Intervento Avv. Luca Pastrolli - Gruppo ITAS

LA REPSONSABILITA’ DELLE IMPRESE NEL D.LGS. 231/01
Avv. Luca Pastorelli
Premessa
La materia del d. legisl. 231/2001 costituisce un microcosmo
normativo che va a collocarsi a cavaliere tra le discipline del
diritto penale sostanziale, del diritto penale processuale e
del diritto amministrativo.
L’adozione delle regole del processo penale per
l’accertamento della responsabilità, ed i momenti di
deviazione dal paradigma codicistico rituale costituiscono,
assieme, i profili processuali della materia in analisi.

Elementi introduttivi alla disciplina della responsabilità
degli enti
Societas delinquere potest? Accenni al dibattito che ha
caratterizzato la nascita di una forma diretta di responsabilità ex
crimine delle persone giuridiche.
Il decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, intitolato
«[d]isciplina della responsabilità amministrativa delle
persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche
prive di personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della
legge 29 settembre 2000, n. 300», ha istituito, per la prima
volta nel nostro sistema, una responsabilità diretta delle
persone giuridiche per i fatti costituenti reato commessi da
propri dipendenti, amministratori o rappresentanti.
La portata dirompente dell’entrata in vigore del decreto in
parola appare ictu oculi evidente se si considera che detta
fonte normativa ha avuto l’effetto di «relegare d’un colpo il
risalente e consolidato principio societas delinquere non
potest nella soffitta delle categorie concettuali ormai
abbandonate o messe in disuso»1.
Prima dell’entrata in vigore della norma in esame, infatti, a
carico delle persone giuridiche esistevano forme di
responsabilità indiretta, sussidiaria e parametrata a schemi
civilistici2.
1Così, testualmente, A. CADOPPI-G. GARUTI-P. VENEZIANI
Introduzione, in AA. VV., Enti e responsabilità da reato, a cura di
Cadoppi-Garuti-Veneziani, Torino, 2010, p. XXIII.
2 Il riferimento è qui, a titolo esemplificativo, agli artt. 197 c.p. e 6,
comma 3 l. 689/1981. Tali norme erano indirizzate alla creazione di una
forma di responsabilità solidale, identificata in un’obbligazione solidale,

La prassi applicativa e giurisprudenziale ha evidenziato la
scarsa efficacia sul piano general-preventivo, e su quello
della repressione della criminalità di impresa, di una
responsabilità così modellata.
Da un lato, la sussidiarietà (che si rinviene nel testo
dell’articolo 197 c.p., laddove si prevede il pagamento di una
somma da parte della persona giuridica, solamente «in caso
di insolvibilità del condannato») comporta che l’ente si
troverà a rispondere del fatto di reato solo in ultima ratio.
D’altro canto, poi, non si può non sottolineare come, per
avere efficacia deterrente, una sanzione debba colpire la
persona giuridica laddove la sanzione stessa avrà maggior
effetto. E se non è seriamente revocabile in dubbio che la
criminalità di impresa sia mirata a realizzare una
massimizzazione del profitto, attraverso la creazione di
condizioni di distorsione criminosa del mercato, allora si
deve concludere che la sola misura afflittiva capace di avere
effetto deterrente rispetto a tali atti sia quella che annulli gli
effetti conseguenti alla gestione criminosa.
tra le persone giuridiche ed i loro dipendenti, amministratori e
rappresentanti al pagamento di pene e sanzioni amministrative e
pecuniarie. L’art. 197 comma 1 c.p, in particolare (come sostituito ad
opera dell’art. 116 l. 689/1981), dispone che «gli enti forniti di
personalità giuridica, eccettuati lo Stato, le Regioni, le Province e i
comuni, qualora sia pronunciata condanna per reato contro chi ne aveva
la rappresentanza o l’amministrazione, o sia con essi in rapporto di
dipendenza, e si tratti di reato che costituisca violazione degli obblighi
inerenti alla qualità rivestita dal colpevole, ovvero sia commesso
nell’interesse della persona giuridica, sono obbligati al pagamento, in
caso di insolvibilità del condannato, di una somma pari all’ammontare
della multa o dell’ammenda inflitta».

La sanzione deve essere tale da rendere svantaggioso, per
l’impresa, in un’ottica economica basata sul binomio costibenefici
(cfr. intervento Roberto), il porre in essere una
gestione imprenditoriale che porti alla commissione di reati.
La responsabilità configurata dall’articolo 197 c.p. e della
legge 689/1981, ossia quella che è stata sopra definita in
termini di sussidiarietà, non pareva essere in grado di avere
questo tipo di efficacia, andando a colpire in primis l’autore
materiale del reato, e solo in secundis la persona giuridica a
cui il colpevole facesse capo.
Sulla scorta di ciò che già era accaduto in altri Paesi con
sistemi di common law, è stata quindi istituita, anche in
Italia, una responsabilità diretta delle persone giuridiche per
fatti di reato ascrivibili a loro dipendenti.
Si può dire, senza tema di smentite, che è stata la stessa
prassi a domandare – e demandare – risposte al legislatore,
in un processo di poiesi del rito processuale generato non da
costruzioni teoriche e dogmatiche, ma da istanze empiriche.
A tale proposito è interessante sottolineare come la parte
speciale del diritto penale, indicata già mezzo secolo fa
come «l’unico vero (e proprio) diritto penale»3, abbia
contribuito in maniera determinante a «formare» e
connotare in modo del tutto peculiare la parte generale dello
stesso diritto penale, nonché gli istituti processuali. Se poi si
riporta questo discorso alla materia in esame, quella della
responsabilità ex crimine delle persone giuridiche, si deve
3PISAPIA, Introduzione alla parte speciale del diritto penale, Milano,
1948, p. 14.

ammettere che essa è l’esempio più fulgido di questa
«trasfigurazione del volto del rito penale»4 derivante dal
genere di criminalità con cui il rito stesso va ad interagire e
dal correlato milieu di prassi forensi5. Il sistema di
responsabilità delle società per la commissione di reati
assurge, appunto, ad archetipo esemplare di tale fenomeno.
In un siffatto contesto, appare evidente come «le peculiarità
soggettive ed oggettive dei fatti da accertare modellano il
rito secondo modelli originali»6.
La responsabilità delle persone giuridiche prefigurata dal d.
legisl. 8 giugno 2001, n. 231, è dunque il risultato di forze
endogene al diritto penale sostanziale e di spinte esterne
che non potevano non portare al superamento del brocardo
secondo cui societas delinquere non potest.
Tacendo sul fatto che alcuni autori ritengano che l’aver il
legislatore qualificato come «amministrativa» la
responsabilità degli enti, sia sintomo di un distacco dal
brocardo di cui sopra che, in realtà, non ci
4L. LUPARIA, Introduzione, in AA. VV., Diritto penale delle società, a
cura di L. D. Cerqua, Padova, 2009, p. 1121.
5Prassi che rivestono importanza tanto maggiore in quei casi di nuove
realtà fenomeniche a cui il legislatore non abbia ancora fornito risposta.
Cfr., L. LUPARIA, Processo penale e tecnologia informatica, in Diritto
dell’internet, 2008, p. 221.
6E. AMODIO, I reati economici nel prisma dell’accertamento
processuale, in Riv. it. dir. proc. pen, 2008, p. 1499.

sarebbe mai stato7, dobbiamo dire che il principio teorico
soccombe alla prassi delle aule di tribunale ed il modello
canonico del processo, così come prospettato dal codice di
rito, viene plasmato e modellato per renderlo coerente con
quelle che sono le dinamiche economiche e le ragioni di
impresa8.
Il principio teorico nasceva sulla scorta di quelli che sono
argomenti di diritto penale generale, e, in particolare, la
responsabilità delle persone giuridiche per fatti costituenti
reato veniva ad essere esclusa in relazione al disposto
dell’articolo 27 Cost. Si sa che il principio costituzionale
stabilisce che «la responsabilità penale è personale»9, ma a
fronte di una così netta posizione teorica era, altresì, ben
percepita l’incidenza preponderante che le attività
7G. PAOLOZZI, Promiscuità pericolose, in Vademecum per gli enti sotto
processo, Torino, 2006, p. 5., che, a sua volta, richiama G. MARINUCCI,
Relazione di sintesi, in AA. VV., Societas puniri potest. La
responsabilità da reato degli enti collettivi, Atti del convegno di Firenze,
15-16 marzo 2002, Padova, 2003, p. 305.
8Se si vuole un esempio di questa trasfigurazione del rito, basterà
pensare al cosiddetto «contraddittorio anticipato» in tema di misure
cautelari. Il contraccolpo economico e occupazionale dell’applicazione
cautelare di una misura interdittiva, come può essere, in ultima istanza,
l’interdizione dall’esercizio dell’attività di impresa, è risultato da
scongiurare. Ecco che quindi il rito si modifica e il legislatore dispone
che l’adozione della misura possa essere decisa solo dopo l’instaurazione
del contraddittorio tra le parti, e, conseguentemente, l’impresa abbia
avuto modo di fare valere le proprie ragioni. Solo in questa maniera
viene garantito il bilanciamento tra le esigenze di legalità e sicurezza e
le istanze dell’impresa e dei suoi dipendenti al lavoro ed al ritorno
economico.
9Art. 27, comma 1, Cost.

imprenditoriali, svolte con modalità criminose, stavano
assumendo; accompagnata dalla consapevolezza
dell’inadeguatezza degli strumenti predisposti
dall’ordinamento per colpire la criminalità di impresa.
Diverse dottrine tentarono di giustificare una responsabilità
penale d’impresa, per riuscire a renderla coerente (o,
almeno, non in contrasto) con l’articolo 27 della Carta
fondamentale.
In particolare l’ostacolo consisteva nel poter configurare una
responsabilità della società, soggetto giuridico autonomo,
per il reato del dipendente, e quindi per fatto altrui.
Nemmeno la teoria organicistica, secondo cui vi sarebbe una
sorta di immedesimazione (organica, per l’appunto) tra la
società ed il suo amministratore era in grado, da sola, di
definire i confini di una responsabilità penale delle persone
giuridiche ex crimine del dipendente.
A fronte di queste perplessità teoriche, l’importanza
crescente della criminalità economica ha spinto il legislatore
a ripensare i modelli sanzionatori, tradizionalmente
strutturati per punire esclusivamente le persone fisiche, per
fare in modo che essi potessero attagliarsi agli enti.
Si è giunti infine, con il decreto 231/2001, ad ammettere
che non solo le persone fisiche, ma pure le societates,
possano delinquere. Forse si poteva fare di più in questo
senso, atteso che la responsabilità a cui sono sottoposte le
persone giuridiche è, ancora, formalmente, definita
«amministrativa», ma non si può negare che, utilizzando il
modello del processo penale per punire gli illeciti degli enti,

si sia posto rimedio a quella che era una carenza quasi
strutturale del nostro sistema giuridico.
Natura giuridica della responsabilità.
La responsabilità, formalmente dichiarata dal legislatore
delegato, non senza una certa dose di prudenza,
amministrativa, si innesta su quelle che sono le norme del
diritto processuale penale. È lo stesso d. legisl. 231/2001,
all’art. 34, a prevedere che l’accertamento della
responsabilità delle persone giuridiche per illeciti
amministrativi dipendenti da reato debba avvenire
nell’osservanza delle norme del capo III dello stesso
decreto, nonché «secondo le disposizioni del codice di
procedura penale e del decreto legislativo 28 luglio 1989 n.
271».
E quindi, se il modello processuale è improntato agli schemi
ed alle norme del codice di procedura penale (con tutte le
differenze e tutti gli istituti peculiari di cui necessita un
modello processuale i cui soggetti non sono persone fisiche,
ma giuridiche);
se le sanzioni sono quelle proprie del diritto penale (le
sanzioni interdittive, previste dalla lettera b) dell’art. 9 d.
legisl. 8 giugno 2001, n. 231, non sono altro che le sanzioni
accessorie previste nel codice penale);
se la fonte normativa di riferimento (il d. legisl. 8 giugno
2001, n. 231) presenta norme di coordinamento che
rendono applicabili alle societates le disposizioni relative

all’imputato10 e lasciano che il processo sia regolato dalle
norme del codice di rito;
se vi è uno specifico articolo del d. legisl. 231/2001, il 38,
che, disponendo che «[i]l procedimento per illecito
amministrativo dell’ente è riunito al procedimento penale
instaurato nei confronti dell’autore del reato da cui l’illecito
dipende» sancisce, quale regola generale, quella del
simultaneus processus;
se il giudice che deciderà sull’accertamento delle
responsabilità dell’ente è un giudice penale11;
ed infine, se la stessa Relazione al decreto legislativo 8
giugno 2001, n. 231, si premura di chiarire che, nonostante
si tratti di una responsabilità amministrativa, «occorre
disporre di tutti i necessari strumenti di accertamento di cui
è provvisto il procedimento penale, nettamente più incisivi e
penetranti rispetto all’arsenale di poteri istruttori
contemplato nella legge 698/1981» e che è «necessario
prefigurare un sistema di garanzie molto più efficace rispetto
a quello, per vero scarno, della legge 689», possiamo
ancora parlare di una responsabilità «amministrativa» delle
persone giuridiche per illeciti dipendenti da reato?
La questione è dibattuta ed è di non poco momento,
considerato che una risposta netta costituirebbe una chiave
di lettura non solo degli istituti che verranno analizzati nel
10Art. 35 d. legisl. 8 giugno 2001, n. 231.
11Art. 36 d. legisl. 8 giugno 2001, n. 231 che così recita, al primo comma:
«[l]a competenza a conoscere gli illeciti amministrativi dell’ente
appartiene al giudice penale competente per i reati dai quali gli stessi
dipendono».

prosieguo di questo elaborato, e che ne costituiranno il
fulcro, ma anche di tutto l’impianto normativo prefigurato
dal decreto.
Invero, dapprincipio, qualcuno aveva sostenuto l’irrilevanza
del dibattito sulla questione, dato che il decreto ambisce ad
essere un microsistema totalmente autosufficiente, dotato di
una parte generale che «avrebbe dovuto, in linea di
massima, assicurarne la tenuta»12.
Basti però pensare alle problematiche che si presentano al
momento di applicazione della legge (come quella della
possibilità per la parte civile di costituirsi), o ai principi su
cui dovrà basarsi la Corte Costituzionale per decidere su
eventuali questioni di legittimità, per rendersi conto che
occorre fornire un’interpretazione della responsabilità delle
persone giuridiche che non trascuri una definizione in
12Così O. DI GIOVINE, Lineamenti sostanziali del nuovo illecito
punitivo, in AA. VV., Reati e responsabilità degli enti, a cura di Giorgio
Lattanzi, II edizione, Milano, 2010, p. 10. Tra gli autori che hanno
sostenuto l’irrilevanza di un dibattito sulla natura della responsabilità
si ricorda A. ALESSANDRI, Riflessioni penalistiche sulla nuova
disciplina, in AA. VV., Alessandri-Belluta-Bricchetti, ed altri, La
responsabilità amministrativa degli enti, Milano, 2002, p. 45 ss. L’A.
liquida la «discussione sulle etichette» affermando che, non essendo
pienamente giustificabile una definizione della responsabilità nell’uno o
nell’altro senso a causa dei forti «elementi devianti» rispetto a qualsiasi
paradigma penale o amministrativo, e non volendosi fornire una
soluzione in termini di tertium genus, «si potrebbe allora concludere che
[ … ] la responsabilità degli enti non ha bisogno né reclama
qualificazioni, come rilevano i componenti della Commissione Grosso: si
tratta di una responsabilità punitiva, che sorge in ambiente penalistico,
per esigenze di miglior tutela dei beni giuridici, ma non assume lo
schema penalistico».

termini penali o amministrativi, (ma, comunque sia, netti)
della stessa.
Quali sono le soluzioni prospettate dalla dottrina che si è
occupata della questione? Vi è chi, naturalmente, propende
per la natura amministrativa della responsabilità, come vi è
chi la definisce in termini di responsabilità penale e chi vi
identifica un tertium genus di responsabilità.
Si faccia riferimento, in primis, alla littera legislatoris. Nella
Relazione al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, al
secondo paragrafo dell’introduzione, intitolato La natura
giuridica della responsabilità, viene affermata, in senso
chiaro e preciso, la nascita di un tertium genus di
responsabilità, che «coniuga i tratti essenziali del sistema
penale e di quello amministrativo nel tentativo di
contemperare le ragioni dell’efficacia preventiva con quelle,
ancor più ineludibili, della massima garanzia». Una soluzione
che ha sicuramente il merito di rispettare il dettato
costituzionale, ma pone numerose incertezze interpretative.
Vi è però un punto da chiarire. La Relazione qualifica in
questo modo la responsabilità delle persone giuridiche solo
dopo aver affermato che «non si sarebbero incontrate
insuperabili controindicazioni alla creazione di un sistema di
vera e propria responsabilità penale degli enti», e che sul
punto può dirsi superata l’antica obiezione legata al

presunto sbarramento dell’art. 27 Cost. Inoltre, la scelta del
legislatore di qualificare in termini amministrativi la nuova
forma di responsabilità viene definita «prudente» con ciò a
significare che, nonostante gli elementi «devianti» di cui
sopra, la responsabilità delle persone giuridiche è
fortemente connotata da lineamenti penalistici.
Se la Relazione, stando alle conclusioni che trae, si pone per
la tesi di una nuova ed inedita forma di responsabilità, ed
anche autori di primissimo piano mostrano di condividere la
soluzione adottata13, non vanno sottovalutate le altre due
opzioni che si sono considerate, ossia che possa trattarsi di
una responsabilità prevalentemente amministrativa o
prevalentemente penale.
A sostegno della tesi che sceglie di definire la responsabilità
in termini amministrativi vi sono ragioni non secondarie.
Basti considerare il nomen assegnatole dal provvedimento
ed il titolo del capo primo dello stesso, che fanno richiamo
alla responsabilità degli enti espressamente qualificandola
come amministrativa.
Quanto poi alla disciplina processuale, non si può non
evidenziare quanto essa si ponga, a volte, in termini
fortemente distonici rispetto al canonico rito del codice di
procedura penale. In materia di archiviazione, ad esempio,
13Per tutti, F. CORDERO, Processo penale amministrativo, in
Procedura penale, VIII edizione, Milano, 2006, p. 1347. L’A. apre la
trattazione sull’argomento con le parole «sta nascendo un ibrido»,
mostrando, se non di condividere la tesi della nascita di un tertium
genus, quantomeno di non poter aderire a nessuna delle altre due
soluzioni possibili.

la decisione sulla stessa viene lasciata nella più completa
potestà del Pubblico Ministero.
Detto questo non si può tacere che l’illecito amministrativo è
modellato su quello penale, e che le discrasie tra i due riti,
ordinario e penale-amministrativo, non giustificano una
diversità sul piano ontologico.
Ciò che per lo più stride con una seria aspirazione garantista
è la disciplina delle vicende modificative dell’ente, pervasa
da logiche di stampo civilistico. Ad esempio, in caso di
fusione, è previsto che «l’ente che ne risulta risponde dei
reati dei quali erano responsabili gli
enti partecipanti alla fusione»14. È evidente la lontananza di
questa disposizione rispetto alla personalità della
responsabilità penale.
La tesi che ravvisa nel d. legisl. 231/2001 l’istituzione di una
vera e propria forma di responsabilità penale delle persone
giuridiche possiede un ben maggior numero di frecce nella
sua faretra.
Si consideri in primis che per contestare l’asserzione che la
legge parli di responsabilità «amministrativa» per dare una
definizione sul piano ontologico della stessa, basta
evidenziare che, se il legislatore si fosse espresso in termini
penali, sarebbe sicuramente finito in contrasto col disposto
dell’articolo 27 Cost. (pur, in ultima istanza, superato, come
abbiamo avuto modo di capire più sopra). La scelta, in
questo caso, è quindi probabilmente solo lessicale, nonché
14Art. 29 d. legisl. 231/2001.

d’opportunità15, e non prefigura una dichiarazione di intenti
o una qualsiasi presa di posizione dogmatica.
In secundis, si ricorda che a favore della natura penale della
responsabilità militano argomenti stringenti di carattere
logico e sistematico.
Dal primo punto di vista ci si chiede quale altra
responsabilità possa essere quella «dipendente da reato».
Sembra coerente ritenere che da un fatto costituente reato
discenda una responsabilità penale.
Dal secondo punto di vista vi sono evidenti scelte del
legislatore che mal si concilierebbero con una responsabilità
del tutto amministrativa. Stiamo parlando della competenza,
devoluta al giudice penale, del provvedimento finale del
processo, che assume la forma della
sentenza, del sistema sanzionatorio, per citare alcune tra le
principali aderenze al modello penale16.
15R. RODORF, Prime e sparse riflessioni sulla responsabilità
amministrativa degli enti collettivi per reati commessi nel loro interesse
o a loro vantaggio, in Alessandri-Belluta-Bricchetti, cit., p. 10, parla di
un «tributo alla tradizionale concezione secondo cui la responsabilità
penale non potrebbe che essere individualmente imputabile […], tributo
certo assai più formale che sostanziale».
16«Poiché la responsabilità dipende da un reato, soggiace allo stigma
tipico di un giudizio penale, sfocia in una sanzione punitiva di contenuto
omologo a quello di una sanzione penale, è difficile non attribuirle una
natura sostanzialmente penale». T. PADOVANI, Il reato in generale, in
Diritto penale, Milano, 2002, p. 86. Non confuta l’argomento neppure
l’osservazione che dal reato possono derivare conseguenze non solo
penali ma anche, ad esempio, civili, atteso che qui non si tratta di
qualificare in due modi diversi lo stesso fatto, ma di una vera e propria
responsabilità autonoma delle persona giuridiche.

Naturalmente molti altri aspetti della disciplina sono
riconducibili all’ambito penale, ma non staremo qui ad
enumerarli, per esigenze di speditezza.
Quello che preme a chi scrive, in questo frangente, è di
effettuare una scelta rispetto alle tre posizioni prospettate.
Una scelta in un senso o nell’altro andrà a condizionare
l’intera trattazione degli argomenti dell’elaborato,
riverberandosi (come detto in apertura di paragrafo)
sull’analisi degli istituti che entreranno via via in gioco.
L’optare per la posizione che ravvisa, nella responsabilità
delineata dal d. legisl. 231/2001, una responsabilità penale
mi pare soluzione corretta.
Le ragioni a favore di questa scelta sono riassumibili nella
considerazione che, al di là del dato testuale (che, pur non
essendo l’ultimo dei criteri di interpretazione, può comunque
essere fuorviato a proprio piacere da un legislatore che,
«nell’universo deontico […] è onnipotente»17), la procedura
prospettata dal decreto è modellata su quella del processo
penale, la responsabilità è direttamente «dipendente da
reato» e i principi caratterizzanti la nuova responsabilità
sono quelli vigenti in materia penale.
La disciplina è intrisa di concetti e paradigmi di chiara
derivazione penalistica e processual-penalistica. Basti
pensare al carattere particolarmente afflittivo del sistema
sanzionatorio, alla volontà di enfatizzare il carattere generalpreventivo
della nuova forma di responsabilità, ed alla
17F. CORDERO, Processo penale amministrativo, in Procedura penale,
cit., p. 1347.

funzione (si potrebbe dire) rieducativa della pena, laddove si
incentiva l’adozione di canoni di legalità per la «ridefinizione
dell’assetto organizzativo», che consentano, in radice, il
superamento del rischio-reato, nonché alla predisposizione
di norme di coordinamento che demandano l’integrazione al
dettato del codice di procedura penale, «con l’obiettivo
evidente di saldare due espressioni della giurisdizione
penale ordinaria, le cui uniche differenze dovrebbero
derivare dalla peculiare realtà dell’ente-imputato»18 (artt.
34 e 35 del decreto).
Questi sono i punti cardine su cui si basa la responsabilità
delle persone giuridiche per illeciti amministrativi dipendenti
da reato.
Infine (o, come si sarebbe tentati di dire, dulcis in fundo),
particolare attenzione merita la circostanza che tutta la
disciplina del decreto si sviluppi sotto l’egida di quelli che
sono i principi generali inderogabili accordati alla materia
penale, il principio di legalità e di successione di leggi nel
tempo, riaffermati dagli articoli 2 e 3 del d. legisl. 231/2001.
Non pare dunque seriamente escludibile, anche a voler
evocare le numerose, e per il vero ampie, discrasie dal
modello penale ordinario, che la responsabilità a cui ci si
trova davanti sia di carattere penale a tutti gli effetti. La
stessa Relazione al decreto afferma la sua natura di tertium
genus solo dopo aver premesso che «non si sarebbero
incontrate insuperabili contraddizioni alla creazione di un
sistema di vera e propria responsabilità penale degli enti». Il
18G. PAOLOZZI, Promiscuità pericolose, in Vademecum, cit., p. 8.

legislatore pare rendersi conto della potenza innovatrice del
proprio disegno normativo e si premura di saldare i conti
con la tradizione19 offrendo, in cambio dell’aver stabilito che
societas delinquere (et puniri) potest, un contraltare, il
quale sta tutto nell’aver definito la responsabilità degli enti
come amministrativa.
Nei fatti, per concludere, le spinte endogene e quel milieu di
prassi forensi che hanno portato all’adozione di questa
regolamentazione, hanno anche provveduto a fare in modo
che la responsabilità delle persone giuridiche fosse di
stampo penale. E se lo stesso legislatore ha ritenuto che si
dovesse approntare un sistema che presentasse un forte
garantismo per le societates sotto processo, assieme ad una
spiccata matrice punitiva (quando si parla di sanzioni per
quota, ancorché esse non siano sanzioni tipicamente penali,
è ovvio che, de facto, possono portare alla chiusura
dell’attività, afflizione paragonabile ad una sorta di «pena
capitale» per l’ente collettivo), ebbene, tale sistema non può
che essere quello penale.
Un substrato normativo peculiare: pochi accenni ai principi
generali in materia e alle norme di coordinamento con il
codice di procedura penale.
Credo possa essere utile fare un breve riepilogo di quella che è la
disciplina della responsabilità degli enti, almeno per ciò che
concerne le norme di portata generale.
19Ancora R. RODORF, Prime e sparse riflessioni, in Alessandri-Belluta-
Bricchetti, cit., p. 10.

Sarà infatti utile, nel proseguo della trattazione, avere ben
presenti le differenze e le analogie con quanto previsto dalle
disposizioni codicistiche. Si cercherà quindi di riassumere
brevemente il contenuto delle norme «portanti» del decreto
legislativo 231/2001, con particolare attenzione a quelle che sono
le maggiori discrasie rispetto all’impianto del codice di procedura
penale, in modo da delineare per sommi capi il modello di
responsabilità delle persone giuridiche.
Appare evidente, al primo contatto con la normativa sulla
responsabilità delle persone giuridiche, che tutta la disciplina
contenuta
nel decreto deve fare i conti con peculiarità del tutto marcate. A
tal proposito va evidenziato subito come detta disciplina si
applichi agli «enti forniti di personalità giuridica, e alle società e
associazioni anche prive di personalità giuridica» (art. 1, comma
2, d. legisl. 231/2001) e come, affinché sia possibile attribuire
l’illecito all’ente, lo stesso debba essere stato commesso nel suo
interesse o nel suo vantaggio. Quest’ultimo requisito oggettivo,
richiamato dall’art. 5, comma 1, d. legisl. 231/2001, assumerà
particolare rilevanza nel momento in cui il Pubblico Ministero
dovrà operare la contestazione dell’illecito. Essa infatti, come
vedremo, deve contenere l’indicazione del fatto che può
comportare l’applicazione delle sanzioni «in forma chiara e
precisa» (art. 59, comma 1,), ossia con l’enunciazione dei criteri
di imputazione previsti agli articoli 5, 6 e 7 d. legisl. 231/2001.
Essi sono, appunto, l’essere stato commesso il reato presupposto
nell’interesse o per il vantaggio della società, e l’essere stato
commesso il reato da persone che, al momento della
commissione del fatto, fossero dipendenti dell’ente (criterio
soggettivo).

A seconda, poi, che a commettere il fatto sia stato un dipendente
in posizione apicale o in posizione subordinata, i criteri di
imputazione differiscono ulteriormente. Nel primo caso, infatti,
l’art. 6 stabilisce una presunzione di colpa nei confronti dell’ente,
che non risponderà solo se proverà che, prima della commissione
del reato, erano stati adottati, ed efficacemente attuati, modelli
organizzativi e di gestione idonei a prevenire reati della stessa
specie, che era stato creato un organismo di vigilanza
sull’osservanza di tali modelli e che gli autori materiali del reato
hanno eluso fraudolentemente i modelli di cui sopra senza che
fosse carente la vigilanza dell’organo di controllo.
Se, invece, il reato presupposto è commesso da soggetti in
posizione subordinata, pur non prevedendosi nessuna
presunzione di colpevolezza, l’ente risponderà se sia
«responsabile dell’inosservanza degli obblighi di direzione o
vigilanza» (art. 7, comma 1, d. legisl. 231/2001). Anche in questo
caso, l’adozione e l’attuazione di un
modello di gestione organizzativa esonera l’ente dalla
responsabilità per il reato presupposto.
Questi criteri di imputazione sono estremamente rilevanti, non
solo perché costituiscono un unicum nel panorama processualpenalistico,
ma anche perché, in sede di contestazione dell’illecito,
saranno proprio essi a dare sostanza e corpo all’imputazione. La
concretezza della contestazione del Pubblico Ministero si rinviene
nel momento in cui, attraverso l’indicazione «in forma chiara e
precisa» del fatto, l’organo requirente esponga i motivi per cui
ritiene sussistenti i criteri di imputazione.
In questo modo all’ente è data la possibilità di esercitare in
maniera completa il proprio diritto di difesa.
Se il Pubblico Ministero non introducesse nella contestazione, che,
come si premura di spiegare la Relazione al decreto, svolge la

stessa funzione dell’imputazione («addebitare ad un soggetto
collettivo un illecito amministrativo a struttura complessa con lo
scopo di definire l’oggetto del processo, delimitando i confini
dell’accertamento del giudice, e di mettere in grado l’ente di
esercitare il diritto di difesa»20), i criteri di imputazione regolati
dagli artt. 5, 6 e 7 d. legisl 231/2001, verrebbe a crollare come
un castello di sabbia tutta la costruzione teorica che sta alla base
del decreto e di cui abbiamo parlato in apertura dell’elaborato.
Come sarebbe infatti possibile prefigurare un sistema che
presentasse non solo i profili sanzionatori del processo penale, ma
anche tutte le sue maggiori garanzie, se non si ammettesse l’ente
ad esercitare il proprio diritto di difesa?
Questo è un profilo di grande interesse, che merita di essere
analizzato in sede di esame dell’istituto della contestazione
dell’illecito all’ente.
Ritornando al d. legisl. 231/2001, particolare attenzione merita
anche la disposizione dell’articolo 8, che prevede l’autonomia
della responsabilità dell’ente. La commissione di un reato
presupposto è
«tipica pregiudiziale»21, ma non è richiesta una condanna penale
come presupposto indefettibile in ordine all’accertamento della
responsabilità della persona giuridica. Il cumulo processuale, che
si realizza attraverso la regola del simultaneus processus
(previsto dall’art. 38, comma 1, d. legisl. 231/2001), non è
cumulo necessario nei casi in cui il reo sia ignoto o non
20Relazione al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, § 18, Indagini
preliminari e udienza preliminare, in Cadoppi-Garuti-Veneziani, cit., p.
49.
21F. CORDERO, Processo penale amministrativo, in Procedura penale,
cit., p. 1348.

imputabile, o il reato fosse estinto per causa diversa dall’amnistia
(salvo che l’ente non vi abbia rinunciato).
Per quanto poi riguarda le disposizioni più spiccatamente
processuali, tacendo sulle sezioni II e III del capo I del decreto,
riguardanti le sanzioni (materia amministrativa) e il diritto penale
sostanziale speciale applicabile alle persone giuridiche, che
svelano profili di grande interesse ma che poco hanno a che fare
con l’oggetto di questo lavoro, veniamo subito all’esame degli
articoli 34, 35 e 36 d. legisl. 231/2001.
Sono disposizioni di estrema importanza per la loro portata
generale e per il fatto che stabiliscono il coordinamento con la
disciplina codicistica.
L’art. 34 d. legisl. 231/2001 stabilisce che, nel procedimento nei
confronti degli enti, si applicano, oltre alle disposizioni del capo III
del decreto stesso, le norme del codice di procedura penale, in
quanto compatibili. Questa previsione è una diretta emanazione
dell’art. 11 primo comma, lett. q) della legge delega22, che
richiedeva al legislatore l’adozione di una tale norma di
coordinamento al fine di assicurare «l’effettiva partecipazione e
difesa degli enti nelle diverse fasi del processo penale»23.
L’articolo 34 spiega una duplice funzione: contribuire ad una
corretta qualificazione della responsabilità delle persone giuridiche
22H. BELLUTA, sub art. 34, in AA. VV. La responsabilità degli enti.
Commento articolo per articolo al d.lgs. 8 giugno 2001, n.231, a cura di
A. Presutti, A. Bernasconi e C. Fiorio, Padova, 2008, p. 349.
23Testualmente, l’art. 11 comma 1 lett. q) l. 300/2000 recita: «prevedere
che le sanzioni amministrative a carico degli enti sono applicate dal
giudice competente a conoscere del reato e che per il procedimento di
accertamento della responsabilità si applicano, in quanto compatibili, le
disposizioni del codice di procedura penale, assicurando l’effettiva
partecipazione e difesa degli enti nelle diverse fasi del procedimento
penale».

e stabilire una gerarchia di fonti normative per la disciplina del
processo de societate.
Se si è visto che sotto il primo profilo non vi è convergenza
all’interno della dottrina, ma è comunque innegabile che una
previsione di coordinamento sistematico come l’articolo 34
trasfonda tutto quel complesso di principi e regole cardine del
processo penale all’interno del processo alle persone giuridiche.
Sotto il secondo profilo, ossia in tema di gerarchia delle fonti,
ancorché la legge delega individuasse nel codice di procedura
penale la fonte normativa di riferimento, il legislatore delegato ha
ribaltato le priorità, assegnando la prevalenza alle norme del
decreto stesso. Anche a tacere delle perplessità che suscita tale
operazione sul versante della legittimità costituzionale24 (sarebbe
forse ipotizzabile un contrasto con gli artt. 76 e 77 Cost. per
violazione di delega), tesi da alcuni - ed a ragione, a parere di chi
scrive - ritenuta «eccessivamente drammatica»25, non possiamo
esimerci dall’osservare come, in ultima istanza, il legislatore
delegato abbia optato per la creazione di un vero e proprio
«microsistema sostanziale» e processuale, che, solo in maniera
sussidiaria, si avvale delle norme che regolano il rito ordinario.
24Lo rileva A. GIARDA, Aspetti problematici del provvedimento di
accertamento delle sanzioni amministrative, in Responsabilità degli enti
per reati commessi nel loro interesse, in Cass. Pen. 03, supplemento al
fascicolo VI, 2003, p. 113, il quale parla di «rovesciamento delle fonti
normative».
25G. PAOLOZZI, La sagomatura del processo agli enti: scelte di sistema,
in Vademecum, cit., p. 99. L’A. afferma che una simile conclusione in
termini di incostituzionalità appare «eccessivamente drammatica,
specie considerando che l’ente non subisce pregiudizi in conseguenza
della riscontrata inversione di fonti normative. Alla persona giuridica
infatti, vengono accordate garanzie pienamente idonee a fronteggiare
l’accertamento svolto nei suoi confronti da un giudice che, a tal fine, si
avvale dei poteri conferitigli dal codice di procedura penale»

peraltro tenuto presente che risulta preclusa qualsiasi forma di
«antropomorfizzazione» dell’ente, applicandosi ad esso solo le
norme che riguardano l’imputato come «soggetto» del processo,
dotato di doveri, diritti, poteri e oneri, ma non quelle concernenti
l’imputato come persona fisica.
La cognizione, ex art. 36 d. legisl. 231/2001, spetta al giudice che
procede per il reato presupposto. Ciò anche qualora manchi un
imputato: «caso anomalo ma possibile; ad esempio, se l’autore
del fatto fosse ignoto»27. Come si è avuto modo di vedere,
l’attribuzione della competenza al giudice penale della questione
inerente la responsabilità dell’ente, è scelta coerente con
l’impostazione del nuovo rito, che sposta l’attenzione su quelli che
sono gli stilemi e le pratiche tipiche del processo penale.
L’attribuzione della competenza al giudice penale è stata anche
indicata come uno degli indici che portano a ritenere che il nuovo
modello di responsabilità delle societates sia di carattere penale.
E ciò è ancor più vero se si pensa che l’art. 38 del decreto, nel
disporre che il procedimento per l’illecito amministrativo dell’ente
«è riunito al procedimento penale instaurato nei confronti
dell’autore del reato da cui l’illecito dipende» sancisce, quale
regola generale quella del simultaneus processus. Sono previsti
tre casi28, da
27F. CORDERO, Processo penale amministrativo, in Procedura penale,
cit., p. 1350.
28L’art. 38 comma 2 d. legisl. 231/2001 così recita: «[s]i procede
separatamente per l’illecito amministrativo dell’ente solo quando:
a) è stata ordinata la sospensione del procedimento ai sensi dell’articolo
71 del codice di procedura penale;
b) il procedimento è stato definito con giudizio abbreviato o con
l’applicazione della pena ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura
penale, ovvero è stato emesso il decreto penale di condanna;
c) l’osservanza delle disposizioni processuali lo rende necessario».

non considerarsi tassativi (grazie alla clausola di chiusura29 che
prevede che le due vicende non siano riunite quando
«l’osservanza delle disposizioni processuali lo rende
necessario»30) in cui il cumulo giuridico non è necessario. In
questi frangenti il giudice che decide sulla responsabilità dell’ente
risolve incidenter tantum la questione penalistica.
È da notare come la riunione di procedimenti sia disposta anche
in assenza delle condizioni di cui all’art. 17 c.p.p., e che il giudice
non debba verificare che la riunione non determini un ritardo nella
definizione degli stessi procedimenti31. L’aver disposto che si
abbia simultaneus processus anche se questo può ostacolare la
rapida
29Clausola che rischia di «diventare rifugio per tutte quelle situazioni
processuali che, per qualsiasi motive tendono a sganciare il
procedimento di accertamento dell’illecito amministrativo dal
procedimento penale». Così G. GARUTI, voce Responsabilità delle
persone giuridiche giuridiche (profili processuali) in Enc. Giur. Treccani,
Agg., XI, Roma, 2003, p. 2.. Ed in effetti non si può negare che la regola
aurea della riunione dei procedimenti sia alquanto temperata da una
previsione di tal fatta, che rischierebbe di andare a coprire spazi di
«autentica discrezionalità circa la decisione di separare i processi»
(espressione di S. CASSIBBA, sub art. 18 c.p.p., in AA. VV., Codice di
procedura penale commentato, III edizione, a cura di A. Giarda-G.
Spangher, Milano, 2007, p. 141) tali e quali quelli prospettati dall’art.
18 c.p.p. La soluzione ragionevole e probabilmente migliore è quella di
intendere applicabile la clausola in questione solo a quelle situazioni che
presentino caratteri di eccezionalità, e che siano caratterizzate dalla
necessità di non violare disposizioni processuali (ancora una volta G.
GARUTI, voce Responsabilità delle persone giuridiche, cit., p. 2).
30Art. 38 comma 2 lett. c) d. legisl. 231/2001.
31L’art. 17 comma 1 c.p.p. prevede che la riunione sia disposta «quando
non determini un ritardo nella definizione degli stessi» procedimenti, in
alcune ipotesi. Precisamente si avrà riunione nei casi previsti dall’art.
12 c.p.p. e nei casi previsti dall’art. 371, comma 2, lett. b) c.p.p.

definizione dei processi, è ritenuto, da alcuni Autori32, indice del
fatto che il legislatore, più che ad esigenze di economia
processuale, abbia dato peso alle istanze di completezza e
correttezza dell’accertamento.
Il cumulo giuridico rimane necessario nei casi di improcedibilità
dell’azione penale (art. 37 d. legisl. 231/2001), dove anche
l’azione nei confronti dell’ente non può essere proseguita. Sono le
situazioni in cui, nei confronti della persona fisica autrice del reato
presupposto, manca una condizione di procedibilità. Anche se è
lecito dire che sono poche le fattispecie delittuose contemplate
nella parte penale speciale del decreto 231/2001 che richiedano
una condizione di procedibilità33, va segnalato che in questi casi
si assiste ad un forte temperamento del principio di autonomia
della responsabilità dell’ente, sancito all’art. 8 d. legisl. 231/2001,
di cui si è accennato più sopra.
Evoluzione e prospettive del rischio penale di impresa – la
recente giurisprudenza dei Giudici di merito
A tacere della clamorosa sentenza ThyssenKrupp, che ha definito
nuovi standard di imputazione per i soggetti responsabili del reato
di omicidio commesso con violazione della normativa sulla salute
e la sicurezza nei luoghi di lavoro (e se ne tace perchè il delitto di
omicidio volontario non è – ancora – previsto come reato
presupposto della responsabilità di impresa), può ben dirsi che, in
particolar modo per ciò che concerne i delitti colposi p.e p.
dall'art. 25 septies d. legisl. 231/2001, si è assistito, negli ultimi
32E’ di tale avviso G. GARUTI, voce Responsabilità delle persone giuridiche,
cit., p. 2.
33Oltre al reato di frode informatica non aggravata (art. 640 ter comma
1 e 3 c.p.) solamente alcune fattispecie in materia societaria.

anni, ad una evoluzione dell'elaborazione dottrinale e
giurisprudenziale concernente l'imputazione alla società di un
reato commesso con violazione delle norme sulla salute e sulla
sicurezza nei luoghi di lavoro.
Perché considerare questo nucleo di fattispecie così
specificatamente?
Per il semplice motivo che l'introduzione di reati colposi in un
sistema legislativo improntato alla sanzione dei reati tipicamente
dolosi (vedansi le fattispecie di corruzione e concussione, reati
presupposto dell'originario impianto normativo) ha comportato
numerosi problemi interpretativi e applicativi.
Senza, peraltro, contare che le fattispecie di omicidio e lesioni
gravi e gravissime commesse con violazione delle norme sulla
sicurezza e sulla salute nei luoghi di lavoro sono, in particolar
modo nell'ambito del tessuto manifatturiero modenese,
statisticamente alcune tra le fattispecie di reato maggiormente
contestate.
La questione giurisprudenziale è stata quella di capire in cosa
individuare i requisiti del vantaggio e dell'interesse dell'ente.
Il problema dell'introduzione di reati colposi tra i reati
presupposto, risulta essere stato affrontato in giurisprudenza,
solamente dal Tribunale di Trani (sez. dist. di Molfetta) nella
sentenza dell'11.1.2010, in relazione al tragico caso “Truck Center
s.a.s.”, nonché, recentemente, da una sentenza del Tribunale di
Pinerolo (Trib. Pinerolo, 23.09.2010).
Il Tribunale di Trani, in particolare, si era allora espresso
considerando compatibile il criterio dell'interesse o vantaggio con
il reato di omicidio colposo commesso con violazione della
normativa antinfortunistica, ritenendo che la sussistenza
dell'interesse o vantaggio dell'ente si debba accertare in relazione
alla condotta colposa, e non all'evento verificatosi, argomentando

essenzialmente sulla base del c.d. “principio di conservazione”,
secondo il quale, ove possibile, ogni disposizione normativa deve
essere interpretata nel senso in cui abbia una possibilità
applicativa piuttosto che in quello in cui non ne abbia alcuna.
Una recente e determinante pronuncia del tribunale di Novara,
datata 1.10.2010 riprende tale impostazione, giungendo ad
analoghe conclusioni. Il Gup di Novara, infatti, osserva che
“l'interesse o vantaggio può essere correlato anche [ai] reati
colposi [d'evento], rapportando i due criteri non all'evento
delittuoso, bensì alla condotta violativa di regole cautelari che ha
reso possibile la consumazione del delitto”. L'evento, aggiunge il
giudice, deve essere ascritto all'ente “per il fatto stesso di
derivare dalla violazione di regole cautelari”.
Il ragionamento seguito in motivazione prende avvio
dall'osservazione per cui “non c'è dubbio che solo la violazione
delle regole cautelari poste a tutela della salute del lavoratore può
essere commessa nell'interesse o a vantaggio dell'ente” – allo
scopo di ottenere un risparmio dei costi di gestione – e che
l'evento lesivo “in sé considerato [è] semmai controproducente
per l'ente”. Da ciò il giudice trae la conclusione per cui “il
collegamento finalistico che fonda la responsabilità dell'ente [...]
non deve necessariamente coinvolgere anche l'evento, quale
elemento costitutivo del reato, giacchè l'essenza del reato colposo
è proprio il risultato non voluto”.
Ulteriormente precisando, si afferma che i criteri di interesse o
vantaggio debbano essere riferiti “non già al reato (e quindi
all'evento di morte o lesione della vittima), bensì alle condotte
costitutive di esso”.
Il ragionamento che porta a concludere per l'applicabilità ai reati
colposi d'evento del criterio ex art. 5 d.lgs. 231 sembra piuttosto
trovare sostanziale fondamento, come nella citata sentenza del

Tribunale di Trani, nel “principio di conservazione”; ossia
nell'osservazione per cui, se si riferisse l'interesse o il vantaggio
solamente all'evento lesivo, la disposizione legislativa di cui
all'art. 25 septies sarebbe priva di ogni applicazione pratica, dato
che l'evento in sé considerato è “semmai controproducente” per
l'ente, e data la strutturale non volontarietà dell'evento nei reati
colposi.
Il giudice, inoltre, osserva che “il finalismo della condotta può
armonizzarsi con la non volontarietà dell'evento” perché nel
concetto di colpa “rientra anche il caso della previsione
dell'evento, ancorchè escluso e non voluto”. Tale osservazione
appare tuttavia superflua ed, in parte, fuorviante: infatti, una
volta chiarito che il criterio dell'interesse deve essere accertato in
relazione alla condotta e non all'evento, appare indifferente – ai
fini dell'applicabilità del criterio – che il verificarsi dell'evento sia
stato o meno previsto dall'agente. Nei reati colposi l'evento lesivo,
seppur previsto, non è infatti, appunto, mai voluto, né può
dunque – nonostante la previsione – essere perseguito
nell'interesse o a vantaggio di alcuno. La condotta può invece
essere sempre finalisticamente volta al raggiungimento di un
obiettivo: indipendentemente dalla previsione o meno dell'evento
da parte del soggetto agente.
Per quanto riguarda l'accertamento, in concreto, del compimento
della condotta colposa nell'interesse o a vantaggio dell'ente, il
giudice ritiene necessario verificare che questa non sia stata
indotta da “esclusive finalità estranee alla società”, ma che anzi
sia stata determinata “da scelte afferenti alla sfera di interessi
dell'ente”, ovvero “ispirate a strategie finalizzate ad ottenere
benefici e vantaggi – anche solo mediati – per l'ente medesimo”.

Il “vantaggio” è dal giudice considerato “criterio naturalmente più
idoneo – in caso di reati colposi – a fungere da indice di
collegamento tra ente e illecito”, ai fini dell'accertamento della
responsabilità amministrativa da reato. In concreto, per accertare
la sussistenza di tale indice in relazione ai reati in oggetto, è
necessario che la condotta dell'agente sia espressione di una
politica d'impresa volta alla “svalutazione della gestione in
materia di sicurezza”;
il soggetto deve agire per conto dell'ente attraverso “sistematiche
violazioni di norme cautelari”, con conseguente ottimizzazione dei
profitti ed abbattimento di costi e spese per l'adozione ed
attuazione dei presidi antinfortunistici.
Il giudice sottolinea dunque la necessità di operare un
accertamento caso per caso, evitando di ravvisare l'interesse o
vantaggio in re ipsa, ossia nel mero avvenimento del fatto lesivo
nello svolgimento di un'attività di impresa.
Nel caso di specie, il reato commesso dai datori di lavoro di X e W
“trova fondamento induttivo nell'interesse o vantaggio di
quest'ultime che, non adottando le indispensabili iniziative volte
a prevenire il rischio di investimento ferroviario, riducevano ed
evitavano i costi degli interventi strumentali necessari [...],
velocizzavano i tempi e ritmi del ciclo produttivo, evitavano i
disagi organizzativi e l'utilizzo del tempo per lo svolgimento
dell'attività di coordinamento e cooperazione, riducevano i costi
per la formazione e l'informazione del personale”. Che si trattasse
di “intenzionale e meditata elusione della questione organizzativa
e prevenzionale, deliberatamente sacrificata in favore di un
sistema imprenditoriale che fosse il più economico ed attento ai

isultati in termini di profitto”, emerge chiaramente dalla “perfetta
consapevolezza del problema (rischi per l'incolumità dei lavoratori
dovuti al transito imprevisto di treni), ripetutamente denunciato e
comprensibile sul piano delle prevedibili implicazioni”.
Recentemente, con una sentenza del 4 luglio 2011, il Tribunale di
Cagliari ha determinato con ancora maggior precisione, l'ambito
della responsabilità dell'ente per i delitti colposi di cui all'art. 25
septies d. legisl. 231/01.
Nella citata pronuncia il Giudice ribadisce che il criterio di
imputazione dell'interesse e del vantaggio deve essere rapportato
alla condotta, più che all'evento del reato.
Ma non solo: i due requisiti possono anche non coesistere. Basta,
infatti,. La sussistenza dell'interesse, inteso come elemento
caratterizzante una condotta finalisticamente determinata. Si
precisa, ulteriormente, che l'ambito delle condotte colpose
rilevanti deve essere limitato, perchè l'interesse delle persona
giuridica si deve sostanziare in una condotta consapevole e
volontaria: con ciò escludendo, ad esempio, tutte le ipotesi di
semplice imperizia.
Ed ancora: la volontarietà della condotta non deve derivare da
una semplice sottovalutazione dei rischi o da una cattiva
considerazione delle misure di prevenzione necessarie, ma deve –
oggettivamente – rivelare una tensione finalistica verso un
obiettivo di risparmio di costi aziendali.

Cenni all'applicazione della normativa ex d. legisl. 231/01
nei confronti delle P.M.I.
Per concludere questo intervento, sembra ora necessario chiarire
quale sia la posizione delle P.M.I. in relazione al sistema
normativo di riferimento.
Perchè prendere in considerazione le P.M.I. in sé e per sé
considerate?
Il discorso ha un senso se si pone mente al fatto che, negli ultimi
lustri, si è assistito ad un trend di progressivo intervento, nelle
imprese di grandi dimensioni, al fine di attuare, nei vari ambiti
produttivi o di servizi, un sempre più incisivo controllo interno.
Si pensi, ad esempio, ai controlli interni “spontanei” (non indotti
dalla normativa 231/01) che numerose società hanno dovuto
adottare in materia di salute e sicurezza sul lavoro a seguito
dell'introduzione, nel nostro sistema legislativo del T.U. 81/08,
con particolare riferimento all'art. 30 dello stesso T.U., che
prevede una vera e propria
presunzione di conformità dei sistemi gestionali della sicurezza, se
redatti secondo le linee guida BS OHSAS o UNI INAIL.
Si pensi, inoltre, alle tematiche delle frodi in commercio di
prodotti alimentari, ed alla necessità, per le imprese, di dotarsi di
un valido HACCP.
Si pensi, infine, a tutto quel florilegio di reati di possibile
commissione all'interno di Banche ed organizzazioni finanziarie.
Insomma, una cosa appare evidente: al di là dell'introduzione del
d. legisl. 231/01, si è assistito, nei precedenti anni, alla
predisposizione di controlli interni per scongiurare una gestione
societaria fallace.

Da questo panorama, le P.M.I. sono, effettivamente, rimaste a
lungo escluse. Vuoi perché si tratta di aziende per la maggior
parte familiari, vuoi perché si pensa che i sistemi di protezione
costituirebbero costi sproporzionati rispetto ai ricavi.
Oggi, con la normativa di cui al d. legisl. 231/01, la situazione
pare essere cambiata per alcuni ordini di ragioni.
1. In primo luogo, il rapporto di immedesimazione organica che
sussiste tra il vertice aziendale e l'impresa, nelle P.M.I. Si
caratterizza per essere particolarmente stringente. Ciò comporta
che, per l'impresa, sia molto difficile uscire dal processo grazie
alla clausola di cui all'art. 5 del decreto (che prevede: “L'ente non
risponde se le persone indicate nel comma 1 hanno agito
nell'interesse esclusivo proprio o di terzi. “ - e le “persona indicate
nel comma 1” sono i soggetti in posizione apicale), e che, quindi,
si renda assolutamente necessario provare l'adozione e l'efficace
attuazione di un Modello organizzativo.
2. In secondo luogo, si può dire che un unico soggetto (OdV), con
competenze specifiche relative al settore di esercizio dell'impresa,
possa costituire un notevole risparmio di costi rispetto
all'attribuzione a diversi soggetti (responsabile qualità, rspp,
reaponsabile area finanziaria etc...) di diverse responsabilità, con
conseguente, cospicuo alleggerimento della struttura di controllo.

3. Si consideri, poi che, in ossequio ad una recente sentenza della
Corte di Cassazione (Cass. Pen. Sez. 6, 9 luglio 2009, n. 36083),
in presenza dei presupposti richiesti dalla legge (l'essere stato
commesso un reato presupposto, l'esserlo stato dai soggetti di cui
all'art. 5 del decreto, l'interesse, o il vantaggio, della società) si
può individuare la rimproverabilità dell'ente nella sola mancata
predisposizione del modello organizzativo.
4. Lo spettro dei c.d. “reati presupposto”, a seguito delle
modifiche apportate al “catalogo” nel 2007, in tema di sicurezza,
e nel 2011, in tema ambientale, si è progressivamente ampliato,
fino a comprendere fattispecie che vanno ad interessare
profondamente l'attività di numerose P.M.I. del tessuto industriale
emiliano.
5.
Qualche esempio: il reato presupposto di frode in commercio può
essere commesso, e facilmente, sia in tutte le imprese, siano
piccole, medie, o grandi, che producono maglieria, che in quelle
che producono aceto.

Per non parlare, evidentemente, delle fattispecie di omicidio
colposo e lesioni gravi o gravissime commessi con violazione delle
norme sulla salute e sulla sicurezza negli ambienti di lavoro.
Per concludere, appare chiaro che, anche con riferimento alle
P.M.I., la redazione di un sistema di protezione ex d. legisl.
231/01, si deve considerare come un investimento, atto a
prevenire le pesantissime sanzioni pecuniarie ed interdittive che il
d. legisl. 231/01 prevede. A ciò si aggiunga che, il modello
efficacemente attuato, con l'ausilio di un OdV professionale, può
costituire un risparmio cospicuo di costi per l'impresa.