le inevitabili limitazioni all’affermazione incondizionata dei propri diritti che la convivenza civile richiede: tutto ciò fa crescere il livello di maturazione di una comunità, la rende più vivibile, aumenta in ciascuno il senso di appartenenza e la voglia di “essere con” all’interno di essa, la fa capace di migliori rapporti anche al proprio esterno. Agostino Migone, R/S Servire, 1994, n.1, pp.30-32
Edoardo Lombardi Vallauri mette in guardia i Capi che cercano la loro realizzazione personale solo nello scautismo, al punto da cercare di diventare un mito per i loro ragazzi. Viva il <strong>Capo</strong> che prima di esserlo è uomo o donna felice. Il martirio del capo Non sono pochi i capi che proprio dal servizio educativo attingono le vere gratificazioni della loro esistenza. Nel lavoro non si realizzano, ma negli scout sì. In famiglia non riescono a comunicare, ma in comunità capi sì. Alle feste nessuno li sta ad ascoltare, ma negli scout sì. Nessuno li ammira, ma i loro ragazzi, loro sì che li ammirano. Non avrebbero nessuno a cui confidarsi, ma in clan, in noviziato, in alta squadriglia e talora perfino in reparto è possibile, anzi è giusto giocarsi, condividere le proprie pene e i propri problemi. I ragazzi(ni) ascoltano. Poi ripetono, ne chiacchierano fra di loro. I fatti del capo sono fatti importanti, modestia a parte. Sempre in sede. Conosce uno per uno tutti i bambini di tutte le unità del gruppo. Sa i fatti privati di tutti i capi di tre o quattro gruppi. Tutti i capi della zona e della regione lo conoscono, perché non manca mai di dire la sua in assemblea. Il capo modello. Sa bene che la società segue valori sbagliati, ed è per questo che il suo posto non è là fuori, ma dentro l’associazione. E per questo che fuori non ha successo. Perché l’unico successo che conta è quello negli scout. Ci sono i capi che mettono al primo posto gli esami, le vacanze con la famiglia, gli impegni di lavoro. Fortuna che c’è lui, colonna del gruppo. Lui può sempre. Comunque è bonario e non lo fa pesare esplicitamente. Ognuno ha il suo posto, e non puoi pretendere dagli altri quello che pretendi da te. D’accordo, di capi così non ce ne sono molti. Ma dentro ognuno di noi se ne annida un pezzettino. Ed è meglio tenerlo d’occhio. Ad esempio: il reparto si trova davanti un torrente gonfio di acque e non sa come attraversarlo. Il capo, forte di vecchie esperienze, ha già adocchiato sulla riva il lungo larice seccato da un fulmine. Basterà dargli una spinta e diventerà un ponte perfetto, compresi i rami spogli per aggrapparsi. Sarà un’avventura che tutti ricorderanno. Il capo ora può ascoltare due voci. La prima gli dice: «Ecco un’occasione perfetta per costruire il tuo mito. Tu avrai una trovata geniale, i ragazzi crederanno in te. E non lo farai per vanità: lo farai perché più ti ammirano, più la tua azione educativa può essere incisiva». La seconda voce gli dice: «Non conti tu, ma loro. Se lasci che ci arrivino da soli, l’avventura sarà dieci volte più entusiasmante. E soprattutto impareranno a non aspettare che qualcun altro li tragga d’impaccio. Impareranno che se si guardano intorno e che, se useranno la testa, possono superare qualunque ostacolo». <strong>Un</strong> capoclan o un maestro dei novizi durante un capitolo in cui non si riesce a fare chiarezza: poche parole da <strong>adulto</strong> possono chiarire il problema addirittura consegnarlo bell’e risolto nelle mani dei ragazzi. E i ragazzi diranno: Che capo! che persona eccezionale. E in futuro lo ascolteranno anche di più, avranno ancora più fiducia in lui, si affideranno a lui... invece che a se stessi.