirrone.<br />

La rete di interazioni tra la figura di Pirrone e il circolo degli academici sembra ulteriormente<br />

confermata da un passaggio di Diogene in cui Arcesilao è detto (D.L. IV 37). Il<br />

tema della , come noto, è proprio di una ricca tradizione che si riallaccia a Pirrone, e se<br />

94 Cfr. Decleva Caizzi (1981b), p. 164-165 et passim. L’inganno delle opinioni sembra essere al centro anche<br />

delle descrizioni di Timone, v. il frammento su Parmenide, nei Silli.<br />

95 Non è mancato chi abbia visto in questo tipo di aneddoti un riferimento ai filosofi cinici, v. Dumont (1987),<br />

p.87.<br />

76


potessimo ammettere in Diogene via Antigono un uso mirato e consapevole di un attributo<br />

lessicale fortemente associato a Pirrone, quei sospetti fin qui esposti, riguardo alla possibilità<br />

che la costruzione dei bioi dei filosofi accademici avvenga per certi aspetti attraverso una<br />

ripresa ed enfatizzazione di elementi in origine attribuiti a Pirrone, risulterebbero confermati.<br />

A proposito di Zenone invece, Antigono riferisce che non amava la folla<br />

(«» D.L. VII 14) e che viveva con il discepolo<br />

Perseo 96 , così come anche Polemone viveva fuori dalle mura della città insieme a Cratete ;<br />

tuttavia entrambe le informazioni su Zenone vengono ribaltate dal contesto più ampio in cui<br />

sono inserite: nel primo caso « non amare la folla » viene esplicitato non come un tenersi<br />

saggiamente lontano dai disordini della città alla ricerca della solitudine, ma come un essere<br />

generalmente infastidito dalle persone, per cui si sedeva al limite di una panca per essere<br />

almeno da un lato esente dal contatto con qualcuno 97 , per cui non andava mai in giro con più<br />

di tre o quattro persone 98 , per cui, ancora, talvolta chiedeva un compenso per le sue lezioni al<br />

fine di scoraggiare il formarsi di una folla e via di seguito 99 ; nel secondo caso inoltre la sua<br />

vita insieme a Perseo non viene descritta come esemplificativa di una vita virtuosa in comune,<br />

piuttosto come caratterizzata da una certa licenziosità e liberalità di costumi, per cui quasi<br />

grottesca appare la scenetta narrata del timido Perseo spinto tra le braccia della sua piccola<br />

suonatrice di flauto. Infine il riferimento esplicito alle frequentazioni dei potenti da parte di<br />

Zenone, che va a banchetto insieme al re Antigono Gonata, sembra derivare da uno sguardo<br />

quantomeno ironico, se non esplicitamente critico, sopratutto se posto a confronto con quella<br />

frase riportata da Antigono di Caristo e rivolta da un saggio indiano ad Anassarco, maestro di<br />

Pirrone, sul fatto che non avrebbe potuto mai insegnare a qualcun’altro come essere un uomo<br />

dabbene, se lui stessi frequentava le corti dei re 100 . Sembra del resto legittimo dire che in<br />

generale nei resoconti di Antigono i banchetti, i favori della prostituzione, le frequentazioni<br />

mondane dei re, come anche l’uso del denaro sono gli elementi di uno sfondo di contrasto<br />

rispetto all’attitudine propriamente filosofica del saggio padrone di sè e solitario. Se<br />

volessimo dunque prendere il rischio di trarre delle conclusioni da quanto fin qui esposto,<br />

potremmo dire che Polemone veniva presentato da Antigono come più pirroniano di Pirrone e<br />

come più stoico del padre dello stoicismo, Zenone. Il che significa che l'istanza academica<br />

conterrebbe in sé in forma già perfettamente coerente quegli elementi di presunta originalità<br />

96 v. Athenaeus XIII, 607e; D.L. VII, 13 = Antigone fr. 34A; 34B Dorandi.<br />

97 D.L. VII, 13-14.<br />

98 Ibidem.<br />

99 D.L. VII, 14.<br />

100 D.L. IX, 63:<br />

«<br />

»<br />

77


di cui le nuove istanze filosofiche del periodo ellenistico si arrogano la paternità. Se Polemone<br />

academico fosse il vero Pirrone e il vero stoico, non ci sarebbe ragione alcuna di uscire dalla<br />

scuola di Platone per cercare quei contenuti filosofici specifici a cui si associano generalmente<br />

pirronismo e stoicismo. Si noterà inoltre che esistono altri contesti (v. T. 37 : Cic., Leg. I, 37-<br />

38), apertamente polemici, in cui l'istanza stoica viene ridotta a mera ripetizione (o mero furto<br />

v. T. 31 : DL, VII, 25 ; Cic., Tusc. V, 34) di contenuti già academici. Tuttavia se questa<br />

prospettiva abbonda nelle fonti, tanto da diventare la versione più diffusa dei rapporti tra le<br />

due scuole, lo si deve imputare innanzitutto e prevalentemente all'assenza di una fonte che<br />

riporti esaurientemente anche il punto di vista stoico sulla questione.<br />

Elementi di cronologia<br />

Si noti inoltre come nel testo di Filodemo sia assente, almeno nelle parti di esso conservatesi,<br />

ogni riferimento alla morte di Polemone, alla sua cronologia o alle dinamiche di successione<br />

alla guida dell’Academia. Come già menzionato, Diogene Laerzio poteva attingere da<br />

Apollodoro l’informazione sulla data in cui, dopo la morte di Senocrate, Polemone prese la<br />

direzione della scuola, ovvero nel 314/313 a.C. Tale dato concorda con quanto si legge anche<br />

nella vita di Senocrate in Diogene Laerzio: « (Senocrate) Fu successore di Speusippo sotto<br />

l’arconte Lisimachide e fu scolarca per venticinque anni, cominciando nel secondo anno della<br />

CX Olimpiade » 101 . Più difficile è stato invece determinare in modo pienamente convincente<br />

la data della morte di Polemone: le indicazioni di Diogene non sono di fatto sufficientemente<br />

esaurienti e si è creduto invece trovarne notizia nelle linee iniziali della colonna Q<br />

dell’Academicorum historia di Filodemo. In ragione della corruzione del testo si legge infatti<br />

della morte di un personaggio senza poterne leggere il nome, avvenuta « durante l’arcontato<br />

di Filocrate » ; in considerazione del contesto e del fatto che nelle linee seguenti si fa<br />

riferimento alla successione di Cratete a Polemone nella direzione della scuola, è stato in un<br />

primo tempo congetturato che l’indicazione della morte riguardasse Polemone stesso. Più<br />

sicura appare l’indicazione contenuta nel Chronicon di Eusebio/Girolamo, che pone la morte<br />

di Polemone nel terzo anno della CXXVII Olimpiade, ovvero nel 270/269. Proprio dal<br />

tentativo di conciliare queste due testimonianze è nato un certo disaccordo della critica sulla<br />

datazione dell’arcontato di Filocrate e dunque anche della morte di Polemone. Gli studi di<br />

Tiziano Dorandi 102 mostrano da ultimo in modo esaustivo che, tenendo ferma la testimonianza<br />

di Eusebio/Girolamo, è conveniente ipotizzare che le prime linee della colonna Q di Filodemo<br />

101 D.L. IV, 14. Cfr. Apollodoro, frr. 345 e 346 Jacoby.<br />

102 Dorandi (1991b), pp. 3-6.<br />

78


si riferiscano non alla morte di Polemone ma piuttosto a quella di Crantore, il quale « morì<br />

prima di Polemone », come conferma anche un passo di Diogene Laerzio 103 , e per questo non<br />

gli successe alla direzione della scuola. Lo scolarcato di Polemone, in conclusione, ebbe<br />

inizio nel 314/313 e si concluse, dopo all’incirca quarantacinque anni, con la sua morte nel<br />

270/269 a.C.<br />

In quest’arco di tempo convissero ad Atene numerose istanze filosofiche 104 . Nel Peripato si<br />

poteva assistere alle lezioni di Teofrasto durante i circa trentasei anni che vanno dalla morte di<br />

Aristotele nel 322/321 fino al 288/287 o 287/ 286 a.C., poi la scuola passò sotto la direzione<br />

di Stratone fino al 270/269 o 269/268 a.C. Fiorirono nel frattempo nuove scuole filosofiche :<br />

Zenone cominciò ad avere discepoli nella / ed Epicuro, dopo aver insegnato a<br />

Mitilene e Lampsaco, aprì una scuola ad Atene intorno al 305/304, il , dove visse fino<br />

alla morte nel 271/270 a.C. Da non dimenticare inoltre la compresenza nel medesimo periodo<br />

di numerose altre personalità filosofiche : Diodoro Crono della scuola dialettica (o megarica),<br />

attivo ad Alessandria e ad Atene tra il 315 e il 284 c.a., Stilpone di Megara (floruit 325 c.a), il<br />

cinico Cratete di Tebe (368/365 – 288/285 c.a.) ed il già citato Pirrone di Elide (365/360-<br />

275/270 c.a), solo per nominarne alcuni.<br />

La ‘conversione’<br />

Il resoconto biografico di Polemone è caratterizzato dall’antitesi tra la giovinezza dissoluta e<br />

la maturità temperante e degna di stima. Il passaggio dall’uno all’altro stato avviene grazie<br />

all’incontro con Senocrate, il quale determina un cambiamento radicale nell’attitudine del<br />

personaggio. Questo momento cerniera nella vita di Polemone è a tal punto enfatizzato dalla<br />

letteratura da potersi intendere nei termini di una ‘conversione’ alla filosofia. A.D. Nock 105 ha<br />

condotto uno studio sul concetto di ‘conversione’, sulle sue origini nel pensiero filosofico<br />

greco e sui suoi importanti risvolti nel cristianesimo di Agostino. Egli ribadisce come<br />

l’esempio di Socrate costituisca una svolta nel pensare il rapporto filosofico tra discepolo e<br />

maestro nei termini di una ‘adesione dell’anima’ 106 e menziona il caso di Polemone e le<br />

modalità del suo approdo alla filosofia come indicativi del fatto che il pensiero filosofico del<br />

tempo abbia voluto stabilire uno standard di valori ben definiti, in opposizione a quelli del<br />

resto della società, che costituiva in ultima istanza una forte esortazione in direzione di una<br />

103 D.L. IV, 27 = T. 2bis.<br />

104 Per le considerazioni che seguono sulla cronologia dei filosofi ellenistici e per ulteriori riferimenti<br />

bibliografici v. Dorandi (2005), pp. 31-54.<br />

105 Nock (1952).<br />

106 Ivi, p. 130-131.<br />

79


vita ben ordinata, in direzione dunque di una ‘conversione’ a un migliore genere di vita 107 .<br />

Nock definisce opportunamente il concetto di ‘conversione’ come « il nuovo orientamento<br />

dell’anima di un individuo, il suo decisivo rivolgersi dall’indifferenza o da una precedente<br />

forma di religiosità ad un’altra; rivolgimento che implica la consapevolezza di un grande<br />

mutamento, che l’antico era errato mentre il nuovo è giusto » 108 e tenta di mettere in risalto le<br />

affinità tra questo concetto di ‘conversione’ propriamente religioso e la scelta di vita del<br />

filosofo nel mondo greco. Gli aneddoti sulla radicalità delle scelte di vita dei filosofi cinici<br />

vengono dunque interpretati come illustrativi di una scelta di distacco e libertà rispetto ai<br />

vincoli convenzionali della società. Per il mondo greco si ricaverebbe così una nozione di<br />

‘conversione’ che starebbe a indicare « il ripudio degli agi, dei piaceri e della superstizione<br />

(altro frequente bersaglio della critica dei filosofi), per una vita di disciplina e talora di<br />

contemplazione, scientifica o mistica » 109 . La tesi di Nock si spinge fino a considerare<br />

l’Academia di Platone e dei suoi successori come locus standi di un’atmosfera socratica e<br />

come un’istituzione paragonabile ai gruppi pitagorici in quanto caratterizzata da un senso di<br />

solidarietà e religiosità 110 . Tuttavia l’accentuazione di connotazioni propriamente religiose<br />

all’interno del modello della conversione filosofica rimane un punto controverso e con<br />

possibilità di riscontro testuale nella tradizione fin qui considerata decisamente meno evidenti.<br />

Ulteriori osservazioni sull’argomento e in particolare sui modelli di conversione alla filosofia<br />

nella tradizione confluita nel testo di Diogene Laerzio sono stata avanzate da J.P. Dumont 111 .<br />

Lo studioso francese avanza l’ipotesi che Agostino e Diogene Laerzio facciano riferimento a<br />

‘universi di pensiero’ comparabili e che le categorie impiegate da Agostino per interpretare la<br />

propria personale esperienza di approdo al cristianesimo non siano poi lontane da quelle<br />

impiegate da Diogene nel trattare i filosofi antichi 112 . Quest’ipotesi di lavoro motiva uno<br />

studio approfondito degli esempi di conversione alla filosofia nel testo del dossografo, il quale<br />

finisce per portare alla luce quelle che vengono definite “due sorprese”: innanzitutto si nota<br />

che gli esempi di ‘conversione’ in Diogene Laerzio non sono affatto numerosi e in secondo<br />

luogo che i casi reperibili di ‘conversione’ alla filosofia traccerebbero una linea di filiazione<br />

tra l’Academia, i filosofi cinici e la Stoa 113 . Dumont sottolinea come gli elementi fondamentali<br />

della modalità di ‘conversione’ alla filosofia nei resoconti di Diogene siano l’insegnamento 114<br />

107 Ivi, p. 136.<br />

108 Ivi, p. 7.<br />

109 Ivi, p. 140.<br />

110 Ivi, p. 131.<br />

111 Dumont (1987), pp. 79-97.<br />

112 Ivi, p. 81.<br />

113 Ivi, p. 82.<br />

114 D.L. IV 16.<br />

80


di un maestro come forma privilegiata, se non unica, di trasmissione del sapere filosofico,<br />

l’idea che il rapporto tra maestro e discepolo si esplichi nei termini di una seduzione 115 e infine<br />

l’intervento di un caso provvidenziale 116 che induce la persona a volgersi alla filosofia 117 . Egli<br />

ritiene inoltre che il fatto che questi elementi si ritrovino variamente intrecciati nelle biografie<br />

di soli tre gruppi di filosofi, ovvero gli academici Polemone, Cratete e Crantore, i cinici<br />

Cratete e Diogene e lo stoico Zenone, con non trascurabili rimandi reciproci, stia a significare<br />

una volontà esplicita di Diogene Laerzio, tendente a stabilire una linea di filiazione che, dai<br />

filosofi academici e dai filosofi cinici, converge infine su Zenone 118 . Il fascino esercitato da<br />

una tale ipotesi merita che la materia venga ulteriormente approfondita.<br />

In via preliminare si nota che all’interno del testo di Diogene Laerzio sono rari i casi in cui<br />

venga messo in risalto un cambiamento repentino nell’attitudine del personaggio che si<br />

accosta alla filosofia. Molto più frequente è la menzione di una serie di maestri di cui si<br />

ascoltano gli insegnamenti, anche in altre discipline, che in linea generale fornisce<br />

l’impressione di un cammino formativo progressivo non composto da esperienze straordinarie<br />

fondamentali. Questo dipende certamente in larga misura dal tipo di fonte impiegata da<br />

Diogene Laerzio, tuttavia ci si può domandare a quali ambienti o a quali sensibilità storico-<br />

letterarie appartenga il gusto per la narrazione di episodi di adesione repentina e straordinaria<br />

alla filosofia. Tale gusto non è uniformemente diffuso nella letteratura biografica. Ci basti<br />

pensare che nemmeno il personaggio di Socrate, che senza dubbio ha esercitato grande<br />

influenza sulla costruzione dei tratti attitudinali dei filosofi posteriori, viene detto aver vissuto<br />

un episodio di ‘conversione’ alla filosofia. Platone nell’Apologia 119 menziona piuttosto una<br />

sorta di investitura oracolare, nel momento in cui la Pizia risponde all’amico di Socrate,<br />

Cherofonte, che non c’è nessuno più sapiente di Socrate. Di nessuno dei sette sapienti o dei<br />

filosofi cosidetti presocratici si racconta un episodio di ‘conversione’ e le prime avvisaglie di<br />

un cambiamento repentino nell’attitudine di chi si accosta alla filosofia si riscontrano forse nel<br />

personaggio di Antistene in Diogene Laerzio, il quale inizialmente segue le lezioni dei Sofisti<br />

e tiene i suoi propri discorsi ma quando incontra Socrate, ne diventa allievo diligentissimo:<br />

«Successivamente incontrava Socrate e da lui trasse tanto giovamento che esortava i suoi<br />

allievi a diventare condiscepoli con lui presso Socrate» 120 . Anche Senofonte raccontava di<br />

esser diventato discepolo di Socrate dopo un incontro fortuito in una strada stretta 121 , ma è<br />

115 D.L. IV 21; IV 24; VI 96.<br />

116 D.L. VI 20; VII 3-4.<br />

117 Dumont (1987), p. 82-83.<br />

118 Ivi, p. 84-85.<br />

119 Plato, Ap. 20e – 21 a.<br />

120 D.L. VI, 2:<br />

«<br />

».<br />

121 D.L. II, 48.<br />

81


legittimo parlare propriamente di un cambiamento repentino di attitudine forse solo a partire<br />

dal caso di Pirrone, che assunse un determinato comportamento per aver sentito alcune parole<br />

di un saggio indiano 122 , e dal caso di Cratete di Tebe, che «si precipitò a seguire la filosofia<br />

cinica» dopo aver visto in una tragedia il personaggio di Telefo 123 . Un gesto repentino è anche<br />

quello di Bione di Boristene, il quale non appena libero brucia gli scritti di retorica del<br />

padrone e si dà alla filosofia, prima all’interno dell’Academia sotto la guida di Cratete e poi<br />

prendendo il mantello e la bisaccia dei cinici 124 . È forse inoltre legittimo parlare di<br />

‘conversione’ alla filosofia anche per lo stoico Cleante, che faceva il pugile, ma dopo aver<br />

incontrato Zenone « si occupò di filosofia in modo eccellente e rimase perseverante sempre<br />

nelle medesime dottrine » 125 . Elementi comuni di tutti questi esempi sono il fatto che un certo<br />

avvenimento induce un cambiamento di vita. Si tratta nella maggior parte dei casi di incontro<br />

più o meno casuale con un filosofo e le parole di quest’ultimo hanno spesso un ruolo<br />

fondamentale; oppure si tratta di un fatto casuale, come nel caso di Cratete cinico, che induce<br />

a una scelta radicale. Nel caso di Zenone stoico la dinamica si presenta più complessa:<br />

rimanendo all’interno del testo di Diogene 126 apprendiamo di fatto che, in seguito ad un<br />

evento fortuito, ovvero il naufragio presso il Pireo del suo carico di porpora, Zenone scopre<br />

presso un venditore di libri il Socrate del II libro dei Memorabilia di Senofonte; in seguito, a<br />

caso fortuito si aggiunge caso fortuito, poiché Zenone viene indirizzato dal venditore di libri<br />

verso Cratete cinico, che si trovava a passare proprio in quel momento. Il moto spontaneo di<br />

Zenone sembrerebbe indirizzarlo verso una qualche incarnazione dell’istanza socratica e<br />

come tale gli viene indicato un esponente della scuola cinica e « da allora ascoltava (le<br />

lezioni) di Cratete ». A ciò tuttavia non corrisponde un cambiamento di attitudine<br />

propriamente detto e di fatti la vita cinica si rivela nel resoconto di Diogene Laerzio non<br />

adatta al forte senso del pudore di Zenone. L’incontro di Zenone con la filosofia viene<br />

descritto dunque come doppiamente mediato, da una parte mediato dalla lettura di un testo e<br />

dall’altro mediato dall’indicazione del libraio. Il rimando alla lettura del testo come fattore<br />

principale dell’approccio di Zenone alla filosofia sembra essere confermato dall’aneddoto<br />

della consultazione dell’oracolo: « Ecatone, e anche Apollonio di Tiro nel primo libro Su<br />

Zenone, riferiscono che, quando egli interrogò l’oracolo per sapere che cosa dovesse fare per<br />

vivere nel migliore dei modi, il dio rispose che sarebbe vissuto nel modo migliore se avesse<br />

avuto rapporti con i morti. Zenone comprese il senso di queste parole e lesse le opere degli<br />

122 D.L. IX, 63.<br />

123 D.L. VI, 87.<br />

124 D.L. IV, 47; IV 51-52:<br />

«<br />

»<br />

125 D.L. VII, 168.<br />

126 D.L. VII, 2-3.<br />

82


antichi » 127 . In definitiva l’inizio della vita filosofica di Zenone, più che sul modello di una<br />

‘conversione’, viene costruita sulla falsa riga dell’investitura oracolare socratica con<br />

l’aggiunta dell’azione di un evento fortuito che lo spinge a ritrovare la parola di Socrate,<br />

prima in un testo, poi in una delle sue incarnazioni possibili.<br />

Per ciò che concerne in generale l’impiego del concetto di ‘conversione’ per il caso di<br />

Polemone, è da notarsi che, qualora si intenda per ‘conversione’ il passaggio radicale da<br />

un’attitudine disordinata e vergognosa ad un’attitudine saggia e controllata, propria di chi<br />

compie una scelta di vita consapevole, ad esempio abbracciando la vita del ,<br />

l’impiego del concetto è perfettamente calzante; tuttavia qualora si propenda per l’accentuarsi<br />

della componente religiosa e dell’elemento di rapporto con il divino, in certa misura presenti<br />

nell’investitura oracolare di Socrate e pienamente esplicitati dall’impiego cristiano del<br />

concetto, l’episodio di Polemone non offre, a mio avviso, sufficiente appiglio.<br />

L’impiego del verbo convertere in Cicerone (De natura deorum I, 77), considerato come il<br />

passaggio chiave tra una dimensione filosofica e una dimensione propriamente religiosa della<br />

‘conversione’ 128 nel mondo antico, fa già riferimento ad un mutamento da una vita corrotta<br />

(« a pravitate vitae ») a una vita incentrata sul rispetto degli dèi (« ad deorum cultum »),<br />

incoraggiato da una ponderata decisione dei sapienti (« consilio quodam sapientium ») 129 .<br />

Diversamente nell’episodio della vita di Polemone è in gioco un passaggio da una vita<br />

corrotta perché disordinata, ad una vita saggia perché perfettamente ordinata, senza un<br />

riferimento esplicito al divino. Un elemento spirituale nella vicenda è presente, non in quanto<br />

essa realizza un rapporto diretto o indiretto con la trascendenza, ma nella misura in cui<br />

l’avvicinarsi alla filosofia corrisponde a una , a una preoccupazione per la<br />

propria integrità e salute, tanto nel corpo, quanto nell’anima 130 . Nè sembrerebbe sufficiente la<br />

testimonianza di Plutarco, per cui Polemone avrebbe detto che l’ w è « il servizio degli dèi<br />

per la cura e la salvaguardia dei giovani » 131 e dove viene attestata dal punto di vista di<br />

Polemone una stretta connessione tra “cura dei giovani” , presumibilmente attraverso<br />

l’insegnamento filosofico, e “il servizio degli dèi”, per stabilire una componente religiosa<br />

127 D.L. VII, 2.<br />

128 v. Nock (1952), p. 141.<br />

129 Il contesto è quello di una critica dell’antropomorfismo ad opera del personaggio di C. Aurelio Cotta,<br />

rappresentante della posizione academica, il quale argomenta contro gli epicurei che l’attribuzione alla<br />

divinitàdi un aspetto umano è evidentemente il risultato di un’operazione intellettuale dei sapienti affinché le<br />

mente delle persone ignoranti sia più facilmente ‘avviata’ al culto degli dei.<br />

130 Dumont (1987), p. 88-89, parla di « réforme de l’âme » nella conversione alla filosofia, in considerazione<br />

del suo passaggio repentino da uno stato di depravazione a una vita virtuosa. Da non trascurarsi è anche la<br />

dimensione del corpo, su cui si depositano i segni del vizio, come anche quelli della virtù.<br />

131 Plut., Ad principem ineruditum, 780d = T. 61:<br />

« "».<br />

83


nella scelta di vita di Polemone dopo l’incontro con Senocrate.<br />

La peculiarità della ‘conversione’ filosofica di Polemone emerge ancora più chiaramente<br />

dall’analisi degli elementi caratterizzanti le due fasi della vita dello scolarca dell’Academia.<br />

La caratterizzazione del giovane Polemone ruota intorno a due elementi chiave: l’uso dei<br />

piaceri e il denaro. Anche la menzione del processo intentatogli dalla moglie contiene in sè un<br />

riferimento a entrambi gli elementi. È da supporsi infatti che la preoccupazione primaria della<br />

donna fosse rispetto al patrimonio, che le intemperanze di Polemone tendevano a dilapidare,<br />

piuttosto che rispetto alle infedeltà del marito, e che solo in quanto , ereditiera di<br />

un patrimonio in mancanza di eredi maschi, essa avesse potuto rivolgersi al tribunale e<br />

ricorrere a una 132 . La qualificazione negativa di questi due<br />

elementi di per sé neutri deriva da un eccesso nell’uso: non è vergognoso che Polemone abbia<br />

rapporti con giovinetti, ma che ne abbia tanti da dilapidare un patrimonio, e non è vergognoso<br />

che Polemone disponga di denaro, ma che ne voglia disporre sempre e dovunque e per questo<br />

motivo se ne porti sempre appresso. Gli studi di Michel Foucault su l’‘uso dei piaceri’ da<br />

parte degli antichi greci 133 considerano i numerosi momenti di interazione, documentati dalla<br />

letteratura filosofica e non, tra la percezione comune della sessualità 134 in Grecia e lo sviluppo<br />

di una connotazione morale dei piaceri del corpo. Le testimonianze a nostra disposizione sulla<br />

giovinezza di Polemone, situandosi in una regione intermedia tra il punto di vista comune e il<br />

punto di vista del pensiero filosofico, possono essere agilmente lette alla luce di tali studi.<br />

Foucault asserisce in primo luogo che, sebbene la fedeltà coniugale non fosse rigidamente<br />

prescritta né dalle norme sociali, né dal sistema di leggi 135 , essa si poneva come problema per<br />

quegli ambiti di riflessione alla ricerca di un modello di austerità e dignità morale: « nel<br />

pensiero antico le esigenze di austerità non erano organizzate in una morale unificata,<br />

coerente, autoritaria e imposta allo stesso modo a tutti ; erano piuttosto un supplemento, una<br />

sorta di “lusso” nei confronti della morale comunemente in vigore, e si presentavano, del<br />

resto, in “poli decentrati”» 136 . Per “poli decentrati” Foucault intende le diverse scuole<br />

132 L’esistenza di una tale è controversa. A partire da questo passaggio è stata ipotizzata da L. BEAUCHET,<br />

Histoire du droit privé de la République athénienne, Paris 1897, Amsterdam 1969, I, p. 463. v. Dorandi<br />

(1999), pp. 53-54. v. T. THALHEIM, , RE X 2 (1919), 1526-1528, dove vengono illustrati i quattro tipi<br />

di che Aristotele distingue in resp. Ath. 56, 5; e IDEM, , RE VI 1 (1907), 114-117.<br />

133 Foucault (2002).<br />

134 Per una serie di doverosi caveat riguardo all’uso del termine ‘sessualità’ in ambito greco antico v. Foucault<br />

(2002), p. 41-43.<br />

135 Cfr. Plato, Leggi 634b7 – c2; lo spartano Megillo dice: « Per la verità, o straniero, se potevo ricordare<br />

numerose leggi dirette contro i dolori (633b-c), probabilmente non avrei l’opportunità di citarne secondo<br />

grandi e limpide partizioni in relazione ai piaceri » ; il cretese Clinia conferma che neanche lui potrebbe farlo<br />

per le leggi cretesi e l’anonimo ateniese propone di “accettare la cosa con serenità” (tr. it. a cura di F. Ferrari<br />

e S. Poli in Platone, Le Leggi, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 2005).<br />

136 Foucault (2002), p. 26.<br />

84


filosofiche con le loro fisionomie particolari e le diverse elaborazioni del rapporto con la<br />

temperanza. Si ribadisce così una forte connessione e interazione tra la direzione presa dalle<br />

pratiche di costume e l’elaborazione teorica di istanze etiche.<br />

In secondo luogo è evidente che il tema della temperanza dei piaceri gioca un ruolo<br />

fondamentale nella definizione del comportamento dell’uomo saggio, tanto che si potrebbe<br />

parlare, nell’ambito di una certa letteratura filosofica, di coincidenza tra saggezza e<br />

temperanza: Foucault nota per esempio che in Senofonte 137 la parola e la parola<br />

vengono impiegate entrambe e in modo interscambiabile per designare la<br />

temperanza, la quale, insieme con la pietà, la saggezza, il coraggio e la giustizia, fa parte delle<br />

cinque virtù alle quali Senofonte abitualmente fa riferimento. Per ciò che concerne invece<br />

Platone e la sua elaborata riflessione sulle virtù, è sufficiente per Foucault citare il passo del<br />

Gorgia 138 dove Callicle interroga Socrate su cosa sia il “comandare se stessi<br />

( )” e Socrate risponde che questo consiste nell’ « essere saggi e nel<br />

dominarsi (), nel governare i propri piaceri e i<br />

propri desideri ( ) ». Il discorso sulla temperanza o<br />

intemperanza dei piaceri nella letteratura greca antica è secondo Foucault legato a due<br />

variabili principali, la prima delle quali è riconducibile ad un ambito quantitativo, mentre la<br />

seconda è legata al ruolo attivo o passivo, ovvero alla polarità 139 . In base alla prima variabile,<br />

la differenza tra comportamento temperante e intemperante sta nel “di più” 140 , nell’eccesso 141 :<br />

come anche rispetto ai piaceri del cibo, problematica è innanzitutto la mancanza di giusta<br />

misura, la quale inevitabilmente conduce alla malattia. La letteratura filosofica e la letteratura<br />

medica sono concordi nell’associare l’immagine dell’intemperanza con quella di un cattivo<br />

stato di salute, dovuto alla dismisura nella gestione dei bisogni del corpo 142 .<br />

È interessante notare come un passaggio molto esplicito del I libro delle Leggi di Platone 143<br />

serva a Foucault per consolidare la sua idea, secondo la quale non siano propriamente le<br />

azioni legate alla sessualità a costituire un problema morale, quanto piuttosto la modalità<br />

secondo cui le azioni vengono esercitate: nel passaggio in considerazione, Platone<br />

contrappone il rapporto “conforme a natura”, che unisce l’uomo e la donna a scopo<br />

riproduttivo, al rapporto “contro natura” del maschio con il maschio e della femmina con la<br />

femmina. La distinzione tra chi agisce “conformemente alla natura” e chi invece agisce<br />

137 Xen., Ciropedia, VIII, 1, 30.<br />

138 Plato, Gorg. 491d.<br />

139 Foucault (2002), pp. 49-53.<br />

140 Foucault (ibidem, p. 55) fa riferimento l’espressione aristotelica “” (Arist. Eth. Nic. III, 11,<br />

1118b 16), che indica la direzione nella quale gli intemperanti sbagliano.<br />

141 v. la descrizione dello stato di “eccesso dei piaceri e dei dolori ()” in<br />

Plato, Tim. 86c-e.<br />

142 Foucault (2002), p. 103-105.<br />

143 Plato, Leggi 636c1-7.<br />

85


“contro la natura” viene introdotta, nel testo di Platone, come una prima descrizione<br />

della « incapacità di dominare il piacere » 144 , che il legislatore deve prendere attentamente in<br />

considerazione. Secondo Foucault dunque : « le pratiche che vanno contro la natura […] non<br />

sono che la conseguenza della dismisura : all’origine c’è “l’intemperanza nel piacere” » 145 .<br />

In quest’ottica, la ‘vita di Polemone’, in quanto prodotto letterario di uno sguardo, almeno<br />

parzialmente, se non del tutto, esterno rispetto all’ambito speculativo-filosofico, è capace di<br />

mostrare come, dal punto di vista di un greco del III secolo, abbracciare un’istanza filosofica<br />

significhi innanzitutto un cambiamento nel genere di vita e l’assumere un’attitudine ferma nei<br />

confronti dei piaceri, che si distingue marcatamente da quella comune. Il filosofo si<br />

caratterizza allora per una certa ‘estetica dell’esistenza’, ovvero, egli opera una<br />

trasformazione visibile della sua persona e fa della sua vita una pratica riflettuta. Il suo<br />

comportamento esprime così un certo valore estetico e rimanda a determinati criteri di stile,<br />

immediatamente evidenti per lo spettatore. La vita del filosofo deve essere contraddistinta da<br />

uno extra-ordinario dominio di sé, delle proprie passioni, delle proprie emozioni ed è<br />

chiamata a testimoniare una perfetta consequenzialità tra messaggio filosofico e<br />

comportamento umano concreto : il filosofo deve essere un modello esemplare di colui che<br />

conduce una vita saggia e la prima manifestazione di quest’ultima è una perfetta temperanza.<br />

Foucault menziona inoltre il rapporto riscontrabile a livello testuale nel mondo greco tra il<br />

concetto di temperanza e quello di rispettabilità sociale : « la temperanza viene regolarmente<br />

annoverata fra le qualità che appartengono – o per lo meno dovrebbero appartenere – non a<br />

tutti né a chiunque, ma in modo privilegiato a coloro che hanno rango, status sociale e<br />

responsabilità pubbliche » 146 . Per Antigono di Caristo è dunque verosimilmente sufficiente<br />

menzionare alcuni esempi del dominio di Polemone sulle proprie passioni, per affermare che<br />

« era dotato di serietà politicamente efficace ()» 147 e<br />

che « veniva ammirato in città per la sua assennatezza<br />

() » 148 . Da notarsi infine la particolare<br />

enfasi che nei resoconti biografici viene data all’idea di una coerenza tra dottrina e azione<br />

nella vita del filosofo : Pirrone è detto comportarsi nella vita in modo conseguente rispetto<br />

alle sue dottrine 149 e Polemone raccomandava di non perdersi nelle sottigliezze dialettiche fini<br />

144 Ibidem: « ».<br />

145 Foucault (2002), p. 50.<br />

146 Foucault (2002), p. 65. A questo proposito Foucault cita l’Eroticos dello Pseudo-Demostene, i Memorabilia<br />

di Senofonte (II 6, 1-5; II 1, 1-4; I 5, 1) e il concetto di swphrosyne dello Stato nella Repubblica di Platone<br />

(Rep. IV, 431 c-d).<br />

147 Philod., Acad. hist., col. XIV, 1-3.<br />

148 D.L. IV 19.<br />

149 D.L. IX 62: « si comportava in modo conseguente anche nella vita () ».<br />

86


a se stesse, per non entrare in contraddizione con se stessi 150 . Il principio di coerenza ha un<br />

posto importante nei bioi dei filosofi e in questo senso essi risentono dell’influsso di<br />

un’istanza socratica.<br />

I racconti della ‘conversione’<br />

L’episodio della ‘conversione’ di Polemone divenne paradigmatico nella letteratura antica.<br />

Sebbene il testo di Filodemo in particolare attribuisca uno spazio esiguo alla vicenda e dunque<br />

una relativa importanza, questo è uno dei rari elementi sempre presenti nella letteratura<br />

associati al nome di Polemone. Grazie alla ‘fortuna’ riscontrata dall’episodio, quella che in<br />

origine è solo una delle vicende del bios di Polemone diventa un exemplum, un’esperienza<br />

cruciale della vita filosofica. Lo si ritrova in diversi autori di lingua greca e latina, da Orazio a<br />

Epitteto, da Luciano ad Agostino. Si tratta dunque di una tradizione di lungo raggio, presente<br />

nella cultura filosofico-retorica del mondo greco-romano, prima di depositarsi nel repertorio<br />

dei primi autori cristiani. Inevitabilmente si assiste nella tradizione ad una libera<br />

rifunzionalizzazione dell’episodio al servizio della prospettiva di volta in volta adottata dagli<br />

autori. Quale risultato essa determini sul significato profondo dell’episodio e in che misura la<br />

tradizione stessa abbia fatto di quest’episodio un esempio di ‘conversione’ è oggetto del<br />

vaglio qui di seguito proposto. Lo studio di questa tradizione, che come ogni tradizione è fatta<br />

di segmenti diversi, a volte sovrapposti, a volte discontinui, si propone di considerare allora le<br />

peculiarità, le varianti e le costanti nella modalità di impiego dell’episodio della conversione<br />

di Polemone nei diversi autori, al fine di metterne in risalto la varietà di quadri concettuali e di<br />

connessioni implicite.<br />

Polemone che si “converte” figura in una satira di Orazio (T. 3) 151 , già del tutto svincolato dal<br />

contesto biografico in cui si è originato l’episodio. Il titolo dato alla satira è La follia umana e<br />

vi si immagina che Orazio, ritiratosi nella sua villetta di Sabina durante le vacanze<br />

decembrine dei Saturnali, riceva la visita di Demasippo, filosofo di fresca nomina.<br />

Quest’ultimo racconta come l’incontro con un filosofo stoico di nome Stertinio 152 l’abbia<br />

dissuaso dal buttarsi dal ponte Fabricio in seguito ai suoi fallimenti finanziari come<br />

antiquario. Il discorso dello stoico è teso a mostrare che la vergogna provata da Demasippo<br />

per il suo fallimento è senza ragione, poiché in realtà tutti gli uomini, con la sola eccezione<br />

150 D.L. IV 18: « ma si troverebbero in contraddizione con loro stessi per quanto riguarda il loro<br />

comportamento ()»<br />

151 Horatius, Saturae II, 3, vv. 250-257, tr. it. in Orazio, Le Satire, a cura di G. Manca, Einuadi, Torino, 1992.<br />

152 Maestro stoico per noi pressoché ignoto, a cui gli antichi attribuivano duecentoventi libri di filosofia. Orazio<br />

si prende gioco di lui anche in Ep. I 12, 20.<br />

87


del saggio stoico, sono folli : « ti angustia una falsa vergogna, temi di passare per pazzo, tra<br />

pazzi » (vv. 40-41). Ad illustrazione di questa posizione la satira offre una serie di brillanti<br />

descrizioni dei comportamenti insensati degli uomini, suddivisi per categorie : i pavidi, i<br />

troppo temerari, gli ambiziosi, gli avari, gli scialacquatori, i lussuriosi e tutti quelli schiavi di<br />

tristi manie. Il riferimento a Polemone si inserisce nel contesto della ridicolizzazione satirica<br />

del comportamento di chi è preso da passione amorosa. Il passaggio ha una struttura<br />

argomentativa quasi sillogistica e intende mostrare che se un adulto che si comporta come un<br />

bambino viene considerato pazzo e se una persona innamorata in realtà si comporta come un<br />

bambino, allora le persone in preda alla passione amorosa sono pazze. Si dice infatti che di<br />

chi da adulto, « con tanto di barba » (v. 249), si mettesse a fare i giochi dei bambini, come<br />

giocare alla conta, far correre i topi col carrettino, andare a cavallo sopra un bastone, diremmo<br />

che è pazzo. Si dice poi che è dimostrabile che chi è innamorato si comporta in realtà<br />

esattamente come un bambino : « non fa differenza se giochi in terra come a tre anni, o se ti<br />

disperi invocando l’amore di una sgualdrina » (vv. 251-253). Segue il riferimento a Polemone<br />

e alla sua repentina conversione, il quale ha una valenza marcatamente esortativa : « Faresti tu<br />

come Polemone quando si convertí? » (vv. 253-254). In pochi versi si descrive la nota scena<br />

dell’incontro con Senocrate e lo spogliarsi di Polemone dei suoi ornamenti, delle « insegne<br />

della sua malattia: la sciarpa, le fascie, i cuscini…la ghirlanda di fiori » (vv. 254-255). Di<br />

seguito il testo ritorna a dimostrare tramite esempi l’analogia tra il comportamento infantile e<br />

il comportamento amoroso: « offri mele a un bambino arrabbiato: lui le rifiuta: “Prendi,<br />

carino”; dice di no; se non gliele dài, te le chiede. Non fa così anche l’amante respinto, che si<br />

tormenta se debba o non debba tornare là dove finirà, non chiamato, a tornare; e non sa<br />

staccarsi dalla porta odiata? » (vv. 259-263). L’episodio della conversione di Polemone trova<br />

la sua giusta collocazione nel discorso del filosofo stoico, nella misura in cui rappresenta<br />

efficacemente da una parte il ridicolo di cui si copre chi accondiscende alle sue passioni, da<br />

un’altra l’effetto correttivo dirompente che può avere l’incontro con un maestro (fil rouge<br />

dell’intera satira). L’uno e l’altro aspetto, sebbene non propriamente espliciti, sono desumibili<br />

dalla struttura del testo. Nonostante infatti non vi sia alcun riferimento esplicito alla<br />

dissolutezza di Polemone, nè sulla sua irruzione improvvisa presso Senocrate, è possibile<br />

pensare che il nesso tra l’argomentazione del filosofo stoico e ciò che viene detto del<br />

comportamento di Polemone si trovi già nel riferimento all’amor meretricis del v. 252; anche<br />

se Orazio non dice nulla sulla abitudini libertine del giovane ateniese, a queste alludono le<br />

insigna morbi : la fascia di tessuto da legare sulla fronte, il cuscinetto per appoggiare il<br />

gomito e la sciarpetta per il collo, tutti segni esteriori di una familiarità con il lusso del corpo e<br />

dei banchetti. La ghirlanda di fiori in particolare appare ridicola ed infatti viene sfilata dal<br />

88


collo di nascosto (« furtim » v. 256). Inoltre la forma esortativa attraverso la quale viene<br />

introdotto l’episodio (« quaero faciasne…ponas… ») dà un tono protrettico al passaggio,<br />

mentre i due participi « mutatus » (v. 254) e « correctus » (v. 257) pongono al centro l’effetto<br />

trasformante della parola (« voce » v. 257) del buon maestro. Si noti che nel finale della satira<br />

Orazio, invece, si sottrae in modo deciso alla sfilza di consigli e rimproveri di Demasippo su<br />

come dovrebbe condursi, ribaltando così ancora una volta la prospettiva della satira con le<br />

parole: « dalla tua grande follia assolvi la mia, che è minore! ».<br />

Quando poi, a distanza di all’incirca tre secoli, Pomponius Porphyrion (grammatico latino<br />

vissuto tra II e III secolo d.C.) commenta l’espressione « mutatus Polemon » della satira di<br />

Orazio 153 (T. 4), riporta l’episodio secondo le linee della narrazione d'origine antigonea ed<br />

enfatizza l’effetto coercitivo del discorso di Senocrate contro la lussuria (coegit Polemonem<br />

paenitere sui). Sebbene riportato alle circostanze descritte dal resoconto biografico, il relativo<br />

isolamento dell'episodio produce un’enfatizzazione tale da definirne i contorni iconografici di<br />

cui la letteratura posteriore si approprierà.<br />

Polemone figura inoltre nella fortunata epitome di Valerio Massimo (I secolo d.C), (T. 5)<br />

come illustre esempio di ‘mutamento di abitudini’ 154 proveniente dal mondo greco, che<br />

dovrebbe esortare il lettore a pensare « sempre a migliorarsi, ricordando che è stolto<br />

condannarsi anzitempo a perpetua infelicità» : Il retore latino offre una descrizione della scena<br />

dell’incontro tra Senocrate e Polemone sostanzialmente concorde con quella descritta da<br />

Diogene Laerzio, sebbene sia di gran lunga più ricca di elementi drammatici: Polemone aveva<br />

banchettato tutta la notte e che al sorgere del sole passa quasi per caso di fronte all’abitazione<br />

di Senocrate e vi fa inconsideratamente irruzione. Valerio Massimo si sofferma sui dettagli<br />

delle vesti trasparenti di Polemone e sul fatto che non si accontenta di entrare ma insiste anche<br />

nel sedersi tra i dotti creando il più grande disturbo. Senocrate non si scompone minimamente<br />

e comincia a parlare della modestia e della temperanza. Le parole del filosofo hanno un effetto<br />

trasformante pressoché costrittivo (« cuius gravitate sermonis resipiscere coactus ») sul<br />

giovane ubriaco e quest’ultimo gradualmente cambia atteggiamento, si toglie la corona,<br />

spinge il braccio dentro il mantello, cambia espressione del volto, fino ad abbandonare « ogni<br />

lussuria », « guarito dalla saluberrima medicina di un solo discorso ». Sempre in primo piano<br />

stanno il riferimento al comportamento sfacciatamente sfrenato di Polemone e all’effetto<br />

trasformante delle parole del filosofo capaci di determinare un cambiamento radicale nel<br />

153 Porphyrion, Ad. Hor. Sat. II 3, 254; testo in O. KELLER (ed.), Pseudoacronis Scholia in Horatium vetustiora,<br />

II vol.: Schol. in sermones, epistulas artemque poeticam, Leipzig 1902-1904; tr. it. v. Isnardi Parente (1982),<br />

http://rmcisadu.let.uniroma1.it/isnardi/fronte02.htm, ‘Commento: (a) Testimonia’,Test. 49, p. 28. = Polemo<br />

fr. 19 Gigante.<br />

154 Valerius Maximus, Factorum et dictorum memorabilium, liber VI, 9 : De mutatione morum aut fortunae, tr.<br />

it. in Valerio Massimo, Detti e fatti memorabili, a cura di R. Faranda,Utet, Torino 1971. = Polemo fr. 20 Gigante<br />

= Senocrate Test. 51 Isnardi Parente.<br />

89


genere di vita. L’antitesi tra una giovinezza dissoluta e una maturità temperante è il filo<br />

conduttore anche dei primi sei exempla di aristocratici romani in questo capitolo del manuale<br />

di Valerio Massimo, ma solo nella vicenda di Polemone si fa riferimento a un incontro con la<br />

filosofia. L’episodio entra dunque a far parte del repertorio impiegato in ambito retorico<br />

innanzitutto come figura del cambiamento, del mutamento radicale di abitudini e in quanto<br />

tale diventa materiale d’uso per le esercitazioni letterarie di un uomo colto, svincolato da ogni<br />

implicazione filosofica.<br />

In Plutarco 155 (46-120 d.C), la menzione dell’effetto avuto dall’incontro di Polemone con<br />

Senocrate è inserito in un discorso sulla centralità dell’influenza del maestro nei confronti del<br />

discepolo e sulla sua capacità di ottenere una trasformazione (T. 6). Non viene menzionato da<br />

Plutarco il discorso di Senocrate. Il solo aspetto fisico esteriore del filosofo è sufficiente per<br />

ispirare reverenza e decidere di conformare il proprio modo di vita al suo.<br />

Il filosofo stoico Epitteto (55-135 c.a d.C.) inoltre fa riferimento alla ‘conversione’ di<br />

Polemone in connessione con il tema dell’avvicinarsi alla filosofia in due diverse occasioni.<br />

In entrambi i casi la discussione verte sul comportamento del filosofo stoico nei confronti di<br />

chi gli si presenti come discepolo, dimostrando in un caso una eccessiva cura della sua<br />

apparenza estetica e nell’altro un’eccessiva trascuratezza della propria persona. Nel libro III<br />

(cap. I) delle Diatribe 156 (T. 7), Epitteto dialoga con un giovane studente di retorica con la<br />

chioma oltremodo curata e tutto agghindato nel vestire. Dopo aver esortato il giovane a<br />

ricercare l’‘eccellenza umana’, il filosofo stoico si dice propenso a non aggiungere altro e a<br />

congedare il ragazzo e la sua frivolezza, ma qualche scrupolo lo trattiene. Il riferimento a<br />

Polemone viene messo in bocca al giovane studente di retorica ed è posto in termini generici<br />

(« so di un certo Polemone »), come a testimoniare la sua appartenenza a un repertorio<br />

ampiamente condiviso di conoscenze non troppo approfondite. Si nota che Polemone è<br />

soprattutto un esempio di « cambiamento completo », a cui appellarsi per mettere in risalto<br />

un’argomentazione retorica. Il secondo riferimento a Polemone in Epitteto si trova in un<br />

contesto simile e complementare 157 (T. 8); il filosofo stoico discute in questo caso di chi<br />

trascura la pulizia della propria persona. Il riferimento polemico sembrerebbe essere<br />

l’attitudine del filosofo cinico e la sua noncuranza delle norme sociali. Tra i vari argomenti<br />

Epitteto afferma che tra i potenziali discepoli è preferibile un giovane che presta troppa<br />

attenzione alla cura del suo corpo, piuttosto che uno troppo trasandato, poiché il primo<br />

dimostra perlomeno di avere una certa inclinazione al bello, che il maestro può sempre<br />

muovere a un diverso oggetto, mentre il secondo sembra essere privo di qualsiasi nozione del<br />

155 Plutarchus, De adulatore et amico 37, 71 e = Polemo fr. 21 Gigante = Senocrate Test. 47 Isnardi Parente.<br />

156 Epictetus, Dissertationes III 1, 14; tr. it. in Epitteto, Le diatribe e i frammenti, a cura di R. Laurenti, Laterza,<br />

Bari 1960. = Polemo fr. 22 Gigante.<br />

157 Epictetus, Dissertationes IV 11, 30; = Polemo fr. 23 Gigante = Senocrate fr. 52 Isnardi Parente.<br />

90


ello. La vicenda di Polemone serve a sostenere la tesi secondo la quale il discepolo deve<br />

essere preliminarmente alla ricerca del bello, per quanto questa possa essere male indirizzata.<br />

Nell’impiego del nome di Polemone torna inoltre in primo piano l’efficacità del discorso di<br />

Senocrate e paradossalmente il suo amore per il lusso viene attenuato e trasformato in una<br />

potenziale tendenza verso il bello. La funzionalità e malleabilità retorica dell’exemplum è<br />

evidente.<br />

Il racconto più avvicente della ‘conversione’ di Polemone è senza dubbio quello del retore e<br />

satirista di lingua greca, Luciano di Samosata (125-180 d.C.). Nel Bis accusatus 158 (T. 9; T.<br />

10) è di scena la Giustizia che scende riluttante sulla terra dopo una lunga assenza. Zeus la<br />

incoraggia a fare ritorno tra gli uomini, perché: « i filosofi li hanno ormai convinti ad onorare<br />

te (la Giustizia) più che l’Ingiustizia; e lo ha fatto in particolare il figlio di Sofronisco<br />

esaltando il giusto e dichiarandolo il più grande dei beni » 159 . Nell’Areopago di Atene<br />

vengono allora convocati tutti coloro che desiderano accusare qualcuno e primi fra tutti<br />

vengono ascoltate le cause delle arti, dei mestieri e delle discipline contro gli uomini. Tra<br />

queste figurano la causa dell’Ubriachezza che accusa l’Academia di averle rubato Polemone,<br />

insieme ad una serie di altre cause semi-serie che coinvolgono varie istanze filosofiche<br />

ateniesi: la Stoa accusa la Voluttà d’un oltraggio, la Mollezza si presenta contro la Virtù per<br />

Aristippo, il Banco accusa Diogene di fuga, la pittura accusa Pirrone come disertore. La<br />

personificazione dell’Academia proferisce due discorsi, uno in nome dell’accusa e uno in<br />

difesa di se stessa, perché : « l’Academia è sempre preparata a entrambi i discorsi, quello<br />

d’accusa e quello di difesa, e acquista con l’esercizio la capacità di dimostrare brillantemente<br />

due tesi opposte » 160 . Nel primo discorso 161 si legge un resoconto delle abitudini festaiole di<br />

Polemone: « E della verità di questo sono informati tutti gli Ateniesi, che mai videro<br />

Polemone sobrio », posto a contrasto con il risultato del suo contatto con l'Academia, il quale<br />

viene presentato ironicamente come un deterioramento del suo stato di 'salute': « Ne seguì<br />

che, se prima di allora gli fioriva il rosso sul volto, ora lo sventurato è divenuto pallido e<br />

rattrappito e, dimentico di tutte le canzoni, siede talvolta senza mangiare né bere fino a mezza<br />

sera per non interrompere quel bel mucchio di chiacchere che io, l’Academia, gli insegno a<br />

fare. Ma il peggio è che, sobillato da me, insulta l’Ubriachezza e dice male di lei a non finire<br />

».<br />

Un’altra versione dei fatti, più vicina al resoconto trasmesso da Diogene Laerzio è contenuta<br />

nel secondo discorso dell’Academia 162 ; Luciano attinge ad una tradizione vicina a quella<br />

158 Lucianus, Bis accusatus, tr. it. in Dialoghi di Luciano, a cura di V. Longo, Utet, Torino 1993.<br />

159 Ivi, § 5.<br />

160 Ivi, § 15.<br />

161 Ivi, § 16.<br />

162Ivi, § 17.<br />

91


laerziana, corredata di numerosi particolari scenici di grande effetto, come ad esempio<br />

l’accompagnamento dei flauti, le grida scomposte di Polemone per disturbare la riunione dei<br />

filosofi e la veste di porpora. Nel costruire il doppio discorso, l’autore si appoggia a una serie<br />

di approfondite descrizioni (psicologiche) dei gesti di Polemone: nel primo discorso, prima di<br />

finire nell’Academia, Polemone era solito fare irruzione in ogni porta, mentre da filosofo,<br />

smunto e malinconico, si dimentica di bere e di mangiare; nel secondo discorso invece,<br />

quando finalmente si ferma ad ascoltare le parole pronunciate nell’Academia, d’un tratto si<br />

rende conto di tutto, ha quasi una rivelazione: « come svegliandosi da un sonno profondo »;<br />

arrossisce per il pudore e infine prende una decisione ponderata su ciò che ritiene meglio per<br />

sé stesso. Il resoconto di Luciano è ricchissimo di spunti e suggestioni, che sono debitrici<br />

delle doti letterarie dell’autore. Sebbene quest’ultimo sembri conservare più di altri un<br />

rapporto circostanziato con le fonti dalle quali attinge, senza dubbio l’episodio subisce le<br />

deformazioni necessarie dell’arte satirica.<br />

L’episodio della ‘conversione’ di Polemone figura inoltre nell’epistolario tra il rinomato retore<br />

latino, Marco Cornelio Frontone (100-170 d.C circa), e il suo discepolo e amico, l’imperatore<br />

Marc’Aurelio 163 (T. 11). Il retore si confronta con il suo interlocutore sul piano retorico e<br />

menziona il nome di Polemone, « un filosofo, se non erro, atticissimo », in risposta ad un<br />

precedente riferimento di Marc’Aurelio a un retore con lo stesso nome, definito ‘ciceroniano’.<br />

Viene dunque chiesto un giudizio sulla resa stilistica della storia di Polemone nell’ambito di<br />

un discorso tenuto in Senato e si dice che molti elementi sono stati attinti dalla<br />

caratterizzazione dell’episodio fatta da Orazio. I versi di quest’ultimo sono poi richiamati a<br />

completare il riferimento a Polemone, la cui funzione in conclusione non sembra andare al di<br />

là della semplice figura retorica.<br />

Tra i primi padri della chiesa cristiana, Origene (185-254 d.C.) (T. 12) fa ricorso alla storia di<br />

Polemone per confutare una delle tesi dello scrittore anti-cristiano Celso 164 . Quest’ultimo<br />

aveva definito gli apostoli « uomini screditati », perché di umili origini, pubblicani o<br />

miserabili marinai. La risposta di Origine su questo punto consiste nel dire che non c’è niente<br />

di sconcertante nel fatto che il Cristo abbia voluto far progredire a modello di virtù delle<br />

persone di basse origini e che se si dovesse rimproverare il tipo di vita condotto in passato da<br />

coloro che poi sono radicalmente cambiati, in cima alla lista si troverebbero due depositari<br />

dell’insegnamento socratico, a cui Celso stesso probabilmente faceva riferimento: i due<br />

personaggi menzionati sono Fedone, che prima di incontrare Socrate viveva in un bordello, e<br />

Polemone, la cui dissoluta giovinezza è ormai nota. Origene dimostra nella sua opera una<br />

163 M.C. Fronto, Ad Marcum Caesarem II, 2, 5. Tr. it. in Marco Cornelio Frontone, Opere, a cura di F. Portalupi,<br />

Utet, Torino 1997. = Polemo fr. 26 Gigante.<br />

164 Origenes, Contra Celsum, I 64; III 67. tr. it. in Origene, Contro Celso, a cura di P. Ressa, Morcelliana,<br />

Brescia 2000. = Polemo frr. 27 e 28 Gigante = Senocrate Test. 53 e 50 Isnardi Parente.<br />

92


conoscenza molto approfondita della filosofia greca, delle sue dottrine e dei suoi aneddoti, la<br />

quale gli permette di rivaleggiare con il suo interlocutore all’interno del suo stesso ambito di<br />

riferimento e di disporre in modo originale di svariati argomenti. In questo senso, l’impiego<br />

del nome di Polemone, in associazione con quello di Fedone, rivela un uso consapevole ed<br />

originale della tradizione biografica sui filosofi antichi. Viene messo in risalto in questo<br />

contesto che i personaggi menzionati appartengano alla filosofia, come quell’ambito in cui la<br />

parola della ragione ha un effetto persuasivo e di liberazione da uno stato di cattiva salute.<br />

Questa caratteristica del discorso filosofico consente ad Origene di costruire un’analogia tra<br />

l’effetto dell’incontro con un filosofo e l’effetto dell’incontro con Cristo, che va a minare le<br />

basi delle critiche di Celso. L’analogia inoltre viene prevedibilmente risolta a favore del<br />

discorso cristiano, presentato come quello che è capace di generare un cambiamento radicale<br />

e benefico nella vita di un maggior numero persone, a differenza del discorso filosofico, per il<br />

quale sono solo due gli esempi immediatamente menzionabili. L’aspetto del mutamento<br />

radicale è centrale anche nella seconda menzione della vicenda di Polemone in Origene (T.<br />

13). L’obiezione di Celso in questo secondo contesto è che non è possibile in generale un<br />

mutamento radicale nell’uomo (II, 67). La risposta di Origene, analoga a quella precedente,<br />

consiste nel portare l’esempio di Fedone e Polemone come prova della possibilità di un<br />

mutamento radicale, da una vita vergognosa ad una vita di fermezza e rispettabilità.<br />

Compaiono accanto a Polemone in questo testo la suonatrice di flauto, presente anche nel<br />

testo di Luciano, e il gruppo di compagni a cui Polemone lancia una sfida, entrando nella<br />

scuola di Senocrate. Origene dunque, o attinge come Luciano da un resoconto dell’episodio<br />

ricco di particolari, oppure trova la sua fonte proprio nel dialogo di Luciano.<br />

Troviamo un ultimo riferimento in ambito ‘pagano’ all’episodio della ‘conversione’ di<br />

Polemone nella prolusione di Temistio (317-388 d.C. circa) ad un suo corso di filosofia tenuto<br />

a Nicomedia in Bitinia 165 (T. 14). Scopo dell’orazione sembrerebbe quello di esortare gli<br />

studenti allo studio della filosofia, in opposizione all’insegnamento dei sofisti, mettendo in<br />

risalto le caratteristiche che lo rendono superiore alle altre discipline. Temistio illustra i<br />

vantaggi della fusione tra filosofia e retorica che lui stesso propone e combina elementi di<br />

propaganda personale con elementi più propriamente esortativi. Nel testo 166 figura una<br />

personificazione della filosofia dall’ « aspetto solenne, l’alta figura e l’abito dignitoso »; i suoi<br />

attributi rispecchiano un perfetto bilanciamento tra un eccesso di trascuratezza e un eccesso di<br />

ricercatezza e la sua bellezza naturale (« ») « rifiuta l’aggiunta di<br />

qualsiasi orpello estraneo ». Il punto stabilito da questa dettagliata descrizione è che il<br />

165 Themistius, Oratio XXIV: , tr. it. in Temistio,<br />

Discorsi, a cura di R. Maisano, Utet, Torino 1995. = Polemo fr. 29 Gigante<br />

166 Ivi, § 5, 303b-304a: Caratteri della filosofia.<br />

93


semplice aspetto (esteriore) della filosofia è capace di trasformare chi la guarda. L'incontro tra<br />

Polemone e il suo maestro viene introdotto in questo contesto come l'accesso ad un'immagine<br />

della vita di Senocrate in comunione con la filosofia : « Quando Polemone Attico, che per<br />

lungo tempo si era divertito fra bagordi, canti e bevute, vide la filosofia vivere in comunione<br />

intima con Senocrate, furono completamente dimenticati e scomparvero dall’animo suo i<br />

canti, gli amori volgari, i festini ». Il testo contiene numerosi riferimenti ad una dimensione<br />

iniziatica dell’incontro con la filosofia 167 : l’affinità tra la scelta di una vita filosofica e<br />

l’accesso a una religiosità misterica è chiaramente esplicitato. La lettura dell’episodio di<br />

Polemone da parte di Temistio è dunque fortemente guidata da una concezione della<br />

dimensione esoterica del discorso filosofico, da comprendersi in relazione al contesto<br />

filosofico e culturale a cui Temistio appartiene. Il testo gioca inoltre su una falsa dicotomia tra<br />

interno ed esterno: la descrizione dell’aspetto esteriore della filosofia personificata è da<br />

intendersi come descrizione dell’effetto interiore che l’insegnamento filosofico ottiene; gli<br />

attributi di ordine e misuratezza si riferiscono in realtà al modo di vita e alla disposizione<br />

dell’anima, spontaneamente assunti da colui che si dedica alla filosofia. La vicenda di<br />

Polemone sta ad illustrare dunque il fatto che entrare in contatto con la filosofia corrisponde<br />

ad un abbandono repentino di ogni disordinata abitudine, sia interiore che esteriore.<br />

Tornando a seguire la fortuna della ‘conversione’ di Polemone in ambito cristiano, ci si<br />

imbatte nella lettura di un carme di Gregorio di Nazianzo (330-390 d.C) 168 (T. 15). Il vescovo<br />

cappadoce ha inserito un riferimento alla vicenda di Polemone, all’interno della sua ampia<br />

produzione in versi, in riferimento al tema della ‘continenza’. È abitudine stilistica di<br />

Gregorio di Nazianzo quella di fare ricorso ad exempla del mondo pagano, per introdurre un<br />

tema sul quale la dottrina cristiana fornisce, dal suo punto di vista, la più alta trattazione e la<br />

più coerente delle soluzioni. In questo caso l’esempio di Polemone e quelli che lo precedono<br />

stanno a mostrare che, per quanto la caratterizzazione della divinità presso i greci sia<br />

assolutamente rigettabile, la tradizione antica offre dei messaggi sulla vita virtuosa di cui il<br />

cristiano può far tesoro. L’educazione di Gregorio, in parte avvenuta anche ad Atene<br />

all’insegna della cultura classica, lo spinge a cercare i punti di incontro tra la morale degli<br />

antichi e la morale cristiana. L’autore dunque non nega che il tema della ‘continenza’ era caro<br />

anche ai greci, in particolare in ambito filosofico, e cita i nomi di Senocrate, Epicuro e<br />

Polemone come esempi di coloro che « amano questa virtù ». Su Senocrate viene narrato<br />

167 Si veda l’insistenza sul vocabolario della ‘visione’ («»; «»; «<br />

»), in opposizione alla ‘indicibilità’ della bellezza (« »), come anche i riferimenti alla<br />

‘purissima filosofia’ («») e all’iniziazione ai ‘misteri divini’<br />

(«»).<br />

168 Gregorius Nazianzenus, Carmen I, 2, 10: de virtute, tr. it. in Gregorio Nazianzeno, Poesie, a cura di C.<br />

Moreschini, I. Costa, C. Crimi e G. Laudizi, Città nuova ed., Roma 1994. vv. 793-807 = Polemo fr. 30<br />

Gigante.<br />

94


l’aneddoto, che conosciamo anche per altra fonte, della meretrice (Frine) che si scontra con<br />

l’impassibilità del filosofo 169 ; mentre su Epicuro viene riportata la sua formula del telos<br />

edonista, a cui si aggiunge una nota curiosa, non lontana dall’essere malevola, sulle ragioni<br />

che inducevano Epicuro a condurre una vita temperante. Riguardo a Polemone infine il<br />

riferimento di Gregorio si distanzia dalla tradizione fin qui considerata. A prima vista infatti<br />

egli sembra ignorare che sussiste un preciso legame tra la storia di Senocrate e quella di<br />

Polemone. Si dice che egli fu « conquistato dall’amore per il bene », senza specificare il ruolo<br />

dell’insegnamento filosofico, ma anzi avanzando l’ipotesi che il cambiamento radicale possa<br />

essere avvenuto « trovando come consigliere […] se stesso ». Ad esemplificare poi<br />

l'immagine del perfetto dominio di Polemone sulle sue passioni in seguito alla ‘conversione’,<br />

Gregorio riporta un aneddoto, altrimenti sconosciuto, sull’effetto che la sola immagine del<br />

filosofo ebbe su una meretrice. Si nota dunque che la tradizione da cui Gregorio attinge per<br />

questa serie di esempi non è di tipo uniforme: la presenza della formula del telos di Epicuro e<br />

la punta malevola del giudizio sulle ragioni della sua condotta riconducono il secondo<br />

exemplum ad una tradizione di tipo dossografico e polemico, diversamente dagli aneddoti<br />

edificanti sugli altri due filosofi. Inoltre il silenzio sul rapporto diretto che sussiste tra i<br />

personaggi della prima e della terza storia induce a pensare che i due aneddoti siano stati<br />

selezionati nella tradizione indipendentemente l’uno dall’altro. Si nota infine che la storia<br />

della ‘conversione’ di Polemone si presta ad esser connessa con una varietà di altri episodi,<br />

che illustrano in particolare come già il suo aspetto esteriore suggerisse un perfetto dominio<br />

delle passioni.<br />

Agostino di Ippona (354-430 d.C) menziona due volte la ‘conversione’ di Polemone : il primo<br />

riferimento figura in una lettera scritta ai cittadini di Cirta 170 in Numidia, recentemente<br />

convertitisi dal Donatismo alla comunione cattolica (T. 17). Agostino dedica un lungo<br />

paragrafo alla reinterpretazione di ogni conversione come effetto esclusivamente dell’opera di<br />

Dio e prende spunto dalla vicenda di Polemone, precedentemente menzionata dagli<br />

interlocutori di Agostino a Cirta, verosimilmente per descrivere il radicale cambiamento che<br />

la predicazione di Agostino aveva determinato nella loro fede e nel loro modo di vita, per<br />

affermare che nessun uomo può arrogarsi il vanto di una conversione, perché questa può<br />

avvenire solo per effetto dell’intervento di Dio. Nel testo del Contra Julianum (T. 18) invece<br />

l'attitudine remissiva di Polemone di fronte a Senocrate viene citata come potenziale modello<br />

per il giovane dissidente. Agostino fa riferimento in modo approssimativo allo stesso<br />

repertorio retorico, impiegato anche dagli abitanti di Cirta, per introdurre una nozione<br />

169 v. Valerius Maximus IV 3, ext. 3 = fr. 26 Isnardi Parente.<br />

170 Augustinus, Epistola CXLIV, tr. it. in Sant’Agostino, Le Lettere II, a cura di L. Carrozzi, in Opere di<br />

Sant’Agostino, parte III: le lettere, vol. XXII, Città nuova ed., Roma 1971. = Polemo fr. 33 Gigante =<br />

Senocrate Test. 54 Isnardi Parente.<br />

95


propriamente cristiana di ‘conversione’.<br />

In conclusione: nella tradizione emerge fortemente la valenza esortativa della narrazione<br />

dell’episodio della ‘conversione’ di Polemone (v. Orazio, Temistio) e uno dei suoi esiti più<br />

chiari è quello di diventare una figura del mutamento radicale nel repertorio retorico greco-<br />

latino (v. Valerio Massimo, Epitteto, Fronto, Gregorio, Agostino). Nelle diverse versioni<br />

dell’episodio possiamo inoltre riscontrare la presenza di due registri linguistici: l’uno mette in<br />

risalto l’effetto della parola e dunque il registro linguistico del ‘sentire’ (v. Orazio, Valerio<br />

Massimo, Luciano, Origene); l’altro invece fa riferimento all’effetto dell’aspetto esteriore del<br />

filosofo e dunque al registro del ‘vedere’ (v. Plutarco, Epitteto, Temistio, Gregorio).<br />

L’interazione tra i due registri permette di comprendere in che modo la ‘conversione’<br />

filosofica di Polemone diventi leggibile anche nei termini di una ‘conversione’ religiosa,<br />

ovvero di una ‘rivelazione’, dove il discorso udito è anche una visione del vero, oppure, dove<br />

la visione è anche un discorso vero. Sebbene dunque l’apporto del cristianesimo<br />

nell’elaborazione del rapporto con il divino nei termini di una ‘conversione’ si distanzi di<br />

molto dal contenuto specifico dell’episodio della vita di Polemone, ciò non toglie che<br />

quest’ultimo possa essere rifunzionalizzato dalla tradizione cristiana, come un momento di<br />

approssimativa ‘rivelazione’.<br />

Polemone, discepolo di Senocrate<br />

Il ruolo di Senocrate nell’episodio della conversione di Polemone è senza dubbio centrale : è<br />

la forza del suo discorso in congiunzione con la sua attitudine imperturbabile che determina<br />

una trasformazione radicale nell’attitudine alla vita di Polemone. Margherita Isnardi Parente<br />

nei suoi studi sulla figura di Senocrate sottolinea il fatto che lo scolarca si sia distinto per il<br />

fascino morale esercitato sui suoi simili e legge l’episodio di Polemone come<br />

un’esemplificazione della « profonda capacità di paideia che la figura di Senocrate spira, una<br />

vera e propria dynamis che si esercita sui non volenti con la forza di una conversione<br />

religiosa » 171 . All’interno dell’Academia vediamo dunque il rapporto maestro-discepolo<br />

assumere una posizione decisamente centrale. Il carisma personale del maestro attira i<br />

discepoli allo studio filosofico 172 e il rapporto che si instaura con il maestro è di tipo<br />

emulativo : « Polemone, a quanto sembra, ha emulato Senocrate in tutto » 173 . Lo pseudo-<br />

171 Isnardi Parente (1981), p. 134.<br />

172 Cfr. la vicenda di Menedemo che visitò l’Academia e Platone e rimase attratto fino al punto di lasciare il<br />

servizio militare in D.L. II 125:<br />

«<br />

».<br />

173 D.L. IV 19: « »<br />

96


Aristippo 174 , nell’opera Sulla sensualità degli antichi, intendeva forse schernire il rapporto tra<br />

i due filosofi, quando dice che Polemone era ‘innamorato’ di Senocrate. Tuttavia nell’ottica<br />

dell’insegnamento socratico ogni trasmissione di conoscenze è da intendersi nei termini di un<br />

rapporto guidato dall’eros. Sono ben note le pagine del Fedro di Platone in cui Socrate mette<br />

in relazione l’esperienza dell’eros con la contemplazione dell’anima del corteo celeste degli<br />

dèi, per cui nell’amato si ricercano le caratteristiche del dio al cui seguito la nostra anima è<br />

stata nell’aldilà : « e dal momento che hanno contatto con lui, mediante il ricordo, essendo da<br />

lui invasati, assumono i suoi caratteri e le sue attività<br />

(), nella misura in cui all’uomo è<br />

possibile essere partecipe del divino. E poiché considerano l’amato causa di queste cose, lo<br />

amano ancora di più. E anche se attingono da Zeus, come le Baccanti, riversando ciò che<br />

attingono nell’anima dell’amato, lo rendono nella misura del possibile somigliantissimo al<br />

loro dio » 175 . Il cammino della conoscenza, ovvero, in questo contesto, dell’anamnesi delle<br />

realtà divine, passa per il rapporto con l’altro, con l’amato. Il rapporto di imitazione e<br />

assimilazione veicolato dall’eros è duplice : da un lato, l’eros risveglia il ricordo e permette di<br />

imitare i caratteri e le attività del divino, dall’altro, l’oggetto dell’eros è reso quanto più<br />

possibile simile al dio. L’amante e l’amato, il soggetto e l’oggetto, si confondono nelle due<br />

direzioni dell’assimilazione al divino che l’eros innesca. In ogni modo, sia che si ritenga<br />

opportuno tenere in considerazione l’elemento dell’eros nel rapporto tra Polemone e<br />

Senocrate, sia che non ci si voglia fidare per niente dello Pseudo-Aristippo, Diogene Laerzio<br />

puntualizza che Polemone certamente si ricordò sempre di Senocrate e « conservò come lui<br />

quel tono di semplicità, di austerità e di gravità, che è tipico dell’armonia dorica » 176 . Il<br />

rapporto con il maestro si configura dunque come un rapporto di imitazione dell’attitudine<br />

morale del maestro. Il discepolo segue da vicino il maestro, imparando direttamente dai suoi<br />

atteggiamenti e dalle sue abitudini, prima ancora che dalla sua produzione teorica e dalle sue<br />

lezioni.<br />

Dalla ‘vita di Senocrate’ è possibile inoltre ricavare numerosi elementi che anticipano<br />

174 su Pseudo-Aristippo che scrisse un’opera contro i filosofi, v. anche Giannantoni (1990), vol. I frr. 151-158,<br />

vol. IV, p. 164, n. 16; Dorandi (2007), pp. 157-172.<br />

175 Plato, Phaedrus 253 a 2 – b 1. tr. it. a cura di G. Reale in: Platone, Fedro, Milano 1993.<br />

176 D.L. IV 19 = Antigone fr. 9B Dorandi:<br />

«<br />

». cfr. Philod., Acad. Hist., col. XIV, 41-45 = Antigone fr. 9A Dorandi:<br />

«<br />

».<br />

L’espressione « » ha dato luogo a traduzioni divergenti: M. Isnardi Parente traduce:<br />

«sembra che amasse Senocrate ingenuamente come un fanciullo…»; molto meno enfatica la traduzione di<br />

Dorandi: « Ovviamente anche da giovane ammirò Senocrate, cosa che risulta da quanto dice in sua lode e in<br />

ogni cosa imitò il suo comportamento». M. Isnardi Parente opta per l’accentuazione del significato negativo<br />

dell’avverbio, per evitare un conflitto con la tradizione che fa di Polemone un giovinetto dissoluto, v. Isnardi<br />

Parente (1982), Commento: (a) Testimonia, p. 4, n. 14.<br />

97


l’impassibilità di Polemone : Senocrate si presenta come una statua di fronte ai tentativi di<br />

seduzione dell’etera Frine ed è a tal punto dotato di autocontrollo da sopportare tagli e<br />

cauterizzazioni dei genitali 177 . Come sappiamo, non si scompose minimamente di fronte alla<br />

sfrontatezza del giovane Polemone ubriaco e una volta che Antipatro gli rivolse il saluto, egli<br />

non lo ricambiò fino a che non ebbe terminato il discorso che stava facendo 178 . In generale la<br />

descrizione dell’ di Senocrate in Diogene Laerzio tende a dare numerose<br />

esemplificazioni delle sue virtù 179 ; in aggiunta Filodemo riporta che « I membri<br />

dell’Academia, si racconta, allora preferirono Senocrate perché stimavano la sua<br />

assennatezza », in opposizione rispetto al suo predecessore Speusippo, a proposito del quale si<br />

legge invece che « aveva un animo molto più debole di coloro che si abbandonano alla<br />

mollezza e perché si lasciava vincere dai piaceri gli si erano indebolite (le articolazioni) » 180 .<br />

La fama della straordinaria virtù di Senocrate arriva fino al testo di Plutarco sull’ambasciata<br />

del 322 a.C. ad Antipatro : « e gli ateniesi vollero aggiungervi Senocrate : tale era infatti la<br />

stima della virtù di Senocrate, tale la sua fama e la sua rinomanza presso tutti, che si riteneva<br />

che non vi fosse alcuna tracotanza, crudeltà, furore sorto in qualsiasi anima umana che non<br />

dovesse mutarsi in reverenza ed equanimità alla sola vista di Senocrate e al suo cospetto » 181 .<br />

Il personaggio di Senocrate inaugura nell’Academia una tendenza ad esibire i caratteri della<br />

virtù morale : egli dà prova di temperanza rispetto ai piaceri, di fermezza rispetto al dolore, di<br />

autonomia o indifferenza rispetto ai potenti 182 . Da ciò deriva la buona fama del filosofo presso<br />

la collettività : la fermezza morale si riflette direttamente sull’aspetto esteriore del filosofo e<br />

quest’ultimo genera grande rispetto e stima in chiunque venga a contatto con lui 183 . Si ritrova<br />

la stessa tendenza estetica ed esistenziale nel personaggio di Polemone. L’affinità con il suo<br />

maestro finisce d’altra parte per rendere problematica la differenziazione dei due personaggi e<br />

l’individuazione dei margini di originalità di Polemone. In particolare dal punto di vista delle<br />

dottrine etiche si potrebbe essere portati a sovrapporre il pensiero dei due personaggi. Tuttavia<br />

il costituirsi della fisionomia del filosofo academico come referente di saggezza morale per la<br />

collettività non si origina, almeno nei resoconti fin qui esaminati, da questioni dottrinali<br />

177 D.L. IV 7 = Senocrate Test. 2 Isnardi Parente<br />

178 D.L. IV 11.<br />

179 v. Isnardi Parente (1982), Commento: (a) Testimonia, p. 42.<br />

180 Philod., Acad. Hist., col. VII, 10-18 (tr. Dorandi).<br />

181 Plutarchus, Phocio, 27, 1-6 = Senocrate Test. 40 Isnardi Parente<br />

182 Il tema dell’autarchia di Senocrate rispetto ai potenti interessa numerose testimonianze. Oltre all’episodio<br />

dell’ambasciata presso Antipatro, si racconta di un’ambasciata presso Filippo, in cui diede prova di<br />

incorruttibilità (D.L. IV 8-9), del suo rifiuto del denaro inviatogli da Alessandro e Antipatro (D.L. IV 8) e del<br />

suo opporsi alle minaccie contro Platone di Dionisio (D.L. IV 11) ; v. Isnardi Parente (1982), Commento: (a)<br />

Testimonia, p. 7-9. Cfr. Cic., Tusc. V, 32, 91; Val. Max. IV 3, ext.3; Stobaeus, Flor., III 5, 10 etc. = Senocrate<br />

Test. 29-37 Isnardi Parente.<br />

183 A Senocrate, le poche volte che scendeva in città dall’Academia, cedevano il passo anche strilloni e facchini<br />

(D.L. IV 6) e solo a lui gli ateniesi consentivano di prestare testimonianza senza aver fatto giuramento (D.L<br />

IV 7; Val. Max., II 10, ext.2 = Senocrate Test. 2 e 16 Isnardi Parente).<br />

98


propriamente dette. I tratti della figura di Senocrate hanno certamente un’eco precisa<br />

nell’attitudine attribuita a Polemone e parallelamente vediamo che il rapporto tra maestro e<br />

discepolo, a partire da questo momento, viene descritto dalla tradizione con particolare<br />

attenzione e secondo alcune peculiarità. I discepoli intorno a Polemone, Crantore, Cratete e in<br />

seguito anche Arcesilao vengono descritti nei termini di una comunità di persone compatta,<br />

che condivide la vita quotidiana e allo stesso tempo gli interessi filosofici : Diogene Laerzio<br />

riferisce che « Cratete era commensale abituale presso Crantore, e che essi vivevano in<br />

concordia anche con Arcesilao. In effetti Arcesilao abitava insieme con Crantore ; Polemone,<br />

a sua volta, insieme con Cratere e con un certo Lisicle, un concittadino » 184 . I rapporti tra<br />

Polemone e Cratete, come già quelli tra Senocrate e Polemone, vengono inoltre descritti nei<br />

termini di un rapporto d’amore : « Cratete […] fu al contempo discepolo e amato di<br />

Polemone » 185 . La notizia viene attribuita poco oltre nel testo di Diogene direttamente ad<br />

Antigono : « Cratete del resto – spiega Antigono – era l’amato di Polemone, come è stato<br />

detto in precedenza, mentre Arcesilao lo era di Crantore » 186 . E ancora una volta tale rapporto<br />

d’amore si esplica come assimilazione e imitazione reciproca : « i due avevano un così grande<br />

affetto l’uno per l’altro che, in vita, non solo avevano le stesse abitudini<br />

(), ma si sforzavano di assomigliare l’uno all’altro, perfino<br />

nel respirare () » 187 . Presa seriamente,<br />

quest’ultima testimonianza attesta di una pratica decisamente originale nello strutturare la vita<br />

in comune tra maestro e discepolo. Indubbiamente i rapporti interni alla scuola academica<br />

sembrano diventare molto ravvicinati. Come già Platone e Senocrate 188 , Polemone vive<br />

stabilmente sul suolo dell’Academia e i suoi discepoli costruiscono delle piccole abitazioni<br />

per vivere vicino a lui 189 . L’unità e la concordia sono le caratteristiche più marcate di questa<br />

comunità filosofica. .<br />

Polemone scolarca dell’Academia<br />

L’immagine di un rispettabile personaggio alla guida di una comunità di colleghi e discepoli,<br />

di cui uno dei tratti distintivi è quello di condurre una vita appartata e tranquilla, si produce a<br />

partire dai resoconti biografici su Polemone. Tuttavia, per dare una maggiore profondità<br />

184 D.L. IV 22 = Antigone fr. 14 Dorandi.<br />

185 D.L. IV 21.<br />

186 D.L. IV 22.<br />

187 D.L. IV 21 = Antigone fr. 15* Dorandi.<br />

188 Secondo la testimonianza di Plutarchus, De exilio 10, 603 b-c = Senocrate Test. 28 Isnardi Parente = Polemo<br />

fr. 47 Gigante.<br />

189 Philod., Acad. Hist., col. XIV, 35-41; D.L. IV 19 = Polemo frr. 44-45 Gigante.<br />

99


storica a questo personaggio, è doveroso affrontare la questione del ruolo istituzionale<br />

ricoperto da Polemone nel suo contesto sociale di appartenenza. Questione che può essere<br />

detta davvero spinosa in ragione delle difficoltà oggettive riscontrabili nel reperire un<br />

qualsiasi angolo d’approccio ad una descrizione sia del ruolo di scolarca, sia del<br />

funzionamento istituzionale della scuola, o del suo riconoscimento sul piano sociale, che non<br />

sia inevitabilmente frustrato dalla scarsa loquacità delle fonti a nostra disposizione o dalle<br />

difficoltà materiali che la ricerca storica e archeologica hanno fino ad oggi incontrato. La<br />

storia della critica su questa questione contiene in sè numerosi e illustri tentativi portati avanti<br />

da più punti di vista e che ne hanno messo chiaramente in luce la complessità e la<br />

problematicità. Partendo dalle testimonianze relative a Polemone academico, si cercherà di<br />

ravvivare alcune delle piste di indagine possibili al fine di ribadire alcune linee guida del<br />

complesso quadro socio-istituzionale di riferimento.<br />

In Diogene Laerzio leggiamo che, dopo aver incontrato Senocrate, Polemone « era così dedito<br />

al lavoro () 190 da superare gli altri e da succedere lui stesso nella direzione della<br />

scuola () » 191 . Il verbo , ricorrente nella letteratura delle<br />

192 , suggerisce una ricezione di una carica per passaggio di<br />

consegne, ovvero, in questo contesto una assunzione formale del ruolo di guida della scuola<br />

filosofica. Tuttavia si tenga presente che questo tipo di letteratura, presumibilmente inaugurata<br />

da Sozione nel II secolo a.C., inquadrando i vari filosofi nello schema rigido della successione<br />

di un discepolo al proprio maestro, si dimostra poco propensa a cogliere le varie sfumature e<br />

peculiarità delle modalità secondo le quali avveniva il passaggio da uno scolarca ad un<br />

altro 193 . L’idea dunque che la ricezione della carica di scolarca avvenga per passaggio di<br />

consegne potrebbe allora essere il frutto della particolare prospettiva adottata da tale<br />

letteratura. Nel contesto delle vite dei filosofi academici e peripatetici, Diogene Laerzio<br />

impiega parimenti il verbo e il sostantivo 194 , per indicare il ruolo di<br />

chi accede alla direzione della scuola. Il verbo e il sostantivo costituitisi a partire dalla<br />

composizione di/ e pongono le stesse difficoltà di interpretazione determinate<br />

dai progressivi slittamenti semantici del termine h/ 195 . È doveroso tenere presente che una<br />

190 Per /come tipica indicazione di una eminente attivita filosofica in Diogene Laerzio v.<br />

Sollenberger (1992), p. 3814. Cfr. D.L. II, 60 (Eschine); IV, 1 (a proposito del lavoro di Diogene Laerzio<br />

stesso); IV, 16 (Polemone); IV, 59 (Lacide); IV, 62 (Carneade); IV, 67 (Clitomaco); V, 34 (Aristotele); VII,<br />

168 (Cleante, con riferimento ad un’attività anche manuale); IX, 36 (Democrito). Sul tema della ‘fatica’ che<br />

la vita filosofica comporta, v. Plato, Ep. VII, 340 c-e.<br />

191 D.L. IV, 16.<br />

192 Fonte importante per il testo di Diogene Laerzio. v. Mejer (1976).<br />

193 v. von Kiele (1961).<br />

194 D.L. IV, 1; IV, 61; V, 2; V, 58.<br />

195 Il termine presenta un’interessante evoluzione semantica, che varia dal significato originario di ‘tempo<br />

libero’ o ‘modo d’uso del tempo libero’ a ‘occupazione seria’ ovvero ‘di studio’, fino all’accezione concreta<br />

di ‘lezione’, ‘luogo di una lezione’,‘disputa’; v. Glucker (1978), p. 161.<br />

100


simile terminologia ha per Diogene Laerzio un riferimento con buona probabilità molto più<br />

concreto e determinato rispetto a quello che poteva avere nel IV o III secolo a.C. Non si trova<br />

di fatto nelle fonti antiche una descrizione esaustiva delle modalità di gestione della carica di<br />

scolarca, né delle sue implicazioni istituzionali. Qualche elemento tuttavia, da considerarsi<br />

con doverosa cautela per via della distanza temporale delle fonti dai fatti narrati, può essere<br />

colto qua e là sempre nel testo di Diogene Laerzio. In via preliminare è opportuno ricordare<br />

che uno degli elementi stabilmente attestati riguardo alla vita della scuola di Platone è la<br />

connessione geografica con il territorio dell’Academia, un’area extraurbana, sede di un<br />

ginnasio, di un parco, di un boschetto, che prende il nome dall’eroe Hecademo 196 , dove<br />

filosofi, sofisti, gimnasiarchi riunivano intorno a sè studenti e discepoli. Quanto antica sia la<br />

frequentazione dell’area dell’Academia da parte di giovani nel periodo della loro formazione<br />

fisica e intellettuale è difficile determinarlo, ma è relativamente sicuro che essa risalga ad un<br />

periodo di molto precedente rispetto alle scuole filosofiche. Nel V secolo a.C. sembrerebbe<br />

che Cimone avesse fatto in modo che questo territorio in origine secco e privo di acqua<br />

venisse irrigato e dotato di passeggiate ombrose 197 , tanto che il parco dell’Academia e i suoi<br />

platani ombrosi rimasero famosi nella letteratura. Diogene Laerzio dice che Platone (prima<br />

ancora di incontrare Socrate) « praticava la filosofia, seguendo Eraclito, all’inizio<br />

nell’Academia, poi nel giardino che volge in direzione di Colono, come riporta Alessandro<br />

nelle / » 198 . Qualche paragrafo più avanti leggiamo inoltre che Platone dopo esser<br />

stato a Megara, a Cirene, in Italia e in Egitto « ritornato ad Atene passava il suo tempo<br />

nell’Academia » 199 . Queste due informazioni combinate con la storia della vendita di Platone<br />

come schiavo 200 , dopo il primo dei suoi viaggi a Siracusa presso Dionisio, che, se non altro, a<br />

parte l’umiliazione subita dal nobile ateniese, avrebbe avuto come conseguenza quella di farlo<br />

tornare ad abitare stabilmente ad Atene e fargli avere un ‘giardinetto nell’area dell’Academia’<br />

dove riunire i suoi discepoli 201 , hanno offerto il punto di partenza per una ricostruzione da<br />

parte della critica delle alterne vicende istituzionali della scuola academica, dalla ‘fondazione’<br />

fino alla chiusura di tutte le scuole filosofiche d’Atene ad opera dell’Imperatore Giustiniano<br />

196 D.L. III, 7. v. C. Wachsmuth, P. Natorp, s.v. Akademia, Pauly-Wissowa Realencyclopädie der Classichen<br />

Altertumwissenshaft, 1.1 (1893), pp. 1132-1137 ; T.A.Szlezak, s.v. Akademeia, Der Neue Pauly, 1 (1996) pp.<br />

381-386.<br />

197 Plutarchus, Cimon, XIII, 7.<br />

198 D.L. III, 5:<br />

«/-<br />

». Per il senso dell’espressione , cfr. D.L. III, 8;<br />

la posizione dell’espressione in fine di periodo suggerisce che sia qualificante di entrambi i periodi, sia quello<br />

passato nell’Academia, sia quello passato nel giardino nei pressi di Colono. Tuttavia l’interpretazione del<br />

passo è controversa, v. oltre, p. 59-60 Traduciamo l’espressione «» cosi come suggerisce<br />

Glucker (1978) : “a garden facing in the direction of Colonus”.<br />

199D.L. III, 7: « ».<br />

200 D.L. III, 19-20.<br />

201 D.L. III, 20 :« ».<br />

101


nel 529 d.C. Preliminarmente si noti che le fonti più antiche non parlano mai di ‘fondazione’<br />

di una scuola : l’espressione « » appare in testi tardi e<br />

provenienti dall’ambiente neoplatonico, ovvero nel testo anonimo dei Prolegomena alla<br />

filosofia di Platone 202 e in Olimpiodoro 203 , dove una tale terminologia potrebbe rispecchiare le<br />

pratiche ad essi contemporanee piuttosto che la realtà del V secolo a.C. ; mentre invece nelle<br />

fonti più antiche si trovano riferimenti generici a gruppi di discepoli o amici che si riuniscono<br />

intorno al maestro senza specificazione del grado di formalità di queste riunioni. Che Platone,<br />

ritornato dai suoi viaggi, passasse il suo tempo nell’Academia non pone problema alcuno ;<br />

numerose altre fonti ci confermano che quello era il luogo dove era facile trovarlo. Tuttavia il<br />

fatto che Platone riunisse intorno a sè dei discepoli non può essere considerato equivalente<br />

all’atto fondativo di una scuola con conseguenti implicazioni istituzionali. Si tenga presente la<br />

grande varietà di forme più o meno istituzionali che l’educazione dei giovani contemplava<br />

nell’antica Grecia. L’offerta formativa disponibile sullo stesso territorio dell’Academia poteva<br />

variare dall’insegnamento dei /, di altri sofisti, dei , per non<br />

parlare dei i/, dei, dei maestri delle scuole di retorica come Isocrate<br />

etc. etc. In questo multiforme panorama, in cui la critica ha ravvisato opportunamente un<br />

conflitto tra l’educazione tradizionale e la ‘nuova’ educazione stimolata dalla comparsa dei<br />

sofisti, il problema della definizione istituzionale delle varie modalità di insegnamento non<br />

affiora mai nelle nostre fonti. Ben noti sono i moniti socratici contro la costituzione di una<br />

scuola rigidamente concepita, a cui alcuni dei suoi discepoli hanno probabilmente cercato di<br />

attenersi per quanto possibile. Platone, senza dubbio, finì invece per intessere relazioni<br />

ampiamente stabili con i suoi discepoli e la sua scuola riuscì a perpetrarsi nel tempo. Legittimi<br />

allora sono i tentativi di ricostruzione delle evoluzioni istituzionali che la scuola dovette<br />

attraversare. L’attenzione della critica si è conseguentemente concentrata su tre problemi<br />

interconnessi : le proprietà associate alla scuola, ovvero il problema del ‘giardino di Platone’,<br />

il riconoscimento istituzionale della scuola dal punto di vista giuridico e le modalità di<br />

successione alla testa della scuola.<br />

Il Giardino di Platone<br />

Ampiamente problematica è la questione del giardino di Platone, dal momento che si poggia<br />

essenzialmente su due testimonianze quantomeno controverse: la prima, quella sopracitata di<br />

202 Anonymus, Prolegomena philosophiae Platonicae, IV, 14.<br />

203 Olympiodorus, In Platonis Alcibiadem commentarii, 2, 145-146 : «<br />

Ἀφικόμενος δὲ εἰς τὰς Ἀθήνας διδασκαλεῖον ἐν Ἀκαδημίᾳ συνεστήσατο, μέρος τι τούτου τοῦ γυμνασίου<br />

τέμενος ἀφορίσας ταῖς Μούσαις. »<br />

102


Diogene Laerzio sull’Academia e ‘il giardino che volge in direzione di Colono’ 204 , perché sia<br />

possibile intenderla come un riferimento ad un giardino dove Platone avrebbe riunito intorno<br />

a sé dei discepoli, deve preliminarmente essere drasticamente scomposta. Tenendo presenti le<br />

incongruenze cronologiche che talvolta il testo di Diogene Laerzio presenta, sopratutto là<br />

dove sembrano sovrapporsi le informazioni provenienti da fonti diverse, la critica ha<br />

riconosciuto anche in questo passaggio una confusione di due piani temporali, per cui il<br />

riferimento al giardino presso Colono sarebbe stato inserito da Diogene o dalla sua fonte,<br />

accanto a quello all’Academia, per senso di completezza, anche se purtroppo fuori posto, dal<br />

momento che in questo contesto si tratta evidentemente della formazione di Platone, non della<br />

sua attività di maestro 205 . Sarebbe certamente più semplice affermare che « il giardino che<br />

volge in direzione di Colono » è semplicemente un luogo della formazione di Platone, la<br />

possibile residenza di un maestro eracliteo, tuttavia la dislocazione del demo di Colono nelle<br />

vicinanze del territorio dell’Academia lo rende un candidato particolarmente promettente per<br />

essere il famoso giardino privato di Platone, a cui allude tra gli altri anche Cicerone 206 . Per<br />

salvare questo giardino, sarebbe però necessario trovare una spiegazione alla relazione di<br />

proteron / husteron posta dal testo di Diogene 207 . La connessione della scuola di Platone con il<br />

territorio dell’Academia non appartiene di fatto ad una fase temporale delimitata, precedente<br />

ad un’altra, ma perdura nelle fonti fino ad un’epoca tarda. Ancora più problematica è la storia<br />

dell’acquisto del giardino da parte di quell’Anniceride, talvolta identificato con un atleta di<br />

Cirene, che aveva riscattato Platone dallo statuto di schiavo impostogli a Egina mentre tentava<br />

di ritornare ad Atene dalla Sicilia. Dione di Siracusa avrebbe tentato di rimborsare Anniceride,<br />

ma quest’ultimo si sarebbe rifiutato e avrebbe anche acquistato un piccolo fondo per<br />

Platone 208 . Il testo di Diogene Laerzio asserisce che il suddetto giardino si trovava<br />

«», se non proprio sul terreno pubblico del parco dell’Academia, quantomeno<br />

nelle sue vicinanze 209 . Diogene Laerzio di fatto dà testimonianza di due racconti differenti<br />

sulle vicende successive al riscatto di Platone. Secondo la prima, Anniceride avrebbe rispedito<br />

Platone dai suoi ‘amici’ e questi avrebbero rimandato ad Anniceride la somma che questi<br />

aveva speso per Platone. Anniceride poi avrebbe rifiutato di essere rimborsato dicendo che<br />

« non soltanto loro erano degni di avere a cuore Platone » 210 . Una versione leggermente<br />

204 D.L. III, 5.<br />

205Cherniss (1948), pp. 130 ss.; Lynch (1972), p. 54, n. 28; Glucker (1978), p.231; Dillon (1983), p. 51-52.<br />

206 Cic., Fin. V, 2.<br />

207 D.L. III, 5: « ». Si noti anche che qui l’articolo determinativo nell’espressione<br />

, indica un ben noto e distinto giardino, ma manca un’aggettivo possessivo che attribuisca il<br />

giardino a Platone, cfr. Aelianus, III, 19, 36.<br />

208 D.L. III, 20.<br />

209 Esiste almeno un’altra testimonianza su di giardini ‘privati’ nelle strette vicinanze dell’Academia, se non<br />

proprio sul suo territorio, ad uso per esempio dei ‘soprintendenti’ dell’Academia, v. Hyperides, In<br />

Demosthenem, VI, 26.<br />

210 D.L. III, 20.<br />

103


differente Diogene trova presso altre fonti, riportata di seguito alla formula « alcuni invece<br />

dicono che…() » 211 . Nella seconda versione al posto del gruppo di amici figura<br />

solo Dione e conseguenza del tentativo di rimborso è un ulteriore gesto di liberalità da parte di<br />

Anniceride che acquista il piccolo giardino. Ma come è possibile ritenere fededegna una<br />

testimonianza secondo la quale uno straniero – Anniceride era originario di Cirene – avrebbe<br />

acquistato un fondo ad Atene ? I sospetti aumentano quando si considera il largo uso che la<br />

letteratura pseudoepigrafica sembra aver fatto della figura di Dione.<br />

Si consideri inoltre che, se il ricco e nobile Platone avesse voluto acquistare un proprietà allo<br />

scopo di riunire intorno a sè dei discepoli, non avrebbe in tutta probabilità avuto alcun<br />

bisogno dell’aiuto economico di Anniceride, ma che dal punto di vista letterario colpisce<br />

certamente di più che la sola fama del filosofo ateniese sia sufficiente per provocare grande<br />

generosità in uno straniero di Cirene. Ulteriori problemi vengono sollevati dal fatto che nel<br />

testamento conservatoci di Platone non si trova nessun riferimento chiaro ad un fondo<br />

dedicato alle attività della scuola. Due sono i terreni menzionati, « » e<br />

« », l’uno e l’altro descritti nel testamento di Platone per mezzo di una<br />

combinazione di riferimenti geografici e di nomi dei proprietari delle terre confinanti, ed<br />

entrambi lasciati in eredità al giovane Adimanto 212 . Del secondo si legge che è stato acquistato<br />

da Platone da un certo Callimaco e dunque non farebbe parte del patrimonio familiare pre-<br />

esistente. Si noti però che un Callimaco è menzionato tra gli esecutori testamentari, tra cui<br />

figurano spesso familiari del testatore. In questo secondo terreno è stato nonostante ciò<br />

riconosciuto dalla critica un possibile candidato per essere il ‘piccolo giardino’ nei pressi<br />

dell’Academia 213 . Nel testamento la sua posizione geografica è determinata con il solo<br />

riferimento al fiume Cefiso come confine occidentale. Gli altri elementi identificativi sono<br />

costituiti dalle terre con le quali confina 214 , il che rende difficoltoso stabilire con sicurezza che<br />

si tratti di quel terreno nelle vicinanze dell’Academia, orientato verso Colono di cui sopra. Un<br />

contributo a favore della candidatura è dato dal fatto che il fiume Cefiso scorre nella parte<br />

occidentale della valle di Atene da nord a sud verso il Pireo e il demo di Colono si trovava<br />

appunto nella parte nord-occidentale. Altri problemi sorgono però dal fatto che erede unico di<br />

Platone sia il giovane Adimanto e che dunque la proprietà della scuola apparterrebbe in questo<br />

caso a qualcuno di diverso dallo scolarca o dal gruppo più stretto di discepoli. Si può supporre<br />

allora che Platone per legge avesse dovuto lasciare tutti i suoi bene all’erede maschio più<br />

211 Ibidem.<br />

212 D.L. III, 41-43.<br />

213 Glucker (1978), pp. 231-232 ; cfr. Dillon (1983), pp.56 ss.<br />

214 Si noti che uno dei vicini proprietari, Eurimedonte di Mirrinunte, potrebbe essere lo stesso Eurimedonte,<br />

nominato tra gli esecutori testamentari, nonché Eurimedonte di Mirrinunte, padre di Spusippo, v. D.L. IV, 1,<br />

marito della sorella di Platone. La proprietà dunque rientrerebbe verosimilmente nei possedimenti connessi<br />

con un retaggio familiare.<br />

104


prossimo, ma che in seguito questi avesse ceduto il fondo della scuola al suo nuovo scolarca<br />

Speusippo, che tra l’altro è anche uno degli esecutori del testamento che deve assicurarsi che<br />

le disposizioni in esso contenute siano rispettate. Oppure si può supporre che nessuno dei due<br />

fondi menzionati dal testamento corrisponda al ‘piccolo giardino’ di Platone, poiché questo<br />

era già stato alienato da Platone in favore dei discepoli ben prima della morte. Si possono in<br />

fondo formulare varie ipotesi. È la possibilità di verificarle in un modo o nell’altro che in<br />

queste vicende fa troppo spesso difetto. Un ponderato scetticismo sembra essere l’attitudine<br />

più appropriata in casi simili. Uno scetticismo oscillante tra due ordini di considerazioni :<br />

traccie storicamente verificabili dell’esistenza del ‘giardino di Platone’ richiederebbero delle<br />

indagini d’ordine archeologico da cui siamo ancora sfortunatamente molto lontani 215 e d’altro<br />

canto l’estrazione di elementi storici dalla letteratura biografica espone inevitabilmente a<br />

grandi rischi. Neppure nelle Lettere, che, al di là della loro vera o presunta autenticità,<br />

forniscono molti dettagli della vita pratica di Platone, troviamo riferimenti esaustivi né alla<br />

compravendita di un giardino, che avrebbe determinanto una nuova fase nell’attività di<br />

insegnamento di Platone, né più in generale a una cerchia di discepoli organizzati in un<br />

qualche tipo di scuola 216 . Tuttavia non si può negare che la letteratura posteriore consideri il<br />

giardino di Platone come una realtà esente da ogni ombra di dubbio. Si veda il noto resoconto<br />

di Claudio Eliano (ca. 165/170 - 235) 217 , che narra il primo momento di presunta rottura tra<br />

Platone e Aristotele, dove la menzione dei luoghi frequentati quotidianamente da Platone e dai<br />

suoi discepoli gioca un ruolo narrativo fondamentale. Approfittando della momentanea<br />

assenza di Senocrate e di Speusippo, Aristotele insieme ad alcuni compagni si sarebbe<br />

approcciato a Platone, ormai vecchio, mettendolo in difficoltà con una serie di domande<br />

aggressive e confutatorie 218 , cosicché « Platone lasciò il peripato all’esterno e camminava<br />

all’interno insieme ai compagni » 219 . Al suo ritorno Senocrate avrebbe trovato Aristotele che<br />

passeggiava là dove aveva lasciato Platone e si sarebbe meravigliato di constatare che « lui e i<br />

215 Sugli scavi archeologici dell’area dell’Academia e le difficoltà incontrate in questo campo si veda a titolo<br />

informativo Wycherley (1962); Glucker (1978), pp. 240 ss.; M.-F. Billot, ‘Académie: Topographie et<br />

archéologie’, Annexe de R. Goulet (ed.), Dictionnaire des Philosophes antiques, Paris 1989, vol. I, pp. 693-<br />

789.<br />

216 Il riferimento più esplicito a “”, a occupazioni quotidiane non<br />

indecorose, ovvero ad un’attività di insegnamento già consolidata, si trova nella lettera VII (329 b1)<br />

relativamente ad un periodo precedente al primo viaggio di Platone in Sicilia e dunque precedente anche al<br />

supposto acquisto del fondo presso l’Academia. Altrimenti la cerchia di amici e discepoli intorno a Platone<br />

viene designata con una varietà di formule: lettera II -<br />

Il termine , che<br />

verrà impiegato anche in senso tecnico per indicare la scuola filosofica (v. testamento di Stratone, D.L. V, 61-<br />

64) è qui da intendersi in senso ampio come ‘occupazione seria’; v. Glucker (1978), p. 165 ss.<br />

217 Elianus, Varia Historia III, 19.<br />

218 Cfr. Eusebius, Praep. Evang. XV, 2, dove si riporta una situazione simile e si attribuisce l'origine del<br />

racconto alla Vita di Platone di Aristosseno di Taranto.<br />

219 Elianus, Varia Historia III, 19, 25-26: « καὶ διὰ ταῦτα ἀποστὰς ὁ Πλάτων τοῦ<br />

ἔ ξω περιπάτου,<br />

ἔ νδον<br />

ἐβάδιζε σὺν τοῖς ἑταίροις ».<br />

105


suoi discepoli dal peripato non tornavano presso Platone, ma tornavano alle loro abitazioni in<br />

città » 220 . Chiedendo spiegazioni a qualcuno del gruppo se per caso Platone fosse malato,<br />

questi rispose : « Non è malato, ma Aristotele gli ha dato dei problemi e lo ha costretto a<br />

ritirarsi dal peripato, e dopo che si è ritirato fa filosofia nel suo giardino » 221 . Alla fine<br />

dell’anedotto Senocrate riprende in mano la situazione e dopo aver rimproverato Speusippo<br />

reinstalla Platone nel suo luogo abituale. La narrazione, al di là della chiara intenzione di<br />

mettere in buona luce Senocrate a discapito di un Aristotele arrogante e irriconoscente, ruota<br />

intorno al fatto che vi fossero due luoghi dove Platone poteva passare il suo tempo : il<br />

peripato, dove presumibilmente passeggiava con i discepoli, luogo pubblico, dove acquisire<br />

facilmente visibilità e prestigio, e un giardino privato, probabilmente connesso ad<br />

un’abitazione, dove Platone poteva ugualmente riunire i discepoli e dove effettivamente,<br />

nell’aneddoto, Senocrate si aspetta che i discepoli si rechino, magari per mangiare insieme,<br />

per un o un . La veridicità storica dell’anedotto è discutibile non solo<br />

per la distanza temporale dell’autore dai fatti narrati, ma sopratutto per la sua notoria<br />

estraneità a principi di ricerca storica svincolati da un marcato gusto per l’anedottica<br />

d’effetto 222 . Tuttavia sono anche altre le testimonianze nella letteratura posteriore per le quali<br />

vale l’idea che Platone disponesse di due luoghi per la sua attività di insegnamento, uno<br />

pubblico e uno privato. Nella descrizione della sua visita culturale all’Academia ormai<br />

deserta, Cicerone inserisce un’allusione esplicita al giardino di Platone (Fin. V,2 = T. 48:<br />

cuius etiam illi hortuli proprinqui eas), e Damascio asserisce che questo era il suo unico<br />

possedimento 223 . Tuttavia le fonti storicamente più vicine ai primi decenni della vita della<br />

scuola di Platone non fanno riferimento a dei luoghi preposti per le sue attività che non siano<br />

anche luoghi pubblici : Epicrate, nella nota scena comica in cui Platone assiste alla divisione<br />

diairetica sul genere della zucca, allude alle attività degli studenti di Platone che si svolgevano<br />

ἐν γυμνασίοις Ἀκαδημείας, ovvero in quei luoghi che la gioventù ateniese frequenta per<br />

esercitare il corpo o ricevere una formazione 224 . Nemmeno Aristosseno, filosofo peripatetico<br />

220 Ivi, III, 19, 29-32: « ὁρῶν δὲ αὐτὸν μετὰ τῶν γνωρίμων οὐ πρὸ<br />

ς Πλάτωνα ἀναχωροῦντα ἐ κ τοῦ<br />

περιπάτου, ἀλλὰ καθ' ἑαυτὸν ἀπιόντα ἐς τὴν πόλιν ».<br />

221 Ivi, III, 19, 34-37: « ‘ἐκεῖνος μὲν οὐ νοσεῖ, ἐνοχλῶν δὲ αὐτὸν Ἀριστοτέλης παραχωρῆ<br />

σαι πεποίηκε τοῦ<br />

περιπάτου, καὶ ἀναχωρήσας ἐ ν τῷ<br />

κήπῳ<br />

τῷ<br />

ἑ αυτοῦ<br />

φιλοσοφεῖ<br />

. ’».<br />

222 Si prenda in considerazione la natura del testo del Varia Historia (), raccolta di aneddoti<br />

storici, letterari, etc. per un pubblico molto colto a partire da fonti probabilmente di natura simile, il cui<br />

concetto di inquadramento storico diverge radicalmente rispetto al nostro. Di qui le difficoltà di valutazione<br />

dell’attendibilità del linguaggio e della narrativa di Eliano.<br />

223 Photius, Cod. 242,158, p. 346a; Suda lex., s.v. Platon ; le due testimonianze vengono comparate e discusse<br />

da Glucker (1978), pp. 247-248, secondo il quale risulta chiaro che non sussiste base alcuna per affermare<br />

che secondo Damascio il giardino di Platone rientrasse ancora nelle proprietà della scuola al tempo di Proclo,<br />

come altrimenti si è creduto di potere affermare.<br />

224 Epicrates fr. 11 Kassel-Austin. L’occasione durante la quale il personaggio della commedia di Epicrate<br />

riferisce di aver visto il gruppo di studenti intenti nelle loro attività è la festa delle Panatenaie, ovvero<br />

un’occasione di aggregazione pubblica, e anche il suo interlocutore fa riferimento al carattere pubblico della<br />

106


che studiò insieme ad Aristotele, nel descrivere l’episodio della ‘lezione sul bene’ di Platone,<br />

sembra presupporre che Platone facesse lezione in un luogo privato, anzi l’affluenza alla<br />

lezione di persone che poi rimarranno deluse sembra implicare la natura pubblica, a entrata<br />

libera, di queste riunioni 225 . Tuttavia sarebbe azzardato trarre da questi elementi una qualsiasi<br />

conclusione ferma sulle modalità organizzative della scuola.<br />

Se cerchiamo infine una traccia di questo possedimento nelle testimonianze relative alla vita<br />

dei primi successori di Platone, la pista si interrompe al suo principio : Speusippo avrebbe<br />

continuato a risiedere in città e non nei pressi dell’Academia, stando alla testimonianza<br />

secondo la quale nell’ultima parte della sua vita doveva servirsi di una lettiga per recarsi da<br />

casa all’Academia 226 ; Senocrate e Polemone invece sono detti aver risieduto<br />

nell’Academia 227 : Senocrate sembrerebbe aver vissuto in una casa di molto modeste<br />

dimensioni, stando all’aneddoto secondo il quale avrebbe dovuto ospitare l’etera Frine,<br />

mandata espressamente per saggiare la sua continenza, direttamente nel suo letto per<br />

mancanza di altro spazio 228 ; Polemone infine, secondo quanto attestato in Academicorum<br />

Historia, avrebbe vissuto insieme a Cratete, presso un certo Lisicle ateniese 229 ,<br />

presumibilmente nei pressi dell’Academia, e i suoi discepoli scelsero di costruire delle piccole<br />

abitazioni nei pressi dell’ Esedra, là dove teneva le sue lezioni, sul suolo dell’Academia 230 .<br />

Quest’ultima testimonianza, esente dal velo problematicamente aneddotico delle altre due, ci<br />

fornisce un’informazione circostanziata sull’evoluzione della vita della scuola, nella misura in<br />

cui suggerisce un consolidamento della vita in comunità tra maestro e discepoli, che ruota<br />

intorno al solo territorio dell’Academia, senza riferimento alcuno ad un giardino privato. È<br />

ragionevole pensare infatti che se la scuola avesse potuto disporre di un fondo privato,<br />

sarebbe stato lì, piuttosto che in un luogo pubblico, che i discepoli si sarebbero organizzati per<br />

risiedere, e le fonti non avrebbero esitato a sfruttare questo elemento per mettere in luce la<br />

compattezza della comunità degli academici. Il giardino presso il quale Platone avrebbe<br />

dimorato di fatto scompare dalle testimonianze per poi riapparire in epoca tarda. O meglio,<br />

forse sarebbe più corretto dire che nella prima fase della storia dell’Academia antica è il solo<br />

riunione con l’espressione ἐν λέσχαις ταῖσδε.<br />

225 Aristoxenus, Elementa harmonica, 39-40. Le persone che si recano ad ascoltare Platone sembrano avere<br />

delle aspettattive in linea con le opinioni comuni; non sembrerebbero dunque essere esclusivamente studenti<br />

di filosofia, né tantomeno fini conoscitori della filosofia platonica: v. 39, 10-13: «προσιέναι μὲν γὰρ<br />

ἕκαστον ὑπολαμβάνοντα λήψεσθαί τι τῶν νομιζομένων τούτων ἀνθρωπίνων ἀγαθῶν οἷον πλοῦτον,<br />

ὑγίειαν, ἰσχύν, τὸ ὅλον εὐδαιμονίαν τινὰ θαυμαστήν».<br />

226 D.L. IV, 3.<br />

227 D.L. IV, 6-7; Plut., De exilio, 10, 603 c : « ἡ δ' Ἀκαδήμεια, τρισχιλίων δραχμῶν χωρίδιον ἐωνημένον,<br />

οἰκητήριον ἦν Πλάτωνος καὶ Ξενοκράτους καὶ Πολέμωνος αὐτόθι σχολαζόντων καὶ καταβιούντων τὸν<br />

ἅπαντα χρόνον ».<br />

228 D.L. IV, 7.<br />

229 D.L. IV, 22.<br />

230 Philod., Acad. Hist., col. XIV, 35-41; D.L. IV, 19.<br />

107


Platone ad essere associato nelle letteratura posteriore con un giardinetto privato, naturale<br />

prolungamento della sua attività di insegnamento 231 . È opportuno in conclusione notare che<br />

proprio a partire dalle notizie intorno alla vita di Platone si delinea la base per un’associazione<br />

forte tra l’attività filosofica e il contorno di un giardino : nelle lettere che descrivono i suoi<br />

soggiorni a Siracusa viene menzionato a più riprese un , come luogo di ritrovo e attività<br />

filosofica (Lettera III, 319 a3 ; Lettera VII, 348 c2).<br />

Il giardino di Platone è in fin dei conti una realtà piuttosto misteriosa e controverse sono le<br />

prove storicamente verificabili della sua esistenza a nostra disposizione.<br />

La successione<br />

Sappiamo che dopo la morte di Platone la direzione della scuola fu assunta dal nipote<br />

Speusippo, che fu scolarca per otto anni. L’uso del verbo in Diogene Laerzio 232<br />

dovrebbe far supporre che la carica gli venne affidata da Platone stesso, tuttavia autori antichi<br />

e moderni hanno spesso espresso meraviglia di fronte a questa scelta, ritenendo Aristotele il<br />

migliore candidato alla direzione della scuola e avanzando il sospetto di un certo ‘nepotismo’<br />

nella scelta di Platone. Sulla scia di queste considerazioni tutta una letteratura malevola nei<br />

confronti di Speusippo ha proliferato fin dall’antichità. Ma sarà sufficiente tenere in<br />

considerazione l’età matura di Speusippo, di contro alla relativa giovinezza di Aristotele, al<br />

momento della morte di Platone, insieme con lo spessore filosofico che i frammenti delle<br />

opere di Speusippo a noi giunti testimoniano, per dissipare del tutto ogni traccia di<br />

meraviglia 233 . Rimane tuttavia priva di perfetta chiarezza la dinamica di successione alla testa<br />

della scuola e le sue implicazioni istituzionali. Ci limiteremo qui a constatare che riguardo<br />

all’elezione di Senocrate abbiamo a disposizione un’informazione supplementare rispetto al<br />

caso di Speusippo. Nonostante Diogene Laerzio impieghi la consueta formula « Senocrate<br />

succedette a Speusippo e prese la direzione della scuola, mantenendola per venticinque anni,<br />

sotto l’arcontato di Lisimachide, a partire dal secondo anno della centodecima Olimpiade » 234 ,<br />

la modalità di elezione di Senocrate a capo della scuola viene chiarita da un dato interessante<br />

fornito dal testo di Filodemo : « » 235 . A partire da<br />

questa e da altre espressioni, si suppone che i membri effettivi della scuola fossero suddivisi<br />

231 Diogene Laerzio menziona un giardino nell’Academia associato a Lacide (D.L. IV, 60) e allestito (per lui?)<br />

dal re Attalo. Qui Lacide teneva lezione e il giardino “prendeva da lui anche il nome di Lacideo”. Non c’è<br />

niente però che suggerisca che si tratti dello stesso giardino posseduto prima da Platone.<br />

232 D.L. IV, 1.<br />

233 Taràn (1981), p. 8-9.<br />

234 D.L. IV, 14.<br />

235 Philod., Acad. Hist., col. VI, 40 = T1 Isnardi Parente<br />

108


in membri anziani e membri giovani 236 . Il fatto che Senocrate sia stato eletto, avendo votato i<br />

membri giovani, potrebbe voler dire che l’elezione dello scolarca era affidata al voto espresso<br />

dai soli membri giovani oppure, forse più ragionevolmente, che egli venne eletto grazie ai voti<br />

dei membri giovani in un’elezione a cui prendevano parte tutti i membri presenti.<br />

Senocrate e Polemone, così come anche Platone, risiedettero nei pressi dell’Academia, che nel<br />

momento in cui i discepoli cominciarono a sistemarvisi stabilmente, dovette comiciare ad<br />

assomigliare ad una vera e propria comunità ‘scolastica’ a sé stante. Ma quale statuto<br />

giuridico poteva avere una tale realtà nel contesto ateniese ? Nonostante le informazioni a<br />

nostra disposizione sugli ordinamenti giuridici ateniesi siano molto più ricche rispetto a quelle<br />

su qualunque altra città della Grecia antica, in risposta a questa domanda la critica non ha<br />

trovato una posizione uniformemente concorde.<br />

Lo statuto giuridico<br />

Si entra qui di fatto in un ambito in cui la storiografia filosofica è tenuta a dialogare con altre<br />

discipline delle scienze dell’antichità, quali l’epigrafia e la storia del diritto. Gli studi di U.<br />

von Wilamowitz-Moellendorff 237 , che a lungo hanno influenzato l’opinione degli studiosi in<br />

merito, si richiamavano ad esempio ad un testo pubblicato da P.F. Foucart nel 1873, il quale<br />

intendeva studiare il fenomeno delle associazioni religiose nella Grecia antica a partire da un<br />

esame, che potremmo quasi definire pionieristico, delle fonti epigrafiche 238 . Un grande<br />

numero di scoperte epigrafiche venivano alla luce proprio in quegli anni e Foucart contribuì a<br />

dare avvio a un grande lavoro di sistematizzazione, edizione e interpretazione delle fonti<br />

epigrafiche in merito alle associazioni religiose. Gli sforzi dello storico francese intendevano<br />

mettere in luce il rapporto intercorrente tra alcune associazioni a carattere cultuale, i cui<br />

membri si designavano come thiasotai, eranistes o orgeones, e l’introduzione nella società<br />

ateniese di culti stranieri. Foucart insisteva poi sulla complessa organizzazione interna di tali<br />

associazioni, ricalcante dal punto di vista terminologico e organizzativo la struttura della polis<br />

che le ospitava e riteneva che alla base di tali realtà vi fosse una ampia ‘libertà di<br />

associazione’ riconosciuta dal diritto ateniese, il quale d’altro canto avrebbe anche garantito la<br />

validità delle obbligazioni reciproche contratte dai membri delle associazioni stesse 239 . La<br />

famosa tesi di Wilamowitz assimilava dunque l’Academia e il Peripato ad una associazione di<br />

thiasotai dediti al culto delle Muse e spiegava in tal modo la legittimità istituzionale delle<br />

scuole filosofiche. La mancanza di un riscontro terminologico probante e di indizi concreti<br />

236 v. Dorandi (2005), pp. 58-62.<br />

237 von Wilamowitz-Moellendorff (1881), excursus II ; Boyancé (1937).<br />

238 Foucart (1873).<br />

239 Ivi, p. 47-49.<br />

109


attestanti un’attività cultuale all’interno delle scuole filosofiche ha poi indotto la critica a<br />

rivedere sostanzialmente la tesi di Wilamowitz. Gli studi di J.P. Lynch sulla scuola di<br />

Aristotele hanno in epoca più recente affermato il carattere laico delle scuole filosofiche i cui<br />

scopi andrebbero considerati esclusivamente nell’ambito educativo e scientifico 240 . Da questi<br />

studi emerge inoltre la problematicità del concetto di ‘persona giuridica collettiva’ applicato in<br />

questo contesto 241 . Come già Foucart, Wilamowitz tendeva infatti a considerare l’associazione<br />

dei thiasotes come un’unica persona civile, capace di agire nella società in quanto tale, capace<br />

dunque di possedere, vendere e comprare proprietà a proprio nome ed essere rappresentata<br />

come tale nel sistema giuridico. La questione diventava di primaria rilevanza qualora si<br />

considerasse la presenza nelle scuole filosofiche di numerosi stranieri, esclusi da un certo<br />

numero di diritti riservati ai cittadini, quali innanzitutto il diritto di proprietà. Senocrate, ad<br />

esempio, in quanto meteco originario di Calcedonia 242 e nonostante ciò scolarca della scuola<br />

academica, pone di fatto un problema giuridico, se si considera che oltre alla direzione della<br />

scuola egli abbia ereditato anche la proprietà degli immobili della scuola necessari al suo<br />

funzionamento, di qualunque tipo essi siano stati. Poiché la presenza tra i propri membri di<br />

stranieri, donne e schiavi accomuna le associazioni religiose studiate da Foucart e le scuole<br />

filosofiche, l’ipotesi che i loro ordinamenti fossero assimilabili risolverebbe il problema di<br />

come uno straniero potesse amministrare una proprietà senza violare la legge della polis.<br />

Tuttavia molti dubbi sono stati avanzati da più punti di vista sia sull’applicabilità del concetto<br />

di ‘persona giuridica’ nel mondo greco in generale, sia sugli elementi di similitudine tra la<br />

variegata composizione delle scuole filosofiche e le comunità riunite nelle associazioni<br />

cultuali 243 .<br />

Senza pretendere di voler risolvere la difficilissima questione dello statuto giuridico<br />

dell’Academia, è possibile tentare di aggiungere qualche elemento pertinente<br />

specificatamente allo scolarcato di Polemone, che, se non metterà propriamente ordine in<br />

questa intricata materia, si spera almeno che non aggiunga confusione. A tal fine si terrà conto<br />

del linguaggio adottato dai resoconti biografici risalenti ad Antigono di Caristo per descrivere<br />

240 Lynch, 1972, pp. 127-134.<br />

241 Ivi, p. 123-127.<br />

242 v. Whitehead (1981), pp. 223-244 ; Isnardi Parente (1981), pp. 148-149, pone l'accento sugli elementi che<br />

suggeriscono un rafforzamento della dimensione 'comunitaria' della scuola academica in coincidenza con lo<br />

scolarcato di Senocrate e la residenza fissa dello scolarca sul suolo dell'Academia. Isnardi Parente (1981), p.<br />

149, abbraccia l'ipotesi che la scuola assumesse lo statuto di qi/asoj e proprio in virtù di questo fosse<br />

possibile il passaggio del fondo da uno scolarca ateniese ad uno scolarca meteco ; v. anche Isnardi Parente<br />

(1986), p. 355.<br />

243 v. Finley (1951), pp. 88-106, p. 276. Finley avanza forti dubbi sull’applicabilità del concetto; dubbi raccolti<br />

e rafforzati da Arnaoutoglu (2003), p. 79; ancora come associazioni legate agli ordinamenti della polis<br />

ateniese vengono considerate le scuole filosofiche da Jones (1999), pp. 227-234. Interessante<br />

l’inquadramento delle scuole filosofiche come ‘fondazioni perpetue’ proposto da Natali (1991).<br />

110


le attività del gruppo di filosofi academici, tenendo conto delle differenze che questo delinea<br />

rispetto alle altre figure di filosofi. Si andrà dunque alla ricerca di quegli elementi che<br />

avvicinano il gruppo dei filosofi academici ad un’associazione ateniese e possibilmente di<br />

quegli elementi che ne stabiliscono l’originalità e le differenze rispetto ad altre istituzioni. È<br />

opportuno tuttavia cercare di completare preliminarmente il quadro di informazioni messo a<br />

disposizioni dalle altre fonti documentarie sulle scuole filosofiche del tempo.<br />

Sembrerebbe a prima vista promettente ipotizzare una consonanza istituzionale tra le due<br />

maggiori scuole filosofiche ateniesi, l’Academia e il Peripato e attribuire all’una le<br />

caratteristiche attestate per l’altra. Senza dubbio Aristotele aveva perfettamente presenti le<br />

attività che si svolgevano nell’Academia quando cominciò a riunire intorno a sè dei discepoli<br />

e continuò a guardare all’Academia quando si trattò di organizzare la vita della sua scuola, se<br />

ci possiamo fidare di Diogene Laerzio, quando dice che « anche nella scuola egli stabilì la<br />

regola, imitando Senocrate, che ogni dieci giorni si elegesse un arconte » 244 .<br />

I Testamenti degli scolarchi peripatetici<br />

Tale prospettiva risulta ancor più allettante quando si considera che Diogene Laerzio trasmette<br />

tre documenti di primaria importanza per una ricostruzione dell’organizzazione del Peripato<br />

nel periodo posteriore alla morte di Aristotele, ovvero i testamenti di Teofrasto, Stratone e<br />

Licone 245 , ma che niente di simile è disponibile per gli scolarchi academici. Tenendo in giusta<br />

considerazione i problemi di interpretazione che tali testi pongono, seppur nella generale<br />

attendibilità che la critica generalmente gli attribuisce, ci si limita qui a notare che Teofrasto 246<br />

dà precise disposizioni in merito alla gestione di beni mobili ed immobili riguardanti da<br />

vicino la vita della scuola. Presso un personaggio di nome Ipparco, presumibilmente facente<br />

veci di banchiere, gli eredi di Teofrasto poterono disporre del denaro necessario alla<br />

ristrutturazione di beni immobili, presumibilmente danneggiati dalle alterne vicende militari,<br />

che all’epoca interessarono Atene. Teofrasto si premura che vengono ricostruite in modo<br />

perfettamente decoroso il Mouseion, con le statue delle Muse e tutto quello che si riesca a<br />

fare, il piccolo porticato davanti al Mouseion, che vengano ricollocate la statua di Aristotele e<br />

le altre offerte consacrate nello Hieron e che certe tavole con le mappe della terra siano<br />

collocate nel portico inferiore. Anche l’altare deve essere ristrutturato in modo decoroso e una<br />

statua di Nicomaco collocata nel luogo adatto. Tali disposizioni auspicano, da una parte, un<br />

intervento su spazi e beni molto probabilmente pubblici e non privati, nei confronti dei quali<br />

244 D.L. V, 4: «<br />

».<br />

245 Bruns (1880), pp. 1-52; Gottschalk (1972), pp. 314-342 ; Maffi (2008), pp. 113-125.<br />

246 D.L. V, 51-57.<br />

111


Teofrasto si pone come benefattore, e dall’altra, un’adeguata commemorazione del maestro<br />

Aristotele e di suo figlio, a cui Teofrasto aveva probabilmente fatto da tutore. In questa chiara<br />

manifestazione di nei confronti sia delle cose sacre, sia del defunto maestro,<br />

troviamo testimoniata la volontà di Teofrasto di consolidare preservare il ‘buon nome’ della<br />

scuola. Di seguito il testamento di Teofrasto regola la trasmissione di altri beni immobili (il<br />

giardino, il peripato e tutte quante le costruzioni situate presso il giardino -<br />

) a un<br />

gruppo di amici (), ovvero a « coloro che di volta in volta, intendono farvi scuola e<br />

praticarvi la filosofia insieme ». Questo è di fatto il primo documento di tipo legale che fa<br />

riferimento alla scuola in connessione con dei beni immobili. Il testamento di Teofrasto inoltre<br />

stabilisce la non alienabilità dei beni (), l’obbligo di disporne sempre in<br />

comune e mai privatamente « come se possedessero in comune un tempio e se ne servissero in<br />

modo reciprocamente familiare e amichevole, come si addice ed è giusto » 247 . Teofrasto<br />

nomina poi uno ad uno un gruppo di dieci , ed invita i membri più anziani<br />

() ad assicurare la massima collaborazione per il progresso della filosofia.<br />

Il parallelo con le associazioni cultuali riunite intorno ad un tempio, come si vede, viene<br />

suggerito dal testamento di Teofrasto stesso, ma appunto di parallelo e similitudine si tratta,<br />

non di identità. Se lo statuto associativo e cultuale della scuola fosse stato chiaramente già<br />

stabilito, Teofrasto si sarebbe probabilmente potuto risparmiare la lunga formula comparativa,<br />

il cui sforzo tende evidentemente a formalizzare ed assicurare quel legame di comunanza,<br />

familiarità e amicizia, posto a garanzia del progresso dell’attività filosofica. Si tratta di una<br />

formula dal marcato sapore fondativo che di fatto attesta una volta per tutte la costituzione di<br />

un patrimonio comune della scuola. Non a caso Teofrasto dà precise disposizioni perché il suo<br />

testamento venga posto in luogo sicuro e di fatto poi questo tipo documento venne<br />

accuratamente preservato all’interno della scuola 248 . Nei testamenti degli scolarchi successivi<br />

le questioni relative alla scuola vengono trattate con formule più sintetiche e sostanzialmente<br />

uniformi. La non alienabilità e lo stato di koinonia non hanno più bisogno di essere ribaditi.<br />

Nel testamento di Stratone la direzione della scuola e dunque presumibilmente la gestione dei<br />

suoi beni immobili viene affidata al solo Licone<br />

(« »), invece che a un gruppo di philoi, tra i quali<br />

successivamente sarebbe emerso lo scolarca, e la motivazione addotta sembra significare che<br />

247 D.L. V, 53. Cfr. Arist., Eth. Nic. VIII, 1159b 29-33: «Vi è amicizia nella misura in cui si hanno le cose in<br />

comune (), e infatti nella stessa misura vi è giustizia. Il proverbio ‘le cose degli amici sono<br />

comuni’ è corretto: nella comunanza sta l’amicizia ()».<br />

248 D.L. V, 54; sempre secondo la testimonianza di Diogene Laerzio (D.L. V, 64), il quarto scolarca dopo la<br />

morte di Aristotele, Aristone di Ceo, aveva raccolto le disposizioni testamentarie di Stratone “in qualche<br />

luogo ()”. Verosimilmente insieme a quelle degli altri scolarchi suoi predecessori. v. Sollenberger (1992),<br />

p. 3864 ss.<br />

112


la scelta dello scolarca in questo frangente è pressoché scontata visto che « gli uni sono troppo<br />

vecchi e gli altri hanno troppi<br />

impegni ()». Stratone poi<br />

aggiunge significativamente un invito alla collaborazione tra tutti i membri, riecheggiato<br />

ugualmente dal testamento di Licone, come un monito ricorrente. A Licone vengono lasciati<br />

anche i libri, ma non quelli scritti da Stratone stesso, e le suppellettili impiegate nei pasti in<br />

comune (). Si nota che nel testamento di Teofrasto, i<br />

libri venivano affidati a Neleo, senza distinzione tra quelli per esempio di Aristotele e quelli di<br />

Teofrasto, mentre invece in quello di Licone non ne viene fatta menzione alcuna, come se<br />

confluiti ormai nel patrimonio comune della scuola non necessitassero di essere menzionati<br />

separatamente da essa 249 . In quest’ultimo documento, per quanto si presenta tanto accurato da<br />

essere ripetitivo, le disposizioni riguardanti la scuola risultano estremamente sintetiche :<br />

« Lascio poi il Peripato, tra i discepoli, a quelli che lo vogliono<br />

() : Bulone, Callino,<br />

Aristone, Anfione, Licone, Pitone, Aristomaco, Eraclio, Licomede, il nipote Licone. Essi<br />

stessi scelgano come capo chi ritengono che sarà maggiormente in grado di perseverare<br />

nell’opera e di mantenere l’unità. Collaborino con lui, però, anche i restanti discepoli, sia per<br />

amor mio, sia per amore del luogo ». Si designa il gruppo di dieci philoi, tra i quali eleggere<br />

lo scolarca e li si invita alla collaborazione, secondo uno schema ormai tradizionale.<br />

Come del resto Teofrasto, originario di Ereso nell’isola di Lesbo, e dunque straniero, avesse<br />

avuto innanzitutto accesso ad un fondo in città, di cui poter disporre nel suo testamento, è<br />

oggetto di interrogazione da parte degli interpreti. In Diogene Laerzio leggiamo ancora una<br />

volta un’indicazione che avremmo voluto più esplicita : « Si dice, inoltre, che dopo la morte<br />

di Aristotele, Teofrasto sia entrato in possesso di un proprio giardino, e che Demetrio Falereo,<br />

il quale era anche suo discepolo, lo abbia aiutato in questo (τοῦτο συμπράξαντος) » 250 . I<br />

rapporti tra Demetrio Falereo, il Peripato in generale e Teofrasto in particolare sono dunque di<br />

primario interesse per questa fase di istituzionalizzazione della scuola. Demetrio che fu<br />

nominato epimeletēs della città di Atene dal reggente macedone Cassandro, esercitò il<br />

governo in città per un decennio (fino al 307 a.C.). L’ipotesi che le sue linee di governo<br />

fossero direttamente ispirate alle teorie politiche peripatetiche non trova un riscontro preciso<br />

nelle notizie a nostra disposizione, ma variamente attestate sono le buone relazioni<br />

intrattenute con Teofrasto 251 . Si può ipotizzare che, nel contesto della sua carica politica,<br />

249 La questione dei libri di Aristotele e Teofrasto meriterebbe una trattazione a sé stante, per l’importanza che<br />

essa ricopre negli sviluppi della cultura filosofica successiva, v. Introduzione, p. xxxi-xxxii.<br />

250 D.L. V, 39.<br />

251 Fortenbaugh, Schütrumpf (1999).<br />

113


Demetrio avrebbe potuto beneficiare l’amico con un provvedimento di gh=j kai£<br />

oi)ki/aj, ovvero di concessione straordinaria del diritto di proprietà, per ovviare all’origine<br />

straniera del beneficiato. Teofrasto avrebbe così potuto acquistare il suo ed edificarvi<br />

qualche abitazione, riunirvi i propri discepoli e garantire in questo modo la stabilità della sua<br />

attività di insegnamento. In questo senso si potrebbe interpretare la frase di Diogene Laerzio<br />

sul fatto che Demetrio Falereo « lo abbia aiutato ». Tuttavia la critica ha espresso qualche<br />

perplessità anche su questo punto, prospettando l’ipotesi che la ‘concessione’ di Demetrio<br />

avrebbe potuto concretizzarsi anche in altro modo, offrendosi come garante o attraverso un<br />

sostegno finanziario, oppure ancora come concessione di una proprietà collettiva, destinata fin<br />

dall’origine alla scuola. La questione merita di essere ripresa in seguito, affrontando la<br />

questione della reazione della ‘restaurata’ democrazia alle disposizioni di Demetrio Falereo,<br />

quando il suo potere venne rovesciato.<br />

Dall’analisi dei testamenti degli scolarchi peripatetici, intanto, si delineano alcune delle<br />

caratteristiche della gestione istituzionale del Peripato. Notiamo come il fondo della scuola,<br />

costituito in origine da un giardino, un peripato e delle costruzioni di tipo abitativo, e poi<br />

eventualmente accresciutosi di altri beni, quali i libri e le suppellettili, venga generalmente<br />

trasmesso dallo scolarca ad un gruppo di dieci persone interno alla scuola stessa, o ad una<br />

singola persona, qualora la scelta dello scolarca sia pressoché obbligata, nel rispetto di un<br />

principio di non alienabilità dei beni della scuola. Il gruppo di persone sembrerebbe poi<br />

procedere all’elezione al suo interno di una scolarca, in collaborazione con il quale la vita<br />

della scuola progredisce.<br />

Ed ecco che la prospettiva di una consonanza strutturale tra le due scuole ateniesi si scontra<br />

con una difficoltà profonda. Una delle poche cose che apprendiamo infatti sull’elezione dello<br />

scolarca all’interno dell’Academia è che non si trattava di una faccenda esclusivamente<br />

interna ad un gruppo di membri anziani della scuola, ma che in essa erano coinvolti anche i<br />

più giovani. Nel testamento di Platone, come già in quello di Aristotele, è inoltre difficile<br />

scorgere una qualche traccia di una disposizione che alluda alla scuola, o ad un gruppo che<br />

possa comprendere i colleghi e discepoli. Degli altri scolarchi invece non ci sono giunte le<br />

disposizioni testamentarie.<br />

‘La cacciata dei filosofi’<br />

È possibile d’altrocanto che le due scuole sul finire del IV secolo a.C. siano state accomunate<br />

da un evento storico, divenuto poi con buona probabilità cruciale per la loro futura evoluzione<br />

istituzionale, ovvero il decreto contro i filosofi proposto da un tale Sofocle di Sunio nel 307<br />

114


a.C. La vicenda, nota come ‘la cacciata dei filosofi’, è almeno parzialmente ricostruibile a<br />

partire da tre testi : un passo di Diogene Laerzio, un frammento del commediografo Alessi e la<br />

menzione del lessicografo Polluce 252 . Ancora una volta Diogene offre un buon punto di<br />

partenza per comprendere i termini della questione, quando a proposito delle vicende<br />

biografiche di Teofrasto dice : « dovette allontanarsi per poco tempo, sia lui, sia tutti gli altri<br />

filosofi, quando Sofocle figlio di Anficlide, propose una legge secondo la quale nessuno dei<br />

filosofi avrebbe potuto dirigere una scuola, se ciò non sembrasse opportuno alla Boulé e al<br />

Demos ; altrimenti, la pena sarebbe stata la morte. Ma (i filosofi) tornarono di nuovo l’anno<br />

dopo, quando Filone sporse accusa di illegalità contro Sofocle » 253 . Quello che è stato<br />

considerato, enfaticamente, come l’attestatazione del primo tentativo di intervento statale<br />

nella gestione delle scuole filosofiche, è stato opportunamente studiato dalla critica sullo<br />

sfondo delle vicende politiche ateniesi della fine del IV secolo. Già nel frammento della<br />

commedia di Alessi, riportato da Ateneo, l’episodio viene menzionato in connessione con<br />

« Demetrio e i nomotheti » 254 e la ricerca ha confermato come il provvedimento patrocinato da<br />

Sofocle di Sunio vada inquadrato nel periodo di revisione degli ordinamenti costituzionali<br />

risalenti alla reggenza di Demetrio Falereo da parte di una commissione di nomotheti, dopo<br />

che l’esercito di Demetrio Poliercete ‘liberò’ la città di Atene dal controllo macedone e<br />

restaurò gli ordinamenti democratici 255 . In una tale fase di riassesto politico è facile<br />

immaginare come trovasse spazio un procedimento volto ad indebolire il circolo dei filosofi<br />

peripatetici, tradizionalmente in buone relazioni con la potenza macedone. La natura<br />

squisitamente politica del decreto contro i filosofi allora non rischia in alcun modo di essere<br />

esagerata 256 . Sebbene risulti chiaro come l’obiettivo primario del decreto fossero Teofrasto e i<br />

suoi discepoli, è legittimo chiedersi se anche i filosofi academici, Polemone e i suoi discepoli,<br />

fossero stati coinvolti dalle coseguenze del decreto e se anche loro, in solidarietà con i<br />

colleghi peripatetici, avessero deciso di lasciare la città, sollecitati del resto da un certo timore<br />

storico nei confronti della ‘restaurata democrazia’ e delle sue minaccie di morte. Diogene<br />

Laerzio sottolinea che « tutti i filosofi » lasciarono la città, ma nessuna menzione<br />

dell’episodio viene fatta dalle fonti biografiche sui filosofi academici. Il primo verso del<br />

frammento della commedia di Alessi nomina esplicitamente l’Academia e il suo scolarca<br />

Senocrate, tuttavia esso va compreso nel contesto della vicenda comica in cui è inserito.<br />

252 Pollux IX, 42.<br />

253 D.L. V, 38 :<br />

«<br />

<br />

-<br />

».<br />

254Alexis, fr. 94, ap. Athenaeus, XIII, 610e.<br />

255 Plutarchus, Demetrii Vita.<br />

256 v. Haake (2008), pp. 89-112.<br />

115


Nell’Ippeus, il commediografo metteva in scena un padre che, come di consueto nella<br />

Commedia, si lamenta dei cattivi effetti che la formazione filosofico-retorica ha avuto sul<br />

figlio e animato da astio profondo si rallegra che i filosofi siano stati cacciati dall’Attica, con<br />

queste parole :<br />

Questo è l’Academia, questo è Senocrate ?<br />

Ogni bene concedano gli dèi a Demetrio<br />

E ai Nomotheti, perché quelli che – a quanto dicono –<br />

Trasmettono ai giovani i poteri dei discorsi,<br />

Fuori dall’Attica li hanno cacciati alla malora ! 257<br />

Il primo verso è un esplicita lamentela del padre indignato : puntando il dito contro il risultato<br />

rovinoso della formazione filosofica del figlio, il personaggio chiama in causa il prestigio<br />

(ingiustamente) attribuito alla scuola filosofica per antonomasia, ovvero la scuola di Platone,<br />

e ad un suo illustre scolarca, Senocrate, che potevano averlo convinto ad affidare il figlio ad<br />

una scuola filosofica. Il nome di Senocrate, morto all’epoca della rappresentazione ormai da<br />

otto anni circa, presumibilmente, era già sinonimo di autorevolezza, integrità e incorruttibilità<br />

e, chiamato in causa in questo contesto, serve semplicemente a costruire un’opposizione netta<br />

e funzionale all’andamente scenico tra il rispetto legato al suo nome e il degrado o<br />

l’incompetenza delle scuole filosofiche frequentate dal personaggio del figlio. Del resto il<br />

riferimento a « quelli che trasmettono il potere dell’argomentazione », accuratamente scelta<br />

dall’autore, permette di spostare l’attenzione dalla sola Academia all’insieme delle scuole<br />

filosofiche e retoriche, cancellando ogni distinzione tra le diverse impostazioni 258 . In<br />

conclusione, nel caso in cui a fuggire siano stati i soli peripatici, il passo testimonia che<br />

nonostante tutto tra Academia e Peripato si poteva anche non tracciare una distinzione netta,<br />

ovvero che l’uditorio poteva percepirle come una e indistinta realtà. Oppure, diversamente,<br />

possiamo pensare di trovare in Alessi la conferma del fatto che la sorte toccata ai filosofi<br />

ridotti in fuga aveva accomunato gli esponenti delle due scuole e che anche un nobile ateniese<br />

come Polemone abbia abbandonato, seppur per breve tempo, la città. Si tenga tuttavia conto<br />

del fatto che in questa fase della storia dell’Academia è difficile trovare traccie di quel<br />

filomacedonismo che aveva probabilmente attirato sul Peripato i sospetti della ‘restaurata’<br />

democrazia. A proposito di Senocrate, diverse fonti 259 riferiscono che partecipò ad un<br />

257 Athenaeus, XIII, 610e = Kaibel paragr. 91, ll. 10-14 = Alexis, Ippeus (Ippus), fr. 94:<br />

«τοῦτ' ἔστιν Ἀκαδήμεια, τοῦτο Ξενοκράτης;<br />

πόλλ' ἀγαθὰ δοῖεν οἱ θεοὶ Δημητρίῳ<br />

καὶ τοῖς νομοθέταις, διότι τοὺς τὰς τῶν λόγων,<br />

ὥς φασι, δυνάμεις παραδιδόντας τοῖς νέοις<br />

ἐς κόρακας ἔρρειν φασὶν ἐκ τῆς Ἀττικῆς.»<br />

258 v. Arnott (1996), p. 262.<br />

259 Philodemus, De Rhetorica: PHerc 1004 col. 55, PHerc 224 fr. 12, PHerc 453 fr. 4; Acad. Hist. col. VII, 22-<br />

116


ambasceria presso Antipatro nel 322 a.C. per negoziare i termini della pace e la liberazione<br />

dei prigionieri dopo la guerra lamiaca. Tale ruolo equivale ad un’attestazione di buona<br />

reputazione e di fiducia da parte delle istituzioni cittadine. Filodemo nel De rhetorica riporta<br />

che Senocrate fu scelto per via dell’età e della sua dimestichezza rispetto ai discorsi, mentre<br />

invece nell’Academicorum historia allude alle sue convizioni politiche a favore della libertà<br />

di Atene. Plutarco dice inoltre che la virtuosità, la buona reputazione e la capacità di<br />

ragionamento di Senocrate furono le ragioni di questa scelta della Boulé. È probabilmente<br />

rilevante notare come a proposito di questa missione Senocrate si sia attirato le critiche di<br />

Demetrio Falereo, in ragione del fatto che Senocrate parlò di fronte ad Antipatro come se<br />

stesse parlando ai discepoli dell’Academia 260 . I rapporti dell’Academia con Demetrio Falereo<br />

erano allora presumibilmente di tutt’altra natura rispetto a quelli intrattenuti da Demetrio con<br />

il Peripato. Inoltre si tenga conto, seppur con doverosa cautela, di ciò che riporta Plutarco 261 a<br />

proposito di Cratete, discepolo prediletto di Polemone, scelto dall’assemblea del popolo<br />

() per negoziare la pace con Demetrio Poliercete durante l’assedio del 287 a.C.<br />

L’assemblea sembrerebbe aver scelto proprio Cratete in ragione della sua buona reputazione e<br />

della sua abilità, il che sembrerebbe suggerire che Polemone e il suo entourage fossero non<br />

solo in ottimi rapporti con le istituzioni, ma anche del tutto esenti da affiliazioni politiche<br />

compromettenti. Nelle trattative del 287 si trattava di convincere il Poliercete a perdonare la<br />

cittadinanza per il trattamento riservatogli nel 301, quando la città gli aveva chiuso le sue<br />

porte, accusandolo di comportarsi in modi indegni, per poi finire nel 296 nelle mani di un<br />

tirannico leader popolare, l’autoproclamatosi Lachere. Il Poliercete aveva così posto sotto<br />

assedio per la seconda volta la città di Atene, organizzando un blocco dei rifornimenti alla<br />

città e in questo contesto Cratete, stando a quanto riporta Plutarco, fu scelto per il delicato<br />

compito di ambasciatore.<br />

Sia andata come sia andata, la critica ritiene che l’episodio del decreto di Sofocle di Sunio<br />

abbia avuto importanti ripercussioni sul processo di progressiva istituzionalizzazione delle<br />

scuole filosofiche. Diogene Laerzio ci informa che il decreto rimase in vigore per poco tempo<br />

e che dopo un anno i filosofi ritornarono 262 . Un certo Filone (forse un peripatetico anche lui,<br />

un allievo di Aristotele 263 ) avrebbe accusato Sofocle di aver presentato una<br />

, di aver cioè patrocinato un legge confliggente con il sistema di leggi già<br />

in vigore, e se Sofocle venne poi multato di cinque talenti, significa che Filone vinse il<br />

41, col. VIII, 11-17; Plutarchus, Vita Phocionis 27 ss.; D.L. IV, 7 = SenocrateT.2, T. 40-44 Isnardi Parente.<br />

260 Philod., Rhet. II, 173 = PHerc. 224, fr. 12 = Senocrate T. 42-44 Isnardi Parente.<br />

261 Plut., Vita Demetrii 46.<br />

262 D.L. V, 38: «E fu in quell’occasione che gli Ateniesi abrogarono la legge e condannarono Sofocle a pagare<br />

cinque talenti; e votarono il ritorno per i filosofi, perché tornasse anche Teofrasto e riprendesse la sua attività<br />

di prima».<br />

263Athen. XIII, 610f, Keibel paragr. 92, ll. 16-17; v. Cic., De Or. I, 62; Val. Max. VIII, 12, ext. 2.<br />

117


processo e fece abrogare il decreto. Sono stati conservati da Ateneo 264 anche alcuni frammenti<br />

della difesa di Sofocle da parte di Democare, nipote di Demostene, che si presume fosse<br />

all’origine di tutta la proposizione di legge 265 . Dai passi conservateci si può dedurre un forte e<br />

marcato astio contro i filosofi, in particolare contro Platone e suoi discepoli, contro Socrate, di<br />

cui ne vengono messe in discussione le virtù da soldato, e contro Aristotele, ma le sue<br />

argomentazioni non sembrano aver convinto i giudici 266 . La critica si è inoltre domandata in<br />

base a quale aspetto preesistente dell’ordinamento giuridico ateniese il decreto proposto da<br />

Sofocle di Sunio venisse giudicato ''incostituzionale'' ed a questo proposito si è fatto a più<br />

riprese menzione di una legge risalente a Solone e confluita nel Digesto in base alla quale si<br />

sancisce che : « Se un demo o i membri di una phratria o gli o i o di commensali o i membri di una società funeraria o i thiasotai o quelli che<br />

espatriano per azioni predatorie o per commercio fanno un accordo tra di loro riguardo a<br />

queste cose, esso è valido se gli statuti scritti del popolo non lo vietano ». Un testo che<br />

pretende di avere un’antichità tale da risalire agli ordinamenti solonici solleva evidentemente<br />

diverse problematiche accompagnate da corrispettive cautele, tuttavia la critica è<br />

generalmente fiduciosa, sia per quanto riguarda la sua attendibilità generale, sia per quanto<br />

riguarda la sua rilevanza in merito alle questioni fin qui affrontate. Nel testo trasmesso dal<br />

Digesto ''ex lege Solonis'' si rintraccia uno sforzo enumerativo di tutte (o almeno delle più<br />

importanti) associazioni sia civili che private del tempo e se ne sancisce da una parte un<br />

riconoscimento giuridico, dall’altra i suoi limiti di validità. Si può discutere se il senso della<br />

legge sia maggiormente ‘validante’ o ‘regolatorio’, o entrambe le cose insieme, ovvero fino a<br />

che punto la legge sancisca una libertà di associazione o il controllo statale<br />

sull’associazionismo ateniese 267 . Nel contesto dell’episodio del decreto di Sofocle di Sunio, la<br />

critica ha ipotizzato che il provvedimento sia stato abrogato proprio perché confliggente con<br />

un principio di libera organizzazione di un’associazione sancito dalla legge di Solone. Filone<br />

sarebbe allora riuscito a dimostrare che l’organizzazione delle scuole filosofiche non<br />

confliggeva con nessun ordinamento scritto della città e dunque che fosse di conseguenza da<br />

giudicarsi valida. Tale ipotesi postula di fatto che le scuole filosofiche si presentassero a<br />

livello giuridico come associazioni e che la loro legittimità fosse valutata in base al loro<br />

statuto associativo. Del resto il fatto stesso che il decreto di Sofocle di Sunio intendesse<br />

regolare un aspetto preciso della vita delle scuole filosofiche presuppone che quest’ultime si<br />

264 Athenaeus, XI, 508f (con menzione esplicita del discorso ; V, 187d, V, 215c; cfr. Aristocles, ap.<br />

Eusebius, Praep. evang. XV, 2, 791.<br />

265 È di questo avviso già von Wilamowitz-Moellendorff (1881), p. 189 ss.<br />

266 Sui filosofi come oggetto di denuncia e scherno e per una discussione dei passi sopra citati, v. Korhonen<br />

(1997), pp. 33-101.<br />

267 Jones (1999), p. 40-45.<br />

118


presentassero già come entità giuridiche potenzialmente riconoscibili, ovvero che un processo<br />

di istituzionalizzazione fosse già iniziato al loro interno. Si potrebbe inoltre ipotizzare che il<br />

pretesto a partire dal quale Sofocle di Sunio avrebbe avanzato il suo decreto siano proprio le<br />

‘misteriose’ modalità grazie alle quali Teofrasto venne in possesso del fondo lasciato alla<br />

scuola. Se Demetrio infatti lo facilitò sfruttando le sue funzioni politiche e legislative, la<br />

restaurata democrazia, nel processo di revisione dell’operato di Demetrio, poteva sentirsi<br />

legittimata a stabilire un ruolo di controllo sopra le scuole filosofiche e di conseguenza a<br />

regolarne la progressiva istituzionalizzazione. Colpisce d’altronde che, supponendo che<br />

l’obiettivo di Sofocle e Democare fossero in particolare Teofrasto e la sua scuola, non si sia<br />

fatto ricorso a un altro procedimento giudiziario ormai di lunga tradizione nei rapporti tra la<br />

polis e i filosofi, ovvero l’accusa di asebeia. Che questa via non sia stata intrapresa, potrebbe<br />

esser stato determinato dal fatto che un tentativo era già stato fatto da un certo Agonide, senza<br />

che questo ottenesse l’esito sperato 268 . Tuttavia, in ogni caso, il provvedimento di Sofocle<br />

prende atto del fatto che le scuole filosofiche sono ormai una realtà consolidata e che la polis<br />

può al massimo cercare di interferire nella loro gestione. Il fallimento della legge di Sofocle di<br />

Sunio infine deve aver costituito un precedente giudiziario in grado di chiarificare la<br />

posizione delle scuole filosofiche di fronte alla legge ateniese. Probabilmente non si tratta di<br />

una fortuita coincidenza se di lì a pochi anni nuove scuole filosofiche, tra cui quella di Zenone<br />

e quella di Epicuro, fiorirono nella città di Atene.<br />

Un fenomeno ‘quasi legale’<br />

Alla luce di tutto ciò rimane ancora abbondantemente incerta la base giuridica degli<br />

ordinamenti delle scuole filosofiche. Sebbene la storia del Peripato si sia presto legata, a<br />

partire dal suo secondo scolarca, a un fondo terriero, non è detto che una proprietà fosse una<br />

condizione necessaria per la vita di una scuola filosofica. La Stoa non sembra aver avuto a<br />

disposizione un fondo, nonostante il perdurare della scuola nei secoli. Del resto non sembra<br />

nemmeno sicuro che si possa parlare propriamente di proprietà quando un fondo è inalienabile<br />

come nel caso del giardino e delle abitazioni del Peripato. Aristotele stesso afferma<br />

chiaramente che non vi è proprietà nel diritto ateniese se non insieme al potere di<br />

alienazione 269 . Ancora più incerta è la legittimità del ricorso al concetto di personalità<br />

giuridica nel contesto della società ateniese del tempo, per spiegare il passaggio della<br />

proprietà della scuola da uno scolarca ad un altro qualunque sia la sua origine. Se la scuola<br />

potesse eventualmente essere considerata come personalità giuridica collettiva, la<br />

268 D.L. V, 37.<br />

269 Arist., Rhet. 1.5 1361a21-22. v. Harrison (1968), p. 240-241. v. anche Gottschalk (1972), p. 329.<br />

119


determinazione del suo statuto associativo sarebbe di primaria importanza. In quanto<br />

associazione essa disporrebbe di una comproprietà civile 270 come quella attribuita alle fratrie,<br />

ai thiasoi, agli eranei, etc. a partire da una certa interpretazione dei documenti epigrafici.<br />

Tuttavia tale approccio non sembra poter risolverere del tutto i problemi sollevati dai<br />

documenti che attestano il passaggio della direzione di una scuola da uno scolarca ad un altro.<br />

Nell’ambito della scuola peripatetica, sulla cui gestione patrimoniale siamo meglio informati,<br />

ci troveremmo di fatto di fronte ad un’oscillazione marcata tra proprietà collettiva e gestione<br />

individuale : è infatti lo scolarca soltanto a disporre per mezzo del testamento del passaggio<br />

del fondo e dei beni ad esso connesso a beneficio di un gruppo di o di un altro<br />

individuo singolo.<br />

Del resto non sembrano esservi basi sufficientemente solide per affermare che i Greci<br />

impiegassero il concetto di persona giuridica né individuale, né tantomeno collettiva. Le<br />

associazioni ateniesi, alla luce di studi approfonditi che tentano di svincolarsi dall’influenza<br />

della prospettiva del diritto moderno, per considerare i documenti epigrafici per quello che<br />

effettivamente attestano, sembrerebbero piuttosto aver proliferato come un fenomeno ‘quasi<br />

legale’, sebbene profondamente radicato nella polis 271 . Se la questione della personalità<br />

giuridica e dello statuto legale delle associazioni ateniesi non ha ragion d’essere, parimenti il<br />

dibattito sullo statuto giuridico delle scuole filosofiche può essere radicalmente alleggerito e<br />

riportato ai testi a nostra disposizione che ne descrivono il funzionamento. Non rimane che<br />

ammettere che sia il concetto di , nell’accezione del « fare ciò che è giusto e appropriato<br />

nei confronti degli amici », e nessun’altro concetto giuridico più sofisticato, ad essere il fulcro<br />

della base organizzativa di una scuola filosofica come il Peripato.<br />

Nell’Academia di Polemone è possibile riscontrare il funzionamento di un identico principio.<br />

Antigono di Caristo ha tracciato il profilo di un gruppo di filosofi che si struttura attraverso<br />

rapporti di stretta concordia. Polemone e Cratete, Crantore e Arcesilao adottano uno stile di<br />

vita comune, basato su relazioni reciproche molto strette. I discepoli di Polemone sono spinti<br />

verso una scelta simile, se la notizia che questi costruirono casette vicino all’Esedra per<br />

essergli vicino, può essere vista come un sintomo del rafforzamento di una comunità<br />

filosofica orientata verso un determinato stile di vita. Di particolare interesse diventa in<br />

quest’ottica la testimonianza sulla sepoltura comune che Polemone avrebbe auspicato per lui e<br />

i suoi più stretti discepoli. Nel resoconto biografico di Crantore troviamo riportato<br />

un’episodio secondo il quale Arcesilao avrebbe domandato a Crantore, probabilmente già<br />

malato e prossimo alla morte, dove avrebbe preferito essere sepolto, e questi rispose in<br />

270 Biscardi (1999), pp. 23-74, in particolare p. 32.<br />

271 Arnaoutoglu (2003), pp. 118 ss.<br />

120


versi : « è bello essere sepolti nelle colline della propria patria » 272 . Il testo però aggiunge che<br />

Polemone avrebbe insistito perché Crantore optasse per la sepoltura comune che lui auspicava<br />

per il gruppo di discepoli ; al che Crantore avrebbe replicato : « Non mi sono mai opposto a<br />

lui né prima né ora » 273 . Da questa testimonianza, se le si concede attendibilità storica,<br />

possiamo dedurre che fosse importante per Polemone rafforzare l’unità del gruppo riunito<br />

intorno a sè e che per far ciò abbia scelto di adottare pratiche già consolidate da altri tipi di<br />

associazioni ateniesi, come ad esempio la pratica della sepoltura comune, scopo principale<br />

delle associazioni di /. Lasciandosi del tutto alle spalle l’instabilità eventuale delle<br />

pratiche di insegnamento del periodo precedente, la scuola academica si configura come una<br />

realtà stabile che prende a prestito le forme associative che più le si confanno, in un processo<br />

originale di consolidamento probabilmente non solo delle attività di insegnamento, ma anche<br />

dello statuto associativo. La comunità academica assume d’altro canto caratteristiche sue<br />

proprie, che non trovano riscontro negli ordinamenti di altre associazioni o delle scuole<br />

filosofiche coeve. Dal testamento di Teofrasto si deduce infatti che la configurazione del<br />

fondo connesso con la scuola non prevedeva la residenza in comune di tutti i membri della<br />

scuola, dalle parole del testamento di Stratone addirittura affiora uno sfaldamento della<br />

comunità, perché i suoi membri sono troppo anziani o si dedicano ad altre attività rispetto a<br />

quella filosofica. Del resto le testimonianze relative alla gestione della scuola da parte per<br />

esempio di Licone, non suggeriscono un rafforzamento di una comunità appartata, quanto<br />

piuttosto un profondo inserimento della vita della scuola nelle dinamiche della vita sociale<br />

cittadina. Relativamente simile alle dinamiche della comunità academica risulta quello che<br />

Antigono di Caristo suggerisce a proposito di Zenone e i suoi discepoli. Zenone condivideva<br />

l’abitazione con Perseo, ma non si ritraeva di fronte alle frequentazioni mondane dei potenti.<br />

Da questo punto di vista l’immagine costruita dai resoconti biografici firmati da Antigono<br />

suggerisce all’interno dell’Academia un processo di consolidamento della vita in comunità,<br />

che coincide con l’adozione di uno stile di vita appartato e dedito allo studio, e che risente<br />

probabilmente delle linee culturali promosse parimenti dall’attitudine di Pirrone, nella misura<br />

in cui anch’egli visse appartato, evitando la frequentazione dei potenti 274 . Il promotore di<br />

questa evoluzione organizzativa sembra essere stato Polemone in prima persona, al quale<br />

possiamo attribuire la capacità di scegliere accuratamente 275 e tenere stretti intorno a sè i<br />

discepoli. Si tenga presente a questo proposito la testimonianza secondo la quale una volta che<br />

272 Philod., Acad. Hist., col. S, ll. 1-3 = TrGF II F 281.<br />

273 Philod., Acad. Hist., col. S, ll. 7-9. Cfr. D.L. IV, 21, sul fatto che di fatto Polemone e Cratete condivisero la<br />

stessa sepoltura.<br />

274 Cfr. supra p.5.<br />

275 Cfr. la testimonianza di Philod., Acad. Hist., col. XV, 40-46, secondo la quale Polemone si sarebbe<br />

impegnato ad attirare nella sua scuola in giovane Crantore già sotto la guida di un altro maestro che<br />

insegnava nell’Academia.<br />

121


Crantore si era ritirato in un santuario di Asclepio a causa di una malattia avrebbe attirato<br />

molti discepoli, convinti che questi intendesse istituire una sua scuola, ma che una volta<br />

guarito tornò senza indugio presso Polemone 276 . Una tale fedeltà non deve essere tuttavia<br />

intesa come un’adesione dogmatica alle riflessioni del maestro. All’interno della scuola, oltre<br />

al forte spirito di coesione, sembra invece esservi stato spazio per lo sviluppo autonomo di un<br />

proprio punto di vista, stando a quanto lascia trapelare la testimonianza contenuta nel testo di<br />

Filodemo, secondo la quale Crantore : « praticò la filosofia insieme a Polemone, anche se<br />

molto differivano tra loro sulle cose con cui si divertivano » 277 . Con questo tipo di scenario<br />

possiamo in conclusione far coincidere il ruolo di scolarca ricoperto da Polemone nella scuola<br />

fondata da Platone.<br />

La rubrica letteraria<br />

In quest’ultima sezione dell’indagine stimolata dai resoconti biografici di Antigono di Caristo<br />

si intende soffermarsi su una questione specifica ovvero sul significato di una ‘rubrica<br />

letteraria’ dei bioi dei filosofi academici. È verosimile che l’interesse per quest’argomento<br />

risalga ad Antigono e che tali informazioni derivino dalle sue Biografie, tuttavia la loro<br />

assenza nel testo di Filodemo impedisce di dare una conferma a tale supposizione. È difficile<br />

valutare il preciso significato di ciascun giudizio letterario e le sue ulteriori implicazioni nel<br />

contesto della critica letteraria o di una riflessione più globale di tipo estetico, ma certamente<br />

l’enfasi di questi passaggi tende ad affermare il vivo interesse dei filosofi academici per le<br />

questioni letterarie, in particolare per la poesia. Polemone, Cratete, Arcesilao e Adimanto<br />

sembrano essersi pronunciati su precise questioni stilistiche, sull’apprezzabilità di certi tipi di<br />

versi o di un certo tipo di lessico. Omero viene menzionato da tutti e quattro i filosofi come<br />

autorità massima in poesia e Arcesilao sembra addirittura aver pensato il suo rapporto con il<br />

padre dell’epopea nei termini di un rapporto d’amore. Se Polemone è detto ammirare lo stile<br />

di Sofocle in opposizione a quello di Euripide, Crantore prediligeva invece quest’ultimo in<br />

ragione del suo uso poetico del linguaggio comune. La poesia di Pindaro inoltre veniva<br />

ammirata sia da Polemone sia da Arcesilao. Omero e i tragici costituiscono per i filosofi<br />

academici un riferimento culturale senza dubbio ovvio e il loro apprezzamento non sembra a<br />

prima vista poter significare niente di particolarmente originale per qualcuno che risiede<br />

nell’Atene del IV o del III secolo a.C. Tenendo tuttavia presente l’antica querelle tra filosofia<br />

e poesia e la relazione di almeno apparente conflitto nei dialoghi platonici tra la parola dei<br />

276 D.L. IV 24-25.<br />

277 Philod., Acad. Hist., col. XVI, 6-9:<br />

«».<br />

122


poeti e la parola del filosofo, per cui si è parlato di ‘rifiuto della poesia’ da parte di Platone,<br />

l’enfasi sugli interessi letterari del gruppo di academici diventa significativa e precisamente<br />

motivata.<br />

Nonostante le descrizioni della perfetta impassibilità di Polemone di fronte alle<br />

rappresentazioni teatrali e alla lettura dei testi poetici, non è possibile parlare nè di rifiuto nè<br />

di ostilità nei confronti della rappresentazione tragica 278 . Al contrario, il resoconto biografico<br />

di Polemone tiene a sottolineare che egli era un « ammiratore di Sofocle () e<br />

sopratutto di quei versi alla cui composizione, secondo il poeta della Commedia, “un cane<br />

molosso forse partecipò” e di quelli che, secondo Frinico, non sono “non mosto, non miscela,<br />

ma puro vino di Pramno” » 279 . Polemone leggeva dunque Sofocle volentieri e ammirava in<br />

particolare certi versi che Diogene Laerzio designa facendo ricorso alle parole di altri due<br />

maestri del teatro greco. Non è facile determinare se le due frasi fossero state selezionate già<br />

da Polemone stesso o meno ; in ogni caso si nota che le due frasi fanno riferimento a una<br />

tipologia precisa di versi. Alcuni versi di Sofocle, secondo un’espressione di Aristofane,<br />

davano l’impressione che « un cane molosso » avesse preso parte alla loro composizione : ciò<br />

sta a significare che tali versi davano l’impressione di esser stati redatti con estrema<br />

attenzione e tensione morale. Parimenti, la seconda frase, presa in prestito da Frinico, presenta<br />

una similitudine tra i versi della poesia e i differenti tipi di vino, portando l’attenzione<br />

sull’antagonismo tra i versi che sono « miscela », mescolati ad elementi estranei alla loro<br />

natura, e quelli che invece hanno un profumo autentico, anche se forse più aspro, come il vino<br />

di Pramno. È legittimo domandarsi se si tratti di un criptico riferimento polemico allo stile di<br />

Euripide. Già al paragrafo precedente del bios di Polemone in Diogene Laerzio viene sfruttata<br />

un’espressione polemica di Aristofane diretta contro lo stile di Euripide al fine di definire per<br />

contrasto il carattere nobile dello stile argomentativo di Polemone : « Era dunque raffinato e<br />

di buona natura, evitava le espressioni “marinate nell’aceto e nel silfo” che Aristofane<br />

attribuisce a Euripide e che, come dice (Aristofane) : sono sconcezze contro natura fatte su<br />

grosso pezzo di carne » 280 . Le opere di Aristofane dalle quali sono tratte queste citazioni non<br />

ci sono arrivate, tuttavia, a partire dalle Rane e dalle Tesmoforiazuse, i commenti velenosi del<br />

metateatro di Aristofane risultano ben familiari. Nelle Rane in particolare, attraverso la<br />

rappresentazione comica di una competizione tra poeti alla presenza di Dioniso, un vero e<br />

proprio agone nell’agone, Euripide viene accusato d’aver oltraggiato la morale per via della<br />

sua rappresentazione della realtà quotidiana. Per ciò egli non può essere scelto dal dio per<br />

278 Punto di partenza teorico è qui la prospettiva adottata da Babut (1985), pp. 72-92.<br />

279 D.L. IV, 20. Cfr. Arist., Rhet. 1404 b 20-21.<br />

280 D.L. IV, 18-19; fr. 128 Kassel & Austin. Nell'articolo Gigante (1963), p. 239, si congettura che questi versi si<br />

inseriscono bene nel di Aristofane, dove sembrerebbe che uno dei personaggi caratterizzava così<br />

gli aspetti non eschilei o anti-eschilei del nuovo stile tragico di Euripide.<br />

123


tornare sulla terra e risolvere i problemi di decadenza culturale e sociale che motivano da<br />

principio il viaggio di Dioniso. Nello stesso contesto Sofocle veniva qualificato come<br />

« » 281 , di buon carattere, estraneo alle dispute, sereno e pacifico. Una tale<br />

caratterizzazione è poi divenuta un luogo comune della critica.<br />

In ogni caso si nota che la selezione di versi che Polemone considera degni d’ammirazione<br />

viene stabilita secondo criteri linguistici e stilistici precisi. Egli di fatto si fa giudice di<br />

questioni propriamente letterarie, interviene, come se fosse un addetto ai lavori, nel vivo<br />

dibattito su quale sia lo stile poetico migliore. E verosimilmente ciò non avviene sulla base<br />

del gusto personale-individuale, quanto piuttosto secondo motivazioni estetico-filosofiche<br />

precise 282 . Il testo di Diogene Laerzio aggiunge poi : « Diceva che Omero era il Sofocle<br />

dell’epopea e Sofocle, l’Omero della tragedia » 283 . Questo giudizio circolare sull’equivalenza<br />

di Omero e Sofocle nei loro generi letterari rispettivi può essere compreso in modo semplice<br />

come l’elevazione di Sofocle a più grande rappresentante del genere tragico, come senza<br />

dubbio Omero lo era per l’epica 284 . Tuttavia è forse possibile estrarre un ulteriore elemento :<br />

se si considera il riferimento a Omero come un riferimento al « maestro dell’Ellade » 285 , al suo<br />

indiscutibile valore pedagogico e culturale, allora il parallelo con Sofocle potrebbe voler<br />

metter in risalto anche il contributo formativo e didattico offerto dal teatro di Sofocle. Ci si<br />

rammenti che già secondo gli insegnamenti platonici, certi tipi di versi sono degni di lode o<br />

meno a seconda dell’influenza che sono capaci di esercitare nell’orientamento e la formazione<br />

dell’anima dello spettatore 286 . L’idea che il poeta sia responsabile per l’effetto dei suoi<br />

componimenti sui concittadini è in realtà molto presente nel mondo greco, come lo<br />

testimoniano tra le altre cose le recriminazioni contro Omero di Senofane e molti passaggi<br />

delle commedie di Aristofane.<br />

Il gruppo di academici che ruota intorno a Polemone è senza dubbio il luogo adatto per<br />

verificare la continuità del rapporto intrattenuto dal filosofo di tradizione platonica e il testo<br />

poetico 287 . Diogene Laerzio riporta una ‘rubrica’ sui gusti letterari anche di Crantore,<br />

Arcesilao e Menedemo : a proposito di Crantore si legge che, tra tutti i poeti, ammirava<br />

281 Aristoph., Rane, v. 82.<br />

282 v. anche la questione dello stile di Euripide in relazione all’attitudine nobile del filosofo in D.L. IV, 18.<br />

283 D.L. IV, 20.<br />

284 A questo proposito cfr. Arist., Poet. III, 1448 a 25-28:<br />

«-<br />

(Sicché da un lato Sofocle sarà un imitatore del<br />

medesimo genere di Omero, perché entrambi imitano persone dignitose, dall’altro di Aristofane, giacché<br />

entrambi imitano persone che compiono azioni e operano – tr. it. a cura di P. Donini) ». cfr. anche Poet.1448b<br />

34 sq.; 1459a 30-37; 1460a 5-8.<br />

285 Cfr. Plato, Resp. 606 e – 607a. Sul tema dell’autorità del poeta in quanto principio della critica letterario nel<br />

mondo greco, v. Verdenius (1983), pp. 14-59.<br />

286 Cfr. Plato, Simp. 209a 4-5 ; Tale è anche il principio delle “riforme pedagogiche” della Repubblica e delle<br />

Leggi, a proposito della poesia.<br />

287 Un primo studio di questo argomento è stato condotto da Gigante (1963), pp. 237-242.<br />

124


sopratutto Omero ed Euripide e ancora che Crantore diceva che « è difficile scrivere in tono<br />

tragico e allo stesso tempo suscitare la compassione per mezzo del linguaggio di tutti i giorni<br />

() » 288 . Già il<br />

personaggio di Euripide in Aristofane diceva : « Ho introdotto in scena le cose comuni<br />

(), quelle con cui abbiamo sempre a che fare e su cui potevo essere<br />

controllato, perché ne sapevano quanto me e dunque potevano controllare la mia poesia. Non<br />

usavo un linguaggio pomposo per farli uscire di cervello, e non li stordivo con Cicni,<br />

Memnoni, cavalli, sonagli, pennacchi » 289 . Le scelte stilistiche di Euripide sono associate da<br />

Aristofane a un’attitudine politica di tipo ‘democratico’ 290 e ad un uso della parola di tipo<br />

‘dialettico’ 291 , entrambi gli elementi considerati in senso negativo. È dunque possibile che il<br />

filosofo academico Crantore, quando a distanza di tempo fa riferimento al ‘linguaggio<br />

comune’ di Euripide, intenda riattivare positivamente il valore culturale dei due elementi ad<br />

esso connessi. Non ci è giunta d’altra parte nessuna notizia sul fatto che Crantore avesse<br />

composto un opera di critica letteraria e se ci si domanda allora da dove Antigono abbia tratto<br />

questo tipo di informazioni, ci si limita ad avanzare una debole ipotesi : prendendo come<br />

punto di partenza la citazione che in Diogene Laerzio segue il commento sui gusti letterari di<br />

Crantore, tratta dal Bellerofonte di Euripide (« Ahime ! Ma perché ahime ? abbiamo sofferto<br />

le sofferenze dei mortali. ») 292 , si nota che questa si presta perfettamente, non soltanto a<br />

testimoniare l’uso in poesia di esclamazioni comuni, ma anche ad illustrare una certa<br />

concezione della sofferenza umana che è anche alla base del Sul lutto di Crantore, di cui<br />

conserviamo qualche frammento 293 . Prendendo in considerazione degli sviluppi posteriori del<br />

genere delle Consolationes, salta agli occhi il ricorso massiccio a citazioni tratte dai poeti ;<br />

sembra dunque ragionevole congetturare che a partire da un opera di questo genere fosse<br />

possibile trarre qualche conclusione sulle preferenze di un autore in ambito letterario.<br />

Proseguendo oltre, leggiamo a proposito di Arcesilao che quest’ultimo apprezzava Omero più<br />

di ogni altro poeta e che aveva l’abitudine di leggerne qualche verso, non soltanto prima di<br />

dormire, ma anche al sorgere del sole, dicendo ogni volta che si apprestava a leggere che<br />

« andava dal suo amante » 294 ; il testo riporta anche che Arcesilao lodava Pindaro per la<br />

288 D.L. IV, 26 = Antigone fr. 12* Dorandi. Segue una citazione dal Bellerofonte di Euripide.<br />

289 Aristoph., Rane, vv. 959-963, tr. it. di G. Paduano.<br />

290 Ivi, vv. 952-953.<br />

291 Ivi, vv. 954-958.<br />

292 D.L. IV, 26; fr. 300 Nauck = 300 Kamicht.<br />

293 I frammenti del di Crantore provengono dall’opera P di<br />

Plutarco e dalle Tusculanae Disputationes di Cicerone. Sono stati riuniti da Mette (1984). Rimane<br />

controverso il taglio da dare ai frammenti. Ci si limita qui a notare che le parole esplicitamente attribuibili a<br />

Crantore espongono una concezione molto marcata della connessione (inevitabile) tra la vita mortale degli<br />

uomini e la sofferenza, v. Plut.,P , 6, p. 212, 21.<br />

294 D.L. IV, 31 = Antigone fr. 21* Dorandi<br />

125


pienezza del linguaggio e per l’abbondanza dei nomi e dei verbi. In aggiunta apprendiamo che<br />

da giovane aveva cercato di definire lo stile del poeta Ione di Chio 295 . A proposito di<br />

Menedemo invece si fa riferimento ad un'intera scala di apprezzamento in ambito letterario,<br />

secondo la quale il primo posto è riservato ad Omero, il secondo ai poeti lirici, poi viene<br />

Sofocle e infine il poeta tragico Acaio ; nel genere del dramma satiresco, sempre Menedemo,<br />

accordava il primo posto a Eschilo e il secondo ad Acaio 296 .<br />

Da un punto di vista generale questo tipo di informazioni ci colpisce per il fatto di essere<br />

appannaggio dei filosofi academici : riferimenti simili mancano negli altri frammenti dei bioi<br />

di Antigono e, in generale, in Diogene Laerzio, riferimenti di questo tipo sono poco numerosi.<br />

Nel testo di Diogene i filosofi fanno spesso ricorso a citazioni dai poeti, sopratutto da Omero,<br />

reagendo a una situazione determinata, ma raramente vengono menzionati dei giudizi critici o<br />

delle classificazioni letterarie ; un caso paradigmatico è l’episodio secondo cui Senocrate,<br />

ambasciatore presso Antipatro per la liberazione dei prigionieri ateniesi, si rifiuta di sedersi a<br />

banchetto e recita i versi dell’Odissea : « O Circe, quale uomo, che sia assennato,|<br />

tollererebbe di gustare cibo e bevanda, prima | che siano liberati i suoi compagni e che<br />

possa vederli con i suoi occhi ? » 297 ; si potrebbero d’altra parte citare molti casi simili nelle<br />

Vite di Diogene Laerzio e non solo. Gli esempi più prossimi alla rubriche letterarie dei filosofi<br />

academici potrebbe essere quello di Menandro, discepolo di Diogene il cane, a proposito del<br />

quale si dice che era « grande ammiratore di Omero » 298 e quello di Pirrone di Elide, sul quale<br />

leggiamo : « Filone d’Atene, che era suo discepolo, diceva che era solito citare sopratutto<br />

Democrito, e poi anche Omero, che ammirava e di cui citava spesso il verso “Quale è delle<br />

foglie la stirpe, tale è anche quella degli uomini” ( Il. VI, 146) » 299 . Raramente dunque in<br />

Diogene Laerzio ci si sofferma sulle opinioni estetico-letterarie dei filosofi, anche se è<br />

doveroso ricordare che nelle liste dei titoli delle opere contenute in molti resoconti biografici<br />

si trova l’attestazione di un’attività molto intensa di riflessione sulla letteratura, i suoi<br />

argomenti, i suoi autori, per numerosi filosofi appartenenti a una molteplicità di indirizzi<br />

filosofici ; si noti in particolare il caso di Eraclide Pontico, al quale la storiografia attribuisce<br />

una posizione oscillante tra l’Academia e il Liceo, che sembra aver redatto numerose opere<br />

sui poeti: Sull’età di Omero ed Esiodo in due libri, Su Archiloco e Omero in due libri, Su<br />

quello che si legge in Euripide e Sofocle in tre libri, Soluzioni omeriche in due libri, Sui tre<br />

295Ibidem, tale è una delle interpretazioni possibili della frase in Diogene : «<br />

». Un’altra lettura possibile è che Arcesilao da giovane abbia fatto<br />

l’esegesi del dialogo platonico Ion, v. M. Gigante, Diogene Laerzio, Vite dei Filosofi, note al quarto libro n.<br />

73, vol. 2 pp. 502-503, offre una sintesi della storia della critica a questo proposito.<br />

296 D.L. II 133.<br />

297 Hom., Od. X, 383-385, en D.L. IV, 9.<br />

298 D.L. VI, 84.<br />

299 D.L. IX, 67.<br />

126


autori di tragedie in un libro e Su la poetica e i poeti in un libro 300 .<br />

Riassumendo : Omero viene menzionato dai quattro filosofi academici in qualità di autorità<br />

massima in poesia (epica) e Arcesilao sembra addirittura aver pensato il suo rapporto con il<br />

padre dell’epopea nei termini di una relazione d’amore. Polemone è noto per essere un<br />

ammiratore dello stile di Sofocle piuttosto che di quello di Euripide, mentre Crantore al<br />

contrario prediligeva quest’ultimo per via dell’uso poetico del linguaggio ordinario. La poesia<br />

di Pindaro veniva apprezzata non solo da Arcesilao, ma anche da Polemone che la prendeva<br />

infatti a modello per il suo stile argomentativo : « quando argomentava, evitava ogni<br />

soleicismo e si asteneva da ogni raffinamento eccessivo, era un ammiratore entusiasta<br />

dell’armonia di Pindaro, come si potrebbe dire<br />

(<br />

s.» 301 . Il rapporto<br />

del filosofo academico con la poesia è dunque guidato dalla convinzione che lo stile ha una<br />

incidenza determinante sulla circolazione del contenuto. È evidente che, nel caso di<br />

Polemone, lo stile che il filosofo apprezza e adotta corrisponde alla sua attitudine generale<br />

rispetto al mondo : Polemone sceglie di non impiegare nè un linguaggio trascurato, nè delle<br />

finezze esagerate. Egli tende verso un’ ‘armonia’ senza eccesso che ricalca da vicino la sua<br />

attitudine austera 302 , come verso un controllo perfetto sulle passioni ; queste ultime infatti, in<br />

prospettiva platonica, sono prima di tutto la manifestazione di un eccesso e di una mancanza<br />

di ‘armonia’ nell’anima. Sulla base di un simile principio, Polemone seleziona parimenti i<br />

poeti e i testi il cui stile veicola un'attitudine conforme alla propria. L’espressione<br />

« ammiratore entusiasta dell’armonia pindarica () » 303<br />

risulta particolarmente interessante ; a questo proposito possiamo prendere in conto ciò che<br />

Dionigi d’Alicarnasso (I secolo a.C.) esprime a proposito di Pindaro come rappresentante<br />

dell’ ‘armonia austera’, ovvero di un tipo di stile che « seleziona i ritmi pieni di dignità e<br />

maestosi () » 304 ,<br />

300 D.L. V, 87-88. Cfr. la lista delle opere di Demetrio Falereo (D.L. V, 81), di Cleante (D.L. VII, 175), e anche<br />

quella di Democrito (D.L. IX, 48).<br />

301 Philod. col. XIV, 7-12.<br />

302 La corrispondenza tra l’attitudine del filosofo e l’opera d’arte è anche alla base di un passaggio in Filodemo<br />

dove l’attitudine di Polemone viene paragonata a ciò che il pittore Melanto diceva su certi quadri, coll. XIII<br />

43 – XIV 3: «<br />

(pur avendo qualcosa di nobile,<br />

simile a quei quadri che manifestano sicurezza e secchezza, come dice Melanto, poiché era dotato della<br />

dignità tipica di un (buon) cittadino)»; cfr. D.L. IV 18, ulteriori riferimenti in Dorandi (1999), p. 9 (frr. 9A et<br />

9B).<br />

303 Cfr. il parallelo con D.L. IV, 19, dove si tratta delle qualità morali di Senocrate, che Polemone prende a<br />

modello: «In ogni caso, Polemone ne (scil. Senocrate) ha sempre fatto menzione e fece propria la sincerità,<br />

l’austerità di quell'uomo e la gravità del modo dorico ()» ; v. p. 70.<br />

304 Dion. Halic., “Peri£ sunqe/sewj o)nomatw=n”, VI, 22, 4. tr. fr. dans G. Aujac, M. Lebel (eds.), Denys<br />

127


che evita accuratamente « le chiuse artificiali o perfettamente limate<br />

( <br />

) » 305 , un’armonia che « manca totalmente di fioriture, è<br />

altera, diretta, senza affettature<br />

() » 306 . Nel testo di Diogene Laerzio<br />

il riferimento a Pindaro manca e la descrizione dello stile proprio di Polemone menziona di<br />

nuovo un giudizio sullo stile dei tragici 307 .<br />

La lettura e lo studio del testo poetico permetteva allora al filosofo di consolidare un modello<br />

di corrispondenza tra la modalità espressiva della parola e l’attitudine di chi la veicola.<br />

L’attitudine del poeta equivale in quest’ottica al contenuto del suo stile e attraverso il testo<br />

questa si trasmette al lettore/uditore. Questo tipo di modello apparentemente triviale sembra<br />

non tenere in conto qualcosa che per la nostra sensibilità moderna è molto familiare, ovvero il<br />

meccanismo di mascheramento dell’autore dietro al testo, il principio secondo il quale<br />

l’autore può intrattenere il lettore in una rete di illusione e dissimulazione. Tuttavia, la<br />

questione diventa meno banale se considerata alla luce delle riflessioni filosofiche (e non<br />

soltanto filosofiche) sulla complementarietà di theoria e praxis, di parola e azione, del<br />

pensiero filosofico e dell’attitudine concreta.<br />

«» o l'essere in contraddizione con se stessi<br />

Il motto polemoniano, considerato generalmente dalla critica come una descrizione<br />

programmatica della sua attività filosofica, può essere contestualizzato all'interno delle<br />

riflessioni fin qui condotte. Nel testo di Diogene Laerzio si legge che: « Polemone diceva che<br />

bisogna esercitarsi nelle azioni concrete e non nelle disquisizioni dialettiche, (per non<br />

apparire) come qualcuno che abbia ingoiato un manuale di armonia aver praticato la<br />

musica: tali uomini sarebbero ammirati per la loro abilità dialettica, ma si troverebbero in<br />

contraddizione con loro stessi per quanto riguarda il loro comportamento<br />

()» 308 .<br />

Un'altra versione della stessa testimonianza è presente in forma ridotta nel testo di Filodemo<br />

di Gadara: « si adirava però contro coloro che conducono l'esame delle questioni<br />

d’Halicarnasse, Opuscules rhétoriques, t.III, La composition stylistiques, Les Belles Lettres, Paris 1981.<br />

Ringrazio la collega Valeria Piano, che ha gentilmente portato alla mia attenzione questo testo.<br />

305 Ivi, VI, 22, 5.<br />

306 Ivi, VI, 22, 6.<br />

307 v. supra, p. 5-6.<br />

308 D.L. IV, 18.<br />

128


all'impossibile, dicendo che bisogna esercitarsi nelle azioni concrete» 309 . Se ne deduce che il<br />

filosofo academico non apprezzava l'argomentazione dialettica fine a se stessa; forse<br />

addirittura questa era l'unica cosa che lo disturbava profondamente 310 . Il testo di Filodemo<br />

suggerisce che per 'disquisizioni dialettiche' bisogna comprendere l'esame di una questione «<br />

», fino all'estremo impossibile, ovvero fino al paradosso o alla confutazione per<br />

assurdo, secondo le sofisticazioni dell'esercizio dialettico. L' 'esercizio', espresso dal verbo<br />

, implica al contrario un , un'azione concreta e quando questa non si<br />

manifesta, come nel caso di una certa dialettica, si produce una disposizione contraddittoria.<br />

L'esercizio della musica, secondo la similitudine nel testo di Diogene, non può esser ridotto<br />

allo studio teorico di un manuale di armonia musicale, ma richiede invece la pratica concreta<br />

dello strumento. Chi volesse essere musicista sanza mai toccare uno strumento, cioè soltanto<br />

in virtù di una conoscenza dei fondamenti teorici della techne, sarebbe un artista piuttosto<br />

strano, tanto quanto un capitano di barca che soffre di mal di mare o un generale d'armata<br />

preso dal panico di fronte al pericolo 311 . Il paradigma della techne ricopre un ruolo<br />

fondamentale già nelle riflessioni di Platone a proposito della complementarietà tra theoria e<br />

praxis. In questo senso l'esercizio puramente teorico della dialettica perde di vista l'essenziale<br />

corrispondenza tra la teoria di un'arte e il suo esercizio pratico, tra la teoria filosofica e la sua<br />

applicazione pratica; risulta separato ciò che invece deve rimanere saldamente unito, con il<br />

rischio di scadere nel ridicolo, nella contraddizione interna. Il dialettico puro, colui che si<br />

interessa unicamente alle finezze dell'argomentazione indipendentemente dal loro contenuto<br />

pratico, si mette in conflitto con se stesso, nella misura in cui dimentica che l'esercizio<br />

dell'arte alla quale aspira non può realizzarsi nelle sole disquisizioni dialettiche, ma richiede<br />

prima di tutto l'esercizio pratico (della virtù) 312 . Questi svilupperebbe una disposizione<br />

filosofica priva della pratica della filosofia, esattamente come un musicista privo di<br />

strumento, perdendosi nella sterilità e nella contraddittorietà della sua situazione. La domanda<br />

« », che si riscontra in più occasioni nel testo tragico, è anche la domanda alla<br />

quale la vita del filosofo vuole e deve fornire una risposta. Il motto polemoniano non<br />

corrisponde allora a un rifiuto radicale degli aspetti speculativi e dialettici della filosofia, a<br />

vantaggio esclusivo dell'aspetto pratico, che farebbe di Polemone un 'campione di prassi<br />

etica', poco incline alle analisi dialettiche 313 ; il suo scopo è piuttosto quello di riformulare la<br />

proposta di un'integrazione armoniosa dei due elementi, portando l'attenzione sul rapporto di<br />

309 Philod., Acad. hist. col XIV, 3-7. si noti che nel testo di Filodemo la concatenazione tematica tra la questione<br />

dell'esercizio dei pragmata e la questione dello stile argomentativo e letterario di Polemone è presentata<br />

come un rapporto di causa ed effetto (col. XIV, 7: « »).<br />

310 Cfr. Plato, Rep. VI, 496 a.<br />

311 Cfr. Plato, Leg. I, 639 a-b.<br />

312 Cfr. Epictetus, I, 50; II, 34; 18; 44;<br />

313 v. Dillon (2003), pp. 156-176.<br />

129


consonanza tra il pensiero e l'attitudine pratica di chi la veicola, ovvero tra la parola e l'azione.<br />

Il noto tema platonico dell'unione di theoria e praxis determina dunque l'approccio del<br />

filosofo academico ai testi dei poeti, al loro stile, al loro modo di esprimere l'azione.<br />

L’idea che un autore non debba entrare in contraddizione con se stesso si ritrova, non per<br />

caso, nel principio ermeneutico applicato al testo dei poeti da Zenone di Cizio. Il fondatore<br />

dello stoicismo, che ebbe l'opportunità di entrare in contatto con la scuola di Polemone, ritiene<br />

che l'esegeta di Omero debba risolvere tutti i passaggi in cui il poeta sembra evocare due idee<br />

tra loro contraddittorie: « Zenone non contesta nessuno dei versi di Omero, lui che spiega e<br />

insegna insieme che il poeta ne ha scritti alcuni secondo l'opinione, gli altri secondo la verità,<br />

di modo che non si mostra in lotta con se stesso in alcuni di quelli che sembrano esser detti in<br />

opposizione (<br />

) » 314 . Si noti in particolare l'uso dell'espressione « » e<br />

la sua affinità con l'espressione del motto polemoniano « ». Il poeta che si<br />

mostra in contraddizione con se stesso è problematico per l'interpretazione; per aggirare<br />

questo inconveniente si suppone che l'attitudine del poeta rimane sempre la stessa, ovvero<br />

quella del 'maestro di verità', ma che talvolta egli veicoli un messaggio in conformità con la<br />

, talvolta in conformità con l’, come insegna anche il poema di Parmenide. Il<br />

metodo interpretativo della doppia significazione si ricollega ad Antistene, che però non<br />

l'avrebbe applicato sistematicamente, ma lo avrebbe soltanto abbozzato : « Questa<br />

osservazione, cioè che il poeta ha detto alcune cose secondo l'opinione, le altre secondo la<br />

verità, è prima di tutto di Antistene; ma lui non l'ha lavorata a fondo, mentre l'altro l'ha messa<br />

in evidenza in ogni dettaglio » 315 . In ogni caso questo tipo di testimonianza suggerisce che la<br />

pratica d'interpretazione del testo poetico interessa i filosofi di più scuole e permette di<br />

decidere questioni di rilievo 316 . Un passo di Diogene Laerzio riporta anche che ai detrattori di<br />

Antistene Zenone mostrava un saggio su Sofocle del filosofo socratico : « A chi andava<br />

dicendo di non trovarsi quasi mai d'accordo con Antistene, Zenone tirò fuori il saggio di<br />

Antistene su Sofocle e gli domandò se a suo giudizio contenesse qualcosa che fosse anche<br />

bello; siccome quello rispose che non lo sapeva, disse: “non hai allora vergogna, se egli ha<br />

scritto qualcosa di brutto, a metterlo in evidenza e farne menzione, e, se invece ha scritto<br />

qualcosa di bello, a non prenderlo neanche in considerazione e a non farne tesoro?” » 317 .<br />

314 Dion Chrysostomus, “Orat.” LIII (36) 4-5 = Zeno, SVF I 274, p. 63, 9-15 = Antisthenes, fr. 194<br />

Giannantoni, 1-7, p. 216.<br />

315 Ibidem.<br />

316 Un' ulteriore esemplificazione dell'importanza del rapporto che intercorre tra l'interpretazione di un testo<br />

poetico e la prospettiva filosofica adottata si trova nel dibattito sul presunto 'scetticismo' di Omero : v. D.L.<br />

IX, 71 : « Questa scuola (scil. quella della filosofia scettica), alcuni dicono abbia avuto inizio con Omero,<br />

poiché sullo stesso argomento, più di ogni altro, si pronuncia talvolta in un modo, talvolta in un altro, e non<br />

espone in alcun modo dottrine dogmatiche riguardo a nessuna questione ».<br />

317 D.L. VII, 19.<br />

130


Per concludere: abbiamo constatato che il controllo perfetto che il filosofo academico esercita<br />

sulle passioni non si traduce in un rifiuto dell'evento tragico, ma al contrario si pone in una<br />

relazione positiva rispetto ad esso. Il filosofo assiste alla rappresentazione teatrale e prende<br />

così parte alla vita cittadina; come di fronte agli sconvolgimenti della vita politica e agli<br />

imprevisti della vita quotidiana, egli non perde mai di vista la necessità di un'armonia stabile<br />

nella sua attitudine complessiva. Nel rapporto del filosofo academico con il testo poetico<br />

abbiamo inoltre intravisto l'applicazione di un paradigma di circolarità e complementarietà tra<br />

l'attitudine generale di un autore, lo stile dei suoi versi e l'effetto provocato sul lettore/uditore,<br />

che d'altra parte può essere considerato come uno dei presupposti della cultura letteraria<br />

greca 318 . Secondo questo paradigma il filosofo seleziona nella letteratura ciò che<br />

maggiormente gli corresponde e formula dei giudizi che hanno un valore allo stesso tempo sia<br />

etico che estetico. L’influenza di questo tipo di procedimento si ritrova in seguito nei metodi<br />

applicati dai filosofi del periodo ellenistico alla lettura e all'interpretazione dei poeti, Omero<br />

in primis, la cui fortuna oltrepassa i confini del mondo greco. Possiamo dedurne che il lavoro<br />

di lettura e interpretazione del testo poetico fa costantemente parte degli interessi degli eredi<br />

filosofici dell'istanza socratica. A questo titolo essi hanno fornito al mondo ellenistico non<br />

solo un paradigma di ermeneutica testuale, ma anche un esempio concreto di vita secondo la<br />

saggezza.<br />

318 v. Arrighetti (1987), pp. 148-159, en part. p. 155.<br />

131


T. 36 : CICERO, DE ORATORE III, 18, 67 319 .<br />

Testimonia philosophica<br />

Reliqui sunt Peripatetici et Academici; quamquam Academicorum nomen est unum,<br />

sententiae duae. Nam Speusippus, Platonis sororis filius, et Xenocrates, qui Platonem<br />

audierat, et qui Xenocratem Polemo et Crantor nihil ab Aristotele, qui una audierat<br />

Platonem, magno opere dissensit; copia fortasse et varietate dicendi pares non fuerunt.<br />

Arcesilas primum, qui Polemonem audierat, ex variis Platonis libris sermonibusque<br />

Socraticis hoc maxime arripuit, nihil esse certi, quod aut sensibus aut animo percipi possit;<br />

quem ferunt eximio quodam usum lepore dicendi aspernatum esse omne animi sensusque<br />

iudicium primumque instituisse - quamquam id fuit Socraticum maxime -, non quid ipse<br />

sentiret ostendere, sed contra id 320 , quod quisque se sentire dixisset, disputare. (…).<br />

Cfr. Polemo frr. 37, 74 Gigante; Speusippus fr. 26 IP; v. pp. 212-213 Tarán; Xenocrates fr. 74 IP; Krantor T. 5A<br />

Mette; Arcesilaus T. 5A Mette.<br />

4 dissensit L : dissenserunt Lamb m Rackham : dissentiunt Bake (1858), p. 108 || varietate Bornecque ||<br />

primus Bake (1858), p. 108 || 6 certi secluserunt Bake Kayser || usum Subl. : usu L || 9 disputare Subl. : putare<br />

VOPR : putarer U.<br />

Traduzione<br />

Rimangono i peripatetici e gli academici ; per quanto il nome degli academici sia uno, le<br />

teorie sono due; in verità Speusippo, figlio della sorella di Platone, e Senocrate, che fu<br />

discepolo di Platone, e quelli che furono discepoli di Senocrate, Polemone e Crantore,<br />

non si trovavano per nessuna cosa seriamente in disaccordo con Aristotele, che era stato<br />

discepolo di Platone nello stesso periodo; anche se probabilmente non furono pari in<br />

ricchezza e varietà di stile. Per primo Arcesilao, che era stato discepolo di Polemone, dai<br />

319 Conspectus codicum in K.F. Kumaniecki (ed.), M. Tulli Ciceronis Scripta quae manserunt omnia, fasc. 3:<br />

De Oratore, Teubner, Leipzig 1969, p. v-xxiv; sigla codicum et veterum editionum, p. xxxviii-xl.<br />

320 v. Couissin (1937), pp. 401-403.<br />

132


vari libri e discorsi socratici di Platone comprese sopratutto che niente di ciò che è<br />

percepibile con i sensi o con la mente è certo; si dice che con l'uso di una straordinaria<br />

arguzia nel parlare respingesse ogni giudizio dei sensi e della mente e che per primo<br />

introducesse il metodo – per altro essenzialmente socratico – di non esporre quel che lui<br />

stesso pensava, ma di argomentare contro quel che qualcun'altro diceva di pensare. (...)<br />

Contesto<br />

Il passo si situa all'interno del noto excursus sulla separazione tra eloquenza e conoscenza (tra<br />

le/gein e fronei=n) nella storia della filosofia (De orat. III 56-73), che Cicerone inserisce nel<br />

III libro del De oratore per introdurre le ragioni di un ritorno ideale all'antica fusione di recte<br />

faciendi e bene dicendi nella figura del buon oratore 321 . Nella storia della cultura greca<br />

Cicerone reperisce un certo numero di figure simbolo dell'inseparabilità di una sapienza<br />

duplice, allo stesso tempo rivolta all'attività pratica e all'arte della parola (De orat. 59: "in<br />

republica propter ancipitem quae non potest esse seiuncta faciendi dicendique sapientiam<br />

florerent"): Temistocle, Pericle, Teramene; (Ibidem: "eiusdem sapientiae doctores essent")<br />

Gorgia, Trasimaco, Isocrate 322 . Il punto di frattura di questa antica tradizione viene invece<br />

reperito nella figura di Socrate e nel suo disprezzo per l'applicazione politica dell'arte oratoria.<br />

Socrate sarebbe allora responsabile della separazione tra due ambiti di competenza,<br />

inscindibili all'origine, e tutta la storia della filosofia viene di conseguenza letta in relazione<br />

alla impropria distinzione tra sapienter sentiendi scientia e ornate dicendi scientia (De orat.<br />

61: "hinc discidium illud exstitit quasi linguae atque cordis, absurdum sane et inutile et<br />

reprehendendum"). La successione di sette filosofiche (diadoxh/) 323 che trova origine nella<br />

filosofia socratica viene dunque scandagliata alla ricerca non tanto della verità intrinseca di<br />

ognuna, ma delle tracce di quell'originario connubio tra conoscenza e arte della parola (De<br />

orat. 64: "verum ego non quaero nunc quae sit philosophia verissima sed quae oratori<br />

321 Cfr. De inv. I, 1; I, 4; De or. I, 53-54; III, 72; Orat. 11-19; De off. I, 2-3; De fato 3; Parad.Stoic. 1-3;<br />

Sull'importanza di questo tema all'interno di tutta la produzione culturale di Cicerone si veda Long (1995),<br />

pp. 50-52;<br />

322 v. Leeman, Pinkster, Wisse (1996), pp. 213-217, per una serie di riferimenti connessi a questi personaggi,<br />

partendo però dall'importante presupposto che « Ciceros Gesamtbild der Alten Zeit hat keine (erhaltenen)<br />

Parallelen » (p. 217).<br />

323 Cfr. la lista dei discepoli di Socrate in Suidas, Lex. s.v. Swkra/thj. La struttura generale della successione<br />

delle scuole filosofiche sembrerebbe ben più antica rispetto a Cicerone, potendo risalire fino all'opera di<br />

Sozione, Tw=n Filoso/fwn Diadoxai/. Si noti tuttavia come Cicerone non manchi di introdurre nella struttura<br />

tradizionale elementi originali derivanti da una particolare prospettiva storiografico-dialettica, si veda ad<br />

esempio la menzione degli Erillii (De orat. III, 62) risultato probabile dell'uso della Carneadia divisio (v.<br />

Introduzione xxxiv-xxxix e infra) e della storiografia dialettica per cui Aristone di Chio, Pirrone ed Erillo<br />

sono degli stravaganti relicti: Fin. II, 35; II, 43; IV, 36; IV 40; V, 23; V, 73; Tusc. V, 85; v. Lévy (1992a), pp.<br />

364-373.<br />

133


coniuncta maxime"). Tra i sistemi ancora in vigore 324 , la tradizione dell'edonismo inaugurata<br />

da Aristippo e auto-relegatasi in seguito nella tranquillità del giardino epicureo viene scartata<br />

per l'incapacità di assumere una posizione di comando politico (63-64). Gli stoici invece, per<br />

quanto abbiano posto l'eloquenza tra le virtù, entrano in conflitto con l'ideale dell'eloquenza<br />

ciceroniana in ragione del loro estensivo uso dei paradossi, il quale risulta incompatibile con<br />

le esigenze del discorso politico (65-66). In questo contesto il discorso di Cicerone approda<br />

alla tradizione academica e peripatetica, all'interno della quale vengono rintracciati gli<br />

elementi utili per restaurare il connubio originario tra eloquenza e conoscenza.<br />

Commento<br />

A)<br />

– quanquam Academicorum nomen est unum, sententiae duae: Dopo aver<br />

distinto nel vasto panorama delle sette filosofiche d'origine socratica i termini che<br />

identificano i filosofi academici e i filosofi peripatetici, per quanto entrambi<br />

discendenti di Platone (v. De orat. III, 62: "Ac primo ab ipso Platone Aristoteles et<br />

Xenocrates, quorum alter Peripateticorum, alter Academiae nomen obtinuit"), in<br />

questo passaggio si introduce una distinzione interna all'uso dell'aggettivo<br />

'academico'. La sententia degli antichi academici, Speusippo, Senocrate,<br />

Polemone e Crantore viene presentata come equiparabile al pensiero di Aristotele.<br />

Diversamente invece bisogna concepire la sententia di Arcesilao. L'idea che nella<br />

tradizione academica vadano distinte due diverse fasi, una vetus 325 , l'altra nova 326 ,<br />

324 Nel De oratore si ritrovano combinati in modo originale due dei principi fondamentali della storiografia<br />

filosofica ciceroniana: da un parte l'origine socratica della filosofia (morale) (v. De orat. III 61-62; cfr. Fin. II,<br />

1: « Socrates, qui parens philosophiae iure dici potest »; Ac.libri I, 3: « philosophiamque veterem illam a<br />

Socrate ortam » Tusc. III, 8; Tusc. IV, 6; Tusc. V, 10-11; Tusc. V, 47: « princeps philosophiae ») e dall'altra la<br />

distinzione tra teorie filosofiche relictae e teorie filosofiche patrocinatae, generalmente associata alla<br />

Carneadia divisio (v. De orat. III 62-63; cfr. Fin. V, 23: « Iam explosae eiectaeque sententiae Pyrrhonis,<br />

Aristonis, Erilli, quod in hunc orbem quem circumscripsimus incidere non possunt, adhibendae omnino non<br />

fuerunt »; De off. I, 6; ).<br />

325 vetus Academia: Cic., Luc. 70; 136; Ac.libri I, 13; 43; Fin. V, 1; Brut. 332; August., De civ.Dei XIX, 1; h)<br />

palaia: Plut. Lucul. 42, 3-4;<br />

326 h) ne/a legome/nh )Akadhmei/a: Plut., Cic. 4, 1-2; Plut., Luc. 42, 3-4; Cic., Ac.libri I, 13 (Varro cum Cicerone<br />

loquitur): « Relictam a te veterem Academiam, inquit, tractari autem novam. Quid ergo? Inquam, Antiocho<br />

id magis licuerit nostro familiari, remigrare in domum veterem e nova, quam nobis in novam e vetere? »;<br />

Ac.libri I, 46 (Cicero loquitur): « Hanc Academiam novam appellant, quae mihi vetus videtur, siquidem<br />

Platonem ex illa vetere numeramus, (…) sed tamen illa quam exposuisti vetus, haec nova nominetur »; Fin.<br />

V, 7 (Piso loquitur): « tamen audebo te ab hac Academia nova ad veterem illam vocare ». è importante<br />

sottolineare come la distinzione vetus-nova abbia un'origine storica ben determinata e sia legata a una<br />

particolare prospettiva teorica come quella di Antioco. Nella tradizione biografica, ad esempio, che risale ad<br />

Antigono di Caristo non vi è traccia dell'idea che con Arcesilao si inauguri una nuova fase del pensiero<br />

134


la seconda coincidente con la svolta 'scettica' di Arcesilao, sembra emergere nel I<br />

secolo a.C, in coincidenza con la riscoperta di un'alternativa allo 'scetticismo' 327<br />

nella stessa tradizione academica. Essa assume particolare rilievo nel contesto<br />

della disputa tra Antioco d'Ascalona e Filone di Larissa, di cui Cicerone dà<br />

testimonianza nel testo degli Academica e nota come 'the Sosus affair' 328 . Filone<br />

contestava infatti l'esistenza di due Academie, sostenendo invece la sostanziale<br />

unità della scuola nell'impostazione scettica: v. Ac.libri I, 13: "Quamquam<br />

Antiochi magister Philo, magnus vir, ut tu existimas ipse, negat in libris, quod<br />

coram etiam ex eo ipso audiebamus, duas Academias esse erroremque eorum, qui<br />

ita putarunt, coarguit". La reazione di Antioco e dei suoi consociati alle tesi<br />

sostenute per iscritto da Filone – e probabilmente anche a quella dell'unità<br />

dell'Academia – è di rabbia e stupore: v. Luc. 11-12: "stomachari tamen coepit.<br />

[...] at ille Heracliti memoriam implorans quaerere ex eo viderenturne illa<br />

Philonis aut ea num vel e Philone vel ex ullo Academico audivisset aliquando.<br />

Negabat" 329 . Se ne deduce dunque che Antioco promuoveva una bipartizione<br />

storiografica della tradizione academica, ponendo l'accento sulla frattura scettica<br />

originatasi con Arcesilao, al fine di legittimare la sua personale operazione di<br />

recupero del presunto 'dogmatismo' degli antichi academici. La distinzione in due<br />

fasi della storia dell'Academia si presenta dunque come un elemento della<br />

propaganda di Antioco.<br />

Nel passaggio in esame tuttavia, Cicerone si smarca parzialmente dalla<br />

storiografia antiochea nella misura in cui, pur accettando la distinzione in due fasi,<br />

evita nel designare la seconda fase ogni sfumatura dispregiativa implicita per<br />

esempio nell'uso dell' aggettivo 'nova' – sostituito qui con 'recentior' (De orat. III,<br />

academico. La distinzione, derivante come noto da una tradizione avversa allo 'scetticismo', ottiene un'ampia<br />

fortuna nella tradizione posteriore e attraverso il suo filtro, ancora oggi, tendiamo a leggere la storia della<br />

scuola di Platone.<br />

327 L'uso del termine 'scetticismo' comporta come si è già visto un anacronismo lessicale, v. n. 24, p. vii ; n. 30,<br />

p. 56.<br />

328 v. Glucker (1978), pp. 13-97.<br />

329 Viene generalmente assunto dalla critica che i libri in cui Filone difendeva la tesi dell'unità dell'Academia<br />

siano gli stessi 'libri romani' a cui Antioco reagisce con veemenza nella cornice narrativa del Lucullus. Cfr.<br />

Glucker (1978), p. 31. Lo statuto ipotetico di quest'assunto sembra generalmente sottovalutato. Del resto<br />

niente garantisce che la reazione di Antioco sia provocata principalmente dalla tesi storiografica di Filone,<br />

piuttosto che dalle sue tesi epistemologiche o etiche, la cui ricostruzione rimane a tutt'oggi estremamente<br />

controversa. La ricostruzione di Reid (1885), pp. 57-60 secondo la quale Filone avrebbe provocato l'ira di<br />

Antioco sostenendo l'unità della tradizione academica nella doppia natura delle sue pratiche di insegnamento<br />

– da una parte un insegnamento exoterico essenzialmente aporetico e non vincolante, ovvero 'scettico',<br />

dall'altra una trasmissione esoterica di un contenuto per così dire dogmatico (v. Luc. 60) –, viene<br />

generalmente rifiutata dalla critica (v. Hirzel (1883), p. 217 ss. ; Weische (1961), p. 20 ss.), del resto il<br />

paragone tra le presunte opinioni degli 'scettici' e i mysteria rientra nella strategia di ridicolizzazione<br />

dell'avversario, adottata da quelle istanze filosofiche opposte allo 'scetticismo', e non ha collegamento alcuno<br />

con la figura di Filone; v. Brittain (2001), pp. 169-207.<br />

135


68: "Hinc haec recentior Academia emanavit"; cfr. Leg. I, 39: "Academiam, hanc<br />

ab Arcesila et Carneade recentem...") 330 – e contestualizza inoltre l'impiego<br />

dell'appellativo nella successione ininterrotta dei rapporti discepolo-maestro. Dal<br />

punto di vista sintattico infine l'unico segno di discontinuità tra le due sententiae è<br />

reperibile nell'avverbio primum che introduce la posizione di Arcesilao.<br />

– nihil ab Aristotele...magnopere dissenserunt: la dissensio 331 tra la dottrina<br />

aristotelica e quella dell'Academia antica di Speusippo, Senocrate, Polemone e<br />

Crantore viene ridotta al minimo. La propaganda di Antioco per cui le due scuole<br />

sostengono la stessa e medesima posizione filosofica viene sostanzialmente<br />

accettata 332 . Tuttavia si noti che l'avverbio magnopere nella frase negativa,<br />

occorrenza per altro rara 333 , introduce una sfumatura di differenza, un piccolo<br />

margine in cui è riscontrabile un certo 'dissenso', tale per cui, pur escludendo ogni<br />

contrasto sui principi di fondo, l'accordo tra le due filosofie non può dirsi assoluto.<br />

Diversamente nel testo degli Academica nel discorso pronunciato da Varrone,<br />

portavoce di Antioco, non viene lasciato pressoché nessun margine di<br />

differenziazione: v. Ac.libri I, 18: "nihil enim inter Peripateticos et illam vetere<br />

Academiam differebat"; Cfr. Tusc. V, 83: "Peripatetici nec multo veteres<br />

Academici secus"; v. Glucker (1978), p. 55-56.<br />

– copia et varietate dicendi: v. Commento a T. 43 = Fin. IV, 3: et copiose et<br />

eleganter; in più luoghi del corpus ciceroniano si distinguono le diverse istanze<br />

filosofiche sulla base del rapporto intrattenuto con l'arte oratoria. All'interno della<br />

tradizione academica e peripatetica, spiccano innanzitutto Aristotele e poi anche<br />

Teofrasto, come dotati di una competenza oratoria in un certo qual modo superiore<br />

rispetto ai filosofi dell'antica Academia. v. De orat. I, 49-50, dove Aristotele,<br />

Teofrasto e Carneade vengono menzionati per la loro eloquenza: "eloquentes et in<br />

dicendo suaves atque ornati fuerunt"; cfr. Div. II, 4: "Cumque Aristoteles itemque<br />

330 v. anche Ac.libri I, 13: « Certe enim recentissima quaeque sunt correcta et emendata maxime ». Cfr. Ad fam.<br />

IX, 8 (lettera dedicatoria a Varrone): « nosti enim profecto os huius adulescentioris Academiae ». cfr. l'uso di<br />

recens per il termine philosophia in Tusc. V, 18: « Quam rem antiquissimam cum videamus, nomen tamen<br />

esse confitemur recens». Cfr. Glucker (1988), p. 50, n. 53, che sembra voler sminuire la sostanziale<br />

differenza tra l'uso di 'nova' o 'recens', per produrre un argomento a favore della sua ipotesi su una fase di<br />

adesione al pensiero di Antioco da parte di Cicerone.<br />

331 Sulla Dissensio come categoria storiografico-dialettica v. T. 43 = Fin. IV, 3: ab eo ipso et a superioribus<br />

dissideret.<br />

332 Dal punto di vista degli schemi delle diadoxai/, Aristotele si troverebbe insieme a Speusippo e Senocrate e<br />

tutti i loro discepoli sulla stessa linea che, originatasi con Socrate, passa per Platone fino alla tradizione più<br />

recente.<br />

333 Cfr. Fin. II, 1.<br />

136


Theophrastus, excellentes viri cum subtilitate, tum copia, cum philosophia dicendi<br />

etiam praecepta coniunxerint";<br />

È doveroso notare in questo contesto che per quanto Socrate sia denunciato come<br />

il responsabile della scissione tra eloquenza e filosofia, è allo stesso tempo proprio<br />

Socrate l'incarnazione del connubio tra le due: v. De orat. III, 60: "Quorum<br />

princeps Socrates fuit, is qui omnium eruditorum testimonio totiusque iudicio<br />

Graeciae cum prudentia et acumine et venustate et subtilitate, tum vero<br />

eloquentia, varietate, copia quam se cumque in partem dedisset omnium fuit<br />

facile princeps"; la conservazione di traccie di profonda abilità retorica nelle<br />

figure di Aristotele, Teofrasto e Carneade coincide dunque, nella personale<br />

rielaborazione di Cicerone della storia della filosofia, con la trasmissione di un'<br />

eredità socratica; v. Long (1995), p. 51.<br />

Altro topos dei testi ciceroniani è la radicale differenza tra il rapporto dei filosofi<br />

peripatetici con l'oratoria e quello invece intrattenuto dai filosofi stoici, come ad<br />

esempio Crisippo; il conflitto viene riassunto con la seguente domanda retorica:<br />

"Quid ergo interest aut qui discernes eorum, quod nominavi, in dicendo<br />

ubertatem et copiam ab eorum exilitate, qui hac dicendi varietate et elegantia non<br />

utuntur?" (De orat. I, 50); cfr. Brut. 44: "Huius (scil. Pericles) ubertatem et<br />

copiam admiratae".<br />

È invece ricorrente l'elogio dell'eloquenza aristotelica: v. Luc. 119: "flumen<br />

orationis aureum Aristoteles"; [cfr. Luc. 135:"Crantoris... aureolus...libellus"];<br />

Brut. 121: "Quis Aristotele nervosior, Theophrasto dulcior?"; Or. 62: "et<br />

Theophrastus divinitate loquendi nomen invenit et Aristoteles Isocratem ipsum<br />

lacessivit"; Top. 3; a proposito di Teofrasto si veda anche Ac.libri I, 33:<br />

"Theophrastus autem, vir et oratione suavis et ita moratus...". La fonte di un<br />

simile giudizio deve essere verosimilmente rintracciata negli exoterica di<br />

Aristotele, piuttosto che nelle opere scolastiche a noi parvenute. Il potenziale<br />

d'eloquenza messo a disposizione da Aristotele non si limita tuttavia solo allo stile<br />

dei suoi scritti, ma viene esplorato anche nell'ambito della trattatistica specifica<br />

delle discipline retoriche. Aristotele e la sua scuola sembrano infatti essersi<br />

imposti nella tradizione di codificazione dell'arte del discorso: v. De orat. I, 43:<br />

"Peripatetici autem etiam haec ipsa, quae propria oratorum putas esse adiumenta<br />

atque oranamenta dicendi, a se peti vincerent oportere; ac non solum meliora,<br />

sed etiam multo plura Aristotelem Theophrastumque de istis rebus quam omnis<br />

dicendi magistros scripsisse ostenderent".<br />

137


– eximio quodam usum lepore dicendi: cfr. Luc. 16: "Cuius (scil. Arcesilai)<br />

primo non admodum probata ratio, quamquam floruit cum acumine ingenii tum<br />

admirabili quodam lepore dicendi"; ad Arcesilao viene attribuita in più luoghi<br />

dell'opera ciceroniana la 'grazia' dell'oratore. Cfr. Brut. 238; De orat. III, 138:<br />

"Quid Pericles? [...] in labris [...] leporem habitasse dixerunt tantamque in eodem<br />

vim fuisse, ut in eorum mentibus, qui audissent, quasi aculeos quosdam<br />

relinqueret"; v. Leeman, Pinkster, Rabbie (1989), p. 184.<br />

v. Luc. 60, dove le doti oratorie di Arcesilao e Carneade vengono presentate da<br />

una prospettiva avversa allo scetticismo come le principali ragioni per il successo<br />

della loro impostazione filosofica: "quis enim ista tam aperte perspicueque et<br />

perversa et falsa secutus esset, nisi tanta in Arcesila, multo etiam maior in<br />

Carneade et copia rerum et dicendi vis fuisset?". Tuttavia nè Arcesilao, nè<br />

Carneade hanno lasciato opere scritte, conformandosi così a uno dei tratti della<br />

figura di Socrate. La fama della loro abilità oratoria dunque deriva unicamente<br />

dalla forma orale dei loro discorsi (o dalle trascrizioni di questi ad opera dei<br />

discepoli 334 ) e verosimilmente dalla capacità di confutare con abbondanza di<br />

argomenti l'avversario stoico. Cfr. DL IV 37: " Hn de£ kai£ eu(resilogw/tatoj<br />

a)panth=sai eu)sto/xwj kai£ e)pi£ to£ prokei/menon a)nenegkei=n th£n peri/odon tw=n<br />

lo/gwn kai£ a( /panti sunarmo/sasqai kair%=. peistiko/j te u(pe£r a(/panq'<br />

o(ntinou=n."; DL IV 33.<br />

– contra id quod quisque se sentiret dixisset disputare:<br />

contra: v. Couissin (1937), pp. 401-403, dove viene discussa la natura avverbiale<br />

o preposizionale di contra in questo contesto e le implicazione di una scelta in<br />

favore dell'una o dell'altra opzione. Nel primo caso, contra avverbiale 335 , il verbo<br />

334 In particolare nel caso di Carneade sembrerebbe che il discepolo Clitomaco agisse come una sorta di<br />

'segretario' del maestro, assicurando una circolazione 'esoterica' degli scritti redatti a partire dalle sue lezioni /<br />

insegnamenti. In questo caso il rifiuto socratico delle scrittura sarebbe mitigato da un forma mediata di<br />

autorialità. v. il riferimento alle oltre quattrocento opere di Clitomaco, in cui egli « chiarificò il pensiero di<br />

(Carneade) in DL IV, 67.<br />

335 v. le traduzioni di E. Courbaud, ed., Ciceron, De l'orateur, Les Belles Lettres, Paris 1930, p. 28: "il adopta<br />

comme méthode non point d'établir son opinion, mais au contraire de prendre celle qu'avaient énoncée les<br />

autres et de la discuter" ; M.F. Richard, Classiques Garnier (1932): "Le premier, il eut recours à cette manière<br />

bien socratique, non d'exposer son sentiment, mais au contraire de discuter celui d'autrui". Cfr. Rackham<br />

(1942), p. 55: "he is said to have employed a remarkably attractive style of discourse in rejecting mental and<br />

sensory judgement entirely and to have initiated the practice – an entirely Socratic one it is true – of not<br />

stating his own opinion but arguing against the opinions fut forward by everyone else"; May, Wisse (2001), p.<br />

245: "in this complete rejection of the mind and senses as instruments of judgements, he is said to have<br />

employed an exceptionally charming manner of speaking, and also to have been the first to establish the<br />

practice – although this was very characteristic of Socrates -, of not revealing his own view, but of always<br />

arguing against any view that anyone else would assert"<br />

138


disputare avrebbe un senso transitivo, per cui la pratica di Arcesilao sarebbe<br />

quella di esporre e confutare la tesi di ognuno, eventualmente nella forma della<br />

disputatio in utramque partem. Nel secondo caso, contra preposizionale, il verbo<br />

disputare deve essere preso in senso intransitivo, per cui la pratica di Arcesilao<br />

sarebbe quella di pronunciare una refutatio delle posizioni sostenute da ciascuno,<br />

ovvero una forma di una disputatio contra omnia. I riscontri testuali a favore della<br />

seconda ipotesi sono numerosi:<br />

v. all'interno del De oratore: 1) De orat. III, 80 "Sin aliquis extiterit aliquando,<br />

qui Aristotelio more de omnibus rebus in utramque partem possit dicere et in<br />

omni causa duas contrarias orationes, praeceptis illius cognitis explicare, aut hoc<br />

Arcesilae modo et Carneadi contra omne quod propositum sit disserat";<br />

2) De orat. I, 84 "Hic enim mos erat patrius Academiae adversari semper<br />

omnibus in disputando".<br />

Nelle altre opere ciceroniane:<br />

3) Ac.libri I, 45: "Huic rationi quod erat consentaneum, faciebat ut contra<br />

omnium sententias disserens de sua plerosque deduceret, ut, cum in eadem re<br />

paria contrariis in partibus momenta rationum invenirentur, facilius ab utraque<br />

parte adsensio sustineretur";<br />

4) ND I, 11: "Haec in philosophia ratio contra omnia disserendi nullamque rem<br />

aperte iudicandi profecta a Socrate, repetita ab Arcesila, confirmata a Carneade<br />

usque ad nostram uiguit aetatem";<br />

5) Fin. II 1, 2: "qui mos cum a posterioribus non esset retentus, Arcesilas eum<br />

revocavit instituitque ut ii qui se audire vellent non de se quaererent, sed ipsi<br />

dicerent quid sentirent; quid cum dixissent, illa contra; sed eum qui audiebant,<br />

quoad poterant, defendebant sententiam suam".<br />

6) Fin. V, 10: "Disserendique ab isdem non dialectice solum, sed etiam oratorie<br />

praecepta sunt tradita, ab Aristoteleque principe de singulis rebus in utramque<br />

partem dicendi exercitatio est instituta, ut non contra omnia semper, sicut<br />

Arcesilas, diceret, et tamen ut in omnibus rebus, quicquid ex utraque parte dici<br />

posset, expromeret".<br />

Si consideri tuttavia la possibilità di riunire le due alternative nella stessa e<br />

medesima pratica argomentativa, secondo la descrizione fornita da Cicerone del<br />

139


suo proprio metodo academico, in Off. II, 8 : "Contra autem omnia disputatur a<br />

nostris, quod hoc ipsum probabile elucere non posset, nisi ex utraque parte<br />

causarum esset facta contentio"; cfr. Luc. 7-8: "Nos autem quoniam contra<br />

omnes dicere quae videntur solemus, non possumus quin alii a nobis dissentiant<br />

recusare: (...); neque nostrae disputationes quidqum aliud agunt nisi ut in<br />

utramque partem dicendo eliciant et tamquam exprimant aliquid quod aut verum<br />

sit aut ad id quam proxime accedat. Nec inter nos et eos qui se scire arbitrantur<br />

quidquam interest nisi quod illi non dubitant quin ea vera sint quae defendunt,<br />

nos probabilia multa habemus, quae sequi facile, adfirmare vix possumus".<br />

Secondo la critica (v. Ruch (1969), p. 326-335; Dyck (1996), p. 370) il passaggio<br />

di De officiis implica una 'confusione' del metodo di Arcesilao 'contra omnia<br />

disputari', il quale sembra non avere alcun esito euristico, e il metodo di Aristotele<br />

'ex utraque parte disputari' (Arist. Top. 163 a 36 – b 4; b 9 – 12 : "πρὸς ἅπασάν<br />

τε θέσιν, καὶ ὅτι οὕτως καὶ ὅτι οὐχ οὕτως, τὸ ἐπιχείρημα σκεπτέον, καὶ<br />

εὑρόντα τὴν λύσιν εὐθὺς ζητητέον· οὕτω γὰρ ἅμα συμβήσεται πρός τε τὸ<br />

ἐρωτᾶν καὶ πρὸς τὸ ἀποκρίνεσθαι γεγυμνάσθαι, κἂν πρὸς μηδένα ἄλλον<br />

ἔχωμεν, πρὸς αὑτούς. (…) πρός τε γνῶσιν καὶ τὴν κατὰ φιλοσοφίαν φρόνησιν<br />

τὸ δύνασθαι συνορᾶν καὶ συνεωρακέναι τὰ ἀφ' ἑκατέρας συμβαίνοντα τῆς<br />

ὑποθέσεως οὐ μικρὸν ὄργανον· λοιπὸν γὰρ τούτων ὀρθῶς ἑλέσθαι θάτερον"),<br />

dal quale invece emergerebbero i punti di forza e di debolezza di ogni posizione.<br />

L'ambiguità può derivare del resto dalla possibilità di interpretare l'espressione<br />

pro£j qe/sin le/gein 336 sia nel senso dell' a)porei=n socratico, sia nel senso di un<br />

e)le/nxein, per cui le tesi che non superano l'esame dialettico risultano confutate 337 .<br />

Quella che appare come una 'confusione' ciceroniana potrebbe del resto essere una<br />

consapevole presentazione di un ben determinato tipo di scetticismo<br />

metodologico, ovvero un'intelligente elaborazione di un punto di potenziale<br />

convergenza tra la tradizione aristotelica e peripatetica e la tradizione academica.<br />

Il passo del Lucullus conferma infatti che Cicerone è consapevole del fatto che,<br />

vista dall'esterno, la filosofia academica appare come una dissertatio contra<br />

omnes, la quale non può aspettarsi l'adesione delle altre istanze filosofiche; ma<br />

l'obiettivo filosofico dell'istanza academica, aggiunge Cicerone, non differisce da<br />

quello delle altre istanze che perseguono il naturale desiderio per la verità. In<br />

336 v. DL V, 3. Cfr. T. 2 = DL IV, 19 = « ἀλλὰ μὴν οὐδὲ καθίζων ἔλεγε πρὸς τὰς θέσεις, φασί, περιπατῶν δὲ<br />

ἐπεχείρει (inoltre dicono che quando argomentava a favore o contro una tesi non stava seduto, ma<br />

argomentava camminando)».<br />

337 Cfr. Gigon (1959), p. 150.<br />

140


questo contesto il metodo di discussione in utramque partem viene presentato<br />

come caratteristico della modalità di ricerca e approssimazione al vero dell'istanza<br />

academica. In particolare è da notarsi l'uso del verbo 'elicere' e i suoi connotati<br />

all'interno della retorica riformata di Cicerone, v. Fin. II, 2: "Is (scil. Socrates)<br />

enim percotendo atque interrogando elicere solebat eorum opiniones quibuscum<br />

disserebat, ut ad ea quae ii respondissent si quid videtur diceret";<br />

La combinazione del contra omnia, come qualificazione dello 'scetticismo'<br />

academico visto dall'esterno, e dell' in utramque partem disserere, come metodo<br />

complessivo della ricerca filosofica, potrebbe legittimamente costituire il tratto<br />

originale della descrizione ciceroniana dell'istanza academica da lui seguita,<br />

ovvero della ricerca sempre rinnovata del 'probabile / piqanÒn' 338 . In particolare<br />

questa combinazione di aspetti sembra costituire una risposta alternativa al<br />

tentativo di distinguere nettamente tra l'esercizio Aristotelio more della dissertatio<br />

in utramque partem e il contra omne attribuito a Arcesilao e Carneade, il quale da<br />

una parte attribuisce ai filosofi academici uno 'scetticismo' epistemologico<br />

radicale, assimilabile del resto alla pratica sofistica gorgiana che si vanta di saper<br />

confutare qualsiasi tesi gli venga proposta, dall'altra tende ad attribuire alla tecnica<br />

dell'argomentazione doppia un retaggio nobile aristotelico, del tutto indipendente<br />

dallo 'scetticismo', v. De orat. III, 80; Fin. V, 10. L'emancipazione della tecnica in<br />

utramque partem dalla tradizione 'scettica' e sofistica, in virtù del riferimento<br />

aristotelico, può essere ragionevolmente attribuito all'agenda di Antioco<br />

d'Ascalona, in ragione della sua presenza all'interno del V libro del De finibus;<br />

Antioco avrebbe in questo modo cercato un pedigree alternativo rispetto a quello<br />

'scettico' 339 per una pratica di cui intendeva egli stesso avvalersi 340 . La risposta di<br />

Cicerone consisterebbe allora, non nel contestare il riferimento di Antioco, ma di<br />

integrarlo all'interno di una rinnovata descrizione del suo 'scetticismo'<br />

metodologico. La sua produzione filosofica è infatti complessivamente<br />

esemplificativa della combinazione del contra dicere all'interno dell' in utramque<br />

338 v. Bett (1989); Glucker (1995).<br />

339 A proposito dell'associazione disputatio in utramque partem – Academia 'scettica' sia sufficiente pensare a<br />

Carneade e al fatto che nel mondo romano egli era innanzitutto associato al doppio discorso a favore e contro<br />

la giustizia. Il resoconto del doppio discorso di Carneade veicola del resto un'immagine del filosofo<br />

academico che non permette di distinguerlo da un qualsiasi sofista. A maggior ragione Cicerone sarebbe<br />

dunque contento di accogliere il retaggio aristotelico del metodo che egli adotta come academico. Quanto<br />

invece il metodo aristotelico può aver storicamente influenzato il metodo scettico presentato da Cicerone<br />

come carneadeo? Esiste davvero all'interno dell'argomentazione in utramque partem di Carneade la ricerca di<br />

una certa 'resistenza' rispetto ai fatti, o, in termini vagamente aristotelici, di accordo con i fenomeni<br />

dell'esperienza? (Ruch (1969), p. 331). La questione ha dei risvolti particolarmente complessi e meriterebbe<br />

di essere trattata per esteso (v. Bett (1989), pp. 59-94; Görler (1992), p. 165 ss.) ;<br />

340 Lévy (1992a), pp. 321-322.<br />

141


partem disputare (v. e.g. la struttura del De finibus, dove Cicerone come<br />

'personaggio' si assume la responsabilità della refutatio di una tesi che Cicerone<br />

come 'autore' discute in utramque partem) e della possibilità di avvalersi ora<br />

dell'uno ora dell'altro (v. il prologo del De fato, dove Cicerone gioca sulla<br />

casualità con la quale sceglie se discutere una tesi attraverso una refutatio o una<br />

discussione in utramque partem), v. Lévy (1992a), pp. 322-324.<br />

Una questione d'ordine superiore si pone qualora si consideri la relazione forte che<br />

sussiste nella presentazione ciceroniana del metodo academico tra in utramque<br />

partem disputare e probabile: v. De or. I, 158 : "disputandumque de omni re in<br />

contrarias partes, et, quidquid erit in quaque re, quod probabili videri possit,<br />

elicendum atque dicendum". La nozione di probabile infatti identifica la<br />

particolare interpretazione dell'epistemologia academica che Cicerone in prima<br />

persona accoglie, non senza render conto però delle divergenze interne alla scuola<br />

a questo proposito. Il termine probabile rinvia infatti ad un'interpretazione a<br />

posteriori dello 'scetticismo' carneadeo. In risposta alle critiche tradizionali mosse<br />

allo 'scetticismo', secondo cui l'esercizio costante del dubbio condannerebbe<br />

l'individuo all'immobilismo pratico (apraxia) 341 , Carneade sembrerebbe aver<br />

spiegato la modalità di orientamento pratico dello 'scettico' nel mondo a partire<br />

dall'uso di termini come pithanon. 342 La traduzione latina probabile (da probare)<br />

tuttavia rileva già di una interpretazione e permette un applicazione del termine in<br />

un ambito argomentativo oltre che semplicemente pragmatico 343 . È attestato<br />

inoltre che lo 'scetticismo' carneadeo è oggetto di interpretazione multipla e<br />

divergente all'interno dell'Academia. L'immagine fornita da Clitomaco degli<br />

insegnamenti del maestro non veniva interamente accolta da Metrodoro, né<br />

successivamente da Filone.<br />

Il particolare connubio tra i due elementi dell' in utramque partem disputare e del<br />

probabile può allora essere compreso all'interno di un contesto di interpretazione<br />

del senso dello 'scetticismo' carneadeo e l'ipotesi di un'origine filoniana risulta<br />

quantomeno allettante, sebbene non dimostrabile con sufficiente rigore. Filone di<br />

Larissa, oltre ad abbandonare la via della sospensione radicale del giudizio,<br />

341 v. Luc. 31; Striker (1980), pp. 63-64.<br />

342 v. Sext.Emp., Adv.Math. VII, 166-183; v. Bett (1989); Allen (1994), pp. 85-113; Peetz (2005), pp. 97-133.<br />

343 v. le osservazioni di Lévy (1992b), pp. 94-95, sulla distanza tra il termine latino probabile e il suo<br />

corrispettivo greco designato. Lévy sottolinea il margine di intervento filosofico personale di Cicerone nelle<br />

sue scelte di traduzione.<br />

142


avrebbe in questo caso assunto una posizione autonoma anche rispetto all'<br />

impostazione dominante nella scuola in merito alla retorica: la congiunzione della<br />

pratica (sofistica) del discorso doppio e del livello epistemologico debole del<br />

probabile infatti pongono inevitabilmente la filosofia di nuovo in dialogo con<br />

l'importanza della tecnica del discorso e con il patrimonio di conoscenze dell'<br />

(arte) retorica. Diversamente all'interno della tradizione academica lo scetticismo<br />

sembra essersi sposato in molte occasioni con una critica frontale dello statuto<br />

della retorica 344 , che non solo prosegue la critica platonica alla sofistica e alla<br />

retorica isocratea, ma precisa l'antagonismo tra le discipline in ambito politico,<br />

etico ed anche epistemologico (v. Quint., Inst.or. II, 14-15; Sext.Emp. Adv.Math.<br />

II, 20-24, Cic., De orat. I, 45-47 su Clitomaco e Carmada).<br />

Le notizie a nostra disposizione sulla vita di Filone potrebbero confermare un<br />

cambiamento paradigmatico d'atteggiamento nei confronti della retorica,<br />

sopratutto rispetto alla tradizione precedente, nella misura in cui sappiamo che a<br />

Roma Filone insegnava retorica (v. Tusc. II, 9). Tuttavia che un uomo di cultura<br />

greca offrisse al pubblico romano insegnamenti di retorica può essere spiegato<br />

semplicemente in base ad una certa esigenza di adattamento ai gusti e agli<br />

interessi del pubblico, e non implica necessariamente la presenza nel pensiero di<br />

Filone di una teoria della retorica filosofica o della filosofia retorica che invece<br />

rappresenta la peculiarità del discorso ciceroniano.<br />

In linea con l'interpretazione arcesilaea della filosofia socratica, nel corpus<br />

filosofico di Cicerone, la pratica di contra (omnia) disserere viene presentata<br />

come una pratica inaugurata da Socrate: v. Tusc. I, 8: " Haec est enim, ut scis,<br />

vetus et Socratica ratio contra alterius opinionem disserendi"; Ac.libri I, 16:<br />

"Hic in omnibus fere sermonibus qui ab iis qui illum audierunt perscripti varie<br />

copioseque sunt ita disputat ut nihil adfirmat ipse, refellat alios, nihil se scire<br />

dicat nisi id ipsum ..."; Luc. 15: "Socrates autem de se ipse detrahens in<br />

disputatione plus tribuebat iis quos volebat refellere"; Fin. II, 2: "Sed et illum,<br />

quem nominavi, et ceteros sophistas, ut e Platone intellegi potest, lusos videmus a<br />

Socrate. is enim percontando atque interrogando elicere solebat eorum opiniones,<br />

quibuscum disserebat, ut ad ea, quae ii respondissent, si quid videretur, diceret.<br />

344 v. Brittain (2001), pp. 296-342. Si vedano inoltre le interessanti osservazioni di Lévy (2005), p. 62-69, il<br />

quale fa giustamente notare che « aucun témoignage n'évoque un engagement contre le rhéteurs, ni de la part<br />

d'Arcésilas ni de celle (de) Carnéade ».<br />

143


B)<br />

qui mos cum a posterioribus non esset retentus, Arcesilas eum..." ; ND I, 11.<br />

Come nota opportunamente Ioppolo (1995), p. 93 ss., Cicerone accetta il<br />

collegamento tra il metodo dialettico di Arcesilao e quello socratico, ma allo<br />

stesso tempo fa emergere il carattere innovativo della pratica argomentativa di<br />

Arcesilao. Questo non significa però che la posizione filosofica di Arcesilao venga<br />

considerata come un rivoluzionario ritorno a Socrate, indipendentemente da<br />

Platone (cfr. Hirzel (1887), III, p. 159). Nonostante lo stretto rapporto esistente tra<br />

il contra omnia disserere e l'elaborazione di una posizione 'scettica' da parte di<br />

Arcesilao, è necessario infatti distinguere la derivazione socratica del metodo<br />

dall'elaborazione di una posizione originale all'interno della tradizione socratico-<br />

platonica. Il passo in esame sostiene nondimeno che sono proprio i dialoghi<br />

socratici redatti da Platone ("ex variis Platonis libris sermonibusque Socraticis";<br />

cfr. De orat. III, 60: "cuius ingenium variosque sermones immortalitati scriptis<br />

suis Plato tradidit, cum ipse litteram Socrates nullam reliquisset") 345 a fornire la<br />

base testuale per il rapporto di Arcesilao con la figura di Socrate. L'elaborazione<br />

di una posizione 'scettica' è inoltre difficilmente concepibile indipendentemente<br />

dalla particolare coloritura aporetica che la figura di Socrate riceve nei dialoghi di<br />

Platone, ma non ad esempio nelle opere di Senofonte.<br />

Il riferimento a Polemone si situa all'interno di un excursus illustrativo delle principali tappe<br />

della storia della scuola academica. Accostandosi alla storia della tradizione academica,<br />

Cicerone tiene conto delle più recenti impostazioni storiografiche in materia, in particolare<br />

tiene conto della storiografia dialettica di Antioco d'Ascalona. Nel passo figurano infatti<br />

allusioni a due dei suoi principi storiografici fondamentali: 1) la distinzione in due fasi della<br />

storia dell'Academia; 2) l'unità di pensiero tra filosofi peripatetici e filosofi academici 346 . Il<br />

contesto più ampio del testo del De oratore non fornisce una giustificazione specifica di<br />

questo fatto: il personaggio di Crasso non sembrerebbe aver nessuna connessione con l'agenda<br />

filosofica di Antioco e il tema della discussione è generalmente estraneo alle dispute<br />

epistemologiche sull'interpretazione dogmatica o scettica della storia dell'Academia, rispetto<br />

alle quali, spesso, la storiografia antiochea risulta, in un certo qual modo, funzionale. Tuttavia<br />

l'origine antiochea dei due principi è difficilmente contestabile. Da notare è invece la<br />

particolare assimilazione di questi ultimi che il testo in oggetto presenta. Per quanto riguarda<br />

345 v. Glucker (1978), p. 37, n. 89.<br />

346v. Glucker (1978), p. 30, n. 64; Isnardi Parente (1982), p. 305.<br />

144


il primo principio, la distinzione in due fasi viene riletta alla luce del rapporto con gli<br />

strumenti dell'arte oratoria, producendo così risultati del tutto inaspettati dal punto di vista<br />

della propaganda antiochea. La fase dell'Academia antica infatti viene presentata come la fase<br />

meno brillante dal punto di vista delle pratiche dell'arte della parola, mentre la fase inaugurata<br />

da Arcesilao coincide con una riscoperta delle qualità oratorie già di Socrate. Per quanto<br />

riguarda invece il secondo principio, si è notato come la perfetta assimilazione del pensiero<br />

degli antichi filosofi da parte di Antioco subisca in questo contesto l'effetto di qualche crepa.<br />

Laddove l'agenda di Antioco viene esposta senza riserve (v. Ac.libri I, 17 (Varro loquitur):<br />

"Platonis autem auctoritate, qui varius et multiplex et copiosus fuit, una e consentiens<br />

duobus vocabulis philosophiae forma instituta est, Academicorum et Peripateticorum, qui<br />

rebus congruentes nominibus differebant; nam cum Speusippus sororis filium Plato<br />

philosophiae quasi heredem reliquisset, duos autem praestantissimo studio atque doctrina,<br />

Xenocratem Calchedonium et Aristotelem Stagiriten, qui erant cum Aristotele Peripatetici<br />

dicti sunt quia disputabant inambulantes in Lycio, illi autem quia Platonis instituto in<br />

Academia, quod est alterum gymnasium, coetus erant et sermones habere soliti, e loci<br />

vocabulo nomen habuerunt"), il gioco dei 'due nomi per una stessa cosa' presenta la<br />

trasmissione della dottrina platonica attraverso un unico canale, provvisto di due appellativi<br />

per una pura casualità, ovvero l'abitudine di Senocrate e Aristotele di insegnare in due luoghi<br />

distinti. Nel testo in oggetto invece per quanto si alluda alla prossimità delle dottrine si evita<br />

di cadere nella totale riduzione di una all'altra, in virtù di una certa differenza nelle pratiche<br />

oratorie (cfr. Leg. I, 37 = T. 37: "cum illis congruentes re, genere docendi paulum<br />

differentes"). Se ne deduce che l'assimilazione ciceroniana della propaganda di Antioco, in<br />

questo contesto, ne accoglie in un certo qual modo i principi, ma ne ribalta autonomamente il<br />

significato.<br />

Per quanto riguarda il rapporto tra le due fasi della storia dell'Academia, Cicerone mette in<br />

risalto l'originalità della lettura di Platone e Socrate da parte di Arcesilao. La testimonianza di<br />

Cicerone a questo proposito potrebbe oltretutto avere una certa attendibilità storica, v. Long<br />

(1988a), p. 156-158; Ioppolo (1995). Non sembrano infatti reperibili tracce di una lettura<br />

'scettica' di Socrate prima di Arcesilao: Aristotele non sembra considerare la dichiarazione di<br />

ignoranza socratica come il nucleo portante del suo pensiero; certamente non nell'ambito della<br />

concezione della virtù come conoscenza a lui attribuita; e Timone di Fliunte non riconosce<br />

Socrate tra i potenziali antecedenti filosofici dello 'scetticismo' pirroniano, come invece fa con<br />

Senofane, Democrito e Protagora 347 . Long (1988a) ritiene inoltre che la lettura scettica del<br />

347 v. Timone, Silli, [Senofane] fr. 59 Di Marco (Sext.Emp. PH I, 223); fr. 60 Di Marco (Sext. Emp. PH I, 224);<br />

[Protagora] fr. 5 Di Marco (Sext.Emp. Adv.Math. IX, 56); fr. 47 Di Marco (DL IX, 52); [Democrito] fr. 46 Di<br />

Marco (DL IX, 40); cfr. DL IX, 72, dove vengono citati Senofane, Zenone di Elea, Democrito e Platone :<br />

145


pensiero socratico debba essersi affermata in un secondo tempo rispetto a – e verosimilmente<br />

in reazione a – l'appropriazione stoica della figura di Socrate, in qualità di sostenitore della<br />

tesi radicale che la virtù è conoscenza e il vizio ignoranza. L'associazione tra Socrate e il<br />

rifiuto scettico dell'evidenza (dei sensi e della mente) avrebbe probabilmente scoraggiato<br />

l'appropriazione appena menzionata 348 . La modalità di lettura dei dialoghi platonici adottata da<br />

Arcesilao si presenta allora come radicalmente nuova 349 , pur collocandosi nella genuina<br />

tradizione academica. La prospettiva adottata in questo passaggio tuttavia non insiste sulla<br />

rottura di Arcesilao rispetto alla tradizione precendente, quanto piuttosto inserisce l'approccio<br />

metodologico di Arcesilao in una linea di continuità rispetto all'origine socratica delle varie<br />

scuole filosofiche. Diversamente da quanto detto dai personaggi di Varrone-Antioco o<br />

Lucullo-Antioco negli Academica (v. Ac.libri I, 43: "tuae nunc partes, qui ab antiquorum<br />

ratione desciscis et ea, quae ab Arcesila novata sunt, ut videamus satisne ista sit iusta<br />

defectio"; Luc. 15 : "Arcesilas qui constitutam philosophiam everteret"), la svolta scettica non<br />

viene qui presentata come una 'defezione' rispetto agli antichi. In nessun luogo Arcesilao<br />

viene presentato come un discepolo dissidente; il passo in oggetto tende al contrario a<br />

rinsaldare il legame ininterrotto dei rapporti di discepolanza e a far coincidere la svolta di<br />

Arcesilao con una riscoperta positiva degli strumenti dell'eloquenza 350 . Per un interessante<br />

inquadramento della lettura di Arcesilao dei dialoghi platonici 351 , come ad esempio il Teeteto,<br />

in reazione all'epistemologia di Zenone di Cizio, v. Ioppolo (1990). Si noterà inoltre che il<br />

personaggio di Polemone, in quando maestro di Arcesilao 352 , ha in questo contesto la specifica<br />

funzione di collante tra le due fasi della storia dell'Academia. Diversamente, la sua funzione<br />

nell'agenda di Antioco era invece quello di fornire il doppio legame (teorico e fattuale) della<br />

tradizione academica con Aristotele da una parte e con Zenone dall'altra. Il passo si presenta<br />

in conclusione come una rilettura capovolta dei principi storiografici di Antioco, funzionale al<br />

« καὶ Πλάτωνα τὸ μὲν ἀληθὲς θεοῖς τε καὶ θεῶν παισὶν ἐκχωρεῖν, τὸν δ' εἰκότα λόγον ζητεῖν ». Nel passo<br />

di Diogene Laerzio l'interpretazione 'scettica' del pensiero platonico sembra appoggiarsi al passo del Timeo<br />

40 b, v. Tarrant (2000), p. 18. Platone del resto riceve qualificazioni positive anche nei frammenti dell'opera<br />

di Timone, v. Silli, fr. 19 Di Marco (Athenaeus, XI, 505e – 506a); fr. 30 Di Marco (DL III, 7).<br />

348 Dal dibattito tra Annas, Brunschwig (1990) e Lévy (1990b) si evince chiaramente come la dichiarazione<br />

d'ignoranza socratica, solo a partire da un certo momento in poi, assume un valore decisivo nel processo di<br />

costruzione dell'identità academico – 'scettica', in ragione delle possibilità offerte dal motto socratico di<br />

retroproiettare i fondamenti dello scetticismo fino agli insegnamenti di Socrate.<br />

349 Cfr. DL IV, 28: « prw=toj to£n lo/gon e)ki/nhse to£n u(po£ Pla/twnoj paradedome/non.... »; per una<br />

presentazione sintetica di quello che Cicerone ritiene essere l'approccio arcesilaeo ai dialoghi di Platone, v.<br />

Ac.libri I, 46: « Platonem (…), cuius in libris nihil adfirmatur et in utramque partem multa disseruntur, de<br />

omnibus quaeritur, nihil certi dicitur ».<br />

350 Cfr. DL IV, 29, dove si dice che Teofrasto sia stato maestro di Arcesilao prima che quest'ultimo passasse<br />

all'Academia « presso Crantore ». Ci sono inoltre ragioni per pensare che presso Teofrasto Arcesilao abbia<br />

ricevuto sopratutto una formazione retorica, piuttosto che strettamente filosofica, v. Long (1986), p. 439-440.<br />

351 Il testo platonico si trova al centro del confronto intra scolastico tra filosofi academici e filosofi stoici. Si<br />

veda per l'ambito etico quanto ribadito da Alesse (2007), pp. 23-39.<br />

352 Si noti come in altri contesti Arcesilao sia messo in rapporto con Crantore piuttosto che con Polemone, v.<br />

nota precedente.<br />

146


ecupero del valore positivo della svolta 'scettica' di Arcesilao.<br />

Rimane tuttavia controverso quale sia la fonte di ispirazione del testo e in particolare della<br />

combinazione tra scetticismo, recupero della retorica in quanto tecnica del discorso e<br />

storiografia filosofica. La complessità dell'integrazione tra questi elementi singolarmente<br />

associabili a figure ben distinte del panorama filosofico ciceroniano (lo scetticismo a<br />

Carneade, la storiografia filosofica ad Antioco, il recupero della retorica forse a Filone o più<br />

generalmente alla tradizione peripatetica) non ha impedito alla critica di formulare le ipotesi<br />

le più varie sulle dinamiche di costituzione del testo e in generale della figura dell'oratore<br />

ideale nel pensiero ciceroniano. Come già accennato sembrerebbe possibile enfatizzare in<br />

questo contesto l'influenza di Filone sul pensiero di Cicerone (v. Arnim (1898), pp. 97-112),<br />

per quanto l'ipotesi non abbia raggiunto il livello di un consenso generale. Elementi antiochei<br />

nel testo spingono infatti in altre direzioni (v. Kroll (1903), p. 552-597; Barwick (1963), p.<br />

35), fino a lasciar pensare che nel De oratore si assiste ad una sorta di giustapposizione di<br />

testi di diversa ispirazione, se non al tentativo da parte di Cicerone di conciliare gli<br />

insegnamenti dei suoi due maestri academici (v. Michel (1960), p. 83 ; Michel (1971)). La<br />

questione viene del resto complicata dal ruolo giocato da Aristotele all'interno del duplice<br />

processo di recupero della retorica e formulazione di uno 'scetticismo' metodologico<br />

probabilista. Il problema è stato ben individuato da Long (1995), p. 54, il quale approfondisce<br />

il discorso dell'autorità di Aristotele in relazione e in antagonismo rispetto a quella di Platone,<br />

di cui è invece universalmente nota, oggi come ieri, l'ostilità nei confronti di un certo tipo di<br />

retorica.<br />

In generale si noterà però che il riferimento ad Aristotele viene integrato nei testi ciceroniani<br />

omettendo di approfondire l'eventuale antagonismo filosofico tra lo stagirita e il suo maestro<br />

(in un'unica occasione il portavoce di Antioco Varrone ricorda il trattamento riservato da<br />

Aristotele alla teoria delle Idee, v. T. 41 = Ac.libri I, 34-35, Contesto). Cicerone nel passo in<br />

oggetto sembra accogliere nella sostanza il principio storiografico di matrice antiochea, che<br />

insiste sull'esistenza di una linea di continuità tra la tradizione academica e la tradizione<br />

peripatetica, verosimilmente apprezzandone in particolare il potenziale ermeneutico-filosofico<br />

ai fini dell'integrazione della retorica all'interno del discorso filosofico 353 .<br />

In conclusione si noterà che la ricerca ciceroniana del punto di saldatura tra l'eloquenza e la<br />

filosofia e sopratutto delle sue possibilità di attuazione pratica nel contesto romano<br />

contemporaneo lo spinge a riconsiderare il potenziale della tradizione academica da un angolo<br />

353 Cfr. Weische (1961) ; Michel (1971), p. 185.<br />

147


visuale che non si ferma ai conflitti interni derivati dalla dispute epistemologiche. La priorità<br />

di Cicerone è infatti quella di fornire una giustificazione coerente del suo ruolo politico e della<br />

sua cultura filosofica; a tal fine egli fornisce una storia della tradizione filosofica che illustra<br />

le ragioni e la pertinenza del connubio tra abilità retorica e cognizione filosofica che la sua<br />

stessa persona rappresenta. Alcuni dei principi che danno forma alla storia della tradizione<br />

filosofica di Cicerone vengono presi in prestito dalla storiografia antiochea, ma il loro esito<br />

risulta sensibilmente modificato. Dal punto di vista dell'eloquenza infatti la presunta<br />

innovatività della proposta scettica di Arcesilao non è una 'rottura' o una 'deviazione<br />

dissidente', ma non fa altro che (ri)mettere a disposizione un'ulteriore opzione per l'ars<br />

dicendi e confermare così la permanenza all'interno della tradizione di tracce della vis dicendi<br />

e dell'antico connubio. L'idea inoltre che la tradizione peripatetica non debba esser<br />

considerata come realmente distinta da quella academica, mentre all'interno di una disputa<br />

epistemologica può diventare estremamente problematica per l'interlocutore scettico, dal<br />

punto di vista della ricerca ciceroniana dell'eloquenza rappresenta invece un'enorme<br />

vantaggio. Il tratto originale della prospettiva adottata da Cicerone sta dunque nel trovare un<br />

punto di convergenza tra il patrimonio retorico aristotelico e peripatetico e l'istanza<br />

academica, il quale non corrisponde affatto al punto di identità filosofico-dogmatica che<br />

Antioco intendeva stabilire, ma ne è una sorta di gemello eterozigota: entrambi derivano da<br />

un'avvicinamento della scuola academica e della scuola peripatetica sotto la comune<br />

derivazione 'platonica', ma se il primo deriva da una prospettiva di tipo filosofico, che vuol<br />

definire la 'vera' identità academica, il secondo invece nasce dall'esigenza di conciliare le<br />

molte identità di Cicerone, ovvero di definire un'identità retorico-academica compatibile con<br />

la cultura, la società e la politica del mondo romano.<br />

T. 37 : CICERO, DE LEGIBUS I 13, 37-38 354 .<br />

Quocirca vereor committere ut non bene provisa et diligenter explorata principia ponantur,<br />

nec tamen spero fore ut omnibus probentur – nam id fieri non potest –, sed ut eis qui omnia<br />

recta atque honesta per se expetenda duxerunt, et aut nihil omnino in bonis numerandum<br />

nisi quod per se ipsum laudabile esset, aut certe nullum habendum magnum bonum, nisi<br />

quod vere laudari sua sponte posset: iis omnibus, sive in Academia vetere cum Speusippo,<br />

354 Conspectus codicum in G. De Plinval (ed.), Cicéron, Traité des Lois, Les Belles Lettres, Paris 1959, p. lxviilxxiii.<br />

148


Xenocrate, Polemone manserunt, sive Aristotelem et Theophrastum, cum illis congruentes<br />

re, genere docendi paulum differentes, secuti sunt, sive, ut Zenoni visum est, rebus<br />

commutatis immutaverunt vocabula, sive etiam Aristonis difficilem atque arduam, sed iam<br />

tamen fractam et convictam sectam secuti sunt, ut virtutibus exceptis atque vitiis cetera in<br />

summa aequalitate ponerent: iis omnibus haec quae dixi probentur.<br />

Cfr. Polemo fr. 137 Gigante; Speusippus fr. 106 IP = 78d Tarán; Xenocrates fr. 245 IP.<br />

7 commutatis HG : communicatis AB.<br />

Traduzione<br />

Di conseguenza temo di far sì che vengano posti dei principi non correttamente illustrati<br />

o scrupolosamente esaminati. Non spero tuttavia che tutti si trovino d'accordo (non<br />

sarebbe infatti possibile), ma che coloro che ritengono che tutto ciò che è giusto e morale<br />

sia da ricercarsi di per se stesso, e che o niente deve essere annoverato tra i beni, se non<br />

ciò che è degno di lode di per se stesso, oppure quantomeno che non sia da stimarsi<br />

grande nessuno dei beni, se non quello che può essere realmente lodato di per se stesso.<br />

Per tutti questi, sia che siano rimasti nell'antica Academia con Speusippo, Senocrate,<br />

Polemone, sia che abbiano seguito Aristotele e Teofrasto, che con quelli convergono<br />

sostanzialmente, anche se sono un poco diversi nelle modalità di insegnamento, sia che,<br />

come parve giusto a Zenone, senza modificare la sostanza (dei concetti), abbiano<br />

cambiato la terminologia, sia pure che abbiano seguito la corrente di pensiero di<br />

Aristone, difficile e ardua, sebbene già interrotta e confutata, abbandonando<br />

nell'assoluta indifferenza tutte le altre cose all'infuori delle virtù e dei vizi; tutti questi<br />

vorrei che fossero d'accordo con quanto dissi.<br />

Contesto<br />

Il passo si inserisce in uno degli intermezzi dell'esposizione ciceroniana sui fondamenti del<br />

diritto 355 . Il De legibus si presenta come un trattato generale di filosofia del diritto, completato<br />

da un'esposizione organica delle leggi del popolo romano, da leggersi in continuità con il De<br />

re publica. Il rapporto mimetico con le opere di Platone, oltre ad essere esplicitamente<br />

355 v. Dyck (2004), pp. 169-170.<br />

149


affermato nel testo, risulta evidente qualora si noti che tanto nella produzione platonica<br />

quanto in quella ciceroniana alla discussione degli ordinamenti politici segue una riflessione<br />

sull'apparato legislativo 356 . Tuttavia il contenuto del testo ciceroniano non ricalca quello<br />

platonico 357 , ma è piuttosto alla ricerca di soluzioni teoriche, che si rivelino adeguate a<br />

colmare le lacune di sistematizzazione giuridica del suo contesto di appartenenza 358 . Contro il<br />

relativismo sofistico di chi ritiene il diritto un limite artificiale derivante dalle opinioni che<br />

ogni popolo ha di ciò che è giusto e ciò che non lo è 359 , Cicerone fonda la sua discussione su<br />

un concetto forte di legge naturale, fondamento del diritto e garante della società umana. Le<br />

origini del diritto vengono dunque tracciate all'interno delle 'doti naturali', intese come 'doni<br />

della natura', corredo di tutti gli uomini in quanto uomini. Così come il discorso etico nel<br />

periodo ellenistico prende le mosse dalle caratteristiche naturali della vita dell'uomo, anche il<br />

discorso sui fondamenti giuridici cerca la sua origine nell'ambito della natura, v. I, 17:<br />

"natura enim iuris explicansa nobis est, eaque ab hominis repetenda natura". Si tratta, come<br />

noto, di un ribaltamento della prospettiva sofistica, propria tra gli altri anche di Antistene 360 ,<br />

per cui ciò che è kata£ no/mon viene concepito in una relazione oppositiva rispetto a ciò che è<br />

kata£ fu/sin 361 . Cercando il fondamento del diritto nell'ordine naturale, l'opposizione viene<br />

invece radicalmente contestata, ovvero le normative concordate dagli uomini vengono lette in<br />

continuità e non in contrasto con la normatività naturale, con la conseguenza che tutto ciò che<br />

si colloca in contrasto con la legge e con il diritto finisce per essere escluso dall'ambito del<br />

'naturale' ed esser qualificato come 'degenerato' o 'corrotto'. Questa linea di pensiero risulta<br />

perfettamente compatibile con la critica antisofistica di Platone, tanto che gli interpreti<br />

contemporanei rintracciano una chiara prefigurazione del concetto di 'natura' come<br />

fondamento del diritto nel corpus platonico 362 ; Permangono tuttavia anche nel testo platonico<br />

356 v. Leg. I, 15: (Atticus loquitur) "Atqui, si quaeris ego exspectem, quoniam scriptum est a te de optimo rei<br />

publicae statu, consequens esse videtur ut scribas tu idem de legibus: sic enim fecisse video Platonem illum<br />

tuum, quem tu admiraris, quem omnibus anteponis, quem maxime diligis". v. Zoll (1964), pp. 21 ss. ; Douglas<br />

(1962), pp. 41-51.<br />

357 v. Hirzel (1895), p. 473-475.<br />

358 v. Dyck (1996).<br />

359 La tesi del relativismo giuridico veniva esposta già nel testo del De re publica ; contro di essa Cicerone si<br />

pronuncia già nel De inventione e più esplicitamente nel contesto del De legibus: v. Leg. I, 45: "Haec (scil.<br />

ius et iniuria) autem in opinione existimare, non in natura posita, dementis est. Nam nec arboris nec equi<br />

virtus quae dicitur (in quo abutimur nomine) in opinione posita est, sed in natura. Quod si ita est, honesta<br />

quoque et turpia natura diiudicanda sunt" ; cfr. De inv. II, 160-161: "Natura ius est quod non opinio genuit,<br />

sed quaedam in natura vis inseuit, ut religionem, pietatem, gratiam, vindicationem, observatiam, veritatem".<br />

360 v. Antisthenes fr. V A 179 Giannantoni = Philod. De pietate 7a, 3-8: «...p]ar' (Antisqe/nei d' e(n me£n [t]<br />

fusik= le/getai to£ kata£ no/mon ei)=nai pollou£j qeou£j kata£ de£ fu/sin e(na.»; v. Diogenes fr. ??= D.L. VI, 71:<br />

«de/on ou)=n a)nti£ tw=n a)xrh/stwn po/nwn tou£j kata£ fu/sin e)lome/nouj zh=n eu)daimo/nwj, para£ th£n a)/noian<br />

kakodaimonou=si (…) mhde£n ou(/tw toi=j kata£ no/mon w(j toi=j kata£ fu/sin didouj:». v. Brancacci (1985-<br />

1986), pp.218-230; Goulet-Cazé (1993), pp. 133, 143-145;<br />

361 v. Heinimann (1972), pp. 110-162.<br />

362 v. Plato, 890 d 5-8: "τῷ παλαιῷ νόμῳ ἐπίκουρον γίγνεσθαι λόγῳ ὡς εἰσὶν θεοὶ καὶ ὅσα νυνδὴ διῆλθες σύ,<br />

καὶ δὴ καὶ νόμῳ αὐτῷ βοηθῆσαι καὶ τέχνῃ, ὡς ἐστὸν φύσει ἢ φύσεως οὐχ ἧττον,<br />

εἴπερ νοῦ γέ ἐστιν<br />

γεννήματα κατὰ λόγον ὀρθόν, ὃν σύ τε λέγειν μοι φαίνῃ καὶ ἐγώ σοι πιστεύω τὰ νῦν"; Nella prima parte<br />

150


delle Leggi traccie di quell'opposizione tra la libertà della natura e la coercizione normativa (v.<br />

e.g. 875 c 7- d 2), che mantengono i due piani della natura e del diritto sostanzialmente<br />

distinti; si noterà che il testo platonico presenta una moltiplicità di impieghi delle espressioni<br />

'per natura' e 'in accordo con la natura' 363 , vagliandone in un certo senso tutte le possibilità<br />

d'uso, sia in relazione al linguaggio comune, sia in relazione ad un uso di tipo giuridico. Del<br />

resto una forma embrionale di naturalismo normativo è forse già reperibile nel modo in cui il<br />

personaggio di Clinia presenta le norme legislative del suo paese in relazione alla<br />

conformazione naturale dell'isola di Creta, v. 625 c 10 - e 2 (cfr. 704 c-d); tuttavia<br />

l'affermazione esplicita che il diritto è 'per natura o non inferiore alla natura' figura solo in una<br />

fase avanzata della discussione del testo delle Leggi in reazione alle tesi sostenute dai sofisti.<br />

Il principio del naturalismo giuridico viene presentato dunque non come uno dei fondamenti<br />

del discorso, ma come una boh/qeia, una difesa necessaria per l'attività del legislatore. Le fonti<br />

suggeriscono invece che gli stoici prendessero consapevolmente le mosse dal concetto di<br />

natura proprio per fondare non solo il discorso etico, ma anche ogni riflessione sul diritto e la<br />

giustizia, considerando la razionalità del cosmo, ossia dell'ordine naturale, come l'orizzonte<br />

normativo per eccellenza. All'interno del testo ciceroniano sono reperibili numerosi elementi<br />

stoici: dalla corrispondenza tra macrocosmo e microcosmo, v. Leg. I, 18: "lex est ratio<br />

summa, insita in natura, quae iubet ea quae facienda sunt, prohibetque contraria. Eadem<br />

ratio, cum est in hominis mente confirmata et perfecta, lex est" ; alla comunità di uomini e<br />

dèi, v. Leg. I, 23: "Est igitur, quoniam nihil est ratione melius, eaque et in homine et in<br />

deo, prima homini cume deo rationi societas"; entrambi del resto fondati sull'elemento di<br />

razionalità, ratio e recta ratio, assunto tanto nel compartamento umano quanto nell'andamento<br />

del cosmo. Il diritto fondato sulla natura e presentato dal testo ciceroniano trova inoltre i suoi<br />

fondamenti metafisici nella provvidenza divina, altra tesi stoica, che si richiede<br />

all'interlocutore di accettare per il beneficio della presente discussione 364 . Nel passo in oggetto<br />

Cicerone traccia infine un terreno di consenso filosofico intorno all'andamento delle sue<br />

argomentazioni, funzionale al progresso della discussione.<br />

Commento<br />

A)<br />

del testo delle Leggi tuttavia l'unica normativa che viene esplicitamente fondata sulla natura è quella per cui<br />

un uomo dovrebbe unirsi sessualmente solo con una donna e non con un uomo, v. Leg. 636 c<br />

363 e.g. Plato, Leg. 690 b-c; 700 d (fu/sei poihtikoi/); 710 e (nomoqe/thj ge/nhtai fu/sei); 710 c ; 716 a; 720 b;<br />

720 e -721 a; 733 a;<br />

364 Leg. I, 35.<br />

151


– ed ut eis qui omnia recta atque honesta per se expetenda duxerunt, et<br />

aut nihil omnino in bonis numerandum nisi quod per se ipsum laudabile esset,<br />

aut certe nullum habendum magnum bonum, nisi quod vere laudari sua sponte<br />

posset: un fronte di consenso filosofico viene tracciato intorno alla tesi per cui ciò<br />

che è moralmente giusto è da ricercarsi per se stesso e non per altro, che equivale<br />

a stabilire una gerarchia di valori, in cui la posizione più alta viene accordata alla<br />

moralità. La tesi viene soddisfatta a partire da due diversi punti di vista, ovvero<br />

risulta declinabile in due opzioni:<br />

1) aut nihil omnino in bonis numerandum nisi quod per se ipsum laudabile<br />

esset: il principio per cui l'appellativo di 'bene' appartiene solo a ciò che risulta<br />

'degno di lode' di per se stesso è parte dell'arsenale argomentativo stoico, v. Fin.<br />

III, 27; Fin. IV, 50-51 = T. 46 : Contesto. La posizione stoica sostiene un<br />

principio di predicazione unica: 'bene' può esser predicato solo di ciò che è<br />

'morale' (honestum).<br />

2) aut certe nullum habendum magnum bonum, nisi quod vere laudari sua<br />

sponte posset: la seconda opzione è compatibile invece con una forma di<br />

predicazione aperta per cui 'bene' può essere predicato anche di altre cose rispetto<br />

a ciò che è 'degno di lode', per quanto sia possibile stabilire al contempo una<br />

chiara gerarchia di valore tra i beni, per cui ciò che è 'morale' ricopre la posizione<br />

indiscutibilmente più alta. Ne consegue dunque che ciò che è 'degno di lode' è il<br />

requisito minimo, non di qualunque cosa di cui si predica legittimamente il 'bene',<br />

ma di qualunque bene che sia considerato un bene di alto valore (magnum).<br />

Cfr. maiora / minora : August. De civ.Dei XIX, 3, 1: "...ut omnibus delectatur<br />

atque perfruatur, magis minusque, ut quaeque inter se maiora atque minora sunt,<br />

tamen omnibus gaudens et quaedam minora, si necessitas postulat, propter<br />

maiora vel adipiscenda vel tenenda contemnens".<br />

La superiorità della virtù morale viene affermata in base alla superiorità<br />

dell'anima rispetto al corpo, ovvero dei beni spirituali, rispetto a quelli del corpo<br />

od esterni. Il principio della superiorità dell'anima è uno dei temi platonici<br />

fondamentali, reperibili sia nel Timeo, sia nelle Leggi 365 ; si trova ampiamente<br />

365 Plato, Tim. 34 b-c: " Τὴν δὲ δὴ ψυχὴν οὐχ ὡς νῦν ὑστέραν ἐπιχειροῦμεν λέγειν, οὕτως ἐμηχανήσατο καὶ<br />

ὁ θεὸς νεωτέραν – οὐ γὰρ ἂν ἄρχεσθαι πρεσβύτερον ὑπὸ νεωτέρου συνέρξας εἴασεν"; Leg. 892 a :<br />

"Ψυχήν, ὦ ἑταῖρε, ἠγνοηκέναι κινδυνεύουσι μὲν ὀλίγου σύμπαντες οἷόν τε ὂν τυγχάνει καὶ δύναμιν ἣν<br />

152


impiegato nel corpus ciceroniano e viene affermato come indubitabile anche nel<br />

resoconto del testo di Varrone fatto da Agostino, v. De civ.Dei XIX, 3, 1: "Sentit<br />

quippe in eius natura duo esse quaedam, corpus et animam, et horum quidem<br />

duorum melius esse animam longeque praestabilius omnino non dubitat, ...".<br />

– sive in Academia vetere cum Speusippo, Xenocrate, Polemone<br />

manserunt, sive Aristotelem et Theophrastum, cum illis congruentes re, genere<br />

docendi paulum differentes, secuti sunt: nell'elenco dei gruppi di personalità<br />

filosofiche, che possono essere raggruppate sotto la comune intestazione della tesi<br />

per cui ciò che è moralmente giusto è da ricercarsi di per se stesso, figurano per<br />

primi i due gruppi di filosofi vetero-academici e peripatetici, i quali, afferma il<br />

testo, convergono sulla medesima posizione filosofica, per quanto Speusippo,<br />

Senocrate e Polemone siano rimasti nell'Academia antica, mentre i peripatetici<br />

siano distinguibili sulla base di un diverso 'genere docendi'.<br />

cum illis congruentes re, genere docendi paulum differentes, secuti sunt: la<br />

convergenza filosofica tra l'Academia antica e il Peripato è, come si è visto, un<br />

elemento ricorrente del corpus ciceroniano, legato alla propaganda storiografica<br />

ed ermeneutica di Antioco d'Ascalona. La particolarità di questo testo sta nel<br />

presentare la differenza tra le due scuole non come una pura differenza<br />

terminologica, derivante dai luoghi di insegnamento, v. De orat. III, 62: "Ac primo<br />

ab ipso Platone Aristoteles et Xenocrates, quorum alter Peripateticorum, alter<br />

Academiae nomen obtinuit"; Orator 46: "in hac Aristoteles adulescentis non ad<br />

philosophum morem tenuiter disserendi, sed ad copia rhetorum, in utramque<br />

partem ut ornatius et uberius dici posset, excercuit idemque locus – sic enim<br />

appellabat – quasi argumentorum notas tradidit unde omnis in utramque partem<br />

traheretur oratio"; Ac.libri I, 17: "una et consentiens duobus vocabulis<br />

philosophiae forma instituta est, Academicorum et Peripateticorum, qui rebus<br />

congruentes nominibus differebant"; Ac.libri I, 18: "Quae quidem erat primo<br />

duobus, ut dixi, nominibus una, nihil enim inter Peripateticos et illam veterem<br />

Academiam differebat"; Ac.libri I, 22: "illud imprudenter, si alios esse<br />

Academicos qui tum appellarentur, alios Peripateticos arbitrantur". In questo<br />

ἔχει, τῶν τε ἄλλων αὐτῆς πέρι καὶ δὴ καὶ γενέσεως, ὡς ἐν πρώτοις ἐστί, σωμάτων ἔμπροσθεν πάντων<br />

γενομένη, καὶ μεταβολῆς τε αὐτῶν καὶ μετακοσμήσεως ἁπάσης ἄρχει παντὸς μᾶλλον· εἰ δὲ ἔστιν ταῦτα<br />

οὕτως, ἆρ' οὐκ ἐξ ἀνάγκης τὰ ψυχῆς συγγενῆ πρότερα ἂν εἴη γεγονότα τῶν σώματι προσηκόντων, οὔσης<br />

γ' αὐτῆς πρεσβυτέρας ἢ σώματος"; cfr. 896 a; 697 b 3-6; 743 e 6;<br />

153


testo ciò che distingue Speusippo, Senocrate e Polemone da Aristotele e Teofrasto<br />

è infatti che i primi sono 'rimasti' nell'Academia, mentre gli altri hanno adottoto<br />

un diverso 'metodo di insegnamento'.<br />

Il testo non esplicita le caratteristiche specifiche del 'metodo' aristotelico. Tuttavia<br />

si noti come in altri luoghi del corpus ciceroniano Aristotele viene<br />

inaspettatamente associato con la pratica didattica dell' in utramque partem<br />

disserere, v. De orat. III, 80: “Aristotelio more de omnibus rebus in utramque<br />

partem possit dicere et in omni causa duas contrarias orationes, praeceptis illius<br />

cognitis explicare...” 366 ; Fin. V, 10: “ab Aristoteleque principe de singulis rebus in<br />

utramque partem dicendi exercitatio es instituta”; il metodo ha come noto<br />

un'evidente utilità in ambito retorico e forense, dove lo sviluppo della capacità di<br />

anticipare le argomentazioni dell'avversario, esercitandosi nell'analisi di una<br />

questione da due opposti punti di vista, costituisce una parte importante della<br />

formazione del buon oratore. Tuttavia il metodo viene parimenti associato con la<br />

tradizione sofistica nella sua accezione più relativista e deteriore, nella misura in<br />

cui essa si avvale dei di/ssoi lo/goi, per portare ogni argomentazione dialettica ad<br />

un empasse, dove pro e contra hanno lo stesso peso. Esistono dunque<br />

storicamente due diversi approcci al metodo del discorso doppio, per cui da una<br />

parte la sua applicazione equivale ad esercitare la mente allo studio di “quod<br />

possit dicere” su ogni argomento, mentre dall'altra il suo uso corrisponde al<br />

trionfo del relativismo sofistico.<br />

L'associazione del metodo con Aristotele e la scuola peripatetica corrisponde<br />

verosimilmente a una dinamica di legittimazione del metodo stesso, che lo sottae<br />

all'infamante retaggio sofistico. Sembrerebbe inoltre che il metodo del discorso<br />

doppio a Roma portasse immediatamente alla mente i discorsi tenuti da Carneade<br />

in occasione dell'ambasciata del 155 a.C., che sembrano aver fornito all'èlite<br />

romana un'immagine del filosofo academico non diversa da quella di un<br />

qualunque sofista, potenzialmente dunque molto dannoso per l'educazione dei<br />

giovani 367 . Tuttavia l'uso ciceroniano del metodo, espressione di una particolare<br />

interpretazione dello scetticismo carneadeo, viene presentato come funzionale<br />

all'esplicitazione del probabile e del verisimile (v. De or. I, 158; Luc. 7-8; Off. II,<br />

366 Aristotele viene in generale associato da Cicerone con una maggiore apertura nei confronti della retorica di<br />

Isocrate e la cura per lo stile dell'argomentazione, v. e.g. De orat. III, 141.<br />

367 v. Cic., Rep. III, 9; III, 21; III, 29; Att. XII, 23, 2; Plut., Cato Maior 221; Macrobius, Satur. I, 13; Aelianus,<br />

Var.Hist. III, 17; cfr. Garbarino (1973), t. 1, testi 77-91. Cfr. Lévy (1992a), p. 34.<br />

154


8). Dando dunque credito all'origine del metodo della disputatio in utramque<br />

partem come derivante dalle pratiche di insegnamento di Aristotele, anche<br />

Cicerone forse ricerca un suo retaggio per così dire nobile, ovvero diverso da<br />

quello dei sofisti, i cui benefici siano del resto riscontrabili in un ambito più ampio<br />

di quello meramente filosofico. Riabilitando l'origine della tecnica della<br />

disputatio in utramque partem, Cicerone apre dunque a nuove possibilità<br />

d'impiego del discorso doppio eventualmente anche in ambito giuridico.<br />

Si noti inoltre che il passo in oggetto chiarisce che l'innovazione metodologica è<br />

estranea alla fase storica dell'Academia antica, delegittimando così indirettamente<br />

la lettura 'scettica' della storia dell'Academia, la quale sostiene invece che Platone<br />

abbia fatto ricorso al medesimo metodo, v. Ac.libri I, 46: “Plato, cuius in libris<br />

nihil adfirmatur et in utramque partem multa disseruntur”. Il tracciare una netta<br />

distinzione tra l'approccio filosofico degli academici antichi e i metodi e gli esiti<br />

dell'Academia 'scettica' fa parte ancora una volta dell'agenda di Antioco<br />

d'Ascalona. Allo stesso modo Antioco avrebbe potuto tentar di delegittimare l'uso<br />

scettico del metodo della disputatio in utramque partem, sostenendone la paternità<br />

aristotelica. Tuttavia si nota che nell'ambito generale della personale impostazione<br />

filosofica di Cicerone il riconoscere la natura 'aristotelica' del metodo da lui<br />

impiegato in quanto academico non sembra rappresentare un problema. Al<br />

contrario essa non solo emancipa il metodo dalla cattiva reputazione sofistica, ma<br />

fornisce un punto di raccordo importante tra la formazione filosofica e la<br />

formazione retorica di Cicerone.<br />

– sive, ut Zenoni visum est, rebus commutatis immutaverunt vocabula:<br />

l'idea che la posizione stoica non sia sostanzialmente differente da quella<br />

peripatetica se non dal punto di vista terminologico è già uno degli esiti della<br />

dialettica critica di Carneade. Il filosofo academico argomentava infatti che per<br />

esigenze di coerenza la posizione stoica finiva per coincidere con quella del suo<br />

storico avversario 368 . Questo tipo di conclusione viene riletta invece in chiave<br />

positiva da Antioco d'Ascalona, come indice di una continuità tra la tradizione<br />

platonica, di cui academici e peripatetici sono ugualmente eredi, e lo stoicismo (v.<br />

T. 41 = Ac.libri I, 34-35; T. 49 = Fin. V, 7). Non è chiaro nel seguente passo quale<br />

sfumatura, critica o continuista, sia maggiormente presente.<br />

368 Fin. III, 41 ; Tusc. V, 120.<br />

155


B)<br />

Il tema viene ripreso da Cicerone nel seguito della trattazione, v. Leg. I, 55 : “Ex<br />

hac autem non rerum sed verborum discordia controversia est nata de finibus”,<br />

affermando che, se tra l'indifferentismo puro di Aristone 369 e la posizione dei<br />

filosofi vetero-academici / peripatetici sussiste un sostanziale discrepanza (“de<br />

omni vivendi ratione dissensio”), non altrettanto può dirsi a proposito della<br />

posizione sostenuta da Zenone: v. ibidem : “sentit idem quod Xenocrates, quod<br />

Aristoteles, loquitur alio modo”; il confronto tra il rigorismo di Aristone e la<br />

soluzione zenoniana spinge allora la posizione stoica nella direzione di quella dei<br />

filosofi 'antichi' eredi della tradizione platonica (“Xenocrate et Aristotele et ab illa<br />

Platonis familia”); tuttavia questa convergenza viene descritta come un<br />

'usurpazione' del territorio dell'antica Academia (cfr. Tusc. V, 34: "Zeno Citieus,<br />

advena quidam et ignobilis verborum opifex, insinuasse se in antiquam<br />

philosophia videtur, huius sententiae gravitas a Platonis auctoritate repetatur";<br />

DL VII, 25 = T. 31): sviluppando la metafora del contenzioso giuridico de finibus,<br />

sui confini territoriali di ogni istanza filosofica, Cicerone allude ad una disputa sul<br />

rapporto che lega lo stoicismo al platonismo: “controversia est nata de finibus, in<br />

qua, quoniam usus capionem duodecim tabulae intra quinque pedes esse<br />

noluerunt, depasci veterem possessionem Academiae ab hoc acuto homine non<br />

sinemus, nec Mamilia lege singuli, sed e XII tres arbitri fines regemus. (...)<br />

Requiri placere terminos quos Socrates pepigerit, iisque parere”; questa<br />

prospettiva si ritrova in termini molto simili anche nel testo del Luc.131-132 = T.<br />

39 : “est enim inter eos non de terminis, sed de tota possessione contentio”.<br />

– sive etiam Aristonis difficilem atque arduam, sed iam tamen fractam et<br />

convictam sectam: una versione teorica intransigente dello stoicismo è<br />

rappresentata dalla posizione dell'indifferentismo di Aristone di Chio, discepolo di<br />

Zenone, sostenitore della mancanza assoluta di un valore attribuibile ai beni al di<br />

fuori della virtù. La sua posizione viene considerata da Cicerone come già<br />

ampiamente confutata e priva di sostenitori contemporanei, v. Ioppolo (1980).<br />

Il passo in oggetto impiega il nome di Polemone in combinazione con quello di Speusippo e<br />

369 v. Ioppolo (1980) ; Lévy (1980).<br />

156


Senocrate come rappresentante di quel gruppo di filosofi che sono 'rimasti' nell'antica<br />

Academia, ovvero in qualità di rappresentante del gruppo di eredi di Platone rimasti<br />

interamente fedeli ai metodi del fondatore della scuola, v. Ac.libri I, 34-35 = T. 41. La<br />

posizione di questi filosofi viene detta coincidere con quella di Aristotele e Teofrasto ed è<br />

esemplificativa nell'insieme della seconda opzione filosofica presa in considerazione dal testo,<br />

in base alla quale il principio secondo cui ciò è moralmente giusto deve essere perseguito di<br />

per se stesso risulta valido (cfr. Runia (1989), T. 3). Il gruppo di filosofi depositari della<br />

tradizione platonica sarebbe inoltre concorde nel ritenere che la predicazione di ciò che è bene<br />

avviene in modo multiplo, per quanto il più grande valore sia da accordare alla virtù e alla<br />

moralità 370 . Il passo pone infine strutturalmente a confronto la posizione vetero-academica /<br />

peripatetica con la posizione stoica, ovvero con la prima opzione, secondo la quale invece non<br />

esiste altro bene oltre la virtù. Questa posizione stoica generale è del resto articolabile<br />

secondo il testo in due diverse modalità, l'una ortodossa, quella presentata da Zenone, l'altra<br />

eterodossa e difesa da Aristone di Chio. Attraverso questa rassegna storiografico-filosofica<br />

dunque Cicerone presenta il terreno di consenso che a cavallo tra la tradizione platonica e la<br />

tradizione stoica sostiene la normatività del concetto di honestum, che struttura a sua volta la<br />

discussione dei fondamenti naturali del diritto.<br />

Nella costruzione di questo fronte di consenso l'autore si avvale di una serie di posizioni<br />

storiografiche derivanti dalle strategie di Antioco d'Ascalona: 1) la convergenza di Academia<br />

e Peripato; 2) la differenza solo terminologica tra posizione stoica e posizione vetero-<br />

academica / peripatetica; per cui la critica ha ipotizzato un'influenza diretta di Antioco sul<br />

testo in questione. Tuttavia si noterà che nel seguito della trattazione, quando Cicerone<br />

riprende il tema del rapporto tra Academia / Peripato e Stoa, la sua attitudine non risulta<br />

puramente conciliatoria, né continuista; Cicerone manifesta al contrario il desiderio di essere<br />

lui stesso arbiter autonomo della questione del rapporto tra Academia e Stoa (Leg. I, 53: “Sed<br />

ego plane vellem me arbitrum inter antiquam Academiam et Zenonem datum”) e alla<br />

domanda di Pomponio Attico se allora lui sia d'accordo con quanto sostiene Antioco (Leg. I,<br />

54: “Ergo adsentiris Antiocho..”), Cicerone omette strategicamente di fornire una risposta<br />

370 Cfr. la testimonianza fondamentale di Sesto Empirico (Adv.Math. XI, 51-59 = Krantor 7A Mette), secondo<br />

cui Crantore forniva una dimostrazione della necessaria attribuzione a ciascun bene del suo posto e valore,<br />

per mezzo di un elegante esempio. Crantore immaginava che i Greci, riuniti in una festa collettiva vedessero<br />

sfilare davanti a loro i diversi beni che si disputavano il primo premio ; dopo aver accordato ad ogni bene la<br />

possibilità di argomentare in proprio favore, il pubblico avrebbe necessariamente assegnato il primo posto<br />

alla virtù, il secondo posto alla salute, il terzo al piacere, mentre ultima avrebbe collocato la ricchezza (« καὶ<br />

τούτων οὖν ἀκούσαντες οἱ Ἕλληνες τὰ μὲν πρωτεῖα τῇ ἀρετῇ ἀποδώσουσι, τὰ δὲ δευτερεῖα τῇ ὑγείᾳ, τὰ<br />

δὲ τρίτα τῇ ἡδονῇ, τελευταῖον δὲ τάξουσι τὸν πλοῦτον »), v. commento in Spinelli (1995), pp. 222-224 e<br />

passim. La presente ricerca si discosta, come apparirà evidente, dallo schema « diadochistico » di p. 225, in<br />

particolare in merito alla collocazione e funzione teorica del concetto di ta£ prw=ta kata£ fu/sin. Di<br />

fondamentale importanza invece si considera la precisazione sulla « scansione gerarchica » dei beni esterni e<br />

corporei all'interno dell'esempio crantoreo.<br />

157


univoca (ibidem : “cui (scil. Antiochus) tamen ego adsentiar in omnibus necne, mox videro”).<br />

La domanda di Attico e la reticenza di Cicerone invitano il lettore a tenere presente la<br />

questione mentre la trattazione procede oltre.<br />

T. 38 : CICERO, ACADEMICA PRIORA II – LUCULLUS 113 371 .<br />

Quaero enim quid sit quod comprehendi possit. Respondet mihi non Aristoteles aut<br />

Theophrastus, ne Xenocrates quidem aut Polemo, sed qui minor est, tale verum quale<br />

falsum esse non possit. Nihil eius modi invenio: itaque incognito nimirum adsentiar id est<br />

opinabor. Hoc mihi et Peripatetici et vetus Academia concedit, vos negatis, Antiochus in<br />

primis. Qui me valde movet, vel quod ita iudico, politissimum et acutissimum omnium<br />

nostrae memoriae philosophorum. A quo primum quaero, quo tandem modo sit eius<br />

Academiae cuius esse se profiteatur. Ut omittam alia, haec duo de quibus agitur quis<br />

umquam dixit aut veteris Academiae aut Peripateticorum, vel id solum percipi posse quod<br />

esset verum tale quale falsum esse non posset, vel sapientem nihil opinari: certo nemo.<br />

Horum neutrum ante Zenonem magno opere defensum est; ego tamen utrumque verum<br />

puto, nec dico temporis causa, sed ita plane probo.<br />

Cfr. Polemo fr. 9 Gigante; Antiochus F 5 Mette.<br />

2 ne Ald. : nec ANB || hi Pl. : mihi A 1 NB : del. A 3 || qui minor est Reid : minores A 2 : minorem NB : minor est A 1<br />

|| 3 incognito A 2 : incognitio A 1 NB || nimirum Lb : nemirum A 1 NB : nec mirum A 3 || 9 est A 2 NB : om. A 1 .<br />

Traduzione<br />

Cerco di capire infatti cosa sia 'ciò che è possibile comprendere'; mi risponde, non<br />

Aristotele o Teofrasto, e nemmeno Senocrate o Polemone, ma qualcuno di meno<br />

importante, 'ciò che è vero in un modo tale che non potrebbe esser falso'. Ma non trovo<br />

niente di tale sorta; pertanto darei certamente l'assenso a qualcosa di non conosciuto,<br />

ovvero formulerei un'opinione. Questo me lo concedono sia i peripatetici sia l'Academia<br />

371 sigla codicum in O. Plasberg, M. Tilli Ciceronis Scripta quae manserunt omnia, fasc. 42: Academicorum<br />

reliquiae cum Lucullo, Teubner, Stuttgart (I ed. 1922) 1980, xxvi-xxviii.<br />

158


antica, voi me lo negate, Antioco tra i primi, lui che mi fa una così forte impressione, sia<br />

perché lo amavo come uomo, come lui amava me, sia perché lo ritengo il più colto e fine<br />

tra tutti i filosofi della nostra epoca. A lui per prima cosa chiedo come possa mai esser<br />

membro dell'Academia alla quale dichiara di appartenere. Pur omettendo altre cose, chi<br />

mai dell'Academia antica o tra i peripatetici affermò queste due tesi di cui ci occupiamo:<br />

1) che si può afferrare solo ciò che è vero in un modo tale che non potrebbe essere falso,<br />

o 2) che il saggio non formula mai un'opinione? Certamente nessuno. Di queste<br />

affermazioni nessuna delle due è stata molto argomentata prima di Zenone. Io tuttavia<br />

le ritengo entrambe vere, e non lo dico per compiacenza, ma le accetto proprio così.<br />

Contesto<br />

Il frammento si colloca all'interno del discorso che Cicerone offre in risposta a Lucullo;<br />

quest'ultimo contestava lo scetticismo di Arcesilao e Carneade sulla base di argomenti molto<br />

probabilmente già impiegati da Antioco d'Ascalona e prima ancora dai filosofi stoici. Lucullo,<br />

così come ce lo presenta Cicerone, ricopre infatti il ruolo di portavoce di Antioco in ragione<br />

della loro lunga frequentazione e per il fatto di essere notoriamente un uomo dotato di grande<br />

memoria 372 . Così, un'impressione di accuratezza, seppur nel discorso riportato, è chiamata a<br />

dare supporto alla tecnicità del testo. In conclusione del suo discorso, 'Lucullo-Antioco' aveva<br />

invitato eplicitamente 'Cicerone personaggio' ad ammettere le contraddizioni della posizione<br />

scettica e a non compromettersi ulteriormente con essa 373 . In caso non risultasse ancora del<br />

tutto chiaro, il personaggio di Catulo fa allora presente a Cicerone che, per difendere la<br />

posizione scettica, il suo compito è quello di mostrare come sia possibile conciliare<br />

coerentemente il non riconoscere nulla come 'certo' (Luc. 63: “negares quicquam certi posse<br />

reperiri”) con il poter dire di 'conoscere' qualcosa (“te comperisse dixisses”). Il discorso di<br />

Cicerone si sviluppa di conseguenza come una confutazione punto per punto (v. Glucker<br />

(1978), pp. 399-405) degli argomenti esposti nella prima parte del libro, e solo quando ogni<br />

372 Luc. 4: « Cum autem e philosophis ingenio scientiaque putaretur Antiochus Philonis auditor excellere, eum<br />

secum et quaestor habuit et post aliquot annos imperator, quique esset ea memoria quam ante dixi ea saepe<br />

audiendo facile cognovit quae vel semel audita meminisse potuisset ». Tuttavia si ricorda che proprio alcuni<br />

dubbi sulla plausibilità/credibilità dei personaggi scelti come portavoce di questioni filosofiche così<br />

complesse inducono Cicerone a una seconda (e terza?) redazione del testo. v. Att. XIII, 12, 3; Att. XIII, 13, 1.<br />

Il ruolo di Lucullo verrà poi eventualmente affidato al personaggio di Varrone, v. Griffin (1997a).<br />

373 Luc. 62: «Provide etiam ne uni tibi istam sententiam minime liceat defendere. (...) Vide, quaeso, etiam atque<br />

etiam ne illarum quoque rerum pulcherrimarum ». Il discorso di Lucullo insiste sul pericolo etico della<br />

posizione scettica, argomentando che contestare il criterio della verità e in particolare l'adsensio (ovvero<br />

l'assenso dato ad una impressione) significa privarsi della base non solo della conoscenza e dell'argomentare<br />

filosofico ma sopratutto dell'agire etico e della saggezza, v. ibid. : « Sublata enim adsensione omnem et<br />

motum animorum et actionem rerum sustulerunt, quod non modo recte fieri, sed omnini fieri non potest ».<br />

159


argomento di Lucullo ha ricevuto il relativo pendant, Cicerone si ferma a riflettere sullo stile<br />

scarno del suo parlare, sull'abbondanza delle minuzie filosofiche e lo scarso valore retorico di<br />

tutto il discorso. La causa di ciò viene rintracciata nella presenza, fin qui tangibile, ma non<br />

apertamente esplicitata, dei modi concettuali propri dello stoicismo, delle sue modalità<br />

argomentative, delle questioni da esso sollevate (v. Luc. 112: “Ac mihi videor nimis etiam<br />

nunc agere ieiune. Cum sit enim campus in quo exultare possit oratio, cur eam tantas in<br />

angustias et Stoicorum dumeta compellimus?”). Con altri interlocutori filosofici il discorso si<br />

sarebbe sviluppato diversamente: (Ibid.) “Si enim mihi cum Peripatetico res esset, (...), cum<br />

simplici homine simpliciter agerem nec magno opere contenderem (...)”. È questo il pretesto<br />

per ripensare i 'riferimenti autoritativi' avanzati da Antioco, ovvero per mostrare quanto<br />

l'Antica Academia e il Peripato si trovino totalmente fuori contesto rispetto a quanto finora<br />

discusso. Il problema dei 'riferimenti autoritativi', vale a dire del ricorso all'autorità dei filosofi<br />

del passato, ritorna a vari livelli nel testo degli Academica. La prima accusa mossa da<br />

'Lucullo-Antioco' agli Academici (scettici) 374 è infatti quella di ricorrere all'autorità degli<br />

antichi filosofi in modo fraudolento: (Luc. 13): “Primum mihi videmini (...) cum veteres<br />

physicos nominatis facere idem quod seditiosi cives solent cum aliquos ex antiquis claros<br />

viros proferunt quos dicant fuisse populares, ut eorum ipsi similes esse videantur”; (Luc. 14):<br />

“Similiter vos cum perturbare ut illi rem publicam sic vos philosophiam bene iam constitutam<br />

velitis, Empedoclem, Anaxagoran, Democritum Parmeniden Xenophanen, Platonem etiam et<br />

Socratem profertis”, cfr. Ac.libri I, 44-45. Il ricorso all'autorità dei filosofi presocratici che si<br />

sono occupati di physis da parte degli Academici (scettici) viene equiparato, seguendo il punto<br />

di vista di Antioco, a una manipolazione politica della storia. Tuttavia l'idea di un ricorso<br />

all'autorità nell'ambito della filosofia scettica risulta quantomeno problematica: come anche il<br />

portavoce di Antioco ricorda, lo scettico si fa guidare dalla ratio piuttosto che dall'auctoritas<br />

(v. Luc. 60: “restat illud quod dicunt veri inveniundi causa contra omnia dici oportere et pro<br />

omnibus. Volo igitur videre quid invenerint. 'Non solemus' inquit 'ostendere'. Quae sunt<br />

tandem ista mysteria, aut cur celatis quasi turpe aliquid sententiam vestram? 'Ut qui audient'<br />

inquit 'ratione potius quam auctoritate ducantur'. Quid si utrumque, num peius est?”; cfr.<br />

Tusc. V, 83; ND I, 5; De div. II, 150). D'altrocanto Cicerone dà testimonianza di un certo<br />

interesse all'interno della prospettiva scettica nel ripercorrere all'indietro la storia dei suoi<br />

potenziali precursori, per legarsi saldamente, – questo è poi lo scopo principale – alla<br />

tradizione socratico-platonica, v. Luc. 72: “nos autem ea dicimus nobis videri quae vosmet<br />

ipsi nobilissimis philosophis placuisse conceditis”; Luc. 74: “Et ab iis aiebat removendum<br />

374 Le parentesi intendono enfatizzare il fatto che l'appellativo 'scettico', riferito ai filosofi academici fino al I<br />

sec. a.C., è anacronistico, per quanto descrittivamente efficace. L'aggettivo occorre per la prima volta nelle<br />

fonti a nostra disposizione in Numenio presso Eusebio, Praep.ev. XIV, 6, 4-6 = LS 68 F, e designa in primo<br />

luogo lo scetticismo pirroniano.<br />

160


Socraten et Platonem. Cur, an de ullis certius possum dicere? Vixisse cum iis equidem videor,<br />

ita multi sermones perscripti sunt e quibus dubitari non possit quin Socrati nihil sit visum<br />

sciri posse; excepit unum tantum, scire se nihil se scire, nihil amplius. Quid dicam de<br />

Platone, qui certe tam multis libris haec persecutus non esset nisi probavisset”. Secondo una<br />

chiara strategia di legittimazione delle parti, il ricorso all'auctoritas si trasforma, dunque, nel<br />

contesto del dibattito 'interno' all'Academia, in un controverso 'appello alla tradizione': quale<br />

Academia può affermare a buon diritto di seguire la traccia del pensiero socratico-platonico?<br />

Nel tentativo di ritorcere le accuse di Antioco contro il suo stesso autore, risulta allora<br />

evidente perché Cicerone, nel passaggio in oggetto, metta abilmente in discussione la<br />

fondatezza dei 'riferimenti autoritativi' di Antioco d'Ascalona.<br />

Commento<br />

A)<br />

– quid sit quod comprehendi possit: intorno alla definizione di katalhpto£n<br />

ruota tutto il dibattito tra Arcesilao e Zenone (Luc. 77), o più in generale tra<br />

academici e stoici nel corso dell'epoca ellenistica. Animato ovviamente anche da<br />

Carneade (Luc. 28-29), il dibattito prende un'ulteriore piega quando Antioco<br />

contesta la strategia argomentativa adottata da Filone di Larissa per confutare la<br />

definizione zenoniana di katalhpto£n (Luc. 18): la discussione si sposta dunque<br />

all'interno dell'Academia, dal momento che Antioco, senza smettere di considerare<br />

se stesso un academico, argomenta a favore della definizione zenoniana contro la<br />

posizione assunta dal suo precedente maestro Filone 375 .<br />

Cicerone traduce con la frase relativa 'quod comprehendi posset' l'aggettivo<br />

verbale katalhpto£n, da katalamba/nein, afferrare: Luc. 18: “quod comprehendi<br />

posset (id enim volumus esse katalhpto£n 376 )”, v. Hartung (1970), pp. 26-29.<br />

Nella seconda versione degli Academica sperimenta ugualmente l'uso di<br />

“comprehendibile”: Ac.libri 41: “id autem visum cum ipsum per se cerneretur,<br />

comprehendibile. Feretis haec? Nos vero, inquit. Quoniam enim alio modo<br />

375 Per una sintesi efficace del dibattito v. Striker (1997), 257 ss.; Brittain (2006), pp. xix-xxxv;<br />

376 Si adotta la correzione katalhpto£n là dove invece i manoscritti riportano a)kata/lhpton, in ragione del fatto<br />

che la definizione zenoniana che segue è conprensibile solo come definizione di katalhpto£n. Cfr. D.L., VII,<br />

46 e VII, 50; Sextus Emp., Adv.math. VII, 248 e XI, 183. Per un'analisi dettagliata della definizione stoica<br />

della fantasi/a katalhptikh v. Frede (1983), pp. 79-81; Frede (1999a), pp. 300-311; Sedley (2002a), pp.<br />

135-154.<br />

161


katalhpto£n diceres?” e in alcuni contesti preferisce la perifrasi 'quod percipi<br />

posset' (Luc. 40; Luc. 99), in accordo con l'uso simultaneo di 'cognitio',<br />

'comprehensio' e 'perceptio' per rendere il greco kata/lhyij, v. Luc. 17: “...quid<br />

esset cognitio aut perceptio aut (si verbum e verbo volumus) comprehensio, quam<br />

kata/lhyin illi vocant, eosque qui persuadere vellent esse aliquid quod<br />

comprehendi et percipi posset...”; Luc. 31: “...maxime cognitionem et istam<br />

kata/lhyin, quam ut dixi verbum e verbo experimentes comprensionem<br />

dicemus...”; cfr. Fin. III, 17. Per ragioni di maggiore traducibilità nella lingua<br />

latina della diatesi passiva piuttosto che della diatesi attiva, Cicerone fa<br />

riferimento al termine greco katalhpto£n piuttosto che al concetto di fantasi/a<br />

katalhptikh£ o katalhptiko£n, il che non è senza conseguenze dal punto di vista<br />

dell'interpretazione filosofica (v. Pellegrin (2010), p. 62). L'attenzione tende infatti<br />

a spostarsi sull'oggetto della 'comprehensio', invece di mantenere l'ambiguità tra<br />

ruolo attivo e ruolo passivo nel processo di impressione sensoriale 377 di un oggetto<br />

(v. Ioppolo (1990), p. 435-436). Lo stesso vale per la traduzione di fantasi/a con<br />

visum, che non permette di distinguere concretamente tra l'oggetto della fantasi/a<br />

(il fantasto£n) e la fantasi/a stessa. Ci si dovrebbe allora domandare se il lessico<br />

ciceroniano corrisponde da vicino a quello delle fonti stoiche da lui impiegate o se<br />

diversamente sia il frutto di un riadattamento del dibattito filosofico alle<br />

possibilità della lingua latina.<br />

L'uso di una terminologia che rimanda al campo semantico dell' “afferrare” viene<br />

giustificato dall'immagine zenoniana della mano che si chiude a pugno, la quale<br />

viene riproposta come illustrazione della 'comprehensio' in Luc. 145 (Cfr. Luc. 41;<br />

Sextus Emp., Adv.math. II, 7).<br />

– ne Xenocrates quidem aut Polemo, sed qui minor est: In una successione<br />

gerarchica digradante, dopo il riferimento ai filosofi peripatetici, vengono<br />

menzionati i due rappresentanti dell'istanza vetero-academica, Senocrate e<br />

Polemone, prima di arrivare al vero obiettivo polemico del testo. Si accetta qui<br />

l'emendamento del testo 'qui minor est' proposto da Reid (1885), p. 308, ma si<br />

contesta che il filosofo a cui la frase si riferisce sia Antioco. Lo scopo generale<br />

377 'impressione' sta qui per il greco fantasi/a. La traduzione rimane tuttavia problematica: alcuni interpreti<br />

preferiscono 'rappresentazione' o 'presentazione', per trovare un compromesso tra l'idea di un effetto fisico<br />

concreto della fantasi/a sull'anima e il suo ruolo nel processo cognitivo, v. D.L. VII, 49: « fantasi/a de/ e)sti<br />

tu/pwsij e)n yux$= »; Aetius 4.12.1 [Diels (1879)]: « fantasi/a me£n ou)=n e)sti pa/qoj e)n t$= yux$=<br />

gigno/menon » etc. = LS 39 A-G. v. in particolare le osservazioni in LS I, p. 239.<br />

162


della frase è affermare che la definizione di katalhpto£n non è reperibile<br />

all'interno della tradizione peripatetica o vetero academica. La definizione in<br />

oggetto risale a “qui minor est”. Se con ciò si deve intendere la persona che per<br />

prima ha fornito la definizione di katalhpto£n, senza dubbio ci si riferisce a<br />

Zenone di Cizio. L'uso di minor veicolerebbe allora un giudizio di valore sulla<br />

statura filosofica del padre dello stoicismo. Cicerone si sforza di prendere in<br />

considerazione la storiografia antiochea, secondo la quale lo stoicismo sarebbe<br />

compatibile con la tradizione platonica (v. e.g. Luc. 15), ma dal suo punto di vista<br />

non c'è alcun dubbio che l'autorità di Zenone è di minor valore rispetto a quella<br />

dei diretti successori di Platone di prima e di seconda generazione. In tempi<br />

recenti anche Brittain (2006), pp. 65-66, n.169, ha sostenuto che l'aggettivo<br />

comparativo si riferisce ad Antioco, come alla persona che tenta di imporre<br />

elementi dello stoicismo alla filosofia academica. Tuttavia, come anche Brittain<br />

nota, la definizione di katalhpto£n viene esplicitamente attribuita a Zenone a più<br />

riprese (v. oltre) e tutto il passaggio sembra in realtà voler mostrare che le due<br />

questioni in oggetto, rispetto alla tradizione più antica, sono novità introdotte dallo<br />

stoicismo (v. Luc. 77: “Nemo umquam superiorum non modo expresserat sed ne<br />

dixerat quidem posse hominem nihil opinari, nec solum posse sed ita necesse esse<br />

sapienti”). Un'altra soluzione sembra eventualmente possibile, ovvero che la frase<br />

intenda fare riferimento alla persona che per prima ha impiegato la definizione<br />

all'interno della scuola academica. Neanche in questo caso si tratterebbe di<br />

Antioco, ma piuttosto di Arcesilao (v. ibid.: “Visa est Arcesilae cum vera sententia<br />

tum honesta digna sapienti”), il quale, nell'ambito della disputa con Zenone,<br />

avrebbe 'impiegato' la definizione fornendo un essenziale contributo alla precisa<br />

configurazione della sua terza clausola, v. Ioppolo (1990), pp. 438-449 e oltre.<br />

– tale verum quale falsum esse non possit: cfr. Luc. 18: “Cum enim ita<br />

negaret quicquam esse quod comprehendi posset (id enim volumus esse<br />

katalhpto£n), si illud esset, sicut Zeno definiret, tale visum (iam enim hoc pro<br />

fantasi/ verbum satis hesterno sermone trivimus), visum igitur impressum<br />

effictumque ex eo unde esset quale esse non posset ex eo unde non esset – id nos a<br />

Zenone definitum rectissime dicimus; qui enim potest quicquam comprehendi, ut<br />

plane confidas perceptum id cognitumque esse, quod est tale quale vel falsum<br />

esset possit?”; Luc. 77: “Quale igitur visum? Tum illum ita definisse: ex eo quod<br />

esset sicut esset impressum et signatum et effictum. Post requisitum etiamne si<br />

163


eius modi esset visum verum quale vel falsum. Hic Zenonem vidisse acute nullum<br />

esse visum quod percipi posse, si id tale esset ab eo quod est cuius modi ab eo<br />

quod non est posset esse. Recte consentit Arcesilas ad definitionem additum,<br />

neque enim falsum percipi posse neque verum si esset tale quale vel falsum”.<br />

La frase rimanda alla terza parte della definizione zenoniana del criterio della<br />

verità – ovvero la definizione di impressione catalettica – ampliata secondo<br />

quanto lascia credere il testo ciceroniano sotto la spinta delle questioni sollevate<br />

da Arcesilao.<br />

Si confrontino i passaggi ciceroniani con le altre testimonianze che riportano la<br />

definizione: e.g. Sext. Emp., Adv.Math. VII, 248: “καταληπτικὴ δέ ἐστιν ἡ ἀπὸ<br />

ὑπάρχοντος καὶ κατ' αὐτὸ τὸ ὑπάρχον ἐναπομεμαγμένη καὶ<br />

ἐναπεσφραγισμένη, ὁποία οὐκ ἂν γένοιτο ἀπὸ μὴ ὑπάρχοντος” (Cfr. Sext.<br />

Emp., HP II, 4; Adv.Math. VII, 255, 402, 410; D.L. VII, 46); risulterà chiaro lo<br />

sforzo fatto da Cicerone per rendere esplicita la terza clausola: ὁποία οὐκ ἂν<br />

γένοιτο ἀπὸ μὴ ὑπάρχοντος = ex eo unde esset quale esse non posset ex eo unde<br />

non esset / tale esset ab eo quod est cuius modi ab eo quod non est (non) posset<br />

esse. Come nota Sedley (2002), p. 140, la traduzione di Cicerone corrisponde ad<br />

un'interpretazione del significato della terza clausola, dal momento che per<br />

rendere ἀπὸ μὴ ὑπάρχοντος non ritiene sufficiente l'espressione indubbiamente<br />

più semplice “ab eo quod non est”. Secondo Cicerone la terza clausula equivale a<br />

dire che una impressione è catalettica se è tale che non potrebbe provenire da<br />

nient'altro se non dalla specifica cosa esistente o dallo specifico stato di cose, da<br />

cui effettivamente proviene. Per seguire la linea di un esempio classico: secondo<br />

gli stoici un'impressione di Castore è catalettica se proviene da ciò che<br />

rappresenta, ovvero da Castore, ed è tale da essere qualitativamente differente da<br />

un'impressione di Castore proveniente non da ciò che rappresenta, per esempio dal<br />

gemello Polluce.<br />

Sempre secondo il resoconto di Cicerone, questo particolare riferimento alla<br />

dinamica di corrispondenza dell' impressione con la realtà viene aggiunta alla<br />

definizione zenoniana in risposta alla questione sollevata da Arcesilao nella<br />

forma: “si eius modi esset visum verum quale vel falsum”, dove per verum et<br />

falsum intendiamo la corrispondenza con la realtà e il suo contrario.<br />

Si noti come anche nella testimonianza offerta da Sesto Empirico sul dibattito tra<br />

Arcesilao e gli stoici la definizione di impressione catalettica viene riassunta nei<br />

termini di una impressione vera e tale che non potrebbe essere falsa: Adv.Math.<br />

164


VII, 152: “καταληπτικὴ δὲ φαντασία κατὰ τούτους ἐτύγχανεν ἡ ἀληθὴς καὶ<br />

τοιαύτη οἵα οὐκ ἂν γένοιτο ψευδής”. Si potrebbe dunque pensare che questo sia<br />

il segno distintivo del modo in cui gli academici, in particolare Arcesilao,<br />

presentavano la definizione zenoniana.<br />

Si noti tuttavia che nel dibattito tra Arcesilao e Zenone l'unica nozione di verità<br />

contestualmente accettata è quella di verità della proposizione, v. Sext. Emp.,<br />

Adv.Math. VII, 154: “ἡ συγκατάθεσις οὐ πρὸς φαντασίαν γίνεται ἀλλὰ πρὸς<br />

λόγον (τῶν γὰρ ἀξιωμάτων εἰσὶν αἱ συγκαταθέσεις)”; Adv.Math. VIII, 10: “οἱ<br />

δὲ ἀπὸ τῆς Στοᾶς λέγουσι μὲν τῶν τε αἰσθητῶν τινὰ καὶ τῶν νοητῶν ἀληθῆ,<br />

οὐκ ἐξ εὐθείας δὲ τὰ αἰσθητά, ἀλλὰ κατ' ἀναφορὰν τὴν ὡς ἐπὶ τὰ<br />

παρακείμενα τούτοις νοητά. ἀληθὲς γάρ ἐστι κατ' αὐτοὺς τὸ ὑπάρχον καὶ<br />

ἀντικείμενόν τινι, καὶ ψεῦδος τὸ μὴ ὑπάρχον καὶ [μὴ] ἀντικείμενόν τινι”, cfr.<br />

Ioppolo (1990), p. 440-444. Proprio questo aspetto giustifica la complessità della<br />

definizione in esame e getta qualche ombra di dubbio sulla piena legittimità di<br />

alcune espressioni usate nel testo da Cicerone quali “perceptum id cognitumque<br />

esse, quod est tale quale vel falsum esset possit” e “falsum percipi”.<br />

Stando al discorso di Lucullo, questa forma riassuntiva della definizione<br />

zenoniana viene adottata anche da Antioco, nel dibattito con gli academici scettici:<br />

v. Luc. 34: “id enim quaero ita mihi videatur verum non possit item falsum<br />

videri”; Luc.71: “Qui ex illius commutata sententia docere vellet nihil ita signari<br />

in animis nostris a vero posse quod non eodem modo possit a falso”. È<br />

interessante allora notare come le scelte linguistiche e argomentative di Antioco<br />

siano il risultato di un'approfondita conoscenza dell'armamentario (scettico)<br />

academico, in cui l'apprendistato filosofico dell'Ascalonita si è effettivamente<br />

svolto.<br />

– itaque incognito nimirum adsentiar id est opinabor. Hoc mihi et<br />

Peripatetici et vetus Academia concedit: La conclusione viene dedotta<br />

dialetticamente mantenendo come premesse gli assunti dell'epistemologia stoica –<br />

ovvero la definizione di impressione catalettica e la necessità<br />

dell'adsensio/adsensus (sugkata/qesij) [v. Luc. 37-38: “qui enim quid percipit<br />

adsentitur statim”] –, congiunti però con l'osservazione scettico-academica che<br />

per ogni impressione 'vera' di un oggetto o di uno stato di cose sia possibile<br />

trovarne una 'falsa' del medesimo oggetto o stato di cose indistinguibile dalla<br />

165


prima (ex. L'impressione di sollievo data dal bere in uno stato di veglia è<br />

indistinguibile dalla stessa impressione avuta in sogno, v. Sext.Emp., Adv.math.<br />

VII, 402-410; Luc. 84-85). Il risultato è che, non essendoci impressioni<br />

catalettiche a disposizione, ogni eventuale adsensio viene data a impressioni non<br />

catalettiche (incognita – non afferrate), dando così origine ad opinioni, non a<br />

conoscenze salde (cfr. l'uso di videor da parte degli academici criticati da Lucullo-<br />

Antioco: Luc. 51; e gli esempi letterari che dovrebbero confermare il fatto che<br />

adsensio viene talvolta data anche a impressioni false in Luc. 89-90). Questa linea<br />

argomentativa è presentata in questo contesto come compatibile con le posizioni<br />

dei filosofi peripatetici e vetero academici. Cicerone non specifica quale delle<br />

premesse ritiene che gli antichi filosofi condividessero e sembra improbabile,<br />

visto l'andamento del testo, che pensasse di poter contare sul loro sostegno per<br />

ogni punto dell'argomentazione. Limitandoci invece agli ultimi due anelli della<br />

catena sillogistica, Cicerone attribuirebbe verosimilmente agli antichi filosofi solo<br />

l'idea che è possibile dare l'adsensio a impressioni non sicure, ovvero che il<br />

risultato dell'adsensio 378 è talvolta solo un'opinione. Dalla parte di Cicerone sta il<br />

fatto che nel pensiero di Platone e di Aristotele le impressioni dei sensi sono<br />

direttamente legate alla doxa 379 , diversamente da quanto succede invece nello<br />

stoicismo.<br />

v. Sext.Emp., Adv.Math. VII, 217-226 per un resoconto dell'epistemologia<br />

peripatetica con interessanti punti in comune con le questioni qui accennate; in<br />

part. Adv.math. VII, 225-226: “ὅταν γὰρ εἴξῃ ἡ ψυχὴ τῇ ἀπὸ τῆς αἰσθήσεως<br />

ἐγγενομένῃ φαντασίᾳ καὶ τῷ φανέντι πρόσθηται καὶ συγκατάθηται, λέγεται<br />

δόξα” (v. Huby (1989) pp. 107-122).<br />

– vos negatis, Antiochus in primis: cfr. Luc. 66-67. La conclusione sopra<br />

menzionata non viene accolta dagli interlocutori di Cicerone (vos), tra i quali<br />

bisogna intendere tutti coloro che fanno uso dei principi dell'epistemologia stoica<br />

per contestare le posizioni dello scetticismo academico, primo tra tutti Antioco.<br />

Essa viene rifiutata perché sia gli stoici sia Antioco ritengono possibile reperire<br />

impressioni catalettiche alle quali dare l'adsensio. Nella prospettiva stoica<br />

378 L'uso tecnico di adsensio / sugkata/qhsij risale allo stoicismo, come anche probabilmente il conio del<br />

sostantivo sugkata/qhsij. Per attenuare l'anacronismo dell'affermazione ciceroniana si veda l'uso del verbo<br />

sugkati/qhmi “esser d'accordo” in Plato, Gorgia 501c (con do/ca come complemento oggetto); Arist. Top. III,<br />

1, 116a11.<br />

379 v. Plato, Meno 97c; Rep. V, 477 b; VII, 534 a.<br />

166


l'opinione invece è il frutto di un'adsensio data ad un'impressione non catalettica,<br />

dunque si avvicina pericolosamente all'errore (v. Ac.libri I, 41: “...sin aliter<br />

inscientiam nominabat; ex qua esisteret etiam opinio, quae esset imbecilla et cum<br />

falso incognitoque communis”; Sext. Emp., Adv.math. VII, 151-157). La<br />

questione diventa particolarmente rilevante quando il soggetto preso in<br />

considerazione è il saggio: secondo gli stoici il saggio è infallibile, non cadrà mai<br />

in errore, dunque non formulerà mai opinioni (v. Luc. 59: “opinaturum id est<br />

peccaturum esse sapientem”). L'argomentazione scettica di Cicerone arriva allora<br />

a spingere l'interlocutore nello spazio ristretto di un dilemma: Luc. 68: “Sin autem<br />

omnino nihil esse quod percipi possit a me sumpsero et quod tu mihi das<br />

accepero, sapientem nihil opinari, effectum illud erit, sapientem adsensus omnes<br />

cohibiturum, ut videndum tibi sit idne malis an aliquid opinaturum esse<br />

sapientem. Neutrum, inquies, illorum”.<br />

L'uso di in primis è evidentemente polemico. Antioco viene presentato in questo<br />

modo come il campione nel dibattito contemporaneo di una posizione propria<br />

dello stoicismo, tracciando così la linea di una tattica di delegittimazione<br />

dell'identità academica del filosofo.<br />

– politissimum et acutissimum omnium nostrae memoriae philosophorum:<br />

il giudizio qui espresso da Cicerone è particolarmente lusinghiero e ci sono<br />

ragioni per pensare che non si tratti soltanto di una captatio benevolentiae o di un<br />

modo capzioso di combinare lode e biasimo al fine di rendere la componente<br />

critica del testo più autorevole 380 .<br />

Elementi di elogio della statura filosofica e umana di Antioco sono abbondanti nei<br />

testi ciceroniani: cfr. Brut. 315: “cum Antiocho veteris Academiae nobilissimo ac<br />

prudentissimo philosopho...”. Luc. 4: “Cum autem e philosophis ingenio<br />

scientiaque putaretur Antiochus Philonis auditor excellere (...)”; Luc, 63: “nec<br />

mirum nam numquam arbitror contra Academiam dictum esse subtilius”; Luc. 69:<br />

“Quamvis igitur fuerit acutus, ut fuit, tamen inconstantia levatur auctoritas”; cfr.<br />

Fin. V, 75: “sed haec a Antiocho, familiari nostro, dicuntur multo melius et fortius<br />

quam a Stasea dicebantur”;<br />

A distanza di un cinquantennio dalla sua frequentazione diretta di Antioco,<br />

Cicerone si preoccupa di fornire un ritratto adeguato della statura filosofica del<br />

maestro. Si aggiunge allora un nuovo elemento all'inquadramento del testo degli<br />

380 v. Plutachus, De Herod. malignitate 856 d-e.<br />

167


Academica. L'intento non è semplicemente polemico. Cicerone riconosce di aver<br />

trovato in Antioco un degno interlocutore. L'operazione storiografica e filosofica<br />

di Antioco ha probabilmente motivato Cicerone, più di quanto egli ammetta, a<br />

prendere la parola prima che lo scetticismo academico si spengesse del tutto nel<br />

silenzio. Inoltre attraverso l'illustrazione delle posizioni di Antioco, Cicerone<br />

riesce a recuperare due secoli circa di dibattito filosofico ed offrire così, al<br />

pubblico romano, un'introduzione completa alla filosofia ellenistica nelle sue varie<br />

stratificazioni.<br />

– quo tantem modo sit eius Academiae cuius esse se profiteatur: l'attacco di<br />

Cicerone mette in dubbio la legittimità dell'affiliazione filosofica di Antioco allo<br />

scopo di ribadire la sua vicinanza con le dottrine stoiche. Cfr. germanissimus<br />

Stoicus in T. 39 = Luc. 131-132; cfr. Luc. 137: “sed ille noster est plane ut supra<br />

dixi Stoicus perpauca balbutiens”.<br />

In particolare, in questo passaggio, si intende contestare il riferimento<br />

all'Academia antica, a cui Antioco, in prospettiva anti-scettica, dichiarava di<br />

rifarsi come alla versione più autorevole del platonismo.<br />

Cfr. Luc. 70: “Unde autem subito vetus Academia revocata est? Nominis<br />

dignitatem videtur, cum a re ipsa descisceret, retinere voluisse, quod erant qui<br />

illum gloriae causa facere dicerent, sperare etiam fore ut i qui se sequerentur<br />

Antiochii vocarentur; mihi autem magis videtur non potuisse sustinere concursum<br />

omnium philosophorum”.<br />

Cfr. Ac.libri I, 13: “Quid ergo, imquam, Antiocho id magis licuerit nostro<br />

familiari, remigrare in domum veterem a nova, quam nobis in novam a vetere?”.<br />

Cfr. Brut. 315.<br />

Il tono provocatorio della prosa ciceroniana arriva persino a chiamare Antioco<br />

“adstipulator” degli stoici (Luc. 67). Il termine ricorre un'unica volta negli scritti<br />

filosofici ciceroniani e gioca verosimilmente sul potenziale oscillamento di<br />

significato, dal più tecnico di 'garante' al più filosoficamente compromettente di<br />

'seguace', v. Merguet (1987 3 ), vol. I, p. 247. È poco probabile però che gli stoici<br />

condividessero l'opinione di Cicerone, v. Luc. 115: “Diodoto quid faciam Stoico,<br />

(...) qui ista Antiochea contemnit” 381 .<br />

È molto probabile del resto che Antioco impiegasse per designare la sua posizione<br />

381 Cfr. Fin. IV, 80, dove la stringata risposta del personaggio di Catone al discorso di Cicerone a proposito<br />

dell'accordo di stoici e 'antiqui' sul fondo delle cose è : « Sed memento te, quae nos sentiamus, omnia<br />

probare, nisi quod verbis aliter utamur, mihi autem vestrorum nihil probari ».<br />

168


filosofica l'appellativo di seguace dell' 'antica Academia'. v. Brut. 315: “cum<br />

Antiocho veteris Academiae nobilissimo ac prudentissimo philosopho...”. Ac.libri<br />

I, 7: “si vero Academiam veterem persequemur, quam nos ut scis probamus, quam<br />

erit illa acute explicanda nobis, quam argute quam obscure etiam contra Stoicos<br />

disserendum”. Per uno studio dell'uso della terminologia relativa alla vetus<br />

academia in Cicerone come anche nelle altre fonti v. Glucker (1978), p. 101-112<br />

ss. Si nota che la defezione di Antioco dallo scetticismo academico veniva<br />

giustificata in alcuni contesti come un ritorno all'antica Academia. Sembrerebbe<br />

anche che il gruppo di discepoli, riuniti intorno ad Antioco, adottasse la<br />

nomenclatura 'antica Academia' per designare il proprio gruppo. Tuttavia non è da<br />

escludere che tale abitudine si sia consolidata nelle fonti successivamente, per<br />

distinguere chiaramente gli esiti dell'insegnamento di Antioco da quelli<br />

dell'Academia scettica. L'identità generalmente 'academica' – e dunque di<br />

conseguenza anche platonica – sembrerebbe dunque essere stata oggetto di un<br />

contenzioso all'epoca dell'attività filosofica di Antioco. Si noterà allora che il<br />

riferimento all'istanza dell' 'Academia antica' ha come scopo principale quello di<br />

legittimare un approccio diverso rispetto all'impostazione dominante fino a Filone<br />

ed Antioco. In assenza di un uso invalso di aggettivi come 'scettico' vs<br />

'dogmatico', la differenziazione tra i due approcci divergenti si attua attraverso<br />

l'uso di 'nuovo' e 'vecchio', con l'effetto paradossale che, al fine di trovare una<br />

legittimazione 'storica', l'interpretazione contemporanea di Antioco si presenta<br />

come 'vecchia', mentre una parte consistente della storia condivisa della scuola<br />

academica viene etichettata come 'nuova', nell'accezione di 'non originaria',<br />

'diversa', 'non pienamente legittima'.<br />

Nel passaggio in oggetto rimane sottinteso a quale Academia si stia facendo<br />

riferimento, se alla antica o alla nuova; il che è perfettamente coerente con la<br />

concezione unitarista della storia dell'Academia difesa da Cicerone, per cui non<br />

esistono due Academie, una 'dogmatica' e una 'scettica', ma una sola (Ac.libri I,<br />

13). L'uso eventuale della terminologia vetus Academia, nova Academia<br />

rappresenta nel testo di Cicerone una concessione fatta all'interlocutore<br />

nell'ambito del dialogo (Ac.libri I, 46: “sed tamen illa quam exposuisti vetus, haec<br />

nova nominetur”). In questo caso è chiaro che Antioco non possa più dirsi<br />

membro dell'Academia come l'hanno intesa Arcesilao e Carneade, ma la critica di<br />

Cicerone intende fare un ulteriore passo, ovvero mettere in dubbio che ci sia mai<br />

stata una fase dell'Academia compatibile con un'epistemologia dogmatica.<br />

169


Nella letteratura posteriore che ripercorre le varie tappe della storia dell'Academia<br />

vediamo affermarsi una suddivisione in 3 o 5 fasi: v. Sext. Emp. Hyp. Pyrrh I, 220<br />

= T. 26; cfr. Eusebius, Praep. Evang. XIV, 4, 16 = T. 33; DL I, 19 = T. 2, per cui<br />

alla fase degli immediati successori di Platone, succede una 'seconda' fase, anche<br />

denominata come 'media' 382 , inaugurata da Arcesilao, una 'terza' fase, anche<br />

denominata come 'nuova', inaugurata da Carneade, a cui eventualmente fanno<br />

seguito anche una 'quarta' e una 'quinta' fase rispettivamente coincidenti con gli<br />

insegnamenti di Filone di Larissa (e Carmada) e Antioco d'Ascalona. Nel testo di<br />

Cicerone questa complessa articolazione è invece assente. Non soltanto Cicerone<br />

si mostra riluttante nell'accogliere una distinzione terminologica tra le due fasi<br />

della storia dell'istanza academica, che qualifichi inequivocabilmente i contributi<br />

di Arcesilao e Carneade come 'innovazioni', ma è evidente che l'uso di espressioni<br />

come 'e media Academia' (v. Part. Or. 139; cfr. Ad. Fam. IX, 8, 1; Orator 11) non<br />

designa nel suo testo una fase distinta, quanto piuttosto il cuore dell'insegnamento<br />

academico, da cui Cicerone dichiara provenire non solo la sua formazione<br />

filosofica, ma anche quella retorica (v. Orator 12), v. Lévy (1980), pp. 260-264.<br />

– horum neutrum ante Zenonem magno opere defensum est: la genesi<br />

delle due questioni in oggetto – 1) se la impressione catalettica sia vera in un<br />

modo tale che non potrebbe essere falsa e 2) se il saggio formulerà delle opinioni<br />

– viene ricollegata alle speculazioni di Zenone. Retrodatarle nella storia<br />

dell'Academia antica non sarebbe legittimo. Pertanto Antioco non può avvalersi<br />

dell'autorità degli antichi filosofi in questo ambito. Questa precisazione temporale,<br />

su ciò che è venuto prima e ciò che è venuto dopo, è particolarmente rilevante<br />

nella misura in cui intende contestare nei suoi principi di base l'operazione<br />

storiografica di Antioco: non è legittimo ricercare l'appoggio dottrinale degli<br />

antichi predecessori per domande formulate solo successivamente in un contesto<br />

filosofico differente. Si tratta in ultima istanza di una strategia polemica per<br />

contestare in generale l'interpretazione 'dogmatica' della tradizione platonica da<br />

parte di Antioco. Tuttavia è doveroso notare che di fatto in tutto il discorso di<br />

Lucullo – nella forma in cui ci è arrivato – il nome degli antichi academici o dei<br />

peripatetici non viene mai fatto. Nel contestare lo 'scetticismo' academico,<br />

382 v. Lévy (2005), pp. 54-60, dove si reperisce in Philod., Acad.Hist. col. XXI, 36-42, la prima occorrenza degli<br />

aggettivi 'me/sa' e 'new/tera', per designare le diverse fase della storia dell'istanza academica. Si noti che in<br />

questo contesto però 'media' designa la fase inaugurata da Arcesilao, mentre 'nuova' la breve parentesi storica<br />

rappresentata dalla posizione di Lacide, che sembrerebbe aver voluto conciliare l'impostazione di Arcesilao<br />

con quella della fase più antica dell'istanza academica.<br />

170


Lucullo-Antioco difende un'interpretazione globale della tradizione socratico-<br />

platonica in chiave dogmatica (v. Luc. 15: “Quorum [sc. qui negant quicquam<br />

sciri aut percipi posse] e numero tollendum est et Plato et Socrates, alter quia<br />

reliquit perfectissimam disciplinam, (...); Socrates autem de se ipse detrahens in<br />

disputatione plus tribuebat is quos volebat refellere (...)”), senza però impiegare<br />

alcun riferimento autoritativo nei dettagli dell'argomentazione a difesa del criterio<br />

della verità.<br />

– utrumque verum puto: Cicerone conclude il passaggio con una nota<br />

altamente provocatoria. Dopo aver argomentato con forza a favore<br />

dell'indistinguibilità tra impressioni vere e false (a)parallaci/a, v. Luc. 83-84; cfr.<br />

Sext. Emp., Adv.Math. VII, 402-410), dichiara di ritenere vere le due tesi fin qui<br />

esaminate. Non si tratta però di un cedimento di Cicerone nei confronti di una<br />

prospettiva dogmatica. Ci troviamo piuttosto di fronte a uno di quei momenti in<br />

cui un academico “posa come stoico al fine di confondere lo stoicismo”, o meglio,<br />

in cui un academico argomenta partendo dalle tesi dell'avversario, per dedurne<br />

conclusioni radicalmente opposte. Questa reductio ad absurdum tipicamente<br />

academica risale ad Arcesilao e Carneade; per descriverla si è parlato di 'stoicismo<br />

scettico nella nuova Academia' 383 e di un uso di argomenti (puramente) ad<br />

hominem per confutare le tesi dell'avversario stoico.<br />

A questa lettura esclusivamente dialettica dello scetticismo di Arcesilao e<br />

Carneade si oppone un'interpretazione non esclusivamente dialettica delle<br />

argomentazioni riportate da Cicerone e Sesto Empirico. Il processo dialettico<br />

andrebbe letto in funzione di un risultato diverso dal semplice smascheramento<br />

delle contraddizioni dell'avversario. L'impossibilità di comprendere qualcosa<br />

come certo (a)katalhyi/a) lascia spazio nello scetticismo ciceroniano alla ricerca<br />

dell'eulogon (v. Arcesilao) 384 o del pithanon (v. Carneade) 385 , e dunque alla<br />

costruzione del discorso probabile e veri simile.<br />

Si dirà allora che, nel riprendere contro Antioco le argomentazioni academiche,<br />

Cicerone ritiene vera la tesi secondo cui “una impressione catalettica è tale da<br />

esser vera in un modo tale che non potrebbe esser falsa”, nel senso che accetta<br />

questa tesi come premessa di un ragionamento che ha come conclusione che<br />

383 v. Couissin (1929); cfr. Striker (1997), p. 257.<br />

384 v. Sext.Emp., Adv.Math. VII, 158 ; Striker (1980).<br />

385 v. T. 36 = De orat. III, 67 : « contra is quod quisque se sentiret dixisset disputare », n. 316.<br />

171


B)<br />

“niente può essere compreso come certo”.<br />

Inoltre ritiene vera la tesi che “il saggio non formulerà mai opinioni” solo in<br />

congiunzione con la premessa scettica che “non è possibile comprendere niente<br />

come certo”, ottenendo dunque come conclusione sillogistica che “il saggio<br />

sospenderà sempre l'assenso” (cfr. Sext.Emp., Adv.math. VII, 155: “(...) πάντων<br />

δὲ ὄντων ἀκαταλήπτων ἀκολουθήσει καὶ κατὰ τοὺς Στωικοὺς ἐπέχειν τὸν<br />

σοφόν”; v. Luc. 68: “Sin autem omnino nihil esse quod percipi possit a me<br />

sumpsero et quod tu mihi das accepero, sapientem adsensus omnes cohibiturum”;<br />

Luc. 78: “illud certe, opinatione et perceptione sublata, sequitur omnium<br />

adsensionum retentio, ut si ostendero nihil posse percipi tu concedas numquam<br />

adsensurum esse”). Cfr. Luc. 111: “...Id ita esset, si nos verum omnino tolleremus.<br />

Non facimus; nam tam vera quam falsa cernimus. Sed probandi species est;<br />

percipiendi signum nullum habemus”.<br />

La verità riconosciuta da Cicerone e i suoi consimili è la validità<br />

dell'argomentazione, non, per quanto ci è dato di comprendere, la verità<br />

dogmatica di una dottrina.<br />

L'impiego del nome di Polemone in coppia con quello di Senocrate, affiancato da quello di<br />

Aristotele e Teofrasto, costituisce in questo contesto un'acuta provocazione di Cicerone nei<br />

confronti dell'operazione storiografica di Antioco. Non è difficile, infatti, provare l'assoluta<br />

estraneità dei filosofi menzionati rispetto alle questioni epistemologiche diffusamente trattate<br />

nel testo; ciò corrisponde a una delegittimazione del ricorso all'autorità degli antichi filosofi<br />

da parte di Antioco. La strategia di Cicerone è molto semplice: è sufficiente delimitare<br />

temporalmente il contesto filosofico delle questioni trattate, per rendere fuori luogo la<br />

menzione del nome di Aristotele, Teofrasto, Senocrate o Polemone. Il contesto, come si<br />

evince chiaramente dal testo, è quello degli scontri tra “dogmatici” e “scettici” in seguito<br />

all'apparizione sulla scena della teoria epistemologica stoica. Le questioni trattate<br />

appartengono dunque ad un periodo storico immediatamente posteriore rispetto a quello in cui<br />

l'Academia antica si colloca e solo a costo di un'anacronismo evidente potrebbero venir<br />

retrodatate. Dell'autorità di chi allora può avvalersi Antioco?<br />

Dopo aver risposto alle accuse di Lucullo-Antioco ad una ad una, Cicerone passa dalla<br />

difensiva all'attacco e sposta il discorso su un piano più generale. È discutibile fino a che<br />

172


punto l'appunto 'storico-metodologico' di Cicerone sia pertinente. Si può notare infatti che,<br />

diversamente da quanto succede nelle dispute etiche, l'opinione degli antichi filosofi non<br />

viene invocata a sostegno di nessuno dei dettagli della posizione assunta da Antioco e<br />

riportata da Lucullo. Tuttavia la critica di Cicerone ai 'riferimenti autoritativi' di Antioco può<br />

esser considerata pertinente nella misura in cui la questione dell'infallibilità della conoscenza<br />

si riflette direttamente sul rapporto che il filosofo intrattiene più in generale con l'auctoritas.<br />

Lo schieramento di Antioco a favore del dogmatismo veniva infatti giustificato come un<br />

ritorno alla genuina tradizione academica. Contestare la validità del 'riferimento autoritativo'<br />

di Antioco significa dunque per Cicerone minare le pretese veridiche del suo dogmatismo. Il<br />

risultato di questa strategia argomentativa è quello di allontanare Antioco dalla tradizione<br />

academica per spingerlo tra le braccia di un riluttante stoicismo: privarlo della tradizione a cui<br />

intendeva rifarsi, per incollarlo ad un'autorità che invece non gli interessava realmente far<br />

propria, se non come matrice terminologica o interlocutore filosofico pressoché obbligato.<br />

Lo stesso succede in altri passaggi poco oltre: Cicerone scandaglia autonomamente le tesi<br />

note dei filosofi vetero-academici, per differenziare con precisione le loro posizioni da quelle<br />

dello stoicismo e mettere dunque radicalmente in dubbio il principio storiografico promosso<br />

da Antioco, secondo il quale lo stoicismo deriverebbe legittimamente dal platonismo per<br />

l'intermediario degli insegnamenti di Polemone. La distanza tra i filosofi vetero-academici e<br />

lo stoicismo viene affermata in particolare in merito a:<br />

1) la questione dell'imperturbabilità del saggio: v. Luc. 135: “Sed quaero quando ista<br />

fuerint ab Academia vetere decreta, ut animum sapientis commoveri et conturbari negarent” ;<br />

2) la questione delle prerogative paradossali del saggio, unico re, unico ricco, unico<br />

dotato di bellezza etc. : v. Luc. 136: “sed ubi Xenocrates, ubi Aristoteles ista tetigit? Illi<br />

umquam dicerent sapientes solos reges solo divites solos formosos;”;<br />

3) la questione più generale del rapporto del filosofo con la società che lo circonda: v.<br />

Luc. 137: “Aristoteles aut Xenocrates, quos Antiochus sequi volebat, non dubitavisset quin et<br />

praetor illi esset et Roma urbs et eam civitas incoleret; sed ille noster est plane ut supra dixit<br />

Stoicus perpauca balbutiens”. Quest'ultima questione è come si noterà un diretto corollario<br />

della precedente, ma risente allo stesso modo del contesto epistemologico del testo nel suo<br />

insieme. L'argomentazione implicita del testo infatti suggerisce che, se solo il saggio (a buon<br />

diritto) detiene cariche politiche (“solo il saggio è re”), ciò significa che si deve dubitare che<br />

le cariche politiche effettivamente riscontrabili nella società, poiché conferite in base a criteri<br />

che non sono primariamente quella della saggezza, siano 'reali' o 'legittime'. La tesi stoica si<br />

trasforma allora in una forma di 'scetticismo' eversivo, o meglio, il rigorismo etico stoico, che<br />

173


fa da contropartita al suo dogmatismo epistemologico, viene presentato come in<br />

contraddizione con la realtà (politica e sociale) circostante, che invece la sicurezza stoica nella<br />

possibilità della verità si vanta di 'afferrare' pienamente.<br />

Cicerone contesta, con esiti critici apparentemente molti originali, l'impiego dell'autorità degli<br />

antichi filosofi in un ambito connotato dalle tesi proprie dello stoicismo, siano queste<br />

l'imperturbabilità del saggio o più in generale i connotati paradossali della figura del saggio<br />

stoico. La separazione dottrinale che Cicerone stabilisce tra le due tradizioni finisce inoltre<br />

per mettere in luce alcuni degli esiti contraddittori del sistema stoico, a proposito dei quali il<br />

testo tiene a sottolineare che la tradizione vetero-academica e peripatetica ne risulta del tutto<br />

priva.<br />

Se è vero che Cicerone rifiuta l'interpretazione dogmatica degli antichi filosofi, non<br />

sembrerebbe tuttavia del tutto corretto pensare che egli argomenti a favore di una lettura di<br />

tipo 'probabilista' nel senso poi (presumibilmente) esplicitato da Carneade (v. Glucker (1978),<br />

p. 399). Se non a costo di vederlo cadere nello stesso anacronismo in cui intrappola il suo<br />

avversario. L'intento principale di Cicerone in questo contesto sembra piuttosto quello di<br />

voler sanare la guerra intestina tra academici, spingendo provocatoriamente Antioco e i suoi a<br />

dichiararsi 'stoici', ovvero estranei alla tradizione academica, nel momento in cui anche il<br />

'riferimento autoritativo' degli antichi è venuto meno.<br />

T. 39 : CICERO, ACADEMICA PRIORA II – LUCULLUS 42, 131-132 386 .<br />

Honeste autem vivere fruentem rebus is quas primas homini natura conciliet et vetus<br />

Academia censuit, ut indicant scripta Polemonis quem Antiochus probat maxime, et<br />

Aristoteles eiusque amici huc proxime videntur accedere. Introducebat etiam Carneades,<br />

non quo probaret sed ut opponeret Stoicis, summum bonum esse frui rebus is quas primas<br />

natura conciliavisset. Honeste autem vivere, quod ducatur a conciliatione naturae, Zeno<br />

statuit finem esse bonorum, qui inventor et princeps Stoicorum fuit.<br />

Iam illud perspicuum est, omnibus his finibus bonorum quos exposui malorum fines esse contrarios. Ad vos<br />

nunc refero quem sequar; modo ne quis illud tam ineruditum absurdumque respondeat, 'quemlibet, modo<br />

386 sigla codicum in O. Plasberg, M. Tilli Ciceronis Scripta quae manserunt omnia, fasc. 42: Academicorum<br />

reliquiae cum Lucullo, Teubner, Stuttgart (I ed. 1922) 1980, xxvi-xxviii.<br />

174


aliquem'. Nihil potest dici inconsideratius. Cupio sequi Stoicos. Licetne – omitto per Aristotelem, meo iudicio<br />

in philosophia prope singularem – per ipsum Antiochum, qui appellabatur Academicus, erat quidem si<br />

perpauca mutavisset, germanissimus Stoicus.<br />

Erit igitur res iam in discrimine; nam aut Stoicus constituatur sapiens aut veteris<br />

Academiae - utrumque non potest; est enim inter eos non de terminis, sed de tota<br />

possessione contentio; nam omnis ratio vitae definitione summi boni continetur, de qua qui<br />

dissident de omni vitae ratione dissident; non potest igitur uterque esse sapiens, quoniam<br />

tanto opere dissentiunt, sed alter. Si Polemonius, peccat Stoicus rei falsae adsentiens (vos<br />

quidem nihil esse dicitis a sapiente tam alienum [esse]); sin vera sunt Zenonis, eadem in<br />

veteres Academicos Peripateticosque dicenda.<br />

Cfr. Polemo fr. 125 e 138 Gigante; Antiochus F 5 Mette.<br />

3 huc Urs. : nunc AB || 5 honesta autem videre NB 1 : honesta: A 1 B 1 : honestum A 2 B 2 || videtur AB 2 || 16 nos N :<br />

num AB 2 : non B 1 : nam vos Dav.<br />

Traduzione<br />

D'altronde A) vivere in modo moralmente degno di rispetto, traendo vantaggio dalle<br />

cose che per prime la natura raccomanda all'uomo, da una parte, l'Academia antica<br />

ritenne che fosse il fine, come indicano gli scritti di Polemone, che Antioco approva in<br />

modo particolare, dall'altra, Aristotele e i suoi consociati sembrano avvicinarsi molto<br />

precisamente a questa posizione. a) Anche Carneade proponeva - non perché lo<br />

approvasse ma per opporsi agli Stoici - che il sommo bene fosse trarre vantaggio dalle<br />

cose che per prime la natura raccomandò. B) Zenone invece, che fu il fondatore e il<br />

massimo esponente degli Stoici, stabilì che il fine dei beni fosse vivere in modo<br />

moralmente degno di rispetto, il che deriva dalla raccomandazione della natura.<br />

È evidente d'altra parte che per ogni per ogni fine dei beni che ho esposto il fine dei mali è il contrario. A<br />

voi allora riporto la questione “chi posso seguire?” a patto che nessuno risponda in quel modo ignorante e<br />

assurdo: “chi ti pare, basta che sia qualcuno”: non si potrebbe dire nulla di più sconsiderato (avventato,<br />

insensato). Desidero seguire gli Stoici. Forse che mi è permesso – non dico da Aristotele, che a mio giudizio<br />

è del tutto speciale in filosofia – ma dallo stesso Antioco, che veniva chiamato academico, ma era un<br />

verissimo stoico o lo sarebbe stato se avesse fatto qualche piccola modifica.<br />

La questione dunque sarà ora posta sotto esame: il saggio si definisce o al modo stoico o<br />

al modo dell'Academia antica; entrambi non è possibile; sussiste infatti tra di loro un<br />

conflitto concernente non i termini di confine ma tutto il dominio; perché tutto il<br />

fondamento della vita è contenuto nella definizione del sommo bene, chi diverge a<br />

175


proposito della quale, diverge su tutto il fondamento della vita; non possono allora essere<br />

entrambi saggi, visto che sono in tanto grande disaccordo, ma o l'uno o l'altro : se lo è il<br />

polemoniano, si sbaglia lo stoico a dare l'assenso a una cosa falsa (e anche voi dite che<br />

non c'è niente di più estraneo al saggio di questo); se sono invece vere le definizioni di<br />

Zenone, le stesse cose bisogna dirle contro gli academici antichi e i peripatetici.<br />

Contesto:<br />

Il passaggio in oggetto è tratto da un'esposizione sulla dissensio philosophorum in ambito<br />

etico che segue l'andamento della Carneadia divisio 387 . Il discorso di Cicerone (Luc. 64-147)<br />

intende offrire un'ulteriore risposta al discorso antiscettico di matrice antiochea pronunciato<br />

dal personaggio di Lucullo (13-62), frantumando in una varietà di posizioni il panorama<br />

dogmatico delle opinioni sostenute in ambito filosofico. Nonostante il nodo centrale del testo<br />

sia la questione epistemologica della phantasia katalēptikē, la tattica argomentativa<br />

ciceroniana si avvale in ultima istanza degli argomenti tratti dalla diaphonia filosofica prima<br />

nell'ambito della fisica (116-128), poi in quello dell'etica (129-141; 129: "qua de re est igitur<br />

inter summos viros maior dissensio?"), infine in quello della logica (142-147) 388 ,<br />

ricongiungendosi così alla questione principale del dialogo prima di avviarsi alle conclusioni.<br />

Così facendo, si intende riequilibrare il rapporto di forza imposto dal discorso di Lucullo, il<br />

quale, presentando la dottrina antiochea come una forma di consensus dogmatico, capace di<br />

superare i particolarismi dottrinali, esigeva l'assenso di Cicerone come la reazione più<br />

consona. Dal canto suo, l'argomentazione di Cicerone, tesa invece alla riqualificazione<br />

filosofica dello scetticismo, consiste, da un punto di vista generale, nel contestare la<br />

ragionevolezza del dogmatismo tout court e, in particolare, la legittimità filosofica della<br />

dottrina di Antioco, una volta che si sia considerato da quante prospettive diverse i filosofi si<br />

arrogano il possesso della verità (v. 147: "qui de bonis contrariisque rebus tanto opere<br />

discrepant ut, cum plus uno verum esse non possit, iacere necesse sit tot tam nobiles<br />

disciplinas").<br />

387 Classificazione strutturata di opinioni concernenti il sommo bene con forti connotati dialettici, attribuita<br />

esplicitamente a Carneade e riadattata da Antioco (v. Fin. V, 16: “Quod quoniam in quo sit magna dissensio<br />

est, Carneadia nobis adhibenda divisio est, qua noster Antiochus libenter uti solet”). L'impiego della divisio<br />

ha un ruolo fondamentale all'interno delle disquisizioni etiche dei testi ciceroniani: Fin. II 11, 34-35; Fin. V<br />

6, 16- 8, 22; Tusc. V, 30, 84; v. Lévy (1992a), pp. 337-376, in part. v. p. 338: "la doxographie...dans ses très<br />

diverses modalité et indiscutablement l'instrument privilégié de la critique du dogmatisme et du dépassement<br />

de celui-ci."; Algra (1997), pp. 120-138; Lévy (1999), pp. 35-51; Annas (2007), pp. 189-223. L'uso del<br />

termine 'dialettica' in questo contesto non indica un approccio meramente 'polemico' o 'critico' (ovvero<br />

distruttivo), ma anche un contributo positivo alla ricerca filosofica.<br />

388 Sulla ricca e complessa questione dell'ordine espositivo delle tre parti della filosofia, v. Michel (1968), p.<br />

115, n. 9; si noti che la sequenza fisica, etica, logica si ritrova parimenti in Tusc. V, 68.<br />

176


A proposito di questa versione della Carneadia divisio (129-131) 389 si noterà che attraverso la<br />

distinzione tra sententiae relictae (129) e sententiae defensae (130) 390 si fornisce la gamma<br />

completa delle posizioni filosofiche sostenibili in ambito etico, undici in tutto; al di là<br />

dell'intento olistico della divisio, marchio distintivo dell'impegno teoretico di Carneade, si<br />

delinea qui un'interessante mappa storiografico-dialettica, al cui centro si trova una<br />

discussione critica dei fondamenti storici e teorici dello stoicismo di Zenone di Cizio. Nella<br />

prima parte della divisio 391 , Zenone si ritrova infatti dialetticamente assediato da Platone e da<br />

Pirrone; le sententiae relictae sono infatti fondamentalmente riducibili ad una storia dei<br />

discepoli dissidenti di Zenone, Erillo da una parte e Aristone dall'altra: il primo spinge lo<br />

stoicismo in direzione dell'intellettualismo platonico 392 , il secondo in direzione<br />

dell'indifferentismo pirroniano. La seconda parte della divisio invece mette in campo il fronte<br />

edonista di Aristippo e Epicuro, corredato di varianti miste (elementi di voluptas - o ad essa<br />

riconducibili - misti a honestas), che presentano la medesima struttura composita<br />

dell'opinione attribuita all'Academia antica e presentata in apertura del passaggio qui in<br />

esame. Sempre centrale anche in questa seconda parte è l'attenzione rivolta ai rapporti<br />

discepolo-maestro o di 'affiliazione' filosofica (131: "Aristippus qui Socratem audierat";<br />

"Hieronymus...Diodorus, ambo hi Peripatetici"), in quanto capaci di creare un<br />

concatenamento storiografico tra l'edonismo e Socrate 393 o tra le posizioni miste di Ieronimo e<br />

Diodoro e il Peripato 394 ; si tratta dunque di un esempio di storiografia a scopi dialettici in cui<br />

389 Rinuncio a prendere posizione in merito alla questione sollevata dalla critica su quale sia la versione della<br />

Carneadia divisio presente nei testi ciceroniani che più accuratamente rispecchia l'originale carneadeo - v.<br />

Glucker (1978), p. 57; Algra (1997), p. 121 – dal momento che ciò che viene ormai riconosciuto come<br />

caratteristico di tale strumento dialettico è la sua duttilità e la capacità di Cicerone di adattarlo a scopi diversi,<br />

calibrati su contesti dialettici potenzialmente variabili.<br />

390 Sul senso di questa distinzione v. Lévy (1992a) pp. 364-372. Inoltre, ponendo in relazione la base<br />

naturalistica della divisio esplicitamente attribuita a Carneade in Fin. V. 16-18 (v. T. 50), con il fatto che la<br />

discriminante tra sententiae relictae e sententiae defensae è propriamente l'inclusione o meno delle<br />

inclinazioni naturali dell'uomo nella riflessione etica, appare verosimile che la distinzione stessa non sia<br />

affatto estranea allo spirito originario della Carneadia divisio (cfr. Lévy (1992a), p. 372-373).<br />

391 Diversamente da Giusta (1964-1967), vol. I, pp. 221 sqq., ripreso da Michel (1968), p. 116, ritengo che<br />

l'intero passaggio sia ispirato ai metodi della Carneadia divisio, impiegata da Cicerone in modo sensibile<br />

rispetto ai fini argomentativi del testo; cfr. Algra (1997) p. 128; n. 55; pp. 129-130.<br />

392 Luc. 129: "qui cum Zenonis auditor esset, vides quantum ab eo dissentiret et quam non multum a Platone".<br />

la formula del fine di Erillo, discepolo di Zenone stoico, viene accostata a Platone; la tradizione eleaticomegarica<br />

viene posta dapprima in relazione a Socrate e in seguito anche a Platone ("hi quoque multa a<br />

Platone" con ellipse del verbo duxerunt, stando a Draeger (1874), p. 177) ; infine la formula del fine dei<br />

seguaci di Menedemo con il suo riferimento all'attività della mens si pone evidentemente sulla medesima<br />

linea intellettuale, che mette Erillo in rapporto con Platone; v. Ioppolo (1985).<br />

393 v. Lévy (1992a), p. 341: "Prenons le cas extrême celui d'Épicure, dont on discerne mal a priori quel lien il<br />

aurait pu avoir avec la tradition platonicienne. Or il nous est présenté comme l'un des représentants de la<br />

morale du plaisir, à propos de laquelle il est souligné que son initiateur (princeps) fut Aristippe, disciple de<br />

Socrate. Autrement dit, même lorsque le philosophe se situe à l'opposé du platonisme, il s'agit de montrer<br />

qu'il en est d'une certaine manière issu."<br />

394 Non ritengo che la connotazione di Ieronimo e Diodoro come peripatetici sia equivalente a un'affiliazione<br />

dei due filosofi alla cosidetta 'antica Academia', così come la concepiva Antioco, composta dai discepoli di<br />

Platone di prima e di seconda generazione. Vi sono infatti tracce di una storia della 'degenerazione del<br />

Peripato' verosimilmente impiegata da Antioco (v. Fin. V, 13-14), per cui è ragionevole pensare che non tutti i<br />

Peripatetici vengano messi direttamente in relazione con la fase dottrinale e filosofica della cosidetta 'antica<br />

177


il riferimento alle linee principali della tradizione filosofica, congiunto alla breve storia dei<br />

discepoli dissidenti, ha il duplice ruolo di relegare lo stoicismo in una posizione di relativo<br />

isolamento rispetto alla tradizione e di additarne le fragilità teoriche interne.<br />

Proprio l'intreccio di elementi storiografici e teorici in uno strumento che si vuole dialettico e<br />

funzionale alla polemica oppositiva tra scuole filosofiche sta alla base della complessità e<br />

della raffinatezza dell'uso della divisio nei testi ciceroniani 395 . Essa permette di tracciare<br />

inaspettate genealogie filosofiche, contestare ogni pretesa di originalità teorica o ridicolizzare<br />

le presunte discrepanze in ambito dogmatico. Attraverso la Carneadia divisio Cicerone riesce<br />

in ultima istanza a riorganizzare un campo di indagine sui fondamenti teorici delle differenti<br />

tradizioni filosofiche in ambito etico.<br />

Commento:<br />

A)<br />

– Honeste autem vivere fruentem rebus eis, quas primas homini natura<br />

conciliet: honeste autem: cfr. Menedemo autem (129); Pyrrho autem (130);<br />

voluptatem autem et honestatem (130): articolazione contrastiva del passaggio<br />

dossografico diafonico.<br />

fruentem rebus – v. oltre 'frui rebus'.<br />

ea quas primas homini natura conciliet – cfr. ea quae secundum naturam sunt<br />

(Fin. IV, 15 = T. 44); ea quae primae secundum naturam esse diximus (Fin. V, 20 :<br />

Carneade); Fin. II, 33-34 (v. T. 42): "...ut ea quae prima data sint natura appetat<br />

asperneturque contraria".<br />

Academia'. Ciò non toglie che la menzione dell'affiliazione peripatetica faccia appello ad una tradizione di<br />

lungo periodo e fondamentalmente autorevole.<br />

395 v. Lévy (1992a), p. 341.<br />

178


In questo contesto il significato del sintagma ta£ (prw=ta) kata£ fu/sin 396 viene<br />

esplicitato, probabilmente per la prima volta, attraverso l'uso del verbo conciliare<br />

+ acc. dell'oggetto (della relazione) + dat. della persona, il cui soggetto<br />

grammaticale è natura. Si suppone generalmente che la perifrasi sia da intendersi<br />

come una traduzione latina del concetto di oi)kei/wsij 397 , il quale in forma<br />

sostantiva si trova poco oltre, come anche altrove nel corpus ciceroniano, espresso<br />

dal neologismo conciliatio 398 . Hartung (1970), p. 143, insiste sulla discrepanza tra<br />

il ruolo implicito o impersonale della natura nell'uso greco del concetto di<br />

oi)kei/wsij 399 e il ruolo invece attivo di natura nella traduzione latina di Cicerone:<br />

un fedele parallelismo con il greco inoltre (oi)keiou=n + acc. della persona + dat.<br />

dell' oggetto della relazione) avrebbe eventualmente prodotto una frase del tipo<br />

"quibus natura hominem conciliet".<br />

Tuttavia il testo di Cicerone non è l'unico a dare un ruolo attivo alla natura nella<br />

determinazione rapporto di oi)kei/wsij dell'uomo con se stesso: cfr. D.L. VII, 85:<br />

"oi)keiou/shj au)to£ th=j fu/sewj a)p' a)rxh=j, kaqa/ fhsin o( Xru/sippoj<br />

e)n t%= prw/t% Peri£ telw=n, prw=ton oi)kei=on le/gwn ei)=nai panti£ z%/% th£n<br />

au(tou= su/stasin kai£ th£n tau/thj sunei/dhsin:" Anzi, più generalmente, nel ruolo<br />

attivo della natura (e passivo dell'uomo) è stato visto il tratto distintivo della teoria<br />

stoica dell' oi)kei/wsij, all'interno del quale l'individuo sarebbe da comprendersi<br />

nel quadro più ampio della physis universale (v. Magnaldi (1991), pp. 1-12).<br />

Tuttavia, risultano meno concludenti di quanto a prima vista possano sembrare<br />

quei procedimenti interpretativi che si fondano sulla distinzione tra il ruolo attivo,<br />

passivo o impersonale della natura all'interno della teoria dell'oi)kei/wsij 400 . In<br />

396 La paternità del concetto di ta£ prw=ta kata£ fu/sin è oggetto di controversia: v. Philippson (1932), pp. 445-<br />

450; Radice (2000), pp. 105-106; Dirlmeier (1937), pp. 50-51 ; 70-71; quest'ultimo, individuando nella<br />

tradizione peripatetica – in particolare in Teofrasto – l'origine dei principi naturalistici del discorso etico (v. il<br />

discorso dell' eu)qu£j geno/menon e dei « pueri, in quibus ut in speculis natura cernitur »), intende rendere<br />

plausibile l'ipotesi dell'origine academico-peripatica del concetto. Tuttavia si noterà che nelle fonti superstiti<br />

l'uso del concetto figura, probabilmente non per puro caso, in contesti prevalentemente polemici, che<br />

dipendono verosimilmente dagli esiti del confronto dottrinale in ambito etico tra le due istanze peripatetica e<br />

stoica. v. Appendice.<br />

397 Della vastissima bibliografia su questo concetto si veda : Philippson (1932) ; Pohlenz (1940) ; Von Fritz<br />

(1952) ; Brink (1956) ; Pembroke (1971) ; White (1979) ; Striker (1983) ; Görgemanns (1983) ; Inwood<br />

(1984) ; Engberg-Pederson (1986) ; Isnardi Parente (1989) ; Engberg-Pederson (1990) ; Magnaldi (1991) ;<br />

Radice (2000) ; Reydams-Schils (2002) ; Lee (2002) ; Bees (2004).<br />

398 v. Introduzione, p. xliv-xlv ; oltre p. 240-244.<br />

399 Hartung (1977), p. 136, 141, 143-144.<br />

400 v. Magnaldi (1991), p. 3, dove una rigida distinzione tra oi)kei/wsij peripatetica e oi)kei/wsij stoica viene<br />

fondata, tra l'altro, anche su una distinzione terminologica tra il ruolo attivo dell'animal peripatetico<br />

(conciliato con se stesso fu/sei) e il ruolo passivo dell'animal stoico (conciliato con se stesso ad opera di un<br />

agente esterno: a)po£ th=j fu/sewj): « mentre per gli Stoici chi spinge lo z%=on all'autoconservazione è un'entità<br />

diversa e superiore ad esso, per i Peripatetici, invece, è il suo stesso costitutivo modo di essere. »<br />

179


passaggi di indubbia ispirazione stoica infatti si riscontra l'uso impersonale del<br />

concetto (v. Fin. III, 17: "satis esse autem argumenti videtur quamobrem illa quae<br />

prima sunt adscita natura (fu/sei? [n.d.c.]) diligamus, quod est nemo quin, cum<br />

utrumvis liceat, aptas malit et integras omnes partes corporis quam eodem usu<br />

imminutas aut detortas habere") e, viceversa, un ruolo attivo della natura è<br />

riscontrabile in passaggi ascrivibili a una linea teorica presentata come<br />

academico-peripatetica (oltre al frammento in oggetto v. Fin. V, 24: "Omne<br />

animal se ipsum diligit ac, simul et ortum est, id agit, se ut conservet, quod hic ei<br />

primus ad omnem vitam tuendam appetitus a natura datur, se ut conservet"). Il<br />

tutto può essere certamente spiegato attraverso le dinamiche di contaminazione<br />

reciproca che inevitabilmente interessano due teorie, - ammesso che si tratti di due<br />

teorie - sviluppantesi in parallelo, l'una in opposizione all'altra (cfr. la<br />

terminologia della sospensione dell'assenso che, certamente non stoica in origine,<br />

trova un impiego in contesti d'origine stoica, in seguito all'acceso dibattito con lo<br />

scetticismo academico). Ogni connessione troppo rigida tra usi linguistici e<br />

affiliazioni filosofiche rischia allora di compromettere la comprensione<br />

dell'intricato contesto, in cui una molteplicità di istanze filosofiche si scontrano<br />

sulla questione dei fondamenti naturalistici dell'etica.<br />

Da notarsi invece a proposito di quest'apparizione del concetto di oi)kei/wsij è<br />

l'assenza di elementi qualificanti la 'riflessività/reciprocità' del rapporto di<br />

oi)kei/wsij. Quello che è uno dei nuclei semantici dell'impiego del concetto greco,<br />

riscontrabile fin dalle sue prime accennate apparizioni ancora in forma puramente<br />

aggettivale in Platone 401 , ovvero la capacità di designare il rapporto auto-riflessivo<br />

di un soggetto con ciò che gli è appropriato, non è immediatamente evidente nella<br />

traduzione latina 'conciliare', dove il rapporto di 'appropriazione' viene espresso<br />

da una relazione a tre termini: la natura, l'uomo, le prime cose 'raccomandate'. Il<br />

terzo tra questi tre elementi, ta£ (prw=ta kata£ fu/sin, costituisce l'oggetto<br />

specifico e originario dell'appropriazione 402 e non può essere identificato con<br />

l'uomo stesso: la forma plurale fa riferimento al dominio dei beni molteplici<br />

appropriati all'uomo 403 , piuttosto che alle forme di 'auto-percezione' che invece<br />

401 Plato, Lys. 221 e 2: fu/sei p$ oi)kei=oi/ e)sq' u(mi=n au)toi=j; Lys. 221 e 6; Charm. 163 c 4-6; 163 d 2-3; Phaed.<br />

96 d 2. v. Ferrari (1998).<br />

402 Radice (2000), p. 104.<br />

403 Cfr. Plato, Charm. 163 c 4-6: « fa/nai de/ ge xrh£ kai£ oi)kei=a mo/na ta£ toiau=ta h(gei=sqai au)to/n, ta£ de£<br />

blabera£ pa/nta allo/tria »; 163 d 2-3 : « ...to£n lo/gon, o(/ti ta£ oi)kei=a/ te kai£ ta£ au(tou= a)gaqa£ kaloi/hj... ».<br />

180


associamo all'uso riflessivo del concetto nello stoicismo 404 (e verosimilmente non<br />

solo nello stoicismo) 405 .<br />

Come nota Hartung (1970), p. 145-148, nei testi filosofici ciceroniani il verbo<br />

conciliare viene prima affiancato e poi sostituito dal verbo commendare, nel<br />

compito di esprimere il rapporto riflessivo di oi)kei/wsij dell'uomo con se stesso:<br />

Fin. III, 16: "placet his...simul atque natum sit animal (hinc enim est ordiendum),<br />

ipsum sibi conciliari et commendari ad se conservandum"; Fin. IV, 19: "quod<br />

omne animal ipsum sibi commendatum"; Fin. IV, 25: "nosmet ipsos commendatos<br />

esse nobis". Tuttavia non si può dire che il verbo qui in esame e il sostantivo da<br />

esso derivato cadano in disuso. Cicerone aveva già impiegato la terminologia<br />

della conciliatio nel De oratore per designare il meccanismo di comunicazione<br />

empatica tra l'oratore e il suo uditorio (De or. II, 115: "ut conciliemus eos nobis,<br />

qui audiunt"; De or. II, 182: "animosque eorum, apud quos agetur, conciliari<br />

quam maxime ad benevolentia"; cfr. Off. II, 77) e senza dubbio essa permane nel<br />

corpus ciceroniano a coprire ambiti concettuali strettamente legati al campo<br />

semantico e filosofico dell' oi)kei/wsij : [Merguet (1987 3 ), vol. I] il sostantivo<br />

conciliatio acquista un significato politico e sociale altamente rilevante per la<br />

teoria etica in ND: "inter se...(esse deos) quasi civili conciliatione et societate<br />

coniunctos" e Off. I, 149: "communem totius generis humanum conciliationem et<br />

consociationem colere, tueri, servare debemus". Similmente nell'uso verbale si<br />

ritrovano una molteplicità di elementi variamente connessi al ricchissimo campo<br />

semantico e filosofico dell'oi)kei/wsij: si veda l'elemento psicologico in Off. II, 17:<br />

"proprium hoc statuo esse virtutis, conciliare animas hominum", quello politico e<br />

sociale in De amic. 20: "quam (societatem generis humani) conciliavit ipsa<br />

natura", quello retorico in Off. II, 48: "difficile dictu est, quantopere conciliet<br />

animas comitas adfabilitasque sermonis" e Off. I, 50: "quae (ratio, oratio)<br />

docendo, communicando, disceptando, iudicando conciliat inter se homines", e<br />

infine quello politico-sociale e retorico strettamente congiunti in Off. I, 12:<br />

"eadem...natura vi rationis hominem conciliat homini et ad orationis et ad vitae<br />

societatem".<br />

404 Seneca, Ep. 121, 7: « primum sibi ipsum conciliatur animal ». cfr. D.L. VII, 85.<br />

405 Secondo Magnaldi (1991), p. 10, il versante riflessivo dell' oi)kei/wsij peripatetica sarebbe espresso in<br />

Cicerone attraverso la forma attiva se diligere (Fin. V, 24), lasciando ai soli contesti stoici il passivo<br />

conciliari e il sostantivo conciliatio.<br />

181


Volendo allora impiegare la distinzione dei due tipi di oi)kei/wsij spesso adottata<br />

dalla critica 406 , si può notare che se il verbo commendare si presta grosso modo ad<br />

esprimere la oi)kei/wsij affettiva pro£j e)auto/n, conciliare continua a coprire il<br />

campo della oi)kei/wsij selettiva pro£j tou£j e(te/rouj.<br />

L'impiego nella formula in oggetto di concetti generalmente associati con lo<br />

stoicismo (honeste vivere = kalw=j zh=n; conciliare = oi)keiou=n; res quas primas<br />

natura conciliet = ta£ prw=ta kata£ fu/sin) ha portato spesso la critica a dubitare<br />

della genuina paternità vetero-academica della formula. Più corretto sarebbe<br />

considerarla come un'interpretazione di Antioco delle dottrine degli antichi a cui si<br />

aggiunge una coloritura stoica (v. Giusta (1964-1967), vol. I, p. 85; et alii).<br />

Tuttavia, poiché tutto il discorso di Cicerone nel Lucullus tende a delegittimare<br />

l'autorità di Antioco, ci sono ragioni per pensare che Cicerone non avrebbe perso<br />

l'occasione per smascherare la retroproiezione di teorie stoiche nell'Academia<br />

antica nell'interpretazione di Antioco se la cosa fosse stata possibile. Cicerone non<br />

si fa scrupolo a denunciare l'anacronismo dell'impiego dell'autorità degli antichi<br />

filosofi nella disputa epistemologica (v. T. 38 = Luc. 113) e sulla questione<br />

dell'imperturbabilità del saggio (v. Luc. 135: "Sed quaero quando ista fuerint<br />

Academia vetere decreta, ut animum sapientis commoveri et conturbari<br />

negarent (...)"). Sarebbe dunque ragionevole aspettarsi uguale rigore critico se<br />

l'attribuzione all'Academia antica della formula qui esaminata non fosse<br />

quantomeno credibile.<br />

– et vetus Academia censuit: la frase attribuisce all'antica academia la<br />

formula del fine "honeste vivere fruentem rebus iis quas primas homini natura<br />

conciliet". Si noti che con vetus Academia si fa qui verosimilmente riferimento al<br />

gruppo composto da Speusippo, Senocrate, Polemone, Cratete e Crantore (v.<br />

Ac.libri I 34-35 = T. 41), separato da Aristotele e i peripatetici, menzionati a parte<br />

subito di seguito.<br />

Censēre: verbo tecnico della dossografia diafonica : v. Luc. 131 = T. 39:<br />

“Voluptatem autem et honestatem finem esse Callipho censuit: vacare omni<br />

406 cfr. Inwood (1983), pp. 191-201; Inwood (1984), p. 154 sg e 165; Inwood (1985), p. 185 sgg; Annas (1993),<br />

p. 260 sgg ; Alesse (2007), p. 37. La distinzione è reperibile nel testo )Hqikh£ stoixei/wsij (col. IX, 1-11, 354-<br />

355 Bastianini-Long) di Ierocle, esponente dello stoicismo più tardo, v. Isnardi Parente (1989) ; Alesse<br />

(2008).<br />

182


molestia Hieronymus: hoc idem cum honestate Diodorus: ambo hi Peripatetici".<br />

Lo si ritrova all'interno del testo degli Academica in una varietà di contesti<br />

dossografici nell'ambito non solo dell'etica [Luc. 134 (soggetto: Stoici vs<br />

Antioco); Ac.libri I, 6 (Epicurei): “Quid, haec ipsa de vita et moribus, et de<br />

expetendis fugiendisque rebus? Illi enim simpliciter pecudis et hominis idem<br />

bonum esse censent: apud nostros autem non ignoras quae sit et quanta<br />

subtilitas.”; Ac.libri I, 21 (antica Academia): “Hominem esse censebant quasi<br />

partem quandam civitatis et universi generis humani, eumque esse coniunctum<br />

cum hominibus humana quadam societate.”;], ma anche della fisica [Ac.libri I, 24<br />

(antica Academia); Luc. 116 (il saggio)] e della logica [ Ac.libri I, 30 (academici e<br />

peripatetici); Ac.libri I, 32 (antica Academia); Ac.libri I, 40 (Zenone); Luc. 17<br />

(filosofi mediocri, probabilmente stoici); Luc. 23 (Antichi)]. Degno di nota è il<br />

fatto che il verbo venga impiegato in riferimento ad esponenti della tradizione<br />

scettica o di cui la tradizione scettica si è appropriata: v. Luc. 66 : “Sapientis<br />

autem hanc censet Arcesilas vim esse maximam, Zenoni adsentiens, cavere ne<br />

capiatur, ne fallatur videre. Nihil est enim ab ea cogitatione, quam habemus de<br />

gravitate sapientis, errore, levitate, temeritate diiunctius.”; Ac.libri I, 45 : “Itaque<br />

Arcesilas negabat esse quicquam quod sciri posset, ne illud quidem ipsum, quod<br />

Socrates sibi reliquisset: sic omnia latere censebat in occulto: neque esse<br />

quicquam quod cerni aut intellegi posset...”; Ac.libri I, 15: “Socrates mihi videtur,<br />

id quod constat inter omnis, primus a rebus occultis et ab ipsa natura involutis, in<br />

quibus omnes ante eum philosophi occupati fuerunt, avocavisse philosophiam et<br />

ad vitam communem adduxisse, ut de virtutibus et vitiis omninoque de bonis rebus<br />

et malis quaereret, caelestia autem vel procul esse a nostra cognitione censeret<br />

vel, si maxime cognita essent, nihil tamen ad bene vivendum valere.”; Luc. 74 :<br />

“Furere tibi Empedocles videtur: at mihi dignissimum rebus iis, de quibus<br />

loquitur, sonum fundere. Num ergo is excaecat nos aut orbat sensibus, si parum<br />

magnam vim censet in iis esse ad ea, quae sub eos subiecta sunt, iudicanda?”. Il<br />

verbo dunque va preso, anche in considerazione della rilevanza di ogni sfumatura<br />

epistemologica nel testo degli Academica, nella sua valenza più debole, come<br />

riferimento a un'opinione che non si avvale di uno statuto di certezza dottrinale.<br />

– ut indicant scripta Polemonis: l'inciso è messo in risalto dalla sua<br />

posizione sintatticamente centrale e ha una funzione di 'prova documentaria'. Il<br />

183


iferimento al corpus di scritti di Polemone 407 , unico nel suo genere all'interno dei<br />

testi filosofici di Cicerone, allude alla verificabilità di quanto appena affermato.<br />

Verificabilità per noi ormai inaccessibile per la totale scomparsa degli scritti qui<br />

menzionati, ma verosimilmente ancora reale nel contesto culturale ciceroniano.<br />

Tuttavia non vi è sicurezza alcuna che Cicerone abbia effettivamente consultato le<br />

opere di Polemone, nè che la formula del fine sopra menzionata corrisponda a una<br />

citazione letterale da una di esse. Certamente però l'inciso intende riportare a una<br />

base documentaria quella che poteva eventualmente essere additata come una<br />

libera interpretazione. L'appartenenza di Antioco a una cultura in cui l'oggetto<br />

libro risulta fondamentale ai fini dell'attività filosofica si trova già esplicitata in<br />

Luc. 4: "Delectabatur autem mirifice lectione librorum de quibus audiebat", dove<br />

Lucullo viene detto trarre piacere dalla lettura dei libri di cui Antioco gli parlava.<br />

Cfr. Philippson (1932), p. 447: "Indes ist es möglich, dass er diese Lehre in<br />

Polemons Schriften hineindeutete: der Ausdruck 'indicant' kann "andeuten"<br />

heissen"; Pohlenz (1940), pp. 20: "Polemon ist es also, bei dem Antiochus-Cicero<br />

die im Anschluss an Karneades gegebene Formel wiederzufinden meint. Freilich<br />

mahnt hier das etwas unbestimmte Wort indicant zu Vorsicht"; i cui giudizi si<br />

sono generalmente imposti nella letteratura secondaria, cfr. Lévy (1992a), p. 113,<br />

n. 8; Magnaldi (1991), p. 64, n.1.<br />

Il riferimento testuale e la possibilità di collegarlo con la testimonianza di<br />

Clemente Alessandrino (v. T. 64 "Polemo dixit") riceve particolare rilievo nella<br />

ricostruzione di von Fritz (1952), col. 2527, 36-51: il testo di Clemente<br />

mostrerebbe una relazione forte tra il concetto di 'vita secondo natura' e la<br />

dicotomia animale razionale / animale irrazionale, dal momento che il divieto di<br />

mangiare carne, contenuto nell'opera Περὶ τοῦ κατὰ φύσιν βίου, verrebbe<br />

giustificato dalla necessita di non 'rendersi simili agli animali irrazionali'. A partire<br />

da questa accertata relazione sarebbe possibile sostenere l'importanza del ruolo di<br />

Polemone nell'elaborazione di un'etica naturalistica basata sul criterio di<br />

razionalità che la natura affida all'uomo.<br />

– quem Antiochus probat maxime: la frase relativa attribuisce una<br />

preminenza alla figura di Polemone all'interno dell'operazione filosofica di<br />

Antioco d'Ascalona, che altrimenti non sarebbe affatto evidente. Altrove è la<br />

407 v. D.L. IV, 20 = T. 2 ; Suidas, Lex. s.v. Pole/mwn = T. 35 ; Clem.Alex. Str. VII, 6, 32, p. 25 Stählin = T. 64<br />

[Polemo frr. 94-97 Gigante]<br />

184


coppia Senocrate – Aristotele ad esser messa in avanti nel contesto<br />

dell'esposizione o della discussione dall'operazione storiografico-dialettica di<br />

Antioco: v. Fin. IV, 15 = T. 44: "finis bonorum, (...), a Xenocrate atque ab<br />

Aristotele constitutus est"; Fin. IV, 49: "Aristoteles, Xenocrates, tota illa familia<br />

non dabit..."; Luc. 136: "sed ubi Xenocrates, ubi Aristoteles tetigit?"; Luc. 143:<br />

"Num quid horum probat noster Antiochus? Ille vero ne maiorum quidem suorum<br />

– ubi enim aut Xenocraten sequitur, cuius libri sunt de ratione loquendi multi et<br />

multum probati, aut ipsum Aristotelem, quo profecto nihil est acutius, nihil<br />

politius?"; Leg. I, 55: "valde a Xenocrate et Aristotele et ab illa Platonis familia<br />

discreparet (...) sentit idem quod Xenocrates, quod Aristoteles, loquitur alio<br />

modo". È possibile supporre allora che se la coppia Senocrate – Aristotele sia<br />

funzionale alla saldatura storiografica della tradizione academica e peripatetica,<br />

prima assicurata e poi sempre riproposta, attraverso la menzione dei due discepoli<br />

che contemporaneamente furono discepoli di Platone (v. Ac.libri I, 17: "duos<br />

autem praestantissimo studio atque doctrina, Xenocratem Calchedonium et<br />

Aristotelem Stagiriten..."), il nome di Polemone abbia qui invece una funzione<br />

filosofica specifica in relazione alla formula del telos.<br />

Probare: v. oltre.<br />

– et Aristoteles eiusque amici: Per quanto accomunati da una medesima<br />

formula, i nomi di Polemone e di Aristotele si trovano sintatticamente ben distinti,<br />

cfr. Fin. V, 21: "antiquis, quos eosdem Academicos et Peripateticos nominamus";<br />

T. 42 = Fin. II, 34: "sententia veterum Academicorum et Peripateticorum".<br />

Si riconosce con questa frase che l'idea che la morale si fondi su principi<br />

naturalistici appartiene tanto al Peripato di Aristotele quanto alla prima Academia<br />

o Academia antica. L'associazione tra l'etica peripatetica e un fondamento<br />

naturalistico si ritrova ampiamente espressa nell'epitome di Ario Didimo<br />

contenuta nel testo di Stobeo. Tuttavia la complessità delle dinamiche di<br />

interazione tra istanze filosofiche, che verosimilmente sottende alla costituzione<br />

del testo riportato da Stobeo (v. Introduzione, pp. lv-lvi; lxxiii-lxxvii), permette di<br />

sollevare qualche dubbio sulla genuinità di una teoria vetero-peripatetica dei<br />

fondamenti naturali della morale.<br />

Senza dubbio nel tracciare un'orizzonte comune tra Academia e Peripato sulla<br />

questione dei fondamenti dell'etica risiede l'originalità dell'operazione filosofica di<br />

185


Antioco. Glucker (1978), p. 57, n. 153, ritiene che laddove Antioco metteva in<br />

luce il consenso tra gli antichi, Carneade ne sottolineasse invece le differenze,<br />

secondo l'idea che se, come è evidente, l'ispirazione generale di questo passaggio<br />

diaphonico non proviene da Antioco, allora deve rispecchiare da vicino<br />

l'impostazione di un testo di matrice carneadea. Tuttavia non è affatto necessario<br />

che Carneade avesse veramente affrontato la questione delle differenze tra antica<br />

Academia e Peripato, perché Cicerone, in un testo che sfrutta la strategia della<br />

dossografia diaphonica, ritenesse opportuno trattare le due impostazioni<br />

filosofiche come distinte. Lo spirito filosofico-critico di Cicerone è<br />

sufficientemente sviluppato perché potesse prendere autonomamente in<br />

considerazione le differenze specifiche al di là delle somiglianze tra le due istanze.<br />

Amici: 'seguaci', o 'ammiratori' non necessariamente contemporanei. L'uso del<br />

termine non è senza paralleli: v. Att. 2,16, 3: "controversia est Dicaearcho<br />

familiari tuo cum Theophrasto amico meo"; Att. 2, 7, 4; 6, 1, 18; 13, 30, 3; Fin. 2,<br />

44; Tusc. 3, 22; e ricalca l'uso di fi/loi all'interno della scuola peripatetica: D.L. V,<br />

52.<br />

– huc proxime: come già nota Reid (1885) la lezione manoscritta nunc<br />

sembra fuori luogo, dal momento che il passaggio afferma l'armonia tra gli antichi<br />

academici e gli antichi peripatetici, piuttosto che tra i 'nuovi'. Sugli esponenti più<br />

recenti del Peripato i giudizi contenuti nei testi ciceroniani risentono generalmente<br />

della propaganda sulla degenerazione del Peripato a partire dallo scolarcato di<br />

Stratone e Licone, v. Fin. V, 14 = T. 50 : Contesto.<br />

proxime: si noti che 'vicinanza' non equivale a 'identità'. Su questa sfumatura si<br />

gioca gran parte della rilettura ciceroniana dell'operazione storiografica di Antioco<br />

su questo preciso argomento. Cicerone accoglie la possibilità di considerare come<br />

strettamente congiunte le due tradizioni academica e peripatetica, ma evita di<br />

avallare l'idea di una loro perfetta identità. Proprio questo tipo di finezze<br />

espositive contribuisce alla formazione di un giudizio altamente positivo sulle<br />

capacità di Cicerone di emanciparsi dalle sue fonte e rielaborarne autonomamente<br />

gli assunti.<br />

– Introducebat etiam Carneades, non quo probaret, sed ut opponeret<br />

186


Stoicis:<br />

Probare: il verbo, anche solo all'interno del testo degli Academica, viene<br />

impiegato con una grande varietà di significati e gradi diversi di tecnicità. Ad un<br />

primo livello si tratta dell'espressione:<br />

1) di una affiliazione filosofica o di impegno teorico nei confronti di una ai(/resij<br />

filosofica - Ac.libri I, 6: "si Democritum probarem"; Ac.libri I, 7: “Si vero<br />

Academiam veterem persequamur, quam nos, ut scis, probamus, quam erit illa<br />

acute explicanda nobis!"; Luc. 61; Luc. 117; Luc. 119: “Quamcumque vero<br />

sententiam probaverit"; Luc. 143: “Num quid horum probat noster Antiochus?";<br />

2) dell'argomentare a favore di qualcosa, anche nel significato di fornirne una<br />

dimostrazione - Ac.libri I, 10; Luc. 10; Luc. 78; Luc. 105; Luc. 116;<br />

3) dell'essere favorevole rispetto a qualcosa, a una pratica : Ac.libri I, 17; Ac.libri<br />

I, 32;<br />

Ad un livello di tecnicità superiore il verbo ha volta volta una molteplicità di<br />

significati specifici all'interno del dibattito epistemologico, nel senso di:<br />

a) accettare la validità di una conoscenza o di una argomentazione: Luc. 17; Luc.<br />

47; Luc. 49; Luc. 66; Luc. 67; Luc. 96;<br />

b) accettare una premessa condivisa : Luc. 44; Luc. 126;<br />

c) ammettere la verità di una rappresentazione o di una proposizione : Luc. 66;<br />

Luc. 88; Luc. 135;<br />

d) ammettere secondo il senso comune: Luc. 75; Luc. 100;<br />

e) ammettere la probabilità di una rappresentazione o di una proposizione: Luc.<br />

99; Luc. 109; Luc. 111; Luc. 113;<br />

Ad un terzo livello di tecnicità, intermedio rispetto due ai sopracitati, probare<br />

viene impiegato per esprimere il 'trovarsi d'accordo' filosoficamente su<br />

un'opinione o una posizione teorica – v. Ac.libri I, 43: “Tunc Varro: Tuae sunt<br />

nunc partes, inquit, qui ab antiquorum ratione desciscis et ea, quae ab Arcesila<br />

novata sunt, probas, docere quod et qua de causa discidium factum sit, ut<br />

videamus satisne ista sit iusta defectio.”; Luc. 7: “Restat unum genus<br />

reprehensorum, quibus Academiae ratio non probatur. Quod gravius ferremus, si<br />

quisquam ullam disciplinam philosophiae probaret praeter eam, quam ipse<br />

sequeretur.”; Luc. 9; Luc. 16; Luc. 70: “Mihi autem magis videtur non potuisse<br />

187


sustinere concursum omnium philosophorum. Etenim de ceteris sunt inter illos<br />

non nulla communia: haec Academicorum est una sententia, quam reliquorum<br />

philosophorum nemo probet.”; Luc. 74: “Quid dicam de Platone? qui certe tam<br />

multis libris haec persecutus non esset, nisi probavisset.”; Luc. 78; Luc. 130; Luc.<br />

131; Luc. 131 (Carneade); Luc. 133; Luc. 135; Luc. 138 (Carneade);<br />

Sembrerebbe opportuno porre su quest'ultimo livello semantico entrambe le<br />

occorrenze del verbo contenute nel frammento in oggetto, senza dimenticare di<br />

notare però come l'uso del verbo in questi casi sembri risentire dei risvolti<br />

semantici acquisiti sugli altri due livelli, ovvero l'uso di probare, riferito al<br />

rapporto intrattenuto da Antioco con la posizione filosofica di Polemone, si<br />

presenta come un 'trovarsi d'accordo' che va nella direzione dell'affiliazione<br />

filosofica o dell'impegno teorico nei confronti di una posizione (I livello -1);<br />

mentre nel caso di Carneade l'uso di non probare sta a significare verosimilmente<br />

che la formula del fine da lui patrocinata viene impiegata non in quanto su di essa<br />

si 'trovi d'accordo', ma a scopi dialettici. Tuttavia in ragione della questione dello<br />

statuto dello scetticismo carneadeo, centralissima nel testo, non probare potrebbe<br />

risentire dei significati maggiormente tecnici assunti nell'accezione 'ammettere la<br />

validità di una proposizione' (II livello: c) o 'ammetterne la probabilità di una<br />

proposizione' (II livello: e).<br />

La frase, come già notato dalla critica, va posta in parallelo con altri passi del<br />

corpus ciceroniano dove vengono citate posizioni 'difese' da Carneade: Fin. II, 42:<br />

"Quae possunteadem contra Carneadeum illud summum bonum dici, quod is non<br />

tam, ut probaret, protulit, quam ut Stoicis, quibuscum bellum gerebat, opponeret";<br />

Luc. 78: "Nam illud, nulli rei adsensurum esse sapientem, nihil ad hanc<br />

controversiam pertinebat; licebat enim nihil percipere et tamen opinari – quod a<br />

Carneade dicitur probatum, equidem Clitomacho plus quam Philoni aut<br />

Metrodoro credens hoc magis ab eo disputatum quam probatum puto."; Tusc. V,<br />

83-84: "Et quoniam videris hoc velle, ut, quaecumque dissentientium<br />

philosophorum sententia sit de finibus, tamen virtus satis habeat ad vitam beatam<br />

praesidii, quod quidem Carneadem disputare solitum accepimus; sed is, ut contra<br />

Stoicos, quos studiosissime semper refellebat et contra quorum disciplinam<br />

ingenium eius exarserat". Luc. 139 = T. 40: "...ut Calliphontem sequar, cuius<br />

quidem sententiam Carneades ita studiose defensitabat, ut eam probare etiam<br />

videretur (quamquam Clitomachus adfirmabat numquam se intellegere potuisse<br />

188


quid Carneadi probaretur)..."; De Or. I, 84: "Charmadas, non quo aperiret<br />

sententiam suam".<br />

Da simili parallelismi si evince che la precisazione sullo scopo polemico delle<br />

posizioni patrocinate da Carneade è un motivo ricorrente in Cicerone 408 . Il fatto<br />

può essere spiegato come una nota critica (v. Bénatouil (2006) p. 228), ovvero<br />

come una critica implicita di Carneade portata avanti, per esempio, da Antioco:<br />

Carneade avrebbe preso in prestito l'idea della 'fruizione dei beni naturali' al sol<br />

fine di sfidare dialetticamente gli stoici, senza peraltro ammettere esplicitamente il<br />

suo valore all'interno della tradizione platonico-academica, come invece Antioco<br />

poteva vantarsi di aver fatto. Ancor più eloquente una tale precisazione diventa<br />

però, se posta in relazione a uno dei temi portanti della discussione degli<br />

Academica, ovvero lo statuto dello scetticismo carneadeo: in particolare da Luc.<br />

78, si evince l'esistenza di interpretazioni divergenti dello statuto assertorio delle<br />

opinioni patrocinate da Carneade: Clitomaco, Metrodoro e Filone non<br />

condividevano lo stesso approccio epistemologico all'impiego degli argomenti di<br />

Carneade. Dalla necessità di esporre e difendere la specifica versione dello<br />

scetticismo carneadeo da lui condivisa nasce verosimilmente per Cicerone l'idea<br />

del testo da cui il frammento è tratto. "Non quo probare, sed ut opponeret stoici"<br />

si presenta allora come un marchio dell'interpretazione clitomachea,<br />

esplicitamente condivisa da Cicerone: "Clitomacho plus quam Philoni aut<br />

Metrodoro credens hoc magis ab eo disputatum quam probatum puto".<br />

L'impiego della formula da parte di Carneade deve dunque essere posto in<br />

relazione a una tattica argomentativa ad hominem (v. Lévy (1992a), p. 389-390).<br />

Carneade avrebbe allora impiegato in etica lo stesso metodo adottato per la logica:<br />

egli saggiava la coerenza della teoria stoica adottandone uno dei concetti cardine,<br />

al solo fine di sollevare alcune obiezioni sull'impiego del concetto da parte degli<br />

avversari. Il nodo problematico della teoria stoica abbordato dal filosofo scettico è<br />

in questo caso lo statuto di ta£ prw=ta kata£ fu/sin ovvero dei principi naturali<br />

assunti nella teoria stoica dell' oi)kei/wsij. La critica carneadea si risolveva allora<br />

verosimilmente in un'accusa di incongruenza, rivolta in particolare al tentativo<br />

stoico di conciliare il fondamento naturalistico delle prime inclinazioni naturali<br />

dell'uomo con l'aspirazione alla conformità con la ragione universale espresso<br />

408 Già Reid (1885) notava nel suo commentario al passaggio in oggetto che « in nearly all the passages where<br />

this view of Carneades is quoted, he is stated to have advances it for argument's sake, against the Stoics. »<br />

189


dalla virtù morale 409 . Adottando argomentativamente le premesse naturalistiche<br />

Carneade si mostrava potenzialmente "più stoico degli stoici", potendo di fatto<br />

contestare l'esclusione delle prime inclinazioni naturali, da cui essi prendevano le<br />

mosse, dalla formula finale del sommo bene.<br />

Rimane pertanto aperta la questione da quale tradizione filosofica Carneade derivi<br />

l'idea della 'fruizione dei beni naturali': si tratta di un concetto teoricamente<br />

desunto dalla posizione stoica al solo fine di mostrarne le incongruenze nell'uso,<br />

oppure il suo retroterra deve essere tracciato all'interno della tradizione academica<br />

o peripatetica? L'orientamento del testo porta a pensare che entrambe i versanti<br />

della questione possano essere mantenuti. La citazione della posizione di<br />

Carneade, posta storiograficamente a fare da intermediario tra le formule del fine<br />

di Polemone e di Zenone, sembra in ultima istanza voler mostrare la molteplicità<br />

degli strati teorici impliciti nell'operazione storiografica antiochea. Se ci fidassimo<br />

della presentazione ciceroniana allora, saremmo portati a pensare che<br />

l'opposizione puramente dialettica di Carneade allo stoicismo abbia avuto come<br />

ulteriore risvolto la riscoperta, ad opera di Antioco, del contesto academico e<br />

peripatetico di discussione dei fondamenti naturalistici dell'etica, non solo come<br />

ciò da cui la teoria stoica può aver preso liberamente le mosse, ma anche come<br />

l'ambito già avanzato di indagine da cui gli strumenti teorici carneadei hanno<br />

plausibilmente tratto spunto.<br />

– summum bonum esse frui rebus eis, quas primas natura conciliavisset:<br />

summum bonum: equivalente verosimilmente a to£ a)gaqo/n in greco, v. Sedley<br />

(1996), p. 333-334.<br />

frui rebus: cfr. Fin. IV, 14-15 = T. 44; [cfr. Fin. II, 34 = T. 42: "id est virtute<br />

adhibita frui primis a natura datis"; Fin. V, 20: "fruendi rebus iis, quas primas<br />

secundum naturam esse diximus, Carneades defensor disserendi causa fuit"; Tusc.<br />

V. 84: "nihil bonum nisi naturae primis bonis aut omnibus aut maximis frui". cfr.<br />

Plut. De comm.not. 1069f = T. 56: "τὴν ἀρετὴν προσλαβόντες αὐτοῖς<br />

ἐνεργοῦσαν οἰκείως χρωμένην ἑκάστῳ τέλειον ἐκ τούτων καὶ ὁλόκληρον<br />

ᾤοντο συμπληροῦν βίον καὶ συμπεραίνειν". Cfr. Augustinus, De civitate Dei<br />

409 v. la critica carneadea al doppio ordine di valori implicito nell'etica stoica, che traspare dalla struttura della<br />

Carneadia divisio in Fin. V, 17-20 ; v. LS (1987), vol. I, pp. 406-410.<br />

190


XIX, 3, 1; cfr. T. 59: "Quapropter eadem virtus, id est, ars agendae vitae, cum<br />

acceperit prima naturae, quae sine illa erant, sed tamen erant etiam quando eis<br />

doctrina adhuc deerat, omnia propter se ipsa appetit simulque etiam se ipsam,<br />

omnibusque simul et se ipsa utitur, eo fine, ut omnibus delectetur atque perfruatur,<br />

magis minusque, ut quaeque inter se maiora atque minora sunt, tamen omnibus<br />

gaudens et quaedam minora, si necessitas postulat, propter maiora vel<br />

adipiscenda vel tenenda contemnens. (...)".<br />

Il verbo ha una rilevanza filosofica non trascurabile, da studiarsi in particolare<br />

all'interno della tradizione academica raccolta da Cicerone: cfr. Fin. I, 3: "Sive<br />

enim ad sapientiam perveniri potest, non paranda nobis solum ea, sed fruenda<br />

etiam est", dove la 'fruizione' della sapientia diventa l'obiettivo programmatico<br />

dell'impresa filosofica ciceroniana.<br />

fruor - xra/omai - v. Bénatouil (2006), pp. 223-231: come si evince dal confronto<br />

con il passo di Plutarco (De comm.not. 1069f = T. 56), Cicerone impiega il verbo<br />

fruor, piuttosto che il verbo utor, laddove invece Plutarco impiega il verbo greco<br />

xra/omai. La dissimetria semantica provocata dalla scelta di traduzione ciceroniana<br />

sarebbe spiegabile in relazione a una precisa e consapevole presa di posizione<br />

filosofica. La scelta del verbo sembrerebbe funzionale ad una tattica<br />

argomentativa carneadea all'origine. Ponendo la nozione stoica di "selectio<br />

(e)klogh£ - v. le formule di Antipatro di Tarso e Diogene di Babilonia in Stob., Ecl.<br />

II, 7, 6a, p. 76 Wachsmuth) ea quae secundum naturam sunt" in contrasto con la<br />

fruitio, Carneade avrebbe tentato di forzare la posizione stoica a riconoscere una<br />

nota di edonismo al suo interno 410 .<br />

In questo contesto Carneade avrebbe potuto anche impiegare il verbo greco<br />

a)polau/w della tradizione edonista 411 , sebbene il verbo xra/omai si presti<br />

perfettamente a uno scontro dialettico con lo Stoicismo, visto il suo impiego<br />

filosoficamente rilevante nella tradizione stoica e la possibilità di impiegarlo in<br />

costruzioni come bi/% / oi)/n% / h(donai=j xra/omai attestate per esempio in Plutarco<br />

410 v. Bénatouil (2006), pp. 226-228 sull'uso di a)polau/w, a)po/lausij - fruor, fruitio nella tradizione edonista. v.<br />

Fin. IV, 19-20 per un esempio di come una tattica argomentativa carneadea, introducendo provocatoriamente<br />

la distinzione adipiscere etiamsi nihil consequare – obtinenda, forzi la posizione stoica in direzione di una<br />

maggiore uniformità formale con le posizioni edoniste, a meno che la formula stoica del telos non ammetta di<br />

presentarsi come un puro sforzo mai soddisfatto: « facere omnia ut adipiscamur quae secundum naturam<br />

sunt etiamsi ea non assequamur ».<br />

411 Krämer (2004), p. 119 ; Bénatouil (2006), p. 229.<br />

191


(v. Quomodo adulator ab amico internoscatur 54 f 4-6; Septem sapientem<br />

convivium 150 c 11-14; Quaestiones convivales 613 c 6; 715 d 2;), dove la<br />

nozione di 'fare uso' si fonde con quella di 'godere', 'trarre giovamento', 'fruire'.<br />

Intorno a questo verbo si sarebbe poi verificarata una convergenza lessicale tra la<br />

posizioni etiche attribuibili all'antica Academia e alle tattiche argomentative<br />

carneadee. Difficilmente si sarebbe del resto potuto impiegare il verbo a)polau/w<br />

per designare il punto di incontro tra Academici e Peripatetici, considerando<br />

l'esplicito rifiuto dell' )polaustiko£j bi/o contenuto nelle etiche Aristoteliche<br />

(EN 1095 b 16-23; EE 1216 a 18; EN 1177 a 7-11). Quando dunque le traduzioni<br />

ciceroniane restituiscono un'uniformità lessicale tra la posizione degli antichi e<br />

quella impiegata dialetticamente da Carneade, potremmo certamente trovarci di<br />

fronte a una scelta interpretativa forte, non necessariamente supportata dal lessico<br />

delle fonti greche originali, tuttavia niente impedisce veramente di considerare<br />

l'adattabilità semantica di xra/omai 412 come all'origine delle possibilità di scontro e<br />

incontro tra le differenti prospettive filosofiche.<br />

A partire da un'analisi del passo già citato in cui Agostino si avvale del testo De<br />

philosophia di Varrone (De civ.Dei XIX, 3, 1), e in cui sono rintracciabili precise<br />

affinità teoriche con la riflessione etica di Antioco d'Ascalona, è possibile inoltre<br />

constatare come Varrone, o Agostino parafrasando il testo di Varrone, abbia<br />

verosimilmente optato per un impiego alternato sia di utor che di fruor nel<br />

contesto della discussione dell'etica degli antichi ("omnibusque simul et se ipsa<br />

utitur, eo fine, ut omnibus delectetur atque perfruatur"; "haec enim bene utitur et<br />

se ipsa et ceteris..."; "...cui male utenti utilia esse non possunt"; "haec ergo vita<br />

hominis, quae virtute et aliis animi et corporis bonis,(...), fruitur, beata esse<br />

dicitur"), coprendo verosimilmente la ricchezza del campo semantico di xra/omai<br />

con una coppia verbale ("bona sunt tamen, et secundum istos etiam ipsa propter<br />

se ipsa diligit virtus, utiturque illis et fruitur, sicut virtutem decet."), quando<br />

invece in Cicerone l'alternativa si risolve tutta a vantaggio del verbo fruor,<br />

influenzato forse in questo dall'impostazione argomentativa di Carneade.<br />

Attraverso la componente utilitaristica riscontrabile nell'uso del verbo fruor, è<br />

inoltre possibile riscontrare una linea di continuità tra le varie strategie<br />

argomentative antistoiche attribuite a Carneade. Nei testi ciceroniani infatti sono<br />

412 v. Liddell – Scott, Greek – English Lexicon, xra/omai IV.<br />

192


contenute tracce degli argomenti impiegati da Carneade per contestare la<br />

concezione stoica della giustizia come derivante dagli impulsi naturali 413 ; contro<br />

di essa Carneade sposava, per fini dialettici, la linea dell'utilitarismo sofistico, fino<br />

a sostenere provocatoriamente la tesi che la giustizia sia in conflitto con la<br />

sapientia, e dunque fondamentalmente 'contro natura', supportato in ciò da una<br />

concezione della natura umana come uguale a quella degli altri animali, alla<br />

ricerca solo del proprio interesse e del vantaggio dei beni esterni 414 .<br />

Nell'esposizione per bocca del personaggio di Philus degli argomenti carneadei<br />

pro improbitate, all'interno di quanto ci è parvenuto del testo del De Republica, si<br />

trova l'affermazione : (Rep. III, 24) "sapientia iubet augere opes, amplificare<br />

divitias, proferre finis (...), imperare quam plurimis, frui voluptatibus, pollere,<br />

regnare, dominari", dove il verbo fruor è riferito ai piaceri nel contesto più ampio<br />

del processo di appropriazione dei beni esterni.<br />

Reid (1885), nel suo commentario considera i paralleli tra il passaggio in oggetto<br />

e Tusc. V, 84, cfr. T. 54: "naturae primis aut omnibus aut maximis frui" e Fin. IV,<br />

14 = T. 44: "omnibus aut maximis rebus iis quae secundum naturam sint fruentem<br />

vivere", e ne trae la conclusione tra la differenza fondamentale tra la formula del<br />

fine di Polemone e quella di Carneade starebbe nel fatto che Polemone<br />

considererebbe ta£ kata£ fu/sin in modo generale ("generally"), mentre Carneade<br />

avrebbe preso in considerazione soltanto ta£ prw=ta kata£ fu/sin, in cui la virtù<br />

non è inclusa (v. Fin. II, 38; 42; Fin V, 22) 415 . Questa differenza dovrebbe aiutare a<br />

tracciare i confini tra i diversi riferimenti filosofici di Polemone e Carneade.<br />

Tuttavia il passo in oggetto rappresenta, da questo punto di vista, una completa<br />

smentita. Cicerone fa infatti attenzione ad impiegare esattamente la stessa formula<br />

sintattica: "is quas primas ...natura conciliet/conciliavisset" in entrambi i casi, sia<br />

per Polemone che per Carneade.<br />

conciliavisset: il verbo conciliare rimanda ai sostantivi conciliatio e commendatio<br />

(v. infra, p. 177; p. 179; n. 405; p. 245; p. 274; p. 301; p. 304 e Appendice, p.<br />

427); l'uso del congiuntivo piuccheperfetto stabilisce l'anteriorità dell'azione di<br />

'conciliare' rispetto al tempo verbale della reggente. La distinzione dei piani<br />

413 v. Ferrary (1974); Ferrary (1977); in questo contesto ritengo sia da leggersi anche l'argomento presentato in<br />

Fin. II, 59, sull'uomo che rischia la morte sedendosi dove qualcun'altro sa esser nascosto un serpente, poiché<br />

perfettamente in linea con la tesi dell'antagonismo tra interesse personale naturale e giustizia.<br />

414 v. il riassunto della tesi di Carneade offerto da Lattanzio in Inst. 5, 16, 3: « omnes et homines et alias<br />

animantes ad utilitate suas natura ducente ferri ».<br />

415 L'idea viene ripresa da Philippson (1932), p.445. Cfr. Radice (2000), pp.105-106.<br />

193


temporali tra l'azione del 'conciliare' e l'azione del 'fruire' può risultare<br />

filosoficamente rilevante se posta in relazione alla questione delle 'indicazioni<br />

cronologiche' come criterio distintivo di un modello peripatetico vs un modello<br />

stoico di oi)kei/wsij. Si prenda allora in considerazione la questione<br />

dell'immediatezza della percezione di sé sostenuta dagli stoici e verosimilmente<br />

contestata dai peripatetici: l'argomentazione stoica sembrerebbe aver sostenuto<br />

che non esiste alcun scarto temporale tra la nascita dell'individuo e la percezione<br />

istintiva di sé, mentre in ambito peripatetico la riflessione etica avrebbe posto<br />

l'accento sul fatto che lo sviluppo della ragione è condizione imprenscindibile per<br />

ogni consapevolezza di se stessi e, non essendo il pieno possesso della ragione<br />

attribuibile alla nascita o alla fase della prima infanzia, l'argomento stoico,<br />

fondante l' oi)kei/wsij innanzitutto sulla percezione di se stessi, risulterebbe<br />

minato alla base. L'osservazione della natura e dei parvi come specchio in cui<br />

procedere a un'osservazione empirica della natura (v. Fin. II, 34-35 = T. 42:<br />

Contesto), porterebbe invece a credere, secondo la prospettiva peripatetica, che<br />

istintivamente - e non per percezione di se stessi 416 - l'animale (senza distinzione<br />

tra razionale e irrazionale) persegua certi beni, piuttosto che altri.<br />

La precisazione temporale della formula attribuita a Carneade intenderebbe allora<br />

collocare la dinamica di appropriazione dell'animale a se stesso in un tempo<br />

passato, che non solo offre le precauzioni epistemologiche dell' ei)ko£j mu/qoj, ma<br />

senza dubbio è precedente allo sviluppo delle facoltà razionali 417 .<br />

– quod ducatur a conciliatione naturae: cfr. Fin. III, 21: "prima est enim<br />

conciliatio hominis ad ea, quae sunt secundum naturam"; Fin. III, 22: "propterea<br />

quod non inest in primis naturae conciliationibus honesta actio". La frase associa<br />

alla formula zenoniana honeste vivere gli elementi teorici della oi)kei/wsij. Si può<br />

dubitare che la relativa possa essere considerata come ancora parte della formula<br />

zenoniana; se così non fosse ci troveremmo di fronte a una delle rare attestazioni<br />

della dottrina dell' oi)kei/wsij esplicitamente associata a Zenone, v. White (1979),<br />

p. 25, n. 92; 93.<br />

Da notarsi in ogni caso è il fatto che il 'vivere in modo moralmente degno' è qui<br />

posto come conseguenza successiva al processo di oi)kei/wsij, mentre nella<br />

formula polemoniana i due momenti si trovano in un rapporto di concomitanza, di<br />

416 v. Fin. V, 41-43.<br />

417 v. Magnaldi (1991), p. 7, per per un diverso impiego delle 'indicazioni cronologiche' in un contesto di<br />

differenziazione tra teoria stoica e teoria peripatetica.<br />

194


giustapposizione orizzontale. In ambito stoico il concetto di oi)kei/wsij viene<br />

impiegato come un fondamento teorico o 'condizione di possibilità' per i risvolti<br />

ulteriori del discorso etico (i.e. è perché l'uomo è appropriato a se stesso che<br />

l'uomo riconosce la necessita della vita morale), mentre in ambito vetero-<br />

academico si riceve l'impressione che l' oi)kei/wsij, o meglio, gli oggetti di<br />

appetizione naturale che sono il risultato del processo di oi)kei/wsij vengano presi<br />

in considerazione all'interno della formula del telos come un elemento<br />

logicamente indipendente, per quanto potenzialmente concomitante, rispetto<br />

all'azione morale (i.e. si vive moralmente e si fruisce degli oggetti di appetizione<br />

naturale primariamente appropriati all'uomo).<br />

Si noti l'uso del sostantivo conciliatio (oi)kei/wsij), come specifico della dottrina<br />

stoica, piuttosto che della forma verbale conciliari (oi)keiou=n), compatibile con<br />

più di una posizione filosofica.<br />

– Zeno statuit: censeo / introduco vs statuo: differenza di forza assertiva. La<br />

posizione patrocinata da Zenone corrisponde ad un'affermazione dogmatica.<br />

– inventor et princeps Stoicorum: come nota Reid (1885), i due termini si<br />

trovano insieme anche in Fin. III, 5, non esenti da una nota critica : "Zenoque<br />

eorum princeps non tam rerum inventor fuit quam verborum novorum"; Brut. 253;<br />

Inv. I, 43; II, 6; De Or. I, 47; I, 91; Tusc. I, 48.<br />

– Cupio sequi Stoicos: Cupio: linguaggio dell'affettività. La frase restituisce<br />

un dialogo interno di Cicerone stesso, per il quale la posizione etica degli stoici<br />

potrebbe costituire una “tentazione pragmatica” (Michel (1968), p. 118) :<br />

l'opzione stoica sembra a prima vista armonizzarsi perfettamente con le<br />

aspettative del contesto culturale romano e con l'ideale d'azione ciceroniano. Non<br />

meno rilevante è l'influenza del personaggio di Catone sulle aspirazioni<br />

filosofiche e culturali di Cicerone. Tuttavia il 'desiderio' 418 dell'autore si scontra<br />

con la sua formazione academica e la necessità di ponderare in profondità la<br />

coerenza di ogni teoria, indipendentemente dal peso della tradizione o dalla<br />

contingenza degli avvenimenti. Cicerone dunque passa immediatamente a<br />

sollevare la questione della compatibilità tra la posizione stoica e quella<br />

418 Cfr. Görler (1997), p. 51-52, secondo il quale cupio qui indica una forte convinzione personale.<br />

195


academica o peripatetica, attaccando direttamente il cuore dell'operazione<br />

conciliatrice di Antioco d'Ascalona.<br />

Cfr. Fin. IV, 2: “Non mehercule, imquam, soleo temere contra Stoicos, non quo<br />

illis admodum assentiar, sed pudore impedior”.<br />

– Aristotelem, meo iudicio in philosophia prope singularem: cfr. Tusc. I,<br />

22: "Aristoteles, longe omnibus (Platonem semper excipio) praestans et ingenio et<br />

diligentia"; Fin. V, 7 = T. 49: "Aristoteles, quem excepto Platone haud scio an<br />

recte dixerim principem philosophorum"; Ac.post. I – Ac.libri 18: "Abundantia<br />

quadam ingenii praestabat, ut mihi quidem videtur, Aristoteles,...". Aristotele ha<br />

complessivamente agli occhi di Cicerone una posizione di particolare rilievo:<br />

all'interno della tradizione platonica egli è "le brillant second" [Lévy (1992a), p.<br />

75, n. 66]. Sulla conoscenza che poteva avere Cicerone dell'opera di Aristotele v.<br />

Ad Qu.Fr. III 5; 6. (lettura di Aristotele nel periodo del De re publica); e la critica<br />

moderna Pahnke (1962); Moraux (1978), pp. 81-96; Fortenbaugh, Steinmetz<br />

(1989); Barnes (1997), pp. 46-59; cfr. Introduzione, pp. xxix-xxxiii.<br />

– germanissimus Stoicus: la frase ha fornito una base d'appoggio,<br />

ampiamente sfruttata, per un'interpretazione dell'operazione filosofica di Antioco<br />

come sincretica o eclettica 419 . Il commento di Reid (1885) a questo passo ha<br />

rafforzato in tempi moderni l'immagine, già esplicita in Agostino (Contra Ac. III,<br />

18, 41: "faeneus ille Platonicus Antiochus (...) igitur Antiochus, (...), auditis<br />

Philone Academico et Mnesarcho Stoico in Academiam veterem quasi vacuam<br />

defensoribus et quasi nullo hoste securam velut adiutor et cuius inrepserat nescio<br />

quid inferens mali de Stoicorum cineribus, quod Platonis adyta violaret"; De civ.<br />

Dei XIX, 3 ex.: "Antiocho...quem sane Cicero in pluribus fuisse Stoicum quam<br />

veterem Academicum vult videri" 420 ), di Antioco come traditore della tradizione<br />

academica, autore di una fusione ingiustificata di due sistemi filosofici distinti.<br />

Secondo Reid si trattava di una 'opinione ampiamente diffusa' già nel contesto<br />

romano e per giustificarla non sarebbe necessario ipotizzare, come hanno fatto<br />

alcuni critici, una fonte specifica proveniente da un contesto polemico particolare,<br />

come quello ad esempio che opponeva Antioco a Filone (cfr. Hirzel (1883), III, p.<br />

305). Tuttavia non è da escludere nemmeno che in questa riduzione del pensiero<br />

419 v. Barnes (1989), pp. 51-96; cfr. Lévy (1992a), pp. 51-54.<br />

420 N.B: « vult videri » implica che si tratta di un parere di Cicerone, la cui oggettività è eventualmente<br />

discutibile.<br />

196


di Antioco a una forma 'diminuita' di stoicismo ci sia il marchio originale della<br />

polemica ciceroniana. Enfatizzando la vicinanza tra le posizioni di Antioco e<br />

quelle degli stoici, Cicerone delegittima la 'genuina' identità academica di Antioco<br />

e dei suoi seguaci, ribaltando in ultima istanza l'esito di quel dibattito sulla 'vera'<br />

identità academica alimentato da Antioco stesso.<br />

Un diverso approccio critico tende invece a ridurre l'importanza di questa frase in<br />

seno al giudizio complessivo di Cicerone sull'Ascalonita 421 ed è pronto invece a<br />

riconoscere il contributo dato da Antioco allo sviluppo di un 'metodo comparativo<br />

applicabile alla storia delle idee' 422 , il cui supporto dialettico proverrebbe da<br />

Carneade e il cui più esplicito impiego sarebbe da scoprirsi in generale nelle opere<br />

filosofiche ciceroniane.<br />

Per un'ulteriore contestualizzazione della frase nell'andamento argomentativo di<br />

questo testo cfr. Luc. 69: "[Antiochus] eadem dicit quae Stoici. Paenituit illa<br />

sensisse? Cur non se transtulit ad alios, et maxime ad Stoicos? Eorum enim erat<br />

propria ista dissensio", dove nel contesto della disputa epistemologica sulla<br />

'apprendibilità delle cose' ("si quid percipi possit", Luc. 68), Cicerone fa notare<br />

con toni estremamente polemici la coincidenza tra la posizione di Antioco e la<br />

posizione stoica. v. Sext.Emp. PH 1, 235. Vi sono ragioni per pensare che questo<br />

tipo di giudizi vada contestualizzato nell'ambito della discussione generale del<br />

testo del Lucullus sulle modalità della conoscenza umana. Evitando dunque di<br />

andare alla ricerca di una coincidenza tra Antioco e gli Stoici di tipo dottrinale 423 ,<br />

che Cicerone stesso smentisce, la fratellanza è riscontrabile sul piano<br />

dell'approccio epistemologico dogmatico. Sempre in relazione al dogmatismo di<br />

Antioco si può leggere il giudizio dato in Luc. 137: "sed ille noster est plane, ut<br />

supra dixi, Stoicus, perpauca balbutiens", il quale nasce dal confronto con<br />

Carneade e con il modo in cui quest'ultimo differenziava il suo approccio<br />

epistemologico da quello stoico. Nel contesto dell'aneddoto riportato dal testo, il<br />

pretore Aulo Albino interroga Carneade, prendendolo probabilmente per uno<br />

scettico di tipo cosiddetto 'pirroniano', ovvero che esercita il dubbio<br />

421 Cfr. e.g. Leg. I, 54: « A.: Ergo adsentiris Antiocho, familiari meo (magistro non audeo dicere) quocum vixi,<br />

et qui me ex nostris paene convellit hortulis deduxitque in Academiam perpauculis passibus. M.: Vir iste fuit<br />

ille quidem prudens et acutus et in suo genere perfectus mihique, ut scis, familiaris; cui tamen ego adsentiar<br />

in omnibus necne mox videro ».<br />

422 Michel (1969), p. 798.<br />

423 Cfr. Striker (1997), p. 258.<br />

197


indiscriminatamente su tutte le impressioni dei sensi, e lo provoca a sostenere una<br />

tesi che, invece, si rivela, come fa notare Carneade stesso, molto più vicina ai<br />

paradossi stoici ("ego tibi... praetor esse non videor..."). Cicerone allora distingue<br />

chiaramente tre diversi atteggiamenti epistemologici rispetto alla realtà: gli stoici<br />

possono arrivare a formulare dogmaticamente tesi paradossali ("non videris"),<br />

mentre invece l'antica Academia di Aristotele e Senocrate si astiene dal mettere<br />

radicalmente in discussione la realtà ("non dubitavisset") pur di salvaguardare le<br />

sue posizioni. Antioco infine volendo ridurre le differenze specifiche tra il primo e<br />

il secondo approccio si ritrova in una posizione ibrida, difficilmente giustificabile<br />

("balbutiens"). Il giudizio sull'allure stoica della posizione di Antioco non può<br />

esser considerato alla stregua di una valutazione perentoria e definitiva<br />

dell'operazione filosofica dell'Ascalonita; essa deriva infatti dal confronto<br />

polemico tra la posizione academica di Carneade e la posizione academica di<br />

Antioco: dal punto di vista epistemologico-'scettico', Antioco appare<br />

evidentemente molto più vicino agli stoici che alla tradizione academica e sempre<br />

a partire da questa prospettiva polemica gli viene rimproverato di non cogliere le<br />

differenze tra l'approccio epistemologico degli antichi e quello degli stoici.<br />

– aut...aut; Utrumque non potest; non de terminis, sed de tota possessione;<br />

de qua...de omni...; non potest igitur uterque...sed alter: come nota già Reid<br />

(1984), la proliferazione di opposizioni sintattiche esprime la rottura di<br />

quell'armonia tra lo Stoicismo e l'Academia antica che Antioco proponeva (cfr. §<br />

119); Cicerone sposta l'attenzione sulle 'piccole' differenze e le dichiara<br />

irriducibili. Inoltre, poiché queste differenze appartengono al dominio dell'etica,<br />

assumono un'importanza tutta particolare: cfr. Fin. V, 14 = T. 50: "qui de summo<br />

bono dissentit, de tota philosophiae ratione dissentit"; Fin. III, 41; Aug., De<br />

civ.Dei 19, 1 "neque enim existimat (Varrone) ullam philosophiae sectam esse<br />

dicendam quae non eo distat a ceteris quod diversos habeat finis bonorum et<br />

malorum".<br />

non de terminis, sed de tota possessione : cfr. Leg. I, 37 = T. 37; cfr. Fin.<br />

IV, 3 = T. 43 : "universa enim illorum ratione cum tota vestra confligendum puto".<br />

Il passaggio impiega la metafora della contentio giuridica su una proprietà già<br />

incontrata nel contesto del De legibus = T. 37. La dottrina etica viene allora<br />

ridotta a un territorio da spartirsi tra contendenti; la parola "teminus" permette<br />

198


anche di instaurare un rimando a "finis", finis bonorum et malorum: il<br />

conflitto dottrinale allora non si limita alle formule del fine, ma si estende<br />

all'intera dottrina etica. La critica ha ravvisato in questo passo una contraddizione<br />

con quanto altrove affermato, e.g. in Fin. V, 74: "Stoici restant. Ei quidem non<br />

unam aliquam aut alteram "rem" a nobis, sed totam ad se nostram philosophiam<br />

transtulerunt". Questa discrepanza ha costituito la base di partenza per sostenere<br />

che la fonte del discorso di Cicerone sarebbe nel passaggio in oggetto un testo che<br />

difende una posizione filosofica particolare, diversa da quella patrocinata da<br />

Cicerone in altri contesti (De finibus etc..), come quella, ad esempio, esposta da<br />

Filone di Larissa nei 'libri romani' (v. Hirzel (1883), III, pp. 285-287). Contro<br />

simili ipotesi v. le argomentazioni di Glucker (1978), pp. 394-395. In particolare<br />

contro il fatto che la negazione della coincidenza dottrinale tra stoici e peripateici,<br />

in questo passaggio, rappresenti un' eccezione tale da dover supporre alla sua<br />

origine una posizione filosofica differente rispetto a quella generalmente<br />

mantenuta da Cicerone, Glucker nota come la griglia di opinioni sul sommo bene,<br />

conosciuta come Carneadia divisio, implichi il riconoscimento, già da parte di<br />

Carneade prima ancora che da parte di Antioco e di Cicerone, del fatto che Stoici<br />

e Peripatetici abbiamo di fatto sostenuto posizioni dottrinali differenti; Glucker<br />

ritiene inoltre opportuno spiegare l'apparente incompatibilità tra l'impostazione<br />

contrastiva della divisio e la propaganda conciliatrice "non rerum sed verborum<br />

discordia" attraverso l'ipotesi che le due strategie potrebbero appartenere ad<br />

ambiti argomentativi distinti: Carneade avrebbe presentato la divisio parlando<br />

della questione dei te/lh, mentre avrebbe sostenuto l'accordo di stoici e<br />

peripatetici sul fondo delle cose parlando degli a)gaqa£ kai£ kaka/ "in two separate<br />

lectures". Tuttavia la giustificazione di Glucker è meno necessaria di quanto<br />

sembri: lo studioso tende infatti ad ignorare che l'apparente contraddizione può<br />

essere risolta in modo molto più semplice, proprio perché solo di 'apparenza' si<br />

tratta. La divergenza di opinioni, che sta alla base della divisio, e che senza dubbio<br />

implica che per ogni posizione filosofica si elenchi un telos diverso, è<br />

sostanzialmente funzionale all'indebolimento preliminare delle pretese veritative<br />

delle posizioni dogmatiche: ognuno pretende di sapere che cosa sia la verità, ma<br />

se le opinioni sono molte e la verità è una sola, non tutti possono aver ragione.<br />

Una volta messa in moto la griglia comparativa carneadea poi, se ne ricavano i<br />

seguenti risultati (v. Introduzione, pp. xxxiv-xxxix) : a) la posizione difesa a<br />

scopo dialettico da Carneade è l'unica che rimanga perfettamente coerente con le<br />

199


premesse naturalistiche; b) se gli stoici intendono rispettare almeno in parte le<br />

premesse naturalistiche devono ammettere che la loro posizione non differisce in<br />

nulla da quella composita dei peripatetici.<br />

Dunque si può notare che la divergenza d'opinione è il punto di partenza della<br />

discussione dialettica, mentre l'affermazione dell'accordo sul fondo delle cose,<br />

espresso efficacemente attraverso l'opposizione verbis – re, che di fatto dissolve la<br />

divergenza stessa senza negarla, ne è la conclusione e tra di esse non sussiste<br />

contraddizione alcuna.<br />

La ripresa della Carneadia divisio da parte di Antioco inoltre consiste in una<br />

rilettura in chiave positiva del risultato della dialettica puramente oppositiva di<br />

Carneade. Se lo scopo principale dello strumento carneadeo era quello di far<br />

ricadere l'una sull'altra due posizioni dogmatiche apparentemente opposte, al fine<br />

di neutralizzarne il potenziale assertorio, nelle mani di Antioco, lo stesso<br />

strumento fornisce la base per una formulazione dottrinale conciliatoria che<br />

vorrebbe comprendere in sè tutti i punti di forza delle principali dottrine etiche. E'<br />

comprensibile dunque che nel passaggio in oggetto, Cicerone, in veste di<br />

portavoce di un certo scetticismo carneadeo, ritorni a insistere sulle differenze e<br />

sulla diaphonia in ambito dogmatico, per meglio mostrare gli assunti<br />

soggiacenti all'operazione teoretica e storiografica di Antioco. Cicerone fornisce al<br />

suo lettore tutte le coordinate teoriche e storiche necessarie alla formulazione di<br />

un giudizio approfondito sulla dottrina patrocinata da Antioco: ne fornisce infatti i<br />

riferimenti impliciti, spiega a partire da quali tecniche argomentative o posizioni<br />

dottrinali essa si sia sviluppata e insiste su quali siano le conseguenze che essa<br />

comporta nel panorama più vasto del dibattito filosofico del periodo ellenistico.<br />

Cfr. il seguito (134) in cui Cicerone incalza l'interlocutore: "Ecce multo maior<br />

etiam dissensio: Zeno in una virtute positam beatam vitam putat; quid<br />

Antiochus?".<br />

– Polemonius: occorrenza unica dell'aggettivo; ellipse – del verbo essere.<br />

– rei falsae adsentiens: cfr. Ac.libri I, 45: "quibus de causis nihil oportere<br />

neque profiteri neque adfirmare quemquam neque adsensione approbare,<br />

cohibereque semper et ab omni lapsu continere temeritatem, quae tum esset<br />

insignis cum aut falsa aut incognita re approbaretur, neque hoc quidquam esse<br />

turpius quam cognitioni et perceptioni adsensionem approbationemque<br />

200


B)<br />

praecurrere". In questa precisa frase la dossografia etica presentata da Cicerone si<br />

ricongiunge al tema principale del testo, ovvero la critica del dogmatismo da un<br />

punto di vista epistemologico.<br />

– a sapiente alienum: Il modello dell'infallibilità del saggio, che affonda le<br />

sue radici nella riflessione aristotelica (v. e.g. EN 1113 a 29-33) e che attraversa<br />

trasversalmente il periodo ellenistico 424 , viene impiegato dalla tradizione scettica<br />

nel suo scontro con il dogmatismo; le pretese veritative del dogmatismo si<br />

incarnano nella figura del saggio presa come modello di perfezione e la tradizione<br />

scettica non manca di metterne in luce gli aspetti paradossali: in questo caso<br />

l'infallibilità del saggio viene impiegata per rafforzare l'incompatibilità tra due<br />

divergenti posizioni dogmatiche.<br />

– in veteres Academicos et Peripateticos: il passo si chiude sulla ripetizione<br />

dell'alternativa tra Zenone e gli academici o i peripatetici. I due indirizzi filosofici<br />

che vengono opposti agli stoici, altrove sotto il comune patrocino dell' 'Academia<br />

antica', si trovano qui scomposti in due elementi chiaramente distinti. Come già in<br />

apertura del passaggio, Aristotele e la sua scuola costituiscono una linea teorica a<br />

sè stante, eventualmente convergente con quella academica, ma in nessun modo<br />

interamente riducibile ad essa.<br />

Il frammento presenta l'ultima triade di una dossografia diaphonica, verosimilmente al fine di<br />

spiegare come l'operazione storiografica e dialettica di Antioco d'Ascalona debba essere<br />

considerata alla luce di una contesto filosofico complesso e frammentato. L'opinione sul<br />

sommo bene degli antichi, la cui paternità viene attribuita in particolar modo a Polemone, e<br />

sulla quale Aristotele e i suoi sono detti trovarsi d'accordo, viene posta in dialogo con l'uso<br />

carneadeo di una formula molto simile, anche se non identica. In primo luogo, si nota che la<br />

formula carneadea non include alcun riferimento alla virtù o al vivere in modo moralmente<br />

degno e, in secondo luogo, che la formula polemoniana stabilisce una simultaneità tra l'azione<br />

del conciliare da parte della natura e l'azione del 'fruire' da parte dell'uomo, che invece la<br />

formula carneadea separa su due piani temporali distinti (v. conciliavisset). Risulta dunque<br />

424 v. Annas (2008).<br />

201


difficile considerare la formula carneadea come una ripresa volontaria di una formula<br />

appartenente alla tradizione academica, sopratutto in ragione del fatto che essa sembra<br />

perfettamente concepita per saggiare la consistenza dei principi etici stoici, non certamente<br />

come un'opzione dottrinale. Inoltre la posizione carneadea sembrerebbe particolarmente<br />

vicina alla prospettiva peripatetica sul valore dei beni in accordo con la natura, nella misura in<br />

cui questa si opponeva alla teoria stoica: a partire da essa Carneade poteva mettere in campo<br />

una strategia di attacco allo stoicismo, tendente alla riduzione di due posizioni cosiddette<br />

antagoniste ad un'unico comun denominatore. La presentazione delle tre posizioni in ambito<br />

etico va dunque presa in modo contrastivo, come si evince dalla seconda parte del frammento,<br />

dove la formula polemoniana è presentata come incompatibile con quella stoica, tanto da<br />

porci di fronte un'alternativa irriducibile.<br />

Il particolare approccio di Cicerone alla diaphonia filosofica ne riscopre il potenziale<br />

dialettico a partire da una prospettiva scettica, lo conduce a frenare ogni assenso avventato<br />

dato a una posizione piuttosto che un'altra, e riapre infine uno spazio d'indagine sulla coerenza<br />

e sulle conseguenze di ciascuna posizione. Lo scetticismo probabilista di Cicerone non è<br />

tuttavia di tipo pirroniano 425 : non si tratta di sospendere il giudizio in assoluto, quanto<br />

piuttosto di perseguire l'indagine su basi teoriche condivise o condivisibili. Questo il senso<br />

degli interrogativi sollevati contro l'operazione filosofica di Antioco. Cicerone di fatto accetta<br />

di impegnarsi nell'indagine, come testimonia il rinnovato interesse per le tematiche etiche nel<br />

De finibus e nelle Tusculanae Disputationes, ma senza fare concessioni all'approccio<br />

dogmatico generalmente conciliatore di Antioco, di cui intende discutere in profondità le<br />

premesse epistemologiche, la legittimità storica, gli assunti non dichiarati.<br />

T. 40 : CICERO, ACADEMICA PRIORA – LUCULLUS 45, 138-139.<br />

Testatur saepe Chrysippus tris solas esse sententias quae defendi possint de finibus<br />

bonorum; circumcidit et amputat multitudinem. aut enim honestatem esse finem aut<br />

voluptatem aut utrum. nam qui summum bonum dicant id esse, si vacemus omni<br />

molestia, eos invidiosum nomen voluptatis fugere sed in vicinitate versari; quod facere eos<br />

etiam qui illud idem cum honestate coniungerent, nec multo secus eos qui ad honestatem<br />

prima naturae commoda adiungerent. ita tris relinquit sententias quas putet probabiliter<br />

425 v. Lévy (1992a), p. 342 ; Spinelli (2005).<br />

202


posse defendi. Sit sane ita - quam a Polemonis et Peripateticorum et Antiochi finibus non<br />

facile divellor nec quicquam habeo adhuc probabilius. verum tamen video quam suaviter<br />

voluptas sensibus nostris blandiatur. (...)<br />

Polemo fr. 126; SVF III, 21 ; Antiochus F 5 Mette.<br />

1 quae F 2 : qua AB || finibus F 2 M 2 : finitis AB : fine Reid || 3 add. A 3 N.<br />

Traduzione<br />

Crisippo mostra spesso che, riguardo al fine dei beni, sono tre soltanto le teorie<br />

difendibili, una gran quantità ne toglie di mezzo e le sfronda – infatti il fine è o la<br />

moralità o il piacere o entrambi; ora, coloro che dicono che il sommo bene si presenta<br />

nell'assenza di ogni pena rifuggono il nome disonorevole del piacere, ma dimorano nei<br />

pressi; il che fanno anche quelli che combinano l'assenza di ogni pena con la moralità;<br />

né molto diversamente fanno coloro che aggiungono alla moralità i primi benefici della<br />

natura; così rimangono (solo) tre teorie che egli ritiene possano essere sostenute in modo<br />

plausibile. Sia davvero così, per quanto non mi separo facilmente dalle formule del fine<br />

di Polemone, dei peripatetici e di Antioco, né fin qui ritengo qualche altra teoria più<br />

verosimile – tuttavia vedo certamente quanto dolcemente il piacere lusinga i nostri sensi.<br />

(...)<br />

Contesto<br />

Come già visto (v. T. 39 = Luc. 131-132), l'intero passo del Lucullus 129-141 insiste sulla<br />

dissensio dottrinale tra i filosofi nel campo dell'etica. Si illustrano le difficoltà inerenti ad ogni<br />

presa di posizione dogmatica, per rafforzare la legittimità dell'approccio scettico. Invece di<br />

fornire semplicemente una lista di opinioni variegate come è stato fatto per la fisica, in questo<br />

ambito Cicerone può organizzare il suo discorso secondo gli schemi delle divisiones ethicae.<br />

Dopo aver impiegato la versione carneadea della divisio, Cicerone si avvale anche dello<br />

schema riduzionista impiegato da Crisippo 426 . L'impiego della Carneadia divisio ha mostrato<br />

426 Dubbi sulla natura indipendente o derivata di ciò che viene generalmente chiamato in ambito critico<br />

Chrysippea Divisio sono stati avanzati da Algra (1997). I riferimenti contenuti nei testi ciceroniani portano<br />

tuttavia a credere che ad essa sottenda una strategia argomentativa prettamente stoica, non riducibile ad una<br />

versione parziale di quella che conosciamo come Carneadia divisio. v. oltre p. 223 e ss.<br />

203


quanto ampio sia il disaccordo dei 'saggi' in ambito etico e sopratutto come le formule del<br />

telos degli stoici e degli academici siano irriducibili l'una all'altra (v. T. 39 = Cic., Luc. 131-<br />

132: aut...aut..), andando così a rafforzare la tesi scettica che la verità di nessuna delle<br />

posizioni dogmatiche può essere percepita con assoluta certezza. Ora è tempo di considerare<br />

la questione da un opposto angolo visuale, considerando il modo in cui gli stoici tentano di<br />

risolvere la questione. Piuttosto che fornire una semplice variatio retorica (cfr. Algra (1997),<br />

p. 137), il discorso ciceroniano punta così all'esaustività della trattazione. Non si tratta<br />

propriamente di una disputatio in utramque partem solo perché non si tratta di argomentare a<br />

favore e contro una medesima tesi, Cicerone si avvale però dell'impiego di strumenti dialettici<br />

appartenenti a schieramenti opposti. Una tale versatilità argomentativa si accorda certamente<br />

con la sua formazione forense, ma è caratteristica allo stesso modo dell' impostazione<br />

academica.<br />

Dopo aver distinto con precisione la dottrina stoica da quella di Antioco, ribadisce la necessità<br />

di scegliere o l'una o l'altra. Cicerone dipinge se stesso come di fronte a un dilemma; è infatti<br />

attratto dalle argomentazioni a favore delle due diverse teorie: Luc. 134: "Distrahor, tum hoc<br />

mihi probabilius tum illud videtur, et tamen nisi alterutrum sit virtutem iacere plane puto".<br />

L'uso della Chrysippea divisio dovrebbe aiutarlo a risolvere la questione in modo definitivo,<br />

dal momento che scopo della divisio era con buona probabilità "istruire e fortificare i<br />

principianti sugli elementi di base dall'inizio fino alla fine, il che offre l'occasione per<br />

ricordare anche le dottrine opposte, distruggendo la loro plausibilità come si fa nei tribunali<br />

(Plut., De stoic.rep.: στοιχειοῦν καὶ καταστοιχίζειν τοὺς εἰσαγομένους ἀπ' ἀρχῆς μέχρι τέλους:<br />

ἐφ' ὧν καιρός ἐστι μνησθῆναι καὶ τῶν ἐναντίων λόγων, διαλύοντας αὐτῶν τὸ πιθανόν, καθάπερ<br />

καὶ ἐν τοῖς δικαστηρίοις·)” 427 .<br />

La divisio di Crisippo si fonda su un tattica argomentativa riduzionista che riporta tutte le<br />

teorie etiche esistenti a tre tipologie fondamentali 428 . Essa ruota intorno al concetto di<br />

427 cfr. Luc. 75: « Quam multa ille contra sensus, quam multa contra omnia quae in consuetudine probantur ».<br />

v. J. Mansfeld (1989a), p. 341.<br />

428 A partire da sette teorie di base (v. Fin. III, 30):<br />

1)/ kalo/n<br />

2) h(donh/, 3) a)oxlhsi/a, 4) prw=ta kata£ fu/sin*<br />

5) kalo/n h(donh, 6) kalo/n a)oxlhsi/a, 7) kalo/n/ prw=ta kata£ fu/sin.<br />

Si riducono 3) e 4) a forme di 2); di conseguenza si riducono 5), 6) e 7) a fome di 1) + 2). Si ottengono così tre<br />

opzioni sostenibili: o la virtù, o il piacere, o una somma dei due; cfr. Plato, Philebus 21c-22b; Arist. EN 1098<br />

b 24-26. In Fin. II, 44, Crisippo viene menzionato per aver a lungo discusso sul « duello tra virtù e piacere<br />

(virtuti cum voluptate certatio) », nucleo fondamentale della divisio.<br />

[*rimane incerto se Crisippo abbia contemplato la possibilità teorica che ta£ prw=ta kata£ fu/sin potessero<br />

costituire il sommo bene; v. Lévy (1999), p. 42; così il testo del discorso di Catone: « ...iis tribus qui virtutem<br />

a summo bono segregaverunt, cum aut voluptatem aut vacuitatem doloris aut prima naturae in summis<br />

bonis ponerent,... »; cfr. [Arius Didymus], Dox. A, ap. Stobaeus, Ecl. II, 7, 3, 19-25, p. 47 Wachsmuth:<br />

« γενόμενον γὰρ τὸ ζῷον ᾠκειώθη τινὶ πάντως εὐθὺς ἐξ ἀρχῆς, ὅπερ ἐστὶν ὑποτελίς, κεῖται δ' ἔν τινι<br />

ἢ γὰρ ἐν ἢ ἐν ἢ ἐν »]<br />

Si consideri inoltre la connessione tra la strategia riduzionista della divisio etica e la posizione assunta da<br />

204


honestas, come ci si può aspettare in ambito stoico, e ha come risultato quello di mostrare<br />

come l'unica teoria etica coerente sia quella che non contamina la moralità con nessun<br />

elemento dell'edonismo. In aperta opposizione con la dialettica di Crisippo, Carneade<br />

sviluppa invece una divisio dove trovano posto non solo tutte le teorie etiche effettivamente<br />

sostenute, ma anche quelle puramente sostenibili 429 , fino all'esito paradossale di poterne<br />

contare fino a 288 430 . L'impiego in questo contesto della divisio semplificatrice di Crisippo<br />

potrebbe allora indicare un tentativo da parte di Cicerone di restringere il campo delle opzioni<br />

per risolvere la questione etica a favore di un'unica posizione. Se non fosse che ancora una<br />

volta il dubbio si ripresenta a rafforzare il suo dilemma etico.<br />

Commento<br />

A)<br />

– qui summum bonum ...invidiosum nomen voluptati fugere sed in<br />

vicinitate versari:<br />

invidiosum nomen: Nel confronto tra kalo/n e h(donh/, la tattica argomentativa<br />

principale è quella che punta al discredito dell'h(donh/, come disonorevole, indegna<br />

delle potenzialità dell'uomo, più consona alle bestie che all'uomo, etc. Una<br />

tradizione talmente antica e autorevole può essere chiamata in causa a questo<br />

proposito, che Cicerone non ritiene necessario giustificare l'affermazione di<br />

Crisippo.<br />

Le posizioni che pongono l' a)oxlhsi/a / vacuitas doloris / omnis molestia vacare<br />

come il fine delle azioni umane vengono ridotte a forme mascherate di edonismo,<br />

che tentano senza successo di evitarne l'etichetta infamante. Nè questo resoconto<br />

Crisippo in merito al tema del 'genere di vita' e in particolare sulla 'vita scolastica': v. Bénatouïl (2007), pp. 1-<br />

3.<br />

429 Il rapporto dialettico contrastivo tra le due divisiones costituisce a mio avviso un argomento a favore<br />

dell'anteriorità della Chrysippea divisio rispetto a quella sviluppata da Carneade (cfr. Lévy (1999), pp. 37 ss.;<br />

contra Giusta (1964-1967), vol. I, p. 224; Glucker (1978), p. 54). Il filosofo academico è noto per aver attinto<br />

ampiamente dal suo avversario i materiali impiegati nella discussione.<br />

430 v. la presentazione agostiniana dell'uso della Carneadia divisio da parte di Varrone: a partire da una divisio<br />

(diai/resij) dei primi possibili oggetti di appetizione da parte dell' 'animale' appena nato, si raggiunge il<br />

numero di 288 possibili teorie (Agostinus, De Civ.Dei XIX, 1-3). L'approccio olistico (v. Fin. V, 16: « non<br />

modo quod fuissent adhuc philosophorum de summo bono, sed quot omnino esse possent sententiae » ; De<br />

Civ.Dei XIX, 1: « non quae iam essent sed quae esse possent ») e le premesse naturalistiche coincidono con<br />

l'impostazione della Carneadia divisio, tuttavia è probabile che 288 non fosse il numero di teorie considerato<br />

in origine da Carneade, ma che sia il risultato di una minuziosa analisi condotta da Varrone secondo lo spirito<br />

del metodo carneadeo, filtrato dall'uso antiocheo del medesimo metodo.<br />

205


della Chrysippea divisio, nè quello di Catone nel III libro del De finibus<br />

attribuiscono alle varie posizioni filosofiche discusse l'etichetta corrispondente del<br />

nome di un filosofo, come invece succede nelle varie versioni della Carneadia<br />

divisio; è grazie a quest'ultime allora se sappiamo che il fine dell' a)oxlhsi/a<br />

veniva generalmente associato al nome del filosofo peripatetico Ieronimo di<br />

Rodi 431 e il fine kalo/n a)oxlhsi/a al nome di Diodoro di Tiro 432 , anch'egli<br />

peripatetico.<br />

Cfr. Fin. III, 30: (Cato loquitur) "Quae quamquam vitiose quidam secuti sunt,<br />

tamen non modo iis tribus, qui virtutem a summo bono segregaverunt, cum aut<br />

voluptatem aut vacuitatem doloris aut prima naturae in summis bonis ponerent,<br />

sed etiam alteris tribus, qui mancam fore putaverunt sine aliqua accessione<br />

virtutem ob eamque rem trium earum rerum, quas supra dixi, singuli singulas<br />

addiderunt, his tamen omnibus antepono, cuicuimodi sunt, qui summum bonum in<br />

animo atque in virtute posuerunt".<br />

– nec multo secus eos qui ad honestatem prima naturae commoda<br />

adiungerent:<br />

Anche la posizione etica che associa la moralità con i 'primi benefici della natura'<br />

viene equiparata a una forma di contaminazione della moralità con il piacere.<br />

Come tale è stata criticata la dottrina peripatetica da parte dello stoicismo, v.<br />

Seneca, De vita beata, XV e i commenti di Grimal (1967). Cicerone testimonia<br />

del resto di un ampio dibattito dell'etica ellenistica, svoltosi all'interno sia della<br />

scuola peripatetica sia di quella stoica, a proposito dell'inclusione o esclusione del<br />

piacere nella lista dei primi oggetti di appetizione: v. Fin. V, 45: "in enumerandis<br />

autem corporis commodis si quis praetermissam a nobis voluptatem putabit, in<br />

aliud tempus ea quaestio differatur..." ; cfr. Fin. III, 17.<br />

Le riflessioni di Aristotele sul piacere e la necessità dei beni esterni furono lette<br />

dagli stoici, in prospettiva polemica, come argomentazioni a favore di una tesi<br />

compromessa con l'edonismo, per cui: "è impossibile separare piacere e moralità",<br />

"nessuno può vivere moralmente senza al tempo stesso vivere piacevolmente, né<br />

431 v. Fortenbaugh, White (2004).<br />

432 v. Cic., De Orat. I, 11, Tusc. V, 30, Fin., II, 19, 34; Fin. IV, 50; Fin. V, 14, 21, 73, Luc. 131; Clem. Alex., Str.<br />

II, 21, 127, p. 182 Stählin. N.b. Se come si suppone Diodoro è succeduto a Critolao alla testa del Peripato<br />

intorno al 118 a.C, il suo nome certamente non poteva figurare nell'originale crisippeo per ragioni<br />

cronologiche.<br />

206


piacevolmente senza vivere anche moralmente" 433 .<br />

Prima naturae commoda: v. Fin. V, 58: "quoniam de primis naturae commodis<br />

satis dictum est".<br />

I beni aggiuntivi (oltre alla virtù morale) nella concezione del sommo bene<br />

vengono qui indicati come "prima naturae commoda". Altrove la medesima<br />

formula si trova presentata nella formula honestas + "prima naturae", v. Fin. III,<br />

30: "prima naturae in summis bonis", e viene esplicitamente ricondotta al<br />

pensiero degli 'antichi', ovvero academici e peripatetici insieme, v. Fin. V, 21: "aut<br />

prima naturae, ut antiquis, quos eosdem Academicos et Peripateticos<br />

nominamus". Nell'ambito dell'esposizione del pensiero vetero academico e<br />

peripatetico si trovano inoltre numerosi varianti e perifrasi di quello che<br />

sembrerebbe almeno a prima vista il medesimo concetto: cfr. T. 39 = Luc. 131:<br />

"...quas primas homini natura conciliet"; Ac. libri I, 22: "...quae essent prima<br />

natura quaeque per sese expetenda, aut omnia aut maxima"; Fin. II, 33: "quae<br />

prima data sint natura"; Fin. II, 34 = T. 42: "primis a natura datis"; "prima<br />

naturalia". Questo tipo di locuzioni viene generalmente considerato come la<br />

traduzione latina della locuzione greca ta£ prw=ta kata£ fu/sin, v. Madvig (1876 3 ),<br />

pp. 815-825: Excursus IV. De primis naturae et de Carneadia divisione<br />

sententiarum de summo bono; Reid (1885), p. 147: "a phrase widely used, with<br />

varying sense, in the post-Aristotelian schools".<br />

Cicerone si astiene dal definire con precisione questo concetto centrale del<br />

dibattito etico, la cui genesi e interpretazione filosofica solleva numerose<br />

difficoltà.<br />

È doveroso dunque fornire preliminarmente un breve inquadramento delle<br />

problematiche interpretative connesse al concetto di ta£ prw=ta kata£ fu/sin per<br />

poi tentare una contestualizzazione più precisa dell'espressione "prima naturae<br />

commoda".<br />

Antioco d'Ascalona individuava nel concetto di ta£ prw=ta kata£ fu/sin il punto<br />

di incontro tra la dottrina etica del Peripato e quella dell'Academia. Inoltre sulla<br />

base dell'impiego del medesimo concetto nello stoicismo additava, seguendo una<br />

strategia argomentativa già impiegata da Carneade, un'incoerenza all'interno della<br />

dottrina etica stoica. Nel tentativo di valutare l'affidabilità delle ricostruzioni<br />

433 Sen., De vita beata VII, 1: « vident et in illis qui summum bonum dixerunt quam turpi illud loco posuerint.<br />

Itaque negant posse voluptatem a virtute diduci et aiunt nec honeste quemquam vivere ut non iucunde vivat<br />

nec iucunde ut non honeste quoque ».<br />

207


storiografiche di Antioco, la critica si è abbondantemente interessata alla genesi<br />

del concetto e alla sua funzione nell'etica ellenistica, cercando di sopperire al<br />

problema della scarsità delle fonti attraverso dettagliate analisi comparative.<br />

Generalmente associato al concetto di to£ prw=ton oi)kei=on 434 , ta£ prw=ta kata£<br />

fu/sin indicherebbe una lista (per questo la forma plurale) di oggetti (o azioni)<br />

scelti in conseguenza della 'prima appropriazione' verso se stessi. Una decina di<br />

occorrenze principali dell'espressione ta£ prw=ta kata£ fu/sin in ambito etico è<br />

reperibile nella letteratura greca superstite, a cui si deve aggiungere un passo della<br />

letteratura latina in cui Aulo Gellio fa un riferimento esplicito all'espressione<br />

greca. Sembrerebbe utile in questo contesto fare una rassegna delle suddette<br />

occorrenze e verificarne gli elementi di convergenza e divergenza d'uso:<br />

a) Plutarchus, De communibus notitiis adversus Stoicos 1071a-b : « Παρὰ τὴν<br />

ἔννοιάν ἐστι δύο τέλη καὶ σκοποὺς προκεῖσθαι τοῦ βίου καὶ μὴ πάντων, ὅσα πράττομεν, ἐφ' ἕν<br />

τι γίνεσθαι τὴν ἀναφοράν· | ἔτι δὲ μᾶλλόν ἐστι παρὰ τὴν ἔννοιαν ἄλλο μὲν εἶναι τέλος, ἐπ'<br />

ἄλλο δὲ τῶν πραττομένων ἕκαστον ἀναφέρεσθαι· τούτων δ' αὐτοὺς ὑπομένειν ἀνάγκη<br />

θάτερον. εἰ γὰρ αὐτὰ μὲν πρῶτα κατὰ φύσιν αθὰ μή ἐστιν, ἡ δ' εὐλόγιστος ἐκλογὴ<br />

καὶ λῆψις αὐτῶν καὶ τὸ πάντα τὰ παρ' ἑαυτὸν ποιεῖν ἕκαστον ἕνεκα τοῦ τυγχάνειν τῶν<br />

πρώτων κατὰ φύσιν, ἐπ' ἐκεῖνο δεῖ πάντα ἔχειν τὰ πραττόμενα τὴν ἀναφοράν, τὸ τυγχάνειν<br />

τῶν πρώτων κατὰ φύσιν. † εἴπερ γὰρ οἴονται μὴ στοχαζομένους μηδ' ἐφιεμένους τοῦ τυχεῖν<br />

ἐκείνων τὸ τέλος ἔχειν ἄλλο ἕνεκα οὗ δεῖ ἀναφέρεσθαι †, τὴν τούτων ἐκλογὴν καὶ μὴ ταῦτα·<br />

τέλος μὲν γὰρ τὸ ἐκλέγεσθαι καὶ λαμβάνειν ἐκεῖνα φρονίμως, ἐκεῖνα δ' αὐτὰ καὶ τὸ τυγχάνειν<br />

αὐτῶν οὐ τέλος, ἀλλ' ὥσπερ ὕλη τις ὑπόκειται τὴν ἐκλεκτικὴν ἀξίαν ἔχουσα· τοῦτο γὰρ οἶμαι<br />

καὶ τοὔνομα λέγειν καὶ γράφειν αὐτοὺς ἐνδεικνυμένους τὴν διαφοράν.<br />

{ΕΤΑΙΡΟΣ.} Ἀνδρικῶς μὲν ἀπομεμνημόνευκας καὶ ὃ λέγουσι καὶ ὡς λέγουσι. » 435 .<br />

b) Galenus, De placitis Hippocratis et Platonis V, 6, 10: « οὐ γὰρ ὡς ἐκεῖνοι λέγουσιν<br />

ἀλλ' ὡς ὁ Πλάτων ἐδίδαξε, τὸ τῇ φύσει ζῆν ὁμολογουμένως ἐστίν. ὄντος γὰρ ἐν ἡμῖν τοῦ μὲν<br />

βελτίονος τῆς ψυχῆς μέρους τοῦ δὲ χείρονος, ὁ μὲν τῷ βελτίονι συνεπόμενος ὁμολογουμένως<br />

ἂν λέγοιτο τῇ φύσει ζῆν, ὁ δὲ τῷ χείρονι μᾶλλον ἑπόμενος ἀνομολογουμένως· ἔστι δ' οὗτος μὲν<br />

ὁ κατὰ πάθος ζῶν, ἐκεῖνος δὲ ὁ κατὰ λόγον. οὐκ ἀρκεσθεὶς δὲ τούτοις ὁ Ποσειδώνιος<br />

ἐναργέστερόν τε καὶ σφοδρότερον καθάπτεται τῶν περὶ τὸν Χρύσιππον ὡς οὐκ ὀρθῶς<br />

ἐξηγουμένων τὸ τέλος. ἔχει δὲ ἡ ῥῆσις ὧδε· “ἃ δὴ παρέντες ἔνιοι τὸ ὁμολογουμένως ζῆν<br />

συστέλλουσιν εἰς τὸ πᾶν τὸ ἐνδεχόμενον ποιεῖν ἕνεκα τῶν πρώτων κατὰ φύσιν, ὅμοιον αὐτῷ<br />

ποιοῦντες τῷ σκοπὸν ἐκτίθεσθαι τὴν ἡδονὴν ἢ τὴν ἀοχλησίαν ἢ ἄλλο τι τοιοῦτον. ἔστι δὲ<br />

μάχην ἐμφαῖνον κατ' αὐτὴν τὴν ἐκφοράν, καλὸν δὲ καὶ εὐδαιμονικὸν οὐδέν· παρέπεται γὰρ<br />

434 v. Philippson (1932).<br />

435 Cfr. SVF III, 195; Soreth (1968), p. 58;<br />

208


κατὰ τὸ ἀναγκαῖον τῷ τέλει, τέλος δὲ οὐκ ἔστιν. ἀλλὰ καὶ τούτου διαληφθέντος ὀρθῶς, ἔξεστι<br />

μὲν αὐτῷ χρῆσθαι πρὸς τὸ διακόπτειν τὰς ἀπορίας ἃς οἱ σοφισταὶ προτείνουσι, μὴ μέντοι γε<br />

τῷ κατ' ἐμπειρίαν τῶν κατὰ τὴν ὅλην φύσιν συμβαινόντων ζῆν, ὅπερ ἰσοδυναμεῖ τῷ<br />

ὁμολογουμένως εἰπεῖν ζῆν ἡνίκα μὴ τοῦτο μικροπρεπῶς συντείνει εἰς τὸ τῶν διαφορῶν<br />

τυγχάνειν.” » 436 .<br />

c) Pseudo-Galenus, Definitiones medicae, Volume 19, page 382, line 6 e page<br />

386, line 6.<br />

d) Lucianus, Vitarum auctio 23: « {ΑΓΟΡΑΣΤΗΣ} Οὐ μὲν οὖν· ἀλλ' ἀποκαλύψας αὐτὸν<br />

εἴσομαι τὴν ἀλήθειαν. ὅμως δ' οὖν τί σοι τῆς σοφίας τὸ τέλος, ἢ τί πράξεις πρὸς τὸ ἀκρότατον<br />

τῆς ἀρετῆς ἀφικόμενος; {ΧΡΥΣΙΠΠΟΣ} Περὶ τὰ πρῶτα κατὰ φύσιν τότε γενήσομαι, λέγω δὲ<br />

πλοῦτον, ὑγίειαν καὶ τὰ τοιαῦτα. πρότερον δὲ ἀνάγκη πολλὰ προπονῆσαι λεπτογράφοις<br />

βιβλίοις παραθήγοντα τὴν ὄψιν καὶ σχόλια συναγείροντα καὶ σολοικισμῶν ἐμπιπλάμενον καὶ<br />

ἀτόπων ῥημάτων· καὶ τὸ κεφάλαιον, οὐ θέμις γενέσθαι σοφόν, ἢν μὴ τρὶς ἐφεξῆς τοῦ<br />

ἐλλεβόρου πίῃς. ».<br />

e) Plotinus, Enneades 1, 4, 2.<br />

f) Proclus, Theologia Platonica,Volume 1, 12.<br />

g) Proclus, In Platonis Timaeum commentaria, Volume 1, 200.<br />

h) Porphyrius, De abstinentia III, 27.<br />

i) Joannes Stobaeus, Anthologium II, 7, 3 c, p. 47 Wachsmuth (Dox. A): (i. A. 1)<br />

« γενόμενον γὰρ τὸ ζῷον ᾠκειώθη τινὶ πάντως εὐθὺς ἐξ ἀρχῆς, ὅπερ ἐστὶν ὑποτελίς, κεῖται δ'<br />

ἔν τινι ἢ γὰρ ἐν ἢ ἐν ἢ ἐν <br />

Πρῶτα δ' ἐστὶ κατὰ φύσιν περὶ μὲν τὸ σῶμα ἕξις, κίνησις, σχέσις, ἐνέργεια, δύναμις, ὄρεξις,<br />

ὑγίεια, ἰσχύς, εὐεξία, εὐαισθησία, κάλλος, τάχος, ἀρτιότης, αἱ τῆς ζωτικῆς ἁρμονίας ποιότητες·<br />

περὶ δὲ τὴν ψυχὴν εὐσυνεσία, εὐφυΐα, φιλοπονία, ἐπιμονή, μνήμη, τὰ τούτοις παραπλήσια, ὧν<br />

οὐδέπω τεχνοειδὲς οὐδέν, σύμφυτον δὲ μᾶλλον. »;<br />

Anthol. II, 7, 4 a, p. 56 Wachsmuth (Dox. A): (i. A. 2) : «


εὐεξία, εὐαισθησία, κάλλος, τάχος, ἀρτιότης, ἰσχύς, τὰ παραπλήσια τούτοις, καὶ τῶν<br />

σωματικῶν ἡδονῶν αἱ μηδεμίαν βλάβην ἐπιφέρουσαι. »;<br />

Anthol. II, 7, 7 a, p. 80 Wachsmuth (Dox. B): (i. B. 1): « Ποιεῖσθαι δὲ λέγουσι τὸν<br />

περὶ τούτων λόγον καὶ


possibile constatare allora che l'uso del concetto di ta£ prw=ta kata£ fu/sin nella<br />

formula del fine ("τὸ πᾶν τὸ ἐνδεχόμενον ποιεῖν ἕνεκα τῶν πρώτων κατὰ<br />

φύσιν") viene considerato da parte di Posidonio equivalente a una grave<br />

concessione teorica nei confronti dell'edonismo, di cui sarebbe responsabile<br />

l'interpretazione (errata) di Crisippo della formula zenoniana τὸ τῇ φύσει ζῆν<br />

ὁμολογουμένως 438 . Come già messo in rilievo dalla critica il target delle critiche<br />

di Posidonio non è soltanto Crisippo, ma piuttosto tutte quelle formule impiegate<br />

all'interno della scuola stoica in un preciso contesto polemico/difensivo<br />

verosimilmente provocato dalle critiche dialettiche di Carneade. Posidonio<br />

contesta dunque le strategie difensive adottate dai suoi predecessori per rispondere<br />

alle critiche dei filosofi academici. Antipatro avrebbe infatti impiegato la formula:<br />

"pa=n to£ kaq' au(to£n poiei=n dihnekw=j kai£ a)paraba/twj pro£j to£ tugxa/nein<br />

tw=n prohgoume/nwn kata£ fu/sin" (Stob. II, 76, 13 = SVF III Antipater 57) 439 , in<br />

cui il controverso rapporto tra la vita morale e lo statuto degli oggetti di<br />

appetizione naturale si trova esplicitamente posto al centro della formula del telos.<br />

Un primo problema interpretativo si apre qualora si noti che Posidonio critica<br />

l'uso del concetto di ta£ prw=ta kata£ fu/sin, mentre Antipatro e i suoi successori<br />

impiegano piuttosto l'espressione ta£ (prohgoume/na) kata£ fu/sin.<br />

Come già notato da Philippson (1932), pp. 445-446, le due espressioni non sono<br />

affatto interscambiabili: la prima designa un insieme di oggetti verso i quali è<br />

diretto il primo impulso autoconservativo dell'animale o dell'uomo appena nato;<br />

mentre la seconda individua una categoria più ampia di oggetti rispetto ai quali<br />

l'uomo esercita la propria capacità di giudizio : dal punto di vista stoico, essi<br />

risultano indifferenti dal punto di vista del conseguimento del fine della vita<br />

umana, ovvero la felicità, ma rimangono 'preferibili' nelle scelte pratiche. Le due<br />

categorie di oggetti hanno una diversa funzione teorica e appartengono a due<br />

momenti distinti del discorso etico: la prima è legata al discorso della genesi e dei<br />

primi impulsi naturali, mentre la seconda appartiene all'ambito pratico dell'etica.<br />

Si noti come lo sviluppo dei due discorsi all'interno dello stoicismo si sia svolto<br />

sotto la spinta di diversi interlocutori: l'epicureismo sembra infatti aver enfatizzato<br />

l'autorevolezza dei primi impulsi naturali nell'istruirci sul fine della vita umana;<br />

438 v. T. 44 = Fin. IV 14-15: Convenienter naturae vivere.<br />

439 Cfr. Clem.Alex., Str. II, 21, 129, p. 183 Stählin = SVF III Antipater 58; Plut. De comm. not. 1071 A; Cic.<br />

Fin. V, 20: « facere omnia ut adipiscamur quae secundum naturam sint ». v. Soreth (1968); Striker (1986),<br />

pp.185-204;<br />

211


mentre l'urgenza di determinare i criteri di scelta dell'azione pratica sembrerebbe<br />

appartenere innanzitutto all'impostazione peripatetica del discorso etico. Sulla<br />

questione del 'valore selettivo' di ta£ kata£ fu/sin all'interno della dottrina della<br />

scuola, Zenone si scontrò duramente con Aristone di Chio, discepolo dissidente di<br />

Zenone. Mentre invece rimane controverso in che misura sia stato accettato dallo<br />

stoicismo il concetto di ta£ prw=ta kata£ fu/sin.<br />

Nella misura in cui viene posto sullo stesso piano del concetto di oi(keiw=sij 440 , il<br />

concetto di ta£ prw=ta kata£ fu/sin viene generalmente considerato il punto di<br />

partenza della teoria etica stoica. Non manca chi consideri questo concetto come il<br />

punto di ancoraggio del discorso etico all'ordine della natura che consente allo<br />

stoicismo di oltrepassare i limiti dell'etica della virtù ereditata dal cinismo 441 .<br />

Tuttavia lo studio delle occorrenze non sembra confermare una posizione forte del<br />

concetto all'interno dell'etica stoica o anche solo relativamente indipendente da<br />

contesti polemici.<br />

La testimonianza di Luciano (d) mostra quanto comunemente (nel II sec d.C.) lo<br />

stoicismo veniva associato con il concetto. Tuttavia il tono parodistico del testo fa<br />

leva su una conoscenza sommaria, di tipo 'popolare', delle dispute filosofiche. Che<br />

il testo di Luciano non persegua alcun tipo di precisione filologica o di<br />

ricostruzione filosofica è dimostrato dal fatto che a Crisippo sono attribuiti come<br />

parte del suo corredo filosofico gli argomenti dialettici noti sotto il nome di<br />

Elettra, il Velato, il Dominatore, la cui formulazione è, come noto, antecedente<br />

alla filosofia stoica e il cui uso in epoca ellenistica risponde piuttosto alle esigenze<br />

argomentative degli avversari dell'epistemologia stoica 442 . Tutta la presentazione<br />

del personaggio di Crisippo è in realtà costruita sulla base di note critiche<br />

indirizzate alla filosofia stoica, riguardanti il suo linguaggio, il suo stile, i suoi<br />

metodi di lavoro, le minuzie argomentative e filologiche. È inoltre evidente che,<br />

anche l'esplicitazione del concetto di ta£ prw=ta kata£ fu/sin non rende giustizia<br />

alla prospettiva stoica: la ricchezza infatti può davvero difficilmente rientrare nei<br />

primi oggetti di appetizione naturale, come invece l'impiego dell'espressione nel<br />

testo di Luciano suggerisce. Questo tipo di imprecisione filosofica non solo<br />

440 v. nota bibliografica, p. 177, n. 397.<br />

441 v. Radice (2000), p. 89 ss.<br />

442 Sul Velato, v. Arist., Soph.El. 24, 179 a 32-34 e commenti di Mignucci (1985), pp. 77-84 ; v. DL VII, 198,<br />

sul fatto che Crisippo avesse scritto un testo in due libri sul sofisma del Velato, il che non significa però che<br />

ne raccomandasse l'uso come sottointende Luciano.<br />

212


diminuisce l'attendibilità storica della testimonianza di Luciano, ma suggerisce<br />

sopratutto l'origine polemica delle informazioni da cui l'autore attinge.<br />

Nei testi trasmessi da Giovanni Stobeo (i) - e generalmente attribuiti ad Ario<br />

Didimo 443 – il concetto viene dapprima introdotto come una delle tre possibili<br />

hypotelidi (i. A. 1). Per ammissione stessa del testo il concetto di hypotelis risente<br />

di influenze argomentative posteriori rispetto alla fase più antica del dibattito<br />

etico: (Stob., Anthol. II, 7, 3 c, p. 48 Wachsmuth) "nessuno degli antichi usava il<br />

termine hypotelis, pur conoscendo la cosa (Τὴν δ' ὑποτελίδα τῶν ἀρχαίων<br />

οὐδεὶς ὠνόμασε καίτοι τὸ πρᾶγμα γιγνωσκόντων)"; del resto le tre opzioni<br />

contemplate ("ἢ γὰρ ἐν ἢ ἐν ἢ ἐν ") non corrispondono nè allo schema tripartito crisippeo, nè alle formule<br />

semplici o complesse della Carneadia divisio. L'uso del concetto di ta£ prw=ta<br />

kata£ fu/sin dunque, come anche la lista di oggetti che segue, strutturata secondo<br />

la bipartizione antropologica anima e corpo, vanno considerati in relazione a un<br />

contesto di dibattito etico relativamente avanzato, dove gli esiti delle dispute<br />

polemiche più antiche vengono riletti alla luce di esigenze teoriche<br />

contemporanee. Nel secondo passaggio (i. A. 2) il testo intende porsi in una<br />

prospettiva compatibile con il pensiero "platonico-aristotelico" 444 ed impiega il<br />

concetto all'interno della categoria di 'beni scelti per se stessi', in opposizione<br />

invece ai 'beni scelti in vista d'altro'; la lista che viene fornita descrive inoltre gli<br />

oggetti ta£ prw=ta kata£ fu/sin esclusivamente in relazione al corpo: « ὑγίεια,<br />

εὐεξία, εὐαισθησία, κάλλος, τάχος, ἀρτιότης, ἰσχύς, τὰ παραπλήσια τούτοις,<br />

καὶ τῶν σωματικῶν ἡδονῶν αἱ μηδεμίαν βλάβην ἐπιφέρουσαι », ed è<br />

sostanzialmente equivalente alle liste presenti anche nei testi ciceroniani, v. Fin.<br />

II, 33; Fin. V, 18; Una lista formalmente simile a quella 'platonico-peripatetica'<br />

viene fornita anche nell'esposizione del pensiero stoico (Dox. B), ma questa volta<br />

all'interno della categoria di τὰ κατὰ φύσιν: « Καὶ τὰ μὲν εἶναι <br />

τὰ δὲ τὰ δὲ μὲν οὖν τὰ τοιαῦτα· ὑγίειαν, ἰσχύν, αἰσθητηρίων ἀρτιότητα, καὶ τὰ<br />

παραπλήσια τούτοις· ». La differenza non è senza conseguenze dal punto di<br />

443 In realtà la possibilità di attribuire ad Ario Didimo la paternità del testo delle cosidette Doxography A e<br />

Doxography B è stata contestata da Göransson (1995), v. Introduzione, p. liii e ss. ; lxxiii e ss.<br />

444 v. l'incipit della lista: «< )Aristote/lhj> th£n me£n tria/da tw=n a)gaqw=n kau)to£j o(moi/wj Pla/twni kata£ tou£j<br />

to/pouj»<br />

213


vista teorico. Sempre secondo il testo di Stobeo τὰ πρῶτα κατὰ φύσιν sarebbe<br />

infatti una sottocategoria di τὰ κατὰ φύσιν (ecl. II 82, 11 Wachsmuth) (i. B. 2): «<br />

Τῶν δὲ κατὰ φύσιν ἀδιαφόρων ὄντων τὰ μέν ἐστι πρῶτα κατὰ φύσιν, τὰ δὲ<br />

κατὰ μετοχήν ». La distinzione tra i due concetti è implicita anche nei precedenti<br />

paragrafi del testo (i. B. 2) : « Ποιεῖσθαι δὲ λέγουσι τὸν περὶ τούτων λόγον<br />

καὶ », dove il concetto di ta£<br />

prw=ta kata£ fu/sin viene introdotto in seguito e indipendentemente da quello di<br />

ta£ kata£ fu/sin.<br />

Sulla base del testo trasmesso da Stobeo è possibile in conclusione dubitare che<br />

l'uso di ta£ prw=ta kata£ fu/sin sia esclusivo della teoria stoica o anche che sia in<br />

generale adeguato alla teoria stoica. Il suo uso trasversale in una fase avanzata del<br />

dibattito etico rende plausibile l'ipotesi che la sua introduzione avvenga in un<br />

tempo relativamente tardo e che non corrisponda a un punto di dottrina cardinale<br />

in particolare per l'etica stoica. Se accettiamo che esso sia derivato<br />

secondariamente da τὰ κατὰ φύσιν, allora potrebbe essere altrettanto plausibile<br />

che sia stato imposto alla teoria stoica dal confronto dottrinale con altre istanze, in<br />

ragione della somiglianza contenutistica tra il concetto di τὰ κατὰ φύσιν e quello<br />

di τὰ πρῶτα κατὰ φύσιν impiegato polemicamente dagli avversari proprio per<br />

criticare la modalità d'uso degli assunti naturalistici dell'etica stoica 445 .<br />

Non aiuta a decidere la questione nemmeno la testimonianza di Plutarco (a), la<br />

quale evidentemente adotta la stessa prospettiva critica del libro IV del De<br />

Finibus di Cicerone (v. Fin. IV, 39-41), verosimilmente a sua volta ereditata da<br />

Carneade e Antioco, per cui lo stoicismo tenderebbe a raddoppiare il fine, invece<br />

di progredire coerentemente dalle premesse naturalistiche fino alla determinazione<br />

della formula del fine 446 . Per cui è possibile affermare che l'uso dell'espressione<br />

ta£ prw=ta kata£ fu/sin quantomeno soddisfa le esigenze del contesto polemico,<br />

se non è una diretta conseguenza. Come già nel testo di Galeno l'uso<br />

dell'espressione è funzionale alla critica delle formule del te/loj difese all'interno<br />

dello stoicismo da parte di alcuni esponenti della scuola.<br />

Infine la testimonianza di Aulo Gellio (l) fornisce un'esposizione dei fondamenti<br />

445 Cfr. Schäfer (1934), pp. 294-311.<br />

446 Cfr. Fin. V 19-20;<br />

214


etici dello stoicismo dal punto di vista del platonico Tauro. Non si tratta in alcun<br />

modo di una ripetizione di contenuti genuinamente stoici, i quali sarebbero stati<br />

verosimilmente posti in bocca ad un interlocutore interno alla scuola 447 , ma di una<br />

particolare ri-scrittura dell'etica stoica da parte di istanze esterne, di cui è<br />

testimone anche Cicerone. Come premessa alla sua esposizione, Tauro dice<br />

esplicitamente che "cum Stoicis non bene convenire vel cum Stoica potius; est<br />

enim pleraque et sibi et nobis incongruens, sicut libro, quem super ea re<br />

composuimus, declaratur". Inoltre puntualizza che lo stile da lui adottato sarà<br />

"indoctius et apertius" rispetto a quello "sinuosius atque sollertius" degli Stoici,<br />

garantendosi così un ampio margine di libertà nel riformulare le dottrine stoiche.<br />

Il tocco del filosofo platonico è riconoscibile nell'attribuzione esplicita del<br />

concetto di ta£ prw=ta kata£ fu/sin agli antichi : "quae a veteribus philosophis ta£<br />

prw=ta kata£ fu/sin appellata sunt: ut omnibus scilicet corporis sui commodis<br />

gauderet, ab incommodis omnibus abhorreret"; ma anche nell'insistenza sul<br />

conflitto tra la ragione e gli istinti passionali : "Pugnat autem cum his semper et<br />

exultantis eas opprimit obteritque et parere sibi atque oboedire cogit". Entrambi<br />

gli elementi spingono la dottrina stoica in direzioni difficilmente accettabili dal<br />

punto di vista dello stoicismo delle origini: v. e.g. "recens natus homo inbutus est<br />

et voluptati quidem natura conciliatus";<br />

In conclusione, da uno studio delle occorrenze dell'espressione in greco risulta<br />

evidente che 1) l'uso del concetto di ta£ prw=ta kata£ fu/sin non è equivalente a<br />

ta£ kata£ fu/sin (i. B. 2), e 2) esso deriva verosimilmente non dalle elaborazioni<br />

teoriche dei padri fondatori dello stoicismo, ma dalle evoluzioni terminologiche<br />

incoraggiate dal dibattito intra-scolastico nel periodo ellenistico.<br />

Nel corpus di testi filosofici di Cicerone un calco latino del concetto greco si trova<br />

in due passaggi entrambi nell'ultimo libro del De finibus:<br />

1) Fin. V, 18: "...quae prima secundum naturam nominant, proficiscuntur, in<br />

quibus numerant incolumitatem conservationemque omnium partium,<br />

valetudinem, sensus integros, doloris vacuitatem, viris, pulchritudinem, cetera<br />

generis eiusdem, quorum similia sunt prima in animis quasi virtutum igniculi et<br />

447 Contro questo argomento v. Gellius, Noctes Atticae IX 5, 8: « Taurus autem noster, quotiens facta mentio<br />

Epicuri erat, in ore atque lingua habebat verba haec Hieroclis Stoici, viri sancti et gravis »; cfr. Giusta<br />

(1964-1967), vol. I, p. 174.<br />

215


semina".<br />

All'interno di un'esposizione della Carneadia divisio, il concetto di ta£ prw=ta<br />

kata£ fu/sin viene associato a un'elenco di elementi che ruotano intorno alla<br />

nozione di 'conservazione del corredo naturale dell'uomo': il primo elemento della<br />

lista – 'incolumitas conservatioque omnium partium' – comprende giù in sé gli<br />

elementi successivi, che ne sono in un certo qual modo la conseguenza diretta: la<br />

salute, l'integrità degli organi di senso, l'assenza di dolore, le forze fisiche, la<br />

bellezza etc. sono potenzialmente il risultato della 'salvaguardia e conservazione<br />

di tutte le parti' dell'uomo, la quale diventa il nucleo originario della lista di cose<br />

'quae prima secundum naturam sunt'.<br />

2) Fin. V, 45: "In enumerandis autem corporis commodis si quis<br />

praetermissam a nobis voluptatem putabit, il aliud tempus ea questio differatur.<br />

Utrum enim sit voluptas in iis rebus<br />

quas primas secundum naturam<br />

diximus necne sit, ad id quod agimus nihil interest. Si enim, ut mihi quidem<br />

videtur, non explet bona naturae voluptas, iure praetermissa est. Sin autem est in<br />

ea, quod quidam volunt, nihil impedit hanc nostram comprehensionem summi<br />

esse<br />

boni; quae enim constituta sunt prima naturae, ad ea si voluptas accesserit,<br />

unum aliquod accesserit commodum corporis neque eam constitutionem summi<br />

boni quae est proposita mutaverit".<br />

Il passo accenna alla vexata quaestio sulla presenza o meno del piacere tra i primi<br />

oggetti di appetizione naturale. Ancora più rilevante ai fini della presente indagine<br />

è che dal passo si evince la relazione parte-insieme che sussiste tra 'commoda<br />

corporis' e 'res quae primae secundum naturam sunt'. Inoltre sembrerebbe<br />

legittimo porre sulla medesima linea sinonimica le tre espressioni: res quae<br />

primae secundum naturam sunt – bona naturae – prima naturae.<br />

Queste osservazioni sono valide per quanto riguarda il V libro del De finibus e la<br />

particolare prospettiva storico-filosofica che ne determina la forma e il contenuto.<br />

Senza pretendere di determinare l'esatta estensione dell'influenza di Antioco<br />

nell'esposizione della filosofia peripatetica del V libro, ci si limita qui a constatare<br />

che nel resto del corpus filosofico ciceroniano, l'uso di espressioni quali 'res quae<br />

primae secundum naturam sunt' è estremamente limitato, se non espressamente<br />

216


evitato.<br />

Nei passi di matrice stoica troviamo invece una perifrasi che rende potenzialmente<br />

conto della genesi del concetto: v. Fin. III, 61: "prima autem illa naturae sive<br />

secunda sive contraria sub iudicium sapientis et dilectum cadunt, estque illa<br />

subiecta quasi materia sapientiae". Quegli elementi che altrove vengono<br />

reiteratamente chiamati 'prima naturae', ricevono la qualifica di 'secundum<br />

naturam' o 'contrarium naturam' nel processo di giudizio e di scelta operato, in<br />

questo caso specifico, dal saggio, ma nel contesto pratico dell'etica stoica, più in<br />

generale anche dall'uomo che agisce eticamente. La relazione di corrispondenza /<br />

conformità, resa in greco dalla preposizione kata£ + acc. si determina nel giudizio<br />

portato sugli elementi di un'azione, il quale, nella teoria stoica inaugura le fasi più<br />

avanzate dello sviluppo dell'uomo in quanto agente etico.<br />

Ampiamente più abbondante è l'uso dell'espressione prima naturae e delle sue<br />

varianti, in contesti stoici :<br />

Fin. III, 17: "illa quae prima sunt ascita natura diligamus".<br />

Fin. III, 19: "sunt enim quasi prima elementa naturae".<br />

in. III, 21: "prima est conciliatio hominis ad ea quae sunt secundum naturam".<br />

Fin. III, 22: "non est in primis naturae conciliationibus honesta actio; consequens<br />

enim est et post oritu, ut dixi. Est tamen ea secundum naturam multoque nos ad se<br />

expetenda magis hortatur quam superiora omnia".<br />

Fin. III, 61: "iis qui pluribus naturalibus frui possint esse in vita manendum"<br />

in contesti 'indipendenti' dalla stoicismo:<br />

Luc. 131: "...quas primas homini natura conciliet".<br />

Fin. II, 34: "primis a natura datis"; "prima naturalia": (membra, sensus, ingeni<br />

motum, integritate corporis, valetudo).<br />

Ac.libri, 22: "quae essent prima natura quaeque per sese expetenda, aut omnia<br />

aut maxima".<br />

Fin. IV, 25: "primamque ex natura hanc habere appetitionem ut conservemus<br />

nosmet ipsos".<br />

Fin. IV, 32: "Quae autem natura suae primae institutionis oblita est?".<br />

Fin. IV, 41: "nam constitui virtus nullo modo potest nisi ea quae sunt prima<br />

naturae ut ad summam pertinentia tenebit".<br />

217


Fin. IV, 43: (relicti) "ea quae ad naturam accomodata et per se assumenda esse<br />

dicunt non adiungunt ad finem bonorum...hi autem ponunt illi quidem prima<br />

naturae, sed ea seiungunt a finibus et a summa bonorum".<br />

Fin. V, 21: "...adiungi potest ad honestatem...aut prima naturae, ut antiquis, quos<br />

eosdem Academicos et Peripateticos nominamus".<br />

Si noterà inoltre che l'uso dell'espressione 'secundum naturam' è generalmente<br />

dissociato dall'indicazione di un primato temporale: Fin. III, 31: "Sed quae<br />

perspicua sunt longa esse non debent; quid autem apertius quam, si selectio nulla<br />

sit ab iis rebus quae contra naturam sint earum rerum quae sint secundum<br />

naturam tollatur omnis ea quae quaeratur laudeturque prudentia?" ; Fin. V, 72:<br />

"ea quae secundum naturam illi ipsi gloriosi esse fateantur". Il che risulta ancor<br />

più evidente qualora si considerino le varie versioni della formula del fine degli<br />

antichi academici e peripatetici:<br />

T. 39 = Luc. 131-132: "honeste vivere fruentem rebus is quas primas homini<br />

natura conciliet".<br />

T. 40 = Luc. 138-139: “ad honestatem prima naturae commoda adiungerent".<br />

T. 42 = Fin. II, 33-34: “...quae maximae sunt in primis...ea quae prima data sint<br />

natura...”; “secundum naturam vivere, id est virtute adhibita frui primis a natura<br />

datis”.<br />

T. 44 = Fin. IV, 14-15: "omnibus aut maximis rebus iis quae secundum naturam<br />

sint fruentem vivere”.<br />

Fin. IV, 25: "earum rerum quae sint secundum naturam quam plurima quam<br />

maxima adipisci".<br />

Laddove si impiega la preposizione 'secundum' non compare alcuna indicazione di<br />

primato (temporale o gerarchico) e viceversa.<br />

Dal momento che la formula (honestas + prima naturae[commoda]) viene<br />

presentata come il punto di convergenza di tutta la tradizione vetero-academica<br />

(Academia + Peripato), sarebbe auspicabile una valutazione precisa del valore<br />

storico di questa formula: fino a che punto le esigenze di semplificazione<br />

dossografica hanno influito sulla modalità di presentazione della posizione dei<br />

peripatetici prima e poi anche dell'Academia antica?<br />

L'ipotesi più naturale è che questo tipo di formulazione concettuale sia il frutto di<br />

218


una riscrittura stoica e crisippea delle posizioni avversarie (v. Lévy (1999), p. 38).<br />

Lo stoicismo avrebbe così tentato con successo di imporre alle altre istanze<br />

filosofiche il proprio linguaggio. Ovvero, per indicare la presenza nella teoria<br />

peripatetica di una serie di beni che esulano dalla virtù sarebbe stata impiegata la<br />

terminologia stoica ta£ prw=ta kata£ fu/sin, evitando così l'uso di locuzioni come<br />

'ta£ swmatika£ (a)gaqa/)' o 'ta£ e)kto£j (a)gaqa/)' che contravvengono di per sé al<br />

principio stoico che la virtù è l'unico bene.<br />

Ritengo tuttavia non del tutto improbabile che una fomula di questo tipo venisse<br />

spontaneamente impiegata dal Peripato negli scontri polemici con lo stoicismo e<br />

in particolare con Crisippo. Esigenze di confronto avrebbero potuto stimolare una<br />

maggiore uniformità di linguaggio, affinché le rispettive specificità dottrinali<br />

risultassero chiaramente esplicitate.<br />

In tal modo Carneade avrebbe potuto selezionare uno dei due elementi della<br />

formula per argomentare dialetticamente contro gli stoici (v. T. 39 = Luc. 131-<br />

132: frui rebus is quas primas natura conciliavisset). Una delle grandi<br />

provocazioni del filosofo academico consiste nell'affermare che il disaccordo tra<br />

stoici e peripatetici è di tipo meramente verbale 448 e la sua divisio fondata sulle<br />

premesse naturalistiche dell'etica aveva verosimilmente come scopo quello di<br />

forzare lo stoicismo in direzione di una formula del telos composita come quella<br />

dei peripatetici 449 . Carneade avrebbe così tratto vantaggio dal fatto che nello<br />

scontro dottrinale il vocabolario delle due scuole poteva essersi almeno<br />

parzialmente uniformato.<br />

Esistono inoltre, come già accennato sopra, altre attestazioni dell'uso del concetto<br />

di ta£ prw=ta kata£ fu/sin nella tradizione 'peripatetica', v. l'epitome cosidetta di<br />

[Ario Didimo] in Giovanni Stobeo: (Ecl. II, 7, 3 g, pp. 51-52 Wachsmuth – Dox.<br />

A) " δ' ὑποτίθεται τῆς ἐφέσεως τῶν ἀνθρωπίνων ὀρέξεων τρεῖς,<br />

τὸν τοῦ καλοῦ, τοῦ συμφέροντος, τοῦ ἡδέος. μὲν οὖν ἐστιν ἀρετὴ καὶ<br />

τὸ μέτοχον τῆς ἀρετῆς, ὥσπερ αὐτὸς ὁ σπουδαῖος, καὶ τὸ ἀπ' ἀρετῆς ἔργον·<br />

448 v. Cic., Fin. III, 41; Tusc. V, 120. Carneade poteva denunciare la sottile differenza verbale ad esempio tra la<br />

categoria stoica delle 'cose scelte' ( prohgme/na / proposita ) e la lista peripatetica dei beni tripartiti.<br />

449 Per le premesse naturalistiche della divisio di Carneade v. Fin. V, 17: « constitit autem fere inter omnes, id,<br />

in quo prudentia versaretur et quod assequi vellet, aptum et accomodatum naturae esse oportere et tale ut<br />

ipsum per se invitaret et alliceret appetitum animi, quem o(rmh/n Graeci vocant. Quid autem sit quod ita<br />

moveat itaque a natura in primo ortu appetatur, non constat, deque eo est inter philosophos, cum summum<br />

bonum exquiritur, omnis dissensio ».<br />

219


καὶ τὸ ἀγαθὸν [τὸ] καλόν, καθὸ ἐπαινετὸν ἤτοι παρέχον ἐπαινετούς·<br />

δὲ πρὸς τὸ ζῆν εὔχρηστον· συμπαρατείνοι δ' ἂν ἡ ἔννοια καὶ<br />

πρὸς τὸ εὖ ζῆν. Ταῦτα δ' ἐστὶ πρῶτα κατὰ φύσιν ψυχῆς καὶ σώματος, περὶ<br />

ὧν προείρηται. δ' ἐστὶν οἰκεῖον ψυχῆς καὶ σώματος πάθος, εἰς τὸ κατὰ<br />

φύσιν ἐκ τοῦ παρὰ φύσιν ἀγωγόν, ὥσπερ ὁ Πλάτων ἐν τῷ Τιμαίῳ ὡρίσατο 450 ".<br />

Il testo di [Ario Didimo] 451 nel suo complesso solleva numerose difficoltà.<br />

Sarebbe probabilmente scorretto impiegarlo come prova definitiva dell'esistenza<br />

di una teoria genuinamente peripatetica su ta£ prw=ta kata£ fu/sin, poiché è<br />

evidente che risente anch'esso delle molteplici e stratificate influenze culturali con<br />

cui si confronta anche Cicerone. Tuttavia il testo offre senza dubbio una<br />

testimonianza dossografica di grande valore, nella misura in cui tiene conto degli<br />

sviluppi dottrinali del Peripato e della Stoa in epoca ellenistica 452 . Rappresenta<br />

dunque un interessante termine di confronto per le informazioni fornite dal testo<br />

ciceroniano.<br />

La testimonianza qui riportata è inserita in un testo più ampio conosciuto come<br />

Dossografia A di [Ario Didimo]. Mi limito a constatare che il testo presenta una<br />

struttura diairetica funzionale al confronto tra la dottrina peripatetica e la dottrina<br />

stoica. Non si tratta di diaireseis risolutive del problema del fine ultimo, come<br />

quello trasmesse sotto il nome di Crisippo e Carneade, ma di diareseis della<br />

materia etica, ovvero di schemi d'indagine secondo il metodo inaugurato da<br />

Platone e dalla sofistica 453 . L'impressione di eccessiva schematicità viene<br />

giustificata dalla critica con l'intento essenzialmente dossografico del testo.<br />

Secondo l'approccio critico dominante, l'opera di [Ario Didimo] è una<br />

compilazione scolastica delle dottrine di varie scuole filosofiche e l'attendibilità<br />

450 v. Plato, Tim. 64 c-d : « τὸ μὲν παρὰ φύσιν καὶ βίαιον γιγνόμενον ἁθρόον παρ' ἡμῖν πάθος ἀλγεινόν, τὸ<br />

δ' εἰς φύσιν ἀπιὸν πάλιν ἁθρόον ἡδύ, τὸ δὲ ἡρέμα καὶ κατὰ σμικρὸν ἀναίσθητον, τὸ δ' ἐναντίον τούτοις<br />

ἐναντίως ». cfr. Rep. 583c; Phileb. 31d sgg.<br />

451 Il passo in oggetto è tratto dalla sezione 'Peri£ tou= h)qikou= ei)/douj th=j filosofi/aj < )Ek th=j Didu/mou<br />

e)pitomh=j >, dove la menzione dell'autore è un'integrazione dell'editore sulla base di una convinzione diffusa,<br />

ma non comprovata, che il testo di Dox. A e Dox. B provengano dalla mano dello stesso autore di Dox. C. In<br />

tempi recenti un contributo fondamentale all'inquadramento di questo tipo di testi è stato dato dai numerosi<br />

ripensamenti sull'uso più o meno appropriato del termine 'eclettico', v. Dillon, Long (1988); in particolare<br />

Donini (1988), p. 31. Sul caso emblematico dell'epitome di etica peripatetica di Ario Didimo, v. Giusta<br />

(1964-1967), che la considera uno dei testi chiave per ricostruire la struttura di un modello dossografico di<br />

origine peripatetica risalente al primo Peripato; v. anche i più recenti studi metodologicamente differenti<br />

riuniti in Fortenbaugh (1983). Per una discussione dettagliata sull'identità di Ario Didimo e la legittimità<br />

dell'attribuzione del testo in oggetto v. Göransson (1995), pp. 203-226; B. Inwood, review of Göransson in<br />

BMCR 95.12.8 [electronic]=7 (1996), 25-30.<br />

452 Similitudini e differenze con Cicerone: Giusta (1964-1967); Magnaldi (1991).<br />

453 v. Introduzione, pp. lviii-lxi e ss.<br />

220


del metodo di lavoro del suo autore è da molti punti di vista discutibile proprio a<br />

causa della presenza di anacronismi lessicali ed elementi riconducibili allo<br />

stoicismo anche nelle sezioni dedicate alla teoria peripatetica.<br />

La mia ipotesi di lavoro contrasta con l'approccio critico dominante nella misura<br />

in cui si basa sulla possibilità di reperire all'interno del testo di [Ario Didimo]<br />

un'intenzionalità più complessa rispetto a quella di una semplice dossografia<br />

totalmente dipendente da fonti precedenti. La struttura diairetica sembrerebbe<br />

innanzitutto funzionale al confronto dottrinale e le convergenze lessicali sarebbero<br />

giustificabili nel contesto degli scontri dialettici tra le diverse istanze filosofiche,<br />

all'interno dei quali la costituzione di un terreno linguistico comune è<br />

indispensabile per il confronto (v. Introduzione, pp. xxxix-xlvi).<br />

Per quanto riguarda questo preciso passaggio si può notare allora come il concetto<br />

di ta£ prw=ta kata£ fu/sin si trovi integrato in un discorso marcatamente<br />

peripatetico, dove nessuna concessione di tipo dottrinale viene fatta allo<br />

stoicismo 454 . In generale si può notare come al di là delle scelte lessicali, l'intento<br />

primario di [Ario Didimo] sia quello di fornire un'esposizione efficace delle<br />

specificità dottrinali delle due tradizioni poste a confronto, da una parte la<br />

tradizione che fa capo a Platone e Aristotele, dall'altra quella inaugurata lo<br />

stoicismo. Una simile lettura rafforza la legittimità di un'interpretazione che vede<br />

nell'uso di una terminologia comune tra stoicismo e Peripato in una determinata<br />

fase del periodo ellenistico il risultato dell'intenso confronto dottrinale tra le due<br />

scuole, il quale esigeva di fatto una riformulazione sempre più serrata delle<br />

rispettive posizioni, sia da parte dello stoicismo, sia da parte del Peripato 455 . Non<br />

casuale inoltre è la presenza nel testo di [Ario Didimo] del riferimento alle<br />

diaireseis impiegate in ambito academico (rif. a Filone di Larissa e Eudoro<br />

d'Alessandria). La sistematizzazione della materia etica in ambito academico<br />

raccoglie la tradizione dialettica formalizzata nel Peripato di Aristotele e si rivela<br />

funzionale alla comparazione ed elaborazione delle istanze dogmatiche (v.<br />

Introduzione, pp. lxxiv-lxxvii).<br />

L'ipotesi di lavoro che si prende qui in considerazione si propone dunque di<br />

considerare la formula del fine in oggetto (honestas + prima naturae) come il<br />

risultato di un dialogo che comprende almeno tre interlocutori: da una parte due<br />

454 v. l'uso del concetto peripatetico di o/(recij/ e non di quello stoico di o)rmh.<br />

455 cfr. Annas (1990), pp. 80-82.<br />

221


istanze 'dogmatiche' in opposizione tra loro (Stoa e Peripato), che hanno di fatto<br />

bisogno di trovare un terreno lessicale comune per rimarcare le rispettive<br />

differenze, dall'altra un'istanza di tipo academico-scettico (Carneade), che dopo<br />

aver fatto leva sulla possibilità di una convergenza lessicale, finisce per contestare<br />

la legittimità delle posizioni/opposizioni delle istanze dogmatiche. Ad esse va ad<br />

aggiungersi l'operazione di rilettura in chiave positiva dei risultati<br />

'decostruzionisti' di Carneade da parte di Antioco d'Ascalona.<br />

In conclusione bisogna tener presente che la natura malleabile dello strumento<br />

della divisio, Carneadia o Chrysippea che sia, la espone inevitabilmente ad<br />

impieghi e contaminazioni molteplici. Non possiamo allora essere sicuri che la<br />

versione riportata da Cicerone corrisponda all'originale crisippeo, né tantomeno<br />

che quest'ultimo contemplasse il telos kalo/n/ prw=ta kata£ fu/sin qui discusso.<br />

Le tre posizioni complesse, ridotte dunque ad un'unica morfologia (honestas +<br />

voluptas), vengono tolte di mezzo con un'unica domanda retorica: "Tune, cum<br />

honestas in voluptate contemnenda consistat, honestatem cum voluptatem<br />

tamquam hominem cum belva copulabis?" (Luc. 139).<br />

commoda: come si evince da Fin. III, 69: « incommoda autem et commoda (ita<br />

enim eu)xrhsth/mata et dusxrhsth/mata appello) communia esse voluerunt (scil.<br />

Stoici), quorum altera prosunt, nocent altera », 'commoda' traduce<br />

eu)xrhsth/mata, « benefici, vantaggi ». L'uso di vari derivati del verbo eu)xrhste/w<br />

è ben attestato nella tradizione stoica (v. SVF III, 23; 168; 184, 233; 334); si noti<br />

però che nel testo di Giovanni Stobeo citato sopra (Ecl. II, 7, p. 51-52<br />

Wachsmuth) la categoria di ta£ prw=ta kata£ fu/sin rientra nel concetto di <br />

πρὸς τὸ ζῆν εὔχρηστον. Il concetto di « τὸ εὔχρηστον » permette un impiego<br />

trasversale: è molto frequente, oltre che nella dossografia sullo stoicismo (D.L.<br />

VII, 98; 99), nella tradizione medica antica (Corpus Hippocraticum, Galeno), in<br />

ambito matematico (Tolomeo, Teone) e in ambito logico (Alessandro d'Afrodisia).<br />

Il termine 'commoda' viene impiegato come 'parola chiave' della disputa tra stoici<br />

e peripatetici da parte dell'interlocutore stoico del De natura deorum: v. ND I, 16:<br />

« interesse plurimum inter Stoicos, qui honesta a commodis non nomine, sed<br />

genere toto diiungerent, et Peripateticos, qui honesta commiscerent cum<br />

222


commodis, ut ea inter se magnitudine et quasi gradibus, non genere differrent ».<br />

Balbo rimprovera ad Antioco di non cogliere la sostanziale discrepanza tra il<br />

pensiero stoico e quello peripatetico sulla questione fondamentale del rapporto tra<br />

'honestas' e 'commoda'. Un esempio della tattica argomentativa, impiegata da<br />

Carneade prima e da Antioco poi, per ridurre le divergenze tra le due scuole a<br />

delle differenze puramente lessicali si scorge in : Fin. IV, 59: « Omnium autem<br />

eorum commodorum, quibus non illi plus tribuunt qui illa bona esse dicunt, quam<br />

Zeno, qui negat, longe praestantissimum esse, quod honestum esset atque<br />

laudabile; sed si duo honesta proposita sint, alterum cum valetudine, alterum cum<br />

morbo, non esse dubium ad utrum eorum natura nos ipsa deductura sit...».<br />

Reid (1885), p. 123 ritiene che l'espressione « vitae commoda » fosse di uso<br />

comune: v. Ac.libri I, 23: « eaeque voluptatibus et multis vitae commodis<br />

anteponebantur »; Tusc. I, 30 ; Tusc. I, 87; ND I, 23; ND II, 167; Lucr. 3, 2:<br />

« inlustrans commoda vitae »; Ovid., Pont. I, 8, 29: « urbanae commoda vitae »; è<br />

probabile dunque che Cicerone intendesse inserire la nozione di « comodità,<br />

vantaggio » nella resa latina del concetto di ta£ prw=ta kata£ fu/sin, per<br />

sottolineare una possibile coloritura utilitaristica del concetto. Tuttavia l'uso di<br />

'commoda' implica una connotazione forte del contenuto dei 'primi benefici della<br />

natura': v. Ac.libri, 19: « ...neque ulla alia in re nisi in natura quaerendum esse<br />

illud summum bonum quo omnia referrentur, constituebantque extremum esse<br />

rerum expetendarum et finembonorum adeptum esse omnia e natura et animo et<br />

corpore et vita ». Dal discorso di Varrone si deduce che i beni della natura si<br />

distinguono in tre categorie: dell'anima, del corpo e della vita o esterni 456 . Tuttavia<br />

l'uso di 'commoda' si trova prevalentemente associato con i beni corporei o esterni.<br />

Cfr. anche Ac.libri I, 23: « eae (scil. amicitia, iustitia, aequitas) et voluptatibus et<br />

multis vitae commodis anteponebantur »; Fin. III, 41: « illi...corporis commodis<br />

compleri vitam beatam putant, nostri nihil minus »; Fin. V, 45: « unum aliquod<br />

accesserit commodum corporis neque eam constitutionem summi boni, quae est<br />

proposita, mutaverit »; Tusc. I, 87: « ergo etiam carere mortuos vitae commodis,<br />

456 Cfr. la tripartizione peripatetica dei beni: D.L. VII, Stobaeus, Ecl. II, 70. v. Plato, Gorg. 467 e 4; 477 c 1;<br />

Rep. X 618 c 8 - d 1; Phileb. 48 e 1-10; Arist. EN 1098 b 12-14; Pol. 1323 a 25-26. Cfr. il passo di Sesto<br />

Empirico dove la tripartizione dei beni viene attribuita in egual misura anche all'Academia antica : Adv.<br />

math. XI, 45 : « οἱ μὲν γὰρ ἀπὸ τῆς Ἀκαδημίας καὶ τοῦ Περιπάτου τρία γένη φασὶν εἶναι τῶν ἀγαθῶν, καὶ<br />

ἃ μὲν περὶ ψυχὴν ὑπάρχειν, ἃ δὲ περὶ σῶμα, ἃ δὲ ἐκτὸς ψυχῆς τε καὶ σώματος, περὶ μὲν οὖν ψυχὴν τὰς<br />

ἀρετάς, περὶ δὲ τὸ σῶμα ὑγίειαν καὶ εὐεξίαν καὶ εὐαισθησίαν καὶ κάλλος καὶ πᾶν ὃ τῆς ὁμοίας ἐστὶν<br />

ἰδέας, ἐκτὸς δὲ ψυχῆς καὶ σώματος πλοῦτον πατρίδα γονεῖς τέκνα φίλους, τὰ παραπλήσια. », commento<br />

in Spinelli (1993), pp. 441-456 ; Spinelli (1995), pp. 212-216.<br />

223


idque esse miserum? »; Off. II, 88: « et corporis commoda cum externis [et<br />

externa cum corporis] et ipsa inter se corporis et externa cum externis comparari<br />

solent. Cum externis corporis hoc modo comparantur, valere ut malis quam dives<br />

esse, [cum corporis externa hoc modo, dives esse potius quam maxumis corporis<br />

viribus,] ipsa inter se corporis sic, ut bona valetudo voluptati anteponatur, vires<br />

celeritati, externorum autem, ut gloria divitiis, vectigalia urbana rusticis »;<br />

Rhet.Her. III, 13: « commoda et incommoda corporis »; Aulus Gellius, Noct.Att<br />

XII 5,7 (SVF III 181): « Natura...hoc esse fundamentus ratast conservandae<br />

hominum perpetuitas, si unusquisque nostrum, simul atque editus in lucem foret,<br />

harum prius rerum sensum adfectionemque caperet, quae a veteribus philosophis<br />

ta£ prw=ta kata£ fu/sin appellata sunt: ut omnibus scilicet corporis sui commodis<br />

gauderet, ab incommodis omnibus abhorreret ». La particolare resa del concetto<br />

si concilia perfettamente con la dottrina peripatetica dei beni tripartiti, per cui i<br />

beni dell'anima sono presi in considerazione in quanto virtù. Meno facile invece è<br />

conciliare l'uso di commoda con la concezione cosiddetta vetero academica e<br />

peripatetica dei 'prima in animis', 'quasi virtutum igniculi et semina', proposta in<br />

Fin. V, 18 ed esplicitamente associata al calco latino di ta£ prw=ta kata£ fu/sin.<br />

Cfr. August. DeCiv.Dei XIX, 1.2: “prima naturae, in quibus et haec sunt et aliam<br />

vel in corpore, ut membrorum integritas et salus atque incolumitas eius, vel in<br />

animo, ut sunt ea, quae vel parva vel magna in hominum reperiuntur ingeniis”;<br />

cfr. Magnaldi (1991), p. 76-77.<br />

adiungerent: cfr. Fin. III, 30; Fin. V, 21: "Nam aut voluptas adiungi posset ad<br />

honestatem, ut Calliphonti Dinomachoque placuit, aut doloris vacuitas, ut<br />

Diodoro, aut prima naturae, ut antiquis, quos eosdem Academicos et<br />

Peripateticos nominamus"; Fin. II, 19: "Multi enim et magni philosophi haec<br />

ultima bonorum iuncta fecerunt; ut Aristoteles virtutis usum cum vitae perfectae<br />

prosperitate coniunxit, Callipho adiunxit ad honestatem voluptatem, Diodorus<br />

ad eandem honestatem addidit vacuitatem doloris".<br />

La presentazione di alcune posizioni etiche come la somma di due elementi<br />

distinti deriva verosimilmente proprio dalla dialettica semplificatrice della<br />

Chrysippea divisio ed è funzionale alla loro confutazione. Ridotte ad una somma<br />

di due elementi eterogenei (kalo/n h(donh) tutte le teorie vengono accantonate<br />

con un'argomentazione unica. È da tener presente dunque che per alcune delle<br />

224


teorie chiamate in causa questa potrebbe non essere la più appropriata delle<br />

presentazioni. Tutte le dossografie reperibili nei testi di Cicerone sono del resto il<br />

risultato di un'uniformizzazione strutturale delle posizioni filosofiche prese in<br />

considerazione, dal momento che il loro scopo è quello di facilitare il confronto<br />

tra dottrine discordanti e generalizzare le questioni che ognuna di esse affronta in<br />

modo particolare (v. Michel (1967-1968), pp. 108-109). Donini (1988), p. 16, cita<br />

l'uso dei verbi iungere e coniungere in Fin. II, 19 e Fin. V, 21 nel suo studio sulla<br />

storia del concetto di 'ecletticismo': ricorre senza dubbio negli scritti di Cicerone<br />

l'idea che due nozioni, talvolta derivanti da filosofi diversi, si possano fondere e<br />

formarne una terza. Si noti tuttavia che questa forma di 'ecletticismo', invece di<br />

fornire una ricostruzione dottrinale 'neutrale', è il risultato della tattiche<br />

argomentative implicite nelle divisio ethicae.<br />

Il resoconto varroniano contenuto nel testo del De civitate Dei di Agostino, rende<br />

conto del meccanismo di congiunzione o associazione in un modo decisamente<br />

più eloquente. Rispetto a primi oggetti di appetizione naturale, la virtus compare<br />

nella vita dell'uomo in un tempo successivo per effetto dell'insegnamento XIX, 1,<br />

2: "ut vel virtus postea doctrina inserit"; essa inoltre può essere articolata rispetto<br />

agli oggetti di appetizione naturale secondo tre modalità diverse, in<br />

subordinazione, in anteposizione, o in congiunzione/associazione, v. "ergo<br />

voluptas corporis animi virtuti aut subditur aut praefertur aut iungitur". L'assenza<br />

di questo tipo di precisazioni nel testo ciceroniano si può spiegare in vario modo:<br />

esse potrebbero esser state elaborate soltanto da Varrone in aggiunta all'uso della<br />

divisio da parte di Antioco, potrebbero esser state considerate da Cicerone non di<br />

vitale importanza e dunque omesse, oppure si potrebbe anche trattare di punti di<br />

dottrina controversi.<br />

– tris relinquit sententias quas putet probabiliter posse defendi: La<br />

dialettica riduttivista di Crisippo riporta tutto il dibattito etico ad una scelta tra tre<br />

opzioni. Il dilemma di Eracle al bivio che nella rappresentazione classica doveva<br />

scegliere tra la strada del piacere e la strada della virtù, si ritrova arricchito di<br />

un'ulteriore articolazione. Già il Filebo (21d-22b) di Platone delinea<br />

un'interessante riflessione sui limiti di una dicotomia netta tra la scelta di vita del<br />

piacere e la scelta di vita della virtù, portando sulla scena l'opzione combinata di<br />

un'unione tra piacere e saggezza. Le riflessioni etiche di Aristotele possono essere<br />

lette in continuità rispetto a questo tipo di considerazioni platoniche, quando<br />

225


invece lo stoicismo conserva l'antitesi tra piacere e virtù nel centro della sua teoria<br />

etica.<br />

È interessante notare, inoltre, che nello sviluppo dossografico della Chrysippea<br />

divisio le tre opzioni finiscono per ricalcare la divisione antropologica tra anima e<br />

corpo: v. [Arius Didymus], Dox. A, ap. Stobaeus, Ecl. II, 7, 3 d, p. 48 Wachsmuth:<br />

"Tw=n peri£ te/louj dialexqe/ntwn oi( me£n yuxiko£n ei)=nai dienoh/qhsan, oi( de£<br />

swmatiko/n, oi( de£ mikto£n e)c a)mfoi=n" ; August. De civ. Dei XIX 1, 9: "...ut non<br />

alii in animo, alii in corpore, alii in utroque fines bonorum ponerent et malorum".<br />

– sit sane ita: cfr. Brut. 279; Leg. I, 2.<br />

– quamquam a Polemonis et Peripateticorum et Antiochi finibus non<br />

facile divellor: La formula del fine academico-peripatetica viene richiamata in<br />

causa anche se lo scopo della Chrysippea divisio era quello di escluderne la<br />

plausibilità in quanto commistione di elementi etereogenei, in quanto<br />

contaminazione della virtù con il piacere. Sembrerebbe allora che la formula<br />

resista al criticismo stoico.<br />

Per la prima volta in Cicerone alla formula viene assegnata una paternità<br />

congiunta: Polemone + i peripatetici + Antioco. Si noti che, invece di chiamare in<br />

causa un rappresentante particolare della scuola peripatetica, Cicerone lascia che il<br />

riferimento rimanga complessivo, mentre l'Academia viene evocata attraverso un<br />

unico campione: Polemone. La formula composita del fine sarebbe allora il<br />

risultato di una doppia addizione: a partire dalle riflessioni etiche di Polemone, si<br />

aggiungano elementi della filosofia peripatetica (in generale), in seguito si<br />

aggiunga la prospettiva storiografico-interpretativa di Antioco d'Ascalona. Il<br />

risultato è una concezione composita della formula del fine, il cui scopo è quello<br />

di superare i limiti delle posizioni altrimenti sostenute in ambito etico.<br />

– ne quicquam habeo adhuc probabilius: L'uso dell'aggettivo probabile va<br />

contestualizzato ancora una volta all'interno dell'andamento generale del discorso<br />

di Cicerone in difesa della filosofia academica (scettica). cfr. Augustinus, Contra<br />

Ac. II, 26: "id probabile vel veri simile Academici vacant, quod nos ad agendum<br />

sine adsensione potent invitare...Talia, inquit Academicus, mihi videntur omnia<br />

quae probabilia vel veri similia putavi nominanda: quae tu si alio nomine vis<br />

vocare, nihil repugno (...)";<br />

226


B)<br />

Luc. 8: "nec inter nos et eos qui se scire srbitrabantur quicquam interest nisi quod<br />

illi non dubitant quin ea vera sint quae defendunt, nos probabilia multa habemus,<br />

quae sequi facile, adfirmare vix possumus";<br />

Luc. 32: "Volunt enim (...) probabile aliquid esse et quasi veri simile, eaque se uti<br />

regula et in agenda vita et in quaerendo ac disserendo";<br />

Luc. 99: "Etenim contra naturam esset, si probabile nihil esset"; "Sic, quidquid<br />

acciderit specie probabile, si nihil se offeret quod sit probabilitati illi contrarium,<br />

utetur eo sapiens ac sic omnis ratio vitae gubernabitur";<br />

Luc. 121: "modo hoc modo illud probabilius videtur";<br />

Luc. 134: "Distrahor: tum hoc mihi probabilius, tum illud videtur, et tamen, nisi<br />

alterutrum sit, virtutem iacere plane puto. Verum in his discrepant".<br />

v. Glucker (1995).<br />

Dal commento analitico emergono principalmente due elementi degni di nota: a) la<br />

confutazione di posizioni sostenute all'interno del Peripato come occultamente edoniste<br />

costituisce l'obiettivo principale della Chrysippea divisio; b) nonostante l'applicazione dello<br />

strumento dialettico in prospettiva stoica la teoria che viene detta comune a Polemone,<br />

Aristotele e Antioco mantiene agli occhi di Cicerone forza persuasiva. L'intervento teorico di<br />

Antioco, che pone in dialogo la posizione etica di Polemone con la filosofia peripatetica intesa<br />

in senso ampio, sembrerebbe capace di resistere al criticismo stoico. Per quanto riguarda<br />

invece l'uso di espressioni quali ta£ prw=ta kata£ fu/sin e 'prima naturae commoda', uno<br />

studio delle occorrenze tende a mostrare che 1) ta£ prw=ta kata£ fu/sin è generalmente<br />

funzionale alle esigenze critiche di coloro che contestano allo stoicismo un mancato rispetto<br />

delle premesse naturalistiche del discorso etico; 2) 'prima naturae commoda' identifica la<br />

categoria dei beni del corpo e dei beni esterni, prese in considerazione dalla teoria peripatetica<br />

della tripartizione dei beni. Nessuna delle due espressioni viene esplicitamente messa in<br />

relazione dalle fonti con la teoria etica dell'antica Academia.<br />

T. 41 : CICERO, ACADEMICA POSTERIORA – ACADEMICI LIBRI I 9, 34-35.<br />

227


'(…) Speusippus autem et Xenocrates, qui primi Platonis rationem auctoritatemque<br />

susceperant, et post eos Polemo et Crates unaque Crantor in Academia congregati<br />

diligenter ea quae a superioribus acceperant tuebantur. Iam Polemonem audiverant<br />

assidue Zeno et Arcesilas. sed Zeno, cum Arcesilam anteiret aetate valdeque subtiliter<br />

dissereret et peracute moveretur, corrigere conatus est disciplinam. Eam quoque si videtur<br />

correctionem explicabo, sicut solebat Antiochus'. 'Mihi vero,' imquam, 'videtur, quod vides<br />

idem significare Pomponium'.<br />

Polemo frr. 76; 89; 120 Gigante; Spusippus fr. 28 IP; Xenocrates fr. 75 IP; Antiochus fr. 7 Mette; Krantor T. 5B.<br />

Mette; Arcesilaus T. 5B Mette.<br />

3 utebantur D.<br />

Traduzione<br />

'(...) D'altra parte Speusippo e Senocrate, che per primi raccolsero la dottrina e<br />

l'autorità di Platone, e dopo di loro Polemone e Cratete e nello stesso periodo anche<br />

Crantore, riuniti nell'Academia, conservavano diligentemente le dottrine che avevano<br />

appreso dai predecessori. In seguito Zenone e Arcesilao furono assidui discepoli di<br />

Polemone. Ma Zenone, poiché superava Arcesilao per età e argomentava in modo<br />

certamente più sottile e si destreggiava nel dibattito in modo quanto mai acuto, tentò di<br />

correggere la teoria. Se vi sembra oppurtuno, spiegherò anche questa correzione, così<br />

come era solito Antioco'. 'A me' dissi io, 'sembra certamente opportuno, vedi se è lo<br />

stesso per Pomponio'.<br />

Contesto<br />

Il passo è tratto dal I libro della seconda versione del testo degli Academica. Come noto, il<br />

processo di revisione e riscrittura da parte di Cicerone dell'opera dedicata alla questione<br />

academica opta per una diversa ripartizione del materiale in quattro libri, piuttosto che in<br />

due 457 , e per un ripensamento degli interlocutori più adatti per il ruolo di portavoce delle<br />

457 v. Ad Att. XIII, 13, 1 (26 Giugno 45 a.C.): « ex duobus libris contuli in quattuor: grandiores sunt omnino<br />

quam erant illi, sed tamen multa detracta ».<br />

228


diverse istanze academiche 458 .<br />

L'esposizione del conflitto tra le diverse interpretazioni della filosofia academica viene infine<br />

inserito da Cicerone nella cornice di un dialogo fittizio tra l'erudito Varrone, Cicerone stesso e<br />

Pomponio Attico. I tre interlocutori sono accomunati da un simile se non identico cursus<br />

studiorum. Il testo insiste infatti sulla conoscenza diretta da parte degli interlocutori<br />

dell'ambiente filosofico di lingua greca e, in particolare, sulla conoscenza diretta<br />

dell'interpretazione antiochea della filosofia degli antichi, di cui Varrone viene invitato a<br />

fornire un'esposizione in lingua latina (v. Ac.libri I ,3: "tecum simul didici"; 5: "eadem ipse<br />

didicisti"; 14: "quid est enim quod malim quam ex Antiocho iam pridem audita recordari"; v.<br />

anche la lettera dedicatoria a Varrone, Ad fam. IX, 8, 1: "coniunctionem studiorum amorisque<br />

nostri"). I nuovi interlocutori vengono in questo modo presentati come icone altamente<br />

plausibili, per dare supporto alla grande operazione ciceroniana di trasposizione nella cultura<br />

romana dei dibattiti filosofici dei greci 459 . Al lettore romano viene offerta dunque una<br />

testimonianza del contenuto di una formazione filosofica condivisa, avvenuta<br />

prevalentemente nel contesto culturale ateniese o attraverso esponenti di questo contesto<br />

presenti a Roma 460 .<br />

Il ruolo di portavoce del punto di vista di Antioco d'Ascalona, ricoperto nella prima versione<br />

da Ortensio nel 'Catulus' e da Lucullo nell'omonimo secondo libro, viene infine interamente<br />

affidato a Varrone in accordo con la sua effettiva 'affiliazione filosofica', come si evince anche<br />

dalle dichiarazioni esplicite della lettera dedicatoria: (Ad fam. IX, 8, 1) "tibi dedi partes<br />

Antiochinas, quas a te probari intellexisse mihi videbar" 461 . Tuttavia può essere fuorviante<br />

458 Grazie alle informazioni contenute nell'epistolario tra Cicerone e il suo amico e cognato Pomponio Attico<br />

(Ad Att. XIII, 6; XIII, 12; XIII, 13; XIII, 16; XIII, 19) è possibile ricostruire le varie fasi di redazione e<br />

revisione del testo. In una prima versione Cicerone aveva scelto come interlocutori Catulo, Ortensio e<br />

Lucullo. In una versione intermedia del testo Cicerone avrebbe preferito impiegare i personaggi di Catone e<br />

Bruto, per poi seguire invece il consiglio di Attico ed includere Varrone nell'ultima versione in quattro libri. v.<br />

Griffin (1997a), pp. 21-23; sul contenuto dei discorsi pronunciati dai vari personaggi nelle varie fasi di<br />

redazione, al di là di ciò che ci è effettivamente pervenuto, sussiste un ampio margine di dibattito, v.<br />

Mansfeld (1997), pp. 45-74.<br />

459 La critica insiste sul fatto che il progetto filosofico di Cicerone era potenzialmente esposto alle critiche della<br />

classe dirigente romana, tradizionalmente diffidente nei confronti delle minuzie dei dibattiti filosofici greci,<br />

v. De orat. II, 156; Rep. I, 30; Tacitus, De vita Iulii Agricolae 4. Sarebbe addirittura potuto sembrare<br />

sconveniente, oltre che inverosimile, che la figura di due importanti uomini politici come Lucullo e Catulo<br />

venisse associata da Cicerone con questo tipo di occupazione. Sui rapidi cambiamenti nel clima intellettuale<br />

romano alla fine della Repubblica e sulla progressiva apertura di Roma all'educazione filosofica, v. Rawson<br />

(1985). Una lettera di Cicerone ad Attico confessa del resto che gli interlocutori scelti nella prima versione<br />

dell'opera sono di fatto « nullo modo philologi » (Ad. Att. XIII, 12, 3); e nel testo del Lucullus Cicerone<br />

stesso anticipa una possibile critica laddove scrive: « Sunt etiam qui negant in iis qui in nostris libris<br />

disputent fuisse earum rerum de quibus disputatur scientiam: qui mihi videntur non solum vivis sed etiam<br />

mortuis invidere » (Luc. 7); v. Gildenhard (2007), p. 11.<br />

460 Intorno all'88 a.C., in ragione del difficile clima politico creato dalle guerre mitriditiche in Atene, Filone di<br />

Larissa, capo della scuola academica si rifugiò a Roma (Brut. 306), dove teneva lezioni sia di filosofia sia di<br />

retorica (v. Brittain (2001), pp. 58-66); non ci sono prove che altre personalità filosofiche dello stesso calibro<br />

si stabilissero nello stesso periodo nell' urbs romana.<br />

461 Cfr. Ac. libri I, 7: « si vero Academiam veterem persequamur, quem nos, ut scis, probamus, quam erit illa<br />

acute explicanda nobis! »; Ad Att. XIII, 16, 1; Ad Att. XIII, 19, 3.<br />

229


considerare l'esposizione di Varrone come una semplice testimonianza obiettiva del pensiero<br />

di Antioco, indipendentemente dal contesto dialogico in cui si trovava originariamente<br />

inserita. Si tenga presente infatti che Cicerone coinvolge solo in un secondo tempo il<br />

personaggio di Varrone in quella che viene concepita innanzitutto come l'esposizione per un<br />

pubblico latino di un importante conflitto interno alla scuola academica. Lo scopo principale<br />

dell'opera sembrerebbe essere quello di rendere efficacemente accessibile attraverso<br />

l'interazione dialogiaca le varie stratificate premesse e tutto l'intricato confronto dialettico tra<br />

lo scetticismo academico e la 'rivoluzionaria' proposta di Antioco in direzione di un ritorno ad<br />

un antico dogmatismo. Di conseguenza il taglio del discorso messo in bocca a Varrone non<br />

può che riflettere le esigenze espositive, comparative e riassuntive dell'opera per intero, la cui<br />

versione definitiva tuttavia ci è pervenuta solo in parte.<br />

Il passo in oggetto si colloca all'interno di una rassegna storiografica sull'evoluzione della<br />

dottrina platonica. Varrone prende le mosse dall'origine socratica della filosofia, ripercorrendo<br />

le varie tappe che da Socrate portano fino a Zenone di Cizio. Platone viene associato con il<br />

distacco dalla fase socratica del "nihil se scire nisi id ipsum" (v. Ac.libri I, 16) e l'origine<br />

dell'auctoritas di una dottrina 'plenam ac refertam' (Ac.libri I, 17), trasmessa attraverso una<br />

tradizione che si vuole perfettamente unitaria, pur essendo nota attraverso i due nomi distinti<br />

di Academia e Peripato. Varrone insiste sull'unità della tradizione (Ac.libri I, 17: "una et<br />

consentiens duobus vocabulis philosophiae forma instituta est, Academicorum et<br />

Peripateticorum, qui rebus congruentes nominibus differebant"; Ac.libri I, 18: "Quae quidem<br />

erat primo duobus, ut dixi, nominibus una, nihil enim inter Peripateticos et illam veterem<br />

Academiam differebat"; Ac.libri I, 22: "illud imprudenter, si alios esse Academicos qui tum<br />

appellarentur, alios Peripateticos arbitrantur"), per quanto il suo discorso sembri non poter<br />

evitare di introdurre delle importanti precisazioni. La figura di Aristotele in particolare viene<br />

da una parte perentoriamente ricondotta all'interno della successione dei discepoli di Platone,<br />

dall'altra gli viene riconosciuto lo statuto speciale di punta di diamante all'interno della<br />

tradizione di cui è esponente (v. Ac.libri I, 18: "abundantia quadam ingenii praestabat, (...),<br />

Aristoteles"). Al contempo, sempre ad Aristotele viene imputata l'apertura di una crepa nel<br />

processo di trasmissione dell'auctoritas di Platone, nella misura in cui altera la 'prima forma a<br />

Platone tradita' attraverso una critica della teoria delle idee: Ac.libri I, 33: "Aristoteles primus<br />

species (...) labefactavit". Varrone fornisce dunque le linee di una storia delle immutationes<br />

subite dalla dottrina platonica che sfocia nella presentazione della correctio stoica, passando<br />

per le turbolenze peripatetiche. Il passo in oggetto fornisce poi una diapositiva del punto<br />

preciso di transizione dalla 'conservazione diligente' dei filosofi academici all'intervento di<br />

Zenone, da leggersi in implicita contrapposizione rispetto all'invece problematica trasmissione<br />

230


dell'auctoritas all'interno della scuola peripatetica in particolare dopo la morte di Aristotele: v.<br />

ibidem: "Theophrastus (...) vehementius etiam fregit quodam modo auctoritatem veteris<br />

disciplinae"; "Strato (...) ab ea disciplina omnino semovendus est, (...) in ea ipsa [scil.<br />

investigatio naturae] plurimum dissedit a suis". Nella misura in cui l'esposizione varroniana<br />

può essere posta sulla stessa linea di quella di Lucullo nella prima versione degli Academica,<br />

si noterà che ogni riferimento alla tradizione platonica comporta un'intenzionalità non<br />

meramamente storica, ma in primo luogo dialettico-polemica. La storiografia antiochea è<br />

infatti una riscrittura della storia della tradizione tesa a delegittimare l'interpretazione 'scettica'<br />

del pensiero di Platone. Presentando infatti la filosofia di Platone come una 'perfectissima<br />

disciplina' (Luc. 15) 462 , la cui eredità si è trasmessa attraverso la filosofia academico-<br />

peripatetica e la filosofia stoica, il portavoce di Antioco, intende far passare l'intervento di<br />

Arcesilao per una 'perversione' illegittima di una tradizione ben consolidata (Luc. 15: “nonne<br />

cum iam philosophorum disciplinae gravissimae constitissent, tum exortus est, ut in optima re<br />

publica Ti. Gracchus qui otium perturbaret, sic Arcesilas qui constitutam philosophiam<br />

everteret, (…)?”). Il riferimento alla storia della tradizione è dunque uno degli strumenti<br />

dell'ermeneutica filosofica di Antioco, piuttosto che un resoconto neutro dell'evoluzione della<br />

dottrina platonica.<br />

Commento<br />

A)<br />

- qui primi Platonis rationem auctoritatemque susceperant: I primi due<br />

scolarchi dell'Academia vengono identificati come i primi beneficiari nella storia<br />

della trasmissione dell'auctoritas Platonis. Il concetto di auctoritas gioca un ruolo<br />

di primissimo piano nell'operazione ermeneutico-storiografica di Antioco<br />

d'Ascalona così come ce la presenta Cicerone. MacKendrick (1989), p. 17,<br />

menziona il concetto nella sua lista sintetica delle dieci 'parole chiave' rivelatrici<br />

dei principi etici, politici e religiosi soggiacenti agli scritti filosofici di Cicerone.<br />

Ai fini della presente analisi, si noterà che il concetto di auctoritas viene<br />

chiaramente identificato come l'oggetto dell'esposizione di Varrone in Ac.libri I,<br />

33: "praeclare explicatur Peripateticorum et Academiae veteris auctoritas",<br />

diventando quindi un quasi sinonimo di 'pensiero', 'dottrina'; cfr. Luc. 64:<br />

462 v. Lévy (2012 forthcoming) [D. Sedley (ed.), Atti del Workshop su Antioco d'Ascalona, Cambridge, July<br />

2008].<br />

231


"auctoritas autem tanta plane me movebat, nisi tu opposuisses non minorem<br />

tuam"; Fin. IV, 61: "Sin te auctoritas commovebat, nobisne omnibus et Platoni<br />

ipsi nescio quem illum anteponebas?"; Fin. IV, 62: "Atque, si verum respondere<br />

velles, Cato, haec erant dicenda, non eos tibi non probatos, tantis ingeniis<br />

homines tantaque auctoritate, sed te animadvertisse, quas res illi propter<br />

antiquitatem parum vidissent, eas a Stoicis esse perspectas, eisdemque de rebus<br />

hoc cum acutius disseruisse, tum sensisse gavius et fortius"; Tusc. V, 34: "Zeno<br />

(...) insinuasse se in antiquam philosophia videtur, huius sententiae gravitas a<br />

Platonis auctoritate repetatur";<br />

Tuttavia il carattere squisitamente latino del concetto solleva qualche difficoltà nel<br />

valutare quanto profondamente pesi in questo tipo di passaggi l'assimilazione<br />

personale di Cicerone della storiografia antiochea. Il mondo romano e il mondo<br />

greco sembrano infatti aver intrattenuto un differente rapporto rispetto al concetto<br />

di 'autorità' e 'tradizione'. Innanzitutto è difficile anche solo individuare un<br />

corrispettivo greco del concetto profondamente originale e specificatamente<br />

romano di auctoritas 463 . Il termine designa in senso stretto l'azione di colui qui<br />

auget, ovvero l'atto di colui che in qualche modo 'accresce' con il suo intervento la<br />

personalità insufficiente di un altro (v. Hellegouarc'h (1972), p. 295-296).<br />

L'auctor è dunque una figura quasi-giuridica, un punto cardine nella definizione<br />

dei rapporti sociali nel mondo romano, 'colui che si porta garante' (« qui probat id<br />

quod agitur » Dig. XXVI, 8, 3) per qualcun'altro. Se dunque il sentimento d'<br />

auctoritas si trova profondamente radicato nella prassi sociale romana, questo non<br />

è altrettanto vero per il mondo greco. Le ragioni di questa fondamentale differenza<br />

possono essere indagate in relazione sia alle differenze negli ordinamenti politici<br />

sia alla diversa influenza che il vocabolario politico ha esercitato nello sviluppo<br />

del pensiero filosofico nei due contesti. Da un punto di vista teoretico generale, il<br />

pensiero greco non sembrerebbe essersi particolarmente interessato alle capacità<br />

del singolo individuo, quanto invece ha insistito sulla sua partecipazione ad un<br />

ordine di tipo universale. I greci avrebbero avuto infatti la tendenza a individuare<br />

nel logos la fonte di ogni autorevolezza (filosofica), sia che esso venga inteso nei<br />

termini sapienzali dei frammenti di Eraclito, sia che si concretizzi nelle forme di<br />

governo politico in Platone e Aristotele (cfr. Baruzzi (1973), pp. 172-174). Per<br />

463 Tra i numerosi studi sul concetto latino di auctoritas si veda Guillemin (1955) ; J. Baldson (1960) ; Arendt<br />

(1961), ch. 3, sect. IV ; Hellegouarc'h (1972) ; Baruzzi (1973) ; Biscardi (1987) ; Magdelain (1990) ;<br />

Heilmann (1994) ; Graeber (2001).<br />

232


quanto in rapporto con l'uomo e le sue facoltà razionali, il concetto di logos ha<br />

uno spettro di riferimento universale, che supera i limiti di ogni persona singola e<br />

tende invece verso un ordine di tipo cosmico. Perciò le sue acquisizioni nel<br />

mondo greco vengono celebrate meno come acquisizioni proprie del singolo che<br />

come manifestazioni di un ordine superiore. L'autorevolezza del logos viene allora<br />

percepita come sovraordinata rispetto all'autorevolezza di un singolo uomo.<br />

Diversamente il concetto latino di auctoritas definisce i rapporti di superiorità di<br />

un singolo individuo rispetto a una moltitudine in un contesto che non supera i<br />

confini della società degli uomini. In ambito politico l'auctoritas si misura in base<br />

all'estensione dei rapporti clientelari di un leader politico, ovvero sulla sua<br />

capacità di influenzare il comportamento e le decisioni di un certo numero di<br />

persone. Quando allora il concetto viene impiegato nell'esposizione storiografica<br />

di una dottrina filosofica bisogna tener conto di alcune implicazioni specifiche.<br />

Come nel Senato romano l'auctoritas più grande appartiene a colui che esprime la<br />

sua opinione per primo, così all'interno della storia della filosofia la posizione<br />

cronologica non è irrelevante nella determinazione del valore di una dottrina 464 . Si<br />

aggiunga a questo la centralità del concetto di mos maiorum nella società romana,<br />

il quale si fonda a sua volta sull'auctoritas maiorum, ovvero sulla capacità che gli<br />

esempi forniti dalla tradizione hanno di influenzare le decisioni prese nel presente:<br />

la condotta degli antenati in una determinata circostanza costituisce un<br />

imprescindibile codice comportamentale per il cittadino romano che si trovi ad<br />

affrontare la stessa situazione. Ciò è particolarmente pertinente nell'ambito della<br />

produzione intellettuale di Cicerone, dove l'esempio dei maiores nostri, degli<br />

esponenti dell'antica Repubblica, rappresenta in tutto e per tutto un ideale<br />

regolativo. Se ne deduce che, trasposto il concetto di auctoritas all'interno della<br />

storia della filosofia, l'effetto ottenuto è quello di rendere imprescindibile<br />

l'esempio degli 'antichi', rendere immediatamente 'autorevole' il punto di vista dei<br />

'primi interpreti', ed infine determinare la superiorità del leader filosofico che può<br />

contare sul più grande numero di 'relazioni clientelari', che in ambito filosofico<br />

corrispondono probabilmente ai rapporti di filiazione filosofica.<br />

A differenza di quanto la stretta congiunzione di ratio e auctoritas in questo<br />

passaggio sembra testimoniare (Platonis rationem auctoritasque), è possibile<br />

attribuire a Cicerone una perfetta consapevolezza del conflitto tra la ratio greca<br />

(logos) e l'uso di un principio dell' auctoritas in filosofia: v. Leg. I, 36: "Et scilicet<br />

464 Sul parallelo filosofi – senatori, v. Leg. I, 39; Luc. 9; ND I, 10.<br />

233


tua libertas disserendi amissa est, aut tu is es, qui in disputando non tuum<br />

iudicium sequare, sed auctoritati aliorum pareas"; Luc. 9: "ad unius se<br />

auctoritatem contulerunt (vs quid constantissime dicatur exquirere)"; Luc. 60:<br />

"Ut, qui audiunt, inquit, ratione potius quam auctoritate ducantur"; Div. II, 150:<br />

"Cum autem proprium sit Academiae iudicium suum nullum interponere, ea<br />

probare quae simillima veri videantur, conferre causas, et quid in quamque<br />

sententiam dici possit expromere, nulla adhibita sua auctoritate iudicium<br />

relinquere integrum ac liberum"; De senec. 77: "nec me solum ratio ac disputatio<br />

impulit, ut ita crederem, sed nobilitas etiam summorum philosophorum et<br />

auctoritas";<br />

In questo tipo di contesti la formazione academica dell'oratore latino gli permette<br />

infatti di distinguere nettamente un principio di autonomia intellettuale, concepito<br />

come 'uso individuale della ratio', dall'influenza coercitiva di una dottrina<br />

dogmatica, come quella proposta ad esempio dallo stoicismo e, forse ancor di più,<br />

dall'epicureismo. Ci si può allora domandare quanto Cicerone fosse consapevole<br />

invece del conflitto tra il principio di autonomia della ratio nei metodi dello<br />

scetticismo academico e l'uso del concetto di auctoritas nella prassi socio-politica<br />

del contesto di cui era uno dei massimi esponenti (v. Guillemin (1955), pp. 209-<br />

230). A questo proposito si noti che il personaggio di Cotta nel testo del De<br />

natura deorum traccia un interessante distinzione tra il sistema delle credenze su<br />

cui fa affidamento in quanto pontifex e i parametri di coerenza e razionalità che<br />

esige invece dall'indagine filosofica: nel primo ambito l'auctoritas maiorum è un<br />

parametro perfettamente sufficiente, che non ha bisogno di essere messo in<br />

discussione (v. ND III, 9: "Mihi enim unum sat erat, ita nobis maiores nostros<br />

tradidisse"), mentre nel secondo ambito, una volta avviata l'indagine della ratio,<br />

l'auctoritas non è sufficiente a provare la verità di una tesi. Questo tipo di<br />

distinzione netta giustifica la risposta, - quantomeno inaspettata da parte di un<br />

portavoce dell'Academia -, di Cotta al discorso dello stoico Balbo : ND III, 9 :<br />

"Sed tu auctoritates contemnis, ratione pugnas"; in questo contesto si assiste a un<br />

capovolgimento dei ruoli, determinato dal fatto che uno dei personaggi assume<br />

per un attimo le vesti del suo ruolo sociale, mettendo in sospeso le sue convinzioni<br />

filosofiche: il pontifex Cotta si dichiara allora perfettamente soddisfatto nel<br />

limitarsi all'auctoritas del sistema ereditato dalla tradizione (opiniones quas a<br />

maioribus accepimus), mentre il portavoce della filosofia stoica viene associato al<br />

libero uso della ratio. Esiste dunque nei testi di Cicerone una perfetta<br />

234


consapevolezza del conflitto tra gli scopi dell'indagine filosofica in generale e lo<br />

statuto indiscutibile nella prassi sociale dei contenuti del mos maiorum (v.<br />

Heilmann (1994), pp. 23-30). A questo proposito, Gigon (1973), p. 246, riconosce<br />

in Cicerone un oscillamento problematico tra un atteggiamento aporetico e un<br />

atteggiamento dogmatico, per cui il concetto di 'autorità della tradizione' finisce<br />

per essere caricato di una profonda ambivalenza, proveniente dal non poter<br />

risolvere in modo semplicistico il rapporto conflittuale tra auctoritas e ratio. In<br />

questo senso si comprende come l'impostazione academica di Cicerone, che<br />

impone un principio di piena autonomia della ratio, si sviluppi di fatto in modo<br />

peculiare in seno al potere esercitato su di lui dall'auctoritas Platonis (v.<br />

l'appellativo tributato a Platone di Deus philosophorum: Rep. IV, 5; De orat. I, 49;<br />

Leg. III, 1; ND II, 32; cfr. Ad. Att. IV, 16, 3; Leg. I, 15; Leg. III, 5; III, 32; Tusc.<br />

IV, 71).<br />

Riassumendo: in ambito filosofico, sia che si tratti del prestigio della dottrina<br />

platonica, sia che si tratti dell' ipse dixit di Epicuro, in entrambi i casi il termine<br />

impiegato da Cicerone è auctoritas. Nel primo caso soltanto però la conformità<br />

dell'uso del concetto con la mentalità romana sembra assicurare il successo della<br />

propaganda storiografica che il concetto di auctoritas è chiamato a supportare; è<br />

chiaro infatti che attraverso l'impiego del concetto di auctoritas l'operazione<br />

storiografica di Antioco diventa straordinariamente compatibile e adeguata alla<br />

sensibilità del lettore romano 465 .<br />

Particolarmente rilevante per il passo in oggetto è notare che l'auctoritas latina ha<br />

la peculiare caratteristica di esser considerata almeno parzialmente trasmissibile<br />

per via ereditaria da un esponente all'altro all'interno di una stessa famiglia.<br />

L'auctoritas del leader romano infatti si fonda non solo sulla sua virtus, ma anche<br />

su un certo numero di elementi 'materiali' (genus, divitiae, opes) 466 , trasmissibili<br />

da un membro all'altro della medesima 'familia' (v. Hellegouarc'h (1972), p. 298),<br />

per cui risulta particolarmente appropriato in questo contesto designare come<br />

auctoritas il 'patrimonio intellettuale' di Platone, raccolto e conservato dai suoi<br />

discepoli.<br />

465 v. Griffin (1997b), p. 7 : « The teaching of Antiochus was very popular: it combined the advantage of moral<br />

responsability to an all but Stoic level with the snob appeal of spiritual descent from the greatest ancient<br />

philosophers ».<br />

466 v. Cic., Top. 73: « Naturae auctoritas in virtute est maxima; in tempore autem multa sunt quae adferant<br />

auctoritatem: ingenium, opes, aetas, fortuna, ars, usus, necessitas, concursio etiam nonnumquam rerum<br />

fortuitarum ».<br />

235


- Polemo et Crates unaque Crantor in Academia congregati diligenter: il<br />

gruppo di filosofi academici composto da Polemone, Cratete e Crantore<br />

rappresenta la seconda tappa di trasmissione dell'auctoritas Platonis, avvenuta<br />

non per via diretta, come nel caso di Speusippo e Senocrate, ma attraverso un<br />

passaggio intermedio.<br />

in Academia congregati : Sembra affiorare da questo passaggio la stessa<br />

immagine che emerge dalla letteratura biografica, per cui Polemone e i suoi<br />

discepoli formavano una comunità compatta residente sul suolo dell'Academia, v.<br />

Il bios di Polemone, pp. 103-106, passim. Il discepolo prediletto di Polemone,<br />

Cratete, viene qui nominato per la prima e unica volta nei testi filosofici di<br />

Cicerone. Il nome di Crantore infine aumenta il prestigio del gruppo degli<br />

academici; la sua Consolatio infatti era estremamente rinomata 467 . La tradizione<br />

biografica risulterebbe funzionale anche al consolidamento dell'idea di un perfetta<br />

uniformità dottrinale all'interno della scuola academica, nella misura in cui insiste<br />

sulle dinamiche di 'imitazione' del discepolo rispetto al maestro, v. DL IV, 19.<br />

Fornire un resoconto accurato delle dottrine dei filosofi non è tuttavia tra gli scopi<br />

di questo tipo di letteratura, quanto piuttosto rispondere alle aspettative generali<br />

della società nei confronti delle figure dei filosofi. Rimane legittimo allora<br />

pensare che ogni esponente della scuola academica rimanesse libero di esercitare<br />

la propria autonomia intellettuale rispetto all'autorità del pensiero dei maestri e dei<br />

predecessori. Tra Polemone e Crantore in particolare anche la letteratura<br />

biografica allude a un rapporto di reciproca indipendenza 468 , per cui il portare<br />

avanti un diverso approccio ai contenuti della dottrina non compromette il clima<br />

di generale concordia 469 .<br />

diligenter: cfr. Fin. V, 14 = T. 50 : "antiquorum...sententiam Antiochus noster<br />

mihi videtur persequi diligentissime"; Tusc. III, 10: "ex quo intelligendum est eos<br />

qui haec rebus nomina posuerunt sensisse hoc idem quod a Socrate acceptum<br />

diligenter Stoici retinuerunt, omnis insipientes esse non sanos";<br />

Il proposito primario nel tracciare una storia della trasmissione dell'auctoritas<br />

467 Per un tentativo di ricostruzione di una parte del contenuto dell'opera di Crantore, per l'intermediario dei<br />

testi che ad essa si sono ispirati, v. Graver (2002), appendix A : Crantor and the Consolatory Tradition, pp.<br />

187-194.<br />

468 Philod., Acad. Hist., col. XVI, 69: «...u(/steron de\ meta\ Pole/mwnoj e)sxo/lazen, kai/toi polu\ diafe/rw[n] e)n oi(=j<br />

e)/pa[ize]n».<br />

469 v. Philod., Acad. Hist., col. XIV, 36-41; D.L. IV 19, 39-41.<br />

236


all'interno delle scuole filosofiche è quello di classificare ogni tappa secondo due<br />

fondamentali alternative; la scelta si riduce infatti a: trasmissione fedele<br />

(conservazione) vs intervento innovatore da parte del singolo (rovina).<br />

- ea quae a superioribus acceperant tuebantur: l'insegnamento filosofico<br />

all'interno dell'Academia di Polemone in questo contesto viene concepito come<br />

ricezione e conservazione di un patrimonio. Il punto di vista della storiografia<br />

antiochea riduce il ruolo del discepolo rispetto al maestro a quello di conservatore<br />

acritico delle dottrine impartite. Questo tipo di testimonianze sembra dare<br />

sostegno all'opinione predominante tra gli interpreti secondo cui all'interno<br />

dell'Academia antica si sarebbe attuato un consolidamento dogmatico della<br />

dottrina platonica. Tuttavia si tenga presente che ogni distinzione tra attitudine<br />

'dogmatica' e attitudine 'scettica' si origina solo a partire dall'affiorare di un istanza<br />

scettica, per cui risulta chiaro che ogni valutazione sul 'dogmatismo' degli antichi<br />

è in un certo senso il risultato di una retroproiezione storica.<br />

Cfr. Philod., Acad.Hist. Col. XVIII, 7-13 = T. 1 bis: kai£ to£ me£n prw=ton ei)p[ei=n]<br />

qe/sin e)pexei/rei kata£ th£n Pl[a/tw]no/j te kai£ Speus[i/]ppou [dia]mei/nasan<br />

e( /wj Pole/m[wno]j ai( /[re]sin: [me]ta£ me£[n ou)=n au)]to£n pa[rec]e/bh t[o£ th=j )<br />

Aka]dhmeikh=j a)gwgh=j [......]sh sxh=ma. Krämer (1983), p. 154 cita la<br />

testimonianza del personaggio di Varrone e quella contenuta nel testo di Filodemo<br />

a sostegno di un'idea di continuità senza mutamenti nei metodi e nelle tematiche<br />

trattate all'interno dell'Academia antica fino a Polemone. L'accento posto sulla<br />

'deviazione' successiva ([me]ta£ me£[n ou)=n au)]to£n pa[rec]e/bh), verosimilmente<br />

imputabile ad Arcesilao, mette il passo filodemeo in relazione alla medesima<br />

propaganda antiochea che dà forma al testo ciceroniano. Le informazioni dei due<br />

testi non dovrebbero allora essere impiegate acriticamente come testimonianze<br />

imparziali sulle pratiche e le dottrine della fase più antica della storia<br />

dell'Academia.<br />

- Iam Polemonem audiverant assidue Zeno et Arcesilas: Zenone e Arcesilao<br />

vengono strumentalmente posti sullo stesso piano per il fatto di aver entrambi<br />

'frequentato' Polemone, cfr. T. 21 = Strabo, Geogr. XIII, 1, 67. Altre testimonianze<br />

insistono piuttosto sul legame tra Arcesilao e Crantore (v. DL IV, 29-30), ma in<br />

quanto membro dell'Academia nel periodo in cui questa era diretta da Polemone,<br />

non è scorretto dire che Arcesilao sia stato discepolo di Polemone. Il testo opera<br />

237


invece una improbabile forzatura nella misura in cui fa credere che non esista<br />

nessuna differenza tra lo statuto di 'discepolo' attribuibile ad Arcesilao e quello<br />

attribuibile a Zenone. Tale forzatura è evidentemente funzionale ad una<br />

presentazione del pensiero di Zenone come fondamentalmente derivato dalla<br />

tradizione academica. L'ambiente filosofico ateniese dell'epoca favoriva<br />

verosimilmente la frequentazione pubblica delle lezioni dei filosofi, ma lo statuto<br />

di 'uditore' (¢koust»j), implica nel linguaggio tecnico delle scuole filosofiche un<br />

percorso di formazione ben più articolato rispetto alla semplice frequentazione più<br />

o meno casuale di alcune lezioni. Non è da escludersi che sia Zenone, sia<br />

Arcesilao siano entrati in contatto con Polemone, ma per quanto riguarda Zenone<br />

sarebbe da escludere, per ragioni di tipo cronologico 470 , che avesse affidato la sua<br />

formazione giovanile a Polemone o che in questo contesto si fosse trovato a<br />

confrontarsi sullo stesso piano con Arcesilao. Maggiormente probabile è che<br />

Zenone avesse acquisito buona familiarità con il pensiero di Polemone,<br />

eventualmente grazie ad una frequentazione diretta delle sue lezioni, avvenuta in<br />

una fase più o meno avanzata della sua vita, e che in un secondo tempo, quando<br />

anche la formazione filosofica di Arcesilao si era consolidata in un punto di vista<br />

originale i due discutessero sulla corretta interpretazione del patrimonio<br />

intellettuale di Platone.<br />

- valdeque subtiliter dissereret et peracute moveretur: a Zenone qui viene<br />

attribuita una certa superiorità argomentativa rispetto ad Arcesilao. Si tenga conto<br />

che nelle opere ciceroniane lo stile dell'argomentazione stoica viene generalmente<br />

sottoposto a dure critiche, per quanto se ne ammetta la finezza intellettuale: v. De<br />

orat. III 66: "Accedit quod orationis etiam genus habent fortasse subtile et certe<br />

acutum, sed, ut in oratore, exile, inusitatum, abhorrens ab auribus vulgi,<br />

470 La determinazione esatta della cronologia della vita di Zenone è estremamente problematica, v. Dorandi<br />

(1991b), pp. 23-28; Dorandi (1999), p. 37-39; Alesse (2000), p. 79; 103-104 ; è possibile determinare che<br />

l'anno della sua morte fu il 262/261 (Philod., Stoic.Hist. coll. 28-29; De stoic., coll. 1-8), dunque se si accetta<br />

come data di nascita il 334/333 a.C, determinata in base all'informazione che Zenone visse fino a settantadue<br />

anni (DL VII, 28), nel momento in cui Polemone diventa scolarca dell'Academia (316/314 a.C), Zenone<br />

sarebbe stato sufficientemente giovane per proseguire la sua formazione filosofica con il maestro academico;<br />

nel 300 a.C avrebbe poi aperto la sua propria scuola nella Στοὰ ποικιλή. A quel tempo Arcesilao (nato nel<br />

316/315 a.C) era ancora un giovinetto e con buona probabilità non ancora un membro della scuola. Esiste<br />

inoltre la possibilità che la vita di Zenone sia stata considerevolmente più lunga. Nell'antichità infatti le<br />

cronologie di Zenone e del suo discepolo Cleante venivano calcolate in base alla medesima durata di<br />

centouno anni di vita. In tal caso non solo aumenta il divario di età tra Zenone e Arcesilao, ma perde di<br />

verosimiglianza anche l'ipotesi che Polemone sia stato propriamente maestro di Zenone. Nel momento in cui<br />

Arcesilao diventa scolarca (268/264 a.C), Zenone era ancora a capo della sua scuola. Se dunque ci fu un<br />

confronto diretto tra i due filosofi possiamo immaginare che sia avvenuto intorno a questa data o nel periodo<br />

immediatamente precedente. In conclusione è altamente improbabile che Zenone si confrontasse con<br />

Arcesilao durante il periodo della sua formazione.<br />

238


B)<br />

obscurum, inane, ieiunum, attamen eius modi quo uti ad vulgus nullo modo<br />

possit"; Fin. III, 3: "Stoicorum autem non ignoras quam sit subtile, vel spinosum<br />

potius, disserendi genus".<br />

peracute: cfr. Fin. III, 26: "sed consectaria me stoicorum brevia et acuta<br />

delectant".<br />

In questo giudizio è contenuto dunque un capovolgimento della prospettiva<br />

presentata da Cicerone in altri contesti, secondo la quale i filosofi academici si<br />

distinguono per una più incisiva ed elaborata capacità argomentativa, cfr. De or.<br />

III, 67 = T. 36 : eximio quodam usum lepore dicendi; Luc. 16: "Cuius (scil.<br />

Arcesilai) primo non admodum probata ratio, quamquam floruit cum acumine<br />

ingenii tum admirabili quodam lepore dicendi".<br />

- corrigere conatus est disciplinam: cfr. Ac.libri I, 43: "a te, Varro, et veteris<br />

Academiae ratio et Stoicorum; verum esse autem arbitror, ut Antiocho nostro<br />

familiari placebat, correctionem veteris Academiae potius quam novam aliquam<br />

disciplinam putandam". L'inquadramento della dottrina stoica come il frutto di<br />

una sincera esigenza di 'correctio' corrisponde a una riscrittura in chiave positiva<br />

di quella che altrimenti viene considerata una 'frode', un 'inganno', da parte di<br />

Zenone, v. DL VII, 25 = T. 31 : "ἤδη δὲ προκόπτων εἰσῄει καὶ πρὸς Πολέμωνα<br />

ὑπ' ἀτυφίας, ὥστε φασὶ λέγειν ἐκεῖνον, “οὐ λανθάνεις, ὦ Ζήνων, ταῖς<br />

κηπαίαις παρεισρέων θύραις καὶ τὰ δόγματα κλέπτων Φοινικικῶς<br />

μεταμφιεννύς.”"; Tusc. V, 34 : "Et si Zeno Citieus, advena quidam et ignobilis<br />

verborum opifex, insinuasse se in antiquam philosophiam videtur...".<br />

- sicut solebat Antiochus: l'inciso precisa che non si tratta di un'esposizione<br />

arbitraria delle dinamiche di filiazione, ma di un resoconto derivato dagli<br />

insegnamenti di Antioco d'Ascalona. Il testo di Cicerone non lascia spazio a<br />

fraintendimenti affinché il lettore prenda perfettamente coscienza delle differenze<br />

tra le varie letture della storia della tradizione platonica.<br />

Il passo in oggetto testimonia del ruolo di Polemone all'interno della ricostruzione della storia<br />

della tradizione platonica da parte di Antioco d'Ascalona. Lo scolarca insieme al suo gruppo<br />

239


compatto di discepoli fa da cerniera neutrale nell'assicurare il passaggio senza alterazione<br />

degli insegnamenti di Platone dai primi discepoli alla fase successiva, in cui l'esigenza di<br />

revisione della dottrina invece preme con urgenza. La cura con la quale i filosofi academici<br />

custodiscono il patrimonio intellettuale ricevuto dai predecessori viene presentata come un<br />

momento particolare ed in certa misura irripetibile della storia della tradizione. Si tratta infatti<br />

di un passaggio 'neutro', che non interviene ad alterare la dottrina, ma che, a differenza delle<br />

crepe inflittegli da Aristotele e i suoi discepoli, la presenta alla fase successiva perfettamente<br />

intatta. Quale sia la precisa relazione tra gli interventi peripatetici di modifica rispetto alla<br />

dottrina platonica e il corrigere conatus di Zenone non viene specificato nel testo, ma è<br />

evidente che le due cose fanno parte della medesima storia, ovvero che la dottrina peripatetica<br />

e la dottrina stoica vengono considerate come esiti diversi della medesima fonte. Affinché<br />

questa presentazione risulti efficace, la fase rappresentata da Polemone e i suoi più stretti<br />

discepoli deve essere ridotta a una fase a impatto zero, descritta funzionalmente attraverso la<br />

metafora del discepolo fedele e diligente. Tra tutti i contesti dove troviamo rappresentata la<br />

prospettiva di Antioco, il discorso di Varrone è quello che maggiormente mette in risalto il<br />

rapporto di positiva filiazione dello stoicismo dalla tradizione academica. Altrove (cfr. T. 45 =<br />

Fin IV, 45), il discorso tende invece a mettere l'accento sulla deviazione di Zenone dal<br />

pensiero degli antichi, in particolare nell'aver escluso dalla formula del fine della vita umana<br />

la menzione del risultato delle tendenze naturali. Di conseguenza il discorso di Varrone evita<br />

ogni valutazione polemica sullo stile e sul linguaggio stoico, dipingendo Zenone addirittura<br />

come un più valido erede della tradizione academico-peripatetica rispetto ad Arcesilao, in<br />

particolare dal punto di vista delle capacità argomentative.<br />

T. 42 : CICERO, DE FINIBUS BONORUM ET MALORUM II, 11, 34-35.<br />

In his primis naturalibus voluptas insit necne, magna quaestio est; nihil vero putare esse<br />

praeter voluptatem, non membra, non sensus, non ingeni motum, non integritatem<br />

corporis, non valetudinem [corporis], summae mihi videtur inscitiae. Atque ab isto capite<br />

fluere necesse est omnem rationem bonorum et malorum. Polemoni et iam ante Aristoteli<br />

ea prima visa sunt quae paulo ante dixi. Ergo nata est sententia veterum Academicorum et<br />

Peripateticorum, ut finem bonorum dicerent secundum naturam vivere, id est virtute<br />

adhibita frui primis a natura datis.<br />

240


Callipho ad virtutem nihil adiunxit nisi voluptatem; Diodorus vacuitatem doloris *** His omnibus quos dixi<br />

consequentes sunt fines bonorum: Aristippo simplex voluptas; Stoicis consentire naturae, quod esse volunt e<br />

virtute, id est honeste, vivere, quod ita interpretantur, vivere cum intellegentia rerum earum quae natura<br />

evenirent, eligentem ea quae essent secundum naturam, reicientemque contraria. Ita tres sunt fines expertes<br />

honestatis, unus Aristippi vel Epicuri, alter Hieronymi, Carneadi tertius;<br />

tres in quibus honestas cum aliqua accessione, Polemonis, Calliphontis, Diodori;<br />

una simplex, cuius Zeno auctor, posita in decore tota, id est honestate. (Nam Pyrrho, Aristo, Erillus iam<br />

diu abiecti.) Reliqui sibi constiterunt, ut extrema cum initiis convenirent, ut Aristippo voluptas, Hieronymo<br />

doloris vacuitas, Carneadi frui principiis naturalibus esset extremum; (...).<br />

cfr. Polemo fr. 127 Gigante;<br />

3 corporis delevit ed. Colon. || 4 et iam ante S : etiam ante ARf : etiam antea P : et ante O : et iacinate M || 7<br />

lacuna statuit Mdv. || 13 in ed. Rom. : om. w.<br />

Traduzione<br />

Se il piacere sia o meno incluso tra questi primi naturali è oggetto di ampio<br />

dibattito. Ritenere, però, che nient'altro vi sia incluso al di fuori del piacere, né le parti<br />

del corpo, né i sensi, né l'attività dell'ingegno, né l'integrità fisica del<br />

corpo, né la salute , a me sembra la più grande stupidaggine. Anzi, da questa<br />

sorgente deve necessariamente derivare tutto il discorso sui beni e sui mali. Polemone e<br />

già prima Aristotele scorsero quei primi che ho detto poc'anzi. Perciò si è<br />

originata l'opinione degli antichi academici e peripatetici, secondo i quali il fine dei beni<br />

è vivere secondo natura, cioè, avendo messo in uso la virtù, fruire dei primi <br />

dati dalla natura.<br />

Callifonte aggiunse alla virtù solo il piacere, Diodoro l'assenza di dolore [lacuna] Per tutti questi di cui si è<br />

detto le formule del fine dei beni sono conseguenti: per Aristippo il semplice piacere, per gli Stoici<br />

conformarsi alla natura, il che ritengono derivi dalla virtù, cioè vivere moralmente; il che interpretano<br />

così: vivere con la cognizione di ciò che accade per natura, scegliendo le cose che sono in accordo con la<br />

natura e respingendo quelle contrarie. In questo modo ci sono tre formule del fine prive della moralità:<br />

una è quella di Aristippo o di Epicuro, l'altra è quella di Ieronimo, la terza è quella di Carneade;<br />

241


tre in cui figura la moralità con una qualche aggiunta: quella di Polemone, quella di<br />

Callifonte, quella di Diodoro;<br />

una semplice, di cui è autore Zenone, fondata tutta sul decoro, vale a dire la moralità; (infatti<br />

Pirrone, Aristone e Erillo già da tempo sono stati esclusi.) I rimanenti furono coerenti nel far concordare i<br />

termini ultimi con gli inizi: il temine ultimo è secondo Aristippo il piacere, secondo Ieronimo l'assenza di<br />

dolore, secondo Carneade fruire dei principi naturali; (...)<br />

Contesto<br />

Il testo si inserisce all'interno di una discussione critica dell'edonismo epicureo 471 e prende le<br />

mosse dalla contestazione del principio secondo il quale ogni essere vivente a partire dal<br />

momento della sua nascita ricerca il piacere (v. Fin. I, 30: "omne animal, simul atque natum<br />

sit, voluptatem appetere eaque gaudere ut summo bono, dolorem aspernari ut summum<br />

malum et, quantum possit, a se repellere"). L'argomentazione ciceroniana afferma che non è<br />

vero che l'istinto naturale spinge i bambini verso il piacere, ma che invece li spinge verso<br />

l'aver a cuore se stessi, la propria autoconservazione e incolumità, v. Fin. II, 33: "Nec vero ut<br />

voluptatem expetat natura movet infantem, sed tantum ut ipse diligat, ut integrum et salvum<br />

velit". Si tratta di uno degli esiti di un importante dibattito intorno alle prime manifestazioni<br />

dell'istinto naturale, sulla cui base sembrano potersi determinare le linee portanti del discorso<br />

etico. L'argomento epicureo per cui presso i bambini e gli animali, considerati come specula<br />

naturae, è possibile osservare un'istinto verso il piacere e l'assenza del dolore (Fin. II, 32:<br />

"nec tamen argumentum hoc Epicurus a parvis petivit aut etiam a bestiis, quae putat esse<br />

specula naturae, ut diceret ab iis duce natura hanc voluptatem expeti nihil dolendi"), viene<br />

contestato, sia sulla base di una diversa valutazione del comportamento infantile, sia sulla<br />

base di un approfondimento dei principi naturali soggiacenti alle inclinazioni e agli istinti che<br />

si manfestano nell'uomo come negli animali. L'uso di argomenti fondati sull'osservazione del<br />

comportamento infantile, noti come 'cradle argument(s)' è stato studiato da Brunschwig<br />

(1986), il quale mostra come essi non siano necessariamente fondati su una reale osservazione<br />

empirica di tipo sperimentale 472 ; l'asserzione epicurea dell'esperienza del piacere nel bambino<br />

sembra infatti riprendere una concezione tradizionale ampiamente diffusa, che come tale non<br />

richiede un supporto dimostrativo; del resto il riferimento epicureo all'esperienza del bambino<br />

appena nato non ha la funzione di fornire una base empirica di continuità tra le prime<br />

471 Sull'anti-epicureismo ciceroniano v. il 'rapport' di Pierre Grimal: 'L'epicureisme romain', in Actes du VIIIe<br />

Congrès, Paris, 5-10 avril 1968, Societé d'Edition "Les Belles Lettres" Paris 1969, pp. 139-168.<br />

472 v. anche Sedley (1996).<br />

242


esperienze e il criterio etico adottato dall'agente adulto, quanto piuttosto il suo scopo è quello<br />

di permettere all'agente adulto di affermare la natura autoevidente della sua inclinazione verso<br />

il piacere, che in quanto tale non richiede nessuna ulteriore dimostrazione 473 . L'assenza di un<br />

reale approccio empirico è ancora più evidente nella risposta stoica agli argomenti epicurei,<br />

dove la discussione viene portata avanti vagliando possibilità teoriche, non fenomeni<br />

osservabili. Nel discorso di Catone del III libro infatti il principio dell' oi)kei/wsij 474 (Fin. III,<br />

16: "simulatque natum sit animal (hinc est ordiendum), ipsum sibi conciliari et commendari<br />

ad se conservandum et ad suum statum eaque quae conservantia sunt eius status diligenda,<br />

alienari autem ab interitu iisque rebus quae interitum videantur afferre") viene introdotto a<br />

supporto della confutazione della tesi epicurea : "id ita esse sic probant, quod ante, quam<br />

voluptates aut dolor attigerit, salutaria appetant parvi aspernenturque contraria, quod non<br />

fieret, nisi statum suum diligerent, interitum timerent. Fieri autem non posset, ut appeterent<br />

aliquid, nisi sensum haberent sui eoque se diligerent. Ex quo intellegi debet principium<br />

ductum esse a se diligendo". L'argomento stoico sostiene che prima ancora che si manifesti<br />

una sensazione di dolore o piacere nei bambini, questi hanno un'inclinazione (appetere :<br />

appetitum, o(rmh/, desiderio, inclinazione, istinto) nei confronti di ciò che è benefico per la loro<br />

autoconservazione (salutaria) e una repulsione nei confronti di ciò che non lo è. Condizione<br />

di possibilità per questo tipo di inclinazione o repulsione è che essi "abbiano a cuore /<br />

amino" 475 la loro costituzione e "temino" la loro distruzione, poiché, affinché si possa avere un<br />

inclinazione nei confronti di qualcosa, è necessario avere un 'sensum sui', una percezione di se<br />

stessi e 'se diligere', 'avere a cuore se stessi / amare se stessi / sentire un'affezione per se<br />

stessi'. Dal punto di vista della polemica con l'edonismo epicureo, l'argomento qui riassunto<br />

sostiene la priorità dell'inclinazione nei confronti di ciò che garantisce l'autoconservazione e<br />

del suo contrario rispetto a qualunque altra inclinazione e sopratutto rispetto ad ogni<br />

manifestazione del piacere e del suo contrario. La posizione stoica procede inoltre ad<br />

473Sedley (1996), p. 317, introduce alcune importanti precisazioni all'analisi avviata da Brunschwig.<br />

L'affermazione che tutti gli animali ricercano il piacere costituisce nel discorso etico epicureo una verità<br />

autoevidente (v. Fin. I, 30 : « Itaque negat opus esse ratione neque disputatione quamobrem voluptas<br />

expetenda, fugiendus dolor sit », per cui l'esempio fattuale del bambino ha certamente una funzione di<br />

supporto, da comprendersi tuttavia in relazione alla coerenza complessiva della nostra esperienza, piuttosto<br />

che in relazione ad una dimostrazione del principio del piacere.<br />

474 La letteratura su questo testo e il suo valore per la ricostruzione dell'originale 'dottrina stoica dell'oikeiwsis' è<br />

vasta, complessa e assolutamente non uniforme, v. Appendice; la relazione tra l'uso del concetto e un<br />

argomento anti-epicureo viene notata da [Philippson (1932);] White (1979), pp. 146; la prima questione da<br />

affrontare, ovvero come rendere il concetto e l'aggettivo o il verbo da cui deriva, non sembra potere trovare<br />

una soluzione pienamente soddisfacente per tutti, anche Striker (1996b), p. 281, pur non accettando<br />

l'intraducibilità del termine, ammette che "any translation would be clumsy"; 'recognition and appreciation<br />

of something as belonging to one'; verb: 'coming to be (or being made to be) well-disposed towards<br />

something'. Long: appropriation / love; Annas : familiarization; Schofield : affinity; standard edition of stoic<br />

sources : affection, endearment, being-near-and-dear; Irwin : concilation;<br />

475 Il verbo latino diligo veicola entrambi i significati; in entrambi i casi non si tratta della medesima emozione<br />

espressa dal verbo amo. Si cercherà di argomentare a favore della scelta del senso dell' 'aver a cuore', 'esser<br />

caro', piuttosto che 'amare' poco oltre.<br />

243


un'indagine archeologica a ritroso dei fondamenti dell'istinto naturale. L' h(donh/ viene<br />

considerata come un effetto secondario (v. ἐπιγέννημα, DL VII, 86) rispetto all'inclinazione<br />

verso ciò che contribuisce alla propria salvaguardia; condizione di possibilità di ogni<br />

inclinazione è invece che il soggetto abbia a cuore se stesso e tema la propria distruzione, il<br />

che è a sua volta possibile, se e solo se il soggetto è appropriato a se stesso e ha una certa<br />

consapevolezza di se stesso [se e solo se (appetitum salutaria) allora (voluptas) ; se e solo se<br />

(statum diligere / interitum timere) allora (appetitum salutaria); se e solo se (sensum sui et se<br />

diligere) allora (statum diligere / interitum timere)]. Al di là di ogni valutazione sulla validità<br />

dell'argomento stoico 476 , ci interessa notare qui come, all'interno di un'argomentazione, che<br />

Cicerone presenta come genuinamente stoica, il 'se diligere', come forma positiva della<br />

percezione di se stessi, viene posto come principio di ogni manifestazione dell'appetitum,<br />

ovvero come condizione di possibilità di ogni movente dell'azione di un essere vivente ("Fieri<br />

autem non posset, ut appeterent aliquid, nisi sensum haberent sui eoque se diligerent") 477 . Da<br />

un punto di vista storico-filosofico questa nozione di 'condizione di possibilità (condizione<br />

necessaria)' 478 dell'appetitum è estremamente interessante e probabilmente uno dei contributi<br />

più originali dello stoicismo. Nelle più complete esposizioni in lingua greca del principio<br />

dell'oi)kei/wsij, che le fonti a nostra disposizione offrono, si riscontrano punti di evidente<br />

contatto con il passo ciceroniano del III libro; tuttavia si cercherà invano un'altrettanto chiara<br />

esplicitazione del rapporto tra 'se diligere' e 'appetitum'. Si confronti il testo ciceroniano con il<br />

noto passo di Diogene Laerzio, VII, 85: "Τὴν δὲ πρώτην ὁρμήν φασι τὸ ζῷον ἴσχειν ἐπὶ τὸ<br />

τηρεῖν ἑαυτό, οἰκειούσης αὐτὸ τῆς φύσεως ἀπ' ἀρχῆς, καθά φησιν ὁ Χρύσιππος ἐν τῷ<br />

πρώτῳ Περὶ τελῶν, πρῶτον οἰκεῖον λέγων εἶναι παντὶ ζῴῳ τὴν αὑτοῦ σύστασιν καὶ τὴν<br />

ταύτης συνείδησιν· οὔτε γὰρ ἀλλοτριῶσαι εἰκὸς ἦν αὐτὸ τὸ ζῷον, οὔτε<br />

ποιήσασαν αὐτό, μήτ' ἀλλοτριῶσαι μήτ' οἰκειῶσαι. ἀπολείπεται τοίνυν λέγειν<br />

συστησαμένην αὐτὸ οἰκειῶσαι πρὸς ἑαυτό· οὕτω γὰρ τά τε βλάπτοντα διωθεῖται καὶ τὰ<br />

οἰκεῖα προσίεται" 479 . Si noterà che invece di fare riferimento ad una 'prima inclinazione'<br />

(πρώτη ὁρμή), il testo ciceroniano descrive il primo momento della vita dell'essere vivente 480 ,<br />

con un sintagma, "simulatque natum sit animal", che si ripete identico nei passaggi 'epicurei'<br />

476 Striker (1983), p. 158, parla di petitio principi.<br />

477 Cfr. Plut. Stoic. Rep. 1038; Pembroke (1971), p. 118, arriva a conclusioni affini sulla funzione dell' oikeiosis<br />

nella teoria stoica indipendentemente dal testo di Cicerone: "what is proper (oikeion) and what is alien<br />

(allotrion) are at all levels of consciousness not only the terms in which perception operates but the<br />

conditions without which it could not arise".<br />

478 Cfr. Lee (2002), p. 35, in rif. a DL VII 85-86, parla di "kausale Erklärung des intrinsischen durch den<br />

extrinsischen Prozess"; v. anche p. 63.<br />

479 v. l'analisi della struttura argomentativa del passo di Diogene Laerzio in Lee (2002), pp. 30-35.<br />

480 Il discorso ciceroniano opta in questo modo per una rappresentazione temporale concreta, piuttosto che per<br />

una discussione puramente teorica sui principi dell'appetizione.<br />

244


(Fin. I, 30; Fin. II, 31) e nel passaggio 'stoico' già preso in esame (Fin. III, 16) 481 . Una prima<br />

affinità tra il testo di Diogene e quello di Cicerone si riscontra invece nell'associazione del<br />

processo di 'appropriazione a se stessi' (οἰκειούσης αὐτὸ τῆς φύσεως ἀπ' ἀρχῆς 482 / "ipsum<br />

sibi conciliari et commendari") con l'auto-conservazione (ἴσχειν ἐπὶ τὸ τηρεῖν ἑαυτό / "ad se<br />

conservandum"). Il rapporto del soggetto rispetto alla sua costituzione (σύστασιν / status), nel<br />

testo di Diogene Laerzio, viene introdotto, con un esplicito riferimento al primo libro del Περὶ<br />

τελῶν di Crisippo 483 , attraverso la mediazione del concetto di πρῶτον οἰκεῖον (che<br />

deliberatamente scegliamo di non tradurre per il momento) 484 , il quale non si limita a mettere<br />

il soggetto in relazione alla sua costituzione, ma vi aggiunge anche una forma di<br />

'consapevolezza' (συνείδησιν) 485 della costituzione stessa; il passo di Diogene conferma<br />

inoltre che da questo principio di 'appropriazione a se stessi' discende il fatto di essere attratti<br />

dalle cose che vanno bene per noi ed evitare quelle che sono nocive (οὕτω γὰρ τά τε<br />

βλάπτοντα διωθεῖται καὶ τὰ οἰκεῖα προσίεται / "ad suum statum eaque quae conservantia<br />

sunt eius status diligenda, alienari autem ab interitu iisque rebus quae interitum videantur<br />

afferre"; cfr. "salutaria appetant parvi aspernenturque contraria"). La resa ciceroniana dei<br />

concetti greci deve fare evidentemente i conti con le irriducibili specificità delle due lingue,<br />

per cui l'azione espressa dal verbo oi)keio/w, ad esempio, viene resa da un'endiadi composta da<br />

due verbi latini (conciliari et commendari) 486 , di cui nessuno dei due però è semanticamente<br />

connesso al concetto di casa (oi)/koj), patrimonio domestico, "ciò che è proprio", che<br />

determinano invece le possibilità d'uso del verbo greco 487 . La scelta di Cicerone opta per il<br />

campo semantico dei verbi italiani 'conciliare', 'raccomandare', che hanno quantomeno il<br />

vantaggio di suggerire come oggetto di riferimento 'qualcosa di appropriato'. Difficoltà ancora<br />

maggiori Cicerone potrebbe aver incontrato nella resa del sostantivo neutro to£ oi)kei=on al<br />

481 Cfr. Alex.Aphr., De anima libri mantissa 150, 29-30: "ἕκαστον γὰρ ζῷον εὐθὺς γενόμενον".<br />

482 L'uso del participio aoristo οἰκειούσης stabilisce una priorità del processo di oi)kei/wsij rispetto alla<br />

manifestazione dell'istinto di auto-conservazione, rafforzata per altro dalla specificazione temporale ἀπ'<br />

ἀρχῆς.<br />

483 Il riferimento al testo di Crisippo intende dare supporto alla prima frase del passaggio di Diogene Laerzio,<br />

per cui si potrebbe leggere un certo rapporto inferenziale tra le due affermazioni: "il πρῶτον οἰκεῖον è per<br />

ogni essere vivente la propria costituzione e la consapevolezza di essa" e "la prima inclinazione (πρώτη<br />

ὁρμή) dell'essere vivente è verso il conservare / proteggere se stesso".<br />

484 Il concetto assume una varietà di funzioni nella letteratura filosofica posteriore, v. Clem. Alex., Str. II, 21,<br />

128, per esporre la formula del telos epicurea : "Ἐπίκουρος μὲν οὖν καὶ οἱ Κυρηναϊκοὶ τὸ πρῶτον οἰκεῖόν<br />

φασιν ἡδονὴν εἶναι·"; v. Alex. Aphr. De anima libri mantissa, 150-152, § 17 tw=n para£ 'Aristote/louj peri£<br />

tou= prw/tou oi)kei/ou; v. Stobaeus, Ecl. II, 7, 3 c, p. 47 Wachsmuth.<br />

485 Il termine come già notato dalla critica non è in uso nei testi filosofici dell'epoca classica e compare<br />

verosimilmente in un contesto filosofico per la prima volta con gli stoici, la sua funzione potrebbe<br />

corrispondere a quella del concetto di 'sensus sui' nel testo ciceroniano. v. Aesopus : “ἡ ἰδία μου συνείδησις”;<br />

Menander: "Ἅπασι ἡμῖν ἡ συνείδησις θεός"; "Βροτοῖς ἅπασιν ἡ συνείδησις θεός".<br />

486 v. p. 177 e Introduzione, p. xliv-xlv.<br />

487 v. per uno studio del campo semantico del termine, v. Pembroke (1971), p. 115.<br />

245


singolare e ta£ oi)kei=a al plurale 488 , di cui non siamo sicuri di saper individuare un<br />

corrispettivo latino 489 , ma per il quale possiamo immaginare che Cicerone, selezionando<br />

all'interno del campo semantico di oi)kei=oj, il senso di 'familiare, amico', sia arrivato a 'ciò che<br />

è caro' (al soggetto), forgiando la nozione del 'se diligere', per rendere l'espressione<br />

οἰκειοῦσθαι πρὸς ἑαυτό / οἰκείωσις πρὸς ἑαυτό 490 . Se è questo è effettivamente l'andamento<br />

della scelta lessicale di Cicerone, è necessario tener presente che esso corrisponde a un<br />

intervento interpretativo dell'autore, che spinge il rapporto espresso dall'aggettivo oi)kei=oj<br />

nella direzione di un'affezione positiva come quella della fili/a (diligo è il verbo che Cicerone<br />

impiega per il tema dell'amicizia, v. e.g. De amic. 28), contribuendo così ad un processo di<br />

avvicinamento teorico tra il concetto stoico di oi)kei/wsij e il concetto aristotelico di<br />

filauti/a 491 ; per ridurre la distanza dal suo potenziale correspettivo greco, o meglio, per<br />

rimanere più vicini possibile all'originale greco, l'espressione 'se diligere' allora andrebbe<br />

intesa più nel senso di 'avere a cuore se stessi', piuttosto che nel senso di un ancora più forte<br />

sentimento d'amore. La direzione implicita nella scelta lessicale ciceroniana risulta del resto<br />

ampiamente accolta e sfruttata dall'esposizione dei principi dell'etica stoica da parte del<br />

filosofo Tauro nel testo di Aulo Gellio (Noctes Attica XII, 5, 7): "Natura (...) omnium rerum,<br />

quae nos genuit, induit nobis inolevitque in ipsis statim principiis, quibus nati sumus, amorem<br />

nostri et caritatem ita prorsus, ut nihil quicquam carius pensiusque nobis, quam nosmet ipsi".<br />

È tuttavia doveroso dinstiguere in questo contesto la trasposizione ciceroniana in lingua latina<br />

del lessico stoico dalla riscrittura posteriore dell'etica stoica da parte di un filosofo come<br />

Tauro, che presenta se stesso come 'platonico' 492 .<br />

A partire da queste considerazioni sulla resa ciceroniana del vocabolario stoico, possiamo<br />

notare che in introduzione al frammento in oggetto Cicerone ripropone l'argomento anti-<br />

epicureo di matrice stoica 493 sui moventi dell'azione, impiegando il concetto di 'se diligere'<br />

488 Arist. EN 1096 a 13-15; 1165 a 16-17; 1168 a 2-3;<br />

489 v. Lee (2002), p. 12, n. 2 : "Ein lateinisches Substantiv hingegen, der dem griechischen Substantiv > to£<br />

oi)kei=on< genau entspricht, findet sich nicht bei Cicero".<br />

490 Cfr. alcune traduzioni moderne del passaggio riportato da Diogene Laerzio, dove viene tradotto con "the<br />

dearest thing", v. Brink (1956), p. 139; l'elemento di affezione positiva viene esplicitato del resto<br />

prevalentemente negli usi riflessivi del concetto, in particolare nell'uso del verbo accompagnato dalla<br />

specificazione riflessiva dell'oggetto (pro/j e(auto/); v. Pembroke (1971), p. 116, sostiene che l'uso della<br />

preposizione pro/j dopo il verbo (o il sostantivo) è il tratto distintivo dell'uso stoico del concetto, nella misura<br />

in cui pone l'accento su una relazione non bilaterale.<br />

491 Cfr. Fin. V, 24: "Omne animal se ipsum diligit ac, simul ut ortum est, id agit, ut se conservet, quod hic ei<br />

primus ad omnem vitam tuendam appetitus a natura datur, se ut conservet, atque ita sit affectum, ut optime<br />

secundum naturam affectum esse possit". Cfr. Dox. C, in Stobaeus, Ecl. II, 7, 13, pp. 118-119 Wachsmuth :<br />

« Φίλον γὰρ εἶναι ἡμῖν τὸ σῶμα, φίλην δὲ τὴν ψυχήν, φίλα δὲ τὰ τούτων μέρη καὶ τὰς δυνάμεις καὶ τὰς<br />

ἐνεργείας,


(verosimilmente come πρῶτον οἰκεῖον), in connessione con l'istinto di autoconservazione<br />

(verosimilmente come πρώτη ὁρμή), ma provvisto in questo caso di una peculiare estensione,<br />

che sembrerebbe svolgere una specifica funzione di raccordo con la tradizione vetero<br />

academica e peripatetica. L'azione del 'diligere' viene infatti descritta in relazione non alla<br />

costituzione (status / σύστασιν) dell'essere vivente nel suo insieme, ma alle sue componenti o<br />

parti : "omnes partes suas diligit"; il che offre la possibilità di introdurre nel testo quella<br />

bipartizione antropologica, che è ricorrente nei testi dove si fa riferimento all'interpretazione<br />

antiochea del pensiero degli antichi 494 , e in base alla quale si deduce che l'appetizione auto-<br />

conservativa dell'essere vivente si rivolge tanto all'anima quanto al corpo : (Fin. II, 33) "Nam<br />

sunt et in animo praecipua quaedam et in corpore, quae cum leviter agnovit, tum discernere<br />

incipit, ut ea quae prima data sint natura appetat aspernenturque contraria". Il concetto<br />

dunque non risulta impiegato come condizione teorica dell'appetizione, da cui si estrapola un<br />

principio superiore d'ordine nella natura, come nell'argomentazione stoica, ma viene descritto<br />

piuttosto come una manifestazione degli oggetti di appetizione naturale, che lo sviluppo anche<br />

morale dell'uomo è chiamato a preservare. In questo senso, l'istanza attribuita alla tradizione<br />

vetero academica e peripatetica, a differenza di quella epicurea e quella stoica, si avvale più<br />

concretamente dell'osservazione della natura per determinare la base empirica della sua<br />

formula del telos 495 . Il testo ciceroniano offre inoltre altri esempi dell'uso del concetto di 'se<br />

diligere' nel contesto dell'esposizione dei principi etici della tradizione vetero-academica, v.<br />

Fin. V, 24, spingendosi fino a presentarlo in associazione con il vocabolo tecnico dell'<br />

oi)kei/wsij (commendatio) 496 e in continuità con la bipartizione antropologica in Fin. V, 46:<br />

"Et adhuc quidem ita nobis progressa ratio est, ut ea duceretur omnis a prima<br />

commendatione naturae. Nunc autem aliud iam argumentandi sequamur genus, ut non solum<br />

quia nos diligamus, sed quia cuiusque partis naturae et in corpore et in animo sua quaeque<br />

494 v. Fin. IV, 16: "Idemque diviserunt naturam hominis in animum et corpus. Cumque eorum utrumque per se<br />

expetendum esse dixissent, virtute quoque utriusque eorum per se expetendas esse dicebant, et, cum animum<br />

infinita quadam laude anteponerent corpori, virtutes quoque animi bonis corporis anteponebant"; v.<br />

commento a Fin. IV, 45 = T. 45, 4) "diviserunt naturam hominis in animum et corpus"; August. De civ.Dei<br />

XIX, 1, 2: "vel in corpore, ... vel in animo"; 3, 1 : "an vero nec anima sola nec solum corpus, sed simul<br />

utrumque sit homo, cuius sit pars una sive anima sive corpus, ille autem totus ex utroque constet, ut homo sit<br />

(sicut duos equos iunctos bigas vocamus, quorum sive dexter sive sinister pars est bigarum, unum vero<br />

eorum, quoquo modo se habeat ad alterum, bigas non dicimus, se ambo simul)", con l'immagine esplicativa<br />

della la 'biga', interessante riscrittura esegetica della biga alata del Fedro.<br />

495 v. Fin. V, 55: "Facile est hoc cernere in primis puerorum aetatulis. Quamquam enim vereor ne nimius in hoc<br />

genere videar, tamen omnes veteres philosophi, maxime nostri,<br />

ad incunabula<br />

accedunt,<br />

quod in pueritia<br />

facillime se arbitrentur naturae voluntatem posse cognoscere"; v. esempi di 'osservazioni naturaliste' in<br />

Arist., Hist. Anim. VIII, 1; [Arist.], MM 1206 b 17-25.<br />

496 v. anche Fin. V, 41. l'uso del termine 'commendatio' nel testo ciceroniano risulta in ultima istanza trasversale<br />

e non legato esclusivamente all'esposizione della posizione stoica; in relazione alla posizione epicurea, v. Fin.<br />

II, 35: "Epicurus autem cum in prima commendatione voluptatem dixisset"; v. Ep. ad Menoec., 129: "ταύτην<br />

γὰρ ἀγαθὸν πρῶτον καὶ συγγενικὸν ἔγνωμεν (...). Καὶ ἐπεὶ πρῶτον ἀγαθὸν τοῦτο καὶ σύμφυτον (...).<br />

πᾶσα οὖν ἡδονὴ διὰ τὸ φύσιν ἔχειν οἰκείαν ἀγαθόν, οὐ πᾶσα μέντοι αἱρετή".<br />

247


vis sit, idcirco in his rebus summe nostra sponte moveamur"; l'ultimo passo citato mostra<br />

tuttavia come Cicerone fosse consapevole del fatto che il motivo della bipartizione<br />

antropologica appartiene a un "aliud argumentanti genus", rispetto al discorso della<br />

commendatio naturae; la sintesi dei due elementi appare dunque come un apporto originale<br />

del discorso etico di Antioco così come lo riporta Cicerone; cfr. Fin. IV, 16. Si noterà allora<br />

come le affinità formali tra le modalità di presentazione della posizione stoica e della<br />

posizione vetero-academica nel testo ciceroniano permettono in questo contesto la<br />

sostituzione dell'una con l'altra nell'ambito della critica alla posizione epicurea. L'antagonismo<br />

filosofico tra l'etica academica e l'edonismo potrebbe di fatto rispecchiare una realtà storica (v.<br />

Speusippo e il dibattito sollevato dalla posizione di Eudosso: Arist., EN 1152 b 19; EN 1172 b<br />

9), tuttavia l'affinità formale che i testi ciceroniani attribuiscono alle due posizioni, quella<br />

vetero academica / peripatetica e quella stoica, è tale da non poter essere casuale; essa<br />

risponde verosimilmente ad una precisa esigenza argomentativa, per cui alcuni elementi della<br />

riflessione stoica sui principi d'ordine e conformità naturale nella vita umana risultano<br />

integrati nella presentazione del modello 'realizzazionista' attribuito agli antichi 497 . Lo scopo è<br />

quello di mostrare come le due istanze filosofiche condividessero lo stesso approccio ai<br />

fondamenti naturalistici del discorso etico (v. Fin. IV, 45 = T. 45), in base al quale gli stoici<br />

sono poi chiamati a rendere conto di una contraddizione interna alla loro teoria etica, come si<br />

evince dal libro IV 498 . L'affinità formale e lessicale tra le due posizioni si presenta allora come<br />

il risultato di una mutuazione concettuale uniformatrice promossa verosimilmente<br />

dall'operazione storiografico-ermeneutica di Antioco d'Ascalona.<br />

Commento<br />

A)<br />

– In his primis naturalibus voluptas insit necne, magna quaestio est:<br />

La presenza della voluptas tra i primi oggetti di appetizione naturale viene<br />

presentata come oggetto di controversia. v. Fin. III, 17: "In principiis naturalibus<br />

497 Per 'modello realizzazionista' si intende qui quel modello etico per cui il naturale sviluppo dell'uomo è<br />

quello che porta a compimento, 'realizza', le naturali potenzialità della specie, sia dal punto di vista fisico che<br />

spirituale. Secondo questo modello, 'buono' è ciò che contribuisce al naturale sviluppo o quantomeno non lo<br />

ostacola. 'cattivo' il contrario ; v. White (1979), p. 146, parla di 'self-realization model' applicato<br />

all'interpretazione dell'etica peripatetica e in certa misura anche stoica, riprendendo un'idea che Sidgwick<br />

(1907), pp. 90-98, sviluppa invece per le riflessioni etiche d'epoca moderna in particolare di Hobbes e<br />

Spinoza.<br />

498 v. e.g. Fin. IV, 26.<br />

248


* plerique Stoici non putant voluptatem ponendam"; il riferimento alla 'maggior<br />

parte' degli stoici implica l'esistenza di un dibattito interno allo stoicismo: almeno<br />

'qualcuno' degli stoici includeva il piacere tra gli oggetti di appetizione naturale, in<br />

posizione verosimilmente subordinata rispetto al processo di 'appropriazione a se<br />

stessi' e alla dinamica istintuale di 'auto-conservazione'; v. Philippson (1932), pp.<br />

454-455. Nel testo varroniano parafrasato da Agostino (De civ. Dei XIX, 1, 2), il<br />

piacere e l'assenza di dolore vengono invece sussunti all'interno degli elementi che<br />

compongono i prima naturae: "aut voluptatem, (...), aut quietem, (...), aut<br />

utramque, (...) aut universaliter prima naturae, in quibus et haec sunt et alia, vel<br />

in corpore, ut membrorum integritas et salus atque incolumitas eius, vel in animo,<br />

ut sunt ea, quae vel parva vel magna in hominum reperiuntur ingeniis"; 2: "Ex<br />

illis autem quattuor rebus Varro tres tollit, voluptatem scilicet et quietem et<br />

utrumque; non quod eas improbet, sed quod primigenia illa naturae et voluptatem<br />

in se habeant et quietem"; tuttavia il testo ciceroniano ci tiene a precisare che la<br />

questione dell'inclusione o meno del piacere tra i beni (del corpo) è controversa e<br />

possiamo immaginare che tale fosse anche per Antioco : v. Fin. V, 45: "In<br />

enumerandis autem corporis commodis si quis praetermissam a nobis voluptatem<br />

putabit, in aliud tempus ea quaestio differatur. Utrum enim sit voluptas in iis<br />

rebus quas prima secundum naturam esse diximus necne sit, ad id quod agimus<br />

nihil interest". Sulla base del passo in oggetto e di quello appena citato, Giusta<br />

(1964-1967), vol. I, pp. 88, ritiene invece che Antioco si fosse esplicitamente<br />

pronunciato contro l'inclusione e che questo possa essere anzi uno dei tratti<br />

distintivi per riconoscere la sua posizione all'interno dei testi; la controversia<br />

nascerebbe dal fatto che la posizione peripatetica veniva associata con una forma<br />

di edonismo, come del resto testimonia Alessandro d'Afrodisia, contestando<br />

fermamente l'interpretazione di coloro che ritengono che per Aristotele l' h(donh/<br />

sia il πρῶτον οἰκεῖον sulla base per esempio di EN 1104 b 30 – 1105 a 1 : "τριῶν<br />

γὰρ ὄντων τῶν εἰς τὰς αἱρέσεις καὶ τριῶν τῶν εἰς τὰς φυγάς, καλοῦ<br />

συμφέροντος ἡδέος, καὶ [τριῶν] τῶν ἐναντίων, αἰσχροῦ βλαβεροῦ λυπηροῦ,<br />

περὶ ταῦτα μὲν πάντα ὁ ἀγαθὸς κατορθωτικός ἐστιν ὁ δὲ κακὸς ἁμαρτητικός,<br />

μάλιστα δὲ περὶ τὴν ἡδονήν· κοινή τε γὰρ αὕτη τοῖς ζῴοις, καὶ πᾶσι τοῖς ὑπὸ<br />

τὴν αἵρεσιν παρακολουθεῖ· καὶ γὰρ τὸ καλὸν καὶ τὸ συμφέρον ἡδὺ φαίνεται",<br />

v. Alex. Aphr., De anima libri mantissa 151-152. In una fase più antica del<br />

dibattito sull'edonismo, risulta interessante notare come Speusippo sembrerebbe<br />

essersi opposto alla tesi che il piacere è un bene e aver pensato invece che il<br />

249


comportamento più corretto è quello di chi evita sia i piaceri sia i dolori come se<br />

fossero dei mali, (v. Arist. EN 1153 b 1-7; 1173 a 5-28; Aulus Gellius, Noct.Att.<br />

IX, 5, 4), il che escluderebbe che per gli antichi academici il piacere rientri nei<br />

principi naturali del discorso etico, v. T. 58 = Clem. Alex. Str., 22, 133;<br />

Diversamente Aristotele argomenta (dialetticamente) in più luoghi a partire<br />

dall'opinione comune che vi sia una tendenza naturale verso il piacere, che si<br />

manifesta in particolare nei bambini nella misura in cui questi agiscono secondo<br />

un desiderio irrazionale, v. Arist., EE 1247 b 21: εἰ γάρ ἐστι φύσει ἡ δι'<br />

ἐπιθυμίαν ἡδέος [καὶ ἡ] ὄρεξις, φύσει γε ἐπὶ τὸ ἀγαθὸν βαδίζοι ἂν πᾶν. EN<br />

1119 b 7 : "κατ' ἐπιθυμίαν γὰρ ζῶσι καὶ τὰ παιδία, καὶ μάλιστα ἐν τούτοις ἡ<br />

τοῦ ἡδέος ὄρεξις"; v. anche EN 1105 a 2; 1172 a 20, per quando escluda<br />

dimostrativamente che il piacere possa coincidere con il fine della vita dell'uomo,<br />

v. EN 1152 b 12-14: "ὅλως μὲν οὖν οὐκ ἀγαθόν, ὅτι πᾶσα ἡδονὴ γένεσίς ἐστιν<br />

εἰς φύσιν αἰσθητή, οὐδεμία δὲ γένεσις συγγενὴς τοῖς τέλεσιν, οἷον οὐδεμία<br />

οἰκοδόμησις οἰκίᾳ". Cfr. Plato, Leg. 732 e 4-7: "ἔστιν δὴ φύσει ἀνθρώπειον<br />

μάλιστα ἡδοναὶ καὶ λῦπαι καὶ ἐπιθυμίαι, ἐξ ὧν ἀνάγκη τὸ θνητὸν πᾶν ζῷον<br />

ἀτεχνῶς οἷον ἐξηρτῆσθαί τε καὶ ἐκκρεμάμενον εἶναι σπουδαῖς ταῖς<br />

μεγίσταις".<br />

Cfr. altre espressioni come : initiis naturae, v. Fin. III, 22; 23; prima invitamenta<br />

naturae, v. Fin. V, 17; quod iter sit naturae quoque progressio, v. Fin. IV, 37;<br />

– non membra, non sensus, non ingeni motum, non integritatem corporis,<br />

non valetudinem [corporis], summae mihi videtur inscitiae:<br />

Secondo un modello etico 'realizzazionista' del potenziale naturale dell'uomo, con<br />

il quale sembra comodo far coincidere speculativamente la prospettiva adottata da<br />

Antioco una posizione come quella epicurea, secondo la quale solo il piacere<br />

figura come oggetto dell'appetizione naturale, o anche come quella stoica,<br />

secondo la quale la formula del fine della vita dell'uomo non include la menzione<br />

di quelli che sono gli oggetti di primaria appetizione e salvaguardia, coincide con<br />

la negazione dello statuto di questi ultimi. Una tattica argomentativa contro tali<br />

posizione etiche parte dunque dal presentare come autoevidente l'inclusione tra i<br />

moventi naturali di un istinto di preservazione nei confronti di elementi del corpo<br />

e dell'anima, per affermare poi la necessità della loro inclusione nella formula del<br />

250


telos. Tuttavia si noti che non sarebbe corretto dire che la posizione stoica neghi lo<br />

statuto degli elementi sopra menzionati, piuttosto essa non accetta alla base il<br />

principio per cui il fine morale della vita dell'uomo si trova nella sola perfezione<br />

di tutte le sue prerogative naturali.<br />

cfr. Fin. V, 18: "ab iis alii, quae prima secundum naturam nominant,<br />

proficiscuntur, in quibus numerant incolumitatem conservationemque omnium<br />

partium, valetudinem, sensus integros, doloris vacuitatem, viris, pulchritudinem,<br />

cetera generis eiusdem, quorum similia sunt prima in animis quasi virtutum<br />

igniculi et semina".<br />

[Arius Didymus], ap. Stobaeus, Anthol. II, 7, 3c (Dox. B), p. 47 Wachsmuth:<br />

"prw=ta d' e)sti£ kata£ fu/sin peri£ me£n to£ sw=ma e( /cij, ki/nhsij, sxe/sij,<br />

e)ne/rgeia, du/namij, o)/recij, u(gi/eia, i)sxu/j, eu)eci/a, eu)aisqhsi/a, ka/lloj, ta/xoj,<br />

a)rtio/thj, ai( th=j zwtikh=j a(rmoni/aj poio/thtej, peri£ de£ yuxh£n eu)sunesi/a,<br />

eu)fui/a ktl.".<br />

DL VII, 101-103 = LS 58 A : « Ἀγαθὰ μὲν οὖν τάς τ' ἀρετάς, φρόνησιν,<br />

δικαιοσύνην, ἀνδρείαν, σωφροσύνην καὶ τὰ λοιπά· κακὰ δὲ τὰ ἐναντία,<br />

ἀφροσύνην, ἀδικίαν καὶ τὰ λοιπά. οὐδέτερα δὲ ὅσα μήτ' ὠφελεῖ μήτε βλάπτει,<br />

οἷον ζωή, ὑγίεια, ἡδονή, κάλλος, ἰσχύς, πλοῦτος, εὐδοξία, εὐγένεια· καὶ τὰ<br />

τούτοις ἐναντία, θάνατος, νόσος, πόνος, αἶσχος, ἀσθένεια, πενία, ἀδοξία,<br />

δυσγένεια καὶ τὰ παραπλήσια, καθά φησιν Ἑκάτων ἐν ἑβδόμῳ Περὶ τέλους<br />

καὶ Ἀπολλόδωρος ἐν τῇ Ἠθικῇ καὶ Χρύσιππος. μὴ γὰρ εἶναι ταῦτ' ἀγαθά,<br />

ἀλλ' ἀδιάφορα κατ' εἶδος προηγμένα. ὡς γὰρ ἴδιον θερμοῦ τὸ θερμαίνειν, οὐ<br />

τὸ ψύχειν, οὕτω καὶ ἀγαθοῦ τὸ ὠφελεῖν, οὐ τὸ βλάπτειν· οὐ μᾶλλον δ' ὠφελεῖ<br />

ἢ βλάπτει ὁ πλοῦτος καὶ ἡ ὑγίεια· οὐκ ἄρ' ἀγαθὸν οὔτε πλοῦτος οὔθ' ὑγίεια ».<br />

ingeni motum : cfr. Tusc. III, 2: "nunc parvulos nobis dedit igniculos, quos<br />

celeriter malis moribus opinionibusque depravati sic restinguimus, ut nusquam<br />

naturae lumen appareat. Sunt enim ingeniis nostris semina innata virtutum,<br />

quae si adolescere liceret, ipsa nos ad beatam vitam natura perduceret"; v. anche :<br />

Fin. V, 18: "prima in animis quasi virtutum igniculi et semina"; Fin. V, 43: "in<br />

pueris virtutum quasi scintillas videmus, e quibus accendi philosophi ratio debet";<br />

crossover filosofico: terminologia di assonanza stoica implicata in una teoria<br />

251


continuista del progresso naturale dell'uomo verso la moralità.<br />

– Atque ab isto capite fluere necesse est omnem rationem bonorum et<br />

malorum:<br />

Si afferma il principio per cui il discorso etico deve partire dalla determinazione<br />

degli oggetti di prima appetizione naturale, v. affermazioni simili: "quid natura<br />

postulet...intelleg(ere)" (Fin. I, 42); "Progrediamur igitur, quoniam (...) ab his<br />

principiis naturae discessimus, quibus congruere debent quae sequuntur" (Fin.<br />

III, 20).<br />

Il naturalismo filosofico del periodo ellenistico influenza allo stesso modo la<br />

discussione ciceroniana sulle fonti del diritto: v. Leg. I, 20: "Visne ergo ipsius<br />

iuris ortum a fonte repetamus? Quo invento non erit dubium, quo sint haec<br />

referenda quae quaerimus. (...) repetam stirpem iuris a natura, qua duce nobis<br />

omnis haec est disputatio explicanda".<br />

Caput / fons : Cfr. Plato, Leg. 636 d-e: "δύο γὰρ αὗται πηγαὶ μεθεῖνται φύσει<br />

ῥεῖν, ὧν ὁ μὲν ἀρυτόμενος ὅθεν τε δεῖ καὶ ὁπότε καὶ ὁπόσον εὐδαιμονεῖ, καὶ<br />

πόλις ὁμοίως καὶ ἰδιώτης καὶ ζῷον ἅπαν, ὁ δ' ἀνεπιστημόνως ἅμα καὶ ἐκτὸς<br />

τῶν καιρῶν τἀναντία ἂν ἐκείνῳ ζῴη."<br />

La formulazione del principio naturalistico del discorso etico è anche una delle<br />

premesse della Carneadia divisio, in quanto possibile terreno d'incontro<br />

dell'istanza stoica e dell'istanza epicurea nel loro comune (per quanto sotto certi<br />

aspetti coflittuale) rapporto con i fondamenti aristotelici del discorso etico.<br />

v. Fin. V, 17: "Totius enim quaestionis eius quae habetur de finibus bonorum et<br />

malorum, cum quaeritur in his, quid sit extremum, quid ultimo, fons reperiendus<br />

est, in quo sint prima invitamenta natura; quo invento omnis ab eo quasi capite<br />

de summo bono et malo disputatio dicitur".<br />

Su questa vera o presunta premessa condivisa si fonda inoltre la critica sia della<br />

posizione epicurea, sia della posizione stoica, entrambe apparentemente esposte<br />

ad un'accusa di incoerenza tra l'uso della premessa naturalistica e gli esiti della<br />

teoria etica. Epicuro viene accusato ad esempio di esser partito dall'osservazione<br />

presso i bambini dell'istinto verso un piacere di tipo cinetico, per poi affermare<br />

che un piacere di tipo katastematico è il fine delle azioni dell'uomo. La posizione<br />

252


stoica invece viene accusata di aver preso le mosse dalle istruzioni della natura,<br />

lasciandole invece da parte nella determinazione del telos. In entrambi i casi è<br />

possibile, come si è visto, dubitare che la presentazione critica delle due dottrine<br />

renda giustizia della loro forma originaria 499 .<br />

v. DL X, 148, nella XXV massima capitale si trova condensata tanto la portata del<br />

naturalismo del discorso etico epicureo, quanto la sua imperatività : "Εἰ μὴ παρὰ<br />

πάντα καιρὸν ἐπανοίσεις ἕκαστον τῶν πραττομένων ἐπὶ τὸ τέλος τῆς<br />

φύσεως, ἀλλὰ προκαταστρέψεις εἴτε φυγὴν εἴτε δίωξιν ποιούμενος εἰς ἄλλο<br />

τι, οὐκ ἔσονταί σοι τοῖς λόγοις αἱ πράξεις ἀκόλουθοι".<br />

– Polemoni et iam ante Aristoteli ea prima visa sunt quae paulo ante dixi:<br />

iam ante Aristoteli: il testo presenta una distinzione temporale degna di nota tra la<br />

posizione di Polemone e quella di Aristotele. v. Fin. I, 19: "Multi enim et magni<br />

philosophi haec ultima bonorum iuncta fecerunt; ut Aristoteles virtutis usum cum<br />

vitae perfectae prosperitate coniunxit, Callipho adiunxit ad honestatem<br />

voluptatem, Diodorus ad eandem honestatem addidit vacuitatem doloris"; Il<br />

passaggio del I libro del De finibus prova che Aristotele figurava già in una<br />

divisio etica come rappresentante di una posizione composita. I nomi di Callifone<br />

e Diodoro figurano anche nella Carneadia divisio del V libro del De finibus;<br />

dunque risulta probabile che la posizione di Aristotele figurasse da sola, e non in<br />

associazione con altri academici o peripatetici, nella forma carneadea 'originaria'<br />

della divisio, ovvero nella strutturazione dialettica da parte di Carneade della<br />

dissensio nell'ambito dell'etica. L'affiancamento del nome di Polemone avviene<br />

verosimilmente in un secondo tempo, in relazione alle esigenze argomentative e<br />

autoritative di Antioco d'Ascalona.<br />

– Ergo nata est sententia veterum Academicorum et Peripateticorum: La<br />

posizione attribuita alla tradizione vetero-academica e peripatetica nasce dalla<br />

convergenza delle due scuole sul valore dei primi oggetti di appetizione. Essa<br />

viene inferenzialmente desunta ("ergo...") da questa convergenza e viene dunque<br />

presentata come il risultato di un intervento interpretativo, coadiuvato da<br />

un'approccio dialettico comparativo alle istanze etiche del periodo ellenistico.<br />

499 v. J. Warren (forthcoming), 'Epicurean Pleasures in Cicero's De Finibus', in J. Annas, G. Betegh,<br />

Proceedings of the 12 th Symposium Hellenisticum – Cicero's De Finibus : A New Appraisal.<br />

253


– ut finem bonorum dicerent secundum naturam vivere, id est virtute<br />

adhibita frui primis a natura datis: la formula del fine attribuita alla tradizione<br />

vetero academica e peripatetica viene presentata come un interpretazione<br />

dell'espressione "secundum naturam vivere", diversa da quella stoica. Vivere<br />

secondo la natura coincide in questo contesto con lo sviluppo del corredo<br />

spirituale e fisico fornito dalla natura, ovvero con il conseguimento della virtù e il<br />

buon mantenimento delle altre proprietà naturali dell'uomo.<br />

Virtute adhibita: cfr. usi figurati: adhibere animum ad aliquid, rivolgere l'animo a<br />

una cosa; adhibere fidem, usare lealtà, fedeltà; adhibere doctrinam, ricorrere alla<br />

scienza; adhibere modum alicui rei, porre un limite a qualche cosa; nullam<br />

adhibuit memoriam contumeliae, non fece alcun cenno all'insulto; adhibere<br />

studium atque aures, aggiungere passione (per la poesia) e orecchio fino.<br />

Cfr. Fin. III, 31: "Scientiam adhibentem, earum rerum, quae natura eveniant";<br />

Fin. IV, 14-15 = T. 44: "adhibeo scientiam"; Poncelet (1957), ritiene che la frase<br />

sia il corrispettivo latino della frase " kat' e)mpeiri/an tw=n kata£ th£n o(/lhn fu/sin<br />

sumbaino/ntwn zh=n " (Galenus, De placitis Hippocratis et Platoni V, 6 = SVF III,<br />

12), per cui si deduce che l'uso del verbo adhibeo sostituisce talvolta in Cicerone<br />

la preposizione greca di conformità kata£. La formula greca della posizione degli<br />

antichi in questo caso avrebbe allora proposto la fruizione degli oggetti di<br />

appetizione naturale kat' a)reth/n.<br />

frui: v. Luc. 131-132 = T. 39 : frui rebus.<br />

primis a natura datis: cfr. Luc. 92: "rerum natura nullam nobis dedit cognitionem<br />

finium"; Ac.libri I, 42: "quod ...natura (comprehensionem) quasi normam<br />

scientiae et principium sui dedisset"; Fin. IV, 37: "ut (natura) ea, quae prima<br />

dederit, non deserat"; Fin. V, 59: "etsi (natura) dedit talem mentem, quae omnem<br />

virtutem accipere posset"; ND I, 45: "quae ...nobis natura informationem ipsorum<br />

deorum dedit"; ND II, 34: "bestiis ... sensum et motum (natura) dedit"; ND II,<br />

122: "dedit eadem natura belvis et sensum et appetitum"; ND II, 123: "quibus<br />

bestiis erat is cibus, ... aut vires natura dedit aut celeritatem";<br />

254


Leg. I, 25 - 26: "Iam vero virtus eadem in homine ac deo est neque alio ullo in<br />

genere praeterea; est autem virtus nihil aliud nisi perfecta et ad summus perducta<br />

natura; est igitur homini cum deo similitudo. Quod cum ita sit, quae tandem esse<br />

potest proprior certiorve cognatio? Itaque ad hominum commoditates et usus<br />

tantam rerum ubertatem natura largita est, ut ea, quae gignuntur, donata consulto<br />

nobis, non fortuitio nata videantur, ne solum ea, quae frugibus atque bacis terrae<br />

fetu profunduntur, sed etiam pecudes, quod perspicuum sit, partim esse ad usum<br />

hominum, partim ad fructum, partim ad vescendum procreatas. Artes vero<br />

innumerabiles repertae sunt docente natura; quam imitata ratio res ad vitam<br />

necessarias sollerter consecuta est. Ipsum autem hominem eadem natura non<br />

solum celeritate mentis ornavit, sed et sensus tamquam satellites adtribuit ac<br />

nuntios et rerum plurimarum obscuras nec satis ... intelligentias enudavit quasi<br />

fundamenta quaedam scientiae figuramque corporis habilem et aptam ingenio<br />

humano dedit."<br />

Cfr. August. De civ.Dei XIX, 3, 1: dove il rapporto tra la virtù e i beni naturali<br />

viene descritto in modo ancora più esplicito. Essi non si trovano infatti sullo<br />

stesso piano, come si potrebbe desumere da alcune delle formule del testo<br />

ciceroniano, ma la superiorità della virtù rispetto a tutti gli altri beni fa si che essa<br />

ne determini il buon utilizzo: "Quapropter eadem virtus, id est, ars agendae vitae,<br />

cum acceperit prima naturae, quae sine illa erant, sed tamen erant etiam quando<br />

eis doctrina adhuc deerat, omnia propter se ipsa appetit simultque etiam se<br />

ipsam, omnibusque simul et se ipsa utitur, eo fine, ut omnibus delectetur atque<br />

perfruatur, magis minusque, ut quaeque inter se maiora atque minora sunt, tamen<br />

omnibus gaudens et quedam minora, si necessitas postulat, propter maiora vel<br />

adipiscenda vel teneda contemnens. Omnium autem bonorum vel animi vel<br />

corporis nihil sibi virtus omnino praeponit. Haec enim bene utitur et se ipsa et<br />

ceteris, quae hominem faciunt beatum, bonis".<br />

Cfr. Ac.libri I, 22-23: "et corporis et cetera quae supra dicta sunt ad virtutis usum<br />

idonea".<br />

[v. Plato, Meno 87 e]<br />

[prima a natura data – v. Poncelet (1957), p. 111, che ritiene che anche in questo<br />

caso, l'uso dell'ablativo corrisponde alla resa latina della preposizione di<br />

255


B)<br />

conformità kata/. Per cui ci troveremmo di fronte ad una delle occorrenze del<br />

concetto di prw=ta kata£ fu/sin. Tuttavia in questo tipo di contesti Poncelet non<br />

distingue la legittimità con la quale si può affiancare la traduzione ciceroniana del<br />

Timeo al testo greco di Platone dalla congetturalità invece di ogni parellelo greco<br />

per le proposizioni dei trattati filosofici di Cicerone].<br />

– honestas cum aliqua accessione, Polemonis, Calliphontis, Diodori: il<br />

nome di Polemone sostituisce qui quello di Aristotele come rappresentante di una<br />

posizione etica composita, cfr. Fin. I, 19. Dopo aver stabilito la convergenza dei<br />

due filosofi su un punto fondamentale del discorso etico, ovvero sull'attribuzione<br />

di un valore positivo agli oggetti di appetizione naturale, si stabilisce la loro<br />

perfetta identità in questo ambito argomentativo e dunque la perfetta sostituibilità<br />

dell'uno con l'altro all'interno della divisio.<br />

Nel contesto di una discussione critica dell'edonismo epicureo, Cicerone si avvale dello<br />

strumento della Carneadia divisio, il cui scopo è quello di inserire la varietà delle posizioni<br />

etiche all'interno di una griglia comparativa, funzionale alla confutazione dialettica. La<br />

posizione degli antichi academici e peripatetici viene introdotta in relazione al tema del<br />

contenuto della prima appetizione naturale, sulla cui base il discorso etico sembrerebbe esser<br />

tenuto, in virtù di un ampio consenso, ad individuare anche il contenuto del fine ultimo della<br />

vita dell'uomo. La discrepanza di vedute tra l'istanza vetero-academica / peripatetica e<br />

l'instanza epicurea apre le porte all'inventario della molteplicità delle posizioni etiche prese in<br />

considerazione dalla divisio. Da un confronto con il precedente uso del medesimo strumento<br />

nel I libro del De finibus (Fin. I, 19), si nota che lo spazio prima occupato solo da Aristotele<br />

viene in questo contesto sostituito dalla convergenza del pensiero etico di Polemone con<br />

quello di Aristotele sullo statuto e sul contenuto del primo istinto di appetizione naturale nei<br />

confronti della salvaguardia di se stessi e delle proprie parti. In base a tale convergenza il<br />

nome di Polemone compare al posto di quello di Aristotele, accanto a quello di Callifone e<br />

Diodoro, tra i rappresentanti di una posizione composita. Il testo dunque presenta il risultato<br />

di un ripensamento profondo delle dinamiche di convergenza e discrepanza teorica sul tema<br />

256


dell'istinto naturale, che tende ad accomunare due tradizioni distinte su un medesimo fronte.<br />

La riproposizione della posizione degli antichi academici all'interno del dibattito etico del<br />

periodo ellenistico coincide verosimilmente con il contributo filosofico di Antioco<br />

d'Ascalona; si noterà tuttavia che in questo contesto vengono messe in risalto proprio le<br />

dinamiche di costruzione teorica che contribuiscono alla posizione etica attribuita agli antichi<br />

(v. la distinzione temporale "iam ante..."; e il riferimento ad una deduzione inferenziale<br />

"ergo..."), che invece in altri passaggi ugualmente influenzati dall'agenda storiografica di<br />

Antioco rimangono strategicamente più in ombra.<br />

257


T. 43 : CICERO, DE FINIBUS BONORUM ET MALORUM, IV, 3.<br />

'Existimo igitur', inquam, 'Cato, veteres illos Platonis auditores, Speusippum, Aristotelem,<br />

Xenocratem, deinde eorum, Polemonem, Theophrastum, satis et copiose et eleganter<br />

habuisse constitutam disciplinam, ut non esset causa Zenoni, cum Polemonem audisset,<br />

cur et ab eo ipso et a superioribus dissideret; quorum fuit haec institutio, in qua<br />

animadvertas velim quid mutandum putes nec exspectes, dum ad omnia dicam, quae a te<br />

dicta sunt; universa enim illorum ratione cum tota vestra confligendum puto'.<br />

Cfr. Polemo fr. 7 Gigante; Speusippus fr. 27 IP; Xenocrates fr. 235 IP; SVF I, 13.<br />

Traduzione:<br />

'Ritengo dunque, Catone,' dissi, 'che quegli antichi discepoli di Platone, Speusippo,<br />

Aristotele, Senocrate, e dopo di loro Polemone e Teofrasto, avessero sufficientemente<br />

sistemato la dottrina con ricchezza e abilità di argomentazione, di modo che non c'era<br />

motivo per cui Zenone, che era stato discepolo di Polemone, divergesse sia da<br />

quest'ultimo sia dai predecessori. Di costoro questo fu il sistema, a proposito del quale<br />

vorrei che tu facessi attenzione a cosa ritieni che bisognerebbe cambiare, ma non ti<br />

aspettare che parli di ogni argomento di cui hai parlato tu; infatti io ritengo che l'intera<br />

teoria di quelli sia da far scontrare con la totalità della vostra 500 .<br />

Contesto:<br />

Cicerone risponde nel IV libro del De finibus al discorso pronunciato dal personaggio di<br />

Catone (Fin. III) sulla dottrina stoica, volto a mettere in luce le divergenze fondamentali tra la<br />

scuola stoica e la scuola peripatetica. Nel III libro il lettore è dunque già entrato in contatto<br />

con la prospettiva polemica, attraverso la quale le diverse scuole filosofiche del periodo<br />

ellenistico interagiscono nei testi di Cicerone. Il discorso di Catone si presentava come<br />

un'esposizione delle divergenze tra lo stoicismo e la filosofia peripatetica sulla dottrina del<br />

500 Cfr. altre traduzioni moderne: J.Martha: “C'est dans son ensemble que leur système doit, je crois, être mis<br />

aux prises avec la totalité du vôtre”.<br />

258


telos, in risposta alla grande provocazione teorica di Carneade; il filosofo academico infatti<br />

sosteneva, dialetticamente, la sostanziale identità di vedute tra la scuola stoica e la scuola<br />

peripatetica, per cui (presunte) divergenze sarebbero state riducibili a questioni puramente<br />

terminologiche 501 . Al discorso dogmatico e difensivo di Catone, Cicerone oppone nel IV libro<br />

un'esposizione critica delle dottrine stoiche, così come esse vengono discusse da una<br />

prospettiva certamente esterna alla Stoa, ma non meglio precisata: Cicerone parla per se<br />

stesso, in quanto uomo istruito, ovvero, diversamente rispetto a Catone, non si presenta<br />

esplicitamente quale portavoce di una scuola filosofica. Tuttavia nella cornice dialogica del<br />

testo sono presenti almeno due indizi di 'affiliazione' filosofica: il dialogo tra Cicerone e<br />

Catone si apre nella biblioteca di Lucullo (amico di Antioco d'Ascalona) 502 ; inoltre Cicerone<br />

dichiara di essere venuto per le opere aristoteliche che in quella biblioteca sa di poter<br />

trovare 503 . Cicerone intende dunque raccontare al lettore come abbia intrapreso un percorso di<br />

approfondimento delle opere degli antichi filosofi, Aristotele in primis, presumibilmente<br />

stimolato dalle opinioni di Antioco d'Ascalona, che a questi intendeva rifarsi 504 . Il resoconto di<br />

Catone non sembra affatto avere convinto Cicerone, il quale riprende l'idea di una coincidenza<br />

di opinioni tra stoici e peripatetici in un ottica più ampia, modificata presumibilmente in<br />

relazione agli insegnamenti di Antioco, ovvero coinvolgendo nel confronto dottrinale anche i<br />

primi eredi della tradizione platonica, gli antichi academici. Cicerone fornisce allora una<br />

storia della dottrina stoica a partire dal suo fondatore Zenone e attribuisce a quest'ultimo un<br />

debito di mancata riconoscenza nei confronti dei suoi predecessori.<br />

501 v. Fin. III, 41: "Carneades tuus (...) propterea quod pugnare non destitit in omni hac quaestione, quae de<br />

bonis et malis appelletur, non esse rerum Stoicis cum Peripateticis controversiam, sed nominum". Tusc. V,<br />

120: "Quorum controversia solebat tamquam honorarius arbiter iudicare Carneades. Nam cum,<br />

quaecumque bona Peripateticis, eadem Stoicis commoda viderentur, neque tamen Peripatetici plus tribuerent<br />

divitiis, bonae valetudini, ceteris rebus generis eiusdem quam Stoici, cum ea re, non verbis ponderarentur,<br />

causam esse dissidendi negabat"<br />

502 Fin. III, 7: “Nam in Tusculano cum essem vellemque e bibliotheca pueri Luculli quibusdam libris uti, veni in<br />

eius villam, ut eos ipse, ut solebam, depromerem.” La biblioteca del giovane Lucullo (v. Keith Dix (2000),<br />

pp. 441-464) venne presumibilmente allestita già dal padre di questi: Lucius Licinius Lucullus (c. 110-57<br />

a.C.), generale romano, famoso vincitore di Mitridate e amico di Cicerone (v. Ac.pr. II – Luc. 1-4; Fin. III, 9:<br />

"et Lucullus mihi versatur ante oculos, vir cum omnibus excellens, tum mecum et amicitia et omni voluntate<br />

sententiaque coniunctus"), il cui personaggio ha un ruolo centrale nelle prime opere filosofiche redatte da<br />

Cicerone: interlocutore di Ortensio e Catulo in quella che ci sono ragioni per pensare costituisse una sorta di<br />

trilogia di trattati filosofici (Hortensius, Catulus e Lucullus, v. Griffin (1997a) pp. 3-4), una sua villa fa da<br />

sfondo all' Hortensius (fr. 2 Grilli: "Cum in villam Luculli ventum esset, omni apparatu venustatis ornatam");<br />

a lui era inoltre intitolato uno dei due libri che costituivano la prima versione degli Academica. Nei dialoghi<br />

ciceroniani egli è portavoce della posizione filosofica di Antioco d'Ascalona, con il quale aveva di fatto<br />

intrattenuto le più strette relazioni (v. Glucker (1978), pp. 20-27).<br />

503 Fin. III, 10: “commentarios quosdam, inquam, Aristotelios, quos hic sciebam esse, veni ut auferrem, quos<br />

legerem, dum essem otiosus”. Cfr. Fin. V, 12: “De summo autem bono, quia duo genera librorum sunt, unum<br />

populariter scriptum, quod xwterikÒn appellabant, alterum limatius, quod in commentariis reliquerunt,<br />

non semper idem dicere videtur”; sulla fortuna degli scritti di Aristotele nel periodo ellenistico v. Barnes<br />

(1997), in part. p. 45, 46-50.<br />

504 Luck (1953); Glucker (1978); Prost (2001);<br />

259


Commento:<br />

A)<br />

– veteres auditores – discepoli diretti di Platone, cfr. D.L. III, 46; IV, 6; V, 1;<br />

cfr. Ac. libri I, 34 = T. 41 : "Speusippus autem et Xenocrates, qui primi<br />

Platonis...", dove si ritrova la scansione tra discepoli di Platone di prima<br />

generazione e discepoli di seconda generazione, senza però che vengano inclusi<br />

Aristotele e i peripatetici.<br />

– Deinde eorum...: Ai fini della storiografia che si sviluppa attraverso la<br />

menzione degli antichi filosofi non è sufficiente l'autorità di Platone e Aristotele,<br />

ma si ricorre alla seconda generazione di discepoli, nella misura in cui è il legame<br />

'fattuale' tra la seconda e la (potenziale) terza generazione ad attirare l'attenzione,<br />

ovvero la trasmissione della dottrina platonica, in questo contesto in particolare a<br />

Zenone, attraverso le lezioni di Polemone.<br />

– et copiose et eleganter: cfr. Fin. IV, 5: graviter et copiose. Si tratta di<br />

connotazioni stilistico-retoriche (v. Michel (2003 2 ), p. 328, 331, passim;), da<br />

leggersi, tra le altre cose, in relazione a Fin. III, 26, dove l'esposizione dei<br />

capisaldi dell'etica stoica (la formula del telos "congruenter naturae vivere" e la<br />

dottrina per cui l'honestum è il solo bene) è seguita da una riflessione cruciale<br />

sullo stile argomentativo degli stoici : "potest id quidem fuse et copiose et<br />

omnibus electissimisis verbis gravissimisque sententiis rhetorice et augeri et<br />

ornari, sed consectaria me stoicorum brevia et acuta delectant".<br />

Posto che sia lecito separare in Cicerone la formazione retorica da quella<br />

filosofica, è evidente che la filosofia svolge una funzione centrale nella<br />

definizione ciceroniana del buon retore (v. De or. I, 53-54; I, 56-57; I, 60; I, 67-69;<br />

I, 84; III, 122-124 : Michel (1982), p. 109-139; Narducci (1997), pp. 19-76) e<br />

senza dubbio la formazione filosofica di Cicerone contribuisce alla maturazione di<br />

una determinata impostazione retorica (v. Partitiones oratoriae e Topica come<br />

applicazioni alla retorica di una determinata prospettiva filosofica : Gaines (2002),<br />

pp. 445-480). Meno evidente, ma probabilmente altrettanto cruciale, è invece il<br />

260


uolo della retorica nella formazione dei giudizi filosofici di Cicerone. Moretti<br />

(1995) studia approfonditamente le caratterizzazioni dello stile antiretorico tipico<br />

dello stoicismo e mette in luce le dinamiche di inevitabile scontro tra questo e il<br />

gusto ciceroniano per l'arte del discorso. Partendo dal presupposto che la retorica<br />

del discorso filosofico, lontana dal ricoprire una funzione soltanto ornamentale,<br />

implichi invece il rispetto di precise istanze teoriche [v. Moretti (1995), p. 29-30],<br />

Cicerone ricerca sempre il punto di delicato equilibrio tra forma e contenuto e non<br />

può che porsi in aperta critica con la pratica continua del paradosso, del<br />

neologismo, del rifiuto di ogni accorgimento psicagogico o empatico, propria<br />

dello stoicismo. Forgia così un vocabolario critico estremamente icastico che<br />

diventa una sorta di 'repertorio formulare' per designare lo stile stoico: breve,<br />

acutum, obscurum, spinosum [Moretti (1995), p. 33]. Cfr. Plut., De Stoic.Rep. 28;<br />

DL, VII, 18.<br />

D'altro canto l'affiliazione academica di Cicerone si concilia tra le altre cose anche<br />

con l'apertura rispetto all'arte oratoria (De fato 3: "cum hoc genere philosophiae<br />

quod nos sequimur, magnam habet orator societatem"; Tusc. II, 9: "Itaque mihi<br />

semper Peripateticorum Academiaeque consuetudo de omnibus rebus in<br />

contrarias partes disserendi non ob eam causam solum placuit, quod aliter non<br />

posset quid in quaque re veri simile esset inveniri, sed etiam quod esset ea<br />

maxima dicendi exercitatio;"). Cicerone arriva anche ad alludere al fatto che l'arte<br />

oratoria sarebbe stata 'partorita' dalla filosofia academica, v. Paradox. 2: "nos ea<br />

philosophia plus utimur quae peperit dicendi copiam et in qua dicuntur ea quae<br />

non multum discrepent ab opinione populari". Non ci sorprende allora che nel<br />

passo in oggetto la filosofia di derivazione platonica venga innanzitutto<br />

identificata come un paradigma stilistico di grande rispetto.<br />

Copiose: relativo alla ricchezza argomentativa, la cui rilevanza per Cicerone in un<br />

contesto filosofico si desume da Part. Or. 79: "nihil enim est aliud eloquentia nisi<br />

copiose loquens sapientia" e De or. II, 151: "nam orationis quidem copia videmus<br />

ut abundent philosophi, qui,(...) nulla dant praecepta nec idcirco minus,<br />

quaecumque res proposita est, suscipiunt, de qua copiose et abundanter<br />

loquantur". Cfr. anche Tusc. I, 7, in relazione ad Aristotele, nel quale scienza ed<br />

eloquenza si trovano esemplarmente legate; Ac. libri I, 17, dove Platone è detto<br />

"varius et multiplex et copiosus"; Tusc. V, 11: "quem mores cum Carneades<br />

261


acutissime copiosissimeque tenuisset". Da leggersi in opposizione alla brevitas<br />

estrema dello stile stoico [Tusc. III, 13: "qui (Stoici) breviter astringere solent<br />

argumenta"; cfr. ND II, 20; v. Moretti (1995), p. 46-59].<br />

Eleganter: relativo al modo di applicarsi ad una argomentazione fino anche alla<br />

scelta delle espressioni linguistiche. Cfr. Tusc. I, 55; Tusc. IV, 6: "Itaque illius<br />

verae elegantisque philosophiae, quae ducta a Socrate in Peripateticis adhuc<br />

permansit..."; "et constans et elegans" viene definita la posizione filosofica<br />

presentata da Cicerone stesso negli Academici libri (v. De div. II, 1-2), per cui si<br />

deduce il binomio elegantia – coerenza filosofica (verae/constans), proprio della<br />

caratterizzazione della tradizione platonico-academica in Cicerone; L'elegantia<br />

inoltre è la virtù oratoria che Cicerone assegna a Laelius (Brut. 86; 89). Cfr. Luc.,<br />

87; Brut. 252 (in riferimento all'uso che Cesare fa della lingua latina); Att. 15.1a.2.<br />

Da leggersi in opposizione a spinosum, caratterizzante lo stile stoico, v. De orat. I,<br />

83: "sed haec erat spinosa quaedam et exilis oratio longeque ab nostris sensibus<br />

abhorrebat"; Fin. III, 3.<br />

– Constituta disciplinam – cfr. Luc, 15: "constitutam philosophiam";<br />

"perfectissimam disciplinam". Cfr. Ac. libri I, 17: "una et consentiens duobus<br />

vocabulis philosophiae forma instituta est, Academicorum et Peripateticorum, qui<br />

rebus congruentes nominibus differebant";<br />

Constituere: da prendersi nell'accezione di disporre, sistemare, stabilizzare.<br />

Disciplina : impiego molteplice [v. Merguet (1987 3 ), vol. I, pp. 717-720.] –<br />

Lasciato da parte il significato comune del termine, in contesti di rilevanza<br />

filosofica il termine disciplina, oltre ad indicare singole materie di insegnamento<br />

(l'astronomia: Tusc. IV, 7; l'arte divinitaria: Div. II, 74; la retorica e l'arte della<br />

memoria: Fin. V, 2; Fin. IV, 6; il diritto: Leg. I, 17; etc.) 505 , viene impiegato da<br />

Cicerone come corrispettivo dei seguenti termini greci:<br />

a) h( ai(/resij - (v. D.L. I, 19-20) - scuola filosofica, sia nel senso generale di<br />

505 Un significato distinto va assunto per publica disciplina – la costituzione o l'amministrazione delle<br />

istituzioni nazionali – (Tusc. I, 102; 110; Off. I, 76; Rep. II, 58; Rep. III, 4; Rep. IV, 3). v. Glucker (1978), p.<br />

200, dove a partire dai testi di Aulo Gellio, per il quale si congettura un ritorno deliberato all'uso<br />

“ciceroniano” del termine, si stila una lista dei differenti usi e significati di disciplina.<br />

262


modalità di pensiero in rapporto ai fenomeni, sia nel senso specifico di insieme di<br />

persone con una chiara identità dottrinale, sostenitore di un sistema teorico<br />

coerente, che fa capo a un personaggio fondatore riconosciuto 506 (v. Luc. 129:<br />

"Megaricorum fuit nobilis disciplina, cuius, ut scriptum video, princeps<br />

Xenophanes"; Fin. III, 36: "praeter tres disciplinas, quae virtutem a summo bono<br />

excludunt"; Fin. III, 11; Luc. 98: "qui ipsorum disciplinam sequor"; ND. I, 11;<br />

Fin. I, 12; Tusc. II, 4; Fin. V, 9). A coprire questa duplice accezione, il vocabolo<br />

disciplina viene generalmente preferito da Cicerone rispetto al meno frequente,<br />

secta 507 (Leg. I, 38, v. T. 37: "sive etiam Aristonis difficilem atque arduam, sed<br />

iam tamen fractam et coniunctam sectam secuti sunt"; Ac. fr. 20: "Academico<br />

sapienti ab omnibus ceterarum sectarum qui sibi sapientes videntur secundas<br />

partes dari..."; Brut. 31, 120: "Quo magis tuum, Brute, iudicium probo, qui eorum<br />

[id est ex vetere Academia] philosophorum sectam secutus es, quorum in doctrina<br />

atque praeceptis disserendi ratio coniungitur cum suavitate dicendi et copia";<br />

ND. II, 57-58: "Atque hac quidem ratione omnis natura artificiosa est, quod<br />

habeat quasi viam quandam et sectam quam sequatur"; Cael. 40: "neque solum<br />

apud nos, qui hanc sectam rationemque vitae re magis quam verbis secuti sumus,<br />

sed etiam apud Graecos, ...";); Si confronti parimenti l'uso tecnico dei termini<br />

greci sxolh/ e diatribh/ (v. Glucker (1978), pp. 160-205). sxolh/ (come il calco<br />

latino schola) si applica nel periodo ellenistico sia alle lezioni tenute dai filosofi,<br />

sia ad una scuola filosofica nel suo complesso, in particolare nel particolare<br />

contesto della successione alla guida della scuola stessa; assume dunque nell'uso<br />

un riferimento a un quadro istituzionale, nonostante all'origine il termine non<br />

designi altro che il tempo libero o il tempo libero a disposizione per gli studi<br />

(senso mantenuto da otium in latino), da cui invece il termine disciplina tende<br />

invece a smarcarsi. Ancora più tecnicamente connotato è il termine diatribh/, che<br />

oltre a mantenere il significato originale di 'conversazione (filosofica)', in epoca<br />

506 Diogene Laerzio (I, 20; cfr. VI, 103) e Sesto Empirico (Pyrr. hyp. I, 16-17) fanno entrambi riferimento ad<br />

una doppia accezione possibile di ai(/resij : la prima ampia (o debole), capace di comprendere anche gli<br />

scettici pirroniani, la seconda stretta (o forte), legata ad un sistema coerente di dottrine. Ci sono ragioni per<br />

pensare che Cicerone, posto che fosse consapevole del doppio impiego possibile del termine, tendesse<br />

piuttosto verso la sua seconda accezione, dal momento che non impiega mai disciplina per indicare la scuola<br />

Academica d'impronta scettica di cui è invece profondo conoscitore. Un'eccezione rispetto a quanto appena<br />

detto è l'uso di disciplina in ND I, 11 : "qui autem admirantur nos hanc potissimum disciplinam secutos, iis<br />

quattuor Acedemicis libris satis responsum videtur", dove è senza dubbio da escludere il riferimento ad una<br />

dottrina dogmatica.<br />

507 Glucker (1978), p. 193, elucida l'uso del termine secta presso i grammatici latini e nei glossari medievali;<br />

menziona l'uso ciceroniano del termine in contesti politici e nota la corrispondenza tra l'espressione latina<br />

sectam sequi, frequente in Cicerone, e la formula ai(/resin a)pode/xesqai, abbondantemente attestata nelle fonti<br />

greche considerate.<br />

263


ellenistica arriva velocemente a designare una lezione impartita da un filosofo, la<br />

scuola filosofica in senso tecnico (e.g. il testamento di Stratone in D.L. V, 62 :<br />

καταλείπω δὲ τὴν μὲν διατριβὴν Λύκωνι) o anche il luogo dove le lezioni si<br />

tengono. A conferma della componente istituzionale veicolata dall'uso di questi<br />

due termini si può menzionare il fatto che la filosofia di Pirrone, anche nella sua<br />

trasmissione a Timone di Fliunte, non avendo mai assunto un carattere<br />

propriamente istituzionale, non viene mai designata nelle fonti né/ come sxolh/,<br />

né come diatribh/. Come si impegna a dimostrare Glucker (1978), p.166-173, il<br />

termine greco ai( /resij invece non implica un riferimento alla struttura<br />

istituzionale di una scuola filosofica, ma a qualcosa di più astratto: l'attitudine o la<br />

disposizione teorica. L'uso del termine tende poi ad evolversi nei contesti di tipo<br />

filosofico verso la designazione di un gruppo compatto di persone distinguibile in<br />

base alla condivisione di una medesima affiliazione filosofica: v. Ippoboto, Περὶ<br />

αἱρέσεων (D.L. I, 19); Diodorus Siculus, BH II, 29, 4-6, sul proliferare degli<br />

indirizzi di pensiero delle scuole filosofiche presso i greci ("e)rgolabi/aj e(/neken"<br />

- "oi( d' /Ellhnej (<br />

tou= kata£ th£n e)rgolabi/an ke/rdouj stoxazo/menoi koina£j<br />

ai(re/seij kti/zousi", a scopo lucrativo), posto a confronto con la modalità<br />

paternalistica di apprendimento delle scienze presso i caldei; Plut., Quaest.conv.<br />

673 c; etc.<br />

b) ta£ do/gmata (cfr. D.L. II, 97; D.L. III, 47; D.L. VII, 38; D.L. X, 16) - a<br />

indicare un sistema filosofico determinato (v. Luc. 129: "post Epicurus, cuius est<br />

disciplina nunc notior"; Fin. I, 28; Fin. I, 37; Off. I, 5-6; Ac. libri I, 35 = T. 41:<br />

"Zeno ...corrigere conatus est disciplinam"; Fin. IV, 21: "nova...disciplina!"; Ac.<br />

libri I, 43: "verum esse autem arbitror, ut Antiocho nostro familiari placebat,<br />

correctionem veteris Academiae potius quam novam aliquam disciplinam<br />

putandam"; ND I, 6: "desertae disciplinae et iam pridem relictae patrocinium<br />

necopinatum a nobis esse susceptum"; Ac. libri I, 33: "auctoritatem veteris<br />

disciplinae"; Luc., 117; 131 = T. 39; ND I, 11; Luc., 7; Tusc. V, 83) – cfr. l'uso dei<br />

termini ratio (Tusc. I, 8; Tusc. I, 53; Off. III, 52; Fin. I, 13; Fin. III, 15; Div. II,<br />

100; etc.) e sententia (Fin. III, 41; ND II, 2; Luc., 70; Tusc. I, 49; etc.).<br />

c) me/roj filosofi/aj (D.L,. I, 18) - una parte di un sistema filosofico (v. Fin. IV,<br />

6; l'etica: Off. II, 6: disciplina virtutis; Fin. I, 17: beatae vitae disciplinam; Tusc.<br />

264


IV, 5: bene vivendi disciplinam; la logica: Ac. libri , 33: dialecticae disciplina).<br />

La traduzione più comune del termine disciplina, e anche quella che cattura il<br />

fattore comune ai vari significati che il termine veicola, è quella resa dal vocabolo<br />

'teoria', inteso sia come insieme semplice di elementi teorici, opposti a quelli<br />

pratici (v. Leg. II, 48), sia come teoria filosofica completa, quasi 'sistematica' (v.<br />

Ac. libri I, 17-18: "ita facta est, quod minime Socrates probat ars quaedam<br />

philosophiae et rerum ordo et descriptio disciplinae"). Nel frammento in oggetto è<br />

questo secondo significato del termine che si deve prendere in considerazione,<br />

tenendo presente il fatto che sono solo le scuole filosofiche che difendono una<br />

teoria dogmatica 508 , trasmissibile da maestro a discepolo (v. ND I, 26: "qui<br />

(Anaxagoras) accepit ab Anaximene disciplinam"), quelle a cui Cicerone presta<br />

una disciplina. Il termine contribuisce a veicolare dunque una prospettiva di tipo<br />

storiografico, per cui un sistema di dottrine consolidato si tramanda invariato di<br />

discepolo in discepolo.<br />

cfr. Luc., 15: "Plato (...) quia relinquit perfectissimam disciplinam, Peripateticos<br />

et Academicos, nominibus differentes, re congruentes, a quibus Stoici ipsi verbis<br />

magis quam sententiis dissenserunt", dove si vede chiaramente una doppia<br />

applicazione del principio 'storiografico-dialettico' di accordo sul fondo delle<br />

cose: nella prima applicazione si privilegia l'idea di una medesima affiliazione<br />

filosofica, al di là dell'esistenza di due nomi distinti, per tutti gli antichi discepoli<br />

di Platone. La divergenza meramente "nominibus" che Carneade ravvisava tra<br />

Peripatetici e Stoici, viene qui trasformata in differenza meramente "nominibus",<br />

dove i nomina non sono nemmeno più i concetti impiegati, ma i nomi che<br />

designano le scuole filosofiche. Antioco tuttavia non sembra essersi prodigato nel<br />

dare una spiegazione di ciò che gli permetteva di affermare una sostanziale<br />

identità tra Academia e Peripato. Sulla base probabilmente di una tradizione<br />

enfatizzante il rapporto maestro–discepolo (effettivamente durato all'incirca un<br />

decennio) tra Platone e Aristotele, si limita l'autonomia intellettuale del<br />

peripatetico e della sua scuola, affermando perentoriamente l'unitarietà della<br />

tradizione; nella seconda applicazione del medesimo principio, subito adiacente,<br />

invece, si privilegia l'idea di un accordo dottrinale, al di là delle differenze<br />

lessicali, tra stoici e "platonici". Si tratta di una ripresa della dinamica teorica<br />

propria della tattica argomentativa carneadea, applicata però a differenti<br />

508 Oltre a Platone, l'antica Academia, il Peripato, la Stoa ed Epicuro, si noti la presenza tra i difensori di una<br />

disciplina anche di Pitagora e dei pitagorici, v. Fin. V, 87; Tim. 1; Tusc. I, 38.<br />

265


interlocutori e rafforzata dalla 'fattualità' della relazione maestro-discepolo. Se per<br />

Carneade si trattava di saggiare la compatibilità dottrinale di due posizioni<br />

filosofiche sul piano teorico e dialettico, al fine eventualmente di dimostrare che<br />

presunti avversari si trovano in sostanziale accordo, nella storiografia antiochea<br />

viene preliminarmente posto un principio di unitarietà dogmatica della tradizione<br />

che comprende Platone e tutti i suoi discepoli, al fine di mostrare eventualmente<br />

che ogni posizione coerente si può ricondurre a tale unitarietà, sia fattualmente<br />

che teoricamente.<br />

Importante in questo contesto è la dinamica di richiamo all'autorità, v. Sedley<br />

(1989) p. 99-100, dove, a proposito dell'autorità del fondatore all'interno<br />

dell'Academia, si nota che vi sono buone ragioni per pensare che tutti, o quasi<br />

tutti, gli Academici presentassero se stessi come fedeli al pensiero di Platone 509 ,<br />

complice il fatto che gli scritti platonici lasciavano spazio ad un ampio spettro di<br />

interpretazioni diverse. L'inclusione di Aristotele nella linea di continuità della<br />

tradizione platonica definirebbe però l'originalità dell'operazione filosofica di<br />

Antioco d'Ascalona (v. Sedley (1989) p. 117-118), come anche il suo specifico<br />

contributo allo sviluppo della filosofia posteriore.<br />

Cfr. Ac. libri I, 17: "Sed utrique Platonis ubertate completi certam quandam<br />

disciplinae formulam composuerunt et eam quidem plenam ac refertam, illam<br />

autem Socraticam dubitanter de omnibus rebus et ulla adfirmatione adhibita<br />

consuetudinem disserendi reliquerunt ". v. Lévy (1992a), p. 146.<br />

Cfr. Tusc, II, 11: "Quotus enim quisque philosophorum invenitur qui sit ita<br />

moratus, ita animo ac vita constitutus, ut ratio postulat? Qui disciplinam suam<br />

non ostentationem scientiae, sed legem vitae putet?"<br />

Cfr. Luc. 102: "...(sunt enim mihi nota [i.e. verba Clitomachi] propterea quod<br />

earum ipsarum rerum de quibus agimus prima institutio et quasi disciplina illo<br />

libro continetur)..." - dove la sfumatura dogmatica contenuta dal vocabolo deve<br />

essere attenuata dall'avverbio quasi, perché possa adattarsi al contesto di<br />

509 Alcuni dubbi possono essere avanzati a proposito della primissima generazione dei discepoli Platone, quella<br />

di Speusippo e Senocrate. Nonostante la critica abbia in passato considerato le loro riflessioni filosofiche<br />

come una sorta di boh/qeia del pensiero del maestro, le testimonianze non ci permetterebbero in fin dei conti<br />

di decidere la questione se Speusippo e Senocrate si richiamassero o meno all'autorità di Platone nel<br />

difendere le loro posizioni.<br />

266


iferimento, ovvero l'esposizione completa degli argomenti scettico-academici nei<br />

testi di Clitomaco.<br />

– cum Polemonem audisset – cfr. Ac. libri I, 35 = T. 41 [Polemo fr. 89<br />

Gigante] : "iam Polemonem audiverant adsidue Zeno et Arcesilas". L'espressione<br />

indica un rapporto discepolo – maestro (cfr. De orat. I, 45; Div. I, 46). Cfr. D.L.<br />

VII, 1; VII, 4. La centralità della dinamica dell'ascolto, piuttosto che quella<br />

dell'apprendimento e ripetizione di nozioni (maqhth/j), nella caratterizzazione del<br />

rapporto discepolo-maestro, mantenuta del resto nella letteratura cosiddetta<br />

dossografica, sembrerebbe alludere al margine di autonomia e alla scarsa<br />

gerarchizzazione dei rapporti intrattenuti all'interno di alcune scuole filosofiche<br />

del mondo greco. La cronologia della formazione di Zenone è notoriamente molto<br />

problematica. Tuttavia l'attestazione di una fase 'academica' della formazione di<br />

Zenone appare ben consolidata: oltre ad essere legata alla storiografia antiochea,<br />

sembrerebbe risalire fino un certo Timocrate; le due tradizioni sembrerebbero<br />

indipendenti nella misura in cui la seconda sembra dare maggiore importanza al<br />

ruolo di Senocrate, piuttosto che a quello di Polemone nella formazione di<br />

Zenone 510 . Sembrerebbe dunque verosimile che Zenone ascoltasse le lezioni di<br />

Polemone "in una fase di crescente maturità intellettuale" (Alesse (2000), p. 79,<br />

cfr. T. 31), eventualmente anche quando aveva già cominciato a riunire intorno a<br />

sè dei discepoli (Alesse (2000), pp. 103-104). Si stabilisce qui un legame fattuale<br />

e storico tra la scuola academica e la scuola stoica, che di per sé giustifica<br />

l'aggiunta degli academici al quadro di convergenza dottrinale che in Carneade,<br />

per forza di cose, comprendeva solo i peripatetici.<br />

– ab eo ipso et a superioribus dissideret – cfr. Ac. libri I, 42: "in his fere<br />

commutatio constiti omnis dissensioque Zenonis a superioribus"; Fin. IV, 58:<br />

"num igitur dubium est, quin, si in re ipsa nihil peccatur a superioribus, verbis illi<br />

commodius utantur?" La 'deviazione' espressa dal verbo dissidere, come anche<br />

l'idea veicolata dai sostantivi dissensio, discordia, discrepantia, costituisce una<br />

categoria storiografica fondamentale nei testi ciceroniani, ovvero nella letteratura<br />

su cui questi testi si appoggiano – dissidere: "porsi" o "sedere a parte",<br />

"separarsi", "divergere"; il verbo viene impiegato da Cicerone in quei contesti<br />

dove si tratta di determinare la natura di una divergenza filosofica secondo<br />

510 Cfr. anche Numenius ap. Eusebius, Praep. Evang. XIV 5, 11 = SVF I, 11.<br />

267


l'alternativa verbis – re: divergenza verbale vs divergenza sul fondo delle cose.<br />

Cfr. Fin. IV, 2: "non verbis Stoicos a Peripateticis, sed universa re et tota<br />

sententia dissidere"; Tusc. V, 120: (Carneade a proposito della disputa tra stoici e<br />

peripatetici) "cum ea re, non verbis ponderarentur, causam esse dissidendi<br />

negabat"; Fin. IV, 72: "videsne...Zenonem tuum cum Aristone verbis concinere, re<br />

dissidere, cum Aristotele et illi re consentire, verbis discrepare?"; ND I, 16:<br />

"Antiocho enim Stoici cum Peripateticis re concinere videntur, verbis discrepare";<br />

Fin. III, 41: "has sententias eorum philosophorum re inter se magis quam verbis<br />

dissidere"; De fato 44: "ex quo facile intellectu est...verbis eos, non re dissidere";<br />

Leg. I, 54: "probe...sentires, si re ac non verbis dissiderent"; Leg. I, 55: "ex hac<br />

autem non rerum, sed verborum discordia controversia est nata de finibus"; Luc.<br />

132: "de qua (definitione summi boni) qui dissident, de omni vitae ratione<br />

dissident." – La riduzione di opposizioni dottrinali a divergenze puramente verbali<br />

fa parte dell'arsenale argomentativo academico (v. supra nota 1), da cui Antioco e<br />

Cicerone possono attingere direttamente per fini che non sono probabilmente più<br />

soltanto dialettici. Stabilire l'accordo 'sul fondo delle cose', infatti, costituisce il<br />

punto di partenza per una nuova geografia storiografica, che ripensa l'identità<br />

indipendente di una scuola filosofica, come ad esempio quella stoica, come una<br />

(inutile) deviazione da una tradizione precedente, auterovole e ben stabilita. Cfr.<br />

Tusc. I, 55: "Licet concurrant omnes plebeii philosophi (sic enim ii, qui a Platone<br />

et Socrate et ab ea familia dissident, appellandi videntur), non modo nihil<br />

umquam tam eleganter explicabunt..." - attraverso il concetto di deviazione si<br />

pone ipso facto un principio di unitarietà della tradizione, rispetto alla quale si<br />

manifestano le varie più o meno legittime diramazioni. Il contrario della<br />

dissidentia è infatti l'affiliazione a una tradizione condivisa, come si vede da Off.<br />

I, 2: "nostra legens non multum a Peripateticis dissidentia quoniam utrique (sc.<br />

Academici e Peripatetici) socratici et platonici volumus esse".<br />

Parimenti rilevante è il caso della dissidentia interna ad una singola scuola<br />

filosofica, v. Ac. libri. I, 34 : il caso di Stratone all'interno della scuola<br />

peripatetica; Fin. IV, 72: il caso di Aristone nella scuola stoica; non esente da<br />

connotazioni negative viene identificata come un fattore di debolezza dottrinale,<br />

(v. Luc. 143: "aut cur cogimur eos sequi qui inter se dissident?") impiegato da<br />

Cicerone per sminuire le pretese veritative delle istanze dogmatiche (cfr. Runia<br />

(1989), p. 31).<br />

268


Il verbo dissidere permette inoltre un ulteriore impiego, andando a ricoprire,<br />

nonostante le etimologie distinte, una parte del campo semantico della dissensio,<br />

sia a) semplice, ovvero tra due persone (v. Fin. IV, 60: "nulla mihi tecum, Cato,<br />

potest esse dissensio"; Luc. 134: "Ecce multo maior etiam dissensio. Zeno in una<br />

virtute positam beatam vitam putat. Quid Antiochus?") o tra due scuole filosofiche<br />

(v. Fin. V, 76: "haec cum illis (Stoicis) est dissensio, cum Peripateticis nulla<br />

sane"; ND I, 16: "haec...est non verborum parva, sed rerum permagna<br />

dissensio"), che b) complessa, ovvero intesa come diafwni/a (v. Luc., 117:<br />

"est...inter magnos homines summa dissensio"; Fin. V, 16: "quod quoniam in quo<br />

sit magna dissensio sit"; Luc., 129: "qua de re est igitur inter summos viros maior<br />

dissensio?").<br />

Dissidere come diafwni/a/dissensio – La diafwni/a pone il problema della<br />

molteplicità di opinioni in ambito dogmatico, ovvero il problema del contendersi<br />

da più punti di vista l'accesso ad una verità che invece si considera unica. Il<br />

ricorso alla diafwni/a fa dunque parte dell'arsenale argomentativo di origine<br />

scettica, caricato poi del doppio ruolo di categoria storiografica e premessa<br />

dialettica. La diafwni/a funziona come premessa argomentativa nella misura in<br />

cui – come mostrano i testi filosofici ciceroniani – se la verità può essere una sola,<br />

la molteplicità di opinioni in ambito dogmatico è sintomo del fatto che l'indagine<br />

dialettica non è stata ancora spinta fin dove può arrivare. Per questo motivo nei<br />

testi ciceroniani le differenti opinioni si ritrovano organizzate in schemi dialettici<br />

o divisiones 511 , funzionali alla valutazione della coerenza di ogni posizione, v. ND<br />

I, 5 ss.: "quorum opiniones cum tam variae sint tamque inter se dissidentes,<br />

alterum fieri profecto potest ut earum nulla, alterum certe non potest ut plus una<br />

vera sit"; Luc., 117-118; 129-140. La divergenza di opinioni fornisce in molti casi<br />

la struttura della trattazione ciceroniana, la quale si presenta talvolta come un<br />

complesso gioco delle parti, giustificato dalla necessità di portare avanti la<br />

discussione filosofica fino alla rottura di ogni rigida differenziazione dogmatica.<br />

Il passaggio in oggetto viene citato dalla critica come attestazione di una polemica<br />

che avrebbe storicamente opposto Polemone e Zenone, confermata eventualmente<br />

dal fatto che entrambi i filosofi hanno scritto un'opera dal titolo Peri£ kata£ fu/sin<br />

bi/on 512 , v. Ioppolo (1980) p. 146 e n. 8. Quale sarebbe stato l'oggetto preciso della<br />

511 Ac.pr. II – Luc. v. Lévy (1992a), ch. I: “Dissensus et Doxographie”, pp. 335-376.<br />

512 v. T. 58 = Clem.Alex. Str. VII, 6, 32.<br />

269


polemica rimane tuttavia controverso. L'impostazione provocatoria del testo<br />

ciceroniano nega infatti che sia facile rintracciare motivi validi perché tra Zenone<br />

e i suoi predecessori dovesse sussistere divergenza di opinione. La presentazione<br />

del pensiero degli antichi (Fin. IV, 5-19), in questo particolare contesto, è fatta in<br />

modo tale da sottolineare gli aspetti di continuità, conformità ed eventualemente<br />

maggior completezza rispetto all'istanza stoica. Quando invece il testo sembra<br />

prendere seriamente in considerazione il punto di vista stoico, la necessità di<br />

costituirsi istanza filosofica a parte finisce per essere ridicolizzata e ridotta alla<br />

questione dell'appellativo 'bene' applicato esclusivamente alla virtù e contestato<br />

per qualsiasi oggetto esuli dalla virtù (Fin. IV, 20) e alla questione della perfetta<br />

uguaglianza delle colpe e dei vizi (21), le quali vengono velocemente<br />

marginalizzate come questioni di pura (e ingiustificata) alterazione terminologica,<br />

del resto irricevibili nel contesto concreto della vita sociale dell'uomo in virtù<br />

della forma paradossale in cui vengono a prima vista espresse nella dottrina stoica<br />

(22).<br />

Si può immaginare allora che lo statuto dei beni del corpo ed esterni sia stato<br />

realmente al centro di una polemica tra Zenone e i suoi predecessori e che<br />

Polemone argomentasse a favore di una posizione sostazialmente simile a quella<br />

peripatetica, secondo il quale il discorso filosofico non può far a meno di<br />

riconoscere lo statuto benefico di una certo numero di oggetti indipendentemente<br />

dalla virtù 513 . Tuttavia questo tipo di ricostruzione tende a sovrapporre piani<br />

polemici originariamente distinti e che si trovano invece sovrapposti nel testo<br />

ciceroniano per esigenze espositive e accumulo di interessi ermeneutico-filosofici,<br />

molti dei quali facenti capo ad Antioco d'Ascalona e riletti autonomamente da<br />

Cicerone. La disputa sullo statuto dei beni esterni e del corpo sembrerebbe di fatto<br />

aver molto più senso tra l'istanza peripatetica e quella stoica. L'evoluzione<br />

dell'etica peripatetica nel periodo ellenistico suggerisce l'esistenza di un acceso<br />

dibattito con l'istanza stoica che ha portato al progressivo irrigidimento<br />

antagonista delle due posizioni. Mentre per quando le fonti lasciano ricostruire la<br />

posizione assunta da Polemone, come anche dai suoi predecessori, cerca una<br />

modalità di compromesso tra lo statuto esclusivo e privilegiato della virtù e<br />

l'apporto di quelli che vengono chiamati beni del corpo ed esterni (v. T. 58 =<br />

Clem.Alex. Str. II, 22, 133: "δογματίζει γοῦν χωρὶς μὲν ἀρετῆς μηδέποτε ἂν<br />

513 v. la concezione gerarchica dei beni esplicitata da Crantore in Sext.Emp., Adv.math. XI, 51-59 ; cfr. n. 370,<br />

p. 155.<br />

270


B)<br />

εὐδαιμονίαν ὑπάρχειν, δίχα δὲ καὶ τῶν σωματικῶν καὶ τῶν ἐκτὸς τὴν<br />

ἀρετὴν αὐτάρκη πρὸς εὐδαιμονίαν εἶναι").<br />

– universa...ratione...: annuncia un confronto dottrinale che non prende di<br />

mira i dettagli delle dottrine ma le loro premesse teoriche generali (v.<br />

Introduzione, p. lxxi ss. Cfr. Fin. III, 14: [Cato loquitur] "explicabo potius, (...),<br />

totam Zenonis Stoicorumque sententiam", con la quale si introduce un'esposizione<br />

dottrinale non confinabile nello spazio ristretto dell'opera di un particolare<br />

esponente dello stoicismo, ma che intende piuttosto riflettere l'impostazione<br />

generale della scuola, così come essa si manifesta in un contesto polemico.<br />

Nel passaggio in esame, non si tratta più, come con Carneade, di tracciare una semplice<br />

convergenza dottrinale, ma di fornire una storia della filiazione dottrinale dello stoicismo<br />

dalla filosofia degli 'antichi'. La prospettiva storiografica è quella che procede per relazioni<br />

maestro – discepolo, come anche la letteratura delle diadochai, ma l'intento è quello di fornire<br />

una base forte ad un'operarazione d'interpretazione filosofica. Negando programmaticamente<br />

la necessità di una deviazione da parte di Zenone dagli insegnamenti dei predecessori e<br />

maestri, Cicerone apre la via all'esposizione dell'opinione di Antioco di Ascalona, secondo il<br />

quale, di fatto, Stoici e 'antichi' sono in perfetto accordo dottrinale. Altrove ad Antioco è<br />

attribuita una concezione più simpatetica della storia della filiazione dello stoicismo rispetto<br />

alla tradizione socratico-platonica (v. correctio [veteris disciplinae]: Ac. libri I, 35 = T. 41;<br />

Fin. IV, 21 (con una punta di sarcasmo): "Haec videlicet est correctio philosophiae veteris et<br />

emendatio"; Luc. 7: "[Zeno] nihil novi reperienti sed emendanti superiores inmutatione<br />

verborum"). In altri contesti invece i toni impiegati da Cicerone per descrivere la riflessione<br />

filosofica di Zenone possono arrivare all'invettiva (v. Tusc. V, 34: "Et si Zeno Citieus, advena<br />

quidam et ignobilis verborum opiifex, insinuasse se in antiquam philosophiam videtur, huius<br />

sententiae gravitas a Platonis auctoritate repetatur..."). Il frammento in oggetto mostra in<br />

conclusione come attraverso la relazione maestro–discepolo posta tra Polemone e Zenone si<br />

discuta di una questione fondamentale, che oltrepassa i confini della storiografia in direzione<br />

di un'interpretazione complessiva della dottrina stoica e academica.<br />

271


T. 44 : CICERO, DE FINIBUS BONORUM ET MALORUM, IV, 14-15 514 .<br />

Cum enim superiores, e quibus planissime Polemo, secundum naturam vivere summum<br />

bonum esse dixisset, his verbis tria significari Stoici dicunt, unum eius modi, vivere<br />

adhibentem scientiam earum rerum quae natura evenirent. Hunc ipsum Zenonis aiunt esse<br />

finem, declarantem illud quod a te dictum est, convenienter naturae vivere. Alterum<br />

significari idem ut si diceretur officia media omnia aut pleraque servantem vivere. Hoc sic<br />

expositum dissimile est superiori; illud enim rectum est (quod dicebas)<br />

contingitque sapienti soli, hoc autem inchoati cuiusdam offici est, non perfecti, quod<br />

cadere in nonnullos insipientes potest. Tertium autem omnibus aut maximis rebus iis quae<br />

secundum naturam sint fruentem vivere. Hoc non est positum in nostra actione; completur<br />

enim et ex eo genere vitae quod virtute fruitur et ex iis rebus quae sunt secundum naturam<br />

neque sunt in nostra potestate. Sed hoc summum bonum quod tertia significatione<br />

intellegitur, eaque vita quae ex summo bono degitur, quia coniuncta ei virtus est, in<br />

sapientem solum cadit, isque finis bonorum, ut ab ipsis Stoicis scriptum videmus, a<br />

Xenocrate atque ab Aristotele constitutus est.<br />

Polemo fr. 129 Gigante; Xenocrates fr. 234 IP ; SVF I, 179 ; III, 13.<br />

2 dixissent Ald. || 5 pleraque P : plenaque AR : plena BE 7 omnibus maximis BE.<br />

Traduzione:<br />

Avendo (di fatto) i loro predecessori, tra i quali Polemone nel modo più chiaro, detto che<br />

il sommo bene è vivere secondo la natura, gli stoici dicono che questa proposizione è<br />

significante in tre modi, uno dei quali è: a) “vivere facendo appello alla conoscenza di<br />

quelle cose che avvengono per natura”. Questo dicono che fosse il fine di Zenone,<br />

quando diceva quello che hai detto tu: “vivere in accordo con la natura”. Un altro modo<br />

in cui è significante equivale a dire b) “vivere osservando tutti i doveri medi o la maggior<br />

parte”. Questo, così esposto, è diverso dal precedente. Quello infatti è l’azione retta – con<br />

cui traducevi – e che è di pertinenza solo del saggio, questo invece è il modo<br />

514 v. stemma codicum in L.D. Reynolds (ed.), viii, cfr. C. Moreschini (ed.) p. xiv, conspectus codicum, xvi.<br />

272


di un certo dovere, abbozzato, non perfettamente compiuto, che può capitare a un<br />

qualsiasi non-saggio (stolto). Mentre il terzo modo è c) vivere fruendo di tutte o delle più<br />

grandi cose che sono in accordo con la natura. Questo non dipende dal nostro agire: si<br />

completa infatti sia attraverso quel genere di vita che fruisce della virtù, sia attraverso<br />

quelle cose che sono in accordo con la natura e non sono in nostro potere. Tuttavia<br />

questo sommo bene, espresso nella terza accezione, e quel genere di vita che sul sommo<br />

bene si basa, poiché vi si trova congiunta la virtù, è di pertinenza solo del saggio, e in ciò<br />

è stato stabilito il fine di tutti i beni da Senocrate e anche da Aristotele, come hanno<br />

scritto, lo si vede, gli stessi stoici.<br />

Contesto:<br />

Cicerone si propone di esaminare la questione se vi sia qualcosa di veramente originale nelle<br />

innovazioni di Zenone per quanto riguardo la dottrina del fine ultimo (Fin. IV, 14: "quidquid a<br />

Zenone novi sit allatum"). L'indagine viene condotta attraverso una prospettiva fortemente<br />

influenzata dalla posizione di Antioco d'Ascalona (v. T. 43), come si evince da un certo<br />

numero di osservazioni precedenti il testo in esame (Fin. IV, 5: "a veteribus Peripateticis<br />

Academicisque, qui re consentientes vocabulis differebant") 515 , ma allo stesso tempo sembra<br />

strutturarsi secondo gli interessi specifici di Cicerone. Si percepisce infatti la marcata<br />

sensibilità del grande retore dietro la prima critica che il personaggio di Cicerone rivolge allo<br />

stoicismo, ovvero quella di non aver saputo far tesoro delle grandi acquisizioni retoriche e<br />

stilistiche di cui gli 'antichi filosofi' hanno dato prova (Fin. IV, 6-7; 10), cfr. T. 43 "copiose et<br />

eleganter". La questione delle divergenze puramente lessicali tra peripatetici e stoici risulta<br />

così approfondita e trasformata in una valutazione stilistico-retorica, che volge a pieno<br />

svantaggio degli stoici, ai quali si rimprovera di aver mal praticato l'arte dell'eloquenza 516 .<br />

515 Si ritrova qui la strategia argomentativa di Carneade modificata e cambiata di segno. La convergenza<br />

dottrinale non è tra stoici e peripatetici, ma tra academici e peripatetici, e serve non a ridicolizzare la serietà<br />

dei dibattiti filosofici tra posizioni dogmatiche, quanto piuttosto a costituire un fronte dottrinale dogmatico<br />

compatto a cui ricondurre poi anche lo stoicismo. Che questo sia il marchio distintivo della prospettiva<br />

filosofica di Antioco d'Ascalona lo si evince dal resoconto di Varrone negli Academica : Ac.post. I – Ac.<br />

libri, 17: “Platonis autem auctoritate, qui varius et multiplex et copiosus fuit, una et consentiens duobus<br />

vocabulis philosophiae forma instituta est, Academicorum et Peripateticorum, qui rebus congruentes<br />

nominibus differebant”; Ac.post. I – Ac. libri, 18: “Quae quidem erat primo duobus, ut dixi, nominibus una,<br />

nihil enim inter peripateticos et illam veterem academiam differebat”.<br />

516 v. “sed vos squalidius...” (Fin. IV, 5); “non spinas vellentium, ut Stoici, nec ossa nudantium...” (Fin. IV, 6);<br />

“Quamquam scripsit artem rhetoricam Cleanthes, Chrysippus etiam, sed sic, ut, si quis obmutescere<br />

concupierit, nihil aliud legere debeat” (Fin. IV, 7); “Pungunt quasi aculeis interrogatiunculis angustis...”<br />

(Fin. IV, 7). Anche nell'ambito del brevissimo confronto tra la fisica stoica e la fisica degli 'antichi' il giudizio<br />

conclusivo di Cicerone è di tipo stilistico-retorico: “Materiam vero rerum et copiam apud hos exilem, apud<br />

illos uberrimam reperiemus” (Fin. IV, 12), tuttavia non per questo meno ponderato filosoficamente. Cfr. Fin.<br />

IV, 79, dove l'apprezzamento della posizione filosofica di Panezio è veicolato da un apprezzamento<br />

273


Quando l'esposizione giunge al tema di dibattito principale, ovvero la questione de summo<br />

bono, Cicerone allora è già riusciuto a portare il lettore in una prospettiva ermeneutica<br />

secondo la quale la dottrina stoica deve essere esaminata nel suo rapporto di filiazione rispetto<br />

alla dottrina degli 'antichi filosofi'. Trattasi però non di filiazione intesa in modo neutro, ma di<br />

filiazione 'disobeddiente', come quella di un figlio ingiustificatamente ribelle (v. "a parentibus<br />

dissentiret", Fin. IV, 14). La dissensio (cfr. Ac. libri I, 42; Tusc. V, 11) in questo caso si<br />

manifesta per Cicerone nella forma di una imperdonabile negligenza nell'espressione<br />

linguistica e come ricerca di una originalità non necessaria. Dietro il (presunto) novum<br />

dottrinale degli stoici, Cicerone intende mostrare un novum puramente terminologico, che si<br />

concretizza nel massiccio e criticabile ricorso ai neologismi (Fin. III, 5: "quamquam ex<br />

omnibus philosophis Stoici plurima novaverunt Zenoque, eorum princeps, non tam rerum<br />

inventor fuit quam verborum novorum"; Fin. IV, 7: "nova verba fingunt, deserunt usitata") 517 .<br />

Commento:<br />

A)<br />

- Superiores : il gruppo di filosofi menzionato in Fin. IV, 3 (T. 43).<br />

- "secundum naturam vivere summum bonum esse" – formula del fine (v.<br />

Arnim (1931), pp. 1-16).<br />

Summum bonum = teliko£n a)gaqo/n.<br />

Secundum naturam vivere = to£ kata£ fu/sin zh=n to£ zh=n kata£ fu/sin.<br />

La formula si trova attestata in greco nell'ambito dell'esposizione della dottrina etica<br />

stoica. Essa contiene un riferimento ampio ad una dimensione naturale, passibile di<br />

molteplici interpretazioni. Tale ampiezza di riferimento si vede sfruttata nelle fonti in<br />

opposizione allo stoicismo per mettere in luce un fondo problematico di dottrina: in<br />

Plutarco (Comm. Not. 1060 e7: "οἱ δ' οὐχ οὕτως λέγουσιν, ἀλλὰ τὸ ζῆν κατὰ<br />

primariamente stilistico (asperitatem fugiens...nec acerbitatem sententiarum ne disserendi spinas...in altero<br />

genere mitior, il altero illustrior...).<br />

517 v. le osservazioni di Lévy (1992b), sulla posizione di Cicerone rispetto all'uso di 'nomi nuovi'. La ricerca di<br />

una terminologia filosofica quanto più vicina all'uso comune del linguaggio si pone in linea di continuità<br />

rispetto a Platone (v. Crat. 439 b).<br />

274


φύσιν τέλος εἶναι τιθέμενοι τὰ κατὰ φύσιν ἀδιάφορ' εἶναι νομίζουσιν"),<br />

l'impiego della formula, come è lecito aspettarsi, è legato all'esposizione della<br />

'contraddittorietà' della dottrina stoica delle 'cose indifferenti' (ἀδιάφορa). Da qui si<br />

evince il potenziale polemico che la formula comporta, in ragione del quale<br />

probabilmente viene selezionata da Cicerone tra le molte disponibili; il potenziale<br />

polemico è confermato dalle fonti più tarde, per le quali non si tratta più di discutere<br />

la coerenza della dottrina, quanto le sue conseguenze: Proclo 518 impiega la formula,<br />

associandola agli stoici, laddove vuol costruire un'opposizione tra Socrate e coloro<br />

che separano il giusto dall'utile; il riferimento alla natura equivale nella prospettiva<br />

del neoplatonico ad una separazione dei due concetti (i vantaggi che la natura<br />

concede non coinciderebbero con la moralità) 519 e ad un conseguente allontanamento<br />

dal fondamento socratico dell'etica. Un tale risvolto dottrinale appare paradossale se<br />

si tiene presente la matrice socratica di alcuni principi fondamentali dell'etica stoica,<br />

quale ad esempio l'autosufficienza della virtù e la felicità del saggio (cfr. Off. III, 19-<br />

20). Ancora più paradossale è l'esito del tardo commentario all'Etica Nicomachea di<br />

Michele di Efeso (XII sec.) 520 , dove la formula è funzionale ad una dimostrazione in<br />

forma di sillogismo della felicità degli animali, notoriamente esclusa invece da gran<br />

parte della riflessione etica del periodo ellenistico, in quanto la felicità sarebbe<br />

esclusivo appannaggio dell'uomo, se non addirittura del saggio. Entrambi gli<br />

impieghi del resto tendono a caricare la formula delle conseguenze di un naturalismo<br />

inteso come salvaguardia dei beni materiali concessi dalla natura, dunque tendente da<br />

una parte ad articolare la distinzione tra ciò che è naturalmente vantaggioso e ciò che<br />

è morale, e dall'altra a riunire entro un medesimo orizzonte comune mondo animale e<br />

mondo umano. In entrambi i casi è perfettamente legittimo pensare che la posizione<br />

stoica finisca per essere deformata dalla prospettiva polemica.<br />

Il fondo teorico della formula e l'idea di conformità alla natura risalgono invece alle<br />

riflessioni dei primi Stoici. Zenone avrebbe scritto un trattato Peri£ tou= kata£ fu/sin<br />

bi/ou (D.L. VII, 4). Tuttavia come formulazione tecnica del telos, il fondatore dello<br />

Stoicismo avrebbe optato per to£ kat' a)reth£n zh=n (Clem.Alex. Str. II 21, 129, p.<br />

183 Stählin = SVF I 180) e/o to£ o(mologoume/nwj zh=n. La presenza o<br />

518 Proclus, In Alc., sez. 296, ll.4-17.<br />

519 Si noti la corrispondenza con la tattica argomentativa carneadea del discorso pronunciato a Roma (Cic., Rep.<br />

III, 24 ; v. p. 191 ; n. 413 ; n. 414); per cui il passo di Proclo si presenta come la versione dogmatica del tesi<br />

speculativa di Carneade.<br />

520 Michael Ephesius, In Ethica Nicomachea commentaria, p. 598, 20 G. Heylbut (ed.) = SVF III, 17.<br />

275


meno del dativo (di conformità) nella formula del telos zenoniana è uno dei primi<br />

enigmi da affrontare nello studio della storia delle evoluzioni della formula del telos<br />

stoico (v. oltre). Certamente la preminenza filosofica di "cio che è kata£ fu/sin" non<br />

è un'innovazione dello stoicismo, ma piuttosto l'orizzonte di incontro e scontro per le<br />

diverse scuole filosofiche attive tra IV e III secolo a.C., nessuna esclusa. La nozione<br />

risente evidentemente degli esiti del ricchissimo dibattito intrattenuto dai sofisti<br />

sull'opposizione kata£ fu/sin – kata£ no/mon 521 , i cui riflessi sono ancora visibili<br />

nell'uso che della nozione ha fatto il cinismo antico 522 .<br />

Lo sfondo di riflessione intorno alla nozione di "ciò che è kata£ fu/sin" già<br />

ampiamente abbozzato e in fermento 523 , i primi stoici si sarebbero trovati<br />

perfettamente in grado di fare appello alla formula "to£ kata£ fu/sin zh=n" come<br />

espressione del telos. Nondimeno la loro posizione, in ragione dell'uso ampio che la<br />

formula permette, avrebbe richiesto ulteriori specificazioni al fine di un qualsiasi<br />

confronto dottrinale. Come Mansfeld (1989a) pp. 332-333, nota per la formula "to£<br />

kat' a)reth£n zh=n", ci si trova di fronte ad un'espressione formale che necessita<br />

un'ulteriore esplicitazione per diventare operazionale in una qualche argomentazione.<br />

Un passaggio in Stobeo equipara "l'esser felici", in ambito stoico, a tre diverse<br />

espressioni del telos : "il vivere in accordo con la virtù", "il vivere conformemente" e<br />

"il vivere in accordo con la natura" (Stob., Ecl. II 7, 6e, p. 77 Wachsmuth: "Τέλος δέ<br />

φασιν εἶναι τὸ οὗ ἕνεκα πάντα πράττεται, αὐτὸ δὲ πράττεται μὲν<br />

οὐδενὸς δὲ ἕνεκα· τοῦτο δὲ ὑπάρχειν ἐν τῷ κατ' ἀρετὴν ζῆν, ἐν τῷ<br />

ὁμολογουμένως ζῆν, ἔτι, ταὐτοῦ ὄντος, ἐν τῷ κατὰ φύσιν ζῆν"). Successivamente<br />

il testo pone esplicitamente l'equivalenza tra le espressioni "il vivere in accordo con<br />

la natura", "il vivere moralmente bene", "il vivere bene", "ciò che è buono e bello" e<br />

"la virtù e ciò che partecipa della virtù" ("Δῆλον οὖν ἐκ τούτων, ὅτι ἰσοδυναμεῖ ‘τὸ<br />

κατὰ φύσιν ζῆν’ καὶ ‘τὸ καλῶς ζῆν’ καὶ ‘τὸ εὖ ζῆν’ καὶ πάλιν ‘τὸ καλὸν κἀγαθόν’<br />

καὶ ‘ἡ ἀρετὴ καὶ τὸ μέτοχον ἀρετῆς’·"). Il testo si sforza dunque di rendere<br />

521 v. Heinimann (1987 2 ).<br />

522 v. Antisthenes fr. V A 179 Giannantoni = Philod. De pietate 7a, 3-8: «...p]ar' (Antisqe/nei d' e(n me£n [t]<br />

fusik= le/getai to£ kata£ no/mon ei)=nai pollou£j qeou£j kata£ de£ fu/sin e(na.»; v. Diogenes fr. ??= D.L. VI, 71:<br />

«de/on ou)=n a)nti£ tw=n a)xrh/stwn po/nwn tou£j kata£ fu/sin e)lome/nouj zh=n eu)daimo/nwj, para£ th£n a)/noian<br />

kakodaimonou=si (…) mhde£n ou(/tw toi=j kata£ no/mon w(j toi=j kata£ fu/sin didouj:». v. Brancacci (1985-<br />

1986), pp.218-230; Goulet-Cazé (1993), pp. 133, 143-145;<br />

523 Dirlmeier (1937), pp. 9-12; 20-43, studia l'evoluzione storica del concetto e il suo significato all'interno del<br />

Peripato, in particolare in Teofrasto. Il rapporto tra cinismo e stoicismo, in particolare sulla questione del<br />

concetto di natura, è oggetto di ampio dibattito per la critica, v. e.g. Rist (1969), pp. 70-71 ; Radice (2000),<br />

pp. 5-99, in part. 97-99.<br />

276


inequivocabile il senso della formula "il vivere in conformità con la natura",<br />

inserendolo in una fitta rete di espressioni poste come equivalenti; Tuttavia è<br />

ragionevole supporre che sia proprio un difetto di equivalenza che il testo intende<br />

colmare. Sono proprio la varietà espressiva delle formule del telos e il carattere non<br />

anodino di alcune di esse che richiedono uno sforzo esplicativo di semplificazione.<br />

Come nel testo di Cicerone, la formula "il vivere in accordo con la natura" apre lo<br />

spazio ad una problematica molteplicità esegetica (cfr. Magnaldi (1981), p. 65).<br />

cfr. Fin. IV, 26: "Hunc igitur finem illi tenuerunt; quodque ego pluribus verbis, illi<br />

(scil. antiqui) brevius, secundum natura vivere, hoc iis bonorum videbatur<br />

extremum".<br />

- Planissime : l'avverbio al superlativo rimanda a una scala di livelli diversi<br />

facenti riferimento alla chiarezza con la quale una dottrina può essere esplicitata.<br />

Polemone avrebbe detto in modo estremamente chiaro qualcosa che a vari livelli<br />

anche i predecessori hanno affermato. È implicito dunque un appello a un lavoro<br />

esegetico, che riconosca elementi dottrinali anche laddove sono presentati obscure.<br />

Cfr. Cic., Tim. 23.<br />

- a) I fase interpretativa della formula del telos : [interpretazione post-<br />

zenoniana della formula zenoniana] la formula zenoniana "convenienter naturae<br />

vivere" viene equiparata a quella di marcato stampo crisippeo "vivere adhibentem<br />

scientiam earum rerum quae natura evenirent".<br />

Cfr. Luc. 131 = SVF 181 = T. 39 : "Honeste autem vivere, quod ducatur a<br />

conciliatione naturae, Zeno statuit finem esse bonorum, qui inventor et princeps<br />

Stoicorum fuit".<br />

Convenienter naturae vivere : to£ t= fu/sei o(mologei=n / o(mologoume/nwj t$=<br />

fu/sei zh=n / a)kolou/qwj t$= fu/sei zh=n.<br />

La formula viene attribuita a Zenone. Rimane tuttavia controverso se la formula<br />

zenoniana contenesse già un riferimento alla natura e quale fosse precisamente il suo<br />

significato.<br />

D.L. VII, 87 = SVF I 179: attribuisce esplicitamente la paternità (v. Διόπερ πρῶτος ὁ<br />

Ζήνων ...) della formula τὸ ὁμολογουμένως τῇ φύσει ζῆν a Zenone, cita l'opera in<br />

277


cui la formula si sarebbe trovata dal titolo Περὶ ἀνθρώπου φύσεως 524 e la dichiara<br />

equivalente a [to£] kat' a)reth£n zh=n, fornendo un esplicazione di primaria<br />

importanza del rapporto tra le due formule: "a) /gei ga£r pro£j tau/thn h(ma=j h( fu/sij".<br />

Tuttavia, come nota già Hirzel (1964r), p. 105-111, il passo di Diogene Laerzio deve<br />

essere messo a confronto con un altro famoso passo in Giovanni Stobeo (Ecl. II, 7,<br />

6a, p. 75-76 Wachsmuth, [Arius Didymus], Dox. B : "To£ de£ te/loj o( Zh/nwn ou(/twj<br />

a)pe/dwke: to£ o(mologoume/nwj zh=n: tou=to d' e)sti£ kaq' e(/na lo/gon kai£ su/mfwnon<br />

zh=n, w(j tw=n maxome/nwj zw/ntwn kakidaimonou/ntwn. Oi( de£ meta£ tou=ton<br />

prosdiarqrou=ntej ou( /twj e)ce/feron o(mologoume/nwj t$= fu/sei zh=n' u(polabo/ntej<br />

e) /latton ei)=nai kathgo/rhma to£ u(po£ tou= Zh/nwnoj r(hqhn. Klea/nqhj ga£r prw=toj<br />

diadeca/menoj au)tou= th£n ai(/resin prose/qhke t$= fu/sei' kai£ ou(/twj a)pe/dwke:<br />

te/loj e)sti£ to£ o(mologoume/nwj t$= fu/sei zh=n'."), che fornisce invece una versione<br />

differente della storia dell'evoluzione della formula del telos stoico: la formula<br />

proposta da Zenone sarebbe stata to£ o(mologoume/nwj zh=n, a cui Cleante avrebbe poi<br />

aggiunto t$= fu/sei, per esplicitarne ulteriormente il significato (cfr. Clem. Alex., Str.<br />

II 21, 129, p. 183 Stählin:<br />

"<br />

"). Hirzel tenta inoltre di descrivere<br />

il rapporto teorico-dialettico che lega le varie formule tra loro e porta infine l'accento<br />

sul fatto che in D.L.VII, 85 e 87 fin., si fa doppiamente riferimento al primo libro<br />

dell'opera di Crisippo Peri£ telw=n, per avanzare l'ipotesi che Diogene Laerzio (o la<br />

sua fonte) attinga proprio da Crisippo l'intero passaggio. Si inaugura così una<br />

tradizione critica che si è cimentata nella ricostruzione di una 'stemmatica' della<br />

formula del telos stoico. Rist (1977), p. 170 ss., ritiene che le due testimonianze di<br />

Diogene Laerzio e Stobeo non siano tra loro incompatibili, ma appartenenti a due<br />

fasi distinte della riflessione etica di Zenone, l'una ancora influenzata dal cinismo e<br />

l'altra invece interessata a spiegare la coerenza della ragione in rapporto alla coerenza<br />

524 N.b. Se Diogene Laerzio cita il titolo di un opera, ciò non significa necessariamente che l'abbia consultata<br />

direttamente. D'altraparte per quanto riguarda le opere di Zenone in Diogene Laerzio, si noti che all'interno<br />

del bios di Zenone si trovano due liste di titoli (D.L. VII, 4 e 36): la prima, posta di seguito alla menzione del<br />

trattato di Zenone Politei/a, “scritto sulla coda del cane”, contiene tra gli altri anche il problematico doppio<br />

titolo Περὶ ὁρμῆς ἢ περὶ ἀνθρώπων φύσεως; la seconda invece è posta, come di consueto in Diogene, in<br />

prossimità della conclusione del bios e viene introdotta dalla frase " bibli/a de£ au)tou= fe/retai ta/de ", nella<br />

quale si potrebbe leggere un riferimento a quei soli testi tramandati fino all'epoca di Diogene e teoricamente a<br />

lui accessibili. I titoli nelle due liste non sono sovrapponibili e si può essere indotti a pensare che la prima<br />

delle due liste intenda menzionare le opere redatte da Zenone sotto l'influenza del Cinismo di Cratete. Sul<br />

complesso problema delle modalità di composizione da parte di Diogene Laerzio del VII libro dedicato agli<br />

stoici, v. Mansfeld (1986a), in particolare pp. 329-351. La prospettiva di una delle tradizioni sullo stoicismo<br />

impiegate da Diogene Laerzio si può trovare riassunta nel passaggio a conclusione del libro VI sui cinici,<br />

D.L. VI, 104.<br />

278


della natura, ovvero della conformità dei comportamenti naturali rispetto al fine<br />

ultimo dell'uomo (la virtù). Questo tipo di spiegazione, per quanto in un certo qual<br />

modo elegante, non rende però davvero conto dell'effettiva interazione tra le due<br />

formule nell'etica stoica. Ioppolo (1980), p. 143, n. 5 e ss., propone l'attribuzione<br />

esplicita entrambe le formule a Zenone, considerando tv= fu/sei come esplicitazione<br />

del significato di o(mologoume/nwj, ovvero come affermazione del lo/goj come vera<br />

natura dell'uomo. Striker (1996), p. 223, non ritiene invece evidente quale rapporto<br />

sussista tra le due formule. La prima, promuovendo l'adesione ad un singolo<br />

principio di coerenza, non necessiterebbe di alcun riferimento alla natura per essere<br />

intellegibile, mentre la seconda non spiegherebbe ancora come e perché armonia e<br />

corenza siano il risultato di una vita che segue la natura.<br />

Sembrerebbe infine del tutto verosimile che la tradizione stoica abbia sentito<br />

l'esigenza di esplicitare la formula del telos secondo diverse strategie a seconda dei<br />

contesti. L'insieme delle fonti di fatto converge nel dare l'impressione che la formula<br />

del telos sia stata oggetto di discussione e interpretazione all'interno della scuola<br />

stoica in diversi momenti, per non dire sempre 525 .<br />

L'identificazione del dativo di conformità come un'innovazione di Cleante, come si è<br />

visto, deriva dal testo di Giovanni Stobeo, il quale riporta in questo passaggio la<br />

cosidetta epitome di [Ario Didimo]. La valutazione della validità storica<br />

dell'informazione dipende interamente da un giudizio sull'attendibilità di Ario<br />

Didimo, come 'dossografo', prima ancora che come filosofo. L'unicità<br />

dell'infomazione ha spinto talvolta la critica a preferire la testimonianza concorde di<br />

Diogene Laerzio e Cicerone, ma non sono mancati in tempi recenti tentativi<br />

coraggiosi di riabilitare l'affidabilità storica delle informazioni provenienti da [Ario<br />

Didimo] 526 .<br />

Cfr. Philo, Quod omnis probus liber, vol. ii, p. 470, 27 Mang.<br />

"<br />

"; Clem.Alex., Str. II 21, 129 p. 183 Stählin = SVF 180 :<br />

""<br />

- Adhibeo scientiam : cfr. Fin. II, 34: "His omnibus, quos dixi, consequentes<br />

fines sunt bonorum, (...), Stoicis consentire naturae, quod esse volunt e virtute, id est<br />

525 v. LS (1987), 63-64; Sedley (1989), p. 98, n. 2.<br />

526 Sandbach (1975), p. 53ss.; Kahn (1983), p. 9.<br />

279


honeste, vivere, quod ita interpretantur: vivere cum intelligentia rerum earum quae<br />

natura evenirent, eligentem ea quae essent secundum naturam, reiecentemque<br />

contraria"; Fin. III, 31: "(Catone) relinquitur ut summum bonum sit vivere scientiam<br />

adhibentem earum rerum quae natura eveniant, seligentem quae secundum naturam<br />

et quae contra naturam sint reiecentem, id est convenienter congruenterque naturae<br />

vivere" = SVF III 14 e 15. Questa riformulazione della formula del telos ricorda da<br />

vicino quella proposta da Crisippo e testimonianta in D.L. VII, 87: <br />

n j<br />

<br />

u . È<br />

tuttavia improbabile che Cicerone intendesse esprimere con il termine scientia 527<br />

quello che nella formula di Crisippo viene espresso dal termine e)mpeiri/a, e che<br />

rinvia quasi inequivocabilmente ad un indagine della natura che si avvale di un<br />

processo di osservazione empirica. Nondimeno la rilevanza della nozione stoica di<br />

'conoscenza' in ambito etico è attestata in Plut., Comm.not. 1066 d8: "th£n me£n<br />

fro/nhsin e)pisth/mhn a)gaqw=n kai£ kakw=n ou)=san;" si consideri anche l'importanza<br />

che il termine e)pisth/mh assume nella formula del telos di Aristone di Chio (SVF I<br />

374 = Galenus, De plac. Hipp. et Plat. VII, 2) e Erillo di Calcedonia (SVF I 411 =<br />

D.L. VII, 165).<br />

- Earum rerum quae natura evenirent : ta£ fu/sei sumbaino/nta (cfr. D.L. VII<br />

87; Stob. Ecl. II, 7, 6a, p. 76 Wachsmuth). Nell'interpretazione di Long (1967), p. 72,<br />

si tratta di un espansione crisippea del fu/sei presente nella formula zenoniana. Nel<br />

testo di Stobeo troviamo l'inciso: "Crisippo, volendo rendere (il telos) più chiaro<br />

(o( Xru/sippoj safe/steron boulo/menoj poih=sai)" Cfr. la distinzione tra natura<br />

individuale e natura universale che si prospetta in D.L. VII 88 : " to£ a)kolouqwj t$=<br />

fu/sei zh=n, o(/per e)sti£ kata/ te th£n au(tou= kai£ kata£ th£n tw=n o(/lwn ...". La<br />

formula di Crisippo sembra aver voluto far riferimento ad entrambe le accezioni di<br />

natura, diversamente da Cleante che sembrerebbe aver invece escluso il riferimento<br />

alla natura individuale (v. D.L. VII, 89), v. la critica di Posidonio nella testimonianza<br />

di Galeno, De placitis Hippocratis et Platonis V, 6 = SVF III 12.<br />

- Hunc ipsum Zenonis aiunt esse finem... – l'inciso intende stabilire<br />

527 Cfr. Tusc. IV, 57 : « Sapientiam esse rerum divinarum et humanarum scientiam cognitionemque » (cfr. Off.<br />

II, 5 ; August. Contra Ac. I, 6 ; De trinitate XIV, 1, 3 ; Lact., Inst. III, 13, 10). ; Tusc. IV, 53 : « Quo modo<br />

igitur Chrysippus ? Fortitudo est, inquit, scientia rerum perferendarum vel... » ; v. Ioppolo (1986).<br />

280


un'equivalenza tra la formula 'zenoniana' e la sua interpretazione (posteriore). È<br />

indice dunque di una procedura di attribuzione perentoria, che stabilisce la legittimità<br />

di un'interpretazione come espressione della posizione del maestro fondatore.<br />

Tuttavia la necessità stessa di una tale procedura di legittimazione presuppone<br />

verosimilmente un contesto di potenziale incertezza sul quale il passaggio, così come<br />

Cicerone lo struttura, intende portare implicitamente l'attenzione.<br />

- quod a te dictum est : v. Fin. III, 21 "Summum…bonum, quod cum positum<br />

sit in eo, quod /Stoici, nos appellamus convenientiam"; Fin. III, 26: "cum<br />

igitur hoc sit extremum, congruenter naturae convenienterque vivere"; Cfr.<br />

Lactantius, Inst. Div. III, 7: "Zenonis (summum bonum) cum natura congruenter<br />

vivere".<br />

- b) II fase interpretativa della formula del telos. [la teoria dei kaqh/konta<br />

come via verso il fine ultimo] Alterum significari: officia media omnia aut<br />

pleraque servantem vivere. Cfr. Off. III 13-15.<br />

Officia: La preminenza della nozione di 'dovere' 528 – to£ kaqh=kon in greco –<br />

all'interno delle formule del telos stoico è documentabile a partire dalle testimonianze<br />

su Panezio di Rodi e Archedemo di Tarso (v. Mansfeld (1986a), p. 335; Giusta (1964-<br />

1967), vol. I, p. 300). L'importanza di Panezio per la riflessione ciceroniana sul tema<br />

dei 'doveri' è ben nota, in particolare grazie ai lavori della Quellenforschung sul De<br />

officiis 529 . Nonostante la formula del telos attribuita a Panezio non contenga un<br />

riferimento esplicito ai kaqh/konta, quanto piuttosto una valorizzazione generale<br />

della natura 'individuale', da non percepirsi come incompatibile con la formula<br />

canonica dei primi maestri stoici 530 , l'interesse di Panezio per la linea di condotta<br />

generale degli uomini è ben attestato. Tra i suoi consociati egli sembra assumere,<br />

528 Il problema della traduzione del termine kaqh=kon è doppio: è problematica sia la sua resa in latino (v. ad<br />

Att. XVI, 11, 4, dove Pomponio Attico protesta contro la scelta ciceroniana di rendere kaqh=kon con<br />

officium), sia la sua resa nelle lingue moderne. Si opta qui per la traduzione canonica 'dovere', motivata dalla<br />

versione latina officium impostasi con Cicerone. Si tenga tuttavia presente che una tale scelta di traduzione<br />

cattura male l'eventuale trasversalità di applicazione del termine. v. LS (1987) I, 59, pp. 359-368 traduce con<br />

'proper function'; v. Dyck (1996), pp. 4-8, per un'analisi etimologica del termine greco e il suo impiego nello<br />

stoicismo delle origini.<br />

529 Rif. bibliografici in M. Testard (ed.), Cicéron, Les devoirs, Les Belles Lettres, Paris 1974, Introduction pp.<br />

26-27, n. 4. ; v. Dyck (1996).<br />

530 Clem.Alex., Str. II, 21, p. 183 Stählin = Panaetius fr. 96 Van Straaten: « Panai/tioj to£ zh=n kata£ ta£j<br />

dedome/naj h(mi=n e)k fu/sewj a)forma£j te/loj a)pefh/nato », cfr. Stob., ecl. II 7, pp. 63-64 = fr. 109 Van<br />

Straaten : « ...to£n au)to£n tro/pon kai£ ta£j a)reta£j pa/saj poiei=sqai me£n te/loj to£ eu)daimonei=n, o(/ e)sti<br />

kei/menon e)n t%= zh=n o(mologoume/nwj t$= fu/sei, tou/tou d' a(/llhn kat'a)/llon tugxa/nein». v. Van Straaten<br />

(1946), pp. 143-158.<br />

281


perlomeno agli occhi di Cicerone, una posizione di merito 531 , per aver offerto una<br />

versione dell'etica stoica chiara ed esente dagli esiti paradossali denunciati da<br />

Carneade 532 . Panezio sembra infatti aver indagato la funzione normativa della natura<br />

umana individuale nelle circostanze più concrete della vita: ricordando la dimensione<br />

kata£ fu/sin dei kaqh/konta, avrebbe dunque operato una rivalutazione del contenuto<br />

(oggettivo) delle azioni dell'uomo, anche quelle che non possono dirsi né<br />

propriamente virtuose (katorqw/mata) o viziose (a(marqh/mata), e che dunque sono<br />

dette "intermedie (me/sai)" 533 . Ci troveremmo allora di fronte ad uno slittamento di<br />

prospettiva all'interno dell'etica stoica, per cui la figura del saggio non è più il<br />

paradigma esclusivo del valore morale dell'azione e la dottrina etica pone al centro il<br />

problema delle connotazioni individuali.<br />

Per un'inclusione del concetto di kaqh=kon direttamente nella formula del telos si<br />

veda invece Archedemo di Tarso, filosofo stoico vissuto nel II sec. a.C, che Cicerone<br />

considera tra i più grandi filosofi dialettici del suo tempo (Luc. 143 = SVF III ArT<br />

19). Diogene Lerzio e Giovanni Stobeo sono concordi nel ritenere che la formula del<br />

telos patrocinata da Archedemo fosse: "vivere portando a compimento tutti i doveri<br />

(pa/nta ta£ kaqh/konta e)pitelou=ntaj zh=n)" (D.L. VII, 88; Stobaeus, Ecl. II, 7, 6a p.<br />

76 Wachsmuth = LS 59 J). La formula necessiterebbe di essere contestualizzata<br />

nell'ambito di un dibattito filosofico sia interno alla scuola stoica 534 , sia in dialogo<br />

531 Fin. IV, 79 = fr. 55 Van Straaten; T. 79 Alesse: “Quam illorum tristitiam atque asperitatem fugiens<br />

Panaetius nec acerbitatem sententiarum nec disserendi spinas probavit fuitque in altero genere mitior, in<br />

altero illustrior semperque habuit in ore Platonem, Aristotelem, Xenocratem, Theophrastum, Dicaearchum,<br />

ut ipsius scripta declarant”, cfr. Fin, IV, 23 ; Philod., Stoic.Hist. (PHerc. 1018), col. LXI = fr. 1 Van Straaten;<br />

T.1 Alesse. La posizione di Panezio all'interno della tradizione stoica è oggetto di ampio dibattito. Spesso<br />

considerato come un 'innovatore' (Rist (1969), pp. 173-200; Alesse (1997), p. 152) o il promotore di una<br />

riformulazione auto-critica delle dottrine stoiche (Edelstein (1966), pp. 45-70), da considerarsi alla luce<br />

dell'assimilizazione di concetti platonici e aristotelici. Il suo nome è associato alla categoria storiografica<br />

“Stoa di mezzo” [Schmekel (1974 2 )], a significare una fase di riflessione dottrinale distinta rispetto allo<br />

stoicismo antico delle origini, v. Alesse (1994), pp. 16-22. Per un inquadramento che invece pone l'accento<br />

sulle linee di continuità tra lo stoicismo più antico e le posizioni di Panezio, v. Kidd (1955).<br />

532 Van Straaten (1946), 146, 153, sostiene che Panezio è il primo tra gli stoici ad aver pienamente tenuto in<br />

conto le obiezione sollevate da Carneade. In particolare il peculiare impiego di Panezio del concetto di<br />

a)formai/, da intendersi secondo Alesse (1994), p. 23-31 e (1997), p. 183, come predisposizioni alle virtù<br />

fornite dalla natura all'uomo in conformità con la sua natura razionale (cfr. Van Straaten (1946), pp. 140-142;<br />

153-157; Rist (1969), p. 189), risolverebbe i problemi interni al rigorismo morale degli antichi stoici<br />

denunciati da Carneade.<br />

533 v. Alesse (1994), pp. 23-33; 74-83.<br />

534 Stando a quando riporta Giovanni Stobeo (Anth. V, 906-907 Wachsmuth = SVF III 510 = LS 59 I) Crisippo<br />

avrebbe già affrontato la questione dicendo che il compimento di tutti i 'doveri' presso il progrediente arrivato<br />

al punto più alto del suo cammino non è ancora la felicità: « una tale vita non è ancora felice, ma la felicità<br />

sopravviene, quando le stesse azioni intermedie ricevono la sicurezza data dall'abitudine e acquistano una<br />

certa solidità propria (to£n de£ tou/ton bi/on ou)k ei)=nai/ pw fhsi£n eu)dai/mona, a)ll' e)pigi/nesqai au)t= th£n<br />

eu)daimoni/an, o(/tan ai( me/sai pra/ceij au(=tai prosla/bwsi to£ be/baion kai£ e(ktiko£n kai£ i(di/an ph=cin tina£<br />

la/bwsin)». Nel verbo e)pitelei=n del frammento di Archedemo si potrebbe vedere espressa l'idea di stabilità e<br />

fissità richiesta da Crisippo (v. la definizione di katw£rtoma come te/leia kaqh/konta [= perfecta officia], in<br />

282


con altre istanze filosofiche 535 . Quel che risulta tuttavia chiaro è l'accento posto su<br />

una nozione di progressivo perfezionamento (e)pitelou=nta) e completezza (pa/nta)<br />

dei kaqh/konta, che nonostante di per sé non siano qualificanti di un comportamento<br />

virtuoso, né siano esclusivamente pertinenti all'essere umano 536 , al culmine di un<br />

percorso di perfezionamento, finiscono per coincidere con l'azione retta e la felicità<br />

umana. Contro l'esaustività di una simile concezione sembra pronunciarsi già il<br />

personaggio di Catone nel III libro del De finibus: Fin. III, 22: "Cum vero illa quae<br />

officia esse dixi proficiscantur ab initiis naturae, necesse est ea ad haec referri, ut<br />

recte dici possit omnia officia eo referri ut adipiscamur principia naturae, nec tamen<br />

ut hoc sit bonorum ultimum, propterea quod non inest in primis naturae<br />

conciliationibus honesta actio".<br />

È forse necessario ricordare che la rilevanza etica della nozione di 'dovere' è già<br />

chiaramente indicata dalla definizione 'zenoniana' riportata da Diogene Laerzio: "il<br />

'dovere' fu così chiamato per primo da Zenone avendolo derivato dall'espressione<br />

'qualcosa incombe per (in accordo con) alcuni'. È un'attività appropriata alle<br />

disposizioni in accordo con la natura. Infatti tra le attività compiute secondo<br />

l'impulso, alcune sono doveri, altre sono contrarie al dovere, (Κατωνομάσθαι δ' οὕτως ὑπὸ πρώτου<br />

Ζήνωνος τὸ καθῆκον, ἀπὸ τοῦ κατά τινας ἥκειν τῆς προσονομασίας εἰλημμένης.<br />

ἐνέργημα δ' αὐτὸ εἶναι ταῖς κατὰ φύσιν κατασκευαῖς οἰκεῖον. τῶν γὰρ καθ'<br />

ὁρμὴν ἐνεργουμένων τὰ μὲν καθήκοντα εἶναι, τὰ δὲ παρὰ τὸ καθῆκον


Ecco il pensiero di Archedemo: “il fine consiste nel vivere scegliendo le cose che<br />

sono più grandi e più importanti in accordo con la natura, dato che non è possibile<br />

andar oltre la realtà” ( )Arxe/dhmoj te au)= ou(=twj e)chgei=to: ei)=nai to£ te/loj <br />

e)klego/menon ta£ kata£ fu/sin me/gista kai£ kuriw/tata, ou)x oi(=o/n te o)/nta<br />

u(perbai/nein)». Supponendo un'equivalenza (almeno parziale) tra le due formule<br />

attribuite ad Archedemo, il compimento di tutti i 'doveri' corrisponderebbe alla scelta<br />

corretta delle cose più elevate nella gerarchia delle cose che sono in accordo con la<br />

natura 537 . Una tale delimitazione del campo etico viene inoltre giustificata attraverso<br />

la negazione di ogni possibilità di superare il piano della realtà. Trattasi<br />

verosimilmente di una nota antitrascendentalista nell'ambito di un processo di<br />

approfondimento dei riferimenti pienamenti 'mondani' e kata£ fu/sin della vita<br />

dell'uomo.<br />

Media : me/sa (v. Hartung (1970), p. 161, 163). Cicerone esplicita il senso<br />

dell'aggettivo medium in riferimento a ciò che si dice officium in due contesti<br />

differenti :<br />

1) Nel contesto della terminologia introdotta da Zenone: Ac. libri I, 36-37= SVF I<br />

231: "Cetera autem etsi nec bona nec mala essent, tamen alia secundum naturam<br />

dicebat, alia naturae esse contraria; his ipsis alia interiecta et media numerabat.<br />

Quae autem secundum naturam essent, ea sumenda et quadam aestimatione<br />

dignanda docebat, contraque contraria, neutra autem in mediis relinquebat. (...)<br />

Atque ut haec non tam rebus quam vocabulis commutaverat, sic inter recte factum<br />

atque peccatum officium et contra officium media locabat quaedam, recte facta sola<br />

in bonis [actionibus] ponens, prave, id est peccata, in malis; officia autem servata<br />

praetermissaque media putabat, ut dixi". Zenone avrebbe denominato 'me/sai<br />

kaqh/konta' quelle azioni che non si qualificano né come azioni virtuose<br />

(katorqw/mata), né come viziose (a(marth/mata), procedendo ad una cartografia delle<br />

azioni speculare rispetto a quella operata per gli enti 538 . Come si delimita un luogo<br />

537 Per una distinzione radicale di valore operata da Archedemo all'interno delle 'cose che sono in accordo con<br />

la natura' si veda la testimonianza di Sesto Empirico a proposito un motto provocatorio attribuito ad<br />

Archedemo: «Archedemo affermava che il piacere è come i peli delle ascelle: secondo natura, ma senza<br />

valore (o( de£ )Arxe/dhmoj kata£ fu/sin me£n ei)=nai th£n h(donh/n w(j ta£j e)n masxa/l$ tri/xaj, ou)xi£ de£ kai£ a)ci/an<br />

e)/xein)» (Adv.math. XI, 73 = SVF III ArT 22).<br />

538 Cfr. la distinzione argomentata da Senocrate tra beni, mali e cose intermedie, v. Sextus Emp., Adv.math. XI,<br />

3-5 : « Πάντες μὲν οἱ κατὰ τρόπον στοιχειοῦν δοκοῦντες τῶν φιλοσόφων, καὶ ἐπιφανέστατα παρὰ πάντας οἵ τε ἀπὸ<br />

τῆς ἀρχαίας Ἀκαδημίας καὶ οἱ ἀπὸ τοῦ Περιπάτου, ἔτι δὲ τῆς Στοᾶς, εἰώθασι διαιρούμενοι λέγειν τῶν ὄντων τὰ μὲν<br />

εἶναι ἀγαθά, τὰ δὲ κακά, τὰ δὲ μεταξὺ τούτων, ἅπερ καὶ ἀδιάφορα λέγουσιν· ἰδιαίτερον δὲ παρὰ τοὺς ἄλλους ὁ<br />

Ξενοκράτης καὶ ταῖς ἑνικαῖς πτώσεσι χρώμενος ἔφασκε· “πᾶν τὸ ὂν ἢ ἀγαθόν ἐστιν ἢ κακόν ἐστιν ἢ οὔτε ἀγαθόν<br />

ἐστιν οὔτε κακόν ἐστιν.” καὶ τῶν λοιπῶν φιλοσόφων χωρὶς ἀποδείξεως τὴν τοιαύτην διαίρεσιν προσιεμένων αὐτὸς<br />

284


intermedio tra beni e mali, scomposto in cose kata£ fu/sin, cose para£ fu/sin e cose<br />

che non sono nè l'uno nè l'altro (neutra), così le azioni si possono esercitare a partire<br />

da disposizioni 'intermedie', che non sono (ancora) nè virtù nè vizi, ma che possono<br />

essere kata£ fu/sin (-> officia), para£ fu/sin (-> contra officia), [o nessuno dei due].<br />

Cfr. Cic. Off. III, 14;<br />

2) Nel contesto di una dimostrazione del fatto che una teoria dei kaqh/konta è<br />

perfettamente compatibile con il principio secondo il quale "honestum solum bonum<br />

esse", Fin. III, 58 : "Sed cum, quod honestum sit, id solum bonum esse dicimus,<br />

consentaneum tamen est fungi officio, cum id officium nec in bonis ponamus nec in<br />

malis. Est enim aliquid in his rebus probabile, et quidem ita ut eius ratio reddi<br />

potest, ergo ut etiam probabiliter acti ratio reddi potest. Est autem officium, quod ita<br />

factum est, ut eius probabilis ratio reddi potest (cfr. D.L. VII, 107: "o(/ praxqe£n<br />

eu)/logo/n [te] i) /sxei a)pologismo/n"). Ex quo intellegitur officium medium<br />

quiddam esse, quod neque in bonis ponatur neque in contrariis". La funzione<br />

dell'aggettivo medium è quella di esprimere la differenza 'epistemologica' che<br />

sussiste tra un bene o un male e un'azione la cui ragionevolezza è solo plausibile, non<br />

certa. Il valore dell'azione varia in funzione del grado di comprensione di cui il<br />

soggetto dispone rispetto all'azione stessa (certe : bona ; probabile : officia (media)).<br />

A controprova della distinzione si menziona il fatto che anche il saggio, il cui<br />

giudizio è infallibile, designa alcune delle sue azioni come officia (Fin. III, 59: Atque<br />

perspicuum etiam illud est, in istis rebus mediis aliquid agere sapientem. Iudicat<br />

igitur, cum agit, officium illud esse. Quodquoniam nunquam fallitur in iudicando,<br />

erit in mediis rebus officium). Il che equivale a dire – sempre che non la si voglia<br />

prendere come una petizione di principio! – che nella sfera delle 'azioni intermedie', a<br />

cui il saggio saprebbe, se necessario, aggiungere un'intenzione pienamente virtuosa,<br />

rientrano anche tutte quelle azioni il cui valore (o motivo per essere compiute) non si<br />

trova in un giudizio certo sulla qualità morale dell'azione, ma in un qualsiasi<br />

ragionamento coerente, per esempio del tipo mezzi-fini (v. III, 58: quoniamque in iis<br />

rebus quae neque in virtutibus sunt neque in vitiis est tamen quiddam quod usui<br />

potest esse, tollendum id non est). In ragione di ciò il paragrafo ciceroniano si<br />

ἐδόκει καὶ ἀπόδειξιν συμπαραλαμβάνειν. εἰ γὰρ ἔστι τι κεχωρισμένον πρᾶγμα τῶν ἀγαθῶν καὶ κακῶν καὶ τῶν μήτε<br />

ἀγαθῶν μήτε κακῶν, ἐκεῖνο ἤτοι ἀγαθόν ἐστιν ἢ οὐκ ἔστιν ἀγαθόν. καὶ εἰ μὲν ἀγαθόν ἐστιν, ἓν τῶν τριῶν γενήσεται·<br />

εἰ δ' οὐκ ἔστιν ἀγαθόν, ἤτοι κακόν ἐστιν ἢ οὔτε κακόν ἐστιν οὔτε ἀγαθόν ἐστιν· εἰ δὲ κακόν ἐστιν, ἓν τῶν τριῶν<br />

ὑπάρξει, εἰ δὲ οὔτε ἀγαθόν ἐστιν οὔτε κακόν ἐστι, πάλιν ἓν τῶν τριῶν καταστήσεται. πᾶν ἄρα τὸ ὂν ἤτοι ἀγαθόν ἐστιν<br />

ἢ κακόν ἐστιν ἢ οὔτε ἀγαθόν ἐστιν οὔτε κακόν ἐστιν. », commento in Spinelli (1995), p. 145-153.<br />

285


conclude con la dichiarazione che il saggio e il non saggio hanno in comune<br />

l'esercizio degli officia : " Ita est quoddam commune officium sapientis et insipientis;<br />

ex quo efficitur versari in iis, quae media dicamus ".<br />

La critica rintraccia una contraddizione tra le due esplicitazioni ciceroniane<br />

dell'aggettivo: Rist (1969), p. 97-98, pensa che il resoconto di Ac. libri I, 37 sia "the<br />

most egregious of his [Cicero's] mistakes in the Academica". La differenza<br />

fondamentale tra i due testi sarebbe che nel primo 'intermedi' sarebbero anche gli<br />

officia praetermissa o azioni contra officium, quando invece nel secondo risulterebbe<br />

chiaro che 'intermedi' sono solo le azioni la cui plausibilità è giustificabile (officia).<br />

Tuttavia, tenendo conto della differenza tra i contesti, le discrepanze non sembrano<br />

poi così importanti. Il testo di De finibus, vista l'esposizione in serie di una<br />

molteplicità di argomenti, è testimonianza di un approccio difensivo della teoria dei<br />

kaqh/konta all'interno della scuola stoica e naturalmente l'aggettivo medium risente<br />

dell'influenza di una serie di approfondimenti teorici stimolati dalle critiche<br />

avversarie. Resta vero tuttavia che sono almeno due le strategie di impiego<br />

dell'aggettivo medium, 'intermedio', rintracciabili nel testo: a) 'intermedio' come non<br />

ancora nè buono nè cattivo: v. medium = inchoatum, Fin. III, 59: "Quoniam enim<br />

videmus esse quiddam, quod recte factum appellemus, id autem est perfectum<br />

officium, erit etiam inchoatum, ut, si iuste, depositum reddere in recte factis sit, in<br />

officiis ponatur depositum reddere". (nell'ambito di una distinzione puramente<br />

teorica, si riferirebbe all'azione prima dell'esercizio, ovvero prima che vada ad<br />

aggiungersi un'intenzione morale o immorale e prima che si confronti alle<br />

circostanze particolari). b) 'intermedio' come non avente niente a che fare nè con la<br />

virtù nè con il vizio : Fin. III, 58: "...Neque in virtutibus, neque in vitiis...Est autem<br />

eius generis actio quoque quaedam, et quidem talis, ut ratio postulet agere aliquid et<br />

facere eorum. (...) est igitur officium eius generis quod nec in bonis ponatur nec in<br />

contrariis" (nell'ambito della pratica concreta dell'azione, dal punto di vista non<br />

dell'intenzione, ma del contenuto, la ragionevolezza di un'azione non comporta<br />

necessariamente (o non solo) un valore morale). cfr. Tsekourakis (1974), pp. 11-30;<br />

Alesse (1994), pp. 80-82; Sedley (1999), p. 133, n. 15.<br />

Cfr. [Arius Didymus], Dox. B., ap. Stob., ecl. II, 7, 11e, p. 97 Wachsmuth: ou) /te de£<br />

katorqw/mata ou) /te a(marth/mata ta£ toiau=ta: le/gein, e)rwta=n, a)pokri/nesqai,<br />

peripatei=n, a)podhmei=n kai£ ta£ toutoij paraplh/sia.<br />

286


me/sa kaqh/konta - Stob. Ecl. II, 7, 8, p. 86 Wachsmuth = SVF III 498: Ou)k ei)=nai<br />

de£ katorqw/mata ta£ mh£ ou( /twj e/)xonta, a£ dh£ ou)de£ te/leia kaqh/konta<br />

prosagoreu/ousin, a)lla£ me/sa, oi(=on to£ gamei=n, to£ presbeu/ein, to£ diale/gesqai,<br />

ta/ tou/toij o(moi£a.<br />

omnia aut pleraque : o tutti o la maggior parte, il più grande numero. cfr. pa/nta<br />

nella sopracitata formula del telos di Archedemo.<br />

servantem: cfr. Off. I, 33; I, 92; I, 149; "osservare", "conservare". v. Fin. III, 20 :<br />

"Initiis igitur ita constitutis, ut ea, quae secundum naturam sunt, ipsa propter se<br />

sumenda sint contrariaque item reicienda, primum est officium...ut se conservet in<br />

naturae statu, deinceps ut ea teneat, quae secundum naturam sint, pellatque<br />

contraria. Qua inventa selectione et item reiectione sequitur deinceps cum officio<br />

selectio, deinde ea perpetua, tum ad extremum constans consentaneaque naturae, in<br />

qua primum inesse incipit et intellegi, quid sit, quod vere bonum possit dici", da cui<br />

si deduce che nel nucleo essenziale del 'dovere' vi sono tutte quelle attività che sono<br />

'conformi a natura', ovvero connaturate alla costituzione dell'uomo; v. LS (1987), 59,<br />

commento vol. I, pp. 365-368.<br />

- Illud...hoc : si sottolinea la differenza tra le prime due significazioni. Il primo<br />

approccio a) è descrittivo di una condizione di pertinenza solo del saggio,<br />

presumibilmente nella misura in cui contiene un riferimento alla perfetta coerenza<br />

del logos; mentre il secondo b) accomuna sotto la medesima formula sia i saggi che i<br />

non-saggi. Sulla base di questa distinzione la legittimità della seconda significazione<br />

viene contestata. Tuttavia non è evidente per quale motivo la capacità di esprimere<br />

nella formula del telos una via progressiva verso la virtù, percorsa in effetti sia dai<br />

proko/ptontej, sia da chi ha ultimato il percorso e può essere detto saggio, dovrebbe<br />

inficiarne la validità, a meno di non tener conto di quanto si legge per esempio in v.<br />

D.L. VII, 127: "Gli Stoici ritengono che non esista nulla di intermedio tra virtù e<br />

vizio, mentre i Peripatetici asseriscono che tra la virtù e il vizio c'è il progresso<br />

morale: gli Stoici dicono, infatti, che come un pezzo di legno è per forza o dritto o<br />

storto, così un uomo è giusto o ingiusto, e non può essere più giusto o più ingiusto, e<br />

così dicasi per le altre virtù ( Ἀρέσκει δ' αὐτοῖς μηδὲν μεταξὺ εἶναι ἀρετῆς καὶ<br />

κακίας, τῶν Περιπατητικῶν μεταξὺ ἀρετῆς καὶ κακίας εἶναι λεγόντων τὴν<br />

287


προκοπήν· ὡς γὰρ δεῖν φασιν ἢ ὀρθὸν εἶναι ξύλον ἢ στρεβλόν, οὕτως ἢ δίκαιον ἢ<br />

ἄδικον, οὔτε δὲ δικαιότερον οὔτ' ἀδικώτερον, καὶ ἐπὶ τῶν ἄλλων ὁμοίως)"; [cfr.<br />

Cic. Fin. IV, 67: vestri autem progressionem ad virtutem fieri aiunt, levationem<br />

vitiorum fieri negant; Plut. De comm.not. 10, 1063a = SVF III, p. 143, 39]. Stando la<br />

differenza tra Peripatetici e Stoici nell'ammissione da parte dei primi di un concetto<br />

di "progresso" (προκοπή, μεταξὺ ἀρετῆς καὶ κακίας) nel cammino della virtù, la<br />

seconda fase interpretativa finirebbe per significare una effettiva riduzione della<br />

distanza tra etica peripatetica ed etica stoica.<br />

- Dicebas: v. Fin. III, 24.<br />

- c) III fase interpretativa [il problema delle 'cose in accordo con la natura']<br />

Tertium autem, omnibus aut maximis rebus iis quae secundum naturam sint<br />

fruentem vivere:<br />

cfr. Luc., 131 = T. 39: Honeste autem vivere fruentem rebus iis quas primas homini<br />

natura conciliet et vetus Academia censuit, ut indicant scripta Polemonis quem<br />

Antiochus probat maxime;<br />

Cfr. Ac.libri I, 22: "Atque haec illa sunt tria genera, quae putant plerique<br />

Peripateticos dicere. Id quidem non falso: est enim haec partitio illorum: illud<br />

imprudenter, si alios esse Academicos, qui tum appellarentur, alios Peripateticos<br />

arbitrantur. Communis haec ratio et utrisque his bonorum finis videbatur, adipisci<br />

quae essent prima natura quaeque ipsa per sese expetenda, aut omnia aut maxima;<br />

ea sunt autem maxima, quae in ipso animo atque in ipsa virtute versantur. Itaque<br />

omnis illa antiqua philosophia sensit in una virtute esse positam beatam vitam, nec<br />

tamen beatissimam, nisi adiungerentur et corporis et cetera, quae supra dicta sunt,<br />

ad virtutis usum idonea."<br />

cfr. Fin. II, 34 = T. 42: Ergo nata est sententia veterum Academicorum et<br />

Peripateticorum, ut finem bonorum dicerent secundum naturam vivere, id est virtute<br />

adhibita frui primis a natura datis.<br />

Cfr. Fin. IV, 25-26: "quem (sc. finis summi boni atque ultimi), si prima vera sunt, ita<br />

constitui necesse est, earum rerum quae sint secundum naturam quam plurima quam<br />

288


maxima adipisci. Hunc igitur finem illi (sc. antiqui) tenuerunt; quodque ego pluribus<br />

verbis, illi brevius, secundum naturam vivere, hoc iis bonorum videbatur extremum".<br />

Maximis: "le più grandi cose secondo la natura" – la formula è ambigua. Maximus,<br />

-a, -um, può indicare il più grande quantitativamente o qualitativamente, il più<br />

grande numero o il più grande per ordine di importanza. Nel contesto della dottrina<br />

delle "cose in accordo con la natura", che si opti per una o l'altra accezione, cambia<br />

radicalmente il senso della formula del telos. Nella prospettiva peripatetica del<br />

corredo dei beni coadiuvanti la virtù (EN I, 1098b13; EE I, 1218b32) evidentemente<br />

si è portati a considerare l'accezione quantitativa: di quanti più beni si può disporre,<br />

tanto più il fine ultimo è raggiunto. Tuttavia, in una prospettiva platonico-academica,<br />

la seconda accezione non è da escludere. Cfr. Il seguito del testo e la cornice<br />

accademica della superiorità gerarchica dell'anima rispetto al corpo. Cfr. me/gista<br />

kai£ kuriw/tata in Archedemo (Clem.Alex. II 21, 129, p. 183 Stählin), dove la<br />

formula stabilisce una gerarchia di valore tra le "cose in accordo con la natura" – solo<br />

le più grandi e importanti contribuiscono al raggiungimento del telos. v. Ac.libri I,<br />

22: "adipisci quae essent prima natura quaeque ipsa per sese expetenda, aut omnia<br />

aut maxima; ea sunt autem maxima, quae in ipso animo atque in ipsa virtute<br />

versantur". Cfr. August., De civ.Dei XIX, 3, 1: "...ut omnibus delectetur atque<br />

perfruatur, magis minusque, ut quaeque inter se maiora atque minora sunt, tamen<br />

omnibus gaudens et quaedam minora, si necessitas postulat, propter maiora vel<br />

adipiscenda vel tenenda contemnes".<br />

- quae secundum naturam sint : cfr. Fin. V, 18: "At vero facere omnia ut<br />

adipiscamur quae secundum naturam sunt etiamsi ea non assequamur, id esse et<br />

honestum et solum per se expetendum et solum bonum Stoici dicunt"; il sintagma<br />

viene impiegato per rendere la posizione stoica nel contesto polemico della<br />

Carneadia divisio. La categoria di 'oggetti' denotata dal sintagma rappresenta<br />

legittimamente ciò su di cui si esercitano sia l'o(rmh/, sia la scelta dell'azione<br />

appropriata (kaqh/kon), come anche la scelta dell'azione giusta (kato/rqwma) nella<br />

dottrina stoica. v. Fin. IV, 39: “Naturalem enim appetitionem, quam vocant o(rmh/n,<br />

itemque officium, ipsam etiam virtutem volunt esse earum rerum quae secundum<br />

naturam sunt.” Si noti la tripartizione del significato di "naturalis" a seconda dei<br />

diversi gradi di razionalità implicati nella 'scelta' degli oggetti 'secondo natura'; cfr.<br />

Fin. III, 23: "sic appetitio animi, quae Graece o(rmh/ vocatur, non ad quodvis genus<br />

289


vitae sed ad quandam formam vivendi videtur data, itemque et ratio et perfecta<br />

ratio".<br />

La stessa espressione trova una collocazione di ampio rilievo nella presentazione<br />

della teoria etica attribuita all'Academia antica, ovvero ai filosofi academici e<br />

peripatetici in egual misura. Su questo tipo di espressioni si verifica dunque nei testi<br />

di Cicerone la convergenza dottrinale tra lo stoicismo e il pensiero degli 'antichi'.<br />

- Adhibentem, servantem, fruentem : la formula del fine esprime un'azione,<br />

resa dal participio presente sia in greco che in latino.<br />

Fruor – "gioire" – cfr. Luc. 131 = T. 39: "honeste...vivere fruentem rebus iis, quas<br />

primas homini natura conciliet"; "Introducebat etiam Carneades, non quo probaret<br />

sed ut opponeret Stoicis, summum bonum esse frui rebus iis, quas prima natura<br />

conciliavisset"; Fin. II, 34 = T. 42: "id est virtute adhibita frui primis a natura datis";<br />

Fin. V, 20: "fruendi rebus iis, quas primas secundum naturam esse diximus,<br />

Carneades defensor disserendi causa fuit"; Tusc. V. 84: "nihil bonum nisi naturae<br />

primis bonis aut omnibus aut maximis frui". cfr. Plut. De comm.not. 1069f = T. 56:<br />

"τὴν ἀρετὴν προσλαβόντες αὐτοῖς ἐνεργοῦσαν οἰκείως χρωμένην ἑκάστῳ<br />

τέλειον ἐκ τούτων καὶ ὁλόκληρον ᾤοντο συμπληροῦν βίον καὶ συμπεραίνειν".<br />

cfr. xra/omai vs fruor - v. Benatouil (2006), pp. 223-231. v. Luc. 131-132 = T. 39 :<br />

fruor.<br />

- hoc non est positum in nostra actione / in nostra potestate = e)f h(mi=n / par'<br />

h(ma=j 539 .<br />

cfr. Fin. IV, 26: "...et quonam modo aut quo loco corpus subito deserveritis<br />

omniaque ea quae, secundum naturam cum sint, absint a nostra potestate, ipsum<br />

denique officium".<br />

Cfr. Epictetus, Ench. I, 1: "Τῶν ὄντων τὰ μέν ἐστιν ἐφ' ἡμῖν, τὰ δὲ οὐκ ἐφ' ἡμῖν.<br />

ἐφ' ἡμῖν μὲν ὑπόληψις, ὁρμή, ὄρεξις, ἔκκλισις καὶ ἑνὶ λόγῳ ὅσα ἡμέτερα ἔργα·<br />

539 La corrispondenza tra la formula latina e la formula greca non è pienamente sicura, v. Gourinat (2007), p.<br />

143-144; Bobzien (1998), p. 280 sqq., Mikeš (2008), p. 193. Un' attestazione dell'espressione greca e)f' h(mi=n<br />

nel linguaggio stoico si trova in Lucianus, Vitarum Auctio, 21: “ou)k e)f' h(mi=n, a)dia/fora ei)=nai sumbe/bhken”.<br />

Per par' h(ma=j, v. il titolo dell'opera di Metrodoro citato da Clemente di Alessandria, Str. II, 21, 131,1, p. 185<br />

Stählin : “Peri£ tou= mei/zona ei)=nai th£n par' h(ma=j ai)ti/an pro£j eu)daimoni/an th=j e)k tw=n pragma/twn”.<br />

290


οὐκ ἐφ' ἡμῖν δὲ τὸ σῶμα, ἡ κτῆσις, δόξαι, ἀρχαὶ καὶ ἑνὶ λόγῳ ὅσα οὐχ ἡμέτερα<br />

ἔργα. καὶ τὰ μὲν ἐφ' ἡμῖν ἐστι φύσει ἐλεύθερα, ἀκώλυτα, ἀπαραπόδιστα, τὰ δὲ<br />

οὐκ ἐφ' ἡμῖν ἀσθενῆ, δοῦλα, κωλυτά, ἀλλότρια". cfr. Scholia in Luciani Vitarum<br />

Auctio 21, p. 127, 10-18 Rabe.<br />

La frase in oggetto intende escludere la validità della terza formula, tuttavia<br />

l'argomentazione che essa riassume, in questa forma così sintetica, rimane incerta.<br />

Nel passaggio successivo di Fin. IV, 26, Cicerone lascia intendere che, in una<br />

determinata prospettiva, gli stoici avrebbero argomentato che le 'cose in accordo con<br />

la natura' non rientrano nell'ambito delle cose su cui l'uomo esercita un potere, non<br />

mancando per altro di sottolineare la problematicità di una tale teoria delle 'cose in<br />

accordo con la natura' rispetto alla teoria dei 'doveri'. Se, in che modo e contro chi,<br />

gli stoici avessero effettivamente impiegato l'argomento 'in nostra potestate', il testo<br />

non lo dice e un certo numero di ipotesi è formulabile.<br />

Sulla falsa riga di un'idea comune, come quella espressa da Aristotele in EN 1095 b<br />

25-26, secondo la quale "il bene è qualcosa di appropriato e difficile da perdere<br />

(ta)gaqo£n d' oi)kei=o/n ti kai£ dusafai/reton ei)=nai)", il fine viene concepito in epoca<br />

ellenistica come dipendente dal soggetto, piuttosto che da circostanze indipendenti da<br />

esso, come qualcosa su cui il soggetto esercita un possesso stabile. Con ciò si<br />

delimita lo spazio per un concetto di 'responsabilità morale', per cui l'uomo è<br />

considerato a pieno titolo l'artefice delle azioni 'buone' che compie. Ma cosa significa<br />

invece che "le cose in accordo con la natura" non dipendono dalle azioni umane?<br />

Almeno due sono le interpretazioni possibili:<br />

a) 'non in nostro potere' può equivalere a 'non volontario': nel caso delle 'cose in<br />

accordo con la natura', il soggetto non sceglierebbe liberamente, ma seguirebbe le<br />

inclinazioni naturali. In questo caso la scelta non sarebbe dipendente dalla rettitudine<br />

della disposizione soggettiva dell'individuo, quindi non sarebbe degna nè di lode nè<br />

di biasimo. In altri termini 'le cose secondo la natura' sarebbero da considerarsi sotto<br />

il dominio delle leggi di natura, regolate pressoché deterministicamente, ovvero<br />

inaccessibili all'esercizio della volontà dell'uomo.<br />

b) 'non in nostro potere' può significare 'fuori dal nostro controllo'. 'Le cose in<br />

accordo con la natura' comprenderebbero alcuni elementi soggetti alla fortuna, su cui<br />

291


l'uomo non ha potere d'intervento. Il loro conseguimento o la loro perdita dunque non<br />

dipenderebbe dal soggetto o dalla sua disposizione interna ma dalle vicissitudini<br />

della vita, sulle quali l'uomo non può esercitare alcun controllo reale.<br />

Pro a) >>> La scelta delle 'cose in accordo con la natura' può essere presentata come<br />

una scelta 'obbligata', dettata dalla natura, v. Tusc. IV, 12: "natura enim omnes ea,<br />

quae bona videntur, sequuntur fugiuntque contraria; quam ob rem simul obiecta<br />

species est cuiuspiam quod bonum videatur, ad id apiscendum impellit ipsa natura".<br />

>>> La formula in nostra potestate viene inoltre impiegata nell'articolazione del<br />

concetto di 'volontario' nel contesto dell'acceso dibattito sul determinismo degli<br />

stoici. L'espressione spicca nei testi ciceroniani laddove si abborda la spinosissima<br />

questione del determinismo in rapporto alla responsabilità dell'uomo rispetto alle sue<br />

azioni. Se le adpetitiones dell'uomo, ovvero le inclinazioni che lo portano all'azione,<br />

siano o meno in nostra potestate, è la questione fondamentale intorno alla quale si<br />

affrontano deterministi e antideterministi nel testo del De Fato. In particolare si può<br />

notare che essa gioca già un ruolo centrale negli argomenti che oppongono Carneade<br />

e Crisippo, e che proprio dal riconoscimento della necessità di un ambito di eventi in<br />

nostra potestate, gli academici e gli stoici trovano una premessa condivisa,<br />

trovandosi così di fatto allineati nel rifiuto di un determinismo assoluto: v. De fato 31<br />

a proposito di Carneade: "Si omnia antecedentibus causis fiunt, omnia naturali<br />

conligatione conserte contexteque fiunt; quod si ita est, omnia necessitas efficit; id si<br />

verum est, nihil est in nostra potestate; est autem aliquid in nostra potestate; at si<br />

omnia fato fiunt, omnia causis antecedentibus fiunt; non igitur fato fiunt,<br />

quaecumque fiunt "; per Crisippo v. De fato 41: "Si omnia fato fiant, sequi illud<br />

quidem, ut omnia causis fiant antepositis, verum non principalibus causis et<br />

perfectis, sed adiuvantibus et proximis. Quae si ipsae non sunt in nostra potestate,<br />

non sequitur ut ne adpetitus quidem sit in nostra potestate" 540 . Il dibattito antico, che<br />

vede Carneade e Crisippo confrontarsi sui risvolti che il determinismo può avere<br />

sulla teoria dell'azione e dunque sul discorso etico in generale, arriva, nella<br />

presentazione fattane da Cicerone, a riconoscere alcuni punti fondamentali, come per<br />

esempio che se niente è in nostra potestate, allora tutto il sistema di lode o biasimo<br />

non ha più alcun senso, con il conseguente sgretolarsi dell'intero sistema dei valori<br />

540 La particolarità dell'operazione filosofica di Crisippo starebbe proprio nell'aver argomentato a favore della<br />

compatibilità tra responsabilità e determinismo, v. Aulus Gellius, Noct.att. VII, 2 = SVF II, 1000 = LS (1987)<br />

62 D. v. Bobzien (1998), pp. 234 ss.<br />

292


umani (v. De fato 40: "Si omnia fato fiunt, omnia fiunt causa antecedente; et, si<br />

adpetitus, illa etiam, quae adpetitum secuntur, ergo etiam adsensiones; at, si causa<br />

adpetitus non est sita in nobis, ne ipse quidem adpetitus est in nostra potestate; quod<br />

si ita est, ne illa quidem, quae adpetitu efficiuntur, sunt sita in nobis; non sunt igitur<br />

neque adsensiones neque actiones in nostra potestate. Ex quo efficitur ut nec<br />

laudationes iusta sint, nec vituperationes, nec honores, nec supplicia"; cfr. Luc. 39<br />

dove la necessità etica di un ambito 'in nostra potestate' diventa un argomento contro<br />

lo scetticismo academico: "Ubi igitur virtus, si nihil situm est in ipsis nobis? Maxime<br />

autem absurdum vitia in ipsorum esse potestate neque peccare quemquam nisi<br />

adsensione, hoc idem in virtute non esse, cuius omnis constantia et firmitas ex is<br />

rebus constat quibus adsensa est et quas adprobavit"). Il baluardo della volontarietà<br />

dell'azione, ovvero di ciò che è in nostra potestate, viene allora riconosciuto proprio<br />

nei movimenti (spontanei) dell'anima dell'uomo, per cui la filosofia stoica elabora<br />

una sofisticata articolazione di compromesso tra naturalità e volontarietà: v. De fato<br />

25: "Similiter ad animorum motus voluntarios non est requirenda externa causa:<br />

motus enim voluntarius eam naturam in se ipse continet, ut sit in nostra potestate<br />

nobisque pareat, nec id sine causa, eius rei enim causa ipsa natura est" 541 .<br />

Contra a) >>> Se, da una prospettiva compatibile con lo stoicismo, 'le cose in<br />

accordo con la natura' fossero da considerarsi non in nostra potestate, nel senso di<br />

non volontarie, come potrebbero allora giocare un ruolo fondamentale nella teoria<br />

delle azioni appropriate ed essere il materiale della virtù (Plut. De comm. not. 1069 E<br />

= T. 56; SVF III. 491; LS 59A) ?<br />

>>> Come potevano gli stoici far valere la predeterminatezza delle 'cose in accordo<br />

con la natura' e allo stesso tempo, per sfuggire alle problematiche sollevate da un<br />

determinismo assoluto, argomentare a favore della compatibilità tra ciò che è 'per<br />

natura' e ciò che è 'volontario'?<br />

Pro b) >>> Nel contesto dell'etica stoica, in particolare nella definizione di alcune<br />

virtù, si trova attestato che il contrasto con la fortuna definisce l'ambito della virtù<br />

541 lo stoicismo elabora una sofisticata articolazione tra volontarietà della sugkata/qesij e determinatezza della<br />

sugkata/qesij. v. Luc. 37-39, dove l'adsensio è detta “in nostra potestate”, ma la sua dinamica viene spiegata<br />

attraverso l'immagine meccanica della bilancia: “ut enim necesse est lancem in libra ponderibus impositis<br />

deprimi, sic animum perspicuis cedere: nam quo modo non potest animal ullum non adpetere id quod<br />

accomodatum ad naturam adpareat (Graeci id appellant), sic non potest obiectam rem perspicuam non<br />

adprobare”. v. Lévy (1992a), pp.248-254; Mikeš (2008).<br />

293


come un terreno saldo 'in potestate sapientis' v. Fin. IV, 17 : "Ex quo magnitudo<br />

quoque animi exsistebat, qua facile posset repugnari obsistique fortunae, quod<br />

maximae res essent in potestate sapientis", dove nel contesto dell'esposizione dei<br />

fondamenti naturalistici dell'etica (constitutio prima naturae: Fin. IV 15, v. T. 44)<br />

degli antichi academici e peripatetici, la megaloyuxi/a, inquadrata nel percorso di<br />

naturale perfezionamento delle virtù dell'uomo, viene presentata come la capacità di<br />

affrontare le vicissitudini della fortuna, in conseguenza del fatto che la sapientia del<br />

saggio coincide con una potestas in rapporto alle cose più importanti. Nel medesimo<br />

contesto la sapientia viene presentata come "totius hominis custodem et<br />

procuratricem", "naturae comes et adiutrix, hoc sapientiae munus esse dicebant, ut,<br />

cum eum tueretur qui constaret ex animo et corpore, in utroque iuvaret eum ac<br />

contineret". Se ne deduce che la potestas esercitata dalla sapientia si rivolge<br />

primariamente alla salvaguardia dell'anima e del corpo, e che, una volta acquisita,<br />

essa limita fortemente l'impatto che gli avvenimenti fortuiti possono avere sulla vita<br />

dell'uomo. È probabilmente legittimo allora dedurre che in questo tipo di contesto ciò<br />

che non è in nostra potestate è quell'ambito rispetto al quale un agente rimane<br />

esposto all'influenza della fortuna.<br />

>>> Nei testi ciceroniani diventa chiaro che, da una prospettiva che abbia esaminato<br />

in profondità gli argomenti stoici, rifiutarsi di dare importanza a certe cose come la<br />

forza, la salute, la ricchezza, l'onore, corrisponde a mettere la propria felicità<br />

perfettamente al riparo dagli 'assalti della fortuna' e a fornire una definizione del fine<br />

dove niente sfugge alla potestas del soggetto: Cfr. Tusc. V, 30 = T. 52: Non igitur<br />

facile concedo neque Bruto meo neque communibus magistris nec veteribus illis,<br />

Aristoteli, Speusippo, Xenocrati, Polemoni ut, cum ea quae supra enumerati in mali<br />

numerent, iidem dicant semper beatum esse sapientem. Quos si titulis his delectat<br />

insignis et pulcher, Pythagora, Socrate, Platone dignissimus, inducant animum illa<br />

quorum splendore capiuntur, vires, valetudinem, pulchritudinem, divitias, honores,<br />

opes contemnere eaque quae his contraria sunt pro nihilo ducere; tum poterunt<br />

clarissima voce profiteri se neque fortunae impetu nec multitudinis opinione nec<br />

dolore nec paupertate terreri, omniaque sibi in sese esse posita, nec esse quicquam<br />

extra suam potestatem quod ducant in bonis.<br />

>>> in nostra potestate definisce un rapporto di 'controllo' anche rispetto alle<br />

passioni: v. Tusc. IV, 14: "sed omnes perturbationes iudicio censent fieri et opinione;<br />

294


itaque eas definiunt pressius, ut intelligatur non modo quam vitiosae, sed etiam<br />

quam in nostra sint potestate".<br />

Sembrerebbe in conclusione plausibile che l'espressione, impiegata nel dibattito sul<br />

determinismo, per indicare la necessità di uno spazio di responsabilità per l'uomo,<br />

venga poi rifunzionalizzata nei dibattiti più propriamente etici e in contesti polemici<br />

diversi. La questione della fortuna, come noto, opponeva infatti stoici e peripatetici<br />

nell'ambito più ampio della discussione dell'apporto dei beni esterni alla felicità. La<br />

formula riassumerebbe allora un'argomentazione stoica da inquadrare in origine nella<br />

prospettiva del dibattito sull'autosufficienza della virtù. Dal punto di vista della<br />

scuola peripatetica i beni che contribuiscono alla felicità umana sono classificabili in<br />

tre categorie: i beni dell'anima, i beni del corpo e i beni esterni (v. Alessandro<br />

d'Afrodisia, De anima libri mantissa, 159-168, per una visione d'insieme<br />

sull'arsenale argomentativo peripatetico in polemica con lo stoicismo). In particolare<br />

sui beni esterni, potenzialmente sottoposti al regime del caso e della fortuna, la<br />

dottrina peripatetica si è scontrata con quella stoica.<br />

Cicerone qui alluderebbe ad una strategia argomentativa stoica consistente nel dire<br />

che, accordando ai beni esterni un valore ai fini del conseguimento della felicità, i<br />

peripatetici sottraggono la felicità stessa dall'ambito di ciò che l'agire umano può<br />

ottenere. La formula finisce allora per spostare il valore etico di una azione<br />

all'interno del soggetto, portando l'attenzione sulle sue capacità o disposizioni stabili,<br />

piuttosto che sull'ambito oggettivo dell'agire etico, ovvero sulla disposizione del<br />

soggetto a fare qualcosa, piuttosto che sul contenuto oggettivo di un'azione. Ciò<br />

rispecchia la peculiare prospettiva della scuola stoica, la quale sembra coincidere con<br />

l'esaltazione spinta al paradosso di un criterio etico soggettivo (cfr. Long (1988b), p.<br />

80), sopratutto qualora la si metta a confronto con la propensione peripatetica per<br />

l'ambito oggettivo del comportamento morale dell'uomo.<br />

Si noterà allora che nell'impiego di una tale strategia argomentativa applicata alle<br />

'cose in accordo con la natura' si procede ad un'equiparazione formale tra beni esterni<br />

e ea quae secundum naturam sunt (ta£ kata£ fu/sin). Tuttavia alcuni dubbi possono<br />

essere sollevati sulla legittimità di una tale equiparazione. In base ad essa, ne<br />

consegue che 'le cose in accordo con la natura' sono oggetti di un appetito naturale,<br />

su cui l'uomo non esercita un pieno controllo, ma che si trovano esposte all'influsso<br />

295


degli avvenimenti esterni, come ad esempio l'integrità delle membra del corpo, che<br />

può essere compromessa da un puro accidente. Tuttavia risulta chiaro come, almeno<br />

in ambito stoico, l'elemento centrale nel discorso sulle 'cose in accordo con la natura'<br />

sia rappresentato dalle disposizioni interne al soggetto, le inclinazioni o tendenze<br />

naturali, piuttosto che i beni oggettivi che la disposizione interna persegue. Un'azione<br />

o un oggetto si dice 'secondo la natura' non di per sé, ma verosimilmente se è stato<br />

scelto o selezionato in base ad un'inclinazione naturale. Il termine viene invece<br />

impiegato in questo contesto per designare il ruolo che gli stessi oggetti che gli stoici<br />

qualificavano come kata£ fu/sin hanno però nell'ambito di una teoria etica<br />

caratterizzata da un approccio diametralmente opposto rispetto a quello stoico, per<br />

designare cioè il ruolo dei beni ta£ swmatika£ e ta£ ekto/j per esempio nell'etica<br />

peripatetica. Si assiste dunque in questo contesto a un processo di mutuazione<br />

terminologica non senza conseguenze dal punto di vista filosofico. Il linguaggio di<br />

due istanze antagoniste risulta uniformizzato, ma ciò non toglie che lo stesso<br />

concetto rivesta all'interno delle due teorie etiche funzioni molto diverse tra loro.<br />

v. Cic., Fin. III, 62 – 68: L'influsso che il piano naturale esercita sulle azioni<br />

umane, il quale dimostra la naturale relazione di accomodamento e appropriatezza<br />

dell'uomo a se stesso, si manifesta al livello della propensione (66: propensi sumus),<br />

della volontà (62: et procreari vellet; 65: ut prodesse velimus quam plurimus; 68: ut<br />

sapiens velit gerere etc.), dell'amore (62: amentur; diligi procreatos) portato verso<br />

certi oggetti. Ai fini del discorso a fondamento dell'etica stoica il piano oggettivo non<br />

trova nessuno spazio, se non come teatro della manifestazione di una disposizione<br />

soggettiva e in accordo con la natura.<br />

Epictetus, Diss. II, 6, 9 (SVF III, 191 = LS 58 J)<br />

διὰ τοῦτο καλῶς ὁ Χρύσιππος λέγει ὅτι ‘μέχρις ἂν ἄδηλά μοι ᾖ τὰ ἑξῆς, ἀεὶ τῶν<br />

εὐφυεστέρων ἔχομαι πρὸς τὸ τυγχάνειν τῶν κατὰ φύσιν· αὐτὸς γάρ μ' ὁ θεὸς<br />

ἐποίησεν τούτων ἐκλεκτικόν.<br />

D.L. VII, 86 (57 LS; SVF III 178): "Ma, poiché agli animali razionali è stata<br />

concessa la ragione, per una più perfetta dignità, per questi, giustamente, il vivere<br />

secondo natura coincide con il vivere secondo ragione, infatti la ragione si<br />

sovrappone in qualità di artefice all'istinto (tou= de£ lo/gou toi=j logikoi=j kata£<br />

teleiote/ran prostasi/an dedome/nou, to£ kata£ lo/gon zh=n o)rqw=j gi/nesqai<br />

296


toij kata£ fu/sin: texni/thj ga£r ou)=toj e(pigi/netai th=j o(rmh=j)." Dal<br />

passo di Diogene Laerzio si evince che ciò che contraddistingue l'azione in accordo<br />

con la natura dell'uomo in ambito stoico è la sua disposizione razionale, mentre il<br />

contenuto oggettivo dell'azione è assolutamente irrilevante.<br />

È difficile dunque considerare corretta la riduzione delle 'cose in accordo con la<br />

natura' a beni oggettivi, quando il loro valore è determinato solo dalla qualità di<br />

un'azione ovvero dalla disposizione interna dell'agente. Questo tipo di riduzione è<br />

verosimilmente funzionale alla presentazione di una posizione esterna allo stoicismo,<br />

come quella ad esempio di Antioco d'Ascalona. Ad essa dunque è possibile che<br />

faccia riferimento la terza posizione presentata nel frammento in oggetto.<br />

Coerentemente, allora, da una prospettiva che fa tesoro della riflessione stoica,<br />

contro Antioco viene riproposto l'argomento che gli stoici impiegavano contro i<br />

peripatetici: il dominio dell'etica deve coincidere con il dominio delle cose su cui<br />

l'uomo è responsabile, ovvero sulle quali può esercitare un controllo.<br />

Ad ampliare lo scenario qui proposto si consideri anche che la riduzione delle 'cose<br />

in accordo con la natura' a beni oggettivi può essere stata agevolata dalle<br />

conseguenze del complesso dibattito intorno alle cose 'indifferenti' (a)dia/fora). Già<br />

Aristone di Chio aveva criticato la distinzione già zenoniana, in base alla quale<br />

alcune azioni si dicono preferibili (prohgme/na), rispetto ad altre, anche se sempre<br />

'indifferenti' rispetto al conseguimento del fine, il quale invece dipende dalla sola<br />

virtù. La distinzione zenoniana avrebbe tentato di conciliare il criterio della virtù con<br />

la necessità di un orientamento pratico della vita dell'uomo e il discepolo<br />

'intransigente' si sarebbe invece opposto, presentando un etica della assoluta<br />

'indifferenza' (v. Ioppolo (1980), in part. p. 152 ss.). Successivamente i filosofi<br />

scettici dell'Academia avrebbero puntato il dito proprio su questo aspetto della teoria<br />

stoica per metterne in luce le contraddizioni interne. Testi che risentono certamente<br />

dell'influsso di questo intricato dibattito presentano talvolta le 'cose in accordo con la<br />

natura' come un sottoinsieme delle cose 'indifferenti'. In Giovanni Stobeo figura<br />

anche un breve elenco : (Anthol. II, 7, 7 a, p. 79 Wachsmuth – Dox. B) "Alcuni<br />

indifferenti sono in accordo con la natura, altri sono contrari alla natura, e altri<br />

nessuno dei due. Le seguenti sono in accordo con la natura: salute, forza, sensi<br />

integri e simili...". Nella polemica l'attenzione si sposta sugli oggetti e sulla<br />

possibilità di determinarne il valore oggettivo. La reticenza stoica ad attribuire lo<br />

297


statuto di 'bene' a qualunque cosa esuli dalla disposizione stabile della virtù genera<br />

una teoria complessa del valore di una cosa (Stob., Ecl. II, 7, 7 f, pp. 83, 10 – 84, 2<br />

Wachsmuth = SVF III, 124; LS 58D), per cui le 'cose in accordo con la natura' hanno<br />

un valore solo nella misura in cui l'uomo è portato a sceglierle, ovvero solo perché,<br />

tenendo conto delle circostanze, vengono selezionate le cose secondo la natura<br />

piuttosto che i loro contari. Un residuo della centralità della disposizione del soggetto<br />

in questo tipo di distinzioni si può scorgere nella menzione dell' 'inclinazione' verso<br />

le 'cose che sono in accordo con la natura'. Tuttavia non è sorprendente che una volta<br />

portato il discorso sul piano oggettivo, fosse possibile per gli avversari puntare il dito<br />

sull'artificiosità delle distinzioni stoiche (v. Fin. IV, 20 : "quid enim perversius, quid<br />

intolerabilius, quid stultius quam bonam valetudinem, quam dolorum omnium<br />

vacuitatem, quam integritatem oculorum reliquorumque sensuum ponere in bonis<br />

potius, quam dicerent nihil omnino inter eas res iisque contrarias interesse? Ea enim<br />

omnia quae illi bona dicerent, praeposita esse, non bona, itemque illa quae in<br />

corpore excellerent, stulte antiquos dixisse per se esse expetenda; sumenda potius<br />

quam expetenda").<br />

- completur : v. T. 56 = Plut. De comm.not. 1069 f 6 : sumplhrou=n. v.<br />

Stobaeus, Anth. II, 7, 3 b, p. 46 Wachsmuth (Dox. A) = Kritolaus fr. 19 Wehrli: "to£<br />

e)k pa/ntwn tw=n a)gaqw=n sumpeplhrwme/non"), verbo tecnico della concezione<br />

peripatetica e 'cumulativa' dei beni necessari alla piena felicità. τελειοῦν : Stobaeus,<br />

Anth. II, 7, 4 a (Dox. A) = Straton fr. 134W : "καὶ καθάπερ Στράτων, τὸ τελειοῦν<br />

τὴν δύναμιν, δι' ἣν τῆς ἐνεργείας τυγχάνομεν (sc. τὸ ἀγαθόν ἐστιν)”. Da cui si<br />

evince che durante lo scolarcato di Stratone il discorso etico peripatetico sentì<br />

l'esigenza di precisare la propria posizione attraverso un lessico che rimandava ad<br />

un'idea di “completezza della potenzialità”.<br />

- quia coniuncta ei virtus est : cfr. Fin. II, 42: "cum honestate coniungerent".<br />

L'interpretazione finale della formula risente l'influsso della presentazione<br />

schematica della divisio etica, la quale si avvale della distinzione opinioni semplici –<br />

opinioni composte.<br />

- in sapientem solum cadit : EN 1113 a 25-26, 29-33; 1166 a 12-13; 1176 a 16-<br />

17. Annas (2008), p. 16-17, rammenta come la figura del saggio affiori dai testi<br />

aristotelici per quanto non ancora come un tema a se stante, come invece succede<br />

298


B)<br />

nelle riflessioni etiche del periodo ellenistico. La figura del saggio e il modo in cui<br />

gli stoici ne fecero un paradigma teorico prima ancora che un esempio concreto<br />

rappresenta uno degli aspetti meglio conosciuti dell'etica stoica, poiché la<br />

paradossalità di tale figura è stata spesso impiegata in ambito polemico, nel tentativo<br />

di mostrare i risvolti per così dire ridicoli della teoria stoica tout court.<br />

- isque finis bonorum = ea vita quae ex summo bono degitur, quia coniuncta<br />

ei virtus est.<br />

- ut ab ipsis Stoicis scriptum videmus : si fa qui verosimilmente riferimento a<br />

una dossografia di matrice stoica che riassume le posizioni delle varie scuole<br />

filosofiche 'avversarie'. Aristotele e Senocrate sarebbero stati creditati di una formula<br />

del fine che promuove la fruizione delle cose che sono in accordo con la natura in<br />

connessione con la virtù.<br />

- a Xenocrate atque ab Aristotele constitutus est : per un attestazione del ruolo<br />

della virtù nell'etica aristotelica v. e.g. Arist., EE 1219a37; 1234a29; EN 1099b14-19;<br />

1101a14-17; per Senocrate v. Clem. Alex. Strom. II 22, fr. 232 Isnardi Parente, v. T.<br />

58 : "Ξενοκράτης τε ὁ Καλχηδόνιος τὴν εὐδαιμονίαν ἀποδίδωσι κτῆσιν τῆς<br />

οἰκείας ἀρετῆς καὶ τῆς ὑπηρετικῆς αὐτῇ δυνάμεως. εἶτα ὡς μὲν ἐν ᾧ γίνεται,<br />

φαίνεται λέγων τὴν ψυχήν· ὡς δ' ὑφ' ὧν, τὰς ἀρετάς· ὡς δ' ἐξ ὧν ὡς μερῶν, τὰς<br />

καλὰς πράξεις καὶ τὰς σπουδαίας ἕξεις τε καὶ διαθέσεις καὶ κινήσεις καὶ<br />

σχέσεις· ὡς δ' ὧν οὐκ ἄνευ, τὰ σωματικὰ καὶ τὰ ἐκτός.".<br />

La problematicità del concetto di "vita in accordo con la natura" viene qui mostrata attraverso<br />

una presentazione di tre diverse interpretazioni della formula del fine, sorte, apparentemente,<br />

all'interno della stessa scuola stoica. L'ordine di presentazione rispetta verosimilmente l'ordine<br />

cronologico delle varie strategie esplicative. La prima 'significazione' rispecchia l'evoluzione<br />

del dibattito intorno alla formula del telos risalente a Zenone, Cleante e Crisippo. La seconda<br />

presenta invece punti di contatto con elementi delle riflessioni di Panezio e Archedemo, già<br />

eredi del dibattito che aveva opposto Diogene di Babilonia e Antipatro di Tarso a Carneade e<br />

alla scuola academica. Per quanto riguarda la terza 'significazione' si è portati a fare<br />

riferimento ad una fase avanzata del dibattito intorno alle 'cose in accordo con la natura', in<br />

299


cui Antioco si inserisce per tracciare un terreno di incontro tra le posizioni academico-<br />

peripatetiche e lo stoicismo. Si potrebbe dunque considerare il passo come testimonianza di<br />

una risposta di matrice stoica all'intervento teorico e interpretativo di Antioco. Tuttavia risulta<br />

chiaro che l'intento primario del testo è quello di fornire una visione sintetica delle evoluzioni<br />

della formula del telos, una sorta di diaphonia interna alla scuola stoica 542 sintomo di fragilità<br />

teorica e base d'appoggio per un rilancio della discussione etica. La posizione influenzata da<br />

Antioco viene allora a prospettare un'ulteriore interpretazione, ovvero quella secondo la quale<br />

la formula del telos non può che presentarsi come composta, equiparabile formalmente e<br />

sostanzialmente alla posizione 'academico'-peripatetica. Niente assicura che lo stoicismo<br />

abbia mai accolto una tale prospettiva. L'apertura al platonismo di Panezio e Posidonio e la<br />

loro rivalutazione critica di alcune posizioni interne alla scuola stoica rappresenta<br />

verosimilmente un precedente altamente rilevante per l'operazione ermeneutica di Antioco,<br />

senza che per questo si debba porre un'assoluta equivalenza tra i moventi e gli esiti dei vari<br />

approcci al problema delle 'cose in accordo con la natura'.<br />

A partire dalla seconda 'significazione' si comprende, in conclusione, come la problematicità<br />

della formula secundum natura vivere sia data dalla relazione con il concetto di "cose in<br />

accordo con la natura" – ta£ kata£ fu/sin pro£j to£ zh=n kata£ fu/sin - (Stob. Ecl. II, 7. 7b, p.<br />

80 Wachsmuth; Plut., De comm.not. 1060e). Sulla possibilità di accomunare sotto questa<br />

formula Polemone e gli Stoici si appoggia tutta la storiografia ermeneutica di Antioco.<br />

Nondimeno il significato della formula, oltre a un chiaro rimando a un assunto naturalistico<br />

forte, ovvero al fatto che il valore delle azioni umani possa essere determinato in relazione a<br />

una concezione olistica della natura, rimane oltremodo indeterminato.<br />

L'originalità del discorso ciceroniano sta, in ultima istanza, proprio nella capacità di porsi<br />

all'esterno rispetto alle molteplici interpretazioni, al fine di mostrare nel modo più esplicito<br />

possibile intorno a quale problematiche teoriche esse proliferano.<br />

542 Le divergenze interne alla scuola stoica vengono impiegate da Cicerone anche in altri contesti (v. Luc. 126 :<br />

“an Stoicis ipsis inter se disceptare, cum his non licebit? ...”), da una parte per fragilizzare la pretesa<br />

veridicità delle sue dottrine, ma dall'altra anche per giustificare la sua reticenza profonda nell'abbracciare una<br />

o l'altra delle posizioni dogmatiche in conflitto reciproco.<br />

300


T. 45 : CICERO, DE FINIBUS BONORUM ET MALORUM IV, 16, 45.<br />

Mihi autem aequius videbatur Zenonem cum Polemone disceptantem, a quo quae essent<br />

principia naturae acceperat, a communibus initiis progredientem videre, ubi primum<br />

insisteret, et unde causa controversiae nasceretur, non stantem cum iis qui ne dicerent<br />

quidem sua summa bona esse a natura profecta, uti iisdem argumentis, quibus illi<br />

uterentur, iisdemque sententiis.<br />

Polemo fr. 128 Gigante<br />

2 acceperat SP : accederat eR : accederet f || 3 dicerent : discerent PS || 4 a S : om. cett. codd. || uti Man. : ut w.<br />

Traduzione<br />

Mi sarebbe sembrato invece più giusto che Zenone, discutendo con Polemone, dal quale<br />

apprese quali erano i principi della natura, visto che procedeva a partire da principi<br />

comuni, riflettesse sul punto in cui in primo luogo si arrestava e da dove sorgeva un<br />

motivo di controversia, e non che, allineandosi con quelli che non dicono neppure che il<br />

loro sommo bene ha origine dalla natura, impiegasse gli stessi argomenti e le stesse<br />

teorie che impiegano loro.<br />

Contesto<br />

Avvalendosi della prospettiva storiografica delineata in T. 44 = Fin. IV, 14-15, fortemente<br />

influenzata dall'operazione ermeneutica di Antioco d'Ascalona, Cicerone discute le<br />

innovazioni dottrinali dello stoicismo rispetto alla tradizione precedente. Con sarcasmo<br />

retorico riduce l'originalità della teoria stoica a una sofisticazione terminologica: ciò che<br />

comunemente viene considerato un bene, come la salute, l'assenza di dolore e l'integrità delle<br />

funzioni del corpo, viene considerato dagli stoici 'preferibile', ma non un bene (Fin. IV, 20:<br />

"ea enim omnia quae illi bona dicerent, praeposita esse, non bona"; "sumenda potius quam<br />

expetenda"). Tutta la teoria stoica che consegue dall'aver posto la virtù come bene unico viene<br />

dunque ridotta a un 'cambiare i nomi delle cose' (Fin. IV, 21: "nomina rerum commutantem";<br />

"eandem vim tribueret alia nomina imponentem, verba modo mutantem"; cfr. Fin. III, 10:<br />

(Cicero vs Cato) "Vide, ne magis, inquam, tuum fuerit, cum re idem tibi quod mihi videtur,<br />

301


non nova te rebus nomina imponere. Ratio enim nostra consentit, pugnat oratio"). Segue una<br />

critica incalzante alla concezione stoica del sommo bene: l'accusa mossa da Cicerone è quella<br />

di 'inconsequentia', di non rispettare le premesse del discorso etico. Posto che lo stoicismo è<br />

d'accordo sul principio della 'commendatio naturae', il quale, nell'esposizione ciceroniana di<br />

Fin. IV, equivale grossomodo a un istinto di auto-conservazione, porre il 'vivere moralmente'<br />

(honeste vivere) come unico fine della vita dell'uomo, equivale a un rispetto solo parziale<br />

delle premesse condivise. Il 'vivere moralmente' equivarrebbe infatti a prendere in<br />

considerazione solo l'anima, ovvero una sola delle due componenti fondamentali dell'uomo<br />

(Fin. IV, 28: "summum bonum id constituit, non ut excellere animus, sed ut nihil esse praeter<br />

animum videretur"). È evidente che la critica di Cicerone dà per condivisa una concezione<br />

antropologica bipartita (Fin. IV, 16: "Idemque diviserunt naturam hominis in animum et<br />

corpus"), dove il corpo e le sue prerogative entrano in dialogo con quelle dell'anima (Fin. IV,<br />

30: "bona autem corporis...habent...accessionem dignam"). In quest'ultimo passaggio<br />

dell'argomentazione del IV libro del De finibus si può riconoscere il perno della riflessione di<br />

Antioco d'Ascalona 543 , il quale ritiene di poter ritrovare nella tradizione vetero academica una<br />

valida alternativa all'intellettualismo stoico 544 .<br />

Commento<br />

A)<br />

– a quo quae essent principia naturae acceperat: ai( prw=tai a)rxai/ ; v. Plut.,<br />

De amore prolis 495c: "...γενναῖα καὶ καλὰ καὶ φερέκαρπα τούτων σπέρματα<br />

παρέσχε τὴν πρὸς τὰ ἔγγονα χάριν καὶ ἀγάπησιν, ἀκολουθοῦσαν ταῖς πρώταις<br />

ἀρχαῖς". cfr. Galenus, DePlac.Hipp.et Plat. V, 478, p. 334 De Lacy = fr. 151<br />

Edelstein-Kidd: « kai£ Zh/nwn, ei) de£ tai=j tou= Pla/twnoj a)rxai=j e(/poito<br />

Klea/nqei te kai£ Poseidwni/% paraplhsi/wj...».<br />

543 Cfr. August., DeCiv.Dei XIX, 3.1: « primum, quia summum bonum in philosophia non arboris, non pecoris,<br />

non Dei, sed hominis quaeritur, quid sit ipse homo, quaerendum putat. Sentit quippe in eius natura duo esse<br />

quaedam, corpus et animam, (…); an vero nec anima sola nec solum corpus, sed simul utrumque sit homo ,<br />

(...) ».<br />

544 In base a questo aspetto del pensiero di Antioco, Dörrie (1987), p. 319-320, ritiene di poter contestare la<br />

legittimità dell'operazione intellettuale dell'Ascalonita. Sulla base di Alc. I 129e-130c ; Phaedo 64-65; il<br />

platonismo si caratterizza come una forma di intellettualismo, per cui l'uomo è la sua anima. Sarebbe dunque<br />

legittimo aspettarsi che la tradizione academica posteriore, da Speusippo a Polemone, sia rimasta fedele a<br />

quasto 'caposaldo' e, di conseguenza, sarebbe legittimo ritenere la concezione antropologica di Antioco priva<br />

di fondamento rispetto alla tradizione da lui invocata ; cfr. Prost (2001), p. 249, il quale ritiene che il monito<br />

socratico e platonico del « conosci te stesso », venga di fatto adottato come premessa del discorso etico da<br />

Antioco, per quanto gli esiti della sua applicazione entrino in contrasto con il contenuto di alcuni passi<br />

platonici : « la référence platonicienne ne suffit donc pas à fonder le naturalisme des Antiqui ».<br />

302


cfr. Fin. IV, 32: "natura suae primae institutionis"; Fin. IV, 34: "Quid dubitas igitur<br />

mutare principia naturae?" - Fin. III, 17: "in principiis autem naturalibus..."; Fin.<br />

III, 20: "ab his principiis naturae discessimus, quibus congruere debent quae<br />

sequuntur". Fin. V, 72: "principia naturae". Cfr. T. 56 = Plut., De comm.not. 1069e-<br />

1070b:"τίνας δὲ Ξενοκράτης καὶ Πολέμων λαμβάνουσιν ἀρχάς".<br />

Fin. V, 19: "Ex eo autem quod statuerit esse, quo primum natura (= punto di<br />

partenza / primo istinto naturale / primo principio d'azione desunto dalla natura)<br />

moveatur, exsistet recti etiam ratio atque honesti, quae cum uno aliquo ex tribus illis<br />

congruere possit..."<br />

Al centro della discussione vengono posti i 'principi naturali' del discorso etico. La<br />

natura fornisce gli a)rxai/ delle principali teorie etiche del periodo ellenistico nella<br />

duplice accezione di 'inizi del discorso' e di 'principi normativi'. Sembrerebbe allora<br />

che ciò che si può osservare in natura (contrapposto alle forme alterate dalla società)<br />

diventi la base empirica di una teoria etica, come sembrerebbe confermato dall'uso<br />

del comportamento animale o dei bambini come esempi probativi. Di fatto ci si<br />

accorge però che alla base del discorso etico epicureo e stoico non si trova una reale<br />

osservazione empirica dei fenomeni naturali, quanto piuttosto la concezione comune<br />

generalmente condivisa di ciò che è naturale e ciò che non lo è (v. Brunschwig<br />

(1986), pp. 113-144 ), quando non si tratta invece di un'elaborata concezione<br />

filosofica del meccanismo teleologico della natura. Per quanto riguarda invece<br />

l'impostazione del discorso etico di matrice peripatetica, l'idea di una base<br />

d'osservazione empirica del comportamento umano e animale come punto di<br />

partenza del discorso etico potrebbe essere più calzante, per quanto sia estremamente<br />

difficile determinare quando questo tipo di impostazione sia stata per la prima volta<br />

propriamente adottata.<br />

In generale sembrerebbe corretto affermare che nel periodo ellenistico un particolare<br />

rilievo viene dato al 'discorso degli inizi', ovvero al discorso intorno ai primi istinti<br />

naturali che si manifestano nell'uomo. Su questo punto è ben documentato il dibattito<br />

tra epicureismo e stoicismo. L'intera teoria stoica dell' oi)kei/wsij può essere vista in<br />

controluce come una risposta alla teoria epicurea del piacere come primo oggetto di<br />

appetizione e del dolore come primo oggetto di repulsione: gli stoici intenderebbero<br />

303


allora fornire una teoria alternativa dei primi istinti naturali sulla base di un principio<br />

di auto-percezione e auto-conservazione garantito dal funzionamento stesso della<br />

natura. Il nascente stoicismo poteva senza ombra di dubbio trovare nella tradizione<br />

vetero academica e peripatetica un valido appoggio teorico per l'elaborazione di<br />

un'alternativa all'edonismo. Cicerone tende tuttavia in questo contesto ad enfatizzare<br />

strategicamente questo aspetto, nell'intento di contestare poi, in un secondo tempo,<br />

l'originalità e la coerenza della teoria stoica. Già Carneade aveva individuato nel<br />

rapporto con i principi naturalistici del discorso etico il punto debole delle teoria<br />

etica stoica come si evince dalla struttura della Carneadia divisio di Fin. V. Il passo<br />

ulteriore compiuto da Cicerone, verosimilmente ispirato da Antioco, è quello di<br />

associare all'accusa di inconsequentia quella di mancata fedeltà rispetto ai maestri<br />

predecessori.<br />

Al di là della tattica argomentativa di Cicerone, è utile ricordare che la discussione si<br />

svolge sul piano generale del fondamento naturalistico dell'etica, il che non comporta<br />

nessuna valutazione sulla paternità originale di alcuna teoria specifica, come ad<br />

esempio quella dell'oi)kei/wsij stoica.<br />

– a communibus initiis progredientem videre: cfr. Fin. IV, 17: "Atque ab his<br />

initiis profecti omnium virtutum et originem et progressionem persecuti sunt"; Fin.<br />

IV, 18: "his initiis et (...) seminibus a natura datis temperantia, modestia, iustitia et<br />

omnis honestas perfecte absoluta est". Il riferimento è alle cosidette 'premesse<br />

naturalistiche' del discorso etico. Nel noto passo di Fin. IV, 16-18, Cicerone espone<br />

queste premesse attribuendole al pensiero vetero-academico sotto l'egida autoritativa<br />

di Senocrate e Aristotele, v. T. 44 = Fin. IV, 14-15: "a Xenocrate atque ab Aristotele<br />

constitutus est. Itaque ab iis constitutio illa prima natura (...) his prope verbis<br />

exponitur". Il discorso fa evidentemente da controcanto al discorso di Catone sul<br />

rapporto tra il fine ultimo dell'agire umano e i fondamenti naturali del discorso etico<br />

(Fin. III 16-26). I principi naturali del discorso etico attribuiti al gruppo dei 'veteres'<br />

possono essere riassunti in cinque punti fondamentali 545 :<br />

1) Commendatio naturae: "Omnis natura vult esse conservatrix sui, ut et salva sit et<br />

in genere conservetur suo".<br />

545 Cfr. Prost (2001), p. 246, il quale propone invece un'efficace illustrazione in tre tappe del percorso dell'etica<br />

naturalistica di Antioco, o meglio dell'etica che Antioco attribuisce agli antichi : 1- il principio universale dell'<br />

'amor di sé' ; 2- l'applicazione del principio ad ogni specie ; 3- la definizione della natura propria dell'uomo.<br />

304


cfr. Fin. III, 16: "Simulatque natum sit animal (...), ipsum sibi conciliari et<br />

commendari ad se conservandum et ad suum statum eaque quae conservantia sunt<br />

eius status diligenda, alienari autem...Ex quo intellegi debet principium ductum esse<br />

a se diligendo".<br />

--> L'idea che la natura fornisca agli esseri viventi i mezzi per la propria<br />

conservazione è già preminente nelle ricerche biologiche aristoteliche, v. De partibus<br />

animalium; e si trova enunciata chiaramente in Teofrasto, De causis plantarum, II,<br />

17, 9: « Πολλὰ δ' ἡ φύσις<br />

φαίνεται καὶ ἐν τοῖς ζώοις τοιαῦτα ποιεῖν ὥσθ' ἕτερον ἑτέρῳ χρήσιμον εἶναι<br />

πρὸς σωτηρίαν καὶ γένεσιν ἅπερ ἐν ταῖς ἱστορίαις ταῖς περὶ τούτων εἴρηται ».<br />

Si noti che la teoria stoica dell'oi)keiw=sij aggiunge al concetto basilare di auto-<br />

conservazione l'idea che l'essere vivente percepisca se stesso e che la consapevolezza<br />

della sua costituzione si traduca in un'affezione positiva verso se stesso. Il concetto di<br />

'appropriazione a se stessi' non costituisce del resto una semplice descrizione del<br />

funzionamento dell'istinto dell'uomo, ma fornisce piuttosto il principio d'ordine e<br />

conformità naturale che garantisce in generale il buon funzionamento dell'istintualità<br />

rispetto all'ambiente o rispetto ai fini della vita dell'uomo.<br />

2) Natura & Ars sapientiae : "vivendi ars, ut tueatur quod a natura datum sit, quod<br />

desit acquirat": Fin. IV, 35: "Qualem igitur hominem natura inchoavit? Et quod est<br />

munus, quod opus sapientiae? Quid est, quod ab ea absolvi et perfici debeat?"<br />

cfr. Fin. III, 18: "Artis etiam ipsas propter se assumendas putamus".<br />

--> Arist., Protrepticus fr. 13 Rose = Iamblichus, ch. 9: "μιμεῖται γὰρ οὐ τὴν<br />

τέχνην ἡ φύσις ἀλλ' αὐτὴ τὴν φύσιν, καὶ ἔστιν ἐπὶ τῷ βοηθεῖν καὶ τὰ<br />

παραλειπόμενα τῆς φύσεως ἀναπληροῦν. τὰ μὲν γὰρ ἔοικεν αὐτὴ δύνασθαι δι'<br />

αὑτῆς ἡ φύσις ἐπιτελεῖν καὶ βοηθείας οὐδὲν δεῖσθαι, τὰ δὲ μόλις ἢ παντελῶς<br />

ἀδυνατεῖν, οἷον αὐτίκα καὶ περὶ τὰς γενέσεις"; "ἄνθρωπος δὲ πολλῶν δεῖται<br />

τεχνῶν πρὸς σωτηρίαν κατά τε τὴν πρώτην γένεσιν καὶ πάλιν κατὰ τὴν<br />

ὑστέραν τροφήν".<br />

Già nel Protreptico 546 di Aristotele si delinea l'idea della τέχνη come complemento<br />

546 v. Hutchinson, Johnson (2005).<br />

305


della natura, la quale va a rafforzare la premessa del discorso etico secondo la quale<br />

l'ars vivendi è il complemento del percorso naturale dell'essere vivente.<br />

3) Bipartizione antropologica: "diviserunt naturam hominis in animum et corpus".<br />

Cfr. Luc. 101: "Nam enim est e saxo sculptus aut e robore dolatus; habet corpus,<br />

habet animum, movetur mente, movetur sensibus, ut esse ei vera multa videantur...",<br />

dove la bipartizione antropologica supporta la prospettiva scettica probabilista.<br />

v. Fin. II, 34-35 = T. 42 : Contesto.<br />

Esiste un conflitto tra questo uso del dualismo antropologico nel discorso etico<br />

attribuito alla tradizione academico-peripatetica e la nota definizione aristotelica<br />

dell'anima come ''atto primo di un corpo naturale organico (ἐντελέχεια ἡ πρώτη<br />

σώματος φυσικοῦ ὀργανικοῦ)" (De an. 413 b 5-6) o "atto primo di un corpo che ha<br />

la vita in potenza'', nella misura in cui questa rompe probabilmente per la prima volta<br />

con ogni modello dualista dell'uomo e lo sostituisce con un modello invece monista,<br />

per cui l'anima non può dirsi propriamente 'parte' dell'uomo, quanto piuttosto<br />

funzione non separabile del corpo. Nell'indagine biologica dell'uomo, Aristotele<br />

ragiona infatti nei termini di una compresenza gerarchizzata di più funzioni legate al<br />

corpo e non intorno alla dicotomia spirituale – materiale / immortale – mortale. Il<br />

problema del modo di interazione tra anima e corpo sembra aver abbondantemente<br />

attratto l'attenzione della generazione dei discepoli di Platone 547 , e non è improbabile<br />

che alcuni degli esiti della loro riflessione, come ad esempio la definizione<br />

aristotelica sopra menzionata, abbia contribuito alla ridefinizione della posizione<br />

'platonica', prendendo in un certo qual modo le distanze da affermazioni 'paradossali'<br />

come quella dell'Alcibiade I : "l'uomo è nient'altro che la sua anima" (130 c). Si noti<br />

tuttavia che per quanto Aristotele non si avvalga di un modello dualista per fornire<br />

una definizione dell'uomo, nella sua riflessione etica si trovano espliciti riferimenti a<br />

più ordini distinti di 'beni', dell'anima e del corpo, della vita.<br />

4) 1)+2)+3) = l'arte della vita è una saggezza conservatrice dell'uomo nella sua<br />

interezza, coadiuvante l'opera della natura: "hoc sapientiae munus esse dicebant, ut,<br />

cum eum tueretur qui constaret ex animo et corpore, in utroque iuvaret eum ac<br />

contineret"<br />

547 v. Dillon (2007), pp. 349-356.<br />

306


5) Origine seminale della virtù e funzionalità sociale : iustitia semina: "ut ii qui<br />

procreati essent a procreatoribus amarentur" [cfr. Fin. III, 62: "pertinere autem ad<br />

rem arbitrantur intellegi natura fieri, ut liberi a parentibus amentur; a quo initio<br />

profectam communem humani generis societatem persequimur"; v. Plut. De amore<br />

prolis]; "ut coniugia virorum et uxorum natura coniuncta esse"; magnitudo animi,<br />

amor cognitionis, pudor ac verecundia. --> societas.<br />

Riassumendo, il discorso traccia un percorso di sviluppo organico della moralità<br />

dell'uomo a partire dai suoi istinti primari di autoconservazione, che Cicerone insiste a<br />

proporre come un patrimonio di nozioni comuni tra la Stoa e gli antichi filosofi<br />

academici e peripatetici.<br />

Cfr. Fin. IV, 24: "Quae sunt igitur communia vobis cum antiquis, iis sic utamur quasi<br />

concessit". Tuttavia non si può ignorare che la funzione teorica degli 'initia' nell'etica<br />

stoica si giochi prevalentemente su un altro piano del discorso. Lasciata da parte l'idea<br />

di uno sviluppo organico della virtù, lo stoicismo impiega la normatività naturale<br />

dell'istinto di attrazione e repulsione per dare un contenuto concreto all'azione<br />

dell'uomo nella teoria degli officia (kaqh/konta): v. Fin. III, 20: "initiis igitur ita<br />

constitutis, ut ea quae secundum natura sunt ipsa propter se sumenda sint<br />

contrariaque item reicienda, primum est officium (id enim appello kaqh=kon), ut se<br />

ipsa conservet in naturae statu, deinceps ut ea teneat quae secundum naturam sint,<br />

pellatque contraria"; Fin. III, 22: "Cum vero illa quae officia esse dixi proficiscantur<br />

ab initiis naturae necesse est ea ad haec referri, ut recte dici possit omnia officia eo<br />

referri, ut adipiscamur principia naturae, nec tamen ut hoc sit bonorum ultimum<br />

propterea quod non inest in primis naturae conciliationibus honesta actio...".<br />

Diversamente nel discorso etico attribuito agli antichi l'accento viene posto sul<br />

processo di sviluppo organico dell'uomo come agente etico naturale. Anche il risvolto<br />

sociale dello sviluppo della virtù, esplicitamente espresso, viene inquadrato all'interno<br />

della normale evoluzione dell'istinto di auto-conservazione di se stessi e dei propri<br />

cari.<br />

– iis qui ne dicerent quidem sua summa bona esse a natura profecta: il<br />

risultato della strategia argomentativa adottata da Cicerone allinea provocatoriamente<br />

307


B)<br />

lo stoicismo con coloro che rimangono esclusi dalla linea di pensiero considerata<br />

dominante nel periodo ellenistico, ovvero con quei filosofi che non prendono la<br />

natura come punto di riferimento normativo per il discorso etico, ritenuti per questo<br />

filosoficamente inferiori 548 .<br />

Cfr. Fin. IV, 40: "Nam si omnino ea neglegemus, in Aristonea vitia et peccata<br />

incidemus obliviscemurque quae virtuti ipsi principia dederimus"; Fin. IV, 43<br />

(Pyrrho; Aristo);<br />

– uti iisdem argumentis, quibus illi uterentur: cfr. Fin. III, 11: "Dicuntur ista,<br />

Cato, magnifice, inquam, sed videsne verborum gloriam tibi cum Pyrrhone et cum<br />

Aristone, qui omnia exaequant, esse communem?"; Fin. IV, 49: "Quis igitur tibi istud<br />

(scil. Bonum omne laudabile, v. Fin. III, 27) dabit praeter Pyrrhonem, Aristonem<br />

eorumve similes, quos tu non probas?"<br />

Nel passaggio in oggetto Cicerone riassume le linee dell'argomentazione che mette in dubbio i<br />

fondamenti naturalistici dell'etica stoica (cfr. Annas (2001), p. 104, n. 23). La struttura<br />

originale del discorso risale con buona probabilità ai principi della Carneadia divisio; rispetto<br />

a quest'ultima il discorso di Cicerone insiste sul presunto legame maestro-discepolo tra<br />

Zenone e Polemone per ridurre i problemi della teoria stoica a un difetto di fedeltà rispetto<br />

alla teoria dei predecessori, v. Fin. IV, 19: "qua exposita scire cupio, quae causa sit, cur Zeno<br />

ab hac antiqua constitutione desciverit"; "Fatebuntur Stoici haec omnia dicta esse praeclare,<br />

neque eam causam Zenoni desciscendi fuisse". Ne risulta che il confronto istituito da<br />

Carneade tra i peripatetici, gli stoici e i relicti, Pirrone e Aristone, volto a spingere la teoria<br />

stoica in direzione di uno o l'altro dei suoi antagonisti, si trasforma in un confronto, dove al<br />

posto dei peripatetici figura il gruppo compatto dei veteres, eventualmente giustificato dal<br />

ruolo di maestro ricoperto da Polemone. La sostituzione si accorda con l'agenda storiografica<br />

di Antioco d'Ascalona, qui impiegata da Cicerone per costruire una critica efficace dello<br />

stoicismo difeso dal personaggio di Catone. Nella sostanza la variazione introdotta da Antioco<br />

non sembra aggiungere elementi teorici di rilievo. Il terreno comune istituito tra i veteres e gli<br />

stoici al livello dei fondamenti naturalistici dell'etica si risolve in una teoria dello sviluppo<br />

548 Si tratta della categoria dei relicti, v. Introduzione, p. lxi ; p. 131, n. 323.<br />

308


organico della virtù dai primi istinti d'autoconservazione fino allo sviluppo della vita in<br />

società, che certamente manifesta punti di parziale contatto con la teoria esposta da Catone nel<br />

III libro [v. 1) Commendatio naturae; 2) Natura & Ars sapientiae], ma che difficilmente può<br />

essere considerata l'ispiratrice dell'originalità teorica dello stoicismo. Particolare attenzione<br />

merita l'esplicitazione nella lista dei principia naturalia della bipartizione antropologica in<br />

anima e corpo, la quale rappresenta probabilmente il vero punto di rottura con lo stoicismo,<br />

nella misura in cui fornisce la base sulla quale determinare lo statuto dei beni del corpo a<br />

fianco a quello dei beni dell'anima. Si noterà allora che il riferimento agli 'antichi' era<br />

funzionale ad una critica dell'intellettualismo di Crisippo già in quello che ci è dato ricostruire<br />

del pensiero di Posidonio (v. Galenus, De Placitis Hippocratis et Platonis, IV, 424 pp. 288 De<br />

Lacy = fr. 158 Edelstein-Kidd: "οὔκουν ἀσυλλόγιστοι τῆς παύλης τῶν παθῶν εἰσιν αἱ<br />

αἰτίαι, καθάπερ ὁ Χρύσιππος ἔλεγεν, ἀλλὰ καὶ πάνυ σαφεῖς τῷ γε μὴ βουλομένῳ<br />

φιλονεικεῖν τοῖς παλαιοῖς. οὐδὲν γὰρ οὕτως ἐναργές ἐστιν, ὡς τὸ δυνάμεις τινὰς ἐν ταῖς<br />

ἡμετέραις εἶναι ψυχαῖς ἐφιεμένας φύσει, τὴν μὲν ἡδονῆς, τὴν δὲ κράτους καὶ νίκης"; ivi, ,<br />

460-461, p. 318 De Lacy = fr. 160 Edelstein-Kidd). In questo caso si tratta di radicare l'origine<br />

delle passioni nelle due funzioni dell'anima che affiancano la razionalità nella concezione<br />

platonica dell'anima tripartita. L'uso del pensiero degli antichi da parte di Posidonio 549<br />

rappresenta un parallelo rispetto all'operazione di Antioco degno di nota 550 ; cfr. Critolao fr. 11<br />

Wehrli.<br />

T. 46 : CICERO, DE FINIBUS BONORUM ET MALORUM IV, 18, 50-51.<br />

Illud vero minime consectarium, sed in primis hebes, illorum scilicet, non tuum, gloratione<br />

dignam esse beatam vitam, quod non possit sine honestate contingere, ut iure quisquam<br />

glorietur. Dabit hoc Zenoni Polemo, etiam magister eius et tota illa gens et reliqui qui,<br />

virtutem omnibus rebus multo anteponentes, adiungunt ei tamen aliquid summo in bono<br />

finiendo. Si enim virtus digna est gloratione, ut est, tantumque praestat reliquis rebus ut<br />

dici vix possit, et beatus esse poterit virtute una praeditus, carens ceteris, nec tamen illud<br />

tibi concedet, praeter virtutem nihil in bonis esse ducendum.<br />

549 Sulla figura di Posidonio nei testi di Cicerone: Ad Att. II, 1, 2; Fin. I, 6; Tusc. II, 61; ND I, 6; I, 123; De fato<br />

5.<br />

550 v. Burkert (1965), p. 181: « Antiochos vollzog die Umkehr zu einem neuen Dogmatismus, den er in der<br />

Alten Akademie von Platon bis Polemon vorgegeben fand. In gewissem Grade hat er damit das Platonbild,<br />

das Panaitios und Poseidonios entwickelt hatten, in die Akademie heimgeholt ».<br />

309


Polemo fr. 130 Gigante;<br />

1 non tuum Mdv. : non tum MSRf : non cum O : nominum P.<br />

Traduzione<br />

Quest'altro ragionamento poi ha scarsissimo rigore logico, ma sopratutto è stupido, per<br />

colpa loro, si intende, non per colpa tua: la vita felice è degna di lode, il che significa che,<br />

a condizione che qualcosa sia lodato a buon diritto, non può sussistere senza la moralità.<br />

A Zenone questo glielo concederà Polemone e anche il suo maestro e tutta quella<br />

famiglia di filosofi e pure gli altri che, pur ritenendo la virtù di molto superiore a tutte le<br />

altre cose, le aggiungono tuttavia qualcosa nella definizione del sommo bene. Se infatti la<br />

virtù è degna di lode, come lo è realmente, ed è tanto superiore a tutte le altre cose che lo<br />

si può a malapena dire, e se un uomo può essere felice provvisto della sola virtù e privo<br />

di altre cose, non ti sarà tuttavia concesso che ad eccezione della virtù non c'è niente che<br />

si debba annoverare tra i beni.<br />

Contesto<br />

Il passo si colloca all'interno della critica cieroniana dei sillogismi dell'etica stoica:<br />

"illa...brevia, quae consectaria esse" (Fin. IV, 48). L'obiettivo principale del testo è lo<br />

smantellamento della dimostrazione del principio etico per cui 'solo la virtù contribuisce alla<br />

felicità'. Nel libro terzo il personaggio di Catone aveva infatti presentato a suo sostegno il<br />

sillogismo per cui tutto ciò di cui si predica "bene" è anche "degno di lode"; tutto ciò di cui si<br />

predica "degno di lode" è anche "morale"; dunque tutto ciò di cui si predica "bene" è anche<br />

"morale": v. Fin. III, 27: "concluduntur igitur eorum argumenta sic: Quod est bonum, omne<br />

laudabile est; quod autem laudabile est, omne est honestum; bonum igitur quod est, honestum<br />

est. Satisne hoc conclusum videtur? Certe; quod enim efficiebatur ex iis duobus quae erant<br />

sumpta, in eo vides esse conclusum". La coerenza della posizione etica stoica viene dunque<br />

sostenuta logicamente. Consapevole del criticismo incontrato dalla premessa maggiore del<br />

sillogismo : "quod est bonum, omne laudabile est" (∀x, 'bonum'x ⊃ 'laudabile'x), Catone offre<br />

a sostegno della sua tesi la seguente catena sillogistica: "Illud autem perabsurdum, bonum<br />

310


esse aliquid quod non expetendum sit, aut expetendum quod non placens, aut, si id, non etiam<br />

diligendum; ergo et probandum; ita etiam laudabile; id autem honestum. Ita fit, ut quod<br />

bonum sit, id etiam honestum sit". In termini di logica formale, l'argomento potrebbe essere<br />

così presentato: ¬ ('bonum'x ∧ ¬ 'expetendum'x); ¬ ('expetendum'x ∧ ¬ 'placens'x); ¬<br />

('placens'x ∧ ¬ 'diligendum'x); ¬ ('diligendum'x ∧ ¬ 'probandum'x); ¬ ('probandum'x ∧ ¬<br />

'laudabile'x); ¬ ('laudabile'x ∧ ¬ 'honestum'x); ⇒ 'bonum'x ⊃ 'honestum'x. Si tratta<br />

evidentemente di un 'sorite' e Cicerone lo denuncia immediatamente prima del passo in<br />

esame: (Fin. IV, 50) "iam ille sorites est, quo nihil putatis esse vitiosius: quod bonum sit, id<br />

esse optabile, id expetendum, quod expetendum, id laudabile, dein reliqui gradus". Per quanto<br />

il sorite presentato da Cicerone sia alla base della sola premessa maggiore del sillogismo<br />

stoico, mentre il sorite di Catone arriva fino alla predicazione di 'honestum' per tutto ciò che è<br />

'bonum', la critica ciceroniana rimane valida. Un sorite è un argomento logico che si basa<br />

sull'accumulo di implicazioni materiali o condizionali deboli, il cui uso, ad esempio da parte<br />

di Carneade 551 , gli stoici stessi contestavano. La fallacia dell'argomento sta nel costringere<br />

l'avversario ad accettare una conclusione che non approva, sottoponendogli una serie di<br />

inferenze progressive, che portano per gradi dalla premessa alla conclusione, sfruttando<br />

prevalentemente la scarsa precisione del linguaggio comune. Cicerone affronta l'argomento<br />

nello stesso modo in cui i filosofi stoici e Crisippo in particolare affrontavano i sorite di<br />

Carneade, ovvero riservandosi il diritto di interrompere la catena sillogistica nel punto in cui<br />

le sue inferenze diventano scarsamente condivisibili: "Sed ego in hoc resisto; eodem enim<br />

modo tibi nemo dabit, quod expetendum sit, id esse laudabile". Si noterà inoltre che se Catone<br />

manteneva i riferimenti della discussione dei sillogismi etici su un piano strettamente logico,<br />

senza menzionare critiche specifiche o il nome dei suoi avversari, Cicerone invece<br />

contestualizza la discussione logica all'interno del confronto tra le istanze etiche, così come<br />

viene strutturato dall'uso della Carneadia divisio. v. il riferimento a Epicuro, Ieronimo e<br />

Carneade al § 49; a Diodoro e Callifone al § 50; cfr. Fin. V, 14; Fin. V, 20-21.<br />

Commento<br />

A)<br />

– consectarium...hebes: ripresa polemica della terminologia della logica stoica,<br />

551 v. Sext.Emp., Adv.Math. IX, 182; IX, 190, per il famoso argomento di Carneade contro l'esistenza degli dèi;<br />

v. Couissin (1941), pp. 43-57; Burkert, (1965), p. 191.<br />

311


v. Fin. III, 26: "consectaria me Stoicorum brevia et acuta delectant". La validità del<br />

principio etico viene spostata dagli stoici dal piano dell'opinione comune al piano<br />

logico. Tuttavia Cicerone tende a mostrare che proprio gli stoici, che si fregiavano<br />

della forza dei loro argomenti e dell'efficacia della dialettica nel distinguere il vero<br />

dal falso, si rivelano essere dei cattivi dialettici, che argomentano a partire da<br />

premesse non condivise o le supportano per mezzo dei sorite, a proposito dei quali, v.<br />

Barnes (1982), pp. 25-59; Burnyeat (1982), pp. 315-338 ; Annas (2001), p. 106, n.<br />

27. Nel testo del Lucullus § 92, Cicerone ricorda come gli stoici abbiano etichettato i<br />

sorite come "vitiosum interrogandi genus". La responsabilità della fallacia veniva<br />

attribuita dagli stoici alla modalità argomentativa, mentre Cicerone, portavoce nel<br />

contesto del Lucullus dello scetticismo academico, la riconduceva alle modalità della<br />

conoscenza umana: "rerum natura nullam nobis dedit cognitionem finium ut ulla in<br />

re statuere possimus quatenus". In questo contesto invece, il recupero da parte di<br />

Cicerone delle restrizioni della logica stoica in merito ai sorite si ritorce contro gli<br />

stoici stessi. Hebes : cfr. Ac. fr. 18: "mihi...non modo ad sapientiam caeci videmur,<br />

sed ad ea ipsa, quae...cerni videantur, hebetes et obtusi"; ND III, 103: "quem<br />

(Epicurum) hebetem et rudem dicere solent Stoici"; Ac.libri I, 31: "sensus...omnes<br />

hebetes et tardos esse arbitrabantur"; qualificazione dispregiativa del modo in cui<br />

gli stoici impiegano sillogismi erronei a sostegno della loro tesi radicale.<br />

– ut iure quisquam glorietur: cfr. Fin. III, 28: "gloratione dignam esse beatam<br />

vitam"; Fin. IV, 50: "si...virtus digna est gloratione, ut est"; ND III, 87: "propter<br />

virtutem enim iure laudamur et in virtute recte gloriamur, quod non contingeret, si id<br />

domum a deo non a nobis haberemus"; Tusc. I, 109: "gloria...virtutem tamquam<br />

umbra sequitur"; Tusc. V, 50: "beata vita glorianda et praedicanda et prae se<br />

ferenda est"; è possibile stabilire un rapporto stretto tra 'gloria', la lode ben meritata,<br />

e la vita felice, in quanto per vita felice si intende la realizzazione completa di quanto<br />

si è individualmente capaci di realizzare. Esiste inoltre un rapporto tra la virtù morale<br />

e la 'gloria', nella misura in cui la lode è il riconoscimento di una qualità o di<br />

un'azione eccellente di cui si è responsabili individualmente. Da questa doppia<br />

correlazione discende che la vita felice implica la virtù morale. La congiunzione tra<br />

la virtù morale e la vita felice non viene contestata da Cicerone; essa viene anzi<br />

sostenuta in più luoghi della sua opera. Tuttavia egli fa notare come la doppia<br />

impilicazione vita beata ⊃ gloria ⊃ honestas/virtus, non sia sufficiente a sostenere la<br />

conclusione che la virtù morale è l'unico bene compatibile con una vita felice.<br />

312


– Dabit hoc Zenoni Polemo: la doppia correlazione tra vita felice, lode a buon<br />

diritto e virtù morale è compatibile non solo con la tesi stoica, ma anche con la<br />

posizione etica attribuita a Polemone e più in generale con quella di tutti coloro "qui<br />

virtutem omnibus rebus multo anteponentes adiungunt ei tamen aliquid summo in<br />

bono", ovvero tutti gli esponenti della Carneadia divisio la cui posizione è<br />

riassumibile nella forma: honestas + x.<br />

– magister eius: il maestro di Polemone: Senocrate. L'attribuzione a maestro e<br />

discepolo di una medesima posizione etica è funzionale ad una attribuzione<br />

complessiva a tutta la scuola filosofica di cui sono rappresentanti. Si noti la<br />

progressione verso un insieme sempre più ampio: Polemone --> Senocrate --> tota<br />

gens --> et reliqui.<br />

– tota illa gens : cfr. familia; Fin. IV, 49: "Quis igitur tibi istud dabit praeter<br />

Pyrrhonem, Aristonem eorumve similes, quos tu non probas? Aristoteles,<br />

Xenocrates, tota illa familia non dabit, quippe qui valetudinem, vires, divitias,<br />

gloriam, multa alia bona esse dicant, laudabilia non dicant"; Leg. I, 55 : "Quia, si,<br />

ut Chius Aristo dixit, solum bonum esse quod honestum esset, malumque quod turpe,<br />

ceteras res omnia plane paris ac ne minimum quidem utrum adessent an abessent<br />

interesse, valde a Xenocrate et Aristotele et ab illa Platonis familia discreparet<br />

essetque inter eos de re maxima et de omni vivendi ratione dissensio".<br />

La gens viene identificata dal fatto di non ammettere la prima premessa del<br />

sillogismo stoico: Quod est bonum, omne laudabile est, il che equivale ad annoverare<br />

nella categoria dei beni anche elementi che esulano dalla virtù. Al § 49 figura una<br />

lista di questi beni diversi dalla virtù e che non rientrano nella sfera delle cose 'degne<br />

di lode': la salute, le forze del corpo, le ricchezze, la buona fama, e molte altre cose<br />

vengono infatti spesso considerate il frutto di una buona sorte piuttosto che<br />

dell'applicazione individuale, che sola giustifica la lode. Si noterà che nella prima<br />

menzione della gens di academici e peripatetici al § 49 il nome di Polemone è del<br />

tutto assente, mentre vengono menzionati Senocrate e Aristotele, secondo la consueta<br />

strategia di radunare su un medesimo fronte uno scolarca dell'Academia e il<br />

fondatore del Liceo. In questo passaggio invece Polemone è l'unico portavoce<br />

nominato esplicitamente. La specifica missione che gli viene affidata è quella di<br />

rappresentante massimo della posizione composita honestas + x.<br />

313


– et reliqui, qui virtutem omnibus rebus multo anteponentes adiungunt ei<br />

tamen aliquid summo in bono finiendo:<br />

et reliqui : v. Diodoro : (Fin. V, 14) "adiungit ad honestatem vacuitatem doloris" 552 ;<br />

Callifone & Dinomaco: (Fin. V, 21) "voluptas adiungi potest ad honestatem" 553 ;<br />

multo anteponentes : cfr. Tusc. V, 51: libra Critolai : "quo loco quaero quam vim<br />

habeat libra illa Critolai, qui cum in alteram lancem animi bona imponat, in alteram<br />

corporis et externa, tantum propendere illam putet, ut terram et maria deprimat";<br />

Fin. V, 91-92: "Audebo igitur cetera, quae secundum naturam sint, bona appellare<br />

nec fraudare suo vetere nomine potius quam aliquod exquirere, virtutis autem<br />

amplitudinem quasi in altera librae lance ponere. Terram, mihi crede, ea lanx et<br />

maria deprimet".<br />

"multo anteponentes" corrisponde a una strategia di gerarchizzazione dei beni, che<br />

intende minimizzare le conseguenze derivanti dall'introdurre accanto ai beni<br />

dell'anima anche altri beni, come quelli legati al corpo, nella definizione del sommo<br />

bene. Una tale strategia presenta una doppia assonanza, da un lato con l'immagine<br />

della bilancia di Critolao, dall'altro con la concezione classica – e platonica in<br />

particolare – della superiorità dell'anima rispetto al corpo 554 . Il riferimento a<br />

Critolao 555 nei testi di Cicerone è tuttavia non del tutto esente da criticismo: nel libro<br />

quinto Cicerone lo menziona infatti nell'ambito della storia della degenerazione della<br />

filosofia peripatetica nel periodo ellenistico, dicendo che, per quanto la sua posizione<br />

filosofica sia dotata di grande spessore morale, egli non si è mantenuto "in patriis<br />

institutis" (Fin. V, 14 = T. 50) 556 . Tuttavia nel corso dell'esposizione di Pisone,<br />

portavoce di Antioco, l'immagine della bilancia (di Critolao) viene impiegata,<br />

tacendone l'autore (v. Fin. V, 91-92). Dalla formula del telos attribuita a Critolao 557 e<br />

conservata nel testo di Clemente Alessandrino si deduce l'intento generale di trovare<br />

552 Diodoro viene presentato nelle fonti come peripatetico ; cfr. Luc. 131 = T. 39.<br />

553 Callifone viene spesso considerato un discepolo di Epicuro ; cfr. Luc 131 = T. 39 ; Clem.Alex., Str. II, 21,<br />

127, 3, dove a Callifone e Dinomaco viene attribuita una peculiare versione della posizione edonista :<br />

« Δεινόμαχος δὲ καὶ Καλλιφῶν τέλος εἶναι ἔφασαν πᾶν τὸ καθ' αὑτὸν ποιεῖν ἕνεκα τοῦ ἐπιτυγχάνειν<br />

ἡδονῆς καὶ τυγχάνειν » ; n.b. Talvolta la critica preferisce presentare Callifone come un filosofo la cui<br />

cronologia e affiliazione filosofica è incerta ; v. LS (1987), vol. I, p. 455.<br />

554 v. Plato, Leg. 631 b 6 – d 1; Arist. EN 1100 b 9-10; EE 1218 b 32-33; Pol. 1323 a 27-34.<br />

555 v. Hahm (2007), pp. 47-54.<br />

556 Critolao sembrerebbe essersi discostato dalle posizioni filosofiche di Aristotele su diverse tematiche, in<br />

particolare in merito allo statuto della retorica (Critolaus frr. 26, 27, 29 Wehrli), alla composizione dell'anima<br />

(Critolaus frr. 17-18 Wehrli), alla funzione metafisica dei principi aristotelici (Critolaus fr. 15 Wehrli).<br />

557 Clemens, Str. II 21, 129, p. 184 Stählin = Crit. fr. 20 Wehrli : « Krito/laoj de/, o( kai\ au)to\j Peripathtiko/j,<br />

teleio/thta e)/legen kata\ fu/sin eu)roou=ntoj bi/ou, th\n e)k tw=n triw=n genw=n sumplhroume/nhn trigenikh\n.<br />

teleio/thta mhnu/wn. ».<br />

314


una modalità espressiva delle teoria peripatetica compatibile con la terminologia<br />

stoica e alcuni dei suoi assunti fondamentali. Le sue scelte in questo ambito<br />

incontrarono tuttavia un certo numero di critiche da parte di altri interpreti dell'etica<br />

peripatetica 558 . Ciononostante, della sua strategia di riformulazione delle tesi<br />

peripatetiche alla luce degli argomenti stoici sembrerebbe essersi conservata in<br />

questo contesto l'idea di una gerarchia interna tra i beni, che attribuisce un ruolo di<br />

preminenza alla virtù, soddisfacendo alcuni dei requisiti di un'etica, come quella<br />

stoica, fondata sulla responsabilità soggettiva e l'eccellenza morale dell'uomo. Cfr.<br />

August. De civ.Dei XIX, 3, 1: "Proinde summum bonum hominis, quo fit beatus, ex<br />

utriusque rei bonis constare dicit, et animae scilicet et corporis. Ac per hoc prima<br />

illa naturae propter se ipsa existimat expetenda ipsamque virtute, quam doctrina<br />

inserit velut arte, vivendi, quae in animae bonis est excellentissum bonum".<br />

Si noti che nella versione dell'etica peripatetica riportata da Stobeo (Dox. C), questo<br />

tipo di strategia viene del tutto abbandonata. Il dialogo tra l'istanza stoica e l'istanza<br />

peripatetica ha prodotto altri risultati: innanzitutto l'abbandono di una concezione<br />

cumulativa dei beni all'interno della vita felice (Stob., Ecl. II, 7, 14, p. 126-127<br />

Wachsmuth) e la distinzione netta tra la questione della capacità produttrice della<br />

felicità, esclusivo appannaggio delle attività secondo virtù (Stob., Ecl. II, 17, p. 129-<br />

130 Wachsmuth), e la questione dello statuto delle cose che giovano alla salvaguardia<br />

dell'uomo (Stob., Ecl. II, 7, 13-14, p. 118-119 e sgg. Wachsmuth).<br />

Cfr. anche Ac.libri I, 23: "...unde et amicitia exsistebat et iustitia atque aequitas,<br />

eaque et voluptatibus et multis vitae commodis anteponebantur".<br />

adiungunt : v. T. 40 = Luc. 138-139: adiungerent.<br />

– et beatus esse poterit virtute una praeditus, carens ceteris: cfr. Ac.libri I, 22:<br />

"Itaque omnis illa antiqua philosophia sensit in una virtute esse positam beatam<br />

vitam, nec tamen beatissimam nisi adiungerentur et corporis et cetera quae supra<br />

dicta sunt ad virtutis usum idonea"; Fin. V, 85: "sitne tantum in virtute, ut ea praediti<br />

vel in Phalaridis tauro beati sint". Cfr. Fin. V, 79: "virtus ad beate vivendum se ipsa<br />

558 Una critica agli esiti della posizione etica di Critolao si trova della Dox. A conservata nel II libro<br />

dell'Antologia di Giovanni Stobeo: "Ὑπὸ δὲ τῶν νεωτέρων τῶν ἀπὸ<br />

“τὸ ἐκ πάντων ἀγαθῶν συμπεπληρωμένον” (τοῦτο δὲ ἦν “τὸ ἐκ <br />

τριῶν γενῶν”), οὐκ ὀρθῶς. Οὐ γὰρ πάντα τἀγαθὰ μέρη γίνεται τοῦ τέλους· οὔτε γὰρ τὰ<br />

σωματικὰ, οὔτε τᾲ ἀπὸ τῶν ἐκτός, τὰ δὲ τῆς ψυχικῆς ἀρετῆς ἐνεργήματα μόνης. Κρεῖττον οὖν<br />

ἦν εἰπεῖν ἀντὶ τοῦ “συμπληρούμενον” “ἐνεργούμενον”, ἵνα τὸ χρηστικὸν τῆς ἀρετῆς<br />

ἐμφαίνηται." = Critolaus fr. 19 Wehrli.<br />

315


contenta est"; Fin. V, 81: "...si ista mala sunt, in quae potest incidere sapiens,<br />

sapientem esse non esse ad beate vivendum satis. Immo vero, inquit, ad beatissime<br />

vivendum parum est, ad beate vero satis".<br />

La frase esprime una versione del principio dell'autarchia della virtù, per cui esiste un<br />

interessantissimo parallelo nella formula del telos attribuita a Polemone nel testo di<br />

Clemente Alessandrino, cfr. T. 58 = Clemens Alex., Str. II, 22, 133, p. 186 Stählin :<br />

"δίχα δὲ καὶ τῶν σωματικῶν καὶ τῶν ἐκτὸς τὴν ἀρετὴν αὐτάρκη πρὸς<br />

εὐδαιμονίαν εἶναι". virtute una praeditus può essere messo in relazione con il<br />

concetto greco di ἀρετὴ αὐτάρκη, per quanto in realtà la versione latina del concetto<br />

venga resa più precisamente dalle due espressioni abbondantemente presenti nel V<br />

libro sia del De finibus sia delle Tusculanae disputationes : "virtutem ad beate<br />

vivendum se ipsa esse contentam" (Tusc. V, 18); "ad beate vivendum satis esse<br />

virtutem" (idem). L'uso di praeditus sembra coincidere con un tentativo di conciliare<br />

il principio dell'autarchia della virtù e una concezione cumulativa della felicità,<br />

secondo la quale la virtù fa parte dei 'rifornimenti' di cui l'uomo può disporre. La<br />

concezione stoica dell'autarchia della virtù si basa invece su una concezione assoluta<br />

della felicità, secondo la quale la virtù è l'unico principio causale della felicità, una<br />

capacità del soggetto, piuttosto che un prodotto esterno al soggetto.<br />

È importante sottolineare che sia la testimonianza greca di Clemente Alessandrino sia<br />

i testi latini di Cicerone attribuiscono a Polemone il principio per cui la virtù è<br />

'autosufficiente' nel garantire la vita felice, indipendentemente dall'apporto di altri<br />

beni. Nel testo di Clemente Alessandrino le altre categorie dei beni contemplate<br />

riprendono la nomenclatura di origine aristotelica ta£ swmatika£ (a)gaqa/) e ta£ e)kto£j<br />

(a)gaqa/), dove il sostantivo a)gaqa/ rimane tuttavia implicito, mentre in questo<br />

passaggio di Cicerone vengono genericamente designate come 'cetera'. Dichiarando<br />

la virtù 'autosufficiente' le altre categorie di beni non risultano tuttavia escluse<br />

dall'ambito dell'etica. Il loro statuto non viene radicalmente messo in discussione<br />

come nel caso dell'etica stoica. Lo scopo del principio dell'autosufficienza della virtù<br />

in questo contesto è infatti quello di definire la preminenza della virtù morale rispetto<br />

alle altre categorie di beni ad essa subordinate nell'ambito della vita felice,<br />

sottolineando allo stesso tempo la compatibilità di tale preminenza con l'accettazione<br />

del contributo potenziale di altre cose riconosciute come beni.<br />

316


B)<br />

– nec tamen illud tibi concedetur praeter virtutem nihil in bonis esse<br />

ducendum: né il rapporto di doppia implicazione tra vita felice, lode a buon diritto e<br />

virtù morale, né il principio dell'autarchia della virtù sono sufficienti per dedurre<br />

logicamente dalle premesse il principio stoico per cui "praeter virtutem nihil in bonis<br />

esse ducendum". La categoria dei bona viene infatti diversamente qualificata da altre<br />

istanze filosofiche sulla base del linguaggio comune.<br />

Il passo contesta la validità dei sillogismi impiegati dagli stoici in ambito etico, facendo<br />

riferimento alla posizione composita (v. Fin. V, 21: "iunctae autem et duplices expositiones<br />

summi boni") di alcuni filosofi inclusi nella Carneadia divisio. Polemone, in particolare, viene<br />

interpellato come rappresentante eminente di una posizione filosofica che considera la<br />

preminenza della virtù nel discorso etico, combinata al riconoscimento del valore di altri beni.<br />

Verosimilmente la menzione dello scolarca dell'Academia, piuttosto che di altre figure minori<br />

come Diodoro, Callifone o Dinomaco, attribuisce maggiore dignità filosofica al versante delle<br />

posizioni composite. Inoltre, il confronto tra la posizione attribuita a Polemone e le premesse<br />

del sillogismo stoico porta avanti il confronto dialettico tra l'etica degli antichi e la<br />

'deviazione' di Zenone. Precedentemente nel libro IV viene contestata la necessità di una tale<br />

'deviazione' (v. T. 43 = Fin. IV, 3; T. 45 = Fin. IV, 45); in questo contesto invece viene<br />

radicalmente messa in discussione la coerenza logica delle conclusioni stoiche, a partire da<br />

premesse che siano ampiamente condivisibili, in particolare anche dal punto di vista<br />

academico-peripatetico 559 . La strategia polemica di Cicerone consiste allora nel mostrare che i<br />

sillogismi stoici o si fondano su premesse non condivise, o, quando si fondano su premesse<br />

condivise, non dimostrano ciò che gli stoici intendono dimostrare. Nel primo caso dunque non<br />

sono validi, nel secondo non sono concludenti: v. Fin. IV, 52: "vides igitur te aut ea sumere<br />

quae non concedantur, aut ea quae etiam concessa te nihil iuvent".<br />

Un confronto di tipo logico tra le istanze etiche è perfettamente normale nel contesto della<br />

filosofia ellenistica. Sappiamo ad esempio che Carneade e Crisippo si sono abbondantemente<br />

affrontati a suon di argomentazioni logiche. Da notare in questo contesto è che la demolizione<br />

polemica dei sillogismi stoici viene contestualizzata all'interno di un confronto dialettico-<br />

559 n.b. Altrove (v. Fin. V, 83) il giudizio espresso da Cicerone sulla coerenza delle argomentazioni logiche degli<br />

stoici è molto più benevolo: "Et hercule (fatendum est enim quod sentio) mirabilis est apud illos contextus<br />

rerum. Respondent extrema primis, media utrisque, omnia omnibus; quid sequatur, quid repugnet, vident".<br />

317


storiografico con la posizione academico-peripatetica. L'incoerenza stoica diventa<br />

evidentemente dal punto di vista dello scontro polemico un punto di vantaggio a favore della<br />

posizione degli antichi. Un simile risvolto è difficilmente compatibile con la posizione<br />

'scettica' di Carneade. Appare allora evidente che le strategie argomentative carneadee<br />

vengano rivisitate con un proposito ben diverso rispetto al loro originario impiego e preparino<br />

la strada all'elaborazione positiva di una teoria etica, maturata dalla necessità di risolvere le<br />

incongruenze della teoria etica stoica e sanare il conflitto tra quest'ultima e le posizioni<br />

peripatetiche ad essa antagoniste. Cicerone in ultima analisi offre al lettore un esempio delle<br />

strategie argomentative che Antioco poteva impiegare traendo libera ispirazione dalle tattiche<br />

carneadee e rifunzionalizzandole in relazione al suo più ampio intento storiografico e<br />

filosofico.<br />

Per quanto riguarda la contestazione del rapporto di implicazione tra bonum e laudabile,<br />

sostenuto dal sillogismo stoico, si noterà che il riferimento a Polemone e ai suoi consociati<br />

consente di appellarsi alla tradizione platonica, senza ricorrere direttamente a Platone. Si<br />

stabilisce dunque una linea interpretativa del platonismo antagonista e alternativa rispetto, in<br />

particolare, ad alcune appropriazioni stoiche dei testi di Platone. Quest'ultimo infatti poteva<br />

essere considerato in certi contesti il prw=toj eu)reth£j di alcune tesi stoiche, come dimostano<br />

alcuni passaggi dossografici sull'etica di Platone conservati da Diogene Laerzio : v. DL III 79:<br />

ἔννοιάν τε καλοῦ πρῶτος ἀπεφήνατο τὴν ἐχομένην τοῦ ἐπαινετοῦ καὶ λογικοῦ καὶ<br />

χρησίμου καὶ πρέποντος καὶ ἁρμόττοντος. ἅπερ πάντα ἔχεσθαι τοῦ ἀκολούθου τῇ<br />

φύσει καὶ ὁμολογουμένου; cfr. Clem. Alex., Str. V, 14, 97, p. 390 Stählin : Ἀντίπατρος<br />

μὲν οὖν ὁ Στωϊκός, τρία συγγραψάμενος βιβλία περὶ τοῦ «ὅτι κατὰ Πλάτωνα<br />

μόνον τὸ καλὸν ἀγαθόν», ἀποδείκνυσιν ὅτι καὶ κατ' αὐτὸν αὐτάρκης ἡ ἀρετὴ<br />

πρὸς εὐδαιμονίαν, καὶ ἄλλα πλείω παρατίθεται δόγματα σύμφωνα τοῖς Στωϊκοῖς.<br />

Non è sorprendente allora se altrove, nel caso in cui Cicerone intenda affrontare l'esame delle<br />

tesi stoiche indipendentemente dal punto di vista di Antioco, la forza del sillogismo etico<br />

stoico venga riproposta come sostanzialmente valida e Platone venga chiamato in causa a<br />

supporto della tesi che la virtù è l'unico bene, v. Tusc. V, 43: "Atque etiam omne bonum<br />

laetabile est; quod autem laetabile, id praedicandum et prae se ferendum; quod tale autem, id<br />

etiam gloriosum; si vero gloriosum, certe laudabile; quod laudabile autem, profecto etiam<br />

honestum: quod bonum igitur, id honestum"; Tusc. V, 34 : "...a Platonis auctoritate repetatur,<br />

apud quem saepe haec oratio usurpata est, ut nihil praeter virtutem diceretur bonum, velut in<br />

318


Gorgia Socrates,..." 560 . v. T. 52 = Tusc. V, 30.<br />

T. 47 : CICERO, DE FINIBUS BONORUM ET MALORUM IV, 22, 61.<br />

Quid si reviviscant Platonis illi et deinceps qui eorum auditores fuerunt et tecum ita<br />

loquantur? 'Nos cum te, M. Cato, studiosissimum philosophiae, iustissimum virum,<br />

optimum iudicem, religiosissimum testem, audiremus, admirati sumus quid esset cur nobis<br />

Stoicos anteferres, qui de rebus bonis et malis sentirent ea quae ab hoc Polemone Zeno<br />

cognoverat, nominibus uterentur iis quae prima specie admirationem, re explicata risum<br />

moverent. Tu autem, si tibi illa probabantur, cur non propriis verbis ea tenebas? Sin te<br />

auctoritas commovebat, nobisne omnibus et Platoni ipsi nescio quem illum anteponebas?<br />

Praesertim cum in re publica princeps esse velles ad eamque tuendam cum summa tua<br />

dignitate maxime a nobis ornari atque instrui posses. nobis enim ista quaesita, a nobis<br />

descripta, notata, praecepta sunt, omniumque rerum publicarum rectionis genera, status,<br />

mutationes, leges etiam et instituta ac mores civitatum perscripsimus. Eloquentiae vero,<br />

quae et principibus maximo ornamento est et qua te audimus valere plurimum, quantum<br />

tibi ex monumentis nostris addidisses!' Ea cum dixissent, quid tandem talibus viris<br />

responderes?<br />

Polemo fr. 136 Gigante;<br />

6 ea g : eas R : illa Pf || 8 a add. Lamb. || 10 rectionis Mdv. : rectiones w || 11 audivimus b.<br />

Traduzione<br />

E se tornassero in vita quei discepoli di Platone e uno dopo l'altro quelli che furono<br />

discepoli di questi e ti parlassero così: "Noi, avendo appreso che tu, Marco Catone, sei<br />

una persona molto amante della filosofia, un uomo molto giusto, un ottimo giudice, un<br />

testimone pieno di scrupolo, ci siamo chiesti per quale motivo preferisci gli stoici a noi,<br />

loro che a proposito del bene e del male sostenevano ciò che Zenone apprese da<br />

560 NB: l'uso della citazione intende fornire una base testuale verificabile per le tesi attribuite a Platone; v. Gorg.<br />

470 d-e; Menex. 248.<br />

319


Polemone qui presente, servendosi però di termini che a prima vista suscitano<br />

ammirazione, ma che una volta spiegato il concetto muovono al riso. Ma tu, se ti trovavi<br />

d'accordo con questa teoria, perché non la sostenevi con le parole appropriate? Se<br />

faceva presa su di te l'autorità, perché ritenevi un non so chi superiore a noi tutti e a<br />

Platone stesso? Sopratutto, visto che tu volevi avere un ruolo di primaria importanza<br />

nella vita politica, da noi più di tutti saresti potuto esser stato preparato e istruito alla<br />

difesa dello Stato per tuo massimo successo. Siamo stati noi infatti a indagare queste<br />

cose, siamo stati noi a classificarle, registrarle, spiegarle e di tutti gli stati abbiamo<br />

descritto le varie forme, le condizioni, i mutamenti, le leggi, le istituzioni e anche i<br />

costumi delle nazioni. Persino per l'eloquenza, che è il più grande ornamento dei primi<br />

cittadini e in cui sentiamo dire che tu sei più valente di molti, quanto giovamento ti<br />

sarebbe derivato dal nostro ricordo!", se dicessero queste cose, cosa risponderesti a tali<br />

uomini?<br />

Contesto<br />

Terminata la parte critica del discorso di Cicerone, il libro IV ritorna sull'idea di una<br />

differenza puramente terminologica tra la dottrina stoica e quella academico-peripatetica, v.<br />

Fin. IV, 57: "Nec vero minoris aestimanda ducebat ea quae ipse (scil. Zeno) bona negaret<br />

esse, quam illi qui ea bona esse dicebant"; Fin. IV, 60: "ad summam ea quae Zeno<br />

aestimanda et sumenda et apta naturae esse dixit, eadem illi bona appellant". Al di là della<br />

diversa terminologia applicata, Cicerone sostiene che entrambe le teorie convergano<br />

nell'attribuire lo stesso valore alle cose che vengono riconosciute come in conformità con la<br />

natura (Fin. IV, 58: "omniaque, quae secundum naturam sint, aestimatione aliqua digna"),<br />

conservando allo stesso tempo la superiorità della virtù e della moralità (Fin. IV, 59: "longe<br />

praestantissimum esse, quod honestum esset atque laudabile"). L'origine delle differenze tra<br />

le due tradizioni viene allora ridotta all'ostinazione con la quale Zenone insiste nel limitare<br />

l'appellativo 'bonum' ad una singola specie (di un genere in realtà più ampio) con<br />

caratteristiche sue proprie: Fin. IV, 60 "Zeno autem, quod suam, quod propriam speciem<br />

habeat, cur appetendum sit, id solum bonum appellat". L'unità sostanziale della tradizione<br />

viene infine enfatizzata tentando di sminuire la statura autoritativa dello stoicismo<br />

paragonandola con quella della tradizione academico-peripatetica.<br />

320


Commento<br />

A)<br />

– Platonis illis, et deinceps qui eorum auditores fuerunt: il punto d'origine<br />

della tradizione filosofica che viene qui rievocata è Platone, tuttavia al suo posto<br />

vengono chiamati a prendere la parola i suoi discepoli e i discepoli di questi ultimi.<br />

Si tratta dunque di un punto d'origine messo tra parentesi, per il quale si preferisce<br />

interpellare dei portavoce. Si noterà in particolare che evocando il nome dei<br />

'discepoli di Platone' compaiono sul medesimo piano sia Speusippo e Senocrate, sia<br />

Aristotele. E di seguito a questi Polemone e Teofrasto. Con l'impiego di 'Platonis<br />

illis' vengono quindi presentate le due tradizioni academica e peripatetica riunite in<br />

un unico compatto fronte.<br />

– Stoicos...qui de rebus bonis et malis sentirent ea quae ab hoc Polemone<br />

Zeno cognoverat: l'evocazione degli antichi filosofi ribadisce la coincidenza<br />

dottrinale tra le due tradizioni sulla questione dei beni e dei mali. L'asserto ha una<br />

componente altamente provocatoria, dal momento che sfrutta la presunta relazione<br />

maestro-discepolo tra Polemone e Zenone per affermare che la dottrina stoica nella<br />

sostanza non è altro che una forma della dottrina academica con qualche ridicola<br />

innovazione terminologica. Cfr. T. 43 = Fin. IV, 3: cur et ab eo ipso et a<br />

superioribus dissideret. L'argomentazione ciceroniana opera dunque un ribaltamento<br />

completo di prospettiva: il libro IV si apre infatti con una discrepanza e si chiude con<br />

una coincidenza. Attraverso l'analisi delle argomentazioni impiegate da entrambi i<br />

lati si constata allora che quella che, dal punto di vista stoico, appare una discrepanza<br />

dottrinale risulta essere invece, da un punto di vista esterno, e probabilmente<br />

simpatetico rispetto alla tradizione vetero-academica, una sostanziale concordanza<br />

d'opinioni.<br />

– nominibus uterentur iis quae prima specie admirationem, re explicata<br />

risum moverent: v. Fin. IV, 60: "si de re disceptari oportet, nulla mihi tecum, Cato,<br />

potest esse dissensio. Nihil est enim, de quo aliter tu sentias atque ego, modo<br />

commutatis verbis ipsas res conferamus. Nec hoc ille non vidit, sed verborum<br />

magnificientia est et gloria delectatus". L'uso di un vocabolario specifico per tutte le<br />

321


cose riconosciute come conformi alla natura (v. sumenda/prohgm na) 561 , distinto<br />

rispetto a quello applicato alla virtù morale (bonum/¢gaqÒn), può suscitare<br />

ammirazione, nella misura in cui corrisponde ad un allargamento del vocabolario<br />

filosofico e ad un corrispondente approfondimento teorico. La ricchezza e specificità<br />

del linguaggio filosofico come distinto e 'superiore' rispetto al linguaggio comune è<br />

del resto un tema ampiamente dibattuto già nell'antichità. Cicerone dal canto suo si fa<br />

talvolta portavoce di una posizione favorevole all'uso in filosofia di un linguaggio<br />

accessibile e vicino all'uso comune: v. Fin. IV, 57. Qualora diventi chiaro poi che due<br />

termini distinti (come ¢gaqά e prohgm na) coincidono entrambi con<br />

un'attribuzione di valore a ciò che in primo luogo il desiderio naturale persegue, la<br />

distinzione terminologica non può che apparire come inutilmente sofisticata e<br />

ridicola.<br />

– cur non propriis verbis ea tenebas? : cfr. Fin. IV, 15: "itaque ab iis<br />

constitutio illa prima naturae, a qua tu quoque ordiebare, his prope verbis<br />

exponitur"; Fin. IV, 57: "...ut verbis utamur quam usitatissimis et quam maxime<br />

aptis, id est rem declarantibus".<br />

– sin te auctoritas commovebat, nobisne omnibus et Platoni ipsi ...:<br />

Il concetto di auctoritas 562 risulta essere di grande importanza nella valutazione<br />

comparativa della filosofia stoica (v. T. 41 = Ac.libri I, 34-35 : qui primi Platonis<br />

rationem auctoritatemque susceperant). Il ritorno alla filosofia degli antichi viene<br />

infatti presentato come un ritorno alla fonte originale di ogni autorità filosofica: v.<br />

Ac.libri I, 17: "Platonis autem auctoritate, (...) una et consentiens duobus vocabulis<br />

philosophiae forma instituta est, Academicorum et Peripateticorum"; Ac.libri I, 33:<br />

"praeclare enim explicatur Peripateticorum et Academiae veteris auctoritas"; Fin.<br />

IV, 44: "Atque adhuc ea dixi, causa cur Zenoni non fuisset, quam ob rem a<br />

superiorum auctoritate discideret";<br />

Ogni esponente dell'istanza filosofica academico-peripatetica viene collocato in<br />

relazione al processo di trasmissione dell'aucoritas originaria : Ac. libri I, 33:<br />

"Theophrastus autem (...) vehementius etiam fregit quodam modo auctoritatem<br />

veteris disciplinae"; Ac.libri I, 34 = T. 41 : "Speusippus autem et Xenocrate, qui<br />

primi Platonis rationem auctoritatemque susceperant"; Luc. 15: "sic Arcesilas quis<br />

561 v. DL VII, 102; 105; v. LS 58 A-K, vol. 1, pp. 354-359, vol. 2, pp. 349-355. v. Fin. IV, 60.<br />

562 v. pp. 158-159 ; 171 ; 228-233.<br />

322


constitutam philosophiam everteret et in eorum auctoritatem delitisceret"; cfr. Tusc.<br />

V, 34 : "Zeno (...) insinuasse se in antiquam philosophiam videtur, huius sententiae<br />

gravitas a Platone auctoritate repetatur".<br />

Si noterà che nei contesti invece dove l'esposizione si avvale invece del punto di<br />

vista dello 'scetticismo' academico, il ricorso all' aucoritas, piuttosto che alla ratio,<br />

viene valutato negativamente: v. Luc. 9: "ad unius se auctoritatem contulerunt (vs<br />

quid constantissime dicatur exquirere)"; Luc. 60: "Ut, qui audiunt, inquit, ratione<br />

potius quam auctoritate ducantur"; Leg. I, 36: "Et scilicet tua libertas disserendi<br />

amissa est, aut tu is es, qui in disputando non tuum iudicium sequare, sed auctoritati<br />

aliorum pareas"; Tusc. 83; ND I, 10; Cicerone evita dunque attentamente di invocare<br />

l'aucoritas di Platone quando prende la parola come portavoce dell'Academia<br />

'scettica', v. Sedley (1997a), pp. 118-122.<br />

In generale l'uso del concetto implica una forza persuasiva capace di far presa<br />

sull'interlocutore, sulla cui base viene valutata la statura filosofica di ogni teoria: v.<br />

Luc. 62-63; Luc. 64; "Auctoritas autem tanta plane me movebat, nisi tu opposuisses<br />

non minorem tuam"; Luc. 69: "Quamvis igitur fuerit acutus, ut fuit, tamen<br />

inconstantia levatur auctoritas"; Fin. II, 39: "Huius ego nunc auctoritatem sequens<br />

idem faciam..."; Fin. II, 44: "cum Epicuro autem (...), is qui auctoritatem minimam<br />

habet, maximam vim, ...";<br />

In senso traslato, inoltre, l'auctoritas può essere : un attributo del discorso: Fin. V, 13:<br />

"concinnus deinde et elegans huius, Aristo, sed ea, quae desideratur, a magno<br />

philosopho, gravitas, in eo non fuit; scripta sane et multa et polita, sed nescio quo<br />

pacto auctoritatem oratio non habet"; un sinonimo di 'importanza': Fin. II, 42: "id<br />

autem eius modi est, ut additum ad virtutem auctoritatem videatur habiturum et<br />

expleturum cumulate vitam beatam,..."; Fin. V, 34: "Iam quae corporis sunt, ea nec<br />

auctoritatem cum animi partibus, comparandam et cognitionem habent faciliorem.<br />

Itaque ab his ordiamur"; Fin. V, 72: "auctoritatem honestatis"; Fin. V, 86: "Omnis<br />

auctoritas philosophiae, ut ait Theophrastus, consistit in beata vita comparanda".<br />

Nella misura in cui si pone l'accento sul processo di trasmissione – o mancata<br />

trasmissione – dell' auctoritas attraverso il rapporto discepolo-maestro, il concetto<br />

rappresenta una prima esemplificazione del concetto di 'tradizione', nell'accezione di<br />

trasmissione di una specifica dottrina filosofica. In radicale opposizione, allora,<br />

323


B)<br />

rispetto al criterio 'scettico' di constantia, l' auctoritas diventa uno dei parametri<br />

orientativi nel confronto tra istanze filosofiche, a partire da un punto di vista che<br />

promuove il platonismo come tradizione dogmatica.<br />

– in re publica princeps:<br />

princeps come scolarca o come personalità eminente del suo tempo. Attraverso l'uso<br />

di questo tipo di lessico, Cicerone presenta al lettore gli esponenti della tradizione<br />

filosofica greca nei termini del contesto politico romano. Sulla possibilità infatti di<br />

mettere in risalto il potenziale 'politico' delle figure dei filosofi academici Cicerone<br />

insiste a più riprese. Questo tipo di insistenza può essere letta come un contributo<br />

importante al più ampio panorama di progressiva 'ellenizzazione' culturale del mondo<br />

romano, per quanto, è bene ricordare come Cicerone sia sempre molto attento a<br />

mantenere un atteggiamento di assimilazione attiva, attraverso le categorie<br />

concettuali della tradizione romana, di quelli che potevano essere i tesori scientifici,<br />

intellettuali e culturali provenienti dal mondo greco, v. Ferrary (1988). Cfr. Fin. IV, 5:<br />

"quam multa illi de re publica scripserunt...". La tradizione vetero-academica viene<br />

proposta come un modello non solo per le sue dottrine filosofiche, ma anche per<br />

quanto riguarda la pratica di quelle discipline di cui necessita il buon cittadino: l'arte<br />

della politica e della retorica. v. cum omnis doctrina liberalis : T. 49 = Fin. V, 7. Tra<br />

tutte le istanze filosofiche del mondo ellenistico, Cicerone reperisce soltanto nelle<br />

opere degli academici e dei peripatetici un certo connubio tra tutte le discipline che si<br />

trovano riunite nella figura dell'oratore ideale ciceroniano, per il quale la conduzione<br />

degli affari pubblici è un elemento imprenscindibile. Questo è probabilmente una<br />

delle principali motivazioni che lo spingono ad accettare, almeno parzialmente, l'idea<br />

storiografica promossa da Antioco d'Ascalona a proposito dell'unità della tradizione<br />

academico-peripatetica. L'unione delle due istanze filosofiche coincide infatti con il<br />

recupero di un'impostazione filosofica e di un patrimonio culturale funzionale alla<br />

formazione del buon cittadino.<br />

Il passo in oggetto costringe l'interlocutore stoico a confrontarsi con il prestigio della<br />

tradizione vetero academica. Vengono evocate le ombre degli antichi filosofi, come se si<br />

trattasse di lari della cultura degni di tutto il rispetto possibile. Nella finzione scenica, una<br />

324


volta restituita la voce agli antichi filosofi, questi protesterebbero contro le scelte di Catone in<br />

favore dello stoicismo. I due principali argomenti sollevati sono la presunta sostanziale<br />

identità di vedute sulla questione dei beni e dei mali e la superiorità della tradizione<br />

academico-peripatetica nella formazione del buon cittadino (cfr. Fin. IV, 5; Fin. V, 7 = T. 49 :<br />

Ex eorum enim scriptis et institutis cum omnis disciplina liberalis ...) . Il primo punto è il<br />

risultato di una strategia argomentativa che attraversa tutto il IV libro, la cui origine è da<br />

rintracciarsi in Carneade 563 , il quale, da una prospettiva 'scettica', riduceva il conflitto tra<br />

istanze filosofiche, in particolare tra peripatetici e stoici, a futili questioni terminologiche.<br />

Diversamente, in questo contesto la convergenza filosofica delle due posizioni etiche viene<br />

enfatizzata per consolidare l'idea di un rapporto di filiazione dogmatica dello stoicismo dalla<br />

tradizione vetero-academica. La menzione del rapporto discepolo-maestro tra Polemone e<br />

Zenone ha in questo senso la funzione di suggello storiografico. Il secondo punto invece<br />

equivale a una strategia di promozione della tradizione vetero-academica. Riunendo tutti i<br />

discepoli di Platone in un unico fronte, infatti, si forma virtualmente un bacino di tutte le<br />

discipline e scienze che non solo i filosofi academici, ma anche e sopratutto Aristotele e i suoi<br />

discepoli hanno contribuito a coltivare, il cui potenziale propagandistico non ha bisogno di<br />

essere enfatizzato. In particolare le discipline connesse alla retorica e alla politica,<br />

indispensabili per la formazione del buon cittadino, e dunque particolarmente attraenti dal<br />

punto di vista della mentalità romana, vengono associate alla tradizione degli antichi filosofi.<br />

In conclusione la promozione della posizione dogmatica degli antichi filosofi passa per il<br />

recupero del potenziale culturale, retorico e politico, delle due maggiori scuole dell'antichità.<br />

Tra le ombre evocate si nota l'assenza di una figura fondamentale, Platone, il padre di tutte le<br />

ombre, il cui nome figura nel testo solo per convocare d'un sol gesto tutti i suoi discepoli. Da<br />

Platone emana l'autorità della tradizione vetero-academica, ma sono i suoi discepoli a<br />

prendere la parola al suo posto. Il perché di questa silenziosa assenza viene generalmenete<br />

attribuito allo statuto controverso del pensiero di Platone, sottoposto nel periodo ellenistico a<br />

una lettura plurima, scettica e dogmatica. La ricchezza del testo di Platone avrebbe fornito<br />

supporto in egual misura a letture tra loro contrastanti (v. Ac.libri I, 17: "Platonis auctoritate,<br />

qui varius et multiplex et copiosus fuit (...)"; Tusc. V, 11: "cuius multiplex ratio disputandi<br />

563 v. Fin. III, 41; Tusc. V, 120. le scelte dialogiche e narrative di Cicerone permettono di rendere visibili i<br />

molteplici strati polemici che l'operazione dialettico-storiografica di Antioco presuppone. Il libro III del De<br />

finibus mette in scena il personaggio di Catone e la sua reazione alle provocazioni riduttiviste di Carneade.<br />

Catone insiste sulle peculiarità della dottrina stoica in opposizione rispetto all'etica peripatetica sopratutto per<br />

rispondere a quanto Carneade sosteneva a proposito della sostanziale identità di vedute delle due scuole in<br />

ambito etico. Il libro IV invece porta il lettore in una fase del dibattito più avanzata, in cui, in seguito<br />

all'intervento di Antioco d'Ascalona, la posizione stoica è costretta a confrontarsi, non solo con i tradizionali<br />

avversari peripatetici, ma con la tradizione vetero-academica nel suo complesso. La provocazione 'scettica' di<br />

Carneade viene infatti recuperata e cambiata di segno: la presunta convergenza dottrinale tra lo stoicismo e i<br />

filosofi antichi getta le basi per una rilettura dei punti di forza della 'tradizione dogmatica'.<br />

325


erumque varietas et ingenii magnitudo Platonis memoria et litteris consecrata plura genera<br />

effecit dissentientium philosophorum"). Per questo motivo Antioco avrebbe ritenuto<br />

giustificata la lettura del pensiero di Platone attraverso la lente interpretativa della prima<br />

generazione di discepoli (Luc. 15: "Plato (...) reliquit perfectissimam disciplinam,<br />

Peripateticos et Academicos, (...)"). La consequenza di questa scelta è il defilarsi di Platone<br />

sullo sfondo dietro le ombre, ridotto a figura tutelare, impiegata tutt'al più per provocare la<br />

paradossalità di alcune posizioni stoiche. La critica ha di consequenza sollevato la questione<br />

se, dal punto di vista di Antioco, Platone vada o meno annoverato tra gli 'antiqui', all'interno<br />

della 'vetus Academia'. Dörrie (1987), p. 412, n. 1, p. 483, ha sostenuto che l'occultamento<br />

della figura di Platone si spinge nel pensiero di Antioco fino alle sue estreme conseguenze e la<br />

sua ricostruzione della disciplina degli antichi si sarebbe volontariamente basata soltanto su<br />

quanto attribuibile ai successori di Platone. Tuttavia non è possibile dire che riferimenti<br />

specifici alla dottrina di Platone non siano presenti nei testi ispirati da Antioco: non sono<br />

infatti trascurabili a questo proposito i numerosi riferimenti alla natura dogmatica del pensiero<br />

di Platone posti all'interno degli exposé di Lucullo o Varrone nei testi ciceroniani: l'aggettivo<br />

'perfectissimam' nel passo di Luc. 15, non lascia ombra di dubbio che a Platone,<br />

specificamente, venisse attribuita una dottrina completa, a carattere dogmatico, trasmessasi<br />

per intero attraverso la tradizione vetero-academica; l'exposé di Varrone si spinge fino a<br />

rievocare la teoria delle idee, coerentemente presente anche nella sezione epistemologica della<br />

dottrina degli 'antichi' (cfr. Ac.libri I, 30-31 e Ac.libri I, 33) 564 . Senza ombra di dubbio allora<br />

Antioco presentava la disciplina degli antichi come una forma autorevole della dottrina di<br />

Platone, ma certo non poteva sfuggire alla consapevolezza che la sua non era l'unica<br />

interpretazione possibile. Il primo a presentare con incertezza il rapporto tra Platone e la<br />

'vetus Academia' è Cicerone stesso, in qualità di portavoce della prospettiva 'scettica', v.<br />

Ac.libri I, 46 : "siquidem Platone ex illa vetere numeramus...". Anche dopo tutta l'esposizione<br />

di Varrone, qualche dubbio sul rapporto tra Platone e la dottrina dei suoi successori permane.<br />

Il carattere aporetico dei dialoghi platonici poteva infatti esser enfatizzato in supporto di una<br />

lettura scettica dell'attitudine filosofica di Platone.<br />

Nell'ambito dell'etica, in particolare, il problema del rapporto tra Platone e gli 'antichi<br />

academici' assume risvolti interessanti. Sembrerebbe infatti che Antioco o Cicerone per sua<br />

vece eviti accuratamente di attribuire una formula del telos a Platone o anche solo di<br />

chiamarlo in causa nella discussione del problema della diaphonia in ambito etico 565 . Questo<br />

tipo di cautela appare ancor più interessante qualora si tenga conto dei risvolti posteriori del<br />

564 v. Barnes (1989), pp. 95-96.<br />

565 Cfr. Long (1995), p. 46, secondo il quale la filosofia di Antioco "it is reasonable to conclude, did not<br />

incorporate any distinctively Platonic ethics, treating Plato rather vaguely as the grand authority for his<br />

synthetic amalgam of Academy, Peripatos, and Stoa".<br />

326


platonismo e dell'attribuzione perentoria a Platone della formula del telos, ispirata al famoso<br />

passo del Teeteto 176 a : "ὁμοίωσις θεῷ κατὰ τὸ δυνατόν". In assenza di una formula del<br />

telos espressamente attribuita a Platone da parte di Antioco si potrebbe veder confermata la<br />

tesi di Dörrie per la quale ogni rapporto di Antioco con Platone è filtrato dall'interpretazione<br />

dei successori, tuttavia esiste un impiego del nome di Platone, che gli restituisce una certa<br />

indipendenza rispetto ai precisi confini della posizione etica degli antichi. Si veda ad esempio<br />

Fin. IV, 21; Fin. IV, 56; Fin. IV, 64, in cui il nome di Platone viene strumentalmente chiamato<br />

in causa per criticare i concetti stoici di vizio e virtù, i quali non ammettono gradi intermedi e<br />

considerano sullo stesso piano ogni difetto rispetto alla virtù 566 . Se qualunque uomo,<br />

argomenta Cicerone, che non sia saggio è ugualmente misero e infelice, allora anche Platone,<br />

posto che non possa essere annoverato tra i saggi, non differirebbe dal più efferato dei tiranni.<br />

Questo tipo di uso puramente strumentale, indipendente dalle posizioni dottrinali<br />

effettivamente attribuibili a Platone e che anzi evita accuratamente di trattarlo come autore di<br />

una posizione filosofica determinata, finisce per fornire un qualche tipo di informazione sul<br />

rapporto apparentemente intrattenuto da Antioco – o da Cicerone in questo contesto – con la<br />

figura di Platone. Il fondatore dell'Academia viene scelto solo apparentemente per caso per<br />

figurare come quella persona che, se non puoi considerare saggio, dovresti considerare, dal<br />

paradossale punto di vista degli stoici, al pari del più miserabile degli uomini (Fin. IV, 64: "et,<br />

quoniam catuli qui iam dispecturi sunt caeci aeque et ii qui modo nati, Platonem quoque<br />

necesse est, quoniam nondum videbat sapientiam, aeque caecum animo ac Phalarim fuisse");<br />

Il figurare di Platone nell'esempio è certamente una chiara provocazione e la provocazione<br />

funziona quanto più polivalente è il giudizio formulato su Platone. Perché la provocazione<br />

funzioni infatti bisogna assumere 1) che Platone non fosse unanimamente annoverato tra i<br />

saggi, dal punto di vista della dottrina stoica 567 ; ma che 2) il suo prestigio fosse<br />

sufficientemente consolidato presso gli stoici in modo da rendergli insopportabile l'idea di<br />

abbandonarlo insieme ai miseri e agli scellerati 568 ; in conclusione, perché la provocazione<br />

funzioni, la questione dell'interpretazione del pensiero di Platone deve essere una questione<br />

566 Cfr. DL. VII, 120, 127.<br />

567 La figura del saggio stoico è in molti contesti più vicina ad un ideale regolatore, piuttosto che ad una<br />

qualsiasi figura storica. Generalmente la figura del saggio stoico incarna le tesi dell'etica stoica in tutta la loro<br />

radicale paradossalità. v. DL VII 117-128.<br />

568 Si può affermare con una certa sicurezza che lo stoicismo abbia intrattenuto un rapporto quantomeno<br />

fecondo con i testi di Platone, in particolare con il Timeo, v. Reydams-Schills (1999), e alcuni dei dialoghi<br />

socratici (Protagora, Lachete, Gorgia, Eutidemo, Menone), v. Alesse (2007), p. 23 ss. Platone sembra poi<br />

ricoprire una posizione di assoluto rilievo in particolare nelle elaborazioni dottrinali di Panezio e Posidonio.<br />

Filodemo parla di un' 'ammirazione' per Platone e Aristotele da parte di Panezio, v. Philod., Stoic.Hist.<br />

(PHerc. 1018) col. LXI = fr. 1 Van Straaten; T. 1 Alesse : « h)=n ga£r i)sxurw=j filopla/twn kai£<br />

filoaristote/lhj [dh£] kai£ parene/dwke tw=n Zhnwn[ei/w]n[ti dia£ th£]n )Akadh/meian [kai£ to£n Peri/]paton »,<br />

v. commento in Alesse (1997), p. 152 ; sull'idea di un 'ritorno' di Posidonio a Platone, v. Reydams-Schils<br />

(1997).<br />

327


aperta. Se Antioco avesse invece attribuito perentoriamente a Platone la posizione etica<br />

composita che attribuisce ai filosofi academico-peripatetici, al di là di ogni giudizio sul grado<br />

di plausibilità di questa interpretazione, sarebbe stato ben più difficile giocare sul potenziale<br />

sapieziale della sua figura. Tutto lascia credere invece che, consapevole della molteplicità<br />

delle appropriazioni della figura di Platone da parte di istanze antagoniste, egli consideri<br />

l'intepretazione del pensiero di Platone una questione per certi versi indeterminata e aperta. La<br />

disciplina degli antichi è dunque la legittima depositaria dell'eredità platonica, ma la figura di<br />

Platone rimane una realtà distinta, con un margine di autonomia, l'orizzonte d'incontro di<br />

diverse istanze, piuttosto che l'incarnazione precisa di un'istanza etica specifica 569 .<br />

L'intenzione di Antioco in conclusione sarebbe quella di inserirsi con successo nel dibattito<br />

sull'interpretazione del pensiero di Platone, senza affrontare Platone direttamente, ma<br />

lavorando, per così dire, ai lati, ricompattando la tradizione dogmatica in un unico fronte,<br />

risolvendone i conflitti interni e presentando così un alternativa valida rispetto<br />

all'interpretazione 'scettica' del platonismo.<br />

T. 48 : CICERO, DE FINIBUS BONORUM ET MALORUM V, 1, 2.<br />

Venit enim mihi Platonis in mentem, quem accepimus primum hic disputare solitum; cuius<br />

etiam illi hortuli propinqui non memoriam solum mihi adferunt, sed ipsum videntur in<br />

conspectu meo ponere. Hic Speusippus, hic Xenocrates, hic eius auditor Polemo, cuius illa<br />

ipsa sessio fuit quam videmus.<br />

Cfr. Polemo fr. 48 Gigante.<br />

Traduzione<br />

Mi viene infatti in mente Platone, che sappiamo esser stato il primo ad aver l'abitudine<br />

di discutere qui, di cui, i giardinetti qui vicino non solo mi portano il ricordo, ma ho<br />

l'impressione che me lo portino in persona dinanzi agli occhi. Qui stava Speusippo, qui<br />

Senocrate, qui il suo discepolo Polemone, a cui apparteneva quel seggio che vediamo.<br />

Contesto<br />

569 Cfr. Prost (2001), p. 252 : « il faut envisager séparément Platon et ses sucesseurs ».<br />

328


Il passo in oggetto è un tassello della cornice dialogica del libro V del De finibus. Ci troviamo<br />

ad Atene, nel 79 a.C.. Cicerone e i suoi compagni di viaggio approffittano dell'ora<br />

pomeridiana per fare una passeggiata fuori dalle mura della città, in direzione della quiete che<br />

sono sicuri di poter trovare nel parco dell'Academia (Fin. V, I). Il luogo è deserto e il silenzio<br />

circostante favorisce la rievocazione degli uomini illustri che un tempo popolavano i dintorni<br />

(v. Dörrie (1978), pp. 211-220). Il prologo dell'ultimo libro del De finibus mette in scena un<br />

viaggio della memoria, un movimento a ritroso nel tempo, fino al punto di partenza. Si tratta<br />

di un viaggio in due tappe : in primo luogo, siamo trasportati nel tempo della formazione<br />

filosofica di Cicerone e dei suoi compagni, ma poi ancora più indietro, nel tempo della piena<br />

fioritura della cultura (filosofica e non) greca, i cui maggiori esponenti possono ancora essere<br />

associati a luoghi precisi della città di Atene: (Fin. V, 2) “tanta vis admonitionis inest in locis,<br />

ut non sine causa ex iis memoriae ducta sit disciplina”.<br />

Nessuno degli altri prologhi di questo testo di Cicerone presenta lo stesso livello di<br />

suggestività drammatica. Nel libro primo, infatti, Cicerone esponeva a Bruto 570 il suo<br />

programma culturale di esposizione della filosofia greca in latino; il secondo libro continua la<br />

discussione avviata nel primo e un vero e proprio prologo è assente, per quanto vengono<br />

evocate le figure tutelari di Socrate e Platone 571 ; nel libro terzo, l'argomento principale della<br />

discussione che precede viene riproposto ex abrupto, interpellando nuovamente l'interlocutore<br />

primario del testo: “Voluptatem quidem, Brute”; in seguito viene proposta una nuova sotto-<br />

cornice dialogica in cui si inseriscono il resto del libro III e l'intero libro IV , la quale viene<br />

strutturata dalla finzione scenica di una visita di Cicerone alla biblioteca di Lucullo (v. T. 43 =<br />

Fin. IV, 3, nota 502) in cui avviene l'incontro con il personaggio di Catone, simpatizzante<br />

della dottrina stoica.<br />

Il nuovo cambiamento di scena all'inizio del libro V corrisponde allora ad un crescendo<br />

d'intensità 'drammatica', per cui l'indagine etica affrontata dal testo si conclude con un ritorno<br />

alle origini dell'apprendimento filosofico di Cicerone. In conclusione il lettore viene messo<br />

nella condizione di risalire a ritroso tutte le premesse teoriche e culturali che hanno dato<br />

forma alla trattazione, ottenendo un'immagine ampia del valore, delle vicende e di tutte le<br />

conseguenze del processo di trasposizione del pensiero greco antico nella cultura romana<br />

contemporanea.<br />

570 v. Fin. I, 5: “nihil minus legimus quam hoc idem Graecum, quae autem de bene beateque vivendo a Platone<br />

disputata sunt, haec explicari non placebit Latine?”; sui motivi che possono aver contrubuito alla scelta di<br />

Bruto come interlocutore in questo tipo di contesto, v. Ac.libri I, 12: “Brutus quidem noster, excellens omni<br />

genere laudis, sic philosophiam Latinis litteris persequitur nihil ut iisdem de rebus Graeca desideres, et<br />

eandem quidem sententiam sequitur quam tu, nam Aristum Athenis audivit aliquamdiu, cuius tu fratrem<br />

Antiochum”. Sull'affiliazione filosofica di Bruto, v. Sedley (1997b), pp. 41-53.<br />

571 Fin. II, 1: « Quando enim Socrates, qui parens philosophiae iure dici potest, quicquam tale fecit? »; Fin. I,<br />

2: « ut e Platone intellegi potest », v. rif. al Fedro in Fin. II, 4: « Hoc positum in Phaedro a Platone ».<br />

329


Come notato dalla critica, non è senza amara ironia che Cicerone rievoca la condizione del<br />

parco dell'Academia. Le scuole extraurbane sono ormai disertate da studenti e filosofi,<br />

probabilmente a causa dei danni provocati dall'esercito di Sulla qualche anno prima. La scena<br />

filosofica si è spostata all'interno delle mura cittadine e Antioco insegna nel ginnasio chiamato<br />

Ptolemaeum. Dello splendore della scuola fondata da Platone non rimane che il ricordo e quei<br />

segni ancora tangibili dell'attività d'insegnamento un tempo avvenuta sul suolo dell'Academia<br />

possono esser considerati al pari di reperti archeologici. Questo tipo di scenario ospita il<br />

dialogo tra Cicerone e i suoi amici sull'operazione di recupero dell' 'antica Academia'<br />

patrocinata da Antioco d'Ascalona 572 , che il testo nel suo complesso si propone di restituire.<br />

La relazione tra scenografia e contenuto della rappresentazione non è senza importanza. Il<br />

deserto e il silenzio sul suolo dell'Academia sono infatti la rappresentazione di un passato<br />

irrecuperabile e irreversibile, sono i segni tangibili della decadenza, per quanto la nostalgia<br />

dell'uomo di cultura possa ancora indulgere nel ricordo di un passato che fu. A differenza di<br />

quanto sostenuto dalla critica, il problema della continuità istituzionale della scuola non<br />

sembra rientrare tra le preoccupazioni più pressanti degli interlocutori 573 ; la decadenza in cui<br />

versa la sede storica della scuola non impedisce infatti a chi sia interessato di portare avanti ad<br />

Atene una formazione filosofica di tutto rispetto. L'omaggio pagato dai quattro illustri romani<br />

ai luoghi della cultura greca, nell'intento di Cicerone, mette invece in scena una sorta di<br />

rituale di passaggio: i visitatori romani, più dei noncuranti cittadini ateniesi, sono depositari<br />

della vis admonitionis del suolo dell'Academia e della sua storia. Come giustamente notato da<br />

Dörrie (1978), p. 216-217, l'evocazione delle vestigia summorum virorum allora non è solo un<br />

omaggio a Platone e alla sua scuola, ma assume nel testo un valore fondamentalmente<br />

protreptico, che non si limita affatto alla figura del giovane interlocutore, ma si rivolge<br />

verosimilmente al mondo romano per intero, richiamandolo ad un ruolo di responsabilità<br />

attiva, non soltanto politica, nei confronti della cultura e della filosofia greca; cfr. Tusc. II, 5:<br />

“Quam ob rem hortor omnis qui facere id possum, ut huius quoque generis laudem iam<br />

languenti Graeciae eripiant et transferant in hanc urbem, sicut reliquas omnis, quae quidem<br />

erant expetendae, studio atque industria sua maiores nostri transtulerunt”.<br />

Commento<br />

572 Brut. 315: « Cum venissem Athenas, sex menses cum Antiocho veteris Academiae nobilissumo et<br />

prudentissimo philosopho fui studiumque philosophiae nunquam intermissum a primaque adulescentia<br />

cultum et semper auctum hoc rursum summo auctore et doctore renovavi. Eodem tamen tempore Athenis<br />

apud Demetrium Syrum veterem et non ignobilem dicendi magistrum studiose exerceri solebam ».<br />

573 v. Annas (2001), p. xvii: « Cicero probably means us to notice that Plato's Academy is now dead as a Greek<br />

institution, but lives on in the intellectual activity of Cicero and others like him, in the debates in this book<br />

and more generally in Cicero's attempt to get Romans to think philosophically in their own language ».<br />

330


A)<br />

– Platonis...primum hic disputare solitum: l'omaggio, diretto o indiretto, a<br />

Platone è un elemento ricorrente nell'attività filosofica di Cicerone. In questo<br />

contesto la figura del filosofo viene chiamata a coprire un ruolo di primissimo piano,<br />

sia per il legame che intrattiene con il luogo prescelto, sia per l'argomento della<br />

trattazione che segue. Pisone infatti si accinge a fornire un'esposizione di quella che<br />

ritiene essere la più genuina eredità platonica ed in via preliminare si pone faccia a<br />

faccia con l'auctoritas (“in conspectu meo”). Ci sono ragioni per credere che questo<br />

'incontro' tra Pisone e Platone contenga una punta di ironia ciceroniana. Non si può<br />

fare a meno di notare che, nonostante l'esposizione avvenga nel luogo fisico<br />

dell'Academia e nonostante l'evocazione drammatica di Platone e dei suoi successori,<br />

il discorso che segue (v. Fin. V, 9-14; 42-43; 54; 77; 86) fa molto più riferimento ad<br />

Aristotele e alla sua scuola 574 , che di fatto è fiorita in un altro parco extra-urbano, e<br />

che certamente non coincide, per quanto Antioco si sforzi di sostenere il contrario,<br />

con l'Academia.<br />

– illi hortuli propinqui: la menzione da parte del testo ciceroniano di un<br />

'hortulus' di Platone attesta la circolazione già in epoca romana dell'idea che Platone<br />

possedesse un piccolo appezzamento di terra non lontano dal parco dell'Academia,<br />

cfr. Il bios di Polemone, p. 60 ss.: 'il giardino di Platone'.<br />

– Polemo, cuius illa ipsa sessio fuit quam videmus: il terzo scolarca<br />

dell'Academia viene rievocato per il tramite di una seduta in pietra, sulla quale<br />

verosimilmente non solo Polemone aveva avuto l'occasione di sedersi, ma che<br />

probabilmente distingueva il posto dello scolarca rispetto a quello degli altri<br />

discepoli. Diversamente bisognerebbe immaginare una speciale incisione epigrafica<br />

posta ad indicare il punto esclusivo in cui Polemone si sedeva in occasione delle<br />

riunioni con i suoi colleghi e discepoli. Il termine 'sessio' potrebbe inoltre avere la<br />

stessa funzione del riferimento all'Esedra in DL IV, 19 (= T. 2). In ogni caso<br />

574 L'oggetto dell'esposizione del discorso di Pisone viene in un primo momento descritto come « Academiae de<br />

finibus bonorum Peripateticorumque sententia » (Fin. V, 8), ma in seguito si riduce alla « Peripateticorum<br />

disciplina » (Fin. V, 9); la parte conclusiva del testo inoltre (V, 76 ss.) si occupa dell'antico conflitto tra la<br />

posizione stoica e la posizione peripatetica (Fin. V, 76: « itaque haec cum illis (scil. Stoicis) est dissensio,<br />

cum Peripateticis nulla sane »; Fin. V, 78: « Atqui, inquit, si Stoicis concedis ut virtus sola, si adsit vitam<br />

efficiat beatam, concedis etiam Peripateticis »), senza alcuna menzione dell'apporto specifico dell'Academia<br />

al dibattito. v. anche Fin. V, 86; 93; 94.<br />

331


B)<br />

l'attenzione portata sul nome di Polemone, attraverso la menzione di uno speciale<br />

oggetto fisico depositario della sua memoria, coincide con la funzione di maggior<br />

rilievo rispetto ai suoi predecessori, che gli viene attribuita in seguito nel testo (v. T.<br />

49 = Fin. V, 7), nel far combaciare la teoria academica con quella di Aristotele.<br />

I riferimenti ad oggetti materiali (il giardino, il seggio, l'esedra) nella scena d'apertura del V<br />

libro hanno la funzione di rievocare le figure tutelari della discussione che il libro contiene. A<br />

fianco di Platone (V, 2) e Carneade (V, 4), sul suolo dell'Academia si vede spuntare anche la<br />

figura di Polemone. L'importanza filosofica del terzo scolarca dell'Academia viene dunque<br />

presentata come allo stesso livello delle grandi figure del passato rievocate nel corso di tutto il<br />

prologo.<br />

Lo stesso meccanismo di rievocazione di un'autorità filosofica attraverso un oggetto fisico si<br />

ritrova nel Brutus, in cui la discussione tra i personaggi di Cicerone, Bruto e Pomponio Attico<br />

ha luogo “in pratulo propter Platonis statuam” (Brut. 24). L'effige del filosofo tuttavia non<br />

garantisce che il contenuto della trattazione sia strictu sensu platonico. I testi ciceroniani<br />

infatti rispondono ad esigenze espositive e teoriche derivanti dal contesto contemporaneo,<br />

esenti da preoccupazioni storiche di tipo 'archeologico' o 'filologico'. Come allora si tratta di<br />

un 'Platone' problematicamente contemporaneo, altrettanto possiamo pensare per la funzione<br />

filosofica del personaggio di Polemone, chiamato in causa prevalentemente per rispondere ad<br />

esigenze del discorso derivate da un contesto a lui posteriore.<br />

T. 49 : CICERO, DE FINIBUS V, 3, 7.<br />

Tum Piso: 'Etsi hoc', inquit, 'fortasse non poterit sic abire cum hic adsit' (me autem<br />

dicebat), 'tamen audebo te ab hac Academia nova ad veterem illam vocare, in qua, ut dicere<br />

Antiochum audiebas, non ii soli numerantur qui Academici vocantur, Speusippus,<br />

Xenocrates, Polemo, Crantor ceterique, sed etiam Peripatetici veteres, quorum princeps<br />

Aristoteles, quem excepto Platone haud scio an recte dixerim principem philosophorum. Ad<br />

eos igitur converte te, quaeso. Ex eorum enim scriptis et institutis cum omnis doctrina<br />

332


liberalis, omnis historia, omnis sermo elegans sumi potest, tum varietas est tanta artium ut<br />

nemo sine eo instrumento ad ullam rem inlustriorem satis ornatus possit accedere. Ab his<br />

oratores, ab his imperatores ac rerum publicarum principes exstiterunt. (...)".<br />

cfr. Polemo fr. 8 Gigante; Antiochus fr. 9 Mette; Krantor T. 5C Mette.<br />

1 poterit Ald. : poteris w || 5 converte te gP : convertere R : convertere te f.<br />

Traduzione<br />

Allora Pisone: – Anche se, disse, non potrà andar a finire così, perché è presente lui –<br />

parlava di me –, tuttavia proverò ad attrarti da questa nuova Academia a quella vecchia,<br />

nella quale, come sentivi dire da Antioco, non si annoverano soltanto coloro che vengono<br />

chiamati academici, come Speusippo, Senocrate, Polemone, Crantore e gli altri, ma<br />

anche gli antichi peripatetici, fra cui il primo fu Aristotele, che, escludendo Platone, non<br />

so se farei bene a chiamare il primo dei filosofi. Volgiti dunque verso di loro, ti prego.<br />

Perché dai loro scritti e dai loro insegnamenti è possibile desumere ogni arte liberale,<br />

ogni scienza storica, ogni finezza di linguaggio, e sopratutto tanto grande è la varietà<br />

delle cognizioni che nessuno senza tale bagaglio potrebbe accostarsi sufficientemente<br />

preparato a nessuna delle cose più importanti. Da loro derivarono oratori, governanti e<br />

capi di stato. (...).<br />

Contesto<br />

Pisone 575 si rivolge al giovane Lucio, cugino molto amato di Cicerone, con un esortazione alla<br />

filosofia, affinché la sua ammirazione nei confronti dei grandi personaggi del passato non<br />

575 Marcus Pupius Piso Frugi Calpurnianus, originario della gens Calpurnia, adottato da Marcus Pupius, dopo<br />

aver servito nella terza guerra contro Mitridate, come legato di Pompeo, divenne console nel 61 a.C.<br />

Nonostante la promettente formazione come orator durante la giovinezza, Pisone abbandonò in seguito la<br />

carriera forense (Brut. 236) e le sue relazioni politiche e personali con Cicerone si deteriorarono<br />

progressivamente ; v. Cic., pro Domo Sua, 13; in Verrem I, 14; pro Plancio 5, 21; pro Flacco, 3; in Pisonem,<br />

26; ad Atticum, I, 12-18; Philip. II, 25.<br />

Nel contesto del V libro del De finibus tuttavia viene rievocata solo l'atmosfera di amichevole confronto al<br />

tempo del loro soggiorno ateniese, senza l'ombra di nessuno dei dissapori che intervennero invece sulla scena<br />

politica negli anni successivi. La scelta di Pisone come interlocutore in questo contesto risulta meglio<br />

giustificata alla luce di alcuni dei giudizi formulati da Cicerone sulla sua cultura personale: (Brut. 236) « M.<br />

Piso quicquic habuit, habuit ex disciplina maxumeque ex omnibus qui ante fuerunt Graecis doctrinis eruditis<br />

fuit. Habuit a natura genus quoddam acuminis quod etiam arte limaverat, quod erat in reprehendidis verbis<br />

versutum et sollers sed saepe stomachosum, nonnumquam frigidum, interdum etiam facetum ».<br />

333


imanga una semplice curiosità, ma diventi un'imitazione profonda, un modo di vita, poiché,<br />

con l'ausilio della filosofia, qualunque sia la disciplina a cui il giovane deciderà poi di<br />

dedicarsi, questa aumenterà di valore e di prestigio (Fin. V, 6: “ut illud ipsum quod studet<br />

facere possit ornatius”). La responsabilità di cui gli interlocutori si fanno carico nei confronti<br />

del giovane Lucio (Fin. V, 6: “Nos vero, inquit, omnes omnia ad huius adulescentiam<br />

conferamus”), riecheggia il tipo di rapporto già evocato nel libro III tra Catone, Cicerone e il<br />

giovane Lucullo (Fin. III, 8: “Est enim mihi magna curae (quamquam hoc quidem proprium<br />

tuum munus est) ut ita erudiatur...”). In entrambi i casi nella composizione del testo Cicerone<br />

combina la responsabilità derivante dalla sua posizione con un omaggio alla memoria dei due<br />

promettenti giovani morti prematuramente.<br />

Commento<br />

A)<br />

– ab hac Academia nova ad veterem illam vocare: cfr. Ac.libri I, 13: (Varro cum Cicero<br />

loquitur) « “Sed de te ipso quid est,” inquit, “quod audio?” “Quoniam,” inquam, “de<br />

re?” “Relictam a te veterem Academiam,” inquit, “tractari autem novam” “Quid<br />

ergo?” inquam, “Antiocho id magis licuerit nostro familiari, remigrare in domum<br />

veterem e nova, quam nobis in novam e vetere? Certe enim recentissima quaeque sunt<br />

correcta et emendata maxime (...)” »; in questo passo, come in altri contesti, l'istanza<br />

filosofica presentata da uno degli interlocutori viene trattata metaforicamente come un<br />

luogo fisico, una 'domus' in cui si viene invitati ad entrare e da cui si può<br />

figurativamente anche uscire. La critica ha considerato l'uso di questo tipo di metafore<br />

come l'espressione delle dinamiche di formale affiliazione filosofica ad una scuola. v.<br />

Glucker (1978), p. 101-112 ss; Glucker (1988), pp. 34-69; Steinmetz (1989), pp. 13-<br />

15 ; il percorso filosofico di Cicerone rappresenterebbe in questa prospettiva un caso<br />

particolarmente complesso di ripetuto trasferimento da un'istanza all'altra. Sulla base<br />

di questo passaggio, Cicerone descriverebbe se stesso come un affiliato della nuova<br />

Academia già nel 79 a.C., data della finzione drammatica e del soggiorno ad Atene di<br />

Cicerone e dei suoi compagni, tuttavia la sua produzione retorico-filosofica precedente<br />

al 45-44 a.C., precendente cioè alla redazione degli Academica, sembrerebbe<br />

testimoniare una particolare vicinanza all'operazione di recupero del pensiero degli<br />

antichi di Antioco d'Ascalona, v. Hirzel (1883), III vol., p. 488-489; Pohlenz (1959), p.<br />

334


269; Glucker (1978), 70-101; Steinmetz (1989). In particolare il passo in cui il<br />

personaggio Varrone chiede spiegazioni al personaggio di Cicerone a proposito del suo<br />

'passaggio alla nuova Academia' (Ac.libri I, 13), sembrerebbe presupporre una fase in<br />

cui Cicerone sarebbe stato considerato come un affiliato dell' 'antica Academia' 576 .<br />

Autori antichi e moderni insistono d'altra parte sulla continuità dell'orientamento<br />

filosofico di Ciceone in linea con una posizione academica d'impronta 'scettica' 577 ;<br />

Reid (1885), p. 15-16, spiegava l'espressione impiegata dal personaggio di Varrone<br />

come un riferimento (extra-dialogico) alla produzione filosofica ciceroniana, in cui<br />

prima del testo degli Academica si annoverano 'copie' di scritti dell'antica Academia (il<br />

riferimento è a De republica, De legibus, Consolatio, Hortensius, che nella fraseologia<br />

contemporanea concernente Cicerone sarebbero stati classificati come 'vetero-<br />

academici'). Se anche il testo non intende fare riferimento a un genere della<br />

produzione filosofica di Cicerone, come è stato argomentato da Glucker, il fatto che il<br />

personaggio di Varrone, o gli altri interlocutori filosofici di Cicerone, lo associno allo<br />

studio della tradizione vetero-academica non è sufficiente, a mio avviso, a sostenere<br />

l'ipotesi di una fase propriamente antiochea del pensiero di Cicerone. L'uso del<br />

termine 'affiliazione' 578 al posto di quelli più rigidi di fedeltà o obbedienza, non<br />

permette del resto di mutare realmente lo scenario, poiché se ci domandiamo di quale<br />

familia filosofica Cicerone si possa, senza ombra di dubbio, esser mai sentito membro,<br />

nell'ambito della sua formazione o della sua produzione filosofica, la risposta è<br />

un'unica: la familia di Platone, dalla quale apprende innanzitutto che essere membro di<br />

una famiglia filosofica non significa necessariamente obbedienza. A discapito di ogni<br />

scansione troppo rigida tra fasi distinte del pensiero ciceroniano, risultano convincenti<br />

le argomentazioni a favore dell'unità degli obiettivi filosofici di Cicerone 579 , la cui<br />

articolata formazione academica gli consentirebbe di strutturare la sua personale<br />

indagine su più livelli e di avvalersi di una molteplicità di prospettive. Appare dunque<br />

576 Glucker (1988), pp. 41-45, suggerisce una lettura combinata di questo passaggio con altri due passi<br />

dell'opera ciceroniana: ND I, 6, dove la scelta filosofica di Cicerone, in questo caso un'instanza neoacademica,<br />

viene descritta dal punto di vista di un potenziale pubblico critico, nei termini di un 'patrocinium<br />

necopinatum susceptum' ('necopinatum' in particolare confermerebbe il fatto che Cicerone veniva<br />

precedentemente associato con una diversa posizione); e ND I, 11, dove però proprio il giudizio espresso in<br />

ND I, 6, viene contestato.<br />

577 v. Plut., Cic. 4; Burkert (1965), p. 181; Gigon (1973); Görler (1974), pp. 185-208; v. Lévy (1992a), p. 96-98.<br />

578 Come notato da Glucker (1988), il termine moderno 'affiliazione' (affiliation in inglese) può essere<br />

ricondotto al senso etimologico di filius, membro di una familia. Questo tipo di terminologia si trova del resto<br />

ampiamente sfruttata dai testi filosofici ciceroniani per descrivere i rapporti tra una scuola filosofica e i suoi<br />

membri, v. Leg. I, 55 ; Ac.libri I, 13 ; Ac.libri I, 43 ; Fin. IV, 49 ; Fin. V, 75 ; Tusc. I, 55; tuttavia il termine di<br />

familia permette una molteplicità di usi, a seconda dei diversi parametri di inclusività della sua definizione, e<br />

dunque una pericolosa oscillazione di significato in affermazioni come: « Cicerone faceva parte della familia<br />

di Antioco ».<br />

579 L'unità del pensiero di Cicerone può essere meglio inquadrata a partire dalla categoria di 'platonico', al cui<br />

interno si articolano una molteplicità di posizioni.<br />

335


plausibile, come nota anche Long (1995), p. 42, a proposito di Ac.libri I, 13, che<br />

questo tipo di contesti si avvalga del linguaggio metaforico di un 'trasferimento da un<br />

luogo all'altro', senza sottointendere le dinamiche di un'ufficiale affiliazione filosofica,<br />

che del resto nel caso specifico di Cicerone e in generale nel mondo romano non<br />

sembrerebbero comunque aver preso la stessa forma istituzionale che nel mondo<br />

greco.<br />

Il dialogo tra gli interlocutori ripropone allora l'opposizione tra le due principali<br />

interpretazioni della tradizione academica: il personaggio di Cicerone viene associato<br />

con l'interpretazione 'scettica' (v. l'evocazione accorata del personaggio di Carneade in<br />

Fin. V, 4: “Modo enim fuit Carneadis; quem videre videor (est enim nota imago), a<br />

sedeque ipsa tanta ingeni magnitudine orbata desiserari illam vocem puto”),<br />

comunemente etichettata come 'nova Academia' (v. T. 36 = De or. III, 67, n. 6, 7), il<br />

compito del personaggio di Pisone, invece, è quello di introdurre il giovane Lucio alle<br />

dottrine dell'Academia antica e dei Peripatetici, che egli ritiene fornire la più utile e<br />

completa formazione filosofica. Vengono così riproposte le linee dell'importante<br />

dibattito contemporaneo, generato dall'originale operazione filosofica di Antioco, che,<br />

recuperando la tradizione più antica, intende sconfessare la legittimità della storia più<br />

recente dell'Academia. {Cfr. T. 38 = Luc. 113 : quo tantem modo sit eius Academiae<br />

cuius esse se profiteatur.} v. l'esposizione del dilemma per la viva voce del giovane<br />

Lucio in Fin. V, 6: “Tum ille timide vel potius verecunde: Facio, inquit, equidem, sed<br />

audisne modo de Carneade? Rapior illuc, revocat autem Antiochus, nec est praeterea<br />

quem audiamus?”, da cui si deduce che la voce dominante nell'ambiente filosofico<br />

ateniese è ormai quella di Antioco, al quale del resto sembrerebbe esser lasciata anche<br />

la responsabilità di esporre pubblicamente la posizione di Carneade e le dinamiche di<br />

conflitto tra quest'ultima e la posizione invece difesa da Antioco stesso.<br />

– non ii soli numerantur qui Academici vocantur, Speusippus, Xenocrates, Polemo,<br />

Crantor ceterique, sed etiam Peripatetici veteres: l'enumerazione degli esponenti<br />

dell'antica filosofia academica passa per la composizione di due gruppi distinti, due<br />

addenda, che non possono che figurare come elementi originariamente separati sullo<br />

sfondo della scenografia in cui il dialogo ha luogo. Trovandosi sul suolo<br />

dell'Academia, in cui un'evocazione dell'attività di insegnamento di Aristotele sarebbe<br />

quantomeno una forzatura storica, le due istanze filosofiche non possono che essere<br />

riavvicinate in modo surrettizio ed a posteriori. La costruzione ciceroniana del testo<br />

sembra pensata dunque per permettere al lettore di prendere consapevolezza delle<br />

336


tappe progressive dell'elaborazione storiografica di Antioco.<br />

Si conferma così l'impressione generale che la grande attrattiva dell'operazione di<br />

recupero di Antioco è costituita dall'allargamento di prospettiva che l'inclusione della<br />

filosofia peripatetica consente. Elemento chiave della strategia di propaganda di<br />

Antioco, Aristotele permette, se possibile, di aumentare il prestigio della tradizione<br />

antica e riportarla energicamente sulla scena del dibattito filosofico. Risulta allora<br />

evidente che Antioco intende giocare un ruolo di primo piano anche nel movimento di<br />

revival dell'aristotelismo che ha luogo nel I secolo.<br />

Peripatetici veteres: nei testi filosofici ciceroniani l'aggettivo vetus si trova<br />

generalmente riferito solo all'Academia e non ai filosofi peripatetici: v. Luc. 113 = T.<br />

38: "hoc mihi et Peripatetici et vetus Academia concedit, vos negatis, Antiochus in<br />

primis (...) aut veteris Academiae aut Peripateticorum”; Luc. 131 = T. 39: "honeste<br />

autem vivere fruentem rebus iis quas primas homini natura conciliet et vetus<br />

Academia censuit, ut indicant scripta Polemonis quem Antiochus probat maxime, et<br />

Aristoteles eiusque amici huc proxime videntur accedere"; Ac.libri I, 18 : "Quae<br />

quidem erat primo duobus, ut dixi, nominibus una, nihil enim inter Peripateticos et<br />

illam veterem Academiam differebat"; Ac.libri I, 33 : "Praeclare enim explicatur<br />

Peripateticorum et Academiae veteris auctoritas"; Tusc. V, 75 : "Me quidem auctore<br />

etiam Peripatetici veteresque Academici balbuttire aliquando desinant aperteque et<br />

clara voce audeant dicere beatam vitam in Phalaridis taurum descensuram"; Tusc. V,<br />

82 : "quod paulo ante Peripateticos veteremque Academiam hortari videbare"; Tusc.<br />

V, 85 : "tria genera bonorum, maxuma animi, secunda corporis, externa tertia, ut<br />

Peripatetici nec multo veteres Academici secus"; Div. I, 5 : "Nam cum Socrates<br />

omnesque Socratici Zenoque et ei qui ab eo essent profecti manerent in antiquorum<br />

philosophorum sententia vetere Academia et Peripateticis consentientibus"; Div. I,<br />

87 : "adiunxi veterem Academiam, Peripateticos, Stoicos".<br />

L'aggettivo è infatti generalmente funzionale alla distinzione tra la fase dei primi<br />

interpreti della dottrina platonica e la successiva fase 'scettica' della storia<br />

dell'Academia. Tuttavia non mancano altri esempi in cui l'uso dell'aggettivo viene<br />

esteso anche ai membri della scuola di Aristotele: v. Fin. II, 34 = T. 42: "nata est<br />

sententia veterum Academicorum et Peripateticorum"; Fin. IV, 5 : "Qui sit enim finis<br />

bonorum, mox, hoc loco tantum dico, a veteribus Peripateticis Academicisque, qui re<br />

consentientes vocabulis differebant";<br />

337


È chiaro del resto che la forma plurale 'veteres' 580 , sostantivata o meno, nell'agenda di<br />

Antioco d'Ascalona riunisce sotto di sé indistintamente gli esponenti di entrambe le<br />

scuole: v. Fin. II, 114: “in quibus doctissimi illi veteres inesse quiddam caeleste et<br />

divinum putaverunt”; Fin. IV, 3 : “veteres illos Platonis auditores”; Fin. IV, 17:<br />

“varietas autem iniuriasque fortunae facile veterum philosophorum praeceptis<br />

instituta vita superabat”; Fin. V, 23: “Ergo instituto veterum, quo etiam Stoici utuntur,<br />

hinc capiamus exordium”; Fin. V, 53: “ac veteres quidem philosophi in beatorem<br />

insulis fingunt qualis futura sit vita sapientium”; Tusc. V, 30: “nec veteribus illis,<br />

Aristoteli, Speusippo, Xenocrati, Polemoni...”; Off. II, 5: “sapientia autem est, ut a<br />

veteribus philosophis definitum est, rerum divinarum et humanarum causarumque,<br />

quibus eae res continentur, scientia”. Per mezzo di questo comune titolo diventa in<br />

particolare possibile attribuire elementi specifici dell'attività filosofica di Aristotele<br />

all'intero gruppo dei 'filosofi academici e peripatetici', come se facessero parte di un<br />

comune patrimonio intellettuale.<br />

In questo contesto l'uso dell'aggettivo 'vetus' ha allora la funzione di distinguere due<br />

fasi anche all'interno della storia del Peripato, per cui Aristotele e Teofrasto<br />

costituiscono un gruppo distinto rispetto agli esponenti più recenti della scuola, come<br />

Stratone, Licone, Critolao etc., i quali sarebbero responsabili di una fase di<br />

degenerazione nell'autorità della scuola, v. Fin. V, 13-14. La storia della degenerazione<br />

del Peripato sembrerebbe essere caratteristica della storiografia antiochea, nella misura<br />

in cui legittima il recupero del contenuto 'originario' della dottrina degli antichi<br />

peripatetici, sconfessando allo stesso tempo le interpretazioni successive del pensiero<br />

di Aristotele interne alla sua scuola, v. T. 50 = Fin. V, 14.<br />

– princeps Aristoteles, quem excepto Platone haud scio an recte dixerim principem<br />

philosophorum:<br />

princeps philosophorum: cfr. Tusc. IV, 44: “Philosophiae denique ipsius principes<br />

numquam in suis studiis tantos progressus sine flagranti cupiditate facere potuissent.<br />

Ultimas terras lustrasse Pythagoran, Democritum, Platonem accepimus”; Tusc. V, 47:<br />

“princeps ille philosophiae (scil. Socrates)”; ND II, 167: “a principe philosophiae<br />

580 Cicerone impiega per esigenze di variatio anche l'aggettivo antiquus-i: v. Fin. IV, 9 : "Quid? Ea, quae<br />

dialectici nunc tradunt et docent, nonne ab illis instituta sunt? De quibus etsi a Chrysippo maxime est<br />

elaboratum, tamen a Zenone minus multo quam ab antiquis; ab hoc autem quaedam non melius quam<br />

veteres, quaedam omnino relicta"; Div. I, 5: «manerent in antiquorum philosophorum sententia vetere<br />

Academia et Peripateticis consentientibus »; Fin. V, 14; Fin. V, 21: « aut prima naturae, ut antiquis, quos<br />

eosdem Academicos et Peripateticos nominamus »;<br />

338


Socrate dictum est”; De sen. 23: “num philosophorum principes, Pythagoran<br />

Democritum, num Platonem Xenocraten..”; Off. I, 2: “a principe huius aetatis<br />

philosophorum (scil. Cratippus)”; Off. III, 5: “a Cratippo nostro, principe huius<br />

memoriae philosophorum”;<br />

princeps: il termine designa generalmente nella lingua latina la figura del leader<br />

politico; dal punto di vista etimologico significa semplicemente “colui che prende la<br />

prima parte, il primo rango, il primo posto”, perciò lo si trova accompagnato spesso da<br />

un aggettivo, un complemente al genitivo o un complemento preposizionale, che<br />

precisano l'ambito di riferimento del termine. Ciò consente un uso estremamente vario<br />

e adattabile ai più disparati contesti, per quanto l'ambito politico sembri praticarne<br />

l'uso più estensivo e determinarne progressivamente il senso (v. Hellegouarc'h (1972),<br />

p. 327). Al suo interno si possono distinguere due impieghi principali: l'uno in<br />

riferimento alla priorità cronologica d'iniziativa, per cui il princeps sententiae 581 , ad<br />

esempio, è colui che per primo esprime in senato il suo avviso su una proposizione<br />

fatta dal rogator (Hellegouarc'h (1972), p. 328); l'altro invece in riferimento alla<br />

superiorità generale della figura del leader all'interno di un ambito, per cui Cicerone<br />

riserva in alcuni contesti il titolo principes 582 a chi ricopre la carica consolare, in<br />

quanto espressione di un ruolo eminente in tutte le circostanze della vita politica<br />

(Hellegouarc'h (1972), p. 336). I due impieghi sono evidentemente interconnessi dal<br />

momento che è la superiorità dell'auctoritas che determina l'ordine in cui si prende la<br />

parola in senato e viceversa la priorità cronologica determina in alcuni contesti la<br />

superiorità dell'influenza di un personaggio. La figura del princeps ha come noto un<br />

ruolo di assoluto rilievo nella teoria politica ciceroniana 583 . Verosimilmente influenzato<br />

dalle riflessioni di Platone sulla necessaria interazione tra filosofia e politica, il<br />

princeps ciceroniano ha gli attribuiti teorici di una figura ideale (magnitudo animi,<br />

humanitas); al contempo l'attività concreta di Cicerone nell'ambito politico fa sì che la<br />

figura del princeps venga dotata di precise implicazioni sociali, progressivamente<br />

adeguate ai radicali cambiamenti che la politica romana attraversa al tempo di<br />

Cicerone. La critica più recente insiste sul fatto che dal punto di vista di Cicerone il<br />

potere del princeps non è di tipo assoluto, ma intimamente connesso con la concordia<br />

ordinum o il consensus omnium bonorum; del resto non è unanimamente accettato che<br />

Cicerone intenda far riferimento alla figura di un singolo individuo alla testa della<br />

581 v. Cic., In Pis. 35<br />

582 v. De orat. III, 63<br />

583 v. e.g. Lepore (1954).<br />

339


stato, piuttosto che ad un'intera classe politica. In ogni caso si tratterebbe di una figura<br />

armonizzatrice, non egoista, al servizio della città. Questo tipo di terminologia politica<br />

ciceroniana sembra infine essere stata strumentalmente impiegata da Ottaviano<br />

Augusto per legittimare il potere politico da lui acquisito.<br />

Per quanto riguarda l'ambito propriamente filosofico è possibile notare che l'aggettivo<br />

princeps denota il leader filosofico di una scuola, sia in quanto fondatore, colui che<br />

prende l'iniziativa di esprimere una particolare dottrina : v. Luc. 129: “Megaricorum<br />

fuit nobilis disciplina, cuius (...) princeps Xenophanes”; Luc. 131 = T. 39: “Zeno (...)<br />

qui inventor et princeps Stoicorum fuit”; Fin. III, 5; sia in quanto esponente eminente<br />

della scuola in un momento particolare della sua storia : v. Tim. 2: “Cratippus,<br />

Peripateticorum omnium, quos quidem ego auderim, meo iudicio facile princeps”;<br />

Luc. 107: “Panaetius, princeps (...) Stoicorum”; De div. I, 6; De div. II, 97: “princeps<br />

Stoicorum Panaetius”; ND I, 59: “Zenonem (...) coryphaeum...Epicureorum (...) a<br />

principe Epicureorum accepissem”; ND I, 6: “et principes illi Diodotus Philo<br />

Antiochus Posidonius a quibus instituti sumus”.<br />

La priorità cronologica giustifica l'uso del termine come equivalente di prw=toj<br />

eu(reth/j, colui che introduce una pratica o un opinione : v. Fin. V, 10: “ab<br />

Aristoteleque principe de singulis rebus in utramque partem dicendi exercitatio est<br />

instituta”; Tusc. II, 9: “Qua (scil. consuetudo de omnibus rebus in contrarias partis<br />

disserendi) princeps usus est Aristoteles”; Leg. II, 14: “Plato (...) qui princeps de re<br />

publica conscripsit”;<br />

La nozione di superiorità invece sottende all'uso di princeps per indicare il più alto<br />

rango: v. Luc. 118: “Princeps Thales, unus e septem cui sex reliquos cencessisse<br />

primas ferunt, ex aqua dixit constare omnia”; Tusc. II, 15: “Quorum princeps et<br />

auctoritate et antiquitate, Socraticus Aristippus...”<br />

In questo contesto appare evidente che Aristotele riceve il tributo dell'appellativo<br />

princeps, non in relazione a una qualche priorità cronologica d'iniziativa, per la quale<br />

invece Socrate viene generalmente presentato come princeps philosophiae 584 , quanto<br />

piuttosto in relazione a una superiorità di rango rispetto a tutti gli altri filosofi.<br />

L'influenza del pensiero di Aristotele permetterebbe di attribuirgli un ruolo eminente<br />

rispetto a tutta la storia della filosofia. Tuttavia il testo ciceroniano ritiene opportuno<br />

sfumare questo lusinghiero titolo con un riferimento a Platone (“excepto Platone”),<br />

per cui ne consegue che il portavoce di Antioco d'Ascalona presenta l'auctoritas di<br />

584 De orat. III, 60; De orat. III 61-62; cfr. Fin. II, 1: « Socrates, qui parens philosophiae iure dici potest »;<br />

Ac.libri I, 3: « philosophiamque veterem illam a Socrate ortam » Tusc. III, 8; Tusc. IV, 6; Tusc. V, 10-11;<br />

Tusc. V, 47: « princeps philosophiae ».<br />

340


Aristotele, il suo prestigio filosofico, come degno del più alto rango all'interno della<br />

scuola academica, senza con ciò voler dimenticare o declassare la figura di Platone.<br />

Platone e Aristotele hanno una posizione di assoluta preminenza nella cultura<br />

filosofica di Cicerone e dei suoi interlocutori. La critica solleva ragionevolmente<br />

numerosi dubbi sulla conoscenza diretta dei testi dei due filosofi da parte di Cicerone e<br />

del suo entourage. È probabile per esempio che Cicerone non conoscesse i cosidetti<br />

dialoghi 'dialettici' di Platone, come Teeteto e Sofista, per quanto invece dimostra un'<br />

accurata conoscenza di molti altri famosi testi platonici (Apologia, Fedro, Fedone,<br />

Gorgia, Protagora, Repubblica, Timeo e Lettere) 585 . Per quanto riguarda i testi di<br />

Aristotele si ammette generalmente che le conoscenze di Cicerone si basassero<br />

prevalentemente sulle opere essoteriche, redatte per il publico, piuttosto che sulle<br />

opere più tecniche, sulle quali invece si basa prevalentemente la nostra conoscenza<br />

della filosofia aristotelica 586 . Ci sono del resto buone motivazioni per non sottovalutare<br />

la cultura libraria di Cicerone e le sue particolari vie d'accesso ai testi della filosofia<br />

classica 587 . I due filosofi, sia Platone che Aristotele, hanno in ogni caso un peso di<br />

assoluto rilievo per il progetto filosofico sia di Antioco sia di Cicerone. Sulla<br />

possibilità di avvalersi congiuntamente dell'autorità del Peripato e dell'Accademia si<br />

gioca grossomodo tutta la plausibilità dell'operazione intellettuale di Antioco.<br />

Cicerone dal canto suo sembra aver dedicato i suoi studi tanto a Platone quanto ad<br />

Aristotele. Academia e Liceo insieme sono infatti per lui sinonimo di 'filosofia' tout<br />

585 Per una selezione della vastissima letteratura su questo argomento : v. De Graff (1940), 143-153, studia tutti<br />

i passaggi nelle opere ciceroniane riconducibili a specifici passi o concetti delle opere di Platone, al fine di<br />

testare il livello di accuratezza con la quale Cicerone si rapporta ai filosofi più antichi; il giudizio è<br />

complessivamente favorevole; Fuchs (1959), pp. 8-15, si interessa all'autorappresentazione di Cicerone come<br />

filosofo sullo sfondo della sua precedente carriera politico-retorica, per cui il particolare apprezzamento<br />

dell'istanza platonica e peripatetica si giustificherebbe alla luce della peculiare compatibilità di quest'ultime<br />

con le arti liberali, in particolare con l'arte del discorso; Boyancé (1954), pp. 195-221 : ripercorre la spinosa<br />

questione se la ricezione del pensiero di Platone da parte di Cicerone sia avvenuta attraverso un rapporto<br />

diretto con i testi o meno sullo sfondo della più ampia questione dell'uso del platonismo e dell'appellativo<br />

homo platonicus nel contesto della vita politica di Cicerone; Gersh (1986), pp. 53-154, elabora un'intelligente<br />

sintesi, in cui il rapporto di Cicerone con le opere di Platone viene studiato in relazione al contesto più ampio<br />

del Middle Platonism; Long (1995);<br />

586 v. Madvig (1876), excursus VII, pp. 837-848. Che Cicerone fosse consapevole della distinzione tra i due<br />

generi di opere si evince da Fin. V, 12; la menzione di un dibattito sulla paternità dell'Etica Nicomachea<br />

(ibidem) è testimonianza di un certo fermento intorno alle opere di Aristotele, potenzialmente alimentato<br />

dall'arrivo a Roma della 'biblioteca di Aristotele' insieme al bottino di guerra di Sulla, v. Barnes (1997), pp.<br />

66 ss. ; uno studio complessivo del rapporto di Cicerone con i testi aristotelici si trova in Gigon (1959), p.<br />

148-153; Pahnke (1963); Moraux (1973), pp. 45; nella raccolta di studi di Fortenbaugh, Steinmetz (1989)<br />

vengono offerti specifici contributi sulla conoscenza di Cicerone delle singole opere di Cicerone, v. Huby<br />

(1989), pp. 61-76, sui Topica, dove l'autrice conclude sui limiti di quei metodi che cercano nel testo di<br />

Cicerone il risultato di un semplice adattamento delle sue fonti. Per un giudizio riassuntivo sui vari tentativi<br />

fatti per dimostrare che Cicerone non aveva diretto accesso ai testi aristotelici, v. Long (1995), p. 42:<br />

« However, it is important to keep an open mind about this question. What a modern scholar would find<br />

unsatisfactory as a direct report or use of our Aristotle is not sufficient to prove Cicero's total ignorance of<br />

that material ».<br />

587 v. Introduzione, pp. xxix-xxxiii.<br />

341


court, se nella rappresentazione poetica della sua formazione filosofica precedente ai<br />

grandi impegni politici scrive : “Haec adeo penitus cura videre sagaci, / otia qui<br />

studiis laeti tenuere decoris, / inque Academia umbrifera nitidoque Lyceo / funderunt<br />

claras fecundi pectoris artis” 588 ; In numerose occasioni Cicerone si presenta con<br />

orgoglio al pubblico come un profondo conoscitore sia delle opere platoniche, sia delle<br />

opere aristoteliche. Infine a conferma del pari prestigio che i due filosofi hanno ai suoi<br />

occhi, ci basti pensare che nella villa di Tusculo sono due gli spazi che Cicerone aveva<br />

predisposto in omaggio alle sue autorità filosofiche, l'uno chiamato Academia, l'atro<br />

Liceo 589 .<br />

Si noti infine come l'appellativo di princeps philosophiae venga assegnato in altri<br />

contesti anche a Platone: v. Ad fam. I, 1, 29; insieme a quello di parens philosophiae:<br />

Fin. II, 1; Ad fam. I, 9, 12; spingendosi fino ad adottare l'epiteto massimo di Deus<br />

philosophorum: Rep. IV, 5; De orat. I, 49; Leg. III, 1; ND II, 32; cfr. Ad. Att. IV, 16, 3;<br />

Leg. I, 15; Leg. III, 5; III, 32; Tusc. IV, 71. cfr. Leg. I, 15: “sic enim fecisse video<br />

Platonem illum tuum, quem tu admiraris, quem omnibus anteponis, quem maxime<br />

diligis”.<br />

L'interesse comune per la figura di Aristotele giustifica almeno in parte l'ampio spazio<br />

concesso ad Antioco nelle opere filosofiche di Cicerone, per quanto non ne accolga<br />

mai le implicazioni dogmatiche. Sia nel caso di Antioco, sia nel caso di Cicerone si<br />

tratta di un impiego in un certo qual modo strumentale della figura di Aristotele, ma<br />

gli scopi sono radicalmente diversi. Antioco sembra infatti voler erigersi ad interprete<br />

non solo della tradizione academica ma anche dell'eredità peripatetica per<br />

l'elaborazione di una teoria etica risolutiva che faccia fronte agli sviluppi del dibattito<br />

più recente. Mentre l'obiettivo di Cicerone mira non al consolidamento di una<br />

posizione dottrinale specifica, quanto piuttosto all'appropriarsi del patrimonio<br />

culturale degli antichi in un'ottica compatibile con i punti di forza della cultura romana<br />

(v. Fin. V, 9-12). Aristotele risulta infatti essere una figura cardinale nella riforma<br />

ciceroniana della retorica, nel recupero di una adeguata teoria dei topoi, o anche nel<br />

progetto di propaganda presso le classi dirigenti romane del patrimonio di conoscenze<br />

storiche e politiche messe a disposizione dalla tradizione filosofica classica.<br />

– Ex eorum enim scriptis et institutis cum omnis doctrina liberalis ...: la filosofia degli<br />

588 v. Div. I, 22.<br />

589 v. Ad Att. I, 9, 2; 11, 3; Div. I, 8; II, 8.<br />

342


antichi filosofi academici viene esaltata per il suo legame profondo con le altre<br />

discipline che formano il curriculum formativo di qualunque giovane futuro esponente<br />

dell'èlite romana. I testi prodotti all'interno delle due scuole filosofiche, in particolare<br />

all'interno del Peripato si trovano infatti a fondamento di quelle discipline, come la<br />

retorica, le scienze politiche, la storia, particolarmente favorite dall'educazione romana<br />

dei futuri dirigenti. Per un'ulteriore associazione del pensiero degli antichi con le<br />

scienze politiche, v. Div. II, 3: “...magnus locus philosophiaeque proprius, a Platone<br />

Aristotele Teophrasto tataque Peripateticorum familia tractatus uberrime”.<br />

Liberalis: cfr. Luc. 1: “tum omnis liberalis et digna homine nobili ab eo percepta<br />

doctrina”; in riferimento alla poesia, Tusc. II, 27: “hanc eruditionem liberalem et<br />

doctrinam putamus”;<br />

v. De orat. I, 17: “eruditio libero digna”; si noti la peculiarità della lista di discipline<br />

che secondo Cicerone forniscono la sostanza dell'educazione liberale. Siamo ancora<br />

distanti dalla lista delle septem artes liberales, e in questo contesto il testo di Cicerone<br />

non intende far riferimento a quanto Quintiliano chiama “orbis ille doctrinae, quae<br />

Graeci e)gku/klioj paidei/a vocant”: grammatica, geometria, musica; Nel trivio<br />

superiore dell'educazione liberale, in questo contesto, figurano quelle discipline che<br />

formano oratores e imperatores ac rerum publicarum principes, ovvero l'eloquenza<br />

supportata dallo studio della storia e degli ordinamenti politici. Mentre nel quadrivio<br />

inferiore figurano quelle discipline che formano “mathematici, poetae, musici,<br />

medici”.<br />

Cicerone pensa verosimilmente in questo contesto all'educazione superiore dell'élite<br />

romana, ovvero alla fase più avanzata della formazione del futuro leader politico, la<br />

quale prevedeva evidentemente una serie di opzioni. Nel mondo greco un giovane che<br />

avesse completato le basi della sua educazione poteva proseguire la sua formazione<br />

scegliendo tra un insegnante di medicina, uno di giurisprudenza, uno di retorica o uno<br />

di filosofia. Cicerone lascia intendere in questo passaggio che tutte queste opzioni<br />

vengono potenzialmente soddisfatte dallo studio della tradizione academico-<br />

peripatetica. Una formazione di tipo filosofico significherebbe dunque in questo caso,<br />

non più l'intrattenersi con sofisticherie del pensiero, indegno di un romano adulto,<br />

quanto piuttosto la compresenza e l'organizzazione di un patrimonio di pratiche e<br />

conoscenze funzionale alla cultura del ceto dirigente della società civile. In questo<br />

modo il testo di Cicerone contribuisce su due fronti a fornire una veste dignitosa<br />

all'attività filosofica e ad agevolare il processo di ellenizzazione dell'educazione<br />

343


B)<br />

romana.<br />

Nel passo in oggetto vengono presentati i vantaggi della congiunzione del patrimonio<br />

culturale e filosofico degli antichi filosofi academici con quello dei filosofi peripatetici. Dal<br />

punto di vista della formazione di un giovane aspirante ad una carriera politica nella società<br />

romana gli antichi offrono le basi di tutte le conoscenze di cui si può aver bisogno.<br />

Diversamente la filosofia degli stoici o degli epicurei non può aspirare a competere con i suoi<br />

predecessori in quanto a completezza e funzionalità. In questo contesto la figura di Polemone<br />

e dei suoi consociati viene quasi interamente offuscata dall'enorme contributo della filosofia<br />

peripatetica alle scienze liberali. È possibile qui individuare un punto di incontro tra le due<br />

linee che a partire da Aristotele esercitano un'attrattiva su Antioco e su Cicerone. Non esiste<br />

infatti più adeguata e più efficace presentazione dell'aristotelismo al mondo romano di quella<br />

che prende le mosse dai contributi peripatetici nel campo delle scienze storiche, politiche, e<br />

retoriche. Non sappiamo se Antioco ne fosse tanto consapevole quanto certamente lo era<br />

Cicerone, ma possiamo immagine che in questo contesto Cicerone si presti a scrivere per<br />

l'agenda antiochea il miglior manifesto romano a cui questa potesse ambire, servendo al<br />

contempo i propri scopi personali di passeur della cultura greca al servizio di una riforma<br />

della educazione – ed eventualmente anche della politica – romana.<br />

T. 50 : CICERO, DE FINIBUS BONORUM ET MALORUM V, 5, 14.<br />

(...) Antiquorum autem sententiam Antiochus noster mihi videtur persequi diligentissime,<br />

quam eandem Aristoteli fuisse et Polemonis docet.<br />

Polemo fr. 131 Gigante; Antiochus F 9 Mette.<br />

2 aristotili Of : aristotelis Msd cfr. Fin. I 14; Att. XIII, 28.<br />

Traduzione<br />

344


Il nostro Antioco dal canto suo mi sembra seguire molto scrupolosamente la teoria degli<br />

antichi, che egli insegna esser stata la stessa per Aristotele e Polemone.<br />

Contesto<br />

Il passo in oggetto si situa ancora una volta all'interno del discorso di Pisone. Il testo ribadisce<br />

le credenziali del personaggio di Pisone a fare da portavoce della filosofia degli antichi,<br />

ricordando il suo rapporto personale con il filosofo peripatetico Stasea di Napoli 590 e la sua<br />

diretta frequentazione di Antioco in Atene: (Fin. V, 8) “Censemus autem facillime te id<br />

explanare posse, quod et Staseam Neapolitanum multos annos habueris apud te et complures<br />

iam menses Athenis haec ipsa te ex Antiocho videamus exquirere”. Cicerone raddoppia il<br />

potenziale di attendibilità di ciò che segue invocando l'amico Bruto come garante 591 , il quale<br />

sembrerebbe essersi dedicato personalmente alla trasposizione in latino della prospettiva<br />

filosofica antiochea 592 . Se ne deduce che è importante per Cicerone che il testo del V libro del<br />

De finibus venga accolto come un'esposizione quanto più credibile possibile degli<br />

insegnamenti fondamentali di Antioco.<br />

Il discorso di Pisone si propone di esporre la Peripateticorum disciplina (V, 9), secondo la sua<br />

triplice ripartizione: "una pars est naturae, disserendi altera, vivendi tertia" 593 . Il contenuto<br />

dell'ambito etico viene presentato innanzitutto nella sua applicazione pratica come "bene<br />

vivendi praecepta" (V, 11) e suddiviso in un ambito privato (ad private vitae rationem) e in un<br />

ambito pubblico più propriamente politico (ad rerum publicarum rectionem); nell'ambito<br />

politico vengono menzionati i contributi delle indagini (empiriche e di catalogazione) di<br />

Aristotele e Teofrasto (ab Aristotele mores, instituta, disciplina, a Theophrastus leges etiam<br />

cognovimus), mentre come ideale regolativo della vita del singolo individuo viene presentato<br />

590 In seguito (Fin. V, 75), il testo distingue la posizione difesa da Stasea di Napoli da quella di Antioco. Stasea<br />

sembrerebbe aver seguito la linea teofrastea del dibattito sul rapporto tra virtù, fortuna e beni esterni:<br />

"assentientem iis qui multum in fortuna secunda aut adversa, multum in bonis aut malis corporis ponerent".<br />

Pisone invece ribadisce la dipendenza del suo discorso dagli insegnamenti di Antioco: "sed haec ab<br />

Antiocho, familiari nostro, dicuntur multo melius et fortius, quam a Staseam dicebantur".<br />

591 L'intero testo del De finibus può essere considerato un dialogo tra Cicerone e l'amico Bruto, la cui cultura e<br />

il cui prestigio personale suscitavano in Cicerone grande rispetto, nonostante Bruto fosse di molti anni più<br />

giovane e il loro rapporto non sembri essere stato sempre pacifico. Bruto è l'interlocutore privilegiato delle<br />

opere redatte da Cicerone sulle questioni etiche, il cui contenuto dunque riflette le tendenze del dibattito che i<br />

due intellettuali potevano eventualmente intrattenere dal vivo.<br />

592 v. Ac.libri I, 12: "Brutus quidem noster, excellens omni genere laudis, sic philosophiam Latinis litteris<br />

persequitur nihil ut iisdem de rebus Graeca desideres, et eandem quidem sententiam sequitur quam tu, nam<br />

Aristum Athenis audivit aliquamdiu, cuius tu fratrem Antiochum".<br />

593 La tripartizione dell'indagine filosofica secondo alcune fonti sarebbe stata resa esplicita da Senocrate, v.<br />

Sext. Emp., Adv.math. I, 16 = Senocrate T. 1 Isnardi Parente, e implicherebbe importanti conseguenze per<br />

tutta la filosofia ellenistica, cfr. Hadot (1979), pp. 201-223.<br />

345


il bi/oj qewrhtiko/j aristotelico, in linea con ciò che si legge già nel X libro dell'Etica<br />

Nicomachea, v. Fin. V, 11 : "vitae degendae ratio maxime quidem illis placuit quieta, in<br />

contemplatione et cognitione posita rerum, quae quia deorum erat vitae simillima, sapiente<br />

visa est dignissima".<br />

La trattazione più propriamente teorica dell'ambito etico viene introdotta ex abrupto<br />

presentando il problema di una discrepanza interna al pensiero peripatetico sulla questione de<br />

summo bono (V, 12). Il testo afferma che il contenuto dei due generi di opere peripatetiche<br />

("unum populariter scriptum, quod ἐξωτερικόν appellabant, alterum limatius, quod in<br />

commentariis reliquerunt") non è sempre uguale a se stesso: "non semper idem dicere<br />

videntur, nec in summa tamen ipsa aut varietas est ulla apud hos quidem quos nominavi, aut<br />

inter ipsos dissensio". Le discrepanze non sono sufficienti però per affermare una dissensio<br />

interna alla scuola peripatetica sul fondo essenziale della teoria etica e vengono accuratamente<br />

limitate alla questione specifica se la felicità sia perfettamente alla portata del saggio o se<br />

possa venir compromessa dalle avversità ("sitne ea (scil. beata vita) tota sita in potestate<br />

sapientis an possit aut labefactari aut eripi rebus adversis"). Non si tratta dunque di una<br />

differenza generale di contenuto tra le opere per il pubblico e i trattati più tecnici, quanto<br />

piuttosto del problema sollevato dallo scritto di Teofrasto De vita beata 594 , a cui si preferisce il<br />

contenuto di altre opere di Aristotele e in particolare dell'Etica Nicomachea, per quanto la<br />

paternità di quest'opera venga attribuita al figlio Nicomaco 595 . Affinché il rigetto dell'opera di<br />

Teofrasto non implichi l'esautorazione completa dell'autorità del filosofo, in questo contesto,<br />

la discrepanza viene mascherata come una questione legata alle differenze di genere. Si assiste<br />

dunque ad un processo di selezione virtuale di contenuti all'interno del patrimonio testuale del<br />

Peripato, che tenta di salvare alcuni dei contributi di Teofrasto, nonostante si prendano<br />

fermamente le distanze dalla sua concezione della forza della virtù nell'assicurare la felicità :<br />

"Theophrastus tamen adhibeamus ad pleraque, dum modo plus in virtute teneamus, quam ille<br />

tenuit, firmitate et roboris" 596 . L'errore di Teofrasto diventa in altri testi ciceroniani una sorta<br />

594 v. il titolo Peri£ eu)daimoni/aj nell’elenco delle opere di Teofrasto in D.L. V, 43.<br />

595 Il passo di Cicerone fornisce un'implicita testimonianza su un dibattito sulla paternità del testo dell'Etica<br />

Nicomachea (v. Gigon (1959), p. 144-145). Cicerone sembrerebbe infatti ritenere plausibile l'opinione<br />

secondo la quale il titolo del testo fa riferimento al suo autore piuttosto che al dedicatario, contro l'opinione di<br />

altri che invece attribuiscono ad Aristotele la paternità del testo, come del resto si ritiene comunemente oggi.<br />

Cicerone aggira la difficoltà sostenendo che il figlio avrebbe potuto agevolmente imitare quello che era<br />

comunque il pensiero del padre. Il margine di dubbio che sembra in ogni caso sussistere sulla paternità del<br />

testo potrebbe inoltre spiegare perché l'esposizione dell'etica peripatetica da parte di Pisone/Antioco non<br />

tenga conto di alcune distinzioni fondamentali introdotte nell'Etica Nicomachea, v. l'assenza della distinzione<br />

tra virtù etiche e virtù dianoetiche etc. Non possiamo affermare con sicurezza che l'opinione qui riportata<br />

sull'autenticità dell'Etica Nicomachea sia anche l'opinione di Antioco d'Ascalona sul testo, piuttosto che<br />

l'opinione personale del solo Cicerone di fronte ad una ricezione recente dell'opera nel contesto romano, ma<br />

non è senza fondamento considerare che nell'esposizione dell'etica degli antichi, Aristotele non viene<br />

immediatamente associato al testo dell'Etica Nicomachea, e sono verosimilmente altri i testi in cui si ricerca<br />

il nucleo fondamentale della sua posizione etica.<br />

596 v. Prost (2001), pp. 256-259, dove si illustra il rapporto tra il presunto « pessimismo morale » di Teofrasto e<br />

346


di cliché della materia etica, v. T. 52 = Tusc. V, 30.<br />

Il passo in oggetto viene introdotto infine a conclusione di un breve excursus sulla<br />

'degenerazione dei peripatetici posteriori' : (V, 13) "Namque horum posteri meliores ille<br />

quidem mea sententia quam reliquarum philosophi disciplinarum, sed ita degenerant, ut ipsi<br />

ex se nati esse videantur". Ognuno dei successori di Teofrasto alla direzione della scuola<br />

viene presentato come insoddisfacente rispetto alla tradizione di cui sono depositari: Stratone<br />

avrebbe disdegnato le indagini nell'ambito dell'etica ("perpauca de moribus"); Licone<br />

mancava del giusto spessore filosofico ("oratione lecuples, rebus ipsis ieiunior"); ad Aristone<br />

mancava la gravitas 597 di un grande filosofo; Ieronimo non si sa nemmeno perché lo si chiami<br />

peripatetico; Critolao tentò di rimanere fedele alla dottrina degli antichi, avvicinando ai<br />

requisiti di gravitas della teoria etica, "ac tamen ne is quidem in patriis institutis manet";<br />

Diodoro come Ieronimo propone una formula del telos che differisce da quella della<br />

tradizione peripatetica originaria ("hic quoque suus est de summo bono dissentiens dici vere<br />

Peripateticus non potest"). Il giudizio sui peripatetici posteriori è dunque drasticamente<br />

negativo ed in base ad esso i suoi esponenti vengono esclusi da ogni considerazione sulla<br />

posizione etica peripatetica 598 . Pisone /Antioco presenta infine il ricongiungimento delle due<br />

genuine radici della filosofia 'unica' degli 'antichi' in alternativa al ramo degenerato della<br />

tradizione peripatetica più recente. Dopo aver introdotto una cesura interna al processo di<br />

trasmissione delle dottrina di Aristotele e Teofrasto, la sua strategia storiografica ha<br />

semplicemente bisogno di insistere sul doppio fattore di originarietà temporale e di<br />

trasmissione genuina, implicitamente espresso dall'appellativo 'antico'.<br />

Commento<br />

A)<br />

– Antiquorum ... sententia: cfr. Ac.libri I, 22: "omnis illa antiqua philosophia<br />

il discorso etico di Aristotele. L'autore mette in risalto le ragioni per cui questo tipo di lettura della riflessione<br />

etica di Teofrasto risulta valida solo nel ristretto ambito della storiografia ermeneutica di Antioco e di poco<br />

valore per una valutazione complessiva del pensiero di Teofrasto.<br />

597 Il concetto di gravitas è nel contesto etico un attributo della virtù : v. la descrizione della posizione di<br />

Teofrasto in Fin. V, 12: "Haec mihi videtur delicatior, ut ita dicam, molliorque ratio, quam virtutis vis<br />

gravitasque postulat", da cui si deduce che il requisito di gravitas di una teoria etica è legato alla posizione<br />

che il concetto di virtù occupa nell'assicurare la felicità dell'individuo. Gli errori dei peripatetici 'degenerati'<br />

possono dunque essere riassuntivamente descritti come una mancata attribuzione di un posto di adeguato<br />

rilievo alla virtù all'interno della loro concezione della felicità.<br />

598 v. Prost (2001), pp. 260-261 ; questo elemento della propaganda antiochea si trova estensivamente impiegato<br />

nella produzione filosofica ciceroniana.<br />

347


sensit in una virtute esse positam beatam vitam"; Fin. V, 21: "Nam aut voluptas<br />

adiungi potest ad honestatem, (...), aut prima naturae, ut antiquis, quos eosdem<br />

Academicos et Peripateticos nominamus"; Fin. V, 23: "Ergo instituto veterum, quo<br />

etiam Stoici utuntur, hinc capiamus exordium"; il riferimento al pensiero dei filosofi<br />

academici e peripatetici come ad un'unica compatta sententia è il risultato della<br />

propaganda antiochea e permette di riunire sotto un'unica etichetta elementi<br />

originariamente provenienti da diversi autori. L'interpretazione di questa generale<br />

sententia è oggetto d'attenzione da parte di diverse prospettive filosofiche e Antioco<br />

viene qui presentato come il candidato più qualificato. Implicitamente questo tipo di<br />

giudizi corrisponde a un tentativo di esautorare l'autorità dei filosofi academici e<br />

peripatetici, contemporanei o recenti, come interpreti del pensiero di Platone e<br />

Aristotele.<br />

– persequi diligentissime: cfr. T. 41 = Ac.libri I, 34-35: diligenter. La forma<br />

superlativa dell'avverbio rilancia sull'idea di una perfetta fedeltà rispetto al pensiero<br />

dei predecessori conservato dai primi interpreti.<br />

– quam eandem Aristoteli fuisse et Polemonis docet: il testo afferma la<br />

sostanziale identità del pensiero di Polemone e Aristotele secondo la ricostruzione<br />

del pensiero degli antichi da parte di Antioco. La menzione del quarto scolarca<br />

dell'Academia, invece che del suo maestro Senocrate [v. Luc. 136: "sed ubi<br />

Xenocrates, ubi Aristoteles ista tetigit? Hos enim quasi eosdem esse voltis"; Fin. IV,<br />

15 = T. 44 : ""isque finis bonorum, (...) a Xenocrate atque ab Aristotele constitutus<br />

est"] ha la funzione in questo contesto di far credere che l'identità dottrinale tra la<br />

scuola academica e la scuola peripatetica si basi sul riscontro testuale delle opere di<br />

Polemone. Tuttavia nessuno sforzo viene fatto nelle opere di Cicerone per specificare<br />

su quali aspetti dottrinali fosse possibile tracciare questo presunto accordo. Questa<br />

volontaria 'negligenza' rischia di ridurre il ruolo di Polemone a quello di un<br />

qualunque prestanome. In mancanza di testimonianze dirette sul pensiero di<br />

Polemone si può ragionevolmente affermare soltanto che è probabile che Polemone<br />

accogliesse le premesse naturalistiche dell'etica, ritenendo il modello dello sviluppo<br />

biologico delle facoltà intellettuali dell'uomo adeguato a fornire le linee guida del<br />

comportamento etico dell'uomo. Ma è indubitabile che questo tipo di modello risulta<br />

particolarmente in linea con le indagini biologiche delle opere aristoteliche dedicate<br />

348


al mondo della natura, in particolare al mondo degli animali 599 . Tuttavia sulla base<br />

dei testi di Aristotele a noi parvenuti risulta difficile attribuire ad Aristotele una<br />

formulazione completa della premessa naturalistica del discorso etico, condivisa in<br />

vario modo da numerose istanze filosofiche del periodo ellenistico.<br />

È chiaro inoltre che Aristotele e il Peripato venivano associati a una posizione etica<br />

in cui a fianco della virtù morale altri elementi figurano tra le cose considerate 'beni'.<br />

Di conseguenza la stessa posizione si trova attribuita in egual misura anche ai filosofi<br />

academici e dunque anche a Polemone. Tuttavia non viene affrontato in questo<br />

contesto il problema dello statuto subordinato o strumentale delle altre categorie di<br />

beni rispetto alla virtù, né nell'ambito dell'etica peripatetica, che aveva elaborato una<br />

tripartizione orizzontale dei beni dell'anima, del corpo ed esterni, né nell'ambito<br />

dell'etica academica, dove verosimilmente la gerarchia tra le varie categorie di beni<br />

veniva definita inequivocabilmente a vantaggio della virtù morale. Le due posizioni<br />

vengono invece fuse insieme in base alla comune convergenza nell'attribuire uno<br />

statuto positivo (e non indifferente) ad oggetti esterni rispetto all'intenzione del<br />

soggetto morale. Il sigillo della fusione teorica è visibile nell'uso delle espressioni<br />

"prima naturae (commoda)" / "quae primae natura conciliet" / "quae secundum<br />

naturam sunt" (T. 39 = Luc. 131-132; T. 40 = Luc. 138-139; T. 44 = Fin. IV, 14-15),<br />

per designare le varie categorie di beni. Attraverso questo tipo di espressioni infatti si<br />

mascherano le traccie sia della tripartizione peripatetica, sia della gerarchia<br />

academica, ottenendo un'efficace apparenza di uniformità.<br />

Il ricorso al nome di Aristotele deve essere dunque verosimilmente inteso in senso<br />

ampio, come capo della scuola peripatetica, più che come un riferimento stretto,<br />

implicante un punto preciso di dottrina. La coincidenza tra Polemone e Aristotele<br />

allora si attuerebbe, eventualmente, su un piano teorico generale: nella comune<br />

compatibilità con un certo naturalismo etico.<br />

Cfr. T. 36 = De orat. III, 67 : nihil ab Aristotele...magnopere dissenserunt; T. 42 =<br />

Fin. II, 32-34 : Polemoni et iam ante Aristoteli ea prima visa sunt quae paulo ante<br />

dixi.<br />

599 v. Prost (2001), pp. 249-251.<br />

349


B)<br />

Il passo in oggetto afferma che il cuore dell'operazione ermeneutica di Antioco funziona<br />

grazie alla (presunta) coincidenza delle dottrine di Aristotele e di Polemone. Come già in altri<br />

contesti (v. T. 42 = Fin. II, 32-34), Polemone viene scelto tra tutti i filosofi dell'antica<br />

Academia per fare da ponte di collegamento con il Peripato in generale e in particolare con<br />

Aristotele. Il contesto limita l'ambito di questa coincidenza alla questione de summo bono (v.<br />

Fin. V, 12), a cui Antioco sembrerebbe aver dedicato molta attenzione. L'equivalenza tra<br />

Polemone e Aristotele è d'altraparte il risultato di una ristrutturazione interpretativa, che<br />

intende presentare la posizione aristotelica, in un modo che si discosti definitivamente dalle<br />

posizioni assunte in tempi più recenti dal Peripato. In particolare l'interpretazione di Antioco<br />

si pone in antagonismo rispetto all'interpretazione di Critolao della tradizione antica,<br />

affermando la sua incapacità a rimanere "in patriis institutis". La formula del telos di Critolao<br />

riportata da Clemente Alessandrino 600 rivela un certo sforzo di risolvere il dibattito con lo<br />

stoicismo, integrandone parzialmente il linguaggio (v. eu)roou=ntoj bi/ou), pur enfatizzando<br />

l'espressione di una concezione cumulativa dei beni che contribuiscono alla felicità: l'uso del<br />

concetto di sumplhroume/nh, in particolare presuppone che ai fini della felicità ogni elemento<br />

della lista dei beni tripartiti debba figurare contemporaneamente con gli altri, rendendo così la<br />

concezione peripatetica molto fragile dal punto di vista pratico. Come noto la soluzione di<br />

Antioco si fonda invece su una diversa articolazione del rapporto tra virtù, felicità e beni altri,<br />

per cui il contributo di altri beni oltre alla virtù risulta necessario solo ai fini di una felicità di<br />

livello superlativo e la formula del telos si adegua al piano pratico della realtà per mezzo della<br />

concessione 'omnibus aut maximis' (v. T. 44 = Fin. IV, 14; cfr. Ac.libri I, 22: "aut omnia aut<br />

maxima"). L'esigenza di una diversa articolazione emerge verosimilmente dall'evoluzione del<br />

dibattito etico intrascolastico. In che modo l'uso di Polemone agevolasse la soluzione di<br />

Antioco non risulta esplicitato dalle fonti a nostra disposizione e il campo rimane aperto alla<br />

pura congettura.<br />

Donini (1994), n. 3, nota che questo testo offre un potenziale sostegno alla tesi di Dörrie<br />

(1987), p. 412, n. 1, p. 483, per cui la ricostruzione antiochea dell'antica disciplina si<br />

baserebbe esclusivamente sui discepoli di Platone e non su Platone stesso. È infatti vero che la<br />

figura di Polemone sostituisce quella del fondatore della scuola, la cui posizione etica non<br />

viene mai esplicitata con precisione nei testi ciceroniani 601 . Tuttavia risulta evidente dalle altre<br />

600 Clemens, Str. II 21 ; 129. 10 Stählin = Crit. fr. 20 Wehrli : « Krito/laoj de/, o( kai\ au)to\j Peripathtiko/j,<br />

teleio/thta e)/legen kata\ fu/sin eu)roou=ntoj bi/ou, th\n e)k tw=n triw=n genw=n sumplhroume/nhn .trigenikh\n.<br />

teleio/thta mhnu/wn »<br />

601 v. Lévy (1992a), p. 63.<br />

350


testimonianze sul terzo scolarca nei testi di Cicerone che Polemone è un'icona<br />

dell'interpretazione 'dogmatica' di Platone, in questo senso più funzionale alla storiografia<br />

ermeneutica di Antioco di Platone stesso. Si suppone infatti che il lettore riconosca dietro<br />

Polemone una versione legittima dell'eredità platonica. La posizione etica attribuibile a<br />

Polemone sembrerebbe infine consentire ad Antioco di rispondere adeguatamente alle<br />

esigenze del dibattito contemporaneo, portando verosimilmente l'attenzione sui fondamenti<br />

naturalistici del discorso etico (v. Fin. V, 21: "aut prima naturae, ut antiquis, quos eosdem<br />

Academicos et Peripateticos nominavimus"), che traccerebbero un terreno fertile di incontro (-<br />

scontro) non solo tra l'istanza academica e quella peripatetica, ma anche tra la tradizione<br />

antica e i problemi sollevati dalle istanze più recenti come quella stoica ed eventualmente<br />

anche quella epicurea.<br />

La coincidenza della sententia di Polemone e Aristotele in questo quadro è dunque solo un<br />

applicazione specifica del principio più generale della coincidenza tra l'istanza academica e<br />

l'istanza peripatetica, che autorizza Antioco ad appropriarsi della posizione aristotelica nella<br />

sua agenda di restauro di un'approccio filosofico di tipo 'dogmatico'.<br />

T. 51 : CICERO, DE FINIBUS BONORUM ET MALORUM V, 31, 93-94.<br />

Quis est enim qui hoc cadere in sapientem dicere audeat, ut, si fieri possit, virtutem in perpetuum abiciat, ut<br />

dolore omni liberetur? Quis nostrum dixerit (quos non pudet ea quae Stoici aspera dicunt mala dicere)<br />

melius esse turpiter aliquid facere cum voluptate quam honeste cum dolore? (…) Et quidem Arcesilas<br />

tuus, etsi fuit in disserendo pertinacior, tamen noster fuit, erat enim Polemonis.<br />

Polemo fr. 75 Gigante; Arcesilas T. 24 Mette.<br />

Traduzione<br />

Chi infatti oserebbe dire che potrebbe capitare al saggio di, se possibile, rinunciare per sempre alla virtù,<br />

al fine di esser liberato da ogni dolore? Chi dei nostri, che non hanno vergogna a chiamare 'mali' quelle<br />

cose che gli stoici invece chiamano 'difficoltà', avrebbe mai detto che è meglio compiere un'azione<br />

disonesta accompagnata da piacere, piuttosto che un'azione onesta accompagnata da dolore?(...) E pure<br />

il tuo Arcesilao, anche se nella discussione fu più ostinato, tuttavia fu dei nostri: era<br />

351


infatti discepolo di Polemone.<br />

Contesto<br />

Il passo introduce un aneddoto che ha come protagonista Arcesilao, portato ad illustrare la tesi<br />

enunciata in apertura, ovvero che considerare il dolore come uno dei mali che possono<br />

eventualmente affliggere la vita del saggio non implica necessariamente considerare l'assenza<br />

di dolore o la salute o anche il piacere che ne deriva al di sopra della virtù che fonda la<br />

saggezza. La tesi viene attribuita agli antichi filosofi academici e peripatetici in opposizione a<br />

quella stoica. Il rigorismo stoico viene ridotto al paradosso per cui se non esiste altro bene<br />

oltre alla virtù e nessun male oltre al vizio, e il dolore dunque non è un male, non è nemmeno<br />

possibile per il saggio ammettere di soffrire di fronte al dolore. La paradossalità della tesi<br />

viene illustrata con l'esempio di Dionigi di Eraclea, il quale afflitto da un dolore agli occhi<br />

avrebbe abbandonato la scuola stoica. L'aneddoto che invece ha come protagonista Arcesilao<br />

ha invece come scopo quello di illustrare la diversa reazione di un filosofo di fronte al dolore<br />

e dunque rafforzare in base a questa immagine alternativa del comportamento del saggio la<br />

coerenza della posizione detta 'peripatetica' : « Hic si Peripatetici fuisset, permansisset, credo<br />

in sententia, qui dolerem malum dicunt esse, de asperitate autem eius fortiter ferenda<br />

praecipiunt eadem quae Stoici ».<br />

Commento<br />

A)<br />

– in disserendo pertinacior: l'antagonismo tra l'istanza stoica di Zenone e<br />

l'istanza academica di Arcesilao converge su un confronto delle rispettive capacità<br />

argomentative dei due filosofi. Si noti che la risoluzione di questo confronto varia nei<br />

testi ciceroniani a secondo della prospettiva adottata in ogni contesto, cfr. T. 41 =<br />

Ac.libri I, 34-35 : cum Arcesilam anteiret aetate valdeque subtiliter dissereret et<br />

peracute moveretur, dove sono le capacità di Zenone ad avere la meglio su quelle di<br />

un più giovane Arcesilao.<br />

– tamen noster fuit, erat enim Polemonis: la frase pone una peculiare<br />

352


B)<br />

equivalenza tra l'appellativo Polemonis – discepolo di Polemone e l'aggettivo noster,<br />

ovvero membro facente parte della tradizione a cui il relatore del testo intende far<br />

riferimento. In altri contesti le relazioni maestro-discepolo vengono impiegate<br />

strumentalmente per stabilire una linea di continuità tra la tradizione platonico-<br />

academica e il Peripato da una parte e la Stoa dall'altra. L'insistenza invece in questo<br />

contesto del rapporto tra Arcesilao e la scuola di Polemone sembra allora ribaltare la<br />

strategia argomentativa impiegata da Antioco d'Ascalona e rafforzare la legittimità<br />

dell'interpretazione cosidetta 'scettica' all'interno della tradizione platonico-<br />

academica. Tuttavia il passo può essere letto semplicemente come un esempio della<br />

malleabilità degli strumenti storiografici antiochei, per cui, per fini particolari, anche<br />

gli esponenti della tradizione, che per certi versi si situano agli antipodi della<br />

prospettiva prescelta, possono essere reintegrati nel discorso. In questo caso il testo<br />

manifesta l'esigenza di superare certi limiti del rigorismo stoico e il materiale<br />

aneddotico, per quanto interessi la 'pericolosa' figura di Arcesilao, viene impiegato<br />

nell'argomentazione senza apparenti difficoltà.<br />

La figura di Polemone risulta avere un ampio potere nelle dinamiche di costituzione<br />

identitaria degli appartenenti alla tradizione vetero-academica. La sua posizione di cerniera<br />

cronologica e filosofica tra la prima fase di interpretazione del pensiero platonico e gli<br />

sviluppi del pensiero nel periodo ellenistico viene ampiamente sfruttata per determinare delle<br />

linee di continuità altrimenti controverse. È legittima infatti una qualsiasi indagine che si<br />

interroghi su quanto l'insegnamento di Polemone possa aver contribuito ad esiti tra loro molto<br />

diversi, o, più nello specifico, quanto esso abbia reso possibile l'affiorare all'interno della<br />

scuola academica dell'approccio filosofico di Arcesilao. Tuttavia si noti che secondo le fonti<br />

biografiche il personaggio di Arcesilao è generalmente associato in modo stretto alla figura di<br />

Crantore, piuttosto che a quella di Polemone e che nel complesso all'interno dell'Academia nel<br />

periodo in cui la diresse Polemone una molteplicità di approcci diversi sembrano aver potuto<br />

convivere in modo perfettamente pacifico, v. Il bios di Polemone, pp. 105-106.<br />

353


T. 52 : CICERO, TUSCULANAE DISPUTATIONES V, 30 602 .<br />

Non igitur facile concedo neque Bruto meo neque communibus magistris nec veteribus<br />

illis, Aristoteli, Speusippo, Xenocrati, Polemoni, ut cum ea, quae supra enumeravi, in malis<br />

numerent, idem dicant semper beatum esse sapientem. Quos si titulus hic delectat insignis<br />

et pulcher, Pythagora, Socrate, Platone dignissimus, inducant animum illa, quorum<br />

splendore capiuntur, vires, valetudinem, pulcritudinem, divitias, honores, opes contemnere,<br />

eaque, quae his contraria sunt, pro nihilo ducere, tum poterunt clarissima voce profiteri se<br />

neque fortunae impetu nec multitudinis opinione nec dolore nec paupertate terreri<br />

omniaque sibi in sese esse posita nec esse quidquam extra suam potestatem quod ducant in<br />

bonis.<br />

Cfr. Polemo fr. 132 Gigante; Speusippus fr. 102 IP = 78a Tarán; Xenocrates fr. 244 IP.<br />

Traduzione<br />

Dunque non concedo facilmente al mio amico Bruto, o ai nostri comuni maestri, o a quei<br />

filosofi antichi, Aristotele, Speusippo, Senocrate, Polemone, che, avendo posto nel<br />

numero dei mali quelle cose che ho enumerato sopra, possano dire che il saggio è sempre<br />

felice. Se questo titolo notevole e bello, perfettamente degno di Pitagora, Socrate e<br />

Platone, li alletta, conducano la mente a disprezzare quelle cose il cui splendore li<br />

cattura, le forze, la salute, la bellezza, le ricchezze, gli onori, le imprese e a considerare di<br />

nessun valore quelle che sono ad esse contrarie; allora potranno dichiarare a piena voce<br />

che nè gli assalti della fortuna, nè l'opinione della gente, nè il dolore, nè la povertà li<br />

spaventano e tutto ciò li riguarda dipende da loro stessi e niente si trova al di là del loro<br />

potere.<br />

Contesto<br />

Nel V libro delle Tusculanae Cicerone discute del principio dell'autarchia della virtù. Il tema<br />

non è nuovo alle discussioni etiche di Cicerone; figura infatti tra gli argomenti discussi a<br />

partire da opposte prospettive nei discorsi di Catone e Cicerone nel III e nel IV libro del De<br />

602 Sigla codicum in G. Fohlen (ed.), Cicéron, Tusculanes, t. I : livres I-II, Les Belles Lettres, Paris 1931, pp.<br />

xii-xxii; t. II: livres III-V, Les Belles Lettres, Paris 1931, p.iv.<br />

354


finibus, v. T. 47 = Fin. IV, 60. Nel contesto dialettico-comparativo del De finibus il principio<br />

dell'autarchia della virtù dal punto di vista di Catone sostiene la tesi stoica che la virtù è<br />

l'unico bene, mentre dal punto di vista antagonista, coincidente grossomodo con quello di<br />

Antioco, ed argomentato dalla viva voce di Cicerone, il principio dell'autarchia della virtù<br />

implica sì che la virtù è un bene, ma non l'unico ed esclusivo bene 603 . La discussione viene<br />

ripresa nell'ultimo libro delle Tusculanae e posto a tema centrale della quaestio, (cfr.<br />

Parad.stoic. 16-19: " (/Oti au)ta/rkhj h( a)reth£ pro£j eu)daimoni/an. In quo virtus sit, ei nihil<br />

deesse ad beate vivendum"). Lo stesso soggetto sembra esser stato trattato da Bruto in un<br />

opera dedicata a Cicerone: (Tusc. V, 1) "ex eo libro, quem ad me accuratissime scripsisti, et<br />

ex multis sermonibus tuis virtutem ad beate vivendum se ipsa esse contentam".<br />

Verosimilmente la lettura del testo del V libro risulterebbe arricchita dal confronto con il testo<br />

di Bruto, fosse questo ancora accessibile.<br />

Il punto di partenza, rispetto al quale il testo di Cicerone reagisce dialetticamente, è una<br />

negazione del principio dell'autarchia da parte di un interlocutore fittizio : (Tusc. V, 12) "A.<br />

Non mihi videtur ad beate vivendum satis posse virtutem" 604 . Lo scopo di Cicerone è allora<br />

quello di vagliare la forza tutti gli argomenti a favore del principio. La critica ha dedotto da<br />

questo testo un forte interesse in Cicerone nel mantenere la tesi socratica e platonica, per cui<br />

la virtù è sufficiente alla felicità, che lo spingerebbe a rivalutare gli argomenti logici<br />

sviluppati dallo stoicismo. Questo tipo di intento del resto non sembra entrare in conflitto con<br />

l'impostazione academica di Cicerone, come egli stesso chiarisce: non è legittimo che il suo<br />

interlocutore tenti di contestare la coerenza delle argomentazioni ciceroniane citando quanto<br />

da lui sostenuto per iscritto nel De finibus (v. Tusc. V, 32-33 : "A. Quia legi tuum nuper<br />

quartum de Finibus: in eo mihi videbare contra Catonem disserens (...). M. Tu quidem<br />

tabellis obsignatis agis mecum et testificaris quid dixerim aliquando aut scripserim. Cum<br />

aliis isto modo, qui legibus impositis disputant: nos in diem vivimus; quodcumque nostros<br />

animos probabilitate percussit, id dicimus, itaque soli sumus liberi"). Il rapporto intrattenuto<br />

603 Nel complesso il testo del De finibus offre un esempio del metodo ciceroniano di discussione concatenata in<br />

utramquem partem, ogni istanza filosofica viene esposta e discussa a partire dal punto di vista di un'istanza<br />

antagonista, di modo che la tesi epicurea viene contestata a partire dal punto di vista stoico e la tesi stoica<br />

viene contestata a partire dal punto di vista degli academici antichi, ovvero dal punto di vista di Antioco<br />

d'Ascalona;<br />

604 v. Tusc. I, 7-8; Tusc. II, 9; Pohlenz (1911), pp. 627-629, ritiene che le lettere maiuscole "A." e "M.", che<br />

distinguono i due interlocutori nel testo, fossero in origine un Δ per discipulus e un M di magister; cfr.<br />

Philippson (1939), col. 1141; Fortenbaugh (2011), p. 402-403. L'uso di un interlocutore anonimo ricorda le<br />

procedure dialettiche che Aristotele descrive nell' VIII libro dei Topici, v. Moraux (1968), pp. 300-307; Long<br />

(1995), pp. 56-57. Secondo la pratica aristotelica il punto di partenza della discussione espresso<br />

dall'interlocutore è un opinione comune o endoxon, la cui coerenza deve essere valutata per mezzo di un<br />

dialogo domanda e risposta tra il personaggio principale e il suo interlocutore. Sulle disputationes messe in<br />

scena nella villa di Cicerone a Tusculo come una forma di schola / διατριβή, v. Douglas (1995), pp. 197-<br />

218; l'uso di un interlocutore anonimo, dunque universale, supporta l'idea che Cicerone assuma il ruolo di<br />

'educatore di se stesso e dei giovani' (cfr. Griffin (1997b), p. 11), e risulta perfettamente spiegato da una<br />

lettura del testo delle Tusculanae come un 'pedagogical drama', v. Gildenhard (2007).<br />

355


da Cicerone con ognuna delle tesi da lui impiegate, in questo contesto come in altri, è infatti,<br />

nel rispetto della sua impostazione academica, meramente dialettico. Ritornando sulla<br />

questione dell'autarchia della virtù, Cicerone dimostra semplicemente di credere tanto nella<br />

capacità di resistenza della tesi dell'autarchia della virtù al criticismo avversario, quanto nella<br />

necessità di approfondire la coerenza delle argomentazioni impiegate da entrambe le parti.<br />

Del resto è importante notare che anche Carneade sembrerebbe essersi impegnato nella<br />

discussione (in utramquem partem?) della tesi per cui, indipendentemente da quale<br />

definizione del sommo bene si difenda, la pratica della virtù è sufficiente per assicurare la<br />

felicità, v. Tusc. V, 83: "Et quoniam videris hoc velle, ut, quaecumque dissentientium<br />

philosophorum sententia sit de finibus, tamen virtus satis habeat ad vitam beatam praesidii,<br />

quod quidem Carneadem disputare solitum accepimus" 605 . Il principio dell'autarchia si<br />

troverebbe dunque a far da premessa condivisa di alcune discussioni avviate dai filosofi<br />

'scettici'. Rispetto a tale premessa socratica, Carneade tendeva verosimilmente a mostrare le<br />

incongruenze delle conclusioni stoiche ("ut contra Stoicos, quos studiosissime semper<br />

refellebat"), mentre Cicerone procede a valutare la coerenza del suo utilizzo da una<br />

prospettiva che lui stesso definisce in questo contesto più pacifica ("nos quidem illud cum<br />

pace agemus"), almeno rispetto agli stoici. Di fatto l'avversario di Cicerone in questo contesto<br />

non sono più gli stoici (come invece nel libro IV del De finibus), quanto piuttosto coloro che<br />

egli ritiene non facciano un uso coerente del principio: Antioco e i suoi, v. Tusc. V, 22: "Nam<br />

ista mihi et cum Antiocho saepe et cum Aristo nuper, cum Athenis imperator apud eum<br />

deversarer, dissensio fuit".<br />

Commento<br />

A)<br />

– non ... facile concedo: non concedo equivale a negare la validità di<br />

un'inferenza nel ragionamento dell'avversario. In un dialogo fittizio sulla questione<br />

della felicità del saggio, in cui Antioco ha il ruolo di colui che interroga e Cicerone<br />

quello di colui che risponde, la discussione si arresta nel momento in cui si vuol<br />

605 Il significato della frase è determinato dal significato del verbo 'disputare' in questo contesto: nel caso in cui<br />

gli venga attribuito il senso positivo di 'sostenere', la tesi dell'autarchia verrebbe impiegata come premessa<br />

condivisa della discussione stimolata da Carneade, verosimilmente con l'obiettivo di mettere in risalto una<br />

contraddizione interna alla tesi stoica; diversamente un significato più neutro come quello di 'discutere,<br />

esporre, disputare', non permette di determinare con precisione la funzione della tesi nelle argomentazioni<br />

carneadee.<br />

356


determinare quale relazione sussista tra la concezione dei beni e dei mali e il<br />

possesso stabile della felicità da parte del saggio. Cicerone in particolare avanza<br />

perplessità e dubbi sulla compatibilità teorica di due tesi originariamente distinte<br />

nell'esposizione del pensiero degli antichi da parte di Antioco: la formula del telos<br />

attribuita agli antichi academici elabora infatti la combinazione del concetto di virtù<br />

con un molteplicità di altri beni, il cui valore è determinato dalla 'conformità alla<br />

natura': v. Luc. 131-132 = T. 39: "Honeste autem vivere fruentem rebus is quas<br />

primas homini natura conciliet"; Luc. 138-139 = T. 40 : "qui ad honestatem prima<br />

naturae commoda adiungerent"; Fin. II, 34-35 = T. 42 : "Ergo nata est sententia<br />

veterum Academicorum et Peripateticorum, ut finem bonorum dicerent secundum<br />

naturam vivere, id est virtute adhibita frui primis a natura datis"; Fin. IV, 14-15 = T.<br />

44: "Cum enim superiores, e quibus planissime Polemo, secundum naturam vivere<br />

summum bonum esse dixisset (...) omnibus aut maximis rebus iis quae secundum<br />

naturam sint fruentem vivere"; Fin. IV, 50-51 = T. 46: "qui, virtutem omnibus rebus<br />

multo anteponentes, adiungunt ei tamen aliquid summo in bono finiendo".<br />

In altro contesto invece gli stoici stabiliscono un rapporto dimostrativo di<br />

implicazione tra la tesi per cui la virtù è l'unico bene, l'autarchia della virtù, e l'idea<br />

che la felicità del saggio è un possesso stabile e inalterabile. In riferimento agli<br />

argomenti stoici, Antioco sembrerebbe aver sostenuto che il principio dell'autarchia<br />

della virtù non implica necessariamente che la virtù sia l'unico bene, v. Fin. IV, 50-51<br />

= T. 46. Attraverso la distinzione all'interno del concetto di felicità di un grado zero<br />

(vita beata) e di un grado superlativo (vita beatissima), Antioco argomentava che la<br />

virtù è certo autosufficiente per una vita felice, anche se solo il concorso delle altre<br />

categorie di beni garantisce l'accesso alla vita massimamente felice 606 , cfr. Fin. V, 81:<br />

"...si ista mala sunt, in quae potest incidere sapiens, sapientem esse non esse ad<br />

beate vivendum satis. Immo vero, inquit, ad beatissime vivendum parum est, ad beate<br />

vero satis"; Tusc. V, 22-23: "Dicebantur haec, quae scriptitavit etiam Antiochus locis<br />

pluribus, virtutem ipsam per se beatam vitam efficere posse neque tamen<br />

beatissimam";<br />

Il problema della stabilità della felicità viene affrontato anche nel V libro del De<br />

finibus a partire dalla posizione sostenuta da Teofrasto (Fin. V, 12; Fin. V 85-86; cfr.<br />

Tusc. V, 24). Cicerone menziona infatti un testo Sulla felicità 607 di Teofrasto come<br />

606 La critica ha ritenuto quest'aspetto della teoria etica di Antioco un tentativo, non di grande successo, di<br />

conciliare la tesi stoica per cui il saggio è sempre felice con la tesi peripatetica della tripartizione dei beni, v.<br />

Barnes (1989), pp. 88-89; Annas (1993), p. 87.<br />

607 Fin. V, 12: "Theophrasti De beata vita liber", v. Theophrastus S. 498 FHSG (1992), commentario in<br />

357


esemplificazione di un punto problematico della tesi peripatetica. L'inclusione dei<br />

beni esterni all'interno della concezione del telos ha come conseguenza logica che la<br />

felicità dell'uomo è esposta alle minaccie della fortuna. Teofrasto viene presentato<br />

come l'unico degli antichi ad aver esplicitato per iscritto questo punto problematico<br />

del pensiero etico peripatetico 608 : la felicità del saggio non è inalterabile, ma bensì<br />

soggetta ai rovesci del caso (v. Fin. V, 12: "Quod maxime efficit Theophrasti de beata<br />

vita liber, in quo multum admodum fortunae datur. Quod si ita se habeat, non possit<br />

beatam praestare vitam sapientia"). Si noterà tuttavia che per quando 'debole'<br />

('mollior' (Fin. V, 12), 'languidius' (Tusc. V, 25)), la posizione di Teofrasto si rivela<br />

quantomeno coerente dal punto di vista del "quid dicendum sit" (Fin. V, 83): v. Tusc.<br />

V, 24: "Quam bene non quaeritur, constanter quidem certe". All'interlocutore<br />

antiocheo di Cicerone viene inoltre data la possibilità, sul finale del libro V del De<br />

finibus, di rispondere alle critiche che la sua teoria etica incontra su questa questione<br />

e la discussione si conclude con un accordo generale degli interlocutori sul fatto che<br />

questo è esattamente il punto sul quale la teoria necessita di essere fortificata: (Fin. V,<br />

95) : "Atqui iste locus est, Piso, tibi etiam atque confirmandus, imquam; quem si<br />

tenueris, non modo meum Ciceronem, sed etiam me ipsum abducas licebit".<br />

Tornandoci sopra in questo contesto Cicerone intende affrontare da un altro angolo<br />

visuale il rapporto teorico tra una concezione cumulativa della felicità e la possibilità<br />

di concepirne il possesso stabile nella figura del saggio, ripercorrendo con più calma<br />

e maggiore dovizia di argomentazioni le problematiche di questo rapporto.<br />

– neque Bruto meo neque communibus magistris nec veteribus illis : il nome<br />

di Antioco viene occultato in questo contesto da una serie di altri nomi: quello di uno<br />

dei suoi avvocati difensori contemporanei, Bruto, interlocutore diretto di Cicerone;<br />

quello della fonte delle informazioni di entrambi gli interlocutori (communibus<br />

magistris), attraverso il quale vengono rievocati sia Antioco, frequentato direttamente<br />

da Cicerone 609 , sia il fratello Aristo, maestro di Bruto ad Atene, a cui Cicerone rese<br />

visita nel 51 a.C. 610 ; ed infine quello delle autorità a cui gli insegnamenti di Antioco<br />

pretendevano di rifarsi, ovvero gli antichi filosofi. La figura singola di Antioco viene<br />

Fortenbaugh (2011), p. 242-243; 448-449.<br />

608 v. Fortenbaugh (2011), pp. 242-243, dove si nota a ragione che la posizione di Teofrasto sulla fortuna non<br />

differisce nella sostanza da quella di Aristotele; essa poteva apparire particolarmente radicale se estratta dal<br />

contesto potenzialmente polemico delle opere di Teofrasto, in cui questi insisteva verosimilmente sulle<br />

differenze tra la sua posizione e quella degli stoici o anche tra la sua posizione e quella del collega<br />

peripatetico Dicearco.<br />

609 Fin. V, 1; Brutus 315.<br />

610 Ad Att. V, 10, 5.<br />

358


quindi rimpiazzata dalla molteplicità dei nomi di tutte le personalità coinvolte a vario<br />

titolo nel dibattito da lui avviato. Bruto rappresenta l'esponente probabilmente più<br />

autorevole nel contesto romano della posizione etica di Antioco. Gli insegnamenti<br />

dell'Ascalonita non intendono però essere patrocinati a titolo personale, quanto<br />

piuttosto avvalersi dell'autorità degli antichi filosofi. Si assiste dunque alla sparizione<br />

virtuale del nome di Antioco, affinché risaltino maggiormente tutti gli attori coinvolti<br />

a vario titolo nel dibattito.<br />

– Aristoteli, Speusippo, Xenocrati, Polemoni: si noti l'assenza nel compatto<br />

gruppo degli antichi filosofi di Teofrasto, la cui posizione etica viene<br />

precedentemente distinta rispetto a quella degli altri veteres proprio in relazione alla<br />

questione della stabilità della felicità (del saggio e non), v. Tusc. V, 24-25 611 .<br />

Teofrasto viene qui associato allo scandaloso motto "vitam regit fortuna, non<br />

sapientia", che si trovava verosimilmente in un'opera ampiamente nota al publico<br />

romano e intitolata Callistene. La presentazione ciceroniana spinge il lettore a<br />

pensare che l'ampio spazio concesso alla fortuna fosse una caratteristica peculiare del<br />

pensiero di Teofrasto, a proposito del quale il discepolo si sarebbe discostato dal<br />

maestro Aristotele. Si tratta come noto di una falsa illusione. Esistono infatti alcuni<br />

passaggi delle opere etiche di Aristotele che confermano la stessa concezione del<br />

rapporto tra felicità e fortuna: EN VII, 13 / EE VI, 13, 1153 b 17-19 : "διὸ<br />

προσδεῖται ὁ εὐδαίμων τῶν ἐν σώματι ἀγαθῶν καὶ τῶν ἐκτὸς καὶ τῆς τύχης,<br />

ὅπως μὴ ἐμποδίζηται ταῦτα".<br />

Si può allora mettere in dubbio la conoscenza di Cicerone o di Antioco delle etiche<br />

aristoteliche, nonostante il passo di Fin. V, 12 voglia far credere il contrario, e<br />

credere alla buona fede con cui questa presentazione di Teofrasto viene fornita;<br />

Oppure si può ricondurre la ragione di questa malcelata omissione alla volontà di<br />

Antioco di appropriarsi del pensiero aristotelico, per una via che non passa<br />

necessariamente, o quantomeno non in primo luogo, per una pedissequa lettura delle<br />

opere etiche di Aristotele. Già nel discorso di propaganda antiochea pronunciato dal<br />

personaggio di Varrone (Ac.libri I, 15-42) a Teofrasto viene imputata la<br />

responsabilità di aver danneggiato la concezione della virtù propria del patrimonio<br />

intellettuale di Platone 612 , al fine di poter poi presentare l'intervento di Zenone come<br />

611 v. S. 493 FHSG (1992), p. 320, commentario in Fortenbaugh (2011), pp. 437-442,<br />

612 Ac.libri I, 33: "Theophrastus (...) vehementius etiam fregit quodam modo auctoritatem veteris disciplinae;<br />

spoliavit enim virtutem suo decore imbecillamque reddidit quod negavit in ea sola positum esse beate<br />

359


'correttivo' 613 . Non c'è dubbio allora che Teofrasto venga scelto come capro espiatorio<br />

nella riforma antiochea dell'etica peripatetica. La citazione dei passaggi delle opere<br />

di Teofrasto serve in conclusione a distrarre il lettore, dandogli un impressione di<br />

accuratezza e facendogli così credere all'originalità della posizione di Teofrasto su<br />

questo argomento.<br />

I quattro nomi rimanenti, di Aristotele, Speusippo, Senocrate e Polemone, sono quelli<br />

di coloro che Antioco riteneva possibile impiegare a supporto della tesi per cui la<br />

virtù è autosufficiente rispetto alla felicità, per quanto esistano anche altri beni capaci<br />

di contribuire alla piena realizzazione dell'essere umano e della sua felicità.<br />

– cum ea...in malis numerent: v. Fin. IV, 72: "Quid ait Aristoteles reliquique<br />

Platonis alumni? Se omnia, quae secundum naturam sint, bona appellare, quae<br />

autem contra, mala".<br />

Ea: v. Tusc. V. 29: "si mala illa ducimus, turba quaedam, paupertas, ignobilitas,<br />

humilitas, solitudo, amissio suorum, graves dolores corporis, perdita valetudo,<br />

debilitas, caecitas, interitus patriae, exsilium, servitus denique".<br />

(in bonis / in malis) numerent: cfr. Ac.libri I, 35 = T. 41: "qui...nec quidquam aliud<br />

numeraret in bonis"; Fin. I, 31: "cur nec voluptas in bonis sit numeranda nec in<br />

malis dolor"; Fin. III, 10: "quicquid enim praeter id, quod honestum sit, expetendum<br />

esse dixeris in bonis numeraveris"; Fin. III, 11: "ceterae philosophorum disciplinae<br />

(...), quae rem ullam virtutis expertem aut in bonis aut in malis numerent ..."; Fin. IV,<br />

45 = T. 45: "si quicquam, nisi quod honestum sit, numeretur"; Fin. V, 18: "in quibus<br />

(primis naturae) numerent incolumitatem conservationemque omnium partium,<br />

valetudinem, sensus integros, doloris vacuitatem, viris, pulchritudinem, cetera<br />

generis eiusdem"; Tusc. V, 31: "quae vulgus in malis et bonis numerare";<br />

L'uso costante del verbo numerare, ogni qual volta nei trattati filosofici di Cicerone<br />

si faccia menzione del tema dei beni e dei mali, rende numerare in bonis / numerare<br />

in malis delle espressioni fisse, che presuppongono un'uniformità di vocabolario tra<br />

le varie istanze filosofiche concepibile solo in relazione ad uno stadio avanzato di<br />

vivere".<br />

613 Ac.libri I, 35: "Zeno igitur nullo modo is erat qui ut Theophrastus nervos virtutis incideret, sed contra qui<br />

omnia quae ad beatam vitam pertinerent in una virtute poneret ...".<br />

360


dibattito. Inoltre il senso di numerare contribuisce a veicolare l'idea che la<br />

concezione dei beni e dei mali della tradizione academico-peripatetica avvenga<br />

attraverso la compilazione di una lista, la quale in realtà presuppone per essere stilata<br />

una definizione di che cosa sia 'bene' e che cosa sia 'male'. Il momento preliminare<br />

della definizione tuttavia passa in assoluto secondo piano nei resoconti ciceroniani e<br />

quel che rimane sono solo le liste, v. T. 42 = Fin. II, 34-35 : non membra, non<br />

sensus, non ingeni motum, non integritatem corporis, non valetudinem<br />

[corporis]...<br />

La lista dei beni e dei mali viene verosimilmente compilata dal punto di vista<br />

dell'etica academico-peripatetica a partire dal canone imposto dallo sviluppo naturale<br />

dell'essere umano, per cui 'bene' è tutto ciò che contribuisce a salvaguardare lo<br />

sviluppo delle facoltà fisiche ed intellettuali dell'uomo. 'Male' invece ciò che nuoce al<br />

medesimo sviluppo.<br />

La forma statica della lista, verosimilmente, fa in modo che in ultima istanza, il<br />

termine 'bene' venga applicato a quegli elementi considerati parte del 'corredo<br />

naturale' dell'uomo: la forza fisica, le capacità sensoriali, il buon funzionamento di<br />

ogni parte dell'organismo, la bellezza del corpo, etc.<br />

In sé e per sé considerare la salute del corpo, ad esempio, un bene ha un immediato<br />

risvolto pratico, nella misura in cui permette di orientare l'azione in rapporto alla<br />

conservazione del bene, cercando di evitarne nei limiti del possibile il<br />

danneggiamento. Ma non è in rapporto al contesto pratico che la lista academico-<br />

peripatetica dei beni e dei mali viene qui presa in considerazione. Ogni elemento<br />

della lista viene infatti innalzato al livello di requisito di base per la felicità del<br />

saggio. Il solo figurare all'interno della lista equivale ad essere incluso in una<br />

definizione cumulativa della felicità, la quale di conseguenza risulta mutilata<br />

dall'assenza di uno qualsiasi degli elementi.<br />

– idem dicant semper beatum esse sapientem: la tesi che il saggio sia sempre<br />

felice è corollario della tesi stoica per cui la virtù è l'unico bene. Nel perfetto<br />

controllo del soggetto su tutti i requisiti della felicità risiede infatti la specificità<br />

teorica dell'etica stoica. L'inclusione nella formula del telos academico-peripatetica<br />

di altri elementi oltre la virtù sembra invece determinare un conflitto radicale con la<br />

tesi della perfetta felicità del saggio. La figura del saggio è all'interno delle riflessioni<br />

361


etiche del periodo ellenistico una figura essenzialmente teorica capace di superare le<br />

limitazioni della vita umana attraverso il pieno sviluppo della/e virtù. La sua<br />

funzione è tendenzialmente quella di un paradigma teorico più che di un modello<br />

concreto storicamente attuabile.<br />

L'incontro invece tra l'etica stoica e la cultura romana favorisce l'attribuzione di<br />

alcune caratteristiche della figura del saggio ad alcune figure di 'uomini illustri' della<br />

storia della repubblica romana : v. l'exemplum di Marco Regolo e Gaio Mario in<br />

Paradox.stoic. 16.<br />

La figura del saggio all'interno del discorso etico serve infine a testare la forza e la<br />

coerenza di ogni istanza etica. È convinzione diffusa infatti che la felicità sia<br />

qualcosa di permanente e difficile da perdere (v. Arist., EN 1100 a 35 – b 3); nella<br />

figura del saggio, in quanto rappresentante dell'eccellenza umana, la felicità non può<br />

che configurarsi come un possesso stabile, pena la sostanziale inaccessibilità di una<br />

qualsiasi felicità per l'uomo comune. L'etica aristotelica sembra dal canto suo essersi<br />

spinta fino all'indagine delle attività che maggiormente si avvicinano al possesso<br />

pieno della felicità proprio della divinità, senza però mai avventurasi nella<br />

teorizzazione di una figura umana stabilmente e perfettamente felice. Diversamente,<br />

essa sembra aver insistito sulle differenze che intercorrono tra la perfetta beatitudine<br />

teorica della divinità e la felicità accessibile all'uomo nel contesto della sua vita<br />

terrena : v. e.g. Arist. EN 1178 b 25-27: "τοῖς μὲν γὰρ θεοῖς ἅπας ὁ βίος μακάριος,<br />

τοῖς δ' ἀνθρώποις, ἐφ' ὅσον ὁμοίωμά τι τῆς τοιαύτης ἐνεργείας ὑπάρχει".<br />

Nella presente discussione la teoria etica proposta da Antioco viene valutata in<br />

relazione alla sua compatibilità con la tesi della felicità del saggio, il cui fondamento<br />

socratico è posto alla base di tutta la discussione: v. Tusc. V, 28: "velut in ea ipsa<br />

sententia, quam in hac disputatione suscepimus, omnes bonos semper beatos<br />

volumus esse". Il saggio infatti viene identificato con l'uomo virtuoso (ibidem :<br />

"omnibus enim virtutibus instructos et ornatos tum sapientes, tum viros bonos<br />

dicimus") e la tesi della felicità del saggio non è altro che una versione amplificata<br />

della tesi socratica secondo la quale solo l'uomo virtuoso può essere felice (v. Tusc.<br />

V, 35: cit. dal Gorgia 470 d-e di Platone: "Ita prorsus existimo, bonos beatos,<br />

improbos miseros").<br />

362


La tesi viene d'altrocanto impiegata per sottoporre la posizione di Antioco a una<br />

valutazione critica, v. Tusc. V, 34: "Qua re demus hoc sane Bruto, ut sit beatus<br />

semper sapiens: quam sibi conveniat ipse viderit (...). Nos tamen teneamus ut sit<br />

idem beatissimus".<br />

– titulus ... Pythagora, Socrate, Platone dignissimus:<br />

titulus hic : ci si riferisce all'appellativo di sapiente, che implica in questo contesto<br />

l'indifferenza di fronte a ciò che la gente comune ritiene 'bene' o 'male', ovvero la<br />

completa indipendenza rispetto al mondo esterno.<br />

Pythagora, Socrate, Platone : l'associazione di questi tre nomi è particolarmente<br />

interessante se considerata in rapporto alla corrente filosofica (neo)pitagorica, in cui<br />

elementi del platonismo vengono riletti attraverso la lente del pitagorismo, e<br />

impersonificata, nel contesto culturale di Cicerone, dalla figura di Nigidio Figulo 614 .<br />

Cicerone testimonia infatti dell'esistenza di una tradizione pitagorica italica,<br />

riesumata da Nigidio, nel contesto della sua traduzione latina del Timeo platonico 615 .<br />

L'importanza e la prolificità di questa tradizione ha attirato in abbondanza l'interesse<br />

della critica 616 . In questo contesto è doveroso notare che questa tradizione alternativa<br />

poneva probabilmente l'accento sul fatto che gli insegnamenti di Socrate e Pitagora<br />

confluiscono in egual misura nella figura di Platone 617 , la quale assume di<br />

conseguenza un sapore sapienzale. Nel passo in oggetto essa viene introdotta per<br />

creare un contrasto con la lettura antiochea, che, avvicinando la tradizione academica<br />

e peripatetica, si allontana invece percettibilmente dal culto della figura del saggio.<br />

614 Nigidius Figulus, pythgoricus et magus, uomo illustre della società romana, viene associato alla rinascita del<br />

neo-pitagorismo romano. La sua formazione lo mette in contatto con l'erudito Varrone e il filosofo stoico<br />

Posidonio. Cicerone allineato sulle sue stesse posizioni politiche nutre profonda stima nei suoi confronti, v.<br />

Ad fam. IV, 13; Plut., Cic. 20; an seni resp. gerenda sit. 27. Delle sue opere sono noti i seguenti titoli :<br />

Commentarii grammatici, De diis, De augurio privato, De extis, Sphaera graecanica, Sphaera barbarica, De<br />

vento, De hominum naturalibus, De animalibus. A Nigidio Figulo Svetonio attribuisce il vaticinio in<br />

occasione della nascita di Ottaviano Augusto che avrebbe preannunciato il suo futuro di dominum terrarum<br />

orbi, v. Svetonius, Vita Divi Augusti 94, 5; v. Della Casa (1962), pp. 24-27.<br />

615 Cic., Tim. 1, 1: "fuit enim vir ille cum ceteris artibus, quae quidem dignae libero essent, ornatus omnibus,<br />

tum acer investigator et diligens earum rerum, quae a natura involutae videntur; denique sic iudico post illos<br />

nobile Pythagoreos, quorum disciplina extincta est quodam modo, cum aliquot saecla in Italia Siciliaque<br />

viguisset, hunc extitisse, qui illam renovaret". Cfr. anche Tusc. IV, 1; 4; De senect. 78; v. Della Casa (1962),<br />

pp. 37-40.<br />

616 v. Ferrero (1955); Bonazzi, Lévy, Steel (2007);<br />

617 v. Rep. I, 16: "Platone (...) cuius in libris multis locis ita loquitur Socrates, ut etiam, cum de moribus, de<br />

virtutibus, denique de re publica disputet, numeros tamen et geometriam et harmoniam studeat Pythagorae<br />

more coniungere"; Fin. V, 87: "Cur (Plato) ad reliquos Pythagoreos, Echecratem, Timaeum, Arionem Locros,<br />

ut, cum Socratem expressisset, adiungeret Pythagoreorum disciplinam eaque quae Socrates repudiabat<br />

addisceret?".<br />

363


B)<br />

Cicerone dimostra dunque una perfetta consapevolezza delle differenti e molteplici<br />

modalità di approccio alle tradizioni filosofiche che si rifanno contemporaneamente<br />

al platonismo.<br />

La figura di Pitagora inoltre si trova menzionata nell'enfatico elogio della filosofia<br />

del prologo del V libro delle Tusculanae : v. Tusc. V, 8: "A quibus ducti deinceps<br />

omnes, qui in rerum contemplatione studia ponebant, sapientes et habebantus et<br />

nominabantur, idque eorum nomen usque ad Pythagorae manavit aetatem, quem ...";<br />

Tusc. V, 10: "Nec vero Pythagoras nominis solum inventor, sed rerum etiam ipsarum<br />

amplificator fuit: ...".<br />

La successione Pitagora, Socrate, Platone ricalca del resto l'ordine cronologico<br />

dell'esposizione degli inizi della filosofia in Tusc. V, 7-11, per cui dopo la storia<br />

dell'invenzione del termine philo-sophia da parte di Pitagora, segue la menzione di<br />

Socrate come colui "primus devocavit e caelo et in urbibus collocavit et in domus<br />

etiam introduxit et coegit de vita et moribus rebusque bonis et malis quaerere" (V,<br />

10). Il ruolo di Platone viene ridotto in tale contesto all'aver fornito una versione<br />

scritta della ratio socratica: "cuius multiplex ratio disputandi rerumque varietas et<br />

ingenii magnitudo, Platonis memoria et litteris consecrata...".<br />

Nel passo in oggetto la tesi academico-peripatetica viene detta incompatibile con la tesi della<br />

felicità stabile del saggio. L'affermazione diventa un'esplicita provocazione nel momento in<br />

cui vengono menzionati i tre grandi filosofi del passato, Pitagora, Socrate e Platone come<br />

icone degne del titolo di 'saggio', di fatto esautorando la posizione etica rievocata da Antioco<br />

d'Ascalona della fondamentale autorità di Platone.<br />

Tarán (1981), p. 437, osserva che la stessa strategia di critica della posizione academica a<br />

partire dalla principio stoico che la virtù è l'unico bene si ritrova nella critica di Seneca alle<br />

posizioni di Speusippo e Senocrate : v. Seneca Epist.Mor. 85, 18 : "Si bonum est, quod<br />

honestum, omnes concedunt ad beate vivendum sufficere virtutem: e contrario non remittetur,<br />

si beatum sola virtus facit, unum bonum esse quod honestum est. Xenocrates et Speusippus<br />

putant beatum vel sola virtute fieri posse; non tamen unum bonum esse, quod honestum est<br />

364


(...) Illud autem absurdum est, quod dicitur, beatum quidem futurum vel sola virtute, non<br />

futurum autem perfecte beatum: quod quemadmodum fieri possit, non reperio"; "Praeterea, si<br />

beata vita nullius est indigens, omnis beata vita perfecta est, eademque est et beata, et<br />

beatissima"; Epist.Mor. 71, 18: "Academici veteres beatum quidem esse etiam inter hos<br />

cruciatus fatentur, se non ad perfectum, nec ad plenum: quod nullo modo potest recipi: nisi<br />

beatus est, in summo bono non est"). Questa strategia argomentativa sarebbe inoltre<br />

riconducibile all'arsenale impiegato da Crisippo contro questi filosofi, v. Plut., De comm.notit.<br />

1065A : " Ἀλλὰ τί ἄν τις ἐπὶ τούτοις δυσχεραίνοι, μεμνημένος ὧν ἐν τῷ δευτέρῳ περὶ<br />

Φύσεως γέγραφεν, ἀποφαίνων οὐκ ἀχρήστως τὴν κακίαν πρὸς τὰ ὅλα γεγενημένην;<br />

ἄξιον δ' ἀναλαβεῖν τὸ δόγμα ταῖς ἐκείνου λέξεσιν, ἵνα καὶ μάθῃς πως, οἱ τοῦ<br />

Ξενοκράτους καὶ Σπευσίππου κατηγοροῦντες ἐπὶ τῷ μὴ τὴν ὑγίειαν ἀδιάφορον<br />

ἡγεῖσθαι μηδὲ τὸν πλοῦτον ἀνωφελὲς ἐν τίνι τόπῳ τὴν κακίαν αὐτοὶ τίθενται καὶ τίνας<br />

λόγους περὶ αὐτῆς διεξίασιν· ‘ἡ δὲ κακία πρὸς τὰ λοιπὰ συμπτώματα ἔχει ὅρον· γίνεται<br />

γὰρ αὐτή πως κατὰ τὸν τῆς φύσεως λόγον καί, ἵν' οὕτως εἴπω, οὐκ ἀχρήστως<br />

γίνεται πρὸς τὰ ὅλα· οὐδὲ γὰρ ἂν τἀγαθὸν ἦν.’". Se la ricostruzione di Tarán fosse<br />

corretta, sarebbe legittimo ritenere che la concezione difesa da Antioco d'Ascalona<br />

rispecchierebbe da vicino quella sostenuta da Speusippo e Senocrate e avversata per iscritto<br />

già da Crisippo.<br />

Tuttavia si noti che la posizione attribuita a Senocrate e Speusippo nel testo di Plutarco<br />

menziona solo l'opinione che la salute non è indifferente e il denaro non è inutile, senza<br />

riferimento alcuno al rapporto inferenziale tra la tesi dell'unicità del bene e la tesi<br />

dell'autarchia della virtù. La critica di Crisippo si articola invece intorno all'argomento per cui<br />

qualcosa che si rivela 'utile' in una prospettiva globale non è per questo un 'bene'.<br />

Inoltre nell'epistola senecana si possono agevolmente scorgere i segni caratteristici della<br />

posizione di Antioco così come essa viene presentata da Cicerone: la concezione dei beni di<br />

Senocrate e Speusippo viene associata ad una concezione di diversi gradi di felicità (beatus /<br />

perfecte beatum ; vita beata / (vita) beatissima) che in altri contesti Cicerone attribuisce<br />

esplicitamente ad Antioco. Tutte le informazioni contenute nell'epistola senecana potrebbero<br />

esser state derivate in ultima istanza dal testo di Cicerone; Senocrate e Speusippo sarebbero<br />

stati allora selezionati per brevità come rappresentanti di una posizione che Antioco estendeva<br />

a tutta la scuola vetero-academica. Altrimenti se si accetta la dipendenza di tutto l'andamento<br />

dell'argomento da Crisippo dovremmo supporre ugualmente che la distinzione di più gradi<br />

all'interno del concetto di felicità risalga fattualmente alla fase antica del pensiero academico<br />

ed Antioco non avrebbe fatto altro che ripeterla.<br />

365


Tarán non arriva tuttavia a questa conclusione. Per lui infatti Speusippo, come Platone,<br />

avrebbe pensato che esistono sì altri beni oltre alla virtù, ma che tali beni non sono beni per<br />

se, ovvero sono beni meramente strumentali con un diverso statuto etico rispetto alla virtù. La<br />

formula del telos attribuita a Speusippo nel testo di Clemente Alessandrino (v. T. 58 =<br />

Clem.Alex., Str. II, 22, 33) lascia pensare del resto che l'attenzione di Speusippo si<br />

concentrasse sulla ἕξις che l'individuo assume nei confronti di τὰ κατὰ φύσιν, ovvero sul<br />

tipo di impiego che l'individuo è capace di fare in relazione ad una categoria di beni derivati<br />

(i.e. il cui valore è determinato dalla conformità con il canone della natura). Questo tipo di<br />

scenario è generalmente compatibile con l'impiego del pensiero degli antichi fatto da Antioco,<br />

nella misura in cui effettivamente questi avrebbero difeso lo statuto di non-indifferenza di altri<br />

elementi oltre alla virtù, ma non implica di per sé che la teoria dei beni di Speusippo e<br />

Senocrate si accompagnasse a una concezione di gradi plurimi all'interno della felicità, nè che<br />

sia in alcun modo attribuibile all'Academia antica una concezione cumulativa del rapporto tra<br />

i beni e la felicità.<br />

T. 53 : CICERO, TUSCULANAE DISPUTATIONES V, 39.<br />

Hic (scil. praecipuum a natura datum, animus) igitur si est excultus et si eius acies ita<br />

curata est, ut ne caecaretur erroribus, fit perfecta mens, id est absoluta ratio, quod est idem<br />

virtus. Et, si omne beatum est cui nihil deest et quod in suo genere expletum atque<br />

cumulatum est, idque virtutis est proprium, certe omnes virtutis compotes beati sunt. Et hoc<br />

quidem mihi cum Bruto convenit, id est cum Aristotele, Xenocrate, Speusippo, Polemone.<br />

Cfr. Polemo fr. 133 Gigante; Speusippus fr. 103 IP = 78b Tarán; Xenocrates fr. 242 IP.<br />

3 omnes Bf : omnis cet.<br />

Traduzione<br />

Se dunque questo (scil. ciò che di eccellente viene offerto dalla natura) viene<br />

lavorato con cura e il suo acume viene coltivato in modo da non essere reso cieco dagli<br />

366


errori, diventa perfetta intelligenza, che è lo stesso della virtù. E se felice è colui a cui<br />

nulla fa difetto e che nel suo genere è pienamente completo, - e ciò è caratteristico della<br />

virtù -, certamente tutti coloro che sono in possesso della virtù sono felici. Su questo ne<br />

convengo con Bruto, ovvero con Aristotele, Senocrate, Speusippo e Polemone.<br />

Contesto<br />

Al fine di portare avanti l'indagine sulla compatibilità dell'etica vetero-academica, così come<br />

viene esposta da Antioco, con la tesi della felicità stabile del saggio, il testo offre un<br />

esposizione della concezione della felicità secondo gli antichi. Il punto di partenza<br />

dell'esposizione esplicita il fondamento naturalistico del discorso etico attribuito agli antichi,<br />

v. Tusc. V, 37: "Unde igitur ordiri rectius possumus quam a communi parente natura?". Il<br />

tema è già stato sviluppato nelle opere filosofiche di Cicerone, v. Fin. II, 31-32; Fin. V, 17 :<br />

"totius enim quaestionis eius quae habetus de finibus bonorum et malorum, cum quaeritur in<br />

his, quid sit extremum, quid ultimum, fons reperiendus est, in quo sint prima invitamenta<br />

naturae". Cfr. T. 36 = Plut., De comm.not. 1069 e : ’Πόθεν οὖν’ φησίν ‘ἄρξωμαι; καὶ τίνα<br />

λάβω τοῦ καθήκοντος ἀρχὴν καὶ ὕλην τῆς ἀρετῆς, ἀφεὶς τὴν φύσιν καὶ τὸ κατὰ φύσιν;’;<br />

Lo sviluppo dell'uomo come essere pienamente realizzato viene indagato come parte dello<br />

sviluppo nel mondo animale e in parallelo con lo sviluppo nel mondo vegetale. La<br />

suddivisione per categorie dei vari tipi di piante, alberi, piante basse, sempreverdi, o spoglie<br />

in inverno (v. Tusc. V, 37: "Itaque et arbores et vites et ea, quae sunt humiliora neque se<br />

tollere a terra altius possunt, alia semper virent, alia hieme nudata, verno tempore tepefacta<br />

frondescunt"), ricalca le suddivisioni delle indagini botaniche di Teofrasto (v. Historia<br />

plantarum, De causis plantarum). In particolare lo statuto paradigmatico della pianta della<br />

vigna (vites), l'unica ad essere menzionata con il suo nome, non solo ricorre spesso nei testi di<br />

Cicerone (Fin. IV, 38; Fin. V, 39-40; Tusc. I, 56; ND II, 35; 85; 120, come illustrazione della<br />

ratio naturae), ma sopratutto corrisponde all'ampio interesse per questa pianta nei sopracitati<br />

testi di Teofrasto (v. De causis plant. I, 12, 9; II, 18, 1; III, 2; III, 11-14; cfr. Arist. Phys. II,<br />

199 b 9 ss. ; De Anima II, 3, 414 e 29 – 415 e 13 618 ).<br />

Dal mondo vegetale viene dedotto il principio generale per cui un prodotto della natura, se<br />

non viene ostacolato, arriva alla propria perfezione per un movimento interno naturale :<br />

ibidem "neque est ullum, quod non ita vigeat interiore quodam motu et suis in quoque<br />

618 Prost (2001), pp. 249-251, ritiene che l'esempio della vigna corrisponda a un preciso riferimento al testo<br />

aristotelico del De Anima e alla concezione della sovrapposizione e continuità delle funzioni biologiche che<br />

vi si trova esposta.<br />

367


seminibus inclusis, (...), quantum in ipsis est, nulla vi impediente perfecta sint". La menzione<br />

dell'assenza di ostacoli (nulla vi impediente) e di un movimento interno (interiore quodam<br />

motu) fa di questo principio una precisa applicazione della famosa definizione della Fisica di<br />

Aristotele, v. Phys. II 199B 15-18: "φύσει γάρ, ὅσα ἀπό τινος ἐν αὑτοῖς ἀρχῆς συνεχῶς<br />

κινούμενα ἀφικνεῖται εἴς τι τέλος· ἀφ' ἑκάστης δὲ οὐ τὸ αὐτὸ ἑκάστοις οὐδὲ τὸ τυχόν, ἀεὶ<br />

μέντοι ἐπὶ τὸ αὐτό, ἂν μή τι ἐμποδίσῃ" [cfr. Arist. De an. 434 a 25-26: "ἀνάγκη ἄρα<br />

ἐνεῖναι τὴν θρεπτικὴν δύναμιν ἐν πᾶσι τοῖς φυομένοις καὶ φθίνουσιν"]. La critica<br />

riconosce nel corpus aristotelico una varietà di usi del concetto di 'natura', tra i quali quello<br />

della Fisica rappresenta l'istanza evidentemente più forte 619 . La contestualizzazione del<br />

concetto nell'ambito botanico è prova in un certo senso dell'universalità della sua<br />

applicazione. Il mondo delle piante infatti è in un certo senso solo una base empirica tra le<br />

tante possibili per l'affermazione di un principio che si vuole valido universalmente, dunque<br />

anche per l'etica. Oltre a ciò la botanica permette una facile associazione con Teofrasto,<br />

considerato il fondatore della disciplina. L'utilità delle indagini botaniche di Teofrasto anche<br />

per altri ambiti, al di là dei confini della disciplina, sembra venir cripticamente dichiarata sia<br />

da Cicerone (Fin. V, 10: "Theophrastus autem stirpium naturas omniumque fere rerum quae e<br />

terra gignerentur causas atque rationes; qua ex cognitione facilior facta est investigatio<br />

rerum occultissimarum"), sia da Varrone (Varro, De re rustica I, 5, 1-2 : "cum lego libros<br />

Theophrati, qui inscribuntur et alteri. Stoliìo, isti, inquit, libri non tam idonei iis qui agrum<br />

colere volunt quam qui scholas philosophorum; neque eo dico quod habeant et utilia<br />

et communia quaedam"). Il passo del De finibus afferma esplicitamente che le cognizioni<br />

derivate dall'indagine botanica di Teofrasto agevolano l'indagine di res occultissima.<br />

L'espressione designa generalmente l'indagine fisica (v. occulta, Ac.libri I, 15 : "Socrates (...),<br />

primus a rebus occultis et ab ipsa natura involutis, in quibus omnes ante eum philosophi<br />

occupati fuerunt"; Ac.libri I, 19: "philosophandi ratio triplex, una de vita et moribus, altera<br />

de natura et rebus occultis, tertia..."; Luc. 127; Fin. III, 37; ), ma in certi contesti particolari si<br />

riferisce in generale alla conoscenza della natura, intesa anche come 'natura umana' (v. Fin. V,<br />

41: "Nunc vero a primo quidem mirabiliter occulta natura est nec perspici ne cognosci<br />

potest", dove si tratta di "se quisque cognoscere iudicareque ... quae vis et totius naturae et<br />

partium singularum"). Non è escluso dunque che Cicerone alluda in modo criptico al fatto che<br />

dall'osservazione scientifica della natura delle piante sia derivabile la formulazione di un<br />

principio naturalistico dell'etica. Il passo di Varrone invece afferma la generale utilità delle<br />

opere botaniche di Teofrasto, non solo per gli esperti di filosofia ma anche per un pubblico più<br />

ampio, poiché contengono "et utilia et communia quaedam". La frase si riferisce<br />

619 v. Annas (1993), pp. 142-158..<br />

368


verosimilmente al tipo di informazioni di genere comune talvolta presenti nelle opere in<br />

questione, ma allo stesso tempo tende a spostare il valore di questo tipo di trattati tecnici su un<br />

livello generale, quello di un bene commune, accessibile a un molteplicità di prospettive.<br />

Il passaggio dall'indagine botanica al dominio dell'etica non si trova chiaramente esplicitato<br />

nella letteratura peripatetica superstite e non può essere attribuito con sicurezza né a Teofrasto<br />

né a qualche altro suo consociato. Il concetto di natura, come lo si trova impiegato nelle opere<br />

etiche aristoteliche, non ha lo stesso forte statuto di paradigma generale dello sviluppo<br />

dell'uomo che invece assume nella riscrittura ellenistica dell'etica degli antichi 620 . Tuttavia non<br />

sembrerebbe inappropriato sottolineare che in questo contesto il riferimento alle indagini<br />

naturalistiche peripatetiche è assulatamente centrale per la costituzione del testo di Cicerone.<br />

In secondo luogo le suddivisioni del mondo animale a seconda del tipo di locomozione e del<br />

modo di vita, quelli che nuotano nell'acqua, quelli che volando si godono il cielo, quelli che<br />

vivono sulla terra, strisciando o camminando, solitari o in branco, selvaggi, addomesticabili o<br />

nascosti (v. Tusc. V, 38: "Namque alias bestias nantes aquarum incolas esse voluit, alias<br />

volucres caelo frui libero, serpentes quasdam, quasdam esse gradientes: earum ipsarum<br />

partim solivagas, partim, congregatas, immanes alias, quasdam autem cicures, non nullas<br />

abditas terraque tectas"), fanno già parte dello sfondo teorico delle indagini biologiche di<br />

Aristotele sul mondo animale 621 . La funzione dell'enumerazione delle varie categorie animali<br />

consiste verosimilmente nel presentare la base empirica generale dalla quale viene dedotto il<br />

secondo principio comune a tutte le specie, ovvero il principio per cui non è possibile opporsi<br />

alla propria natura, per cui ogni specie deve affidarsi al proprio corredo (suum munus), in<br />

accordo con la propria caratteristica specifica (precipuus a natura datum). La caratteristica<br />

specifica dell'uomo equivale, secondo il tessto in esame, alla sua superiorità rispetto al resto<br />

del regno animale, determinata sulla base del possesso esclusivamente umano di un'anima<br />

razionale, che lo mette in relazione con la divinità : Tusc. V, 38: "sic homini multo quiddam<br />

praestantius, etsi praestantia debent ea dici, quae habent aliquam comparationem, humanus<br />

autem animus decerptus ex mente divina cum alio nisi cum ipso deo, si hoc fas est dictu,<br />

comparari potest".<br />

Tutte le tematiche fin qui presentate non appartengono alle tematiche standard del dominio<br />

dell'etica e possono invece essere messe generalmente in relazione con la metodologia e le<br />

procedure delle indagini biologiche della tradizione peripatetica. Si tratta di un punto di vista<br />

apparentemente del tutto originale rispetto alla tradizione classica, ma che si impone invece<br />

nella riscrittura ellenistica dell'etica academico-peripatetica. La tradizione d'indagine<br />

620 v. Annas (1993), p. 148-149.<br />

621 Cfr. De motu an. 698 a 5-7, dove appare per inciso una forma riassuntiva della classificazione degli animali<br />

in base alla locomozione; Hist.an. 487 a – 487 b, dove le differenti classi animali vengono descritte con<br />

abbondanza di particolari, secondo una più articolata suddivisione.<br />

369


scientifica per cui è famoso il Peripato contribuisce dunque a determinare un approccio all'<br />

etica che prende le mosse da un indagine dell'uomo in quanto essere vivente, il cui<br />

comportamento (etico) è analizzabile nello stesso modo in cui lo è quello degli altri animali ed<br />

esseri viventi; Ci sono ragioni per pensare che l'itinerario che dal mondo botanico al mondo<br />

animale arriva alla formulazione di un principio generale universalmente valido anche per<br />

l'uomo costituisse lo scheletro di un discorso peripatetico standard, particolarmente utile in<br />

ambito etico, ma altrettanto adeguato all'indagine fisica, v. ND II, 35: "Ut enim in vite ut in<br />

pecude nisi quae vis obstitit videmus naturam suo quodam itinere ad ultimum parvenire,<br />

atque ut pictura et fabrica ceteraeque artes habent quendam absoluti operis effectum, sic in<br />

omni natura ac multo etiam magis necesse est absolvi aliqui ac perfici". Il medesimo<br />

itinerario ricorre infatti sia in questo contesto d'esposizione dei presupposti teorici dell'etica<br />

degli 'antichi', sia nel V libro del De finibus dedicato al medesimo argomento, v. Fin. V, :<br />

"Omne animal se ipsum diligit ac, simul et ortum est, id agit, ut se conservet, quod hic ei<br />

primus ad omnem vitam tuendam appetitus a natura datur, se ut conservet atque ita sit<br />

affectum, ut optime secundum naturam affectum esse possit".<br />

Commento<br />

A)<br />

– si est excultus et si eius acies ita curata est: la caratteristica specifica<br />

dell'uomo è quella di avere un'anima, la quale richiede la giusta 'cura' per essere<br />

perfezionata. L'uso del verbo excolere (coltivare con cura / educare) porta avanti la<br />

metafora botanica e la continuità con l'ambito naturale, mentre la menzione dell'<br />

acies animi si spinge in direzione del vocabolario della 'visione', che più<br />

propriamente caratterizza l'attività intellettuale. In questo modo si inserisce<br />

all'interno dello sviluppo naturale dell'uomo uno spazio per l'educazione e le arti<br />

della cultura. La metafora della vigna in questo contesto può tornare ad essere d'aiuto<br />

per spiegare come il lavoro della natura e l'intervento delle arti possano esser<br />

concepiti in continuità l'uno con l'altro: così come la vigna richiede l'intervento<br />

dell'arte della viticultura per raggiungere pienamente il suo telos, il punto di più altra<br />

perfezione che la natura stessa gli ha prefissato, così anche per l'uomo si può pensare<br />

che necessiti dell'intervento dell'educazione per mettere pienamente a frutto le sue<br />

doti naturali. Il concetto di sviluppo naturale non si trova dunque in opposizione<br />

370


ispetto a quello di educazione, né tantomeno rispetto a quello di virtù morale come<br />

effetto dell'educazione. La virtù morale si manifesta al contrario come l'esito finale<br />

previsto dallo sviluppo naturale, cfr. Fin. IV, 17: "sed cum sapientiam totius hominis<br />

custodem et procuratricem esse vellent, quae essent naturae comes et adiutrix, (...)".<br />

– ut ne caecaretur erroribus: il testo presenta uno scenario di sviluppo ideale<br />

delle potenzialità naturali dell'uomo; in altri contesti Cicerone insiste invece sul<br />

processo inevitabile di corruzione / depravazione. cfr. De inv. I, 2: "ita propter<br />

errorem atque inscientiam caeca ac temeraria dominatrix animi cupiditas ad se<br />

explendam viribus corporis abutebatur, perniciosissimis satellitibus"; Tusc. III, 2:<br />

"Nunc parvulos nobis dedit igniculos, quos celeriter malis moribus opinionibusque<br />

depravati sic restinguimus, ut nusquam naturae lumen appareat. Sunt enim ingeniis<br />

nostris semina innata virtutum, quae si adolescere liceret, ipsa nos ad beatam vitam<br />

natura perduceret"; sul tema della cecità che deriva da una cattiva educazione o da<br />

cattive abitudini v. Plato, Ep. VII, 335 b 4: "τυφλὸς ὢν καὶ οὐχ ὁρῶν, οἷς<br />

συνέπεται τῶν ἁρπαγμάτων ἀνοσιουργία, κακὸν ἡλίκον ἀεὶ μετ' ἀδικήματος<br />

ἑκάστου, ἣν ἀναγκαῖον τῷ ἀδικήσαντι συνεφέλκειν ἐπί τε γῇ στρεφομένῳ καὶ<br />

ὑπὸ γῆς νοστήσαντι πορείαν ἄτιμόν τε καὶ ἀθλίαν πάντως πανταχῇ";<br />

cfr. Leg. I, 29: "Quodsi depravatio consuetudinum, si opinionum varietas non<br />

imbecillitatem nimorum torqueret et flecteret..."; Leg. I, 47;<br />

cfr. Plato, Leg. 795 d.<br />

– fit perfecta mens, id est absoluta ratio, quod est idem virtus: il concetto di<br />

virtù coincide in questo contesto con quello di perfezione naturale: v. Arist., Phys.<br />

VII 246 a 13-16 : ἡ μὲν ἀρετὴ τελείωσίς τις (ὅταν γὰρ λάβῃ τὴν αὑτοῦ ἀρετήν,<br />

τότε λέγεται τέλειον ἕκαστον· τότε γὰρ ἔστι μάλιστα τὸ κατὰ φύσιν, ὥσπερ<br />

κύκλος τέλειος ὅταν μάλιστα γένηται κύκλος καὶ ὅταν βέλτιστος) ; la perfezione<br />

naturale dell'individuo viene inoltre concepita come perfezione del suo attributo<br />

specifico e / o parte migliore, ovvero delle facoltà intellettuali dell'anima. Cfr. Arist.<br />

EN 1098 a 12-16: "εἰ δ' οὕτως, ἀνθρώπου δὲ τίθεμεν ἔργον ζωήν τινα, ταύτην δὲ<br />

ψυχῆς ἐνέργειαν καὶ πράξεις μετὰ λόγου, σπουδαίου δ' ἀνδρὸς εὖ ταῦτα καὶ<br />

καλῶς, ἕκαστον δ' εὖ κατὰ τὴν οἰκείαν ἀρετὴν ἀποτελεῖται· εἰ δ' οὕτω, τὸ<br />

ἀνθρώπινον ἀγαθὸν ψυχῆς ἐνέργεια γίνεταικατ' ἀρετήν, εἰ δὲ πλείους αἱ<br />

ἀρεταί, κατὰ τὴν ἀρίστην καὶ τελειοτάτην".<br />

371


perfecta mens : cfr. Ac.libri I, 29: "quam vim animum esse dicunt mundi, eandemque<br />

esse mentem sapientiamque perfectam, quem deum appellant, ..."; Fin. V, 40: "ex<br />

mentis ratione perfecta".<br />

absoluta ratio : cfr. Tusc. IV, 34 : "ipsa virtus brevissime recta ratio dici potest"; Sen.<br />

Ep. 76, 10:"ratio perfecta virtus vocatur eademque honestum est".<br />

v. perfecta ratio, in Leg. I, 46: "Est enim virtus boni alicuis perfecta ratio, quod<br />

certe in natura est: igitur omnis honestas eodem modo".<br />

– si omne beatum est cui nihil deest: la frase pone un'equivalenza tra il<br />

concetto di felicità e quello di perfezione. Nihil deest rientra già nella definizione di<br />

ciò che è perfectus, come anche di ciò che è αὐτάρκης v. Arist. EN 1176 b 4-5:<br />

"δῆλον ὅτι τὴν εὐδαιμονίαν τῶν καθ' αὑτὰς αἱρετῶν τινὰ θετέον καὶ οὐ τῶν δι'<br />

ἄλλο· οὐδενὸς γὰρ ἐνδεὴς ἡ εὐδαιμονία ἀλλ' αὐτάρκης."; enuncia dunque un<br />

attributo del concetto per predicare la felicità di ciò che ha raggiunto il più alto grado<br />

di sviluppo delle sue proprietà specifiche.<br />

cfr. Fin. V, 26: "ut necesse sit omnium rerum, quae natura uigeant, similem esse<br />

finem, non eundem. ex quo intellegi debet homini id esse in bonis ultimum, secundum<br />

naturam uiuere, quod ita interpretemur: uiuere ex hominis natura undique perfecta<br />

et nihil requirente";<br />

– et quod in suo genere expletum atque cumulatum est: cfr. Fin. II, 42; Fin. V,<br />

40; Tusc. V, 29; Off. II, 28;<br />

– idque virtutis est proprium, certe omnes virtutis compotes beati sunt:<br />

proprium: la designazione della virtù come proprium è già presente nei testi<br />

ciceroniani di matrice stoica, cfr. Fin. III, 12: "Cum enim virtutis hoc proprium sit,<br />

earum rerum quae secundum naturam sint habere dilectum", da cui si evince che la<br />

dinamica di 'appropriatezza' della virtù rispetto all'uomo è ciò che garantisce anche la<br />

fruizione piacevole di quegli altri elementi che risultano conformi alla natura. Si noti<br />

372


inoltre che nei testi ciceroniani si assiste ad un oscillamento tra due diverse accezioni<br />

di virtù: virtus – eccellenza, completezza, acmé / virtus – capacità di scelta, scienza :<br />

v. Off. I, 13; Off. II, 17; Off. III, 100. Tale oscillamento tra un significato per così<br />

dire maggiormente compatibile con un modello peripatetico e un significato<br />

derivante verosimilmente dalla prospettiva stoica agevola in definitiva la costruzione<br />

del dialogo tra le due istanze entro l'orizzonte di un discorso comune intorno alla<br />

virtù.<br />

Cfr. l'uso di praecipuum : equivalente all'uso di proprium in contesti come: Fin. II,<br />

110: "et homini, qui ceteris animantibus plurimum praestat, praecipui a natura nihil<br />

datum esse dicemus?"; Tusc. V, 38: "Et ut bestiis aliud alii praecipui a natura datum<br />

est, quod suum quaeque retinet nec discedit ab eo, sic homini multo quiddam<br />

praestantius"; e progressivamente sempre più equiparabile a (ta£) kata£ fu/sin sia<br />

nell'ambito della riproduzione di principi 'acedmico-peripatetici' (Fin. II, 33:<br />

"Omnem enim animal, simul et ortum est, se ipsum et omnes partes suas diligit<br />

duasque, quae maximae sunt, in primis amplectitur, animum et corpus, deinde<br />

utriusque partes. Nam sunt et in animo praecipua quaedam et in corpore, quae cum<br />

leviter agnovit, tunc discernere incipit, ut ea quae prima data sint natura appetat<br />

asperneturque contraria"; Tusc. IV, 30: "Atque ut in malis attingit animi naturam<br />

corporis similitudo, sic in bonis. Sunt enim in corpore praecipua pulchritudo, vires,<br />

valetudo, firmitas, velocitas, sunt item in animo"), sia nell'ambito del linguaggio<br />

tecnico dell'istanza stoica (Fin. III, 52: "prohgme/na, id est producta, nominentur;<br />

quae vel ita appellemus (id erit verbum e verbo) vel promota et remota vel, ut dudum<br />

diximus, praeposita vel praecipua et illa reiecta. Re enim intellecta in verborum usu<br />

faciles esse debemus"; Fin. IV, 72: "Ista, inquit, quae dixisti, valere, locupletem esse,<br />

non dolere, bona non dico, sed dicam Graece prohgme/na, Latine autem producta<br />

(sed praeposita aut praecipua malo, sit tolerabilius et mollius)"; Tusc. V, 47: "At<br />

enim eadem Stoici "praecipua" vel "producta" dicunt quae "bona" isti. Dicunt illi<br />

quidem, sed iis vitam beatam compleri negant; hi autem sine iis esse nullam putant<br />

aut, si sit beata, beatissimam certe negant").<br />

virtutis compotes : cfr. Fin. V, 71; Fin. V, 77; Tusc. II, 43.<br />

– Et hoc quidem mihi cum Bruto convenit, id est cum Aristotele, Xenocrate,<br />

Speusippo, Polemone: L'astuzia del testo di Cicerone sta nel riunire l'autorità dei<br />

373


B)<br />

filosofi antichi, a cui Antioco faceva appello, sul fronte di una posizione etica, la cui<br />

caratteristica è quella di porre al centro la virtù concepita come punto di massimo<br />

sviluppo delle prerogative umane. Questo consente di separare la posizione degli<br />

antichi dai risvolti problematici dell'etica di Antioco, derivanti non dal ruolo della<br />

virtù, ma dal tentativo di conciliare la preminenza della virtù con una molteplicità di<br />

altri beni. Insistendo sulla tesi per cui la virtù garantisce la felicità dell'individuo, in<br />

quanto realizzazione piena delle sue proprietà naturali, e ponendola come punto<br />

specifico di convergenza del pensiero etico degli antichi, Cicerone opera uno<br />

spostamento d'equilibrio teorico, che lascia da una parte la questione dello statuto<br />

degli altri beni e si concentra invece sul principio di autarchia della virtù, attestato<br />

del resto anche dalle altre fonti sul pensiero degli antichi e di Polemone in particolare<br />

(v. T. 58 = Clem.Alex., Str. II, 121). In certa misura Cicerone emancipa così gli<br />

antichi dall'interpretazione di Antioco.<br />

Polemone, accompagnato da altri esponenti del compatto gruppo di filosofi vetero-academici<br />

e peripatetici viene associato ad un modello etico di tipo 'realizzazionista', con al centro lo<br />

sviluppo delle prerogative naturali dell'uomo, conciliato però, in questo particolare contesto,<br />

con un modello di tipo 'funzionalista', dove la specificità dell'uomo determina il giusto<br />

orientamento del suo sviluppo morale. All'intersezione di questi due modelli la virtù figura<br />

come apice dello sviluppo naturale dell'uomo. La natura fa sì che ogni essere animato sia<br />

perfetto nel suo genere: ciò si dimostra osservando il regno vegetale e animale, ove tutto<br />

appare preordinato per lo sviluppo e la conservazione delle diverse specie. Come ogni<br />

animale ha per natura una dote sua propria, così l'uomo possiede una qualità assai superiore:<br />

l'animo, proveniente da dio. Se tale qualità vien coltivata, diventa ragione perfetta, ossia virtù.<br />

Tutti coloro che di questa partecipano, essendo nel loro genere assolutamente perfetti, sono<br />

felici, senza che sussista un margine d'aumento possibile di tale condizione o una forma<br />

superlativa di felicità. Il lessico della superiorità dell'anima e della sua educazione progressiva<br />

permette al modello 'realizzazionista' di diventare compatibile con l'istanza platonica, per<br />

quanto verosimilmente il primo non scaturisca direttamente dalla seconda. Di fatto in questo<br />

tipo di contesti la comune convergenza su un'etica della virtù permette il singolare incontro tra<br />

un modello di tipo 'biologico' e una prospettiva di tipo 'intellettualista'.<br />

374


T. 54 : CICERO, TUSCULANAE DISPUTATIONES V, 87.<br />

Sequetur igitur horum ratione vel ad supplicium beata vita virtutem cumque ea descendet<br />

in taurum Aristotele, Xenocrate, Speusippo, Polemone auctoribus nec eam nimiis aut<br />

blandimentis corrupta deseret.<br />

Cfr. Polemo fr. 134 Gigante; Speusippus fr. 105 IP = 78c Tarán; Xenocrates fr. 241 IP.<br />

1 horum f : honorum X || nimiis blandimentis Schiche : minimis blandimentis F.<br />

Traduzione<br />

Dunque secondo la teoria di questi, per l'autorità di Aristotele, Senocrate, Speusippo e<br />

Polemone, la vita felice accompagna la virtù persino nella tortura e con essa scende nel<br />

toro e non l'abbandona corrotta dalle minacce e dalle lusinghe.<br />

Contesto<br />

Il passo si trova a conclusione di un discorso comparativo sulle varie posizioni etiche dei<br />

filosofi ellenistici. Cicerone si serve ancora una volta della griglia dialettica della Carneadia<br />

divisio per indagare una per una le principali teorie in voga: (Tusc. V, 84) "sed quaeramus<br />

unam quamque reliquorum sententiam si fieri potest, ut hoc praeclarum quasi decretum<br />

beatae vitae possit omnium sententiis et disciplinis convenire"; Si nota che la prima delle<br />

posizioni composte ("mixta") della seconda parte della divisio ripropone la teoria peripatetica<br />

dei "tria genera bonorum", che altrove invece abbiamo visto sostituita dalla 'fruizione dei<br />

beni in accordo con la natura'. La posizione viene attribuita in senso ampio ai peripatetici, e<br />

una chiosa subito adiacente ricorda che la posizione dei filosofi vetero-academici non si<br />

discosta di molto : (Tusc. V, 85) ''ut Peripatetici nec multo veteres Academici secus''. Colpisce<br />

allora la separazione, seppur non nettamente definita, tra l'istanza peripatetica e l'istanza<br />

vetero-academica e il ritorno ad una presentazione dell'etica dei beni tripartiti al primo posto<br />

delle teorie 'composite'. Il testo di Fin. I, 19, testimonia la presenza di Aristotele in persona<br />

all'interno della divisio : "Multi enim et magni philosophi haec ultima bonorum iuncta<br />

375


fecerunt; ut Aristoteles virtutis usum cum vitae perfectae prosperitate coniunxit, Callipho<br />

adiunxit ad honestatem voluptatem, Diodorus ad eandem honestatem addidit vacuitatem<br />

doloris", cfr. T. 42 = Fin. II, 34 : iam ante Aristoteli, ma il riferimento alla teoria dei beni<br />

tripartiti si differenzia sia dalla formula del telos attribuita a Aristotele nella versione della<br />

divisio di Fin. I, sia dal tentativo antiocheo di smussare lo statuto problematico dei beni<br />

esterni con la teoria della 'fruizione dei beni in accordo con la natura'. Del resto nella<br />

presentazione della posizione dei peripatetici il testo omette di precisare il rapporto di<br />

composizione tra l'honestas e gli altri beni, che invece caratterizza la presentazione della<br />

posizione di Dinomaco, Callifone e Diodoro, cfr. T. 39 = Luc. 131 ; Fin. V, 41 ; Fin. V, 21.<br />

Possiamo dunque supporre in questo testo un tentativo da parte di Cicerone di coinvolgere<br />

nella discussione la posizione dei peripatetici contemporanei (o più recenti), v. Critolaus fr. 20<br />

Wehrli = Clem.Alex., Str. II, 21, 129, p. 184 Stählin. Le conseguenze di questo tipo di scelta<br />

sono visibili anche nella modalità in cui il testo affronta la questione del rapporto tra virtù e<br />

felicità. Ormai emancipato dalla prospettiva di Antioco, Cicerone analizza il modo in cui la<br />

virtù si trova al centro anche dell'etica peripatetica, ponendo l'accento sul fatto che la vis<br />

retorica dei filosofi antichi attribuisce alla virtù un ruolo supremo, "innalzandola fino al cielo<br />

(ad caelum extulerunt)", ed a questo deve corrispondere per forza anche un certo disprezzo<br />

comparativo per ogni altro bene eventuale: (V, 85) "reliqua ex collatione facile est conterere<br />

atque contemnere". Seguendo allora questa traccia teorica apparentemente indipendente, il<br />

testo decreta che la virtù è in grado, anche all'interno della prospettiva peripatetica, di<br />

garantire la felicità, posto che si consideri il rapporto complessivo tra beni e mali, che il<br />

possesso della virtù fa pendere necessarimente e in ogni circostanza, anche la più estrema, a<br />

favore dei beni.<br />

Commento<br />

A)<br />

– ad supplicium beata vita virtutem cumque ea descendet in taurum:<br />

l'immagine della tortura, evocata dal noto toro metallico di Falaride 622 , è un test<br />

teorico del rigorismo della posizione etica stoica, come si evince da Tusc. V, 13:<br />

"Velut iste chorus virtutum in eculeum impositus imagines constituit ante oculos cum<br />

amplissima dignitate, ut ad eas cursim perrectura nec eas beata vita a se desertas<br />

622 v. Pindaro, Pithya I, 95: " τὸν δὲ ταύρῳ χαλκέῳ καυτῆρα νηλέα νόον ἐχθρὰ Φάλαριν κατέχει παντᾷ<br />

φάτις, ...".<br />

376


B)<br />

passura videatur"; e tradizionalmente la posizione peripatetica (in particolare<br />

Teofrasto) viene associata ad una soluzione diametralmente opposta del medesimo<br />

test teorico, v. Tusc. V, 24: "in eo etiam putatur dicere in rotam beatam vitam non<br />

escendere". I testi ciceroniani tendono a limitare alla sola figura di Teofrasto<br />

l'opinione per cui l'uomo per essere felice deve essere dotato di buona fortuna, v. T.<br />

52 = Tusc. V, 30. Tuttavia un'analisi dell'etica aristotelica conferma la possibilità di<br />

associare anche Aristotele con un rifiuto esplicito della compatibilità tra vita felice e<br />

grandi sfortune, v. EN 1153 b 17: "οἱ δὲ τὸν τροχιζόμενον καὶ τὸν δυστυχίαις<br />

μεγάλαις περιπίπτοντα εὐδαίμονα φάσκοντες εἶναι, ἐὰν ᾖ ἀγαθός, ἢ ἑκόντες ἢ<br />

ἄκοντες οὐδὲν λέγουσιν". Secondo quanto afferma Aristotele, nessuno può<br />

chiamare felice un uomo che si trovi in terribili circostanze, a meno che non stia<br />

difendendo una tesi per scopi puramente dialettici: v. EN 1096 a 1-2; 1100 a 5-9.<br />

Grazie ad un nuovo approccio teorico, incentrato prevalentemente sulle conseguenze<br />

di una teoria che pone al centro la virtù, questo testo opera dunque un originale<br />

avvicinamento dell'istanza peripatetica alla prospettiva stoica, pur mantenendo<br />

invariate le caratteristiche specifiche delle due teorie.<br />

– Aristotele, Xenocrate, Speusippo, Polemone auctoribus: Il quadrinomio di<br />

autorità è lo stesso di T. 52 = Tusc. V, 30: v. Aristoteli, Speusippo, Xenocrati,<br />

Polemoni, all'interno del quale si nota l'assenza di Teofrasto, in una dinamica teorica<br />

che cerca il superamento dei problemi sollevati dalla teoria teofrastea sul rapporto tra<br />

felicità e fortuna. Il riferimento ai filosofi academici inoltre è indice del fatto che le<br />

conclusioni ottenute nell'ambito di una discussione teorica degli esiti dell'etica<br />

peripatetica vengono trasposti anche all'interno della discussione più ampia dell'etica<br />

degli 'antichi', ovvero che la risoluzione dei punti problematici dell'etica peripatetica<br />

agevola il consolidamento di una prospettiva che tende a tenere insieme il patrimonio<br />

teorico delle due scuole e a sfruttarne congiuntamente i vantaggi.<br />

Il nome di Polemone figura in questo passo all'interno del quadrinomio di autorità filosofiche,<br />

ormai ben consolidato nella prassi testuale di Cicerone, attraverso il quale si intende fare<br />

riferimento ad un orizzonte teorico comune tra esponenti del Peripato, in particolare<br />

377


Aristotele, e i filosofi dell' 'Academia antica'. Attraverso l'uso del quadrinomio si consolida la<br />

possibilità di sviluppare le implicazioni teoriche di un'etica della virtù, che si distingue da<br />

quella stoica per un rifiuto del rigorismo, mantenendo purtuttavia il principio della superiorità<br />

dei beni spirituali dell'uomo rispetto a quelli legati al corpo o alle circostanze esterne.<br />

L'apporto specifico dei filosofi academici si esplica verosimilmente sopratutto in rapporto a<br />

quest'ultimo aspetto del discorso etico. Da sola la posizione di Aristotele e dei suoi consociati<br />

sembra risultare pericolosamente esposta alle critiche (stoiche e non solo) di potenziale<br />

edonismo o di instabilità della felicità dell'uomo; la congiunzione invece dell'istanza<br />

peripatetica con i principi 'platonici' dell'etica degli antichi academici sembra consentire un<br />

nuovo bilanciamento del discorso etico, in cui il principio dell'autarchia della virtù risulta<br />

infine compatibile con il riconoscimento dello statuto degli altri beni inerenti alla vita<br />

dell'uomo. In questo contesto si nota che Cicerone si discosta almeno parzialmente dalle<br />

soluzioni praticate da Antioco per risolvere la problematicità della posizione peripatetica, a<br />

vantaggio di una diversa indagine teorica del potenziale della virtù. La letteratura filosofica<br />

antica, in cui gli strumenti della retorica vengono messi al servizio di un'elogio (protreptico)<br />

della virtù, sembra infatti autorizzare Cicerone ad attribuire agli antichi una posizione etica,<br />

secondo la quale il comportamento morale dell'uomo è sufficiente a garantire la felicità anche<br />

nel contesto di condizioni esterne non favorevoli. Il ricorso all'immagine del toro di Falaride è<br />

probabilmente un estremismo teorico non supportato testualmente dagli scritti degli antichi<br />

filosofi, che risulta tuttavia funzionale a un confronto sullo stesso piano del ruolo della virtù<br />

nella teoria stoica e nella teoria vetero-academica/peripatetica.<br />

T. 55 : CICERO, TUSCULANAE DISPUTATIONES V, 37, 109.<br />

Qui enim beatior Epicurus, quod in patria vivebat, quam, quod Athenis Metrodorus? Aut<br />

Plato Xenocratem vincebat aut Polemo Arcesilam, quo esset beatior? Quanti vero ista<br />

civitas aestimanda est, ex qua boni sapientesque pelluntur?<br />

v. M. Gigante, 'Polemonea', Pdp, fasc. 132 (1978), p. 395.<br />

2 aut V 3 f : ut X.<br />

378


Traduzione<br />

Perché mai Epicuro, che viveva in patria, sarebbe da considerarsi più felice di<br />

Metrodoro, che viveva ad Atene? Forse che Platone superava Senocrate, o Polemone<br />

Arcesilao, quanto all'esser felice? D'altra parte quanto si deve stimare questa città da cui<br />

sono cacciate persone buone e sapienti?<br />

Contesto<br />

Il passo si situa all'interno di una discussione più ampia sull'influenza di alcuni cosidetti 'mali'<br />

sulla felicità dell'uomo saggio. Cicerone contesta che certe condizioni esterne siano di<br />

impedimento per il pieno conseguimento della saggezza e di una vita felice, in particolare<br />

attraverso l'illustrazione di alcuni elementi biografici di eminenti personalità filosofiche e non,<br />

sfidando in questo modo alcuni tenaci cliché culturali come quello per cui la mancanza di una<br />

buona reputazione impedisce ad un uomo di esser felice (v. Tusc. V, 103 e ss.). La discussione<br />

si incentra sulla capacità del saggio di relativizzare l'importanza di tutti i beni che non<br />

appartengono all'anima e differiscono dalla saggezza. L'uomo saggio allora disprezzerà il<br />

denaro (Tusc. V, 106), e se si trovasse a doversi separare anche dalla sua patria saprà limitare<br />

l'impatto che questo tipo di dispiacere può avere sulla sua vita.<br />

Commento<br />

A)<br />

– Aut Plato Xenocratem vincebat aut Polemo Arcesilam, quo esset beatior?:<br />

Cicerone può citare un grande numero di filosofi la cui vita si è svolta lontano dalla<br />

patria d'origine, e che dunque implicitamente supportano la tesi per cui il saggio può<br />

vivere felice anche avendo abbandonato la terra natia: v. Tusc. V, 107: "in qua<br />

aetates suas philosophi nobilissimi consumpserunt, Xenocrates, Crantor, Arcesilas,<br />

Lacydes, Aristoteles, Theophrastus, Zeno, Cleanthes, Chrysippus, Antipater,<br />

Carneades, Clitomachus, Philo, Antiochus, Panaetius, Posidonius, innumerabiles<br />

alii, qui, semel egressi numquam domum reverterunt". In questo passo sperimenta<br />

invece, attraverso l'uso di una domanda puramente retorica, l'applicazione della tesi<br />

379


B)<br />

contraria, la quale, in ragione del comparativo (beatior), può essere ricondotta ad<br />

Antioco d'Ascalona, per cui l'apporto di beni esterni, in questo caso della possibilità<br />

di non doversi separare dalla propria patria, contribuisce ad una forma<br />

comparativamente maggiore di felicità (cfr. beatissima : Ac.libri I, 22 ; Tusc. V, 22-<br />

23 ; v. p. 355). Il contesto d'applicazione della domanda retorica è quello<br />

dell'Academia antica, per cui la tesi contestata costringerebbe ad ammettere che<br />

Platone e Polemone, originari di Atene, sarebbero stati più felici di Senocrate e<br />

Arcesilao, che invece venivano l'uno da Calcedone (Bitinia), l'altro da Pitane<br />

(Eolide), pur avendo tutti ugualmente praticato la filosofia all'interno della stessa<br />

scuola e dunque avendo tutti avuto accesso verosimilmente allo stesso tipo di<br />

saggezza. Quest'applicazione della teoria di Antioco risulta dunque paradossale e<br />

impraticabile. L'esempio stesso della vita di quei filosofi a cui l'Ascalonita voleva<br />

rifarsi confuta la sua posizione e permette invece a Cicerone di proseguire la sua<br />

indagine su altre basi.<br />

Il nome di Polemone in questo contesto viene impiegato in quanto di esponente della scuola<br />

academica che era anche originario di Atene e che dunque non dovette confrontarsi con le<br />

circostanze dell'esilio e dell'allontamento dalla propria patria. I dettagli biografici dei filosofi<br />

menzionati in questo testo sono funzionali alla dimostrazione della tesi per cui una vita<br />

condotta lontano dal luogo d'origine non impedisce all'uomo saggio di accedere alla felicità,<br />

nella misura in cui la sua virtù non solo è sufficiente a garantire la felicità, ma permette anche<br />

di relativizzare l'importanza degli altri beni inerenti alla vita dell'uomo. Si noti che il testo<br />

della Consolatio ad Helviam di Seneca attribuisce ad uno scritto di Bruto Sulla virtù un giro<br />

di pensiero perfettamente corrispondente a quanto illustrato in questo contesto. Scrive Seneca:<br />

(9. 4) "Brutus in eo libro quem de uirtute composuit ait se Marcellum uidisse Mytilenis<br />

exulantem et, quantum modo natura hominis pateretur, beatissime uiuentem neque umquam<br />

cupidiorem bonarum artium quam illo tempore". La presenza della forma superlativa<br />

dell'aggettivo 'beatus' indica che anche il testo di Bruto aveva come possibile riferimento<br />

critico la distinzione introdotta da Antioco tra una vita beata, garantita dalla sola virtù, e una<br />

vita beatissima, assicurata dall'apporto dei beni esterni. Per quanto Cicerone presenti Bruto<br />

come un attento estimatore dell'operazione ermeneutico-filosofica di Antioco, è possibile qui<br />

constatare che, in ambiente romano, la sua posizione venne assimilata non senza passare un<br />

380


approfondito vaglio critico.<br />

T. 56 : PLUTARCHUS, DE COMMUNIBUS NOTITIIS ADVERSUS STOICOS 1069E – 1070B.<br />

’Πόθεν οὖν’ φησίν ‘ἄρξωμαι; καὶ τίνα λάβω τοῦ καθήκοντος ἀρχὴν καὶ ὕλην τῆς<br />

ἀρετῆς, ἀφεὶς τὴν φύσιν καὶ τὸ κατὰ φύσιν;’ πόθεν δ' Ἀριστοτέλης, ὦ μακάριε, καὶ<br />

Θεόφραστος ἄρχονται; τίνας δὲ Ξενοκράτης καὶ Πολέμων λαμβάνουσιν ἀρχάς; οὐχὶ<br />

καὶ Ζήνων τούτοις ἠκολούθησεν ὑποτιθεμένοις στοιχεῖα τῆς εὐδαιμονίας τὴν<br />

φύσιν καὶ τὸ κατὰ φύσιν; ἀλλ' ἐκεῖνοι μὲν ἐπὶ τούτων ἔμειναν ὡς αἱρετῶν καὶ<br />

ἀγαθῶν καὶ ὠφελίμων, καὶ τὴν ἀρετὴν προσλαβόντες αὐτοῖς ἐνεργοῦσαν<br />

οἰκείως χρωμένην ἑκάστῳ τέλειον ἐκ τούτων καὶ ὁλόκληρον ᾤοντο συμπληροῦν<br />

βίον καὶ συμπεραίνειν, τὴν ἀληθῶς τῇ φύσει πρόσφορον καὶ συνῳδὸν ὁμολογίαν<br />

ἀποδιδόντες. οὐ γὰρ ὥσπερ οἱ τῆς γῆς ἀφαλλόμενοι καὶ καταφερόμενοι πάλιν ἐπ'<br />

αὐτὴν ἐταράττοντο, τὰ αὐτὰ πράγματα ληπτὰ καὶ οὐχ αἱρετὰ καὶ οἰκεῖα καὶ οὐκ<br />

ἀγαθὰ καὶ ἀνωφελῆ μὲν εὔχρηστα δέ, καὶ οὐδὲν μὲν πρὸς ἡμᾶς ἀρχὰς δὲ τῶν<br />

καθηκόντων ὀνομάζοντες, ἀλλ' οἷος ὁ λόγος, τοιοῦτος ἦν ὁ βίος τῶν ἀνδρῶν<br />

ἐκείνων, ἃ ἔπραττον οἷς ἔλεγον οἰκεῖα καὶ σύμφωνα παρεχόντων. ἡ δὲ τούτων<br />

αἵρεσις, ὥσπερ ἡ παρ' Ἀρχιλόχῳ γυνή ‘τῇ μὲν ὕδωρ δολοφρονέουσα χειρὶ<br />

τῇ δὲ πῦρ’, τοῖς μὲν προσάγεται τὴν φύσιν τοῖς δ' ἀπωθεῖται δόγμασι· μᾶλλον δὲ<br />

τοῖς μὲν ἔργοις καὶ τοῖς πράγμασιν ὡς αἱρετῶν καὶ ἀγαθῶν ἔχονται τῶν κατὰ<br />

φύσιν, τοῖς δ' ὀνόμασι καὶ τοῖς ῥήμασιν ἀδιάφορα καὶ ἄχρηστα καὶ ἀρρεπῆ<br />

πρὸς εὐδαιμονίαν ἀναίνονται καὶ προπηλακίζουσιν.<br />

Polemo fr. 124 Gigante; cfr. SVF III 491; Senocrate T. 233 Isnardi Parente; S. 501 Theophrastus FHSG (1992),<br />

pp. 327-328.<br />

Traduzione<br />

"Da dove dunque" dice "prenderò le mosse? E cosa considero come principio del dovere<br />

e materia della virtù, se abbandono la natura e ciò che è in accordo con la natura?" Ma<br />

da dove, caro [Crisippo], prendono le mosse Aristotele e Teofrasto? Cosa considerano<br />

381


Senocrate e Polemone come principi? E Zenone non seguì proprio loro che ponevano la<br />

natura e ciò che è conforme con la natura come elementi della felicità? Ma questi si sono<br />

mantenuti su questi elementi, considerandoli degni di scelta, (come) dei beni e delle cose<br />

utili, e avendo aggiunto a questi la virtù, la quale si esercita facendo appropriatamente<br />

uso di ciascuno, ritenevano di completare e rifinire una vita perfetta e completa in tutte<br />

le sue parti per mezzo di essi, mostrando la conformità che è veramente appropriata e in<br />

accordo con la natura. Non causavano infatti confusione come coloro che saltano via<br />

dalla terra e vi vengono di nuovo precipitati, chiamando le stesse cose 'da prendere', ma<br />

non 'da scegliere', 'appropriate' ma non 'buone', 'inutili' ma 'vantaggiose', 'senza valore<br />

per noi', ma 'principi dei doveri', al contrario, al discorso di questi uomini<br />

corrispondeva il loro genere di vita, che si sforzavano di rendere le loro azioni<br />

appropriate e consone alle loro parole. Mentre la scuola di pensiero di quegli altri è come<br />

la donna di cui Archiloco dice che: "con una mano l'acqua, mentre con l'altra<br />

essendo maliziosa il fuoco", con alcune dottrine segue la natura, con altre la respinge; o<br />

piuttosto nei fatti e nelle azioni aderiscono alle cose secondo la natura come se fossero da<br />

scegliersi e dei beni, mentre nei vocaboli e nei discorsi le rinnegano e le insultano come<br />

indifferenti, inutili e insignificanti per la felicità.<br />

Contesto<br />

Il passo si inserisce all'interno della critica plutarchea delle dottrine stoiche a partire dall'uso<br />

del concetto di nozione comune (koinh£ e) /nnoia). Il punto di partenza del testo è l'esigenza di<br />

fornire una risposta alle critiche mosse dallo stoicismo ai filosofi academici a proposito<br />

dell'incompatibilità delle posizioni scettiche con le nozioni comuni, ovvero con quelle<br />

rappresentazioni universali comuni a tutti gli uomini, che fungono talvolta anche da assiomi<br />

della conoscenza (cfr. l'uso del termine in Galeno; Aristotele: principio di non<br />

contraddizione). Nel complesso il testo rinuncia però ad una critica frontale del concetto<br />

cardine dell'epistemologia stoica, per mostrare invece come alcuni esiti della teoria stoica, in<br />

particolare in ambito etico (e fisico) entrino in contraddizione con i principi posti. Si tratta<br />

allora di "seguire l'avversario sul suo proprio terreno", secondo la migliore tradizione<br />

academica, per cui la miglior difesa risulta essere l'attacco, ovvero una critica dall'interno<br />

della coerenza dottrinale tra principi posti e affermazioni conclusive, che costituisce di<br />

rimando una critica radicale alla legittimità dell'uso stoico del concetto di 'nozione comune', v.<br />

382


Babut (1969), p. 35-39.<br />

Già la prima questione affrontata dal testo interpella direttamente il nucleo fondamentale del<br />

confronto dialettico tra stoici e academici in ambito etico: "è conforme alle nozioni comuni<br />

parlare di accordo con la natura quando si ritiene che le cose che sono conformi alla natura<br />

siano indifferenti?" (1060 B-C); la problematicità dell'etica stoica viene riassunta attraverso la<br />

seguente sintesi paradossale: "la natura ci appropria a delle cose che non sono nè utili nè<br />

buone, mentre ci aliena da quelle che non sono nè cattive nè nocive. (...) La natura è essa<br />

stessa una cosa indifferente, ma la conformità alla natura è il più grande dei beni" (1060 C-D).<br />

In questo modo il testo plutarcheo torna ad insistere, dopo Carneade, Antioco e Cicerone (e<br />

molti altri ancora) sull'incongruenza tra la formula del telos stoico, che prende l'ordine<br />

naturale come modello di riferimento a cui conformarsi, e la dottrina degli adiaphora, per cui<br />

si asserisce che l'unico bene è la virtù e ciò che esula dalla virtù, anche se conforme alle<br />

tendenze naturali, non ha un valore rilevante ai fini del telos e non può esser considerato un<br />

bene.<br />

Come fa notare Babut (2004), già il paragrafo precedente a quello in oggetto (1069 C) chiama<br />

in causa il concetto stoico di homologhia, giocando sul doppio senso del temine come<br />

"accordo" con la natura, ma anche come coerenza della dottrina. Inoltre viene direttamente<br />

menzionato il modo in cui Crisippo giustifica la 'selezione delle cose indifferenti' nell'ambito<br />

delle scelte pratiche dell'uomo, a partire dall'esigenza di prendere come punto di partenza la<br />

natura e la conformità con la natura, asserendo esplicitamente che si tratta di fornire alla virtù<br />

gli strumenti per il suo esercizio. Le critiche all'etica stoica nella sostanza sono le stesse che<br />

sono reperibili anche nei testi ciceroniani, poiché verosimilmente appartenenti ad un retaggio<br />

di tipo academico 623 . La differenza della procedura di Plutarco sta nel ricorrere a citazioni dal<br />

testo di Crisippo per indicare con precisione quali affermazioni del filosofo stoico lo<br />

inchiodano premubilmente alla contraddizione.<br />

Commento<br />

A)<br />

– ’Πόθεν οὖν’ φησίν ‘ἄρξωμαι; v. Plato, Tim. 29 B 2-3: "μέγιστον δὴ παντὸς<br />

ἄρξασθαι κατὰ φύσιν ἀρχήν"; v. Tusc. V, 37: "Unde igitur ordiri rectius possumus<br />

quam a communi parente natura?".<br />

623 v. De Lacy (1953), p. 81-82.<br />

383


– τίνα λάβω τοῦ καθήκοντος ἀρχὴν καὶ ὕλην τῆς ἀρετῆς, ἀφεὶς τὴν φύσιν καὶ<br />

τὸ κατὰ φύσιν; : cfr. De stoic. Rep. 1035 c = SVF III 326: "’οὐ γὰρ ἔστιν εὑρεῖν τῆς<br />

δικαιοσύνης ἄλλην ἀρχὴν οὐδ' ἄλλην γένεσιν ἢ τὴν ἐκ τοῦ Διὸς καὶ τὴν ἐκ τῆς<br />

κοινῆς φύσεως· ἐντεῦθεν γὰρ δεῖ πᾶν τὸ τοιοῦτον τὴν ἀρχὴν ἔχειν, εἰ μέλλομεν<br />

ὀρθῶς τι ἐρεῖν περὶ ἀγαθῶν καὶ κακῶν.", in cui Plutarco citando dal III libro Sugli<br />

dèi di Crisippo, indica la divinità e la natura universale (cfr. Fin. III, 73) come unico<br />

principio possibile per il reperimento della giustizia e la determinazione di ciò che è<br />

bene e ciò che è male. Crisippo avrebbe dunque considerato la φυσικὴ θεωρία come il<br />

fondamento del discorso etico (v. Lee (2000), pp. 23-25). L'etica stoica sembra allora<br />

fornire la versione più forte di quel 'naturalismo etico' caratteristico del periodo<br />

ellenistico (v. Appendice). Il suo fondamento è reperibile infatti nell'ordine fisico e<br />

metafisico del mondo, per cui il rapporto tra le azioni dell'uomo e la natura, sia<br />

particolare che universale, in un comune orizzonte di razionalità, deve essere preso in<br />

considerazione nell'ambito di una qualunque giustificazione coerente del discorso<br />

etico. Questo risulta particolarmente chiaro a partire da due punti della dottrina etica<br />

rievocati dal passo in esame:<br />

1) τοῦ καθήκοντος ἀρχὴ : Ac.libri I, 23: "officii ipsius initium"; Fin. III, 23: "Cum<br />

autem omnia officia a principiis naturae proficiscantur, ab isdem necesse est proficisci<br />

ipsam sapientiam"; Fin. III, 60 "cum ab his [scil. principiis naturalibus] omnia<br />

proficiscantur officia"; Fin. IV, 46: "unde offici, unde agendi principium nascatur";<br />

l'uso stoico del concetto di 'origine/principio del dovere' è attestato sia in greco che in<br />

latino; la determinazione concreta dei 'doveri' dell'uomo avviene a partire dall'incontro<br />

tra un criterio razionale della virtù e le esigenze fattuali, dunque naturali, della vita<br />

dell'uomo. Senza prendere in conto il piano della natura la virtù morale è solo<br />

un'astrazione teorica, dunque il 'dovere', ovvero il contenuto reale di un azione,<br />

sorge/ha origine laddove ci si confronta realmente con le esigenze naturali dell'uomo.<br />

2) ὕλην τῆς ἀρετῆς : L'espressione si trova ugualmente attestata in Stobaeus, Anth.<br />

II, p. 85, 10-11, Wachsmuth; le 'cose secondo la natura' vengono talvolta impiegate<br />

nell'etica stoica come un campo d'applicazione della virtù, un ambito d'applicazione,<br />

come i materiali da costruzione per un comportamento virtuoso, cfr. Inwood (1985), p.<br />

206, dove ta£ kata£ fu/sin vengono efficacemente descritte come "raw material of<br />

384


virtue".<br />

Cfr. la critica agli indifferentisti come Aristone insiste proprio sul fatto che sostenendo<br />

l'assoluta assenza di valore nelle 'cose secondo la natura', a favore dell'esclusività della<br />

virtù morale, finiscono per eliminare la possibilità stessa della virtù, nella misura in<br />

cui impediscono di poter concepire l'origine della sua applicazione pratica e il suo<br />

ambito di esercizio.<br />

– πόθεν δ' Ἀριστοτέλης, ὦ μακάριε, καὶ Θεόφραστος ἄρχονται; τίνας δὲ<br />

Ξενοκράτης καὶ Πολέμων λαμβάνουσιν ἀρχάς; : cfr. T. 45 = Fin. IV, 45.<br />

Il naturalismo etico viene posto come ambito di incontro tra l'istanza stoica e l'istanza<br />

peripatetica e academica già nel testo ciceroniano, su stimolo dell'operazione<br />

storiografico-ermeneutica di Antioco d'Ascalona e della dialettica carneadea, allo<br />

scopo di mostrare come il pieno rispetto della premessa naturalistica del discorso etico<br />

non conduce necessariamente agli esiti dottrinali stoici, ed anzi risulta incompatibile<br />

con la tesi che solo la virtù contribuisce alla felicità dell'uomo.<br />

Lo stesso quadrinomio di filosofi antichi si ritrova con l'aggiunta di Speusippo in : T.<br />

37 = Leg. I, 37; T. 43 = Fin. IV, 3; cfr. T. 32 e 33 =Tusc. V, 30; Tusc. V, 39.<br />

È evidende tuttavia che peripatetici, academici, e stoici (come anche gli epicurei) si<br />

possono avvalere di un comune riferimento alla 'natura' senza però condividere le<br />

medesime premesse metafisiche e teleologiche sul funzionamento della natura e sulla<br />

posizione dell'uomo al suo interno.<br />

Si noterà inoltre che il testo plutarcheo fornisce alcune informazioni sul rapporto tra<br />

acedemici e stoici di diversa natura rispetto a quelle desumibili dai testi ciceroniani, in<br />

particolare su Senocrate e Speusippo: v. 1065 A: "ἄξιον δ' ἀναλαβεῖν τὸ δόγμα ταῖς<br />

ἐκείνου λέξεσιν, ἵνα καὶ μάθῃς πως, οἱ τοῦ Ξενοκράτους καὶ Σπευσίππου<br />

κατηγοροῦντες ἐπὶ τῷ μὴ τὴν ὑγίειαν ἀδιάφορον ἡγεῖσθαι μηδὲ τὸν πλοῦτον<br />

ἀνωφελὲς ἐν τίνι τόπῳ τὴν κακίαν αὐτοὶ τίθενται καὶ τίνας λόγους περὶ αὐτῆς<br />

διεξίασιν"; da cui si deduce che Plutarco leggeva in qualche testo delle critiche<br />

stoiche mosse a Senocrate e Speusippo sempre sulla questione dello statuto di 'bene'<br />

accordato ad altre cose oltre la virtù.<br />

È interessante allora notare come quella che dal testo ciceroniano viene presentata<br />

come una polemica tra peripatetici e stoici, sulla base del testo plutarcheo possa essere<br />

385


estesa anche alla scuola academica. L'opposizione dottrinale viene del resto<br />

minimizzata in entrambi i contesti dalla medesima strategia, già impiegata da<br />

Carneade, la quale riunisce le tre posizioni, academica, peripatetica e stoica sul<br />

medesimo fronte del naturalismo etico, asserendo di conseguenza una differenza<br />

meramente terminologica tra i vari punti di vista.<br />

– οὐχὶ καὶ Ζήνων τούτοις ἠκολούθησεν ὑποτιθεμένοις στοιχεῖα τῆς<br />

εὐδαιμονίας τὴν φύσιν καὶ τὸ κατὰ φύσιν; : Cfr. T. 45 = Fin. IV, 45:"Zenonem<br />

cum Polemone disceptantem, a quo quae essent principia naturae acceperat, a<br />

communibus initiis progredientem videre".<br />

Plutarco riprende l'idea già presente nel testo ciceroniano che Zenone abbia derivato<br />

dall'Academia il concetto stoico di natura e ciò che è 'secondo la natura', i quali<br />

sarebbero stati, stando a questo testo, elementi costitutivi della definizione della<br />

felicità nelle teorie di Senocrate e Polemone.<br />

– ἀλλ' ἐκεῖνοι μὲν ἐπὶ τούτων ἔμειναν ὡς αἱρετῶν καὶ ἀγαθῶν καὶ ὠφελίμων : i<br />

tre termini 'da scegliere', 'bene' e 'utile', derivano dalla discussione delle posizioni<br />

stoiche che tendevano a negarne l'equivalenza di riferimento ed a designare con<br />

ognuno di essi cose diverse, ovvero a dire che ciò che è 'da scegliere' nell'ambito di<br />

una scelta pratica, poiché 'seconda natura', non per questo è da considerarsi un 'bene' o<br />

qualcosa di intrinsecamente 'utile'. Il fatto che secondo Plutarco la posizione<br />

academica e peripatetica recuperi l'equivalenza teorica dei tre termini non significa di<br />

fatto che la terminologia presentata venisse impiegata nel suo significato tecnico già<br />

dai filosofi sopra menzionati, ma soltanto che prima delle distinzioni terminologiche<br />

introdotte da Zenone, non è reperibile una altrettanto netta distinzione nel riferimento<br />

dei tre termini.<br />

– καὶ τὴν ἀρετὴν προσλαβόντες αὐτοῖς ἐνεργοῦσαν οἰκείως χρωμένην<br />

ἑκάστῳ τέλειον ἐκ τούτων καὶ ὁλόκληρον ᾤοντο συμπληροῦν βίον καὶ<br />

συμπεραίνειν :<br />

τὴν ἀρετὴν προσλαβόντες: v. adiungere, cfr. T. 40 = Luc. 138-139: qui ad<br />

honestatem prima naturae commoda adiungerent; T. 46 = Fin. V, 50-51 : "virtutem<br />

omnibus rebus multo anteponentes, adiungunt ei tamen aliquid summo in bono<br />

386


finiendo"; Cfr. T. 42 = Fin. II, 34-35 : virtute adhibita frui primis a natura datis; Per<br />

quanto i testi ciceroniani tendono ad associare l'azione del' 'aggiungere' con gli altri<br />

elementi oltre alla virtù, in entrambi i contesti, plutarcheo e ciceroniano, la concezione<br />

della felicità umana attribuita alla tradizione academica e peripatetica viene presentata<br />

come il risultato di una 'composizione'.<br />

χρωμένην ἑκάστῳ: Cfr. frui rebus in T. 39 = Luc. 131-132.<br />

τέλειον ἐκ τούτων: il testo insiste sul vocabolario del 'perfezionamento',<br />

'adempimento', 'riempimento', 'completamento', non senza effetto pleonastico, il quale<br />

sembrerebbe esprimere in modo caratteristico la prospettiva peripatetica sulla felicità<br />

umana come piena realizzazione del potenziale dell'uomo.<br />

ὁλόκληρον: v. Quest.Conv. 636 f 5; termine medico; integrità fisica Leg. 759 c;<br />

συμπληροῦν: cfr. Fin. IV, 58: "ex ea quae sint apta, ea honesta, ea pulchra, ea<br />

laudabilia, illa autem superiora naturalia nominantur, quae coniuncta cum honestatis<br />

vitam beatam perficiunt et absolvunt"; Clem.Alex. Str. II, 21, 128, 5; DL V, 30;<br />

definizione del telos attribuita a Critolao e criticata nel testo di Stobaeus, Ecl. II, p. 46,<br />

10-17; p. 126, 12-16; p. 130, 4-8 Wachsmuth.<br />

Impiego sia stoico che peripatetico del verbo e dei suoi derivati.<br />

– τὴν ἀληθῶς τῇ φύσει πρόσφορον καὶ συνῳδὸν ὁμολογίαν ἀποδιδόντες : il<br />

concetto di ὁμολογία τῇ φύσει (accordo con la natura) definisce l'identità filosofica<br />

stoica già a partire dallo stoicismo delle origini di Zenone e Cleante. La strategia<br />

polemica plutarchea consiste nell'affermare che, in base ad una maggiore coerenza<br />

nell'uso del concetto di 'cose secondo la natura' rispetto alla comune premessa<br />

naturalistica del discorso etico, il vero 'accordo con la natura' viene realizzato<br />

dall'istanza academica e peripatetica e non da quella stoica. Si tratta evidentemente di<br />

una provocazione filosofica in pieno spirito academico che gioca sull'ambivalenza del<br />

concetto di ὁμολογία, come 'accordo' e come 'coerenza'.<br />

– τοῖς μὲν προσάγεται τὴν φύσιν τοῖς δ' ἀπωθεῖται δόγμασι: cfr. Fin. IV, 43:<br />

"naturam videntur sequi (...) rursus naturam reliquunt"; Fin. IV, 47-48.<br />

387


B)<br />

Il passo in esame testimonia della persistenza in ambiente academico di alcune strategie<br />

polemiche dirette contro l'etica stoica. Pur a distanza di più di un secolo, il nucleo<br />

problematico del discorso stoico in ambito etico sembra essere rimasto lo stesso discusso da<br />

Cicerone, ovvero il rapporto tra la premessa naturalistica condivisa tra le varie istanze<br />

filosofiche, e apparentemente derivata da parte dello stoicismo dalla tradizione academica e<br />

peripatetica, e la questione di 'ciò che è secondo la natura' ; quest'ultimo concetto, per quanto<br />

impiegato dalla dottrina stoica nell'ambito della determinazione del 'dovere', poiché esula<br />

dalla virtù, viene escluso dalla categoria del 'bene' ed etichettato come 'indifferente'. Il testo<br />

plutarcheo, come quello ciceroniano, tende allora a mettere in relazione lo stoicismo con la<br />

tradizione academica e peripatetica nell'ambito del fondamento naturalistico del discorso<br />

etico, menziona inoltre esplicitamente Zenone come anello di congiunzione tra le due<br />

tradizioni e insiste infine sull'eccentricità stoica nell'uso linguistico dei termini 'da scegliere',<br />

'bene' e 'utile'; Tuttavia non è necessario stabilire tra i due testi un rapporto di filiazione<br />

diretta, in quanto entrambi risultano in grado di attingere autonomamente ad un comune<br />

patrimonio argomentativo di matrice academica. Il testo di Plutarco privilegia infine il tema<br />

della coerenza interna del discorso stoico in linea con il taglio complessivo dato alla sua<br />

opera.<br />

T. 57 : PLUTARCHUS, DE STOICORUM REPUGNANTIIS 1045F – 1046D.<br />

Ἐν τῷ τρίτῳ περὶ τῆς Διαλεκτικῆς ὑπειπὼν ὅτι ’Πλάτων ἐσπούδασε περὶ τὴν<br />

διαλεκτικὴν καὶ Ἀριστοτέλης καὶ ἀπὸ τούτων ἄχρι Πολέμωνος καὶ Στράτωνος,<br />

μάλιστα δὲ Σωκράτης’ καὶ ἐπιφωνήσας ὅτι ‘καὶ συνεξαμαρτάνειν ἄν τις θελήσειε<br />

τούτοις τοσούτοις καὶ τοιούτοις οὖσιν’ ἐπιφέρει κατὰ λέξιν· ‘εἰ μὲν γὰρ ἐκ παρέργου<br />

περὶ αὐτῶν εἰρήκεσαν, τάχ' ἄν τις διέσυρε τὸν τόπον τοῦτον· οὕτω δ' αὐτῶν<br />

ἐπιμελῶς εἰρηκότων ὡς ἐν ταῖς μεγίσταις δυνάμεσι καὶ ἀναγκαιοτάταις αὐτῆς<br />

οὔσης, οὐ πιθανὸν ἐπὶ τοσοῦτον διαμαρτάνειν αὐτοὺς ἐν τοῖς ὅλοις ὄντας οἵους<br />

388


ὑπονοοῦμεν.’ τί οὖν σύ, φήσαι τις ἄν, αὐτὸς ἀνδράσι τοιούτοις καὶ τοσούτοις<br />

οὐδέποτε παύσῃ μαχόμενος οὐδ' ἐλέγχων, ὡς νομίζεις, ἐν τοῖς κυριωτάτοις καὶ<br />

μεγίστοις διαμαρτάνοντας; οὐ γὰρ δήπου περὶ μὲν διαλεκτικῆς ἐσπουδασμένως<br />

ἔγραψαν, περὶ δ' ἀρχῆς καὶ τέλους καὶ θεῶν καὶ δικαιοσύνης ἐκ παρέργου καὶ<br />

παίζοντες, ἐν οἷς τυφλὸν αὐτῶν ἀποκαλεῖς τὸν λόγον καὶ μαχόμενον αὑτῷ καὶ<br />

μυρίας ἄλλας ἁμαρτίας ἔχοντα.<br />

Polemo fr. 122 Gigante; SVF II, 126; Straton fr. 19 Wehrli.<br />

Traduzione<br />

Nel terzo libro Sulla Dialettica, dopo aver detto che Platone si è seriamente occupato di<br />

dialettica, come anche Aristotele e i loro successori fino a Polemone e Stratone, e<br />

certamente anche Socrate, e dopo aver aggiunto che si potrebbe anche voler sbagliare in<br />

compagnia di tanti e tali personaggi conclude testualmente: "se infatti avessero parlato<br />

di queste cose incidentalmente, forse si sarebbe potuto sparpagliare questa materia; ma<br />

avendone loro parlato con cura, come se fosse una delle più grandi e più necessarie<br />

capacità, non sarebbe plausibile che si siano sbagliati a tal punto coloro che nel<br />

complesso sono tali come li si considera". Perché allora, si potrebbe dire, tu non smetti<br />

mai di combattere tali e tanti uomini, né di confutarli, come credi tu, sulle cose più<br />

importanti e più grandi su cui si sbagliano? Infatti certamente non hanno scritto<br />

essendosene occupati seriamente sulla dialettica, mentre invece incidentalmente e per<br />

gioco sull'origine, sui fini, sugli dèi e sulla giustizia, sui quali tu chiami il loro discorso<br />

cieco, autocontraddittorio e pieno di mille altri errori.<br />

Contesto<br />

Il testo del De stoicorum repugnantis ha come scopo quello di mostrare le contraddizioni<br />

interne alle dottrine stoiche. Si rivolge in particolare contro Crisippo, nella misura in cui la<br />

critica dell'autorità massima tra i filosofi stoici sembra essere equivalente ad una critica<br />

dell'intero sistema; il testo non procede ad una critica frontale delle posizioni stoiche, ma più<br />

sottilmente cerca di mostrare come Crisippo finisca per contraddire se stesso ogni qual volta<br />

assume un atteggiamento critico nei confronti delle altre istanze filosofiche (v. Cherniss<br />

389


(1976), pp. 377-379). Come mostrato dalla critica, la polemica antistoica (e antiepicurea) in<br />

Plutarco non si limita a questo testo, ma piuttosto è una parte cosiderevole della sua opera<br />

filosofica ad occuparsi di discutere le tesi delle principali filosofie dogmatiche (v. Babut<br />

(2004), pp. 15-16). Lo stimolo per questo tipo di trattazione proviene plausibilmente dalla sua<br />

formazione all'interno della scuola academica, i cui metodi e il cui stile polemico sarebbero<br />

stati adottati da Plutarco nel tentativo di cimentarsi in un genere di esercizio filosofico già<br />

ampiamente consolidato (Babut (2004), p. 17). Proponendosi di rendere manifeste le<br />

contraddizioni interne alle dottrine degli stoici, Plutarco non intende certamente dar sfoggio di<br />

originalità, ma si inserisce piuttosto in una tradizione per così dire di scuola, che accusa gli<br />

stoici di non sostenere una teoria veramente coerente come invece essi si vantano di saper fare<br />

(v. DL VII, 40; Sext.Emp., Adv.math. VII, 17-19; Cic. Fin. III, 74; IV, 53; V, 83). Come notato<br />

anche da Cherniss (1976), p. 376, questo tipo di procedura critica veniva sollecitata anche<br />

dalla manualistica retorica per la conduzione dei dibattiti non soltanto filosofici; nessuna<br />

istanza filosofica veniva del resto risparmiata da questo tipo di vaglio critico, v. Sextus<br />

Empiricus, Adv.math. I, 281. Il testo contiene nel complesso un numero straordinario di<br />

citazioni di Crisippo, provenienti da almeno 29 opere diverse, 70 delle quali sono dette<br />

letterali. Escludendo quasi a priori l'ipotesi di un rapporto diretto di Plutarco con i testi di<br />

Crisippo la critica ha ritenuto in passato di dover congetturare l'uso di una fonte academica<br />

intermedia per la redazione del testo, ad esempio uno scritto di Clitomaco, oppure di un<br />

manuale più tardo contenente una collezione di citazioni di Crisippo comunemente impiegate<br />

dalla critica di scuola. Gli studi di Babut (1969), pp. 29-31, sulla forma delle citazioni<br />

crisippee di Plutarco provano invece una buona conoscenza generale del contesto da cui<br />

l'autore estrae le citazioni da cui prendono le mosse le sue critiche, per cui non risulta più<br />

possibile escludere perentoriamente una conoscenza diretta del testo di Crisippo.<br />

In risposta ai giudizi espressi inoltre su un presunto debole livello scientifico dell'opuscolo e<br />

sull'apparente capricciosità della sua composizione, Cherniss (1976), pp. 369-397, spiega<br />

come l'autore non abbia cercato di raggruppare i suoi materiali secondo un'affinità tematica o<br />

una struttura sistematica, ma sia stato guidato nella composizione del testo da considerazioni<br />

molto diverse, fondate sulle informazioni fornite dai testi di Crisippo a sua disposizione,<br />

quando non si tratta invece di implicite associazioni di idee. Nell'ambito di questa ricerca ci si<br />

limiterà a constatare che, al di là del valore filosofico delle critiche mosse a Crisippo, l'uso di<br />

citazioni dirette offre una testimonianza di grande valore non solo sulla filosofia stoica in<br />

genere, ma anche sulle modalità di riferimento ai filosofi antichi all'interno di questa<br />

tradizione. Il testo in esame in particolare, volendo rimproverare a Crisippo un uso non<br />

coerente dell'autorità degli antichi filosofi, finisce per fornire una testimonianza di come il<br />

390


nome di Polemone (e dei suoi consociati) potesse comparire all'interno di un testo di Crisippo.<br />

Commento<br />

A)<br />

– καὶ ἀπὸ τούτων ἄχρι Πολέμωνος καὶ Στράτωνος: Crisippo sembra<br />

aver fatto riferimento all'importanza della dialettica all'interno dell'Academia e del<br />

Peripato fino ad una certa data. I nomi di Polemone e Stratone hanno infatti la<br />

funzione di delimitare temporalmente la pratica a cui Crisippo allude. Il riferimento<br />

di Crisippo, nella misura in cui include Platone e Socrate, si rivolge probabilmente<br />

più a delle pratiche argomentative che a dei trattati specifici sull'arte dialettica degli<br />

autori menzionati. In generale la delimitazione temporale della pratica della dialettica<br />

sembra voler differenziare due fasi all'interno della storia delle due scuole, soltanto la<br />

prima delle quali risulta oggetto di interesse e iperbolica ammirazione da parte del<br />

filosofo stoico. Per quanto riguarda la storia dell'Academia è evidente che l'intento è<br />

quello di escludere le pratiche argomentative di Arcesilao dal 'genuino' dominio della<br />

dialettica praticata all'interno della scuola di Platone; mentre per quanto riguarda il<br />

Peripato non è chiaro perché gli stoici avessero interesse a delegittimare le pratiche<br />

argomentative impiegate dai Peripatetici dopo Stratone.<br />

Il nome di Stratone 624 , sucessore di Teofrasto, il quale divenne la guida della scuola<br />

peripatetica tra il 288 e il 285 a.C., viene associato prevalentemente all'indagine<br />

fisica, ma ciò non esclude che si sia occupato di logica e di teoria della conoscenza.<br />

La lista dei titoli delle sue opere riportata da Diogene Laerzio lascia pensare al<br />

contrario che non si sia astenuto da nessuno dei tre ambiti di ricerca filosofica<br />

tradizionali, v. DL V, 59-60; cfr. Capelle (1931), col. 282; L'uso della proposizione<br />

"fino a ...", può essere dunque inteso in senso inclusivo, per cui, se secondo Crisippo<br />

vi è stato un cambiamento nel rapporto intrattenuto dai peripatetici con la dialettica,<br />

questo sarebbe verosimilmente da collocarsi dopo Stratone.<br />

624 v. F. Wehrli (ed.), Die Schule des Aristoteles, Heft V : Straton von Lampsakos, Basel / Stuttgart 1969; M.<br />

Desclos, W.W. Fortenbaugh (eds.), Strato of Lampsacus, Text, Translation, and Discussion, Rutgers<br />

University Studies in Classical Humanities, Volume XVI, Transaction Publishers, New Brunswick / London<br />

2011.<br />

391


B)<br />

La menzione di Polemone è sembrata invece alla critica più problematica (v.<br />

Baldassari (1976), p. 95, n. 65; Babut (2004), pp. 228-229), da una parte perché egli<br />

è noto per aver criticato l'indagine dialettica fine a se stessa (v. Il bios di Polemone,<br />

pp. 82-83), dall'altra perché la tradizione dialettica academica certamente non sembra<br />

interrompersi con la fine del suo scolarcato.<br />

– περὶ δ' ἀρχῆς καὶ τέλους καὶ θεῶν καὶ δικαιοσύνης: Plutarco ritiene che<br />

se Crisippo si vuole avvalere dell'autorità degli antichi filosofi in ambito dialettico,<br />

allora deve rinunciare alla sua attitudine critica nei confronti di questi ultimi negli<br />

altri ambiti, in particolare a proposito del principio, dei fini della vita dell'uomo,<br />

degli dèi, della giustizia. Alla contraddittorietà delle accuse di Crisippo contro<br />

Platone e Aristotele sul tema della giustizia, Plutarco ha già dedicato i cap. XV-XVI<br />

dell'opuscolo, v. Stoic.Rep. 1040-1041.<br />

Il passo in oggetto testimonia che Crisippo si sarebbe avvalso dell'autorità di Platone,<br />

Aristotele e dei loro successori fino a Polemone e Stratone, per difendere lo statuto della<br />

dialettica da degli avversari che verosimilmente ne negavano l'utilità. Nel contesto filosofico a<br />

cui Crisippo appartiene rilevanti critiche alla disciplina logica erano state mosse all'interno<br />

della stessa scuola stoica da Aristone di Chio, v. DL VI, 103 = SVF I, 354; DL VII, 160 =<br />

SVF I, 351; Sext.Emp., Adv.Math VII, 12= SVF I, 356 625 . In particolare la menzione di<br />

Socrate risulterebbe funzionale ad una critica delle posizioni di Aristone, considerando<br />

l'ispirazione socratica della posizione etica assunta dal filosofo stoico dissidente. Il ricorso<br />

all'autorità di Platone e Aristotele non sembra del resto ricoprire una posizione di grande<br />

rilievo nell'argomentazione crisippea se figura solo nel III libro e la contraddizione di cui<br />

parla Plutarco è evidentemente molto poco profonda. Di maggiore interesse è invece notare<br />

che: 1) il riferimento stoico all'uso platonico e aristotelico della dialettica sembra<br />

effettivamente legittimato da una comune impostazione euristica, per cui la definizione stoica<br />

della dialettica come "scienza del discutere rettamente su argomenti per domanda e risposta"<br />

si accorda non solo con il dialeghesthai socratico, ma anche con le definizioni più tecniche<br />

fornite da Aristotele; v. Arist. Top. VIII, 14, 163 b 9-12: "[la trattazione] è infine utile alle<br />

625 v. Ioppolo (1980), pp. 33-38; pp. 63-69; Babut (2004), p. 230.<br />

392


scienze filosofiche, perché, se saremo capaci di sviluppare le aporie in entrambe le direzioni,<br />

scorgeremo più facilmente il vero e il falso"; cfr. Plato, Parm. 135 c -136 c 626 ; 2) che già la<br />

tradizione stoica sembrerebbe aver distinto due fasi all'interno della storia dell'Academia e del<br />

Peripato. Le figure di Polemone e di Stratone vengono infatti impiegate come spartiacque tra<br />

due diverse attitudini filosofiche rispetto alla dialettica, e forse più in generale rispetto alla<br />

ricerca del vero e del falso. La prima attitudine è quella condivisa dallo stoicismo e pone alla<br />

sua origine Socrate, Platone e Aristotele; la seconda invece viene implicitamente delegittimata<br />

e coincide verosimilmente con l'approccio 'scettico' inaugurato da Arcesilao. Non vi sono<br />

tuttavia indizi nella tradizione che il Peripato vivesse un uguale cambiamento nel suo<br />

orientamente epistemologico e si è portati a pensare che la cesura posta da Crisippo con<br />

Stratone derivi da un certa velleità di coltivare uno stretto parallelismo tra le due tradizioni. In<br />

entrambi i casi infatti, dal punto di vista già di Crisippo, i filosofi appartenenti ad una fase<br />

antica della storia delle due scuole sembrerebbero aver conservato un potenziale filosofico<br />

autoritativo, mentre gli esponenti a lui contemporanei figurano invece come gli avversari<br />

dello stoicismo in un contesto altamente polemico.<br />

Il passo suggerisce in ultima istanza che alcuni degli elementi costitutivi della storiografia<br />

ermeneutica di Antioco d'Ascalona sulla storia dell'Academia e del Peripato erano già<br />

rintracciabili nelle modalità stoiche di riferimento alla tradizione filosofica precedente e<br />

contemporanea.<br />

T. 58 : CLEMENS ALEXANDRINUS, STROMATA II, 22, 133, 4-7, P. 186 STÄHLIN.<br />

Σπεύσιππός τε ὁ Πλάτωνος ἀδελφιδοῦς τὴν εὐδαιμονίαν φησὶν ἕξιν εἶναι τελείαν ἐν<br />

τοῖς κατὰ φύσιν ἔχουσιν ἢ ἕξιν ἀγαθῶν, ἧς δὴ καταστάσεως ἅπαντας μὲν<br />

ἀνθρώπους ὄρεξιν ἔχειν, στοχάζεσθαι δὲ τοὺς ἀγαθοὺς τῆς ἀοχλησίας. εἶεν δ' ἂν αἱ<br />

ἀρεταὶ τῆς εὐδαιμονίας ἀπεργαστικαί. Ξενοκράτης τε ὁ Καλχηδόνιος τὴν<br />

εὐδαιμονίαν ἀποδίδωσι κτῆσιν τῆς οἰκείας ἀρετῆς καὶ τῆς ὑπηρετικῆς αὐτῇ<br />

δυνάμεως. εἶτα ὡς μὲν ἐν ᾧ γίνεται, φαίνεται λέγων τὴν ψυχήν· ὡς δ' ὑφ' ὧν, τὰς<br />

ἀρετάς· ὡς δ' ἐξ ὧν ὡς μερῶν, τὰς καλὰς πράξεις καὶ τὰς σπουδαίας ἕξεις τε καὶ<br />

διαθέσεις καὶ κινήσεις καὶ σχέσεις· ὡς δ' ὧν οὐκ ἄνευ, τὰ σωματικὰ καὶ τὰ ἐκτός. ὁ<br />

626 v. LS (1987) I, pp. 189-190. Babut (2004), p. 232.<br />

393


γὰρ Ξενοκράτους γνώριμος Πολέμων φαίνεται τὴν εὐδαιμονίαν αὐτάρκειαν εἶναι<br />

βουλόμενος ἀγαθῶν πάντων, ἢ τῶν πλείστων καὶ μεγίστων. δογματίζει γοῦν χωρὶς<br />

μὲν ἀρετῆς μηδέποτε ἂν εὐδαιμονίαν ὑπάρχειν, δίχα δὲ καὶ τῶν σωματικῶν καὶ τῶν<br />

ἐκτὸς τὴν ἀρετὴν αὐτάρκη πρὸς εὐδαιμονίαν εἶναι.<br />

Polemo fr. 123 Gigante; Speusippus T. 101 IP; Speusippus F. 77 Tarán; Xenocrates T. 232 IP;<br />

Traduzione<br />

Speusippo, il nipote di Platone, dice che la felicità è una disposizione perfetta nelle cose<br />

che si hanno in accordo con la natura, oppure una disposizione relativa ai beni, per il cui<br />

consolidamento tutti gli uomini nutrono un desiderio, mentre invece le persone virtuose<br />

hanno come obiettivo l'assenza di affanni. Le virtù sarebbero inoltre produttrici della<br />

felicità. Senocrate di Calcedone definisce la felicità come il possesso della virtù<br />

appropriata e della capacità di esercitarla. Poi a proposito di ciò in cui avviene, pare<br />

dicesse l'anima; a proposito di ciò per mezzo del quale avviene, le virtù; a proposito di<br />

ciò a partire dal quale, ovvero le sue parti, le azioni virtuose e le disposizioni, condizioni,<br />

movimenti e attitudini giuste; a proposito di ciò senza il quale, i beni del corpo ed<br />

esterni. Il discepolo di Senocrate, Polemone, infatti, pare abbia voluto che la vita felice<br />

fosse l'autarchia di tutti i beni, o della maggior parte e dei più grandi. Riteneva<br />

quantomeno che la felicità non potesse sussistere in alcun modo separatamente rispetto<br />

alla virtù, ma che la virtù fosse capace di provvedere da sè alla felicità diversamente sia<br />

dai beni del corpo sia dai beni esterni.<br />

Contesto<br />

Il passo in oggetto segue nel testo di Clemente d'Alessandria l'esposizione del t loj secondo<br />

Platone, che a sua volta fa parte di una più ampia discussione dossografica, che comprende<br />

anche il precendente capitolo 21 del II libro degli Stromata. Inaugurata dalla presentazione<br />

polemica della posizione di Epicuro, la dossografia presentata da Clemente si occupa in primo<br />

luogo della cosiddetta tradizione edonista di epicurei e cirenaici, a cui vengono affiancati<br />

anche Dinomaco, Callifonte, Ieronimo e Diodoro. Segue un riferimento alla tradizione che fa<br />

capo ad Aristotele, per la quale il fine della vita umana sarebbe tÕ zÁn kat' ¢ret»n, senza<br />

394


che però il possesso della virtù venga presentato come telikÕn ¢gaqÕn. Nella presentazione<br />

della tradizione edonista invece il testo ricorreva in modo chiaro ad uno schema lineare per<br />

cui a tÕ ¹dšwj zÁn come t loj, corrisponde l' ¹don», sia come prîton o ke on, sia<br />

come telikÕn ¢gaqÕn. La linearità di questo schema non si applica invece alla posizione di<br />

coloro che fanno capo ad Aristotele per via delle condizioni esterne di cui l' eÙdaimon a<br />

peripatetica necessita per realizzarsi. Viene infatti menzionato innanzitutto il tempo, come<br />

condizione imprescindibile (δεῖ γὰρ καὶ χρόνου τινὸς τῇ ἀρετῇ), e in secondo luogo<br />

anche i tre generi di beni (συμπληροῦσθαι τοίνυν τὴν εὐδαιμονίαν ἐκ τῆς τριγενείας<br />

τῶν ἀγαθῶν). In seguito Clemente passa a parlare del t loj secondo gli stoici, rivelando<br />

tutta la frammentazione interna della scuola su questo punto. È chiaro che la varietà delle<br />

formule corrisponde a una varietà di prospettive, alcune delle quali possono essere considerate<br />

in fondo equivalenti; altre invece si pongono in aperto contrasto con alcune delle linee<br />

interpretative della scuola (v. e.g. πρὸς τούτοις ἔτι Παναίτιος). La carrellata sulla scuola<br />

stoica si conclude con la menzione degli 'stoici recenti' (τινὲς δὲ τῶν νεωτέρων Στωϊκῶν)<br />

e dei discepoli dissidenti Aristone ed Erillo, per cui risulta infine evidente l'applicazione in<br />

questo testo dello schema della diafwn a filosofica. Si noterà allora che l'insistenza sulla<br />

varietà delle opinioni filosofiche arriva a menzionare una formula del t loj anche per<br />

l'Academia scettica (τοὺς γὰρ ἐκ τῆς Ἀκαδημίας νεωτέρους ἀξιοῦσί τινες τέλος<br />

ἀποδιδόναι τὴν ἀσφαλῆ πρὸς τὰς φαντασίας ἐποχήν), con un evidente confusione tra<br />

piano dell'etica e piano dell'epistemologia, come anche per i due filosofi peripatetici Licone e<br />

Critolao, tenuti separati dalla tradizione che fa capo ad Aristotele, precedentemente<br />

menzionata, come se si trattasse, ancora una volta, di discepoli dissidenti (v. la storia della<br />

degenerazione del Peripato in Fin. V, 13-14, v. T. 50). Prima di arrivare alla sezione dedicata a<br />

Platone, l'autore ritiene necessario esplorare anche le dottrine degli antichi filosofi della<br />

natura.<br />

In linea generale si noterà che ogni sezione di questa esposizione dossografica ha un proprio<br />

stile distintivo. In particolare l'uso della citazione letterale nella sezione su Platone è senza<br />

precedenti nelle altre sezioni. Risulta chiaro che l'autore è interessato a porre la dottrina di<br />

Platone a confronto con la dottrina cristiana e la citazione rende più agevole questo compito.<br />

È anche vero che ai fini dell'interpretazione del pensiero di un filosofo come Platone, il cui<br />

testo è storicamente recalcitrante rispetto a riduzioni dottrinali univoche, e del resto soggetto<br />

nell'Antichità ad interpretazioni di diverso segno, l'uso della citazione diventa uno strumento<br />

obbligato, affinché un'opinione particolare gli possa essere attribuita in modo plausibile. Nel<br />

complesso tutta la sezione dossografica rivela indizi di un approccio piuttosto avanzato alla<br />

395


storiografia dialettica. L'approccio diafonico enfatizzato dalle strategie argomentative della<br />

scuola scettica viene qui rifunzionalizzato da una prospettiva favorevole ad un interpretazione<br />

dogmatica di Platone, che pratica l'uso della citazione come base dell'interpretazione proposta<br />

e reputa di un certo valore l'apporto dello stoicismo (delle origini) all'interpretazione del<br />

platonismo, v. il riferimento all'interpretazione di Cleante della virtù socratica (διὸ καὶ<br />

Κλεάνθης ἐν τῷ δευτέρῳ Περὶ ἡδονῆς τὸν Σωκράτην φησὶ παρ' ἕκαστα διδάσκειν<br />

ὡς ὁ αὐτὸς δίκαιός τε καὶ εὐδαίμων ἀνὴρ). Manca del resto una qualunque uniformità di<br />

stile tra le varie sezioni di cui il testo è composto: la ricchezza d'informazioni che<br />

generalmente contiene sembrerebbe dunque essere l'effetto di uno scarso intervento<br />

dell'autore sulle diverse fonti da cui attinge.<br />

Commento<br />

A)<br />

– τὴν εὐδαιμονίαν φησὶν ἕξιν εἶναι τελείαν ἐν τοῖς κατὰ φύσιν<br />

ἔχουσιν ἢ ἕξιν ἀγαθῶν:<br />

ἕξιν : in contrasto con quanto Aristotele argomenta nelle Etiche (EN 1098 b 33; EE<br />

1218 b), Speusippo definisce la felicità come una disposizione stabile e non come<br />

un'attività (e)ne/rgeia). Sembrerebbe allora che nel caso in cui si consideri la felicità<br />

una e(/cij, 'esser felici' ha il valore di un attributo conquistato dal soggetto, mentre nel<br />

caso in cui, come Aristotele, si consideri la felicità come e)ne/rgeia, 'esser felici'<br />

esprime un'azione contestuale che manifesta attivamente le disposizioni<br />

precedentemente acquisite. La differenza fondamentale tra le due concezioni sta nella<br />

diversa stabilità temporale della disposizione acquisita rispetto a quella di un'azione<br />

che si consuma necessariamente in un lasso di tempo determinato.<br />

v. Plato, Prot. 344 b 8 – c 1; Rep. 435 b 4-7; 508 a 4-5; 618 c 8 – d 1; Phileb. 11 d 4-<br />

6.<br />

si noti che l'uso di e(/cij con la preposizione di stato in luogo e) /n non compare nella<br />

letteratura filosofica superstite del periodo classico e pre-ellenistico (v. Arist. EN<br />

396


1109 b 24 : h( me/sh e(/cij e/)n pa=sin e)paineth/, dove e) /n pa=sin è complemento del<br />

verbo), mentre invece appare abbondantemente nelle definizioni standard dei<br />

concetti filosofici del periodo successivo: 2 occorrenze nelle Definitiones pseudo-<br />

platoniche (411 e 4: Δικαιοσύνη (...) ἕξις ἐν βίῳ νόμου ὑπήκοος ; 413 c 6:<br />

Ἀλήθεια ἕξις ἐν καταφάσει καὶ ἀποφάσει); 4 occorrenze nel De passionibus di<br />

Andronico di Rodi: 1, 1: Ἀρετή ἐστιν ἕξις ἐν μεσότητι θεωρουμένη κατ'<br />

ὀρθὸν λόγον· καὶ ὡς δεῖ οἰκονομουμένη; Ivi: ἠθικὴ ἀρετή ἐστιν ἕξις ἐν<br />

μεσότητι οὖσα παθῶν τε καὶ πράξεων ὡρισμένη τῷ ὀρθῷ λόγῳ; 7, 2:<br />

μὲν οὖν ἐστιν ἕξις ἐν προέσει καὶ λήψει ὁμολογουμένως<br />

ἀναστρεφομένους παρεχομένη; ivi: δὲ ἕξις ἐν<br />

συναλλαγαῖς φυλάττουσα τὸ δίκαιον; etc. v. Sext.Emp., Adv.Math. IX, 174;<br />

Stobaeus, Anth. III, 1, 114, p. 64 Wachsmuth.<br />

τελείαν : v. Arist. EN 1097 a 27 – b1. La completezza è uno dei criteri posti da<br />

Aristotele per l'esame delle diverse concezioni dell' eu)daimoni/a. Dopo aver<br />

riscontrato il disaccordo generale sul contenuto del concetto di eu)daimoni/a,<br />

Aristotele procede all'approfondimento dell'analisi formale del concetto,<br />

desumendone il principio di completezza e il principio di autarchia (v. oltre).<br />

ἐν τοῖς κατὰ φύσιν : la riflessione etica di Speusippo sembrerebbe aver insistito<br />

sul rapporto tra il bene e la natura: v. Arist. Metaph. 1072 b 30 – 1073 a 3 =<br />

Speusippus F. 53 IP; Speusippus F. 42a Tarán, dove a Speusippo e ai pitagorici viene<br />

attribuito il principio secondo cui τὸ κάλλιστον καὶ ἄριστον non sia da ricercarsi<br />

ἐν ἀρχῇ, ma in ciò che ne deriva, sostenuto sulla base del fatto che nei fenomeni<br />

naturali, negli animali e nelle piante, a ἀρχa sono la causa, ma τὸ καλὸν καὶ<br />

τέλειον si rivela in ciò che poi deriva dai principi (cfr. F. 54-59 IP; F. 44 Tarán).<br />

Sulla base di queste testimonianze, dove i fenomeni naturali in realtà forniscono solo<br />

un riscontro empirico a principi di tipo metafisico, la critica insiste sulla plausibilità<br />

del fatto che Speusippo abbia impiegato il concetto di ta£ kata£ fu/sin, come punto<br />

focale del discorso etico, prima ancora di Polemone, prima ancora degli Stoici.<br />

Inoltre la menzione dei beni nella seconda versione della formula di Speusippo (ἢ<br />

ἕξιν ἀγαθῶν), induce a pensare che la categoria ta£ kata£ fu/sin coincida con<br />

quella dei beni, il cui valore viene allora determinato da una dinamica di<br />

397


corrispondenza rispetto all'ordine della natura. Supponendo all'interno dell'Academia<br />

un principio di fedeltà nei confronti degli insegnamenti del maestro, si noterà che<br />

questo tipo di prospettiva non è incompatibile con il pensiero espresso da Platone; in<br />

particolare potrebbe voler riflettere il punto di vista del Timeo, per cui l'ordine con<br />

cui è stato fabbricato il cosmo è il migliore e il più bello: v. (30 b 4-7) "διὰ δὴ τὸν<br />

λογισμὸν τόνδε νοῦν μὲν ἐν ψυχῇ, ψυχὴν δ' ἐν σώματι συνιστὰς τὸ πᾶν<br />

συνετεκταίνετο, ὅπως ὅτι κάλλιστον εἴη κατὰ φύσιν ἄριστόν τε ἔργον<br />

ἀπειργασμένος" et passim ; oppure quanto si legge nel testo delle Leggi I, 631 ; V,<br />

728.<br />

– καταστάσεως ἅπαντας μὲν ἀνθρώπους ὄρεξιν ἔχειν: dire che tutti gli<br />

uomini desiderano il consolidamento della disposizione che li rende felici, equivale<br />

sostanzialmente a dire lapalissianamente che tutti gli uomini desiderano esser felici,<br />

inserendovi però allo stesso tempo due riferimenti concettuali che contestualizzano<br />

ulteriormente la posizione di Speusippo.<br />

kata/stasij : rafforza il concetto di e(/cij, situando la posizione di Speusippo<br />

decisamente al versante opposto rispetto a quella di Aristotele. Gli uomini desiderano<br />

un possesso stabile, non un'attività legata al corso del tempo.<br />

o) /recij : è il termine indentificativo dell'etica aristotelica. Assente in Platone (per<br />

quanto figuri nelle Definitiones pseudo-platoniche, 413 c 8 : Βούλησις ἔφεσις<br />

μετὰ λόγου ὀρθοῦ· ὄρεξις εὔλογος· ὄρεξις μετὰ λόγου κατὰ φύσιν; 414 b 7 :<br />

Φιλοσοφία τῆς τῶν ὄντων ἀεὶ ἐπιστήμης ὄρεξις), identifica nelle etiche<br />

aristoteliche il fattore desiderativo che sta alla base di ogni azione, v. e.g. EE 1223 a<br />

26-27; EN 1139 a 18; 1139 a 22 ss.<br />

– στοχάζεσθαι δὲ τοὺς ἀγαθοὺς τῆς ἀοχλησίας: in contrapposizione<br />

rispetto alla ὄρεξις di tutti gli uomini, viene menzionato l'obiettivo dell'agire di<br />

un'èlite di oi( a)gaqoi£. L'uomo diventato ormai virtuoso non si preoccupa più della sua<br />

disposizione stabile rispetto ai beni, ma mira all' ἀοχλησία (alpha privativo +<br />

o)/xlhsij, disturbo, fastidio, preoccupazione = la mancanza di ogni disturbo). Questa<br />

è l'unica testimonianza in cui Speusippo viene associato al concetto di ἀοχλησία,<br />

tuttavia altre testimonianze (v. Arist. EN 1153 b 1-7; 1173 a 5-28; Aulus Gellius,<br />

398


Noct.Att. IX, 5, 4) suggeriscono che egli riteneva fondamentale evitare sia il piacere<br />

sia il dolore come se fossero dei mali; dalla rimozione di piaceri e dolori, Speusippo<br />

poteva dunque pensare che derivasse uno stato neutrale di 'liberazione da ogni<br />

fastidio' coincidente con il bene, cfr. Tarán (1981), pp. 79; 435-436.<br />

Il termine è invece ben attestato all'interno della tradizione dell'edonismo epicureo e<br />

non solo epicureo: o)/xlhsij : è un termine chiave nella tradizione cirenaica, v. DL<br />

II, 90; DL II, 96; nella tradizione epicurea, v. DL X, 23; DL X 141; Plut., Adv.colot.<br />

1127 d 8;<br />

ἀ-οχλησία : DL II, 87: "τὴν καταστηματικὴν ἡδονὴν τὴν ἐπ' ἀναιρέσει<br />

ἀλγηδόνων καὶ οἷον ἀοχλησίαν, ἣν ὁ Ἐπίκουρος ἀποδέχεται καὶ τέλος<br />

εἶναί φησιν" (come esplicitazione della formula del fine di Epicuro; sinonimo di<br />

piacere katastematico); DL X, 127 = Epicurus, Ep. ad Menec. 123 (Arrighetti);<br />

Clem. Alex., Str. II, 23, 138, p. 189 Stählin (rif. a Epicuro);<br />

nelle discussioni dossografiche del periodo ellenistico è una delle esplicitazioni del<br />

te/loj (o dell' a)gaqo/n) convenzionalmente considerate: v. Galenus, De animi<br />

cuiuslibet peccatorum dignotione et curatione, ed. Kühn vol. 5, p. 61; Galenus, De<br />

placitiis Hipp.et Plat. V, 6, 11: "ὅμοιον αὐτῷ ποιοῦντες τῷ σκοπὸν ἐκτίθεσθαι<br />

τὴν ἡδονὴν ἢ τὴν ἀοχλησίαν ἢ ἄλλο τι τοιοῦτον"; Dox. A apud Stobaeus, Ecl.<br />

II, 7, 3c, p. 47 Wachsmuth: "Γενόμενον γὰρ τὸ ζῷον ᾠκειώθη τινὶ πάντως<br />

εὐθὺς ἐξ ἀρχῆς, ὅπερ ἐστὶν ὑποτελές, κεῖται δ' ἔν τινι τῶν τριῶν· ἢ γὰρ ἐν<br />

ἡδονῇ, ἢ ἐν ἀοχλησίᾳ, ἢ ἐν τοῖς πρώτοις κατὰ φύσιν";<br />

nella traduzione ciceroniana 'vacare omni molestia' o 'vacuitas doloris', v. T. 40 =<br />

Luc. 138-139; Fin. II, 16; Fin. II, 19; Fin. II, 37; Fin. III, 2; Fin. III, 30; Fin. V, 73;<br />

associata al filosofo peripatetico Ieronimo di Rodi, v. Stobaues, Ecl. I, 49, 42, p. 383<br />

Wachsmuth; Clemens, Str. II, 21, 127, 3, p. 182 Stählin; Cic., Fin. II, 16; Fin. II, 35;<br />

cfr. Fin. V, 73; Tusc. V, 84;<br />

ai megarici, v. Alex. Aphrod., De anima libri mantissa, p. 135 (Sharples ed.): "τοῖς<br />

δὲ περὶ Ἐπίκουρον ἡδονὴ τὸ πρῶτον οἰκεῖον ἔδοξεν εἶναι ἁπλῶς,<br />

προϊόντων δὲ διαρθροῦσθαι ταύτην τὴν ἡδονήν φασιν, τοῖς δὲ ἀοχλησία,<br />

ὥσπερ τοῖς Μεγαρικοῖς, τοῖς δὲ Ἀκαδημαϊκοῖς ἡ ἀπροσπτωσία";<br />

399


annoverato nel rango dei beni : v. Dox. C apud Stobaeus, Ecl. II, 7, 19, p. 137<br />

Wachsmuth : "Ἔτι τῶν ἀγαθῶν τὰ μὲν εἶναι μόνον, ὡς<br />

ἡδονὴν καὶ ἀοχλησίαν· τὰ δὲ μόνον, ὡς πλοῦτον· τὰ δὲ <br />

ὡς ἀρετήν, φίλους, ὑγίειαν"; Fin. IV, 20; (del<br />

corpo) Fin. IV, 35-36: "si nihil nisi corpus, summa erunt illa, valetudo, vacuitas<br />

doloris, pulchritudo, cetera"; (prima secundum naturam) Fin. V, 18;<br />

il termine ha uno spettro semantico che lo pone in relazione all' ἡδονὴ, al corpo e<br />

solo in senso traslato all'anima, v. SE, PH I, 10: "ἀταραξία δέ ἐστι ψυχῆς<br />

ἀοχλησία καὶ γαληνότης".<br />

a)oxlhsi/a ≈ ἡδονὴ : i due concetti vengono considerati pressoché equivalenti dalle<br />

strategie d'origine stoica di confutazione dell'edonismo: v. Fin. II, 16: "cur malvult<br />

dicere voluptatem quam vacuitatem doloris"; Fin. II, 37; Fin. V, 21: "quae contra<br />

voluptatem dicta sunt, eadem fere cadunt contra vacuitatem doloris";<br />

L'assoluta mancanza di altre attestazioni dell'uso del concetto di a)oxlhsi/a da parte<br />

di Speusippo, unita alla constatazione che invece la sua presenza è consolidata<br />

all'interno di una tradizione che con il filosofo academico ha generalmente ben poco<br />

a che spartire, permette di dubitare dell'affidabilità storica della notizia riportata da<br />

Clemente di Alessandria.<br />

Della riflessione etica di Speusippo conosciamo invece con qualche dettaglio la<br />

discussione intorno al suo rifiuto di annoverare l'ἡδονὴ tra i beni, in polemica con<br />

l'edonismo di Aristippo e con quello di Eudosso, di cui rimangono alcune traccie<br />

forse nel Filebo di Platone (44 b-d) 627 e nel riassunto polemico che ne fa Aristotele<br />

nell'Etica Nicomachea. Speusippo contestava la validità della dimostrazione ex<br />

contrariis di Eudosso che il piacere deve essere (un/il) 'bene' essendo il contrario del<br />

dolore che è (un/il) male (v. EN 1153 b 1-7; 1173 a 5-28), proponendo invece la tesi<br />

che il bene è doppiamente diverso sia dal piacere, sia del dolore; il bene si trova<br />

verosimilmente in una posizione intermedia tra i due opposti (to£ mei=zon). Il termine<br />

627 Vexata quaestio: Döring (1903), pp. 113-129; Philippson (1925); pp.452-474; Krämer (1971), pp. 205-209;<br />

Schofield (1971), pp. 2-20; 181; vs Tarán (1981), pp. 79-81, n. 379, n. 382; cfr. Isnardi Parente (1980), pp.<br />

354-360.<br />

400


che per Speusippo indentificava l'aver raggiunto saldamente questo stato di perfetta<br />

neutralità rispetto ai fastidi degli h)donai£ kai£ lu/pai poteva facilmente essere<br />

un'estensione con l'alpha privativa di un termine 'negativo' per veicolare un concetto<br />

'positivo', vista la presunta proliferazione di questi termini all'interno<br />

dell'Academia 628 , ma rimane ancora poco probabile che sia stato proprio a)oxlhsi/a,<br />

1) sia per il suo rapporto semantico con la corporeità (si vedano le numerosissime<br />

occorrenze di o)/xlhsij nella letteratura medica), per cui ne conseguirebbe che l'élite<br />

di virtuosi pensata da Speusippo aspirerebbe alla rimozione del disturbo causato da<br />

ogni piacere e da ogni dolore, così come si aspira alla rimozione di un disturbo fisico,<br />

2) sia per la facilità con la quale la tradizione edonista se ne è poi appropriato. È<br />

forse più plausibile invece che il termine o i termini originariamente impiegati da<br />

Speusippo 629 siano stati poi sostituiti, in ragione di una tendenza uniformatrice della<br />

dossografia, con un vocabolo all'epoca forse semplicemente meno desueto ed<br />

associato a quelle posizioni filosofiche che storicamente si sono sviluppate in<br />

alternativa o in un rapporto dialettico rispetto all'edonismo.<br />

– εἶεν δ' ἂν αἱ ἀρεταὶ τῆς εὐδαιμονίας ἀπεργαστικαί:<br />

εἶεν : l'uso dell'ottativo segna un cambio nel modo verbale che potrebbe indicare<br />

l'intervento del dossografo, Clemente o la sua fonte; v. Tarán (1981), p. 436, n. 261.<br />

αἱ ἀρεταὶ ...ἀπεργαστικαί: cfr. Dox. C ap. Stobaeus, Anth. II, 7, 18, p. 132<br />

Wachsmuth: Αἴτιον δ' ὅτι ἡ μὲν ἀρετὴ καλῶν μόνον ἐστὶν ἀπεργαστικὴ καθ'<br />

ἑαυτήν, ἡ δ' εὐδαιμονία καὶ καλῶν κἀγαθῶν;<br />

– τὴν εὐδαιμονίαν ἀποδίδωσι κτῆσιν τῆς οἰκείας ἀρετῆς καὶ τῆς<br />

ὑπηρετικῆς αὐτῇ δυνάμεως: la formula di Senocrate, come quella di Speusippo,<br />

presenta elementi di dialogo e scontro con le posizioni sostenute da Aristotele. La<br />

scelta di definire la felicità come un 'possesso' (kth=sij) esplicita il contrasto tra la<br />

628 v. Tarán (1981), p. 84, a partire da Cherniss (1944), vol. I, p. 268, n. 176: "the extension of negative terms in<br />

the Academy of Aristotle's time, however, is illustrated by the fact that some Platonists, among them<br />

Speusippus, treated diaireto/n as a negation equivalent to a)o/riston". Non sono sicura però di quale relazione<br />

dovrebbe sussistere tra a)o/riston e a)oxlhsi/a, visto che il primo termine è un attributo negativo dell'h)donh/ e il<br />

secondo è una presunta esplicitazione sostantiva del fine, forse nessuna.<br />

629 Nel contesto della sintesi aristotelica della posizione di Speusippo, non viene menzionato nessun concetto in<br />

particolare come risultante della precauzione del saggio rispetto a piaceri e dolori, troviamo però to£ a)/lupon<br />

in opposizione a to£ h(du/ in EN 1152 b 15-16; to£ mhde/teron come alternativa perfettamente neutrale rispetto a<br />

lu/ph e h(donh/ in EN 1173 a 8.<br />

401


posizione academica e la concezione aristotelica della felicità come e)ne/rgeia. Allo<br />

stesso tempo, il riferimento alla capacità di fare uso della virtù di cui si è in possesso,<br />

come controparte necessaria della definizione, intende rispondere alle obiezioni<br />

presentate da Aristotele alla concezione dell'εὐδαιμονία come e(/cij. L'argomento più<br />

famoso di Aristotele chiama in causa il personaggio di Endimione (EN 1078 b 20 ss;<br />

1099 a 1), il cui sonno di eterna giovinezza impedirebbe alle virtù da lui<br />

eventualmente possedute di manifestarsi e alla sua felicità di potersi definire tale. Se<br />

ne deduce che è possibile che vi sia una e( /cij senza che nulla di buono ne consegua<br />

(v. EN 1098 b 32 – 1099 a 2: διαφέρει δὲ ἴσως οὐ μικρὸν ἐν κτήσει ἢ χρήσει τὸ<br />

ἄριστον ὑπολαμβάνειν, καὶ ἐν ἕξει ἢ ἐνεργείᾳ τὴν μὲν γὰρ ἕξιν ἐνδέχεται<br />

μηδὲν ἀγαθὸν ἀποτελεῖν ὑπάρχουσαν, οἷον τῷ καθεύδοντι ἢ καὶ ἄλλως<br />

πως ἐξηργηκότι, τὴν δ' ἐνέργειαν οὐχ οἷόν τε). Senocrate allora recupera la<br />

posizione di Speusippo e la mette al riparo dal criticismo aristotelico semplicemente<br />

affiancando all'idea di un possesso stabile la capacità di esercitarla.<br />

κτῆσιν τῆς οἰκείας ἀρετῆς: le scelte lessicali della formula di Senocrate<br />

sembrano comunicare un certo sforzo, affinché risulti chiaro il dialogo oppositivo<br />

con la posizione etica di Aristotele, il concetto di o ke a ¢ret» ricorre con una certa<br />

frequenza nelle opere etiche di Aristotele, cfr. Arist. EN 1098 a 15; 1177 a 17:<br />

ἐνέργεια κατὰ τὴν οἰκείαν ἀρετὴν; MM II, 7, 28; tuttavia affiancato al termine<br />

κτῆσιν, l'espressione assume una sfumatura ossimorica, se considerata dal punto di<br />

vista aristotelico.<br />

τῆς ὑπηρετικῆς αὐτῇ δυνάμεως: la du/namij u(phretikh/ definisce vagamente<br />

un'arte dipendente dal soggetto che garantisce il corretto uso della virtù nella varietà<br />

delle situazioni con cui essa si confronta. La definizione ha come risultato quello di<br />

ridurre al minimo la dipendenza della felicità dalle circostanze contestuali,<br />

affidandola interamente alle capacità del soggetto. Cfr. "quae ad virtutis usum<br />

valerent"; "ad virtutis usum idonea" (Cic. Ac.libri I, 21-23): l'espressione viene<br />

impiegata nell'esposizione del pensiero degli 'antichi academici' da parte del<br />

personaggio di Varrone; la capacità di attivare la virtù definisce in questo contesto<br />

una categoria di beni esterni al soggetto, in linea con la concezione peripatetica dei<br />

requisiti esterni per la felicità.<br />

402


– εἶτα ὡς μὲν ἐν ᾧ γίνεται, φαίνεται λέγων τὴν ψυχήν· ὡς δ' ὑφ' ὧν,<br />

τὰς ἀρετάς· ὡς δ' ἐξ ὧν ὡς μερῶν, τὰς καλὰς πράξεις καὶ τὰς σπουδαίας<br />

ἕξεις τε καὶ διαθέσεις καὶ κινήσεις καὶ σχέσεις· ὡς δ' ὧν οὐκ ἄνευ, τὰ<br />

σωματικὰ καὶ τὰ ἐκτός: la definizione dell' eudaimonia di Senocrate viene<br />

presentata in rapporto alle categorie di (1) ἐν ᾧ – luogo – (2) ὑφ' ὧν – agente (to£<br />

poiou=n) – (3) ἐξ ὧν – materia (to£ pa/sxon) – (4) ὧν οὐκ ἄνευ – condizioni esterne.<br />

Questa particolare sequenza di categorie non ha altri paralleli noti nella letteratura<br />

filosofica, per quanto sia possibile metterla in relazione per esempio con i cinque tipi<br />

di cause che Seneca, riproponendo il noto esempio dello scultore e della statua,<br />

attribuisce a Platone (v. Ep. 65, 5-8): (3) id ex quo, (2) id a quo, (1) id in quo, id ad<br />

quod, id propter quod; oppure con le tre cause impiegate da Varrone, secondo la<br />

testimonianza di Agostino (v. De civ.Dei VII, 28) : (caelum) a quo fiat aliquid (2),<br />

(terram) de qua fiat (3), exemplum secundum quod fiat.<br />

Tuttavia l'uso della categoria (4) ὧν οὐκ ἄνευ – condizioni esterne – è piuttosto<br />

inusuale nella definizione di un concetto. Nell'epistola di Seneca sulle cause<br />

platoniche il ricorso alla categoria di "quo(cumque) remoto quid effici non potest"<br />

viene denunciata come una strategia debole di definizione dei tipi di cause, poiché,<br />

per quanto appropriata a tutti i tipi di causa precedentemente presentati, essa<br />

porterebbe alla conclusione che anche il tempo, il luogo e il moto sono cause (Ep. 65,<br />

11: "nihil sine tempore"; "si non fuerit, ubi fiat, aliquid, ne fiet quidem"; "nihil sine<br />

(motus) nec fit nec perit"). (4) ὧν οὐκ ἄνευ, stabilisce dunque secondo gli interpreti<br />

un qualche tipo di relazione non di tipo strettamente causale tra un evento e i requisiti<br />

contestuali minimi per la sua realizzazione. La categoria ta£ w(=n ou)k a)/neu figura<br />

inoltre come un tipo di causa insieme a τὰ προκαταρκτικά, τὰ συνεκτικά, e τὰ<br />

συνεργά in uno dei testi raccolti da Clemente d'Alessandria (v. Str. VIII, 9, 25) e,<br />

raggiungendo il suo punto di più alto rilievo, figura, un po' come un intruso, tra le<br />

dieci categorie aristoteliche enumerate da Filone d'Alessandria in De decalogo, 31:<br />

"τὰς γὰρ ἐν τῇ φύσει λεγομένας κατηγορίας δέκα μόνας εἶναί φασιν οἱ<br />

ἐνδιατρίβοντες τοῖς τῆς φιλοσοφίας δόγμασιν· οὐσίαν, ποιόν, ποσόν, πρός<br />

τι, ποιεῖν, πάσχειν, ἔχειν, κεῖσθαι, τὰ ὧν οὐκ ἄνευ , χρόνον καὶ<br />

τόπον".<br />

È evidente infine che il riferimento a τὰ σωματικὰ καὶ τὰ ἐκτός implica una certa<br />

familiarità con il dibattito sull'apporto dei beni esterni rispetto alla felicità, di cui<br />

403


Aristotele definisce le linee principali e che diventerà centrale nel confronto tra<br />

l'istanza etica peripatetica e quella stoica nel periodo ellenistico. In risposta alle<br />

posizioni, talvolta anche solo polemicamente, sostenute da Aristotele, Senocrate<br />

sembra aver optato per una formula che definisca nel modo più minimalista possibile<br />

il rapporto tra l'esercizio della virtù e il contesto materiale che necessariamente<br />

richiede. Krämer (1983), p. 158, in riferimento a questo passo, interpreta il rapporto<br />

posto da Senocrate tra la felicità e le cose in conformità con la natura in senso<br />

strumentale : "als Mittel 'gebraucht' werden".<br />

– φαίνεται τὴν εὐδαιμονίαν αὐτάρκειαν εἶναι βουλόμενος ἀγαθῶν<br />

πάντων:<br />

φαίνεται (...) βουλόμενος: invece dei più incisivi φησὶν e ἀποδίδωσι, con i<br />

quali vengono introdotte le formule di Speusippo e Senocrate, l'opinione di<br />

Polemone viene presentata dal dossografo, Clemente o la sua fonte, come il risultato<br />

dell'interpretazione dell'intenzione del filosofo, non come una sua diretta<br />

formulazione. L'αὐτάρκεια di tutti i beni, o almeno dei più numerosi e più<br />

importanti, gli viene allora attribuita come se si trattasse di un'interpretazione a<br />

posteriori del suo pensiero. Una tale interpretazione potrebbe essere desumibile a<br />

partire da altri elementi noti della teoria etica di Polemone, oppure potrebbe<br />

semplicemente circolare nella letteratura senza la certezza di un riscontro definitivo.<br />

Il concetto di αὐτάρκεια è un concetto chiave dell'etica nel periodo ellenistico. A<br />

partire dall'indagine di Aristotele sui requisiti formali del fine ultimo delle azioni<br />

umane, si considera che ogni candidato per il ruolo di bene ultimo abbia come<br />

attributo essenziale l'autarchia, ovvero la capacità di provvedere da solo a tutto ciò<br />

che è necessario per una vita felice: v. Arist. EN 1097 b 7-21: dove si stabilisce che il<br />

bene perfetto, ovvero la vita felice, debba essere au)/tarkej e che " au)/tarkej è ciò<br />

che, anche da solo, rende un modo di vivere degno di essere scelto, e fa sì che non gli<br />

manchi nulla (τὸ δ' αὔταρκες τίθεμεν ὃ μονούμενον αἱρετὸν ποιεῖ τὸν βίον<br />

καὶ μηδενὸς ἐνδεᾶ)".<br />

La traduzione del termine non è senza difficoltà; generalmente reso con<br />

"autosufficienza", è evidente che l'uso della radice latina 'sufficere' (sub-facere) altera<br />

leggermente il significato di aÙtÒj-¢rk w (dove ¢rk w = preservo, resisto, sono<br />

appropriato etc.), per cui diventa legittimo preferire la trasposizione del termine<br />

direttamente dal greco con il sostantivo 'autarchia' e l'aggettivo 'autarchico'.<br />

404


αὔταρκες / αὐτάρκεια sembrerebbero appartenere in primo luogo ad un lessico<br />

politico, designando di fatto un'ideale politico, per cui una comunità riesce ad essere<br />

perfettamente autonoma e a provvedere da sé a fornire alla città tutte le risorse di cui<br />

ha bisogno (v. Plato, Pol. 271 d-e; Rep. II, 369 b; ). L'autarchia è infatti lo scopo di<br />

una vita in comune in cui si concepisce il 'giusto politico' nei rapporti reciproci: v.<br />

l'uso dell'espressione πρὸς τὸ εἶναι αὐτάρκειαν in Arist. EN 1134 a 27; e la<br />

qualità del buon re che πᾶσι τοῖς ἀγαθοῖς ὑπερέχων. ὁ δὲ τοιοῦτος οὐδενὸς<br />

προσδεῖται in EN 1160 b 4.<br />

All'interno delle opere etiche di Aristotele, il termine si applica in secondo luogo<br />

anche alle scienze esatte, come Aristotele riteneva che fosse, per esempio, la<br />

grammatica, v. EN 1112 b 1, perché non dipendono da circostanze esterne per<br />

determinare i loro risultati. In ambito strettamente etico αὔταρκες / αὐτάρκεια è<br />

attributo dell'eÙdaimon a (EN 1097 b 8-20; EN 1176 b 6), prima ancora che della<br />

virtù o dell'individuo. È infatti uno dei due requisiti formali del concetto di felicità,<br />

adattato poi di conseguenza ai vari contesti particolari. Il concetto di autarchia fa<br />

coppia dal punto di vista della teoria etica con quello di καθ' αὑτÕn a retÒn, scelto<br />

di per se e non per altro. v. 1176 a 35 – b 9: εἰ δὴ ταῦτα μὴ ἀρέσκει, ἀλλὰ<br />

μᾶλλον εἰς ἐνέργειάν τινα θετέον, καθάπερ ἐν τοῖς πρότερον εἴρηται, τῶν<br />

δ' ἐνεργειῶν αἳ μέν εἰσιν ἀναγκαῖαι καὶ δι' ἕτερα αἱρεταὶ αἳ δὲ καθ' αὑτάς,<br />

δῆλον ὅτι τὴν εὐδαιμονίαν τῶν καθ' αὑτὰς αἱρετῶν τινὰ θετέον καὶ οὐ<br />

τῶν δι' ἄλλο· οὐδενὸς γὰρ ἐνδεὴς ἡ εὐδαιμονία ἀλλ' αὐτάρκης. τοιαῦται δ'<br />

εἶναι δοκοῦσιν αἱ κατ' ἀρετὴν πράξεις· τὰ γὰρ καλὰ καὶ σπουδαῖα<br />

πράττειν τῶν δι' αὑτὰ αἱρετῶν. καὶ τῶν παιδιῶν δὲ αἱ ἡδεῖαι· Nel passo citato<br />

Aristotele stabilisce che la felicità non è una disposizione stabile, ma un'attività. A<br />

questo fondamentale principio affianca il principio del καθ' αὑτÕn a retÒn. La vita<br />

felice sta in un attività scelta per se stessa e non per altro, rafforzata dal corollario<br />

dell'autarchia. La vita felice infatti è capace da sola di provvedere a tutto e non<br />

necessita di nient'altro. La relazione tra αὐτάρκης e καθ' αὑτÕn a retÒn è dunque<br />

di fondamentale importanza: poiché quando si è felici non c'è bisogno di nient'altro,<br />

l'attività della vita felice viene scelta di per se stessa e non in vista di altro.<br />

Banalmente si sceglie di esser felici, per nessun altro scopo che l'esser felici. La vita<br />

felice in questo senso è autarchica: non ha bisogno di nulla, perché non si pone uno<br />

scopo ulteriore al di fuori di se stessa.<br />

405


Nell'applicazione del concetto alla figura dell'uomo felice, Aristotele mostra come<br />

egli ritenga necessario trovare un compromesso tra l'autorefenzialità assoluta del<br />

concetto di autarchia della felicità e il reale contesto della vita biologica e naturale di<br />

un uomo, dove la relazione con l'esterno, con ciò che è altro da sé, è una condizione<br />

insormontabile. La questione appare evidente nel caso del rapporto tra l'uomo felice e<br />

gli amici: 1169 b 5 - 22: οὐθὲν γάρ φασι δεῖν φίλων τοῖς μακαρίοις καὶ<br />

αὐτάρκεσιν· ὑπάρχειν γὰρ αὐτοῖς τἀγαθά· αὐτάρκεις οὖν ὄντας οὐδενὸς<br />

προσδεῖσθαι, τὸν δὲ φίλον, ἕτερον αὐτὸν ὄντα, πορίζειν ἃ δι' αὑτοῦ<br />

ἀδυνατεῖ. (...) ἔοικε δ' ἀτόπῳ τὸ πάντ' ἀπονέμοντας τἀγαθὰ τῷ εὐδαίμονι<br />

φίλους μὴ ἀποδιδόναι, ὃ δοκεῖ τῶν ἐκτὸς ἀγαθῶν μέγιστον εἶναι. (...)<br />

ἄτοπον δ' ἴσως καὶ τὸ μονώτην ποιεῖν τὸν μακάριον· οὐδεὶς γὰρ ἕλοιτ' ἂν<br />

καθ' αὑτὸν τὰ πάντ' ἔχειν ἀγαθά· πολιτικὸν γὰρ ὁ ἄνθρωπος καὶ συζῆν<br />

πεφυκός. καὶ τῷ εὐδαίμονι δὴ τοῦθ' ὑπάρχει· τὰ γὰρ τῇ φύσει ἀγαθὰ ἔχει,<br />

δῆλον δ' ὡς μετὰ φίλων καὶ ἐπιεικῶν κρεῖττον ἢ μετ' ὀθνείων καὶ τῶν<br />

τυχόντων συνημερεύειν. δεῖ ἄρα τῷ εὐδαίμονι φίλων. Aristotele risponde alla<br />

tesi secondo la quale l'autarchia dell'uomo felice significa che non ha bisogno di<br />

nulla, nemmeno di amici. Si tratta di una questione diffusamente discussa dall'etica<br />

aristotelica (EE 1244 b 1-3; EN 1097 b 8; MM II, 15, 1-2); l'argomentazione di<br />

Aristotele ruota intorno a due obiezioni rivolte all'avversario; prima obiezione:<br />

sarebbe strano che all'uomo massimamente felice a cui si attribuiscono tutti i beni,<br />

ma non gli si attribuiscono gli amici, che vengono considerati (δοκεῖ) tra i beni<br />

esterni più grandi; seconda obiezione: sarebbe strano che l'uomo felice sia solitario,<br />

perché l'uomo è per natura politico e comunitario, il che pertiene anche all'uomo<br />

felice; possiede infatti le cose che sono buone 'rispetto alla sua natura', dunque avrà<br />

amici. L'autarchia dell'uomo felice o massimamente felice è in conclusione<br />

compatibile con tutte le cose che sono buone 'rispetto alla sua natura', in particolare<br />

con il fatto di avere amici.<br />

Ne consegue che esistono gradi diversi di autarchia secondo Aristotele. Esiste un<br />

concetto assoluto di autarchia, applicabile pienamente solo alla divinità (MM, 15, 4;<br />

MM, 15, 5) e in alternativa ad esso esiste una gradazione variabile di livelli diversi di<br />

autarchia; sembrerebbero infatti esserci per Aristotele virtù più o meno autarchiche,<br />

attività più o meno autarchiche, vite più o meno felici (EN 1179 a 31: ὁ σοφὸς<br />

406


μάλιστ' εὐδαίμων), a seconda di quanto numerosi siano i rispettivi legami di<br />

necessità con il contesto esterno. Indicativo dell'esistenza di una gerarchia e dunque<br />

di gradi diversi di autarchia è l'uso del superlativo in passaggi come: EE 1244 b 4;<br />

1244 b 11;<br />

Si veda inoltre EN 1177 a 28 – 1177 b 1: ἥ τε λεγομένη αὐτάρκεια περὶ τὴν<br />

θεωρητικὴν μάλιστ' ἂν εἴη· τῶν μὲν γὰρ πρὸς τὸ ζῆν ἀναγκαίων καὶ<br />

σοφὸς καὶ δίκαιος καὶ οἱ λοιποὶ δέονται, τοῖς δὲ τοιούτοις ἱκανῶς<br />

κεχορηγημένων ὁ μὲν δίκαιος δεῖται πρὸς οὓς δικαιοπραγήσει καὶ μεθ' ὧν,<br />

ὁμοίως δὲ καὶ ὁ σώφρων καὶ ὁ ἀνδρεῖος καὶ τῶν ἄλλων ἕκαστος, ὁ δὲ<br />

σοφὸς καὶ καθ' αὑτὸν ὢν δύναται θεωρεῖν, καὶ ὅσῳ ἂν σοφώτερος ᾖ,<br />

μᾶλλον· βέλτιον δ' ἴσως συνεργοὺς ἔχων, ἀλλ' ὅμως αὐταρκέστατος.<br />

Si stabilisce nel passo una gerarchia d'autarchia interna alle virtù: se il coraggio, la<br />

giustizia e la saggezza pratica hanno bisogno di un rapporto con l'esterno per<br />

esercitarsi e dunque diventano αὐταρκέj soltanto se ἱκανῶς κεχορηγημένων, la<br />

sapienza del pensiero puro è superiore in questo rispetto alle altre virtù e αὐταρκέj<br />

al massimo grado.<br />

Per questo motivo la vita contemplativa diventa il più accreditato candidato per<br />

rappresentare la vita felice, alla cui ricerca va tutta la discussione etica aristotelica<br />

(EN 1177 b 19-25). Se non fosse che proprio il margine di differenza che intercorre<br />

tra il concetto assoluto di autarchia e una qualunque delle sue applicazioni<br />

nell'ambito umano implica che anche l'attività più perfetta, rappresentata in questo<br />

frangente dalla vita teoretica, non è assolutamente autarchica e necessita dunque di<br />

alcune condizioni di base per realizzarsi. L'uomo necessita di buone condizioni per<br />

esercitare la sua capacità ad esser felice e la natura non provvede da sé a procurare<br />

tutto ciò che è necessario alla vita teoretica: EN 1178 b 34: Δεήσει δὲ καὶ τῆς<br />

ἐκτὸς εὐημερίας ἀνθρώπῳ ὄντι· οὐ γὰρ αὐτάρκης ἡ φύσις πρὸς τὸ<br />

θεωρεῖν, ἀλλὰ δεῖ καὶ τὸ σῶμα ὑγιαίνειν καὶ τροφὴν καὶ τὴν λοιπὴν<br />

θεραπείαν ὑπάρχειν.<br />

Aristotele argomenta inoltre che non sono necessarie molte cose per la vita del<br />

saggio; compone in ultima istanza un elogio della condizione moderata, ma ciò non<br />

toglie che venga chiaramente ribadito il principio per cui μὴ ἐνδέχεται ἄνευ τῶν<br />

ἐκτὸς ἀγαθῶν μακάριον εἶναι·<br />

407


Nel periodo ellenistico il concetto di 'autarchia' assume un tale rilievo in ambito<br />

etico, da poter essere considerato un concetto trasversale, impiegato estensivamente<br />

dalle diverse istanze filosofiche per definire la propria posizione riguardo al possesso<br />

e alla gestione dei beni: (v. la trattazione epicurea del concetto in DL X, 130; Gnom.<br />

Vat. fr. 44;).<br />

Si noterà come αὐταρκέj diventi un appellativo d'elogio del filosofo (DL II, 24; DL<br />

IV, 8; DL VI, 78; DL VII, 30) e come l'apporto filosofico del cinismo sembri aver<br />

radicalizzato la concezione dell'autarchia del saggio a discapito di ogni mediazione<br />

con il contesto della vita umana, invece tentata da Aristotele (DL II, 98; DL VI, 11).<br />

L'uso del concetto in questo passo viene definito dal genitivo plurale ἀγαθῶν<br />

πάντων. Sussiste un margine di incertezza se si tratti di un genitivo soggettivo, per<br />

cui l'autarcheia sarebbe il risultato della concomitanza di tutti i beni, o di un genitivo<br />

oggettivo, per cui l'autarcheia sarebbe di per sé attivamente capace di provvedere con<br />

tutti i beni. Due diverse concezioni della felicità ne derivano: nel primo caso la<br />

nozione di felicità viene intesa grossomodo come derivante dal possesso cumulativo<br />

di beni, nel secondo invece la felicità è quella condizione in cui si realizza una<br />

gestione delle risorse quanto più perfetta possibile. Cfr. ps. Plato, Def. 412 b 6 :<br />

" Αὐτάρκεια τελειότης κτήσεως ἀγαθῶν".<br />

– ἢ τῶν πλείστων καὶ μεγίστων: cfr. Fin. IV, 25: "quam plurima et quam<br />

maxima adipisci"; Fin. IV, 27:"vel omnia vel plurima et maxima"; Fin. IV, 60:<br />

"eadem illi bona appellant, vitam autem beatam illi eam quae constaret ex iis rebus<br />

quas dixi, aut omnibus aut plurimis aut gravissimis". L'espressione greca sembra<br />

avere un perfetto corrispettivo latino, più volte ricorrente nel libro IV del De finibus,<br />

laddove, facendo generalmente riferimento agli 'antichi filosofi', si definisce un<br />

approccio alternativo a quello stoico rispetto alla molteplicità dei beni di cui l'uomo<br />

può disporre. Come già evidenziato dalla critica, l'uso di simili espressioni<br />

corrisponde all'inserzione di una seconda opzione all'interno della definizione della<br />

felicità, la quale risulterebbe garantita non solo con la concomitanza di tutti i beni,<br />

ma anche dalla concomitanza dei più importanti tra essi. La definizione<br />

risponderebbe così ad un'esigenza di flessibilità rispetto alle circostanze proprie della<br />

vita umana, per cui a un ideale di perfezione si affianca una prospettiva più<br />

accomodante rispetto ai limiti della condizione umana. Cfr. kata£ dunaqo/n nella<br />

formula platonica.<br />

408


La distinzione di due opzioni all'interno della definizione della felicità è stata messa<br />

in rapporto con la distinzione promossa da Antioco d'Ascalona tra vita beata e vita<br />

beatissima, la quale si basa in effetti sulla differenza che intercorre tra il possesso<br />

della sola virtù (beni dell'anima) e il possesso di tutti i beni (con l'aggiunta dei beni<br />

del corpo ed eventualmente anche esterni). Il parallelo appare sufficientemente<br />

convincente da sollevare il dubbio se l'uso dell'espressione ἢ τῶν πλείστων καὶ<br />

μεγίστων sia derivato dalla rilettura di Antioco del pensiero degli 'antichi filosofi' o<br />

se proprio la presenza di questo tipo di espressioni preceda Antioco e ne motivi la<br />

posizione etica.<br />

– δογματίζει γοῦν: la particella postpositiva γοῦν ha forza restrittiva.<br />

Rispetto alla proposizione precedente, introdotta con un velo di tentennante<br />

incertezza, il dossografo limita dunque la seconda proposizione a quello che si può<br />

dire che Polemone δογματίζει. Il margine d'intervento interpretativo su quanto<br />

segue si presenta dunque più ridotto rispetto a quanto precede.<br />

– χωρὶς μὲν ἀρετῆς μηδέποτε ἂν εὐδαιμονίαν ὑπάρχειν: la virtù viene<br />

posta come condizione imprescindibile per la felicità umana. In questo modo si<br />

afferma che la posizione etica di Polemone corrisponde innanzitutto a una forma di<br />

'etica della virtù' tendenzialmente in linea con un fondamento etico di tipo socratico.<br />

– δίχα δὲ καὶ τῶν σωματικῶν καὶ τῶν ἐκτὸς τὴν ἀρετὴν αὐτάρκη<br />

πρὸς εὐδαιμονίαν εἶναι:<br />

δίχα δὲ καὶ τῶν σωματικῶν καὶ τῶν ἐκτὸς: l'avverbio δίχα rimanda<br />

generalmente ad una ripartizione in due parti; il suo significato può essere inteso,<br />

come nella maggior parte delle traduzioni del passo, con 'indipendentemente da',<br />

oppure, come si preferisce in questo caso, con 'diversamente da'. Si distingue così il<br />

diverso statuto della virtù, scelta di per se stessa e capace di provvedere alla felicità<br />

dell'uomo, rispetto allo statuto dei beni del corpo ed esterni, i quali, invece, hanno un<br />

valore solo strumentale ed accessorio. In questo caso la preminenza della virtù ai fini<br />

della vita felice non deve necessariamente coincidere con un autarchia radicale<br />

dell'uomo virtuoso, che esclude l'ausilio eventuale delle altre categorie di beni.<br />

409


Αὐτάρκης + πρὸς : delimita l'ambito entro il quale il soggetto grammaticale<br />

provvede a fornire le condizioni necessarie. Laddove il soggetto non è la virtù,<br />

generalmente l'espressione viene impiegata nella forma negativa : v. Arist. EN 1178 b<br />

34 οὐ γὰρ αὐτάρκης ἡ φύσις πρὸς τὸ θεωρεῖν, ἀλλὰ δεῖ καὶ τὸ σῶμα<br />

ὑγιαίνειν καὶ τροφὴν καὶ τὴν λοιπὴν θεραπείαν ὑπάρχειν ; EN 1179 b 4-5: οἱ<br />

λόγοι αὐτάρκεις πρὸς τὸ ποιῆσαι ἐπιεικεῖς; questo può essere spiegato in<br />

relazione all'autorefenzialità del concetto di virtù, la quale, per ammissione generale,<br />

per essere tale deve essere scelta di per se stessa, non in funzione di altro, e non viene<br />

valutata in relazione ai suoi esiti esterni, quanto piuttosto in relazione alla sua<br />

coerenza interna;<br />

v. Rep. III, 387 d-e : Ἀλλὰ μὴν καὶ τόδε λέγομεν, ὡς ὁ τοιοῦτος (scil. Ð<br />

pieik¾j ¢n¾r) μάλιστα αὐτὸς αὑτῷ αὐτάρκης πρὸς τὸ εὖ ζῆν καὶ<br />

διαφερόντως τῶν ἄλλων ἥκιστα ἑτέρου προσδεῖται [tr. d'altra parte noi<br />

diciamo che un simile uomo (i.e. l'uomo per bene) ha in se stesso tutto quello che gli<br />

occorre per vivere bene e che si distingue dagli altri per avere meno bisogno<br />

dell'aiuto altrui.]<br />

Già in Platone si vede delinearsi l'idea che l'uomo esemplare sia il più possibile<br />

'indipendente' rispetto alle circostanze della vita. Il passo citato si situa infatti nel<br />

contesto della discussione delle reazioni dell'uomo saggio di fronte alla morte di un<br />

amico, di un figlio, di un fratello, di fronte alla perdita delle ricchezze etc. L'uomo<br />

saggio non si lascerà scomporre dal pianto e dal lamento, così come non si lascerà<br />

scomporre da un riso selvaggio, o se lo farà, lo farà "meno di tutti gli altri (¼kista<br />

m ntoi)" (387 e 5). Si nota dunque come l'autarchia dell'uomo saggio venga<br />

considerata già in Platone non in assoluto, ma in relazione alle possibilità reali<br />

dell'uomo.<br />

Ps.-Plato, Definitiones, 411 a 3: Θεὸς ζῷον ἀθάνατον, αὔταρκες πρὸς<br />

εὐδαιμονίαν; 412 d 10 - e 1: Εὐδαιμονία ἀγαθὸν ἐκ πάντων ἀγαθῶν<br />

συγκείμενον· δύναμις αὐτάρκης πρὸς τὸ εὖ ζῆν· τελειότης κατ' ἀρετήν·<br />

ὠφελία αὐτάρκης ζῴου; 413 e 12-13: Πολιτεία κοινωνία πλήθους ἀνθρώπων<br />

αὐτάρκης πρὸς εὐδαιμονίαν·<br />

410


B)<br />

Il testo di Diogene Laerzio fornisce numerose attestazioni dell'uso dell'espressione,<br />

restituendo le linee principali di un dibattito sull'autarchia della virtù che coinvolge le<br />

varie istanze filosofiche del periodo ellenistico:<br />

DL III, 78 (Plato): τὴν δ' ἀρετὴν αὐτάρκη μὲν εἶναι πρὸς εὐδαιμονίαν.<br />

DL V, 30 (Arist.): τήν τε ἀρετὴν μὴ εἶναι αὐτάρκη πρὸς εὐδαιμονίαν·<br />

προσδεῖσθαι γὰρ τῶν τε περὶ σῶμα καὶ τῶν ἐκτὸς ἀγαθῶν, ὡς<br />

κακοδαιμονήσοντος τοῦ σοφοῦ κἂν ἐν πόνοις ᾖ κἂν ἐν πενίᾳ καὶ τοῖς<br />

ὁμοίοις.<br />

DL VI 11 (Antistene): αὐτάρκη δὲ τὴν ἀρετὴν πρὸς εὐδαιμονίαν, μηδενὸς<br />

προσδεομένην ὅτι μὴ Σωκρατικῆς ἰσχύος;<br />

DL VII, 127 (Zenone/Crisippo/Ecatone): aὐτάρκη τ' εἶναι αὐτὴν πρὸς<br />

εὐδαιμονίαν, καθά φησι Ζήνων καὶ Χρύσιππος ἐν τῷ πρώτῳ Περὶ ἀρετῶν<br />

καὶ Ἑκάτων ἐν τῷ δευτέρῳ Περὶ ἀγαθῶν; cfr. DL VII, 189;<br />

ivi (Panezio e Posidonio): ὁ μέντοι Παναίτιος καὶ Ποσειδώνιος οὐκ αὐτάρκη<br />

λέγουσι τὴν ἀρετήν, ἀλλὰ χρείαν εἶναί φασι καὶ ὑγιείας καὶ χορηγίας καὶ<br />

ἰσχύος;<br />

La peculiarità del testo di Clemente è quella di esporre oltre al pensiero di Platone anche<br />

quello degli antichi academici. Nelle altre fonti dossografiche a nostra disposizione, infatti,<br />

l'etica degli antichi viene proposta come un'alternativa rispetto ad un'interpretazione diretta<br />

del testo di Platone (e.g. Cicerone, De finibus), e nei testi dossografici dove invece viene<br />

proposta direttamente l'opinione di Platone i filosofi academici tendono a non essere presenti<br />

(v. e.g. Alcino, Didaskalikos e Apuleio, De Platone et eius dogmate). Si noterà ad esempio<br />

che nel testo di Diogene Laerzio figura un'esposizione dei capisaldi dell'etica di Platone (DL.<br />

III, 78), ma nei capitoli dedicati ai singoli filosofi academici questo tipo di infomazione non è<br />

presente. M. Giusta si appoggiava a questo fatto per ribadire l'uniformità della tradizione da<br />

cui attingono Alcino, Apuleio e Diogene Laerzio 630 . Non è da sottovalutare tuttavia nemmeno<br />

l'originalità dell'arrangiamento dossografico di Clemente, per il quale è lecito supporre un<br />

rapporto complesso con fonti disparate, eventualemente riordinate secondo un criterio che<br />

630 Giusta (1964-1967), vol. I, p. 123<br />

411


soddisfa allo stesso tempo una successione cronologica e le esigenze di un confronto con i<br />

capisaldi del cristianesimo delle origini.<br />

Nel passaggio in oggetto è possibile inoltre riscontrare più di un segno dell'intervento<br />

dell'autore (v. εἶεν; φαίνεται (...) βουλόμενος; γοῦν), Clemente o la sua fonte, che<br />

suppone una certa maturità critica nei confronti del contenuto delle informazioni fornite.<br />

Nel complesso la testimonianza sulla posizione filosofica degli antichi academici rivela uno<br />

sforzo di precisione lessicale, che tuttavia non sempre appare storicamente convincente (v.<br />

ἕξις ἐν; ἀοχλησία). Ad ognuno dei primi tre scolarchi dell'Academia viene attribuito uno<br />

specifico contributo nell'ambito etico, tra i quali del resto non sussiste alcun conflitto<br />

apparente. Tra la posizione di Speusippo e quella di Senocrate in particolare si può notare un'<br />

evoluzione nella stategia di difesa della posizione etica che considera l'eu)daimoni/a come<br />

ἕξις∕κτῆσιj, in opposizione dinamica rispetto alla posizione di Aristotele. Il dialogo<br />

intrattenuto dai filosofi academici con la terminologia e l'impostazione etica di Aristotele è di<br />

fatto il contesto principale in cui la testimonianza di Clemente d'Alessandria può essere<br />

collocata: consapevolmente o inconsapevolmente, il testo permette di cogliere le linee di un<br />

dibattito intrascolastico tra l'Academia e il Peripato, il cui effetto si ripercuote sulle scelte<br />

lessicali e sul taglio prospettico dato alle formule del t loj di Speusippo, Senocrate e<br />

verosimilmente anche di Polemone.<br />

A partire da questo tipo di considerazioni è possibile affermare che la menzione degli antichi<br />

academici nel testo di Clemente d'Alessandria non segue la linea della storiografia di Antioco<br />

d'Ascalona, per il quale Academia antica e Peripato antico costituiscono un'unica scuola con<br />

un'unica teoria etica 631 . Antioco infatti, stando alle testimonianze ciceroniane, proponeva un'<br />

unica formula del telos per tutti i filosofi vetero academici e vetero peripatetici, passando<br />

sotto silenzio sia le differenze di sfumature tra Speusippo, Senocrate e Polemone, sia<br />

sopratutto le divergenze d'approccio al concetto di felicità tra Aristotele e Senocrate. L'intento<br />

di Antioco sembra tutto sommato quello di sacrificare una buona dose di accuratezza storica<br />

in nome del revival ermeneutico della tradizione antica, v. Ac.libri I, 22-23: "Communis haec<br />

ratio et utriusque hic bonorum finis videbatur, adipisci quae essent prima natura quaeque<br />

ipsa per sese expetenda, aut omnia aut maxima; ea sunt autem maxima quae in ipso animo<br />

atque in ipsa virtute versantur. Itaque omnis illa antiqua philosophia sensit in una virtute esse<br />

positam beatam vitam, nec tamen beatissima nisi adiungerentur et corporis et cetera quae<br />

supra dicta sunt ad virtutis usum idonea". Del resto Antioco sembrerebbe aver impiegato la<br />

dottrina etica degli antichi come un'alternativa rispetto ad una qualsiasi lettura dei testi di<br />

631 Di diverso avviso Hoyer (1883), p. 26 e Luck (1953), p. 22, per i quali l'intera sezione pp. 127-133<br />

dell'edizione Stählin sarebbero riconducibili ad Antioco.<br />

412


Platone e non come un'appendice storica; per questo nei testi dove viene riconosciuta<br />

l'influenza di Antioco non è reperibile una formula del fine associata al nome di Platone e gli<br />

interlocutori esplicitamente menzionati sono, rispettivamente, Aristotele, Senocrate o<br />

Polemone. Il testo di Clemente differisce inoltre rispetto alla storiografia antiochea nella<br />

misura in cui non propone una formula unica per tutti i filosofi academici e sopratutto non fa<br />

riferimento esplicito ad una formula composita che combini 'moralità' e 'beni in accordo con<br />

la natura' (cfr. T. 39 = Luc. 131-132; T. 40 = Luc. 138-139; T. 42 = Fin. II, 34-35). Si noterà<br />

oltretutto che l'espressione t¦ kat¦ fÚsin non figura da nessuna parte nella breve sezione<br />

dedicata a Polemone, e che invece viene attribuita in forma estesa con il verbo cw a<br />

Speusippo (v. ἐν τοῖς κατὰ φύσιν ἔχουσιν), il quale però nei resoconti antiochei sembra<br />

avere una posizione del tutto marginale.<br />

Se non fosse per la presenza dell'espressione ἢ τῶν πλείστων καὶ μεγίστων, si potrebbe<br />

affermare che la testimonianza di Clemente non ha assolutamente nulla a che fare con il<br />

recupero del pensiero degli antichi da parte di Antioco d'Ascalona. Tuttavia il parallelo<br />

testuale con alcuni passaggi ciceroniani è in questo caso molto forte. Si noterà allora che<br />

l'espressione figura nella prima parte della sezione dedicata a Polemone, ovvero quella<br />

introdotta da φαίνεται (...) βουλόμενος, che, se come si ritiene in questa sede, è un modo<br />

per avanzare un ombra di dubbio sul materiale presentato, introduce un'interpretazione della<br />

cui legittimità non si è particolarmente sicuri; Krämer (1983), p. 157, sostiene che questa<br />

parte della testimonianza di Clemente non può essere considerata l'autentica formula del telos<br />

di Polemone, poiché sostanzialmente divergente dalla formula "secundum naturam vivere" a<br />

lui altrove (T. 45 = Fin. IV, 14-15) attribuita. La frase verrebbe semplicemente dedotta dal<br />

principio di autarchia posto da Polemone.<br />

Nella seconda parte della sezione invece si limita verosimilmente l'asserzione a ciò che si può<br />

dire con maggiore certezza (v. δογματίζει γοῦν), lasciando aperta la questione se la prima<br />

parte della testimonianza sia deducibile o meno dalla seconda. Così presentata, allora, la<br />

testimonianza di Clemente potrebbe essere consapevole dell'interpretazione data da Antioco<br />

alla teoria etica di Polemone e intenderebbe rimetterla in prospettiva a fronte di una<br />

presentazione scrupolosa e dettagliata delle formule attribuibili ai filosofi academici.<br />

413


T. 59 : AUGUSTINUS, DE CIVITATE DEI XIX 1, 3 (CC 48, 1955(4), P. 659).<br />

Haec de Varronis libro, quantum potui, breviter ac dilucide posui, sententias eius meis<br />

explicans verbis. Quo modo autem refutatis ceteris unam eligat, quam vult esse<br />

Academicorum veterum (quos a Platone institutos usque ad Polemonem, qui ab illo<br />

quartus eius scholam tenuit, quae Academia dicta est, habuisse certa dogmata vult videri et<br />

ob hoc distinguit ab Academicis novis, quibus incerta sunt omnia, quod philosophiae genus<br />

ab Arcesila coepit successore Polemonis), eamque sectam, id est veterum Academicorum,<br />

sicut dubitatione ita omni errore carere arbitretur, longum est per omnia demonstrare.<br />

Cfr. Polemo fr. 39 Gigante.<br />

Traduzione<br />

Ho desunto queste cose dal libro di Varrone esponendo con concisione e chiarezza, per quanto<br />

mi è stato possibile, le sue posizioni con parole mie. Sarebbe lungo dimostrare in che modo,<br />

rifiutate le altre teorie, ne scelga una sola che, a suo avviso, è quella degli antichi academici.<br />

Egli vuol fare apparire che essi, fedeli agli insegnamenti di Platone, professarono dottrine<br />

evidenti fino a Polemone che, quarto dopo di lui, resse la scuola la quale fu denominata<br />

Academia. Per questo la distingue dai nuovi accademici per i quali tutte le conoscenze sono<br />

prive di evidenza. È un modo di fare filosofia che la scuola ha derivato da Arcesilao,<br />

successore di Polemone. Sarebbe lungo dimostrare esaurientemente come quella teoria, cioè<br />

degli antichi accademici, come è immune dal dubbio (scettico), così lo è anche da ogni errore.<br />

Contesto<br />

Il testo si inserisce all'interno dell'esposizione agostiniana degli errori dei pagani nell'ambito<br />

dell'etica. La tesi di Agostino è che l'unica felicità provenga da Dio e sia di natura<br />

ultramondana, ma prima di esporre il suo punto di vista passa in rassegna la varietà delle<br />

opinioni filosofiche in merito alla felicità. Agostino trova nel testo di Varrone, De<br />

philosophia, un valido strumento per fornire un esposizione tanto esauriente quanto<br />

riassuntiva del soggetto trattato. Varrone si avvaleva infatti nel suo testo di una divisio ethica<br />

che organizza schematicamente un'ampia varietà di posizioni filosofiche, la quale rappresenta<br />

414


dunque in a suo modo una testimonianza dell'ampiezza del dibattito etico nel periodo<br />

ellenistico. La divisio derivata dal testo di Varrone presenta del resto una caratteristica comune<br />

con la Carneadia divisio impiegata da Antioco d'Ascalona, e che Cicerone inserisce nel testo<br />

del V libro del De finibus; entrambe infatti non hanno come obiettivo l'esposizione soltanto<br />

delle posizioni effettivamente sostenute, ma anche di quelle soltanto possibili, v. De civ.Dei<br />

XIX, 1, 1 « Marcus Varro in libro de philosophia tam multam dogmatum varietatem<br />

diligenter et subtiliter scrutatus advertit, ut ad ducentas octaginta et octo sectas, non quae<br />

iam essent, sed quae esse possent, adhibens quasdam differentias facillime perveniret »; cfr.<br />

Fin. V, 16: « Ille igitur vidit, non modo quot fuissent adhuc philosophorum de summo bono,<br />

sed quot omnino esse possent sententiae ». Secondo il testo di Cicerone, Antioco argomentava<br />

a partire da nove opinioni, ridotte poi ad una sola, quella degli academici antichi e<br />

peripatetici. Nella versione varroniana della divisio il numero di opinioni contemplabili<br />

esplode fino ad arrivare all'incredibile numero di 288 posizioni filosofiche, che ottenute per<br />

progressiva e disinvolta moltiplicazione, con altrettanta disinvoltura nella parte confutatoria<br />

vengono ridotte ad una sola, quella degli academici antichi. L'altro punto di contatto tra l'uso<br />

dello strumento di origine carneadea nei due testi, sta nella premessa naturalistica che<br />

determina le posizioni primigenie, dove si tratta di determinare quale siano gli oggetti di<br />

appetizione naturale, v. De civ.Dei XIX, 1.2: « velut naturaliter appetunt »; cfr. Fin. V, 17:<br />

« constitit autem fere inter omnes id in quo prudentia verseretur et quod assequi vellet aptum<br />

et accomodatum naturae esse oportere et tale, ut ipsum per se invitare et alliceret appetitum<br />

animi, quem ὁρμήν Graeci vocant ». Peculiare invece del testo derivato da Varrone è invece il<br />

modo in cui i primi due oggetti di appetizione, voluptas e quietes, si trovano congiunti in una<br />

terza opzione (De civ.Dei XIX, 1, 2 : « aut utramque, quam tamen uno nomine voluptatis<br />

Epicurus appellat » e poi risultano inclusi nella quarta opzione accanto ad altri elementi<br />

pertinenti al corpo o all'anima, v. De civ.Dei XIX, 1, 2: « aut universaliter prima naturae, in<br />

quibus et haec sunt et alia, vel in corpore, ut membrorum integritas et salus atque incolumitas<br />

eius, vel in animo, ut sunt ea, quae vel parva vel magna in hominum reperiuntur ingeniis ». Il<br />

testo ciceroniano presentava al contrario la questione dell'inclusione della voluptas all'interno<br />

dei prima naturalia come oggetto di grande controversia, per quanto grossomodo sia<br />

concorde con il testo varroniano a proposito degli altri elementi, v. Fin. II, 34 = T. 42: « in his<br />

primis naturalibus voluptas insit necne, magna questio est; nihil vero putare esse praeter<br />

voluptatem, non membra, non sensus, non ingeni motum, non integritatem corporis, non<br />

valetudinem, summae mihi videtur inscitiae » 632 . Inoltre nell'esposizione varroniana della<br />

632 Il contenuto e la prospettiva teorica del II libro del De finibus non coincidono evidentemente con quelli del<br />

libro V : nel II libro Cicerone discute l'edonismo epicureo avvalendosi di strategie argomentative di matrice<br />

stoica e/o academica. Mentre il libro V è dedicato al recupero del contributo teorico degli 'antichi filosofi',<br />

415


divisio, a differenza che in quella ciceroniana, risulta chiaramente esplicitato che l'inclusione<br />

della virtus nella formula del telos è il risultato di una seconda fase dello sviluppo dell'uomo,<br />

dove all'appetizione naturale si affianca l'insegnamento, e che il rapporto tra la virtus e gli<br />

oggetti di appetizione naturale può qualificarsi in tre modi diversi: la virtus può essere<br />

desiderata per gli oggetti di appetizione naturale, o questi per la virtus, oppure entrambi per se<br />

stessi, v. De civ.Dei XIX, 1, 2: « ut vel virtus, quam postea doctrina inserit, propter haec<br />

appetenda sit, aut ista propter virtutem, aut utraque propter se ipsa ». L'articolazione tra le<br />

due diverse fasi dell'evoluzione della vita dell'uomo si riflette inoltre nella modalità di<br />

relazione tra l'anima e il corpo, o meglio tra la voluptas corporis e l'animi virtus, che può<br />

essere intesa come un rapporto di subordinazione, anteposizione, o associazione sullo stesso<br />

piano, v. « cum ergo voluptas corporis animi virtuti aut subditur aut praefertur aut iungitur ».<br />

Il testo ciceroniano presenta i due elementi soltanto nella modalità associativa, v. Luc. 138-<br />

139 = T. 40 : adiungerent, tacendo sulle altre due possibilità.<br />

Commento<br />

A)<br />

– quos a Platone institutos usque ad Polemonem, qui ab illo quartus eius<br />

scholam tenuit, quae Academia dicta est, habuisse certa dogmata vult videri: dal<br />

testo varroniano Agostino desume una volontà complessiva di mostrare che il<br />

segmento della tradizione filosofica da Platone fino a Polemone aveva un approccio<br />

filosofico di tipo dogmatico. La medesimo intenzione traspare dal discorso che il<br />

testo ciceroniano degli Academica fa pronunciare al personaggio di Varrone in<br />

qualità di portavoce di Antioco, v. Ac.libri I, 34-35 = T. 41.<br />

– ob hoc distinguit ab Academicis novis, quibus incerta sunt omnia, quod<br />

philosophiae genus ab Arcesila coepit successore Polemonis: la distinzione tra<br />

vetus e nova Academia viene introdotta al fine di distinguere la prima fase<br />

'dogmatica' dallo 'scetticismo' introdotto da Arcesilao, per cui tutte le conoscenze<br />

dell'uomo sono 'incerta', sono prive dello statuto epistemologico della certezza.<br />

Precedentemente (1, 2), la specificità filosofica dei neo-academici viene descritta<br />

secondo l'agenda ermeneutico-storiografica di Antioco d'Ascalona. Ciò non toglie tuttavia che riferimenti alla<br />

vexata questio dell'inclusione o esclusione della voluptas tra gli oggetti di appetizione naturale possano<br />

figurare appropriatamente in più luoghi del testo ciceroniano.<br />

416


B)<br />

come una sostituzione del 'certo' con il 'verosimile' : « potest alius ut incertam, sicut<br />

defenderunt Academici novi, quod eis etsi non certum, tamen veri simile videbatur ».<br />

– eamque sectam, id est veterum Academicorum, sicut dubitatione ita omni<br />

errore carere arbitretur: l'istanza vetero academica non solo viene dissociata<br />

dall'esercizio del dubbio scettico, ma viene anche presentata come esente da errore,<br />

cfr. Luc. 15: “Quorum [sc. qui negant quicquam sciri aut percipi posse] e numero<br />

tollendum est et Plato et Socrates, alter quia reliquit perfectissimam disciplinam,<br />

(...);<br />

Il nome di Polemone nella testimoniaza agostiniana sul testo di Varrone risulta avere la stessa<br />

funzione riscontrata nel testo ciceroniano degli Academica. Il terzo scolarca rappresenta il<br />

limite temporale di delimitazione della prima fase 'dogmatica' dell'eredità platonica, da<br />

distinguersi nettamente rispetto ad una 'nuova' fase scettica, inaugurata da Arcesilao. La<br />

posizione etica a cui Varrone intendeva rifarsi, come già quella di Antioco, si avvale<br />

dell'etichetta autoritativa degli 'antichi academici'. Si nota l'assenza di ogni riferimento al<br />

Peripato e ai suoi esponenti e si può dunque immaginare che degli insegnamenti di Antioco<br />

all'erudito latino interessasse principalmente il recupero di un'identità platonica esente dal<br />

dubbio scettico e capace allo stesso tempo di articolare una posizione etica dialetticamente<br />

resistente al confronto con l'istanza stoica e l'istanza epicurea.<br />

417


T. 60 : PLUTARCHUS, DE COHIBENDA IRA 462 D.<br />

Polemo dixit<br />

Πολέμων δὲ λοιδοροῦντος αὐτὸν ἀνθρώπου φιλολίθου καὶ περὶ σφραγίδια<br />

πολυτελῆ νοσοῦντος ἀπεκρίνατο μὲν οὐδὲν τῶν σφραγιδίων δ' ἑνὶ προσεῖχε τὸν<br />

νοῦν καὶ κατεμάνθανεν· ἡσθεὶς οὖν ὁ ἄνθρωπος ‘μὴ οὕτως’ εἶπεν ‘ὦ Πολέμων, ἀλλ'<br />

ὑπ' αὐγὰς θεῶ, καὶ πολύ σοι βέλτιον φανεῖται.’<br />

Cfr. Polemo fr. 111 Gigante.<br />

Traduzione<br />

Insultato da un uomo amante delle pietre preziose e con un' insana passione per i sigilli molto<br />

costosi, Polemone non gli rispose, ma si mise a prestare attenzione a uno dei sigilli e a<br />

studiarlo. Soddisfatto l'uomo allora disse: "non guardarlo così, Polemone, ma alla luce e ti<br />

sembrerà molto meglio".<br />

T. 61 : PLUTARCHUS, AD PRINCIPEM INERUDITUM 780 D.<br />

Πολέμων γὰρ ἔλεγε τὸν ἔρωτα εἶναι “θεῶν ὑπηρεσίαν εἰς νέων ἐπιμέλειαν καὶ<br />

σωτηρίαν”· ἀληθέστερον δ' ἄν τις εἴποι τοὺς ἄρχοντας ὑπηρετεῖν θεῷ πρὸς ἀνθρώπων ἐπιμέλειαν<br />

καὶ σωτηρίαν, ὅπως ὧν θεὸς δίδωσιν ἀνθρώποις καλῶν καὶ ἀγαθῶν τὰ μὲν νέμωσι τὰ δὲ φυλάττωσιν.<br />

Cfr. Polemo fr. 113 Gigante.<br />

418


Traduzione<br />

Polemone infatti diceva che l'amore è « il servizio degli dèi per la cura e la salvaguardia dei<br />

giovani » 633 ; si potrebbe dire nel modo più vero che i governanti servono il dio 634 per la cura e la salvaguardia<br />

degli uomini , di modo che dei doni che il dio dà agli uomini, alcuni ne distribuiscano, altri li preservino.<br />

T. 62 : STOBAEUS, ECLOGAE I, 1, SEZIONE 29B = AETIUS, PLACITA I, 7, 29.<br />

Pole/mwn to£n ko/smon qeo£n a)pefh/nato.<br />

Polemo fr. 121 Gigante.<br />

Traduzione<br />

Polemone affermava che il cosmo è (un) dio.<br />

Contesto<br />

Il frammento in oggetto è situato all'interno di una rassegna di opinioni sulla divinità (Τί<br />

θεός;), in origine derivante da un'opera di tipo dossografico, che Diels (1879), p. 301 ss.<br />

identifica con i famosi Placita di Aezio. Diels pone l'inizio di quest'exceptus dell'opera di<br />

Aezio nelle Eclogae di Stobaeus 40 linee prima del punto in cui viene fatta menzione di<br />

Polemone. L'editore si avvale generalmente di una confrontazione sinottica con il testo di<br />

uno Pseudo-Plutarchus, Sulle opinioni fisiche dei filosofi, Epitome in 5 libri, per reperire i<br />

passi in cui la convergenza contenutistica dei due testi rivelerebbe la presenza delle<br />

presunta fonte comune dei due autori. In questo contesto le coincidenze testuali si limitano<br />

a sole 4 opinioni (tutte del resto nella prima parte : Talete, Anassimandro, Democrito,<br />

633 Il motto polemoniano viene ripreso da Plutarco, senza essere specificamente attribuito a Polemone, nelle vite<br />

di Romolo (Comparatio 1, 6 : « ὥστ' ἔμοιγε φαίνεται μὴ κακῶς ὁρίζεσθαι τοὺς φιλοσόφους τὸν ἔρωτα<br />

θεῶν ὑπηρεσίαν πρὸς ἐπιμέλειαν καὶ σωτηρίαν νέων ») e di Alcibiade (4, 4 : « καὶ τὸ μὲν Σωκράτους<br />

ἡγήσατο πρᾶγμα τῷ ὄντι θεῶν ὑπηρεσίαν εἰς νέων ἐπιμέλειαν εἶναι καὶ σωτηρίαν ») ; v. Flacelière<br />

(1948), pp. 101-102.<br />

634 Cfr. Plato, Leggi, 751c, ; Plutarco in questo contesto vuole affermare che i governanti sono servitori non<br />

tanto di una legge scritta, quanto di una legge superiore, derivante dalla ragione divina.<br />

419


Pitagora) su circa 24 che vengono menzionate, v. Diels (1879), p. 301-303. Nel testo oltre a<br />

Polemone, vi si trovano menzionati tra i filosofi academici anche Speusippo e Senocrate ed<br />

ad ognuno viene attribuita un opinione propria, non coincidente con quella di Platone. La<br />

prima parte del testo segue una chiara linea cronologica che ripercorre la successione dei<br />

filosofi della scuola ionica ; mentre la sezione in cui si inserisce la menzione di Polemone<br />

si presenta come un crescendo di diaphonia filosofica, che potrebbe avere come punto di<br />

convergenza le due autorità filosofiche di Platone e Aristotele, non essendoci più rispetto di<br />

una progressione cronologia, quanto piuttosto un'attenzione per i punti di convergenza<br />

dottrinale tra personalità appartenenti a tradizioni diverse e fasi storiche non coincidenti. Il<br />

testo manifesta dunque un'esigenza di raffronto storico-critico, v. la linea d'apertura della<br />

parte di testo a cui si fa riferimento, in cui la posizione del filosofo stoico Cleante viene<br />

detta coincidere con quella di Diogene (d'Apollonia ?) e un certo Enopide : 1.1.29b.15<br />

« καὶ καὶ τὴν τοῦ κόσμου ψυχήν ». L'ordine in<br />

cui i tre scolarchi dell'Academia vengono menzionati nel testo non è quello della loro<br />

successione cronologica alla guida della scuola ; la triade di filosofi academici viene chiusa<br />

infatti da Senocrate, a cui viene attribuito esplicitamente il rimaneggiamento di concetti<br />

platonici, ripresi (« offerti ») dallo stoicismo : « Ταῦτα δὲ χορηγήσας τοῖς Στωικοῖς τὰ<br />

πρότερα παρὰ τοῦ Πλάτωνος μεταπέφρακεν ».<br />

Commento<br />

A)<br />

– to£n ko/smon : Una delle linee portanti del testo può essere dunque associata ad una<br />

dinamica di raffronto tra l'istanza academico-platonica e lo stoicismo. Nella grande<br />

varietà di opinioni presentate la posizione di Polemone si trova forse<br />

contenutisticamente in relazione con quella dello stoico Mnesarco (160-c. 85 a.C)<br />

[« τὸν κόσμον, τὴν πρώτην οὐσίαν ἔχοντα ἀπὸ<br />

πνεύματος. »], che è l'unico altro filosofo a menzionare il cosmo nella definizione<br />

del divino [v. anche l'opinione degli eleatici Melisso e Zenone, subito precedente<br />

rispetto a quella attribuita a Polemone, in cui si legge che « chiama anche dèi gli<br />

elementi e la loro mescolanza, cioè il cosmo, e oltre ad , cioè<br />

l'omogeneo si risolveranno]. Non bisogna dimenticare che il<br />

testo rappresenta la sola testimonianza a nostra disposizione sulle riflessioni<br />

420


B)<br />

cosmologiche e teologiche di Polemone. Sulla base di questo testo la critica ha pensato<br />

di poter formulare leggittimamente l'ipotesi di un'anticipazione di alcune linee portanti<br />

della fisica stoica nel pensiero di Polemone, v. Sedley (2002), p. 45-47.<br />

– qeo£n : il fatto che Polemone non abbia affermato la coincidenza tra la divinità ed un<br />

elemento separato e trascendente rispetto al mondo, come la monade o l'Uno (v. nel<br />

medesimo contesto il passo su Senocrate : « Ἀγαθήνορος<br />

Καλχηδόνιος τὴν μονάδα καὶ τὴν δυάδα θεούς » [Xenocrates fr. 213 IP]), l'anima<br />

del mondo (v. il passo già menzionato : « καὶ καὶ<br />

τὴν τοῦ κόσμου ψυχήν ») o un' intelligenza separata (v. il passo su<br />

Speusippo : « τὸν νοῦν οὔτε τῷ ἑνὶ οὔτε τῷ ἀγαθῷ τὸν αὐτόν,<br />

ἰδιοφυῆ δέ » [Speusippus fr. 89 IP = fr. 58 Tarán]), lascerebbe supporre che si trovi<br />

prefigarata nel testo in oggetto una concezione immanentista della divinità o per<br />

converso una concezione panteistica del mondo. Tuttavia, come nota già Sedley<br />

(2002) e Reydams-Schills (2011), p. 19, l'affermazione di Polemone può essere letta<br />

come una parafrasi semplificata di affermazioni già contenute nel Timeo platonico : v.<br />

92c « ὅδε ὁ κόσμος οὕτω, ζῷον ὁρατὸν τὰ ὁρατὰ περιέχον, εἰκὼν τοῦ νοητοῦ θεὸς<br />

αἰσθητός, μέγιστος καὶ ἄριστος κάλλιστός τε καὶ τελεώτατος γέγονεν εἷς<br />

οὐρανὸς ὅδε μονογενὴς ὤν » ; cfr. Plato, Tim. 34A-b ; 55d ; 68e. La connessione tra<br />

il pensiero di Polemone e la fisica stoica può essere dunque compresa come il<br />

semplice effetto del comune riferimento al testo platonico, la cui importanza<br />

filosoficamente trasversale nel periodo ellenistico e post-ellenistico non ha più<br />

bisogno di essere enfatizzata (v. Reydams-Schills (1999) ; Reydams-Schills (2003)).<br />

La coincidenza tra il cosmo e la divinità viene presentata nel contesto delle dispute<br />

filosofiche del I secolo a.C. come una tesi genuinamente platonica, che però entrerebbe del<br />

resto in contraddizione con l'attribuito divino dell'incorporealità, v. il modo in cui Cicerone<br />

riassume nel De natura deorum una delle posizioni che Platone avrebbe assunto nel Timeo<br />

e nelle Leggi : Cic., ND I, 30 : « Idem et in Timaeo dicit et in Legibus et mundum deum<br />

esse et caelum et astra et terram et animos et eos quos maiorum institutis accepimus »; cfr.<br />

Reydams-Schills (2011), p. 19, n. 25. La riduzione critica della tesi platonica contenuta nel<br />

testo ciceroniano – e il suo conseguente impiego strumentale – deriva, come noto, da una<br />

421


prospettiva esterna al platonismo, di tipo materialista, teoricamente compatibile anche con<br />

la prospettiva epicurea, la quale non concede al suo interlocutore che il mondo possa essere<br />

detto 'dio', pur conservando il principio dell'assoluta trascendenza di dio rispetto al mondo.<br />

Per attribuire allora a Polemone una teorizzazione esplicita di un immanentismo teologico<br />

bisognerebbe supporre che sia stato proprio il filosofo academico ad avviare un processo di<br />

revisione della prospettiva trascendentale platonica e che egli avesse eventualmente<br />

abbracciato una posizione di tipo 'corporealista' - tesi divenuta poi cardine della fisica<br />

stoica (v. LS (1987), 27, vol. I, pp. 164-165) -, secondo la quale ogni (inter)azione<br />

presuppone corporealità (v. Sext.Emp., Adv.math. VIII, 263 ; v. anche la presentazione di<br />

D. Sedley in ABMS (1999), pp. 383-384). Posto quest'assunto del tutto ipotetico allora la<br />

frase di Polemone « to£n ko/smon qeo£n (ei)=nai) », coinciderebbe con una presa di posizione<br />

estremamente forte, volta a dissipare ogni possibile ambiguità, rispetto al linguaggio<br />

platonico e all'espressione del rapporto tra il mondo e il suo modello divino ultramondano.<br />

Si noterà tuttavia che il contesto da cui il passo è tratto esprime una diversa opinione<br />

proprio in merito alla questione degli eventuali rapporti di filiazione tra la teoria fisica<br />

stoica e le posizioni assunte dai filosofi academici : sarebbero infatti i due principi di<br />

Senocrate (monade e diade, maschio e femmina, padre e madre, dio primo e anima del<br />

mondo), generatori di una molteplicità di dèi, in uno scenario in cui le potenze divine<br />

pervadono gli elementi materiali, a costituire quel 'rimaneggiamento' di elementi platonici,<br />

capace di aprire la via ai concetti confluiti poi nello stoicismo. Si può dire allora che il<br />

passaggio dalla concezione tripartita dei principi di Platone, ad un deciso ed evidente<br />

pensiero della dualità, avviene all'interno della scuola academica con Senocrate, maestro di<br />

Polemone, senza però che questo implichi l'abbandono di un piano metafisico o una presa<br />

di posizione di tipo immanentista. Il principio numerico della coppia monade-diade rimane<br />

infatti un modo di concepire – platonicamente – un modello immutabile ed incorporeo in<br />

una relazione di tipo ontologico e formale con il mondo materiale. Quando allora si voglia<br />

parlare di anticipazioni della fisica stoica, si noterà che Senocrate può essere<br />

opportunamente chiamato in causa nell'ambito del pensiero della dualità, che si noti bene,<br />

non è ancora esplicitamente la coppia stoica materia-dio o attivo-passivo. Ma questo non è<br />

ancora sufficiente per ipotizzare all'interno dell'Academia antica uno smantellamento<br />

radicale della metafisica platonica e un'apertura verso il corporealismo stoico. Né si ritiene<br />

lo sia la frase attribuita a Polemone. L'ipotesi di una derivazione diretta dal testo platonico<br />

dell'affermazione to£n kosmo/n = (to£n) qe/on, ribadisce soltanto uno scenario già<br />

menzionato in precedenza, per cui immaginiamo gli esponenti della scuola fondata da<br />

Platone impegnati nella lettura e nell'esegesi dei testi del maestro fondatore, in particolare<br />

422


del Timeo, (v. Plut., De procr.animae in Tim. 1012-1013, sugli interventi esegetici di<br />

Senocrate e Crantore, Xenocrates fr. 158 ; 188 IP ; Krantor F. 10, 11a Mette), che ha dato<br />

avvio ad una lunga tradizione di commentatori, in cui le diverse modalità di relazione al<br />

testo corrispondono anche ad altrettante dinamiche di costruzione di un'identità filosofica<br />

non solo in ambito academico e platonico, ma senza dubbio anche in ambito stoico (v.<br />

Neschke-Hentschke (2000) ; Reydams-Schils (2003) ; Sharples, Sheppard (2003) ; Ferrari<br />

(2005), pp. 1-12). Il frammento in oggetto, per via della sua estrema semplicità,<br />

paragonabile forse solo al suo estremo isolamento nella letteratura superstite, non sembra<br />

sufficiente per supporre un intervento esegetico particolarmente forte da parte del terzo<br />

scolarca. Inoltre sussiste una certa linea di continuità e complementarietà con altre<br />

affermazioni attribuite ai suoi predecessori, quale quella di Senocrate, secondo cui « anche<br />

la volta celeste è (un) dio e le stelle dèi ignei dell'Olimpo (Θεὸν δ' εἶναι καὶ τὸν οὐρανὸν<br />

καὶ τοὺς ἀστέρας πυρώδεις Ὀλυμπίους θεούς...) », v. Krämer (1983), p. 155. In<br />

conclusione in mancanza di ogni tipo di indizio sul contesto d'origine della frase attribuita<br />

a Polemone, non sembra legittimo retroproiettare sul terzo scolarca la piena formulazione<br />

di prospettive teoriche, come l'immanentismo corporealista stoico, la cui maturazione in<br />

epoca ellenistica è resa possibile verosimilmente dall'introduzione di assunti e tradizioni<br />

indipendenti dal platonismo. Dell'ipotesi di Sedley (2002), rimane da discutere per quale<br />

motivo il contenuto del testo di Cicerone sulla fisica che Antioco verosimilmente attribuiva<br />

agli academici antichi non possa esser legittimamente considerato un resoconto delle<br />

posizioni assunte da Polemone, tanto che, come si noterà, non figura nella presente<br />

raccolta. Il discorso pronunciato dal personaggio di Varrone (Cic. Ac.libri I, 24-29)<br />

esordisce con una posizione dualista, di per sé, come abbiamo visto, non incompatibile con<br />

un contesto vetero-academico, se non fosse che la coppia di principi viene esplicitata alla<br />

maniera stoica attraverso l'antitesi attivo-passivo (« res duas, ut altera esset efficiens,<br />

altera autem quasi huic se praebens »), o vim-materiam quandam, e soprattutto viene<br />

corredata di un assunto di tipo corporealista, per cui l'interazione reciproca dei due<br />

inscindibili principi è in primo luogo « corpus et quasi qualitatem quandam ». I chiari<br />

elementi di retroproiezione di concetti stoici nel testo attribuito agli antichi academici (v.<br />

Lévy (2008b), pp. 5-20, sulla spinosa questione del concetto di poio/thj / qualitas),<br />

possono secondo Sedley essere almeno parzialmente giustificati da un effettivo rapporto di<br />

filiazione filosofica tra le due dottrine ; a proposito della teoria dei quattro elementi Sedley<br />

ad esempio scrive : « Perhaps what we are meeting in our old Academic text is a Stoic<br />

retrojection. But since it amounts to no more than a refinement on Xenocrates' physics, it is<br />

at least as likely that it originated in the Academy » (Sedley (2002), p. 59). Questo tipo di<br />

423


linea interpretativa, come ammesso dal suo autore, è in diretto rapporto con una piena<br />

rivalutazione dell'operazione storiografico-ermeneutica di Antioco d'Ascalona. In entrambi<br />

i casi (nella lettura di Sedley, come nei resoconti antiochei) si tratta di determinare quale<br />

sia la portata della filiazione filosofica dello stoicismo dalla filosofia vetero-academica.<br />

Tuttavia se uno storico moderno del pensiero filosofico ha generalmente come scopo la<br />

ricostruzione delle dinamiche d'evoluzione del pensiero riscontrabili attraverso i testi,<br />

niente impedisce che invece un interprete antico del platonismo, come Antioco, si avvalga<br />

della storiografia innanzitutto come di uno strumento ermeneutico e di legittimazione<br />

dottrinale. La particolarità della prospettiva di Sedley è proprio quella di voler enfatizzare<br />

la possibilità teorica di una derivazione diretta dai testi dei filosofi antichi delle posizioni<br />

assunte da Antioco. Non c'è motivo per cui Antioco dovesse presentare una 'ricostruzione<br />

storica' falsa, si può argomentare, perché sarebbe stato controproducente per la sua<br />

posizione. Ma rimane da provare se lo scopo di Antioco fosse davvero quello di produrre<br />

una 'ricostruzione storica' che venisse accolta come pienamente attendibile, oppure, se, al<br />

contrario, intendesse presentarsi come un interprete, capace di avvalersi<br />

contemporaneamente dei punti di forza delle maggiori tradizioni filosofiche, per risolvere<br />

quelle questioni a lungo dibattute nel periodo ellenistico. Dall'indagine svolta in questo<br />

lavoro si ricava la convinzione che, quando Antioco insiste sul legame discepolo-maestro<br />

tra Zenone e Polemone, al lettore venga in realtà presentata una riscrittura delle dinamiche<br />

di filiazione filosofica, ovvero una '(ri-)costruzione filosofica', che intende legittimare il<br />

'ritorno agli antichi' di Antioco, come soluzione delle inconsistenze (o paradossalità) della<br />

dottrina etica stoica. La propaganda di Antioco equivale a dire che ogni divergenza<br />

filosofica (diaphonia) può essere risolta ritornando ad un nucleo filosofico (platonico)<br />

originario, su cui si trovano allineati academici e peripatetici, e di cui gli stoici avrebbero<br />

potuto ritrovarsi legittimi eredi, se solo Zenone non avesse deviato in alcuni punti dagli<br />

insegnamenti del maestro Polemone. Per provare la sua tesi Antioco ha evidentemente<br />

bisogno di adeguare questo 'nucleo originario' alle esigenze del dibattito a lui<br />

contemporaneo ovvero di 'ricostruire' la risposta degli antichi academici ad interrogativi a<br />

loro posteriori. L'adozione dunque di elementi stoici sia nell'ambito etico che nell'ambito<br />

fisico, nei discorsi di matrice antiochea, non va allora intesa né come una contraffazione<br />

sincretica di più tradizioni tra loro estranee, né come la ripresa filologicamente accurata di<br />

tutti i punti in cui il pensiero degli antichi scolarchi poteva aver anticipato le posizioni<br />

stoiche, quanto piuttosto come la riformulazione in termini contemporanei di una posizione<br />

teorica, che superi i limiti della posizione stoica e al contempo venga riconosciuta come<br />

legittima erede del platonismo. Per queste ragioni, in conclusione, in assenza di una<br />

424


menzione esplicita del nome di Polemone, non si ritiene metodologicamente corretto<br />

presentare il testo degli Academica sulla fisica che Antioco attribuiva agli antichi come una<br />

testimonianza sulla terminologia e la struttura del discorso che Polemone o i suoi<br />

consociati potevano aver effettivamente proposto in ambito fisico.<br />

T. 63 : JOANNES STOBAEUS, ANTHOLOGIUM, III 11, 23 WACHSMUTH - HENSE (SERENUS,<br />

COMMENTARIA = MAXIMUS CONFESSOR, LOCI COMMUNES 900 C; RECURRIT ECLOGA MAXIM.C. 35 P.<br />

625 COMBEF (PLATWN)).<br />

Ἐκ τῶν Σερήνου Ἀπομνημονευμάτων. Πλάτων μὲν ἥδιστον εἶναι τῶν ἀκουσμάτων<br />

τὴν ἀλήθειαν ἔλεγε, Πολέμων δὲ πολὺ ἥδιον τοῦ ἀκούειν τὸ λέγειν εἶναι τἀληθῆ.<br />

Cfr. Polemo fr. 114 Gigante.<br />

Traduzione<br />

Dai Promemoria di Sereno. Platone diceva che la verità è il più dolce degli insegnamenti che<br />

si possano ascoltare, Polemone invece diceva che è molto più dolce dire il vero, che<br />

ascoltarlo.<br />

T. 64 : CLEMENS ALEXANDRINUS, STROMATA VII CAP. VI 32, 9, P. 24 STÄHLIN<br />

δοκεῖ δὲ Ξενοκράτης ἰδίᾳ πραγματευόμενος Περὶ τῆς ἀπὸ τῶν ζῴων τροφῆς καὶ<br />

Πολέμων ἐν τοῖς Περὶ τοῦ κατὰ φύσιν βίου συντάγμασι σαφῶς λέγειν, ὡς<br />

ἀσύμφορόν ἐστιν ἡ διὰ τῶν σαρκῶν τροφή, εἰργασμένη ἤδη καὶ ἐξομοιοῖ ταῖς<br />

τῶν ἀλόγων ψυχαῖς.<br />

Cfr. Polemo frr. 97, 112 Gigante; Xenocrates fr. 267 IP.<br />

Traduzione<br />

425


Senocrate, nel trattato Sull'alimentazione a base di animali, e Polemone negli scritti Sulla vita<br />

secondo la natura, sembra abbiano detto chiaramente che è dannoso il nutrimento a base di<br />

carne, poiché uno dei suoi effetti è di assimilare alle anime degli esseri privi di ragione 635 .<br />

635 v. Isnardi Parente (1983), dove il tema del vegetarianesimo di Senocrate viene sviscerato in relazione alle<br />

peculiari posizioni assunte dalla scolarca dell'Academia in merito agli animali "privi di ragione", v. anche<br />

Clem.Alex., Str. V, 13, p. 383 Stählin = Xenocrates fr. 220 IP ; l'autrice non esclude che le conclusioni tratte<br />

da Senocrate tengano in conto le nuove conoscenze zoologiche e naturalistiche, che, al ritorno dalla<br />

spedizione in India di Alessandro Magno, cominciarono a circolare in Grecia. La direzione teorica suggerita<br />

da questo tipo di testimonianze è il progressivo smussamento della rigida dicotomia tra animali razionali e<br />

animali privi di ragione, nella misura in cui una delle prerogative tradizionali della prima categoria (i.e. la<br />

nozione del divino, fr. 220 IP) viene potenzialmente estesa alla seconda, e certi tipi di pratiche o<br />

manifestazioni comportamentali possono assimilare la categoria superiore a quella inferiore (e viceversa).<br />

Cfr. Porphyrius, De abstinentia IV, 22 = Xenocrates fr. 252 IP. Il tema del vegetarianesimo, connesso con il<br />

generalizzato 'divieto di uccidere' gli altri esseri viventi, traccia una zona d'incontro tra le posizioni dei due<br />

scolarchi dell'Academia e il peripatetico Teofrasto (v. Porphyrius, De abstinentia III, 25), verosimilmente<br />

basata in particolare sul considerare tutti gli esseri viventi come appertenenti al medesimo 'genere' ( ge/noj),<br />

quello dei z%=a ; cfr. Plut., De esu carnium III, 997 d-e : « ἀλλ' αἰσθήσεώς γε μετέχουσαν, ὄψεως ἀκοῆς,<br />

φαντασίας συνέσεως, ἣν ἐπὶ κτήσει τοῦ οἰκείου καὶ φυγῇ τοῦ ἀλλοτρίου παρὰ τῆς φύσεως ἕκαστον<br />

εἴληχε », dove, pur senza attribuzione nominale né a Senocrate, né a Teofrasto, Plutarco fonda il rapporto tra<br />

uomini e animali sulla comune condivisione di funzioni vitali fondamentali (i.e. : sensazione,<br />

rappresentazione, appropriatezza dell'istinto).<br />

426


Appendice<br />

Kata£ fu/sin bi/oj o la 'vita in accordo con la natura'<br />

frone/ein a)reth£ megi/sth,<br />

kai£ sofi/h a)lhqe/a le/gein kai£ poiei=n,<br />

kata£ fu/sin e)pai/ontaj.<br />

Eraclitus fr. 112 DK<br />

Dall'analisi delle testimonianze a nostra disposizione sulle posizioni assunte da<br />

Polemone in ambito etico si evince che il nome del terzo scolarca veniva<br />

innanzitutto associato con la formula "secundum naturam vivere" (v. T. 44 = Fin. IV,<br />

14: "Cum enim superiores, e quibus planissime Polemo, secundum naturam vivere<br />

summum bonum esse dixissent"). L'unico titolo parvenutoci dei molti scritti che<br />

Polemone avrebbe redatto è quello dell'opera Περὶ τοῦ κατὰ φύσιν βίου (Sulla vita<br />

in accordo con la natura, v. T. 64 : Clem.Alex., Str. VII, vi, 32, 9). L'uso<br />

dell'espressione kata£ fu/sin zh=n e affini come "operative term" non è, come noto,<br />

esclusivo dello terzo scolarca. Intorno ad esso, piuttosto, converge una larga parte<br />

del contesto filosofico del primo periodo ellenistico, in cui Polemone si colloca<br />

storicamente: la filosofia cinica fa largo uso di questo tipo di espressioni, in aperto e<br />

provocatorio contrasto rispetto all'impostazione sofistica, per cui kata£ fu/sin e kata£<br />

no/mon costituiscono due parametri antitetici del comportamento dell'uomo. Zenone<br />

di Cizio inoltre sembra essersi abbondantemente avvalso dell'espressione per<br />

definire le posizioni cardine in ambito etico del nascente stoicismo. Si può dunque<br />

immaginare che la riflessione di Polemone si inserisca nel contesto di un ampio<br />

dibattito sulla definizione del significato di ciò che è 'in accordo con la natura' e che<br />

i suoi principali interlocutori siano stati i filosofi precedentemente menzionati.<br />

I testi ciceroniani mostrano inoltre che l'associazione del nome di Polemone con la<br />

formula "secundum naturam vivere" rappresenta la base di partenza per la<br />

costruzione da parte di Antioco di una formula del telos attribuibile alla tradizione<br />

427


vetero-academica nella forma "honeste vivere fruentem is quas primas homini<br />

natura conciliet" (T. 39 = Luc. 131). La formula ammette qualche variante: "Ergo<br />

nata est sententia veterum Academicorum et Peripateticorum, ut finem bonorum<br />

dicerent secundum naturam vivere, id est virtute adhibita frui primis a natura datis"<br />

(T. 42 = Fin. II, 34-35); "omnibus aut maximis rebus iis quae secundum naturam<br />

sint fruentem vivere" (T. 44 = Fin. IV, 14-15); Cicerone è del resto attento a<br />

presentare l'espressione "secundum naturam vivere" come passibile di più<br />

esplicitazioni e come l'oggetto di una continua esegesi soprattutto all'interno della<br />

filosofia stoica (v. T. 44, Commento B).<br />

Non sappiamo se la struttura del discorso etico di Polemone prevedesse innanzitutto<br />

una definizione esplicita della formula del telos, come sembra sia stata la norma nel<br />

periodo successivo, e non sappiamo se in essa fosse riconoscibile un eventuale<br />

riferimento polemico che ne contestualizzava il contenuto. L'altra testimonianza a<br />

noi pervenuta sulla formula del telos di Polemone non concorda con i testi<br />

ciceroniani, né nella forma, né nel contenuto. La testimonianza di Clemente<br />

Alessandrino (T. 58 = Str. II, 22, 133) non fa riferimento alcuno al kata£ fu/sin zh=n<br />

e insiste piuttosto sul concetto di autarchia della virtù.<br />

I sospetti su un forte intervento ermeneutico di Antioco d'Ascalona sulla formula<br />

attribuita alla tradizione vetero-academica e peripatetica sembrano dunque<br />

quantomeno legittimi. La formula presenta una struttura composita, per cui il telos<br />

coinciderebbe con la somma di due elementi: ta£ prw=ta kata£ fu/sin + honestas<br />

(kalo/n), in modo da accordarsi con la distinzione tra teorie semplici e teorie<br />

composite caratteristica degli schemi dialettici delle divisiones ethicae. La formula<br />

risponde dunque alle esigenze espositive del discorso etico secondo la forma e gli<br />

strumenti che quest'ultimo ha assunto in una fase storica verosimilmente posteriore<br />

al primo periodo ellenistico.<br />

Particolarmente controverso è l'uso del concetto di ta£ prw=ta kata£ fu/sin<br />

all'interno della formula che dovrebbe accomunare, talvolta indistintamente, i<br />

filosofi vetero-academici e i filosofi peripatetici. Cicerone sembra far attenzione a<br />

limitare la traduzione letterale del concetto in latino, "ea quae secundum naturam<br />

sunt", al contesto del V libro del De finibus dove il personaggio di Pisone si incarica<br />

di esporre l'operazione filosofica di Antioco d'Ascalona, preferendo invece negli altri<br />

contesti l'omissione del suffisso di conformità (kata/ / secundum) : v. "ea quae<br />

prima data sint natura" (T. 42 = Fin. II, 33-34); "(ea) quae prima secundum<br />

naturam nominant, proficiscuntur, in quibus numerant incolumitatem<br />

428


conservationemque omnium partium, valetudinem, sensus integros, doloris<br />

vacuitatem, viris, pulchritudinem, cetera generis eiusdem, quorum similia sunt<br />

prima in animis quasi virtutum igniculi et semina" (Fin. V, 18); "ea quae primae<br />

secundum naturam esse diximus" (Fin. V, 20); "rebus quas primas secundum<br />

naturam esse diximus" (Fin. V, 45); v. T. 40 = Luc. 138-138: prima naturae<br />

commoda. L'attenzione della critica si è invece concentrata sulla possibilità di<br />

tracciare intorno all'uso di questo concetto una zona di convergenza / divergenza tra<br />

l'istanza stoica e il pensiero di Polemone. In particolare si suppone comunemente<br />

che Zenone e Polemone avrebbero argomentato a partire da opposte posizioni<br />

proprio sullo statuto degli oggetti ta£ prw=ta kata£ fu/sin ai fini del conseguimento<br />

della felicità, e gli effetti di questo dibattito sarebbero stati visibili nei testi dei due<br />

filosofi che portano il medesimo titolo 636 . Tuttavia un'analisi delle occorrenze del<br />

concetto greco nella letteratura superstite non solo non permette di attribuirne l'uso<br />

esplicito allo stoicismo delle origini, ma soprattutto mette in risalto il potenziale<br />

polemico implicito nell'uso del concetto. Esso viene infatti impiegato<br />

prevalentemente qualora si voglia mettere in risalto una problematica implicita nella<br />

teoria stoica della virtù come unico bene. Gli avversari dello stoicismo, in primis<br />

Carneade, facevano notare che, per quanto nell'ambito pratico la teoria stoica<br />

attribuisce un 'valore' a tutti quegli oggetti che possono essere valutati come kata£<br />

fu/sin, nell'ambito della formula del telos gli stoici negano il 'valore' di qualunque<br />

altra cosa che non sia la virtù ai fini del conseguimento della felicità. Questo<br />

contraddittorio doppio ordine di valori viene denunciato dai critici della teoria<br />

stoica, avvalendosi di un raffronto comparativo con le altre istanze filosofiche a<br />

disposizione. Si ritiene nell'ambito di questa ricerca che sia proprio in virtù di questo<br />

raffronto critico che il concetto di ta£ prw=ta kata£ fu/sin cominci ad assumere una<br />

posizione filosofica di rilievo. L'orizzonte comune, rispetto al quale Carneade<br />

sembrerebbe aver avviato una valutazione comparativa delle istanze etiche del<br />

periodo ellenistico è infatti un assunto di tipo naturalistico, per cui ogni indagine<br />

etica prende le mosse da un indagine sui primi comportamenti istintuali dell'uomo,<br />

ovvero dai primi oggetti di appetizione. Il filosofo academico poteva constatare una<br />

certa convergenza dell'epicureismo, dello stoicismo e della filosofia peripatetica nel<br />

considerare le prime manifestazioni dell'istinto naturale come contenenti importanti<br />

indizi sul telos della vita dell'uomo. L'allineamento delle tre istanze su un medesimo<br />

assunto naturalistico è del resto l'effetto di una certa forzatura semplificatrice,<br />

636 v. Philippson (1932).<br />

429


certamente funzionale all'analisi di Carneade, ma non ad una ricostruzione storico-<br />

filosofica delle dinamiche specifiche dell'etica epicurea, stoica o peripatetica. La<br />

fortuna della semplificazione di Carneade è evidente nell'uso massiccio di formule<br />

standardizzate nella letteratura dossografica posteriore (v. simul atque natum sit -<br />

Fin. I, 30; Fin. III, 16 / eu)qu/j geno/menon – Alex.Aphr. De anima libri mantissa 150,<br />

29-30 / a)p' a)rxhj – DL VII, 85 / eu)qu£j e)c a)rxh=j – [Arius Didymus], ap. Stob., II,<br />

7, 3c). Posto quest'orizzonte evaluativo, la critica carneadea consisteva<br />

verosimilmente nell'affermare un'inconsistenza della teoria stoica, poiché i primi<br />

oggetti di appetizione naturale pur conservando un loro 'valore', non risultano<br />

sussunti nella formula del telos; per poi affermare provocatoriamente la coincidenza<br />

di fatto tra la teoria stoica e quella peripatetica, filosoficamente antagoniste, poiché<br />

le inconsistenze della teoria stoica sarebbero risolvibili solo ammettendo, come<br />

fanno i peripatetici, che altri beni oltre alla virtù contribuiscono alla felicità<br />

dell'uomo.<br />

L'emergere di ta£ prw=ta kata£ fu/sin come concetto cruciale è ancor meglio<br />

contestualizzabile nel momento in cui Antioco d'Ascalona interviene nel dibattito<br />

etico e si avvale degli strumenti della critica carneadea, per affermare non solo<br />

polemicamente, ma anche filosoficamente la convergenza di (stoici), peripatetici e<br />

academici su una concezione composita della formula del telos. L'originalità<br />

dell'operazione di Antioco sta nell'individuare una posizione di incontro tra la<br />

formula polemoniana del "secundum naturam vivere" e la concezione peripatetica<br />

della molteplicità dei beni, proprio attraverso l'uso del concetto di ta£ prw=ta kata£<br />

fu/sin. La lista dei beni tripartiti a partire dalla quale i filosofi peripatetici del<br />

periodo ellenistico avevano formulato la loro posizione etica, talvolta in aperto<br />

contrasto polemico con lo stoicismo 637 , viene rielaborata da Antioco, affinché<br />

coincida con la lista degli oggetti di appetizione naturale e degli oggetti selezionati<br />

in ambito pratico in ragione del loro essere kata£ fu/sin. L'effetto di questa<br />

rielaborazione è visibile nella graduale marginalizzazione dei beni esterni, come<br />

l'onore e la ricchezza, rispetto invece ai beni legati alla conservazione dell'integrità<br />

della mente e del corpo, nella teoria etica attribuita ai filosofi academici e<br />

peripatetici. Non è possibile del resto escludere con sicurezza che il concetto abbia<br />

un qualche genuino retaggio vetero-academico 638 , il quale giustificherebbe la scelta<br />

637 v. le testimonianze su Critolao : Clemens, Str. II 21, 129, p. 184 Stählin = Crit. fr. 20 Wehrli : « Krito/laoj<br />

de/, o( kai\ au)to\j Peripathtiko/j, teleio/thta e)/legen kata\ fu/sin eu)roou=ntoj bi/ou, th\n e)k tw=n triw=n<br />

genw=n sumplhroume/nhn trigenikh\n. teleio/thta mhnu/wn. » e le osservazioni di Hahm (2007).<br />

638 Ioppolo (1980), ritiene che il termine sia proprio di Polemone.<br />

430


operata da Antioco di impiegare proprio il nome di Polemone come doppio punto di<br />

saldatura, da una parte con la tradizione peripatetica e Aristotele in particolare (v. T.<br />

50: Fin. V, 14), in virtù di una teoria in cui la molteplicità dei beni si trova connessa<br />

con la naturalità della vita dell'uomo, dall'altra con lo stoicismo, in virtù del<br />

(presunto) rapporto discepolo-maestro tra Zenone e Polemone (v. T. 41: Ac.libri I,<br />

34-35; T. 43: Fin. IV, 3). Nel contesto delle riflessioni etiche dei filosofi vetero-<br />

academici è possibile inoltre reperire alcuni indizi, che confermerebbero la presenza<br />

di quella linea teorica che, sulla base degli elementi di naturalità della vita<br />

dell'uomo, individua una molteplicità di beni. Nella formula del telos che il testo di<br />

Clemente Alessandrino attribuisce a Speusippo (T. 58) si trova menzionato un ideale<br />

di "perfezione nelle cose in accordo con la natura (ἕξιν εἶναι τελείαν ἐν τοῖς κατὰ<br />

φύσιν)". Mentre dai frammenti della Consolatio di Crantore 639 si desume che il<br />

filosofo academico contestasse l'ideale di una perfetta impassibilità (a)pa/qeia), a<br />

vantaggio della metriopa/qeia, ovvero di un tipo di controllato equilibrio rispetto alle<br />

passioni, sulla base dell'impossibilità naturale per l'uomo di non subire affatto il<br />

dolore di certe perdite, come verosimilmente la morte di una persona cara, la<br />

malattia o la perdita propria integrità fisica. Sembrerebbe dunque corretto attribuire<br />

ai filosofi vetero-academici un'apertura alla valutazione positiva del corredo naturale<br />

dell'uomo, non solo in relazione all'anima, ma anche in relazione al corpo. Tale<br />

apertura può essere letta come un graduale discostarsi dall'intellettualismo platonico<br />

e da affermazioni estreme quale quella famosa dell'Alcibiade I per cui "l'uomo è la<br />

sua anima" 640 . Tuttavia si noterà che niente porta a pensare che i filosofi academici<br />

non abbiano mantenuto la forte gerarchizzazione che Platone concepiva tra i beni,<br />

per cui la superiorità dell'anima rispetto al corpo determina il più alto valore della<br />

virtù rispetto ad ogni altra categoria di bene (v. T. 53; 54 = Cic., Tusc. V, 39; 54). In<br />

questo modo Polemone poteva coerentemente mantenere la tesi dell'autarchia della<br />

virtù ai fini della vita felice (T. 58) e costituire di fatto un'alternativa teorica sia<br />

rispetto alle posizioni peripatetiche, sia rispetto alle posizioni stoiche.<br />

Una questione di tutt'altro genere è quella che interessa invece il concetto di<br />

oi)kei/wsij. Filosoficamente connesso a quello di ta£ prw=ta kata£ fu/sin, il concetto<br />

di oi)kei/wsij è stato individuato dalla critica come un altro possibile punto di<br />

incontro tra l'istanza stoica, a cui si riconosce generalmente la piena paternità del<br />

639 Plut., Consalatio ad Apollonium III, p. 209 Paton, Pohlenz, Gärtner (eds.) ; Cic., Tusc. III, 12 = Krantor F.<br />

3a ; 3b Mette.<br />

640 v. Plato, Alc. I, 129e-130c ; v. anche i commenti di Dörrie (1987), pp. 319-320.<br />

431


concetto, e le istanze academica e peripatetica, da cui lo stoicismo avrebbe tratto<br />

importanti stimoli teorici e lessicali per l'elaborazione del concetto.<br />

Nella letteratura critica l'importanza del concetto di oi)kei/wsij per la comprensione<br />

della filosofia stoica è stata oggetto di valutazioni discordanti. Pohlenz (1940), ne<br />

faceva, come noto, il fondamento dell'etica stoica, basandosi verosimilmente sui<br />

resoconti ciceroniani. La sua posizione venne ribadita poi da Pembroke (1971), il<br />

quale, oltre ad affermare con fiducia l'uso del concetto già nello stoicismo delle<br />

origini, riteneva addirittura che: "if there had been no oikeiosis, there would have<br />

been no Stoa"; Questa linea interpretativa si è gradualmente ridimensionata in<br />

seguito ad alcuni interventi critici tesi a mettere l'evoluzione del concetto stoico di<br />

oi)kei/wsij in relazione con il contesto del dibattito etico intrascolastico sui<br />

fondamenti naturalistici dell'etica. Già Von Arnim (1931) aveva proposto<br />

un'inquadramento dell'origine dell'etica 'in accordo con la natura' nelle riflessioni di<br />

Polemone e Teofrasto. In seguito un'approfondito studio di Dirlmeier (1937) ha<br />

contribuito ad avanzare l'ipotesi di una genesi del concetto di oi)kei/wsij esterna allo<br />

stoicismo e in relazione invece con le indagini naturalistiche del Peripato e di<br />

Teofrasto in particolare. In questo scenario Polemone arriverebbe a giocare il ruolo<br />

di mediatore tra la teoria peripatetica dell'oi)kei/wsij e l'appropriazione stoica della<br />

teoria da parte di Zenone. L'ipotesi di Dirlmeier permetterebbe inoltre di considerare<br />

l'attribuzione di una teoria dell' oi)kei/wsij ai filosofi peripatetici, contenuta nei testi<br />

ciceroniani (in particolare De finibus V), come degna di fiducia e non come l'effetto<br />

di una trasposizione illegittima di concetti stoici sull'etica degli antichi ad opera di<br />

Antioco 641 .<br />

Il concetto si trova dunque immerso in una complessa rete di problemi interpretativi<br />

e storiografici, complicati ulteriormente dalle peculiarità semantiche del concetto.<br />

Studi recenti che abbiano tentato di esplicitarne il contenuto si avvalgono, con<br />

risultati non sempre convergenti, di una metodologia semantica inferenzialista 642 , per<br />

cui il contenuto del concetto viene determinato analizzandone il ruolo inferenziale,<br />

ovvero come esso venga impiegato all'interno di un'argomentazione filosofica. Una<br />

certa cautela filologica si impone qualora si consideri che la maggior parte delle<br />

fonti a nostra disposizione provengono o da ambienti esterni allo stoicismo, o da<br />

filosofi stoici appartenenti ad una fase della scuola molto più tarda rispetto allo<br />

641 v. Magnaldi (1991).<br />

642 v. Engberg-Pederson (1986) ; Engberg-Pederson (1990) ; Striker (1983).<br />

432


stoicismo delle origini (Seneca, Ierocle) 643 . È del resto incerto se si possa far risalire<br />

l'uso del concetto fino a Zenone di Cizio 644 e per quanto concerne Polemone,<br />

mancano attestazioni esplicite dell'uso del concetto da parte del terzo scolarca, che<br />

non debbano essere ricondotte al contesto della presentazione ciceroniana-antiochea<br />

dell'etica degli antichi.<br />

Studiando il concetto nel suo uso argomentativo Striker (1983), p. 282 ss., delimita<br />

due contesti principali in cui compare il concetto di oi)kei/wsij: le argomentazioni a<br />

supporto della concezione stoica del telos e il discorso sul fondamento della<br />

giustizia. A proposito del primo dei due contesti (v. e.g. Fin. III, 16), la presente<br />

indagine ha cercato di mettere in luce come l'uso del concetto di oi)kei/wsij intenda<br />

offrire una risposta alternativa all'argomento epicureo per cui il piacere si manifesta<br />

come l'oggetto delle prime appetizioni naturali (v. T. 42 = Fin. II, 34-35: Contesto).<br />

Nel testo ciceroniano il concetto ha la funzione teorica di spingere il discorso sugli<br />

inizi ad interrogarsi sulle condizioni di possibilità di ogni appetizione. Solo perché<br />

l'animale è appropriato a se stesso esso ha un istinto di appetizione naturale verso<br />

alcuni oggetti piuttosto che altri. Rispetto a questo principio d'ordine del<br />

comportamento animale, il piacere si configura allora come epifenomeno<br />

(e)pige/nnhma), come effetto secondario della dinamica di appropriatezza della<br />

natura, mentre lo sviluppo morale dell'uomo avviene attraverso la progressiva<br />

consapevolezza del contesto d'ordine a cui egli stesso appartiene. Nell'ambito invece<br />

dell'esposizione (antiochea) dell'etica degli antichi, il lessico dell' oi)kei/wsij viene<br />

impiegato, non per descrivere la struttura delle facoltà di appetizione, ma per dare<br />

fondamento alla lista di oggetti in accordo con la natura, che il pieno sviluppo<br />

dell'uomo come agente etico deve continuare a garantire. Il concetto di oi)kei/wsij<br />

risulta fondare quello di 'cura e preservazione delle parti' che, affiancato da una<br />

concezione antropologica bipartita, produce come risultato una formula del telos, in<br />

cui alla virtù vengono affiancati anche gli altri beni rispetto ai quali si esercita<br />

appetizione naturale. La differenza tra gli impieghi nei due contesti può essere<br />

643 Su questa fase della scuola stoica in relazione al concetto di oikeiosis si veda Bees (2004) : l'autore si<br />

confronta con il contenuto del concetto di oikeiwsis a partire dai suoi esiti in Posidonio. Il punto di partenza<br />

del testo di Bees è infatti la lettera 121 di Seneca, nella quale la critica ha da sempre reperito elementi del<br />

pensiero di Posidonio senza riuscire tuttavia a stabilire un metodo pienamente convincente per distinguere le<br />

varie stratificazioni contenutistiche interne al testo senecano. Per la prospettiva adottata da questa ricerca<br />

l'obiettivo del testo di Bees supera l'orizzonte temporale su cui si intende concentrare l'attenzione, ovvero<br />

quello della tradizione più antica del concetto di oikeiosis, anche se non si esclude affatto che l'impiego<br />

poseidoniano del concetto possa aver fornito un incentivo importante per la conciliazione antiochea delle<br />

prospettive stoica e peripatetica.<br />

644 v. T. 39 = Luc. 131-132 : quod ducatur a conciliatione naturae. v. Ioppolo (1980), 154-159, che sulla base<br />

dell'analisi del dibattito tra Zenone e Aristone ritiene di poter affermare che il concetto non faceva parte<br />

dell'arsenale concettuale di Zenone.<br />

433


associata alla differenza che sussiste tra due diversi modelli del discorso etico: l'uno<br />

di tipo 'conformazionista', l'altro invece di tipo 'realizzazionista'.<br />

Come nota già White (1979), l'etica stoica non si basa su un modello<br />

'realizzazionista', ma estrapola dalla natura un concetto d'ordine, consonanza, e<br />

conformità, che la virtù riflette nell'ambito del comportamento dell'uomo, per cui<br />

comportarsi 'secondo la natura' significa comportarsi secondo virtù. Il modello<br />

'realizzazionista' è invece quello che adotta grossomodo Antioco nella sua<br />

interpretazione dell'istanza peripatetica e academica. Il telos della vita dell'uomo è<br />

da questo punto di vista la perfezione degli scopi prefissatesi dalla natura e<br />

rintracciabili nelle sue manifestazioni, ovvero la piena realizzazione delle<br />

potenzialità fisiche e spirituali dell'uomo. Vivere secondo la natura significa dunque<br />

vivere seguendo la direzione dello sviluppo della natura. La diversità tra le due<br />

prospettive non potrebbe essere più profonda, tuttavia non si può negare che<br />

sussistano tra di esse più punti di contatto di quanto questa presentazione sommaria<br />

possa lasciar intendere. Si nota infatti che le due teorie convergono nel porre al<br />

centro le dinamiche naturali di auto-protezione, auto-preservazione, come condizioni<br />

ed effetti dell'istinto primario e anche nel concepire lo sviluppo delle facoltà<br />

razionali dell'uomo, come parte di uno sviluppo naturale. All'interno di entrambi i<br />

modelli la natura e l'arte vengono concepite non secondo l'opposizione binaria<br />

naturale vs artificiale, ma piuttosto in continuità l'una con l'altra: nel modello stoico<br />

la natura, in quanto rivelatrice di un principio d'ordine, è texni/thj, capace di<br />

manifestarsi nel mondo a regola d'arte. Secondo il modello 'realizzazionista' invece<br />

le arti intervengono a prendere le relais del lavoro della natura e l'arte della vita è<br />

tenuta ad imparare dalla natura le direzioni del suo sviluppo. Entrambi questi aspetti<br />

accomunano le due prospettive e le differenziano allo stesso tempo dalle posizioni<br />

assunte dall'epicureismo. A partire da questo tipo di punti di convergenza,<br />

verosimilmente messi in ampio risalto già dalle provocazioni comparative della<br />

dialettica carneadea, Antioco costruiva un discorso etico, capace di far dialogare la<br />

stoa e il peripato su un terreno comune e di edificarvi una soluzione teorica, pensata<br />

ad hoc per risolvere i problemi di incoerenza, identificati dal dibattito ellenistico in<br />

entrambe le posizioni.<br />

La presunta oi)kei/wsij peripatetica presentata da Cicerone e dopo di lui anche da<br />

Ario Didimo, appare dunque come il risultato della ri-costruzione di una posizione<br />

attribuibile alla tradizione vetero-academica e peripatetica, pensata per facilitare il<br />

dialogo con l'istanza stoica. Le affinità lessicali, formali e strutturali, riscontrabili<br />

434


nelle modalità di presentazione del discorso etico degli antichi e degli stoici, non<br />

lasciano molti dubbi sul fatto che Cicerone presenti al suo lettore la dinamica di un<br />

processo di uniformizzazione filosofica tra le due posizioni etiche, il quale si spinge<br />

fin dove possibile nella direzione dell'affinità e della convergenza, facendo però per<br />

quanto possibile attenzione a non falsare o annullare il contenuto specifico di<br />

ognuna. Dietro l'uniformità apparente infatti il testo ciceroniano permette anche di<br />

vedere le differenze, come si evince dal fatto che le forme sostantive del lessico<br />

specifico della conciliatio et commendatio vengono riservate ai contesti in cui si fa<br />

riferimento all'etica stoica, mentre negli altri contesti ci si limita al ricorso al forme<br />

verbali e aggettivali derivative 645 .<br />

Per una analisi storico-filosofica dell'anticipazioni peripatetiche della teoria stoica<br />

dell'oi)kei/wsij è invece opportuno avvalersi dei risultati ottenuti dallo studio di<br />

Brink (1956), secondo il quale i riferimenti contenuti nei testi di Teofrasto non<br />

equivalgono ancora a principi spendibili in ambito etico. Le indagini lessicografiche<br />

non sono infatti sufficientemente probanti per attribuire al Peripato, e a Teofrasto in<br />

particolare, la formulazione del concetto di oi)kei/wsij come perno della riflessione<br />

etica. Il fatto che il concetto abbia una posizione di grande rilievo nel resoconto<br />

dossografico attribuito ad Ario Didimo (Dox. C), può essere spiegato allora in base<br />

alle dinamiche di assimilazione e riformulazione concettuale del lessico avversario,<br />

caratteristiche dei dibattiti intrascolastici del periodo ellenistico. Rimane tuttavia<br />

vero che i testi ciceroniani e quelli ad essi successivi tendono a dare supporto all'idea<br />

che il paradigma dell'osservazione naturale, biologica come botanica, venga esteso<br />

anche all'etica in una fase non meglio precisata della riflessione peripatetica sui<br />

fondamenti del comportamento dell'uomo. Le indagini di Brink (1956) sui testi di<br />

Teofrasto confermano da una parte che l'uso teofrasteo di termini come oi)keio/thj,<br />

non è sufficiente per stabilire una prefigurazione della dottrina stoica dell' oi)kei/wsij<br />

nel peripato, e dall'altra che le riflessioni biologiche di Teofrasto hanno un certo<br />

risvolto su problemi di tipo etico. Teofrasto avrebbe dunque avvicinato l'etica e le<br />

scienze naturali più di quanto non avesse effettivamente fatto Aristotele, senza che<br />

questo determini però un reale allineamento della teoria etica peripatetica con quella<br />

stoica.<br />

Distinguere nettamente l'approccio stoico al naturalismo etico da quello peripatetico<br />

645 v. T. 39 = Luc. 131-132 ; Introduzione pp. xliv-xlv. Per una discussione delle conseguenze filosofiche della<br />

trasposizione in lingua latina del concetto greco, v. v. Hartung (1971), pp. 134-148.<br />

435


ha come effetto collaterale quello di contestare l'impostazione del discorso<br />

ciceroniano, che sulla scia di Antioco, costringeva le due istanze etiche a<br />

confrontarsi su un comune intendimendo dei principi naturali, di fatto molto più<br />

simpatetico rispetto all'impostazione peripatetica che rispetto a quella stoica. Pur<br />

sgretolandosi l'immagine conciliante dell'etica degli antichi proposta da Antioco, si<br />

noterà che l'idea di un rapporto di dialogo e mediazione filosofica tra Polemone e<br />

Zenone non cessa di essere plausibile. Anche se si può verosimilmente escludere che<br />

Polemone abbia fatto da anello di congiungimento nella trasmissione del concetto di<br />

oi)kei/wsij dal peripato allo stoicismo 646 , ciò non significa che non ci possa essere<br />

stato tra il quarto scolarca dell'Academia e il fondatore dello stoicismo un intenso e<br />

fertile dialogo sul concetto di 'vita secondo la natura' e sugli oggetti di appetizione<br />

naturale 647 .<br />

646 Tanto più che rimane problematico trovare traccie sicure dell'uso del concetto di oikeiosis in Zenone, v.<br />

Brink (1956), p. 141-142; White (1979), p. 166 ; Ioppolo (1980), p. 154 ss. nega la possibilità di attribuire a<br />

Zenone la formulazione della teoria. Di diverso avviso Isnardi Parente (1989), p. 2210-2211.<br />

647 già Krämer (1983), p. 160, sostiene che il problema della genesi del concetto stoico di oikeiosis vada distinto<br />

nettamente dal dibattito antico intorno alla vita kata physin.<br />

436


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Résumé<br />

Les témoignages concernant le quatrième scolarque de l'Académie, Polémon l'Athénien, ont été étudiés dans leurs spécificité<br />

réciproque, à fin de tracer une carte des emplois et des usages du nom du philosophe dans la littérature ancienne qui a survécu.<br />

Polémon, donc, est dans cet étude avant tout une figure textuelle, et non pas un philosophe pourvu d'une doctrine systématique<br />

complète. On le rencontre en fait dans la littérature biographique en tant qu'exemple de 'conversion' soudaine au genre de vie<br />

philosophique et incarnation des traits distinctifs du philosophe hellénistique. On découvre ainsi que Polémon est plus pyrrhonien<br />

de Pyrrhon et plus stoïcien du père du stoïcisme, Zénon. Par contre, en relation à la tradition platonicienne, Polémon est rattaché<br />

par les sources à la phase de l'histoire de l’école nommée 'Ancienne Académie'. Ayant réuni autour de soi un groupe de disciples<br />

compact, caractérisé par l'harmonie et la concorde, Polémon est ensuite devenu le symbole d'une réception diligente de la pensée<br />

platonicienne, exempte d’altération ou d'intervention innovatrice. Sa qualité de fidèle héritier doit d'ailleurs se comprendre surtout<br />

en relation aux développements postérieurs de l'instance académicienne, plus spécifiquement en relation au surgissement d'une<br />

approche 'sceptique' à la pensée de Platon, développé par Arcésilas. A posteriori donc les contestataires de la position 'sceptique' de<br />

l’Académie ont essayé de délégitimer la lecture de la pensée de Platon donnée par Arcésilas, tout en affirmant par conséquence le<br />

caractère 'originaire' et 'dogmatique' de la phase d'interprétation de l'Ancienne Académie.<br />

Mots clé : Polémon ; Académie ; Pyrrhon ; Zénon ; tradition platonicienne ; dogmatisme ; scepticisme.<br />

Polemo the Athenian, Head of the Ancient Academy. Testimonies.<br />

The testimonies on the forth head of the Academy, Polemo the Athenian, have been individually studied in order to provide a<br />

complete survey of the several usages of the philosopher's name in the ancient surviving literature. In this study, Polemo is,<br />

therefore, mainly a text figure, rather than a philosopher provided with a full systematic doctrine. We find his name, as a matter of<br />

fact, in the biographic literature, as an example of a sudden 'conversion' to the philosophical life and as an example of the<br />

embodiment of the distinctive features of the Hellenistic philosopher. We discover then that Polemo is even more pyrrhonian than<br />

Pyrrho and more stoic than the Stoicism's father, Zeno. Moreover, within the Platonic tradition, Polemo is linked by the sources to<br />

the phase of the history of the school labelled as 'Ancient Academy'. After assembling around him a compact group of disciples,<br />

characterized by the greatest harmony and agreement, Polemo has become the symbol of a diligent reception of the Platonic<br />

thought, free from any alteration or innovative intervention. His role of faithfull heir must be by all means considered in relation to<br />

the later developments of the Academic instance, more precisely in relation to the rising of a 'sceptic' approach to Plato's thought,<br />

encouraged by Arcesilaus. A posteriori then the critics of the 'sceptic' position have tried to delegitimize Arcesilaus' reading of<br />

Plato, stating by consequence the 'original' and 'dogmatic' character of the interpretative phase of the Ancient Academy.<br />

Key words : Polemo, Academy, Pyrrho, Zeno, Platonic Tradition, Dogmatism, Scepticism.<br />

Discipline : LANGUES et LITTÉRATURES ANCIENNES<br />

École doctorale 1 « Mondes anciens et médiévaux », Maison de la Recherche, 28 rue Serpente 75006 Paris.

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