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L’OBIETTIVO SU...1


Nuova Serie - Anno IX - N. 1 Gennaio-Aprile 2006L’INDICE PENALERivista fondata daPIETRO NUVOLONEDiretta daALESSIO LANZI


proprietà letteraria riservata___________# Copyright 2006 by CEDAM - PadovaISBN 88-13-26609-XStampato in Italia - Printed in Italygrafiche fiorini - via altichiero, 11 - verona


INDICE5Indice(n. 1 – gennaio-aprile 2006)Saggi e opinioniLuigi Stortoni – Davide Tassinari, La responsabilità deglienti: quale natura? quali soggetti? ......................................... pag. 7Andrea Mereu, La responsabilità ‘‘da reato’’ degli enti collettivie i criteri di attribuzione della responsabilità tra teoria e prassi pag. 27Loredana Garlati, Silenzio colpevole, silenzio innocente.L’interrogatorio dell’imputato da mezzo di prova a strumentodi difesa nell’esperienza giuridica italiana .............................. pag. 109Federica Resta, Nemici e criminali. Le logiche del controllo pag. 181Francesco Callari, La relazione dialettica tra l’irrefragabilitàdel giudicato <strong>penale</strong> ed il giudizio di revisione ..................... pag. 229Studi e rassegneMarco Mantovani, L’oggetto tutelato nelle fattispecie penaliin materia di religione ............................................................. pag. 257Francesco Cingari, Tipizzazione e individuazione del soggettoattivo nei reati propri: tra legalità ed effettività dellenorme penali ........................................................................... pag. 275Alessandro Giuseppe Cannevale – Chiara Lazzari, Schiavitùe servitù nel diritto <strong>penale</strong> .............................................. pag. 309Francesco Bochicchio, Abuso e irregolarità nella contraffazionedella firma su documenti relativi ad operazioni di investimentomobiliare .................................................................. pag. 359Giovanna Fanelli, Notitiae criminis, Banca d’Italia ed AutoritàGiudiziaria ............................................................................... pag. 373Andrea Paolo Casati, Nuovi profili dell’azione <strong>penale</strong> nelprocedimento davanti al Giudice di Pace ............................. pag. 407Giurisprudenza: note, commenti, rassegneCorte Europea dei diritti dell’uomo – Sezione III, 13 ottobre2005, Bracci c. Italia, con nota di Francesco Zacchè, Letturadi atti assunti senza contraddittorio e giusto processo . pag. 427Tribunale di Urbino, 23 settembre 2003 n. 328, M.G.P. con notadi Angela Maria Bonanno, Protocolli, linee giuda e colpaspecifica ................................................................................... pag. 441Tribunale di Bergamo, 16 novembre 2004, Percassi, con nota diGuido Camera, Alcune riflessioni in materia di punibilitàper il delitto comune commesso dal cittadino all’estero ...... pag. 449


6INDICEDiritto <strong>penale</strong> straniero, comparato, comunitarioDavide Bertaccini, Zbornik Pravnog Fakulteta Sveucilišta uRijeci (fascicolo del 2005) ....................................................... pag. 457Inviato specialeAndrea Paolo Casati, Per una giustizia <strong>penale</strong> più sollecita:ostacoli e rimedi ragionevoli. Il problema nelle fasi di gravame– Lecce, 14 e 15 ottobre 2005 ............................................... pag. 461Recensioni e schedePercorsi europei di diritto <strong>penale</strong>, di G. Fornasari e A. Menghini(di Maddalena Grassi) ............................................................. pag. 475Abolitio criminis e modifica della fattispecie, di E.M. Ambrosetti(di Silvia Massi) ....................................................................... pag. 486Il principio di offensività del diritto <strong>penale</strong>. Canone di politicacriminale, criterio ermeneutico, parametro di ragionevolezzadi V. Manes (di L.B.) .............................................................. pag. 490Vecchie pagineFederico Bellini, Realtà materiale e realtà giuridica nel processosecondo il pensiero di Francesco Carrara .................... pag. 491Notiziario ...................................................................................... pag. 497Hanno collaborato ........................................................................ pag. 498


SAGGI E OPINIONI7Saggi e opinioniLa responsabilità degli enti:quale natura? quali soggetti? (*)Sommario: § 1. Premesse sulla natura della responsabilità. – § 2. La rilevanza pratica delproblema: la disciplina applicabile. – § 3. La responsabilità degli enti come ‘‘legge <strong>penale</strong>speciale’’? – § 4. ...o come applicazione ‘‘specialistica’’ dell’illecito amministrativo?– § 5. Una forma normativamente ‘‘autosufficiente’’ di responsabilità? – § 6. La ‘‘colpadi organizzazione’’: una nuova forma di responsabilità a fisionomia ‘‘ibrida’’ amministrativo-<strong>penale</strong>,con modalità sui generis d’imputazione. – § 7. Le ragioni sottostantiad una configurazione ‘‘eccentrica’’ della responsabilità. – § 8. Quali soggetti?§. 1. Premesse sulla natura della responsabilitàIl problema della natura della responsabilità degli enti rappresenta laprima e fondamentale questione sulla quale la dottrina si è interrogata( 1 ).Ciò sia per il carattere di decisa innovazione che pare sotteso alla novelladel d.lgs 231 del 2001, sul cui sfondo si intravede un ripensamento dellasecolare tradizione per cui ‘‘societas delinquere non potest’’; sia perché entranoqui in gioco profonde questioni ‘‘culturali’’: è in discussione la permanentevalidità, rispetto al rivoluzionario settore della responsabilità deglienti, delle categorie logiche ed analitiche e – soprattutto – dei principi checompongono l’area della penalità( 2 ).(*) Testo riveduto e con l’aggiunta di note della Relazione al convegno ‘‘La responsabilitàda reato delle società’’, tenutosi a Milano il 25 maggio 2005. Esclusivamente a fini concorsuali,si attribuiscono i § da 1. a 7. al Dott. Davide Tassinari ed il § 8. al Prof. Luigi Stortoni.( 1 ) In generale, per un inquadramento del problema e per una panoramica bibliograficasi vedano, per tutti, O. Di Giovine, La responsabilità degli enti: lineamenti di un nuovomodello di illecito punitivo, in AA.VV., Diritto e impresa: un rapporto controverso, a cura diA. Manna, Milano, 2004, p. 423 s. e spec. 429 s.; nella più recente manualistica, D. Pulitanò,Diritto <strong>penale</strong>, Torino, 2005, p. 732 s.( 2 ) È stato giustamente osservato come la nuova forma di responsabilità abbia determinatouna vera e propria ‘‘crisi dogmatica’’, cfr. A. Alessandri, Note penalistiche sulla nuovaresponsabilità delle persone giuridiche, inRiv. trim. dir. pen. econ., 2002, p. 58 s. Il d.lgs.


8SAGGI E OPINIONIUn segnale del potenziale innovativo che la novella sottintende – e diquanto essa abbia sorpreso la dottrina penalistica, di colpo costretta a misurarsicon questioni interpretative e sistematiche prima sconosciute – èravvisabile nella tendenza ad inquadrare il problema entro lo schema delletradizionali categorie codicistiche: si pensi alla trasposizione – che nascondeun radicato habitus logico e concettuale ancor prima che linguistico– in questo ambito di temi come quello del concorso di persone nel reato,delle causalità e – ciò che solleva i più accesi dibattiti – della colpevolezza(3 ).La dottrina, insomma, pare attualmente impegnata nell’immane sforzodi colmare un improvviso vuoto nel proprio secolare bagaglio formativo,restringendo o dilatando, ai limiti della loro portata logica, categorie chela dogmatica classica ha pervicacemente costruito attorno alla figura dell’autore– persona fisica.§ 2. La rilevanza pratica del problema: la disciplina applicabileA rigore, tuttavia, ancor prima di utilizzare strumenti noti per indagareuna creatura normativa ignota, della quale rimane dubbia persino la riconducibilitàai generi sinora conosciuti di diritto punitivo – ovvero al ‘‘modello<strong>penale</strong>’’ ed al ‘‘modello amministrativo’’ –, occorre misurarsi conuna questione interpretativa che sta, per così dire, a monte del problema:qual’è la disciplina applicabile alla responsabilità degli enti?In linea di principio, ad un tale quesito potrebbero darsi tre differentirisposte. Premesso che il d.lgs. 231 del 2001 detta alcune norme generali didisciplina (basti pensare, fra le altre, a quelle dedicate all’individuazionedegli enti – soggetti responsabili, alla fissazione dei principi di legalità edirretroattività ed agli innovativi criteri di attribuzione della responsabilità),potrebbe, infatti, ipotizzarsi:a) che, oltre alle specifiche norme dettate dalla novella legislativa, trovinoapplicazione i principi e le regole previsti dal codice <strong>penale</strong> ed, inspecie, quelle contenute nella sua parte generale;b) che, al contrario, vista la natura dichiaratamente ‘‘amministrativa’’231 rappresenta, d’altro canto, una sorta d’inedito anche sul piano prettamente politico criminale.Cfr. G. De Francesco, Disciplina <strong>penale</strong> societaria e responsabilità degli enti: le occasioniperdute della politica criminale, inDir. pen e proc., 2003, p. 929.( 3 ) Con particolare riferimento ai problemi di raccordo fra la responsabilità degli entied il principio di personalità della responsabilità <strong>penale</strong> si vedano gli ancora attualissimi rilievidi F. Bricola, Il costo del principio Societas delinquere non potest, in Riv. it. dir. proc.pen., 1970, p. 951 e spec. 1006; più di recente, M. Romano, Societas delinquere non potest(nel ricordo di Franco Bricola), inRiv. it. dir. proc. pen., 1995, p. 1031 s. e 1036.


SAGGI E OPINIONI9della responsabilità in discorso, essa sia da ritenersi disciplinata, oltre chedalle regole sue proprie, dalla legge n. 689 del 1981 (la così detta legge– quadro sull’illecito amministrativo);c) che la disciplina del d.lgs. 231/2001, fatti salvi i rinvii da essa espressamentedisposti ad altre fonti (si pensi alle disposizioni del codice di procedura<strong>penale</strong>, che l’art. 34 del d.lgs richiama ‘‘in quanto compatibili’’) siconfiguri come esaustiva e, non necessiti, pertanto, di nessuna integrazione;il problema della natura della responsabilità, si badi, non è per nullasterile, né la scelta dell’una o dell’altra soluzione rileva dal solo punto divista dell’analisi teorica: essa, al contrario, porta con sé riflessi pratici di primariaimportanza. La giurisprudenza ha avuto modo di avvedersene, di recente,allorché sièposta il problema di legittimare o meno, con riferimentoall’illecito proprio dell’ente, la costituzione di parte civile nel processo <strong>penale</strong>(4 ).È chiaro come la soluzione di una tale questione non possa ignorare iltema in esame, che, all’opposto, si pone come una sua fondamentale premessalogica.L’art. 185 c.p. riserva, infatti, la legittimazione attiva ai fini del risarcimentodel danno al solo danneggiato da reato. Èallora necessario chiedersise la dichiarata forma ‘‘amministrativa’’ della responsabilità dell’ente osti –come peraltro la giurisprudenza ha ritenuto – all’ammissibilità di una domandarisarcitoria formulata direttamente nei confronti dell’‘‘autore collettivo’’.Ove si prescegliesse la strada di una natura <strong>penale</strong> della responsabilitàdell’ente, si potrebbe argomentare, in senso contrario alla decisione appenamenzionata, che la sostanza <strong>penale</strong> dell’imputazione debba godere di unnaturale privilegio sulla sua forma amministrativa; la costituzione di partecivile andrebbe allora ammessa in rapporto non solo al reato, ma anche allanuova responsabilità ‘‘da reato’’. Invero, come fra poco si dirà, la giurisprudenzain discorso pare aver colto nel segno. La responsabilità degli enti,infatti, va ascritta ad un tertium genus a conformazione ibrida, connotatoda una modalità sui generis d’imputazione.§ 3. La responsabilità degli enti come ‘‘legge <strong>penale</strong> speciale’’?Dal punto di vista penalistico, il problema dell’applicabilità dellenorme del codice <strong>penale</strong> deve essere affrontato con riferimento all’art.( 4 ) Sul punto si vedano, in particolare, le osservazioni di C.F. Grosso, Sulla costituzionedi parte civile nei confronti degli enti collettivi chiamati a rispondere ai sensi del d.lgs n. 231del 2001 davanti al giudice <strong>penale</strong> (nota a Tribunale di Milano, Ord. 9 marzo 2004, G.i.p.Forleo), in Riv. it. dir. e proc. pen., 2004, p. 1335 s.


10SAGGI E OPINIONI16 c.p.: tale disposizione, estendendo le regole fissate nel codice alle ‘‘leggipenali speciali’’, persegue il fondamentale obiettivo dell’unità dogmaticadel diritto <strong>penale</strong> ed assolve ad una imprescindibile funzione di raccordocon la legislazione complementare( 5 ).In quest’ottica, l’interrogativo che ci si è posti in premessa va affrontatoin rapporto alla possibilità o meno di qualificare il d.lgs 231/2001 sullaresponsabilità degli enti come una ‘‘legge <strong>penale</strong> speciale’’.Solo nel caso di una risposta positiva si potrebbe ritenere corretta l’esportazionetout court in questo settore della disciplina del codice <strong>penale</strong> e,in uno con quest’ultima, delle categorie e dei tradizionali modelli euristiciapplicabili alla responsabilità ‘‘da reato’’ dettata per le persone fisiche.Per cogliere l’importanza pratica della questione, è sufficiente pensarealle conseguenze che deriverebbero dall’applicabilità agli enti di istituti –per restare a quelli le cui implicazioni per il problema che ci occupa sonopiù evidenti – come il concorso di persone nel reato e la causalità; o deiprincipi penalistici – dei quali è noto lo spessore costituzionale – vigentiin tema di imputazione soggettiva (si pensi, ad esempio, alla ‘‘rimproverabilità’’quale momento centrale della colpevolezza in senso normativo), ed,in particolare, in tema di dolo e colpa (in questo ambito potrebbe, adesempio, venire in considerazione la tematica della così detta ‘‘doppia misuradella colpa’’).La possibilità di ricondurre la nuova normativa sulla responsabilitàdegli enti all’ambito delle ‘‘legge penali speciali’’ appare, tuttavia, negatadalle stesse premesse dal ‘‘manifesto’’ legislativo del 2001.Una tale soluzione interpretativa, va, anzitutto, in diretta collisione conle scelte di fondo della disciplina, ex professo intitolata come ‘‘responsabilitàamministrativa dell’ente’’.Anche a voler prescindere dalle etichette – e le etichette sono spesso ilprimo elemento dal quale traspare la voluntas legis –è, peraltro, innegabileche il legislatore abbia voluto dare vita ad un complesso sotto sistema virtualmenteautonomo, in primo luogo, proprio dal referente punitivo <strong>penale</strong>.Il micro – settore della responsabilità degli enti è, infatti, governato dauna piccola parte generale( 6 ) e, per ciò stesso, è stato razionalmente e volutamenteconcepito come impermeabile ad ogni contaminazione della disciplinacodicistica.( 5 ) In generale, sul punto, cfr. M. Romano, Commentario sistematico del codice <strong>penale</strong>,3ª ed., vol. I, Milano, 2004, p. 189.( 6 ) Per una dettagliata analisi della struttura complessiva del provvedimento si veda, inparticolare, C. De Maglie, La disciplina della responsabilità delle persone giuridiche e delleassociazioni. Principi generali e criteri di attribuzione della responsabilità, inDir. pen. proc.,2001, p. 1348.


SAGGI E OPINIONI11Non si tratta, insomma – a meno di non voler sovvertire il discussodato di fondo della scelta punitiva ‘‘amministrativa’’ –, di una forma di responsabilitàche possa dirsi disciplinata dal concorso di una parte generale‘‘specifica’’ e di una ‘‘parte generale’’, per così dire, ‘‘di riferimento’’ comequella penalistica; al contrario, l’assetto chiaramente prescelto dal legislatoreè quello di un impianto di disciplina chiuso ed autosufficiente, indipendentedalla sfera <strong>penale</strong>, sia per criteri d’imputazione che per arsenalesanzionatorio.Queste osservazioni, naturalmente, nulla tolgono alla premessa difondo del decreto legislativo, che configura un illecito sì autonomo, mapur sempre derivante ‘‘da reato’’: non v’è dubbio, in questo senso, che lalegge <strong>penale</strong> giochi un ruolo essenziale – e, come fra poco si dirà, per moltiaspetti problematico – in relazione alla configurabilità oggettiva e soggettivadel reato presupposto.§ 4. ...o come applicazione ‘‘specialistica’’ dell’illecito amministrativo?Il discorso circa la disciplina applicabile alla responsabilità de qua richiede,come si è accennato, una risposta ad un secondo quesito: se cosìevidenti sono gli ostacoli ad una estensione al settore in esame della disciplinacodicistica, può ipotizzarsi un’applicabilità ad esso dei principi e delleregole dettate dalla legge 689 del 1981 in materia di illecito amministrativo?È proprio questa, d’altronde, la soluzione che parrebbe imposta dalnomen ben impresso dal legislatore alla responsabilità degli enti.È assolutamente pacifico, d’altra parte, che la legge del 1981 rappresentiuna sorta di parte generale dell’illecito amministrativo; ad essa, anzi,va il merito di aver per la prima volta fatto chiarezza sui principi ai qualideve uniformarsi questa forma di responsabilità( 7 ).Nella legge del 1981, sono contenute alcune basilari disposizioni chehanno consentito un significativo accostamento, sul piano delle garanzie,dell’illecito amministrativo a quello <strong>penale</strong>: basti pensare all’affermazionedel principio di legalità – irretroattività (art. 1); all’espressa menzione dellacapacità di intendere e di volere quale presupposto della responsabilità(art. 2) ed all’individuazione del dolo e della colpa come criteri di imputazionesoggettiva (art. 3).La tesi dell’applicazione delle regole generali dell’illecito amministrativoal settore della responsabilità degli enti incontra, tuttavia, significativi( 7 ) Sul punto, per tutti, si veda F. Lambertucci, voce Depenalizzazione, in AA.VV.,Commentario breve alle leggi penali complementari, Padova. 2003, p. 673.


12SAGGI E OPINIONIostacoli interpretativi: questi sono anzitutto ravvisabili nel fatto che, comesi è detto, il d.lgs. 231 del 2001 già contiene una propria parte generale,perfettamente autonoma e per ciò stesso non sovrapponibile ad altre regole‘‘comuni’’ fissate altrove.Ne sia testimonianza il fatto che persino i canoni della legalità e dell’irretroattivitàsono presi in considerazione in modo del tutto indipendentedalla nuova legge sulla responsabilità degli enti; ciò che apparirebbe unainutile ripetizione se si partisse dall’idea che il fenomeno qui consideratorientri nella sfera di disciplina della legge del 1981.Non solo: rispetto a quella che dovrebbe essere la sua naturale disciplinadi riferimento, la novella del 2001 appare, sotto più punti di vista,derogatoria.Basti pensare al già menzionato disposto di cui all’art. 2 della legge689: non può essere assoggettato alla sanzione amministrativa chi, al momentodella commissione del fatto, non aveva, in base ‘‘ai criteri indicatinel codice <strong>penale</strong>’’, ‘‘la capacità di intendere e di volere’’.Il riferimento all’imputabilità mette a nudo, a ben vedere, se raffrontatoal nuovo genus di diritto punitivo creato per gli enti, i limiti di un prototipodi illecito divenuto ormai ‘‘vecchio’’, in quanto necessariamente fondatosul modello dell’autore individuale.L’unica ipotesi di responsabilità dell’ente contemplata dalla leggequadro è individuabile nella regola della responsabilità solidale di cui all’art.6: si tratta, tuttavia, non di una forma di imputazione all’ente (la dottrinaha anzi sottolineato come la differenza fra questa ipotesi e quella delconcorso di persone nell’illecito amministrativo risieda nel fatto che la responsabilitàsolidale è attribuita oggettivamente), quanto di un’applicazionedel principio di solidarietà nel debito, finalizzata unicamente a garantireil pagamento della sanzione( 8 ); è, peraltro, fatto salvo il diritto dell’entedi agire in regresso verso la persona fisica autrice dell’illecito, ciòche testimonia chiaramente l’impossibilità di ravvisare nell’ente un autonomo‘‘centro di imputazione’’.Rilievi analoghi valgono anche in rapporto alle già accennate regole fissatenell’art. 3 della legge del 1981 in merito all’elemento soggettivo dell’illecitoamministrativo: non c’è dubbio sul fatto la novella del 2001 fondi unmodello d’imputazione del tutto nuovo, che, per quanto possa essere accostatoal genus della colpa omissiva, risulta ontologicamente diverso dai piùtradizionali criteri del dolo e della colpa valevoli per l’autore individuale efatti propri dalla legge – quadro( 9 ).( 8 ) Cfr. F. Lambertucci, op. cit., p. 693 s. Su questo aspetto si vedano anche le osservazionidi E. Paliero, La fabbrica del golem. Progettualità e metodologia per la ‘‘parte generale’’del codice <strong>penale</strong> dell’Unione Europea, inRiv. it. dir. e proc. pen., 2000, p. 499.( 9 ) Fra i contributi dedicati all’analisi delle modalità d’imputazione all’ente tracciati dal


SAGGI E OPINIONI13Se ne deve concludere che, così come si è già notato per il codice <strong>penale</strong>,neppure la disciplina generale dell’illecito amministrativo (la legge689 del 1981, eppure, era stata ritenuta in più occasioni dalla giurisprudenzacome un imprescindibile riferimento per i successivi provvedimentidi depenalizzazione( 10 )) possa trovare applicazione sul terreno della responsabilitàdell’ente, che si configura come derogatoria ed autosufficienterispetto alla prima.§ 5. Una forma normativamente ‘‘autosufficiente’’ di responsabilità?Gli interrogativi relativi alla legge applicabile portano dunque ad unaprima, abbastanza evidente conclusione: la novella del 2001 ha certamenteinteso dare vita ad una forma di responsabilità relativamente autosufficiente(se si dimentica per un attimo la sua dipendenza ‘‘da reato’’) e virtualmentesganciata dai più tradizionali paradigmi dell’illecito punitivo,sia <strong>penale</strong>, sia amministrativo( 11 ).Si tratterebbe, almeno negli intenti proclamati, si una sorta di rivoluzionedel diritto sanzionatorio, la cui autonomia formale parrebbe sottintendereun’altrettanto spiccata eterogeneità sostanziale rispetto ai modellitradizionali.La dottrina maggioritaria sembra però pensarla diversamente: fra le diverseopinioni espresse sul punto, le due correnti che paiono più seguitetendono ad accostare la forma di responsabilità in esame all’illecito amministrativoo, in senso diametralmente opposto, all’illecito <strong>penale</strong>.Gli argomenti addotti a sostegno di queste diverse scelte muovono,comprensibilmente, dalla valorizzazione delle molteplici analogie e differenzeche la responsabilità degli enti presenta con ciascuno degli anzidettiparadigmi( 12 ).I sostenitori della natura amministrativa della responsabilità pongonoD.lgs. 231 del 2001, si vedano fra gli altri, C. De Maglie, loc. ult. cit.,Pulitanò, La responsabilitàda reato degli enti: i criteri d’imputazione, inRiv. it. dir. proc. pen., 2002, p. 415 s. Direcente, in una peculiare chiave d’analisi A. Nisco, Responsabilità amministrativa degli enti:riflessioni sui criteri ascrittivi ‘‘soggettivi’’ e sul nuovo assetto delle posizioni di garanzia nellesocietà, inRiv. trim. dir. pen. econ., 2004, p. 293 s.( 10 ) Per i necessari richiami giurisprudenziali, per tutti, si veda F. Lambertucci, op.cit., p. 677.( 11 ) Sul punto cfr. D. Pulitanò, voce Responsabilità amministrativa per i reati dellepersone giuridiche, inEnc. Dir., Aggiornamento, Varese, 2002, p. 954.( 12 ) Per un quadro d’insieme delle diverse opinioni espresse si vedano, fra gli altri, O.Di Giovine, op. cit., p. 429; A.Travi, La responsabilità della persona giuridica nel d.lgs 231del 2001: prime considerazioni di ordine amministrativo,inLe società, 2001, p. 1305; C. Piergallini,Societas delinquere et puniri non potest: la fine tardiva di un dogma, inRiv. trim.dir. pen. econ., 2002, p. 598 s.


SAGGI E OPINIONI15Queste divergenze di opinioni, invero, ferma restando la possibilità,che appare metodologicamente corretta, di cogliere similitudini più o menospiccate che la legge in commento presenta con ciascuna delle due più tradizionaliforme di ‘‘illecito punitivo’’, non smentisce – ma anzi avvalora –l’idea, appena tratteggiata, della sua piena autonomia di disciplina: lanuova creatura normativa evoca schemi logico-giuridici ben collaudati, tuttavianon si esaurisce in essi.Occorre prendere atto, dunque, di un’innegabile distanza, che chiaramenteemerge dal dato saliente della legge applicabile, della responsabilitàdegli enti dagli archetipi punitivi classici.È proprio la presenza di aspetti di sovrapposizione con entrambe lecategorie – quella <strong>penale</strong> e quella amministrativa – dell’illecito punitivo asuggerire che il legislatore del 2001 abbia voluto introdurre un tertiumgenus di responsabilità: un modello ibrido nella struttura, con un’imputazionesui generis.Per saggiare l’attendibilità di quest’ipotesi ricostruttiva, è opportunoanalizzare il problema sul ‘‘banco di prova’’ dei principi costituzionali vigentiin materia <strong>penale</strong>. Le differenze esistenti con il paradigma <strong>penale</strong> –non meno che con quello amministrativo, che del primo ricalca principie forme d’imputazione – possono, in quest’ottica, essere messe a nudocon un’analisi della più singolare fra le fattispecie di ‘‘responsabilità dareato’’: quella denominata dalla dottrina come ‘‘colpa d’organizzazionepura’’( 17 ). Questa peculiare ipotesi, che si riconnette, nell’intelaiatura dellanovella legislativa, all’enunciazione del principio di autonomia della responsabilitàdegli enti, si pone, invero, come la forma con parvenze piùprossime ai topoi dell’imputazione <strong>penale</strong>.De Francesco, Torino, 2004, p. 21 s.; V. Maiello, La natura (formalmente amministrativa,ma sostanzialmente <strong>penale</strong>) della responsabilità degli enti nel d.lgs 231/2001: una ‘‘truffadelle etichette’’ davvero innocua?,inRiv. trim. dir. pen. econ., 2002, p. 899 s. Rileva, invece, lacontrarietà della responsabilità degli enti al dettato di cui all’art. 27 co. 1 Cost. T. Padovani,Il nome del principi e il principio dei nomi: la responsabilità ‘‘amministrativa’’ delle personegiuridiche, in AA.VV. cit., p. 13 s.; contra, si vedano i rilievi di A. Manna, La c.d. responsabilitàamministrativa delle persone giuridiche: un primo sguardo d’insieme, inRiv. trim. dir.pen. econ., 2002, p. 517 s.; per un’analisi circa la compatibilità della responsabilità delle personegiuridiche con i principi costituzionali si veda, nella più recente manualistica, D. Pulitanò,Diritto <strong>penale</strong>, Torino, 2005, 732 s. Qualifica la responsabilità degli enti come un ‘‘terzobinario del diritto <strong>penale</strong> criminale’’, G. De Vero, Riflessioni sulla natura giuridica dellaresponsabilità punitiva degli enti collettivi, in AA.VV., cit., 96 s. Id., Struttura e natura giuridicadell’illecito di ente collettivo dipendente da reato,inRiv. it. dir. e proc. pen., 2001, p. 1165s. È altresì dell’idea, per diverse ragioni, che venga qui in considerazione un tertium genusdel diritto punitivo G. Flora, Le sanzioni punitive nei confronti delle persone giuridiche:un esempio di ‘‘metamorfosi’’ della sanzione <strong>penale</strong>, inDir. pen e proc., 2003, 1398.( 17 ) Parla di un ‘‘paradigma di colpa per organizzazione puro’’, in particolare, C.E. Paliero,op. ult. cit., p. 30.


16SAGGI E OPINIONI§ 6. La ‘‘colpa di organizzazione’’: una nuova forma di responsabilità afisionomia ‘‘ibrida’’ amministrativo – <strong>penale</strong>, con modalità sui generisd’imputazioneL’art. 8 della novella legislativa configura l’ipotesi più ambigua – eforse più eccentrica – fra quelle introdotte dalla riforma del 2001. Esso disponeche ‘‘la responsabilità dell’ente sussiste anche quando: a) l’autore delreato non è stato identificato o non è imputabile b) il reato si estingue peruna causa diversa dall’amnistia’’( 18 ).Questa disposizione, nell’ambito di un’indagine circa la natura dellaresponsabilità degli enti, costituisce un punto di culmine: l’art. 8, infatti,introduce un meccanismo di ‘‘spersonalizzazione’’ non tanto della responsabilità– ciò che è già implicito nelle premesse sistematiche di una leggeriferita agli enti –, ma del reato che di essa è presupposto.Quest’ultimo, in effetti, in tale ipotesi è preso in considerazione nelsuo solo versante oggettivo.C’è da chiedersi quale processo <strong>penale</strong> potrebbe mai celebrarsi neiconfronti dell’autore non identificato: l’imputato ignoto, invero, non sicondanna né si proscioglie. Non solo: la mancata identificazione dell’autore,anche nell’ipotesi in cui vi sia sufficiente prova della dimensioneestrinseca e puramente materiale del dolo, comunque precluderebbe lapossibilità di un giudizio di colpevolezza in senso ‘‘normativo’’ ed ‘‘individualizzante’’.Il reato presupposto viene in sostanza prosciugato delle suenote soggettive d’imputazione e ridotto ad un mero simulacro fattuale:stante l’impossibilità di formulare un rimprovero al suo autore, esso nonpotrebbe neppure propriamente qualificarsi come reato.La norma in esame tipicizza, insomma, una sorta di ipotesi limite, nellaquale la figura dell’autore ‘‘apicale’’ e dell’autore ‘‘subordinato’’ – e persinoquella dell’amministratore ‘‘di fatto’’ – divengono impalpabili. Esse vivonoall’ombra di un dato veramente emergente, che occupa da solo la scenadell’imputazione: la realizzazione della fattispecie oggettiva di uno dei reatisui quali la novella radica la responsabilità dell’ente.I basilari canali d’imputazione prescelti dalla legge, normalmente rappresentatidalle persone fisiche che fungono da medium per l’ascrizione delfatto – secondo le peculiari cadenze che fondano la ‘‘colpa’’ dell’ente – siassottigliano qui sino a far emergere una struttura estremamente semplificatadi imputazione: la ‘‘nuda’’ realizzazione di un reato, a cui tout court si( 18 ) In proposito si vedano, fra gli altri, i rilievi di A. Alessandri, Note penalistichesulla nuova responsabilità delle persone giuridiche, cit., 54 s.; S. Vinciguerra, La strutturadell’illecito, inS.Vinciguerra, M.Ceresa-Gastaldo, A.Rossi, La responsabilità dell’enteper il reato commesso nel suo interesse (d.lgs. n. 231/2001), Padova, 2004, p. 11 s.


18SAGGI E OPINIONIpronta che l’elemento soggettivo lascia sul fatto materiale consentirà, nellapiù gran parte dei casi, di individuare una realizzazione dolosa, anche senon ancora un fatto colpevole. Le fattispecie presupposto, peraltro, sonoper lo più annoverabili fra quelle ‘‘soggettivamente pregnanti’’: si pensi alleparadigmatiche ipotesi rappresentate dai reati di corruzione, in rapportoalle quali il versante soggettivo del reato è così ben impresso nel fatto daimpedire in radice una sua trasfigurazione in responsabilità colposa.Questa prospettiva, muovendo dalla constatazione per cui un fatto(quasi) identico nella sua matrice oggettiva viene imputato in modo soggettivamentedifforme all’autore persona fisica (per dolo) ed all’ente (percolpa), potrebbe portare a concludere per una natura non <strong>penale</strong> della responsabilitàdel secondo.È noto, infatti, come parte della dottrina sia propensa a ravvisare nell’identitàdella forma d’imputazione soggettiva del fatto alla pluralità deisuoi autori un dato di fondo del sistema <strong>penale</strong> vigente( 21 ).I rari casi difformi da questa regola di simmetria, che parrebbe tracciatadai due essenziali referenti normativi a responsabilità ‘‘omogenea’’dell’art. 110 c.p. (per il concorso nel reato doloso) e dell’art. 113 c.p.(per la cooperazione colposa), dovrebbero sempre trovare fondamento inregole legislative espresse: ciò che accade, ad esempio, nel caso del concorso‘‘anomalo’’ di cui all’art. 116 c.p., dove una responsabilità a sfondocolposo si innesta, nella cornice della partecipazione criminosa, sull’agiredoloso altrui.Il concorso ‘‘anomalo’’ dell’ente, dunque, in quanto eccezione alla regolapenalistica dell’omogeneità del titolo d’imputazione, suggerirebbe unadistonia dagli schemi classici di ascrizione del reato, sino a concludere chedi responsabilità <strong>penale</strong> non si tratti.Questo argomento non è però di per sé persuasivo. Il canone dell’omogeneitàdella forma d’imputazione, proprio quanto si inserisce nel contestodei rapporti fra regola (l’omogeneità) ed eccezione (il diverso titolo diresponsabilità) non rappresenta per nulla un dato ultimo, ontologico delsistema <strong>penale</strong>. La presenza di eccezioni (esemplare è quella dell’art. 116c.p.) vale di per sé sola a testimoniare come la differenziazione dei titolidi responsabilità sia compatibile con i principi fondamentali della penalità:è questa, d’altronde, la conclusione a cui è pervenuta – già da lungo tempo– la stessa Corte costituzionale allorché ha ‘‘reinterpretato’’ l’art. 116 c.p.( 21 ) Sul punto si vedano, per tutti, le osservazioni di G. Fiandaca, E.Musco, Diritto<strong>penale</strong>, parte generale, 4ª ed., 2001, p. 470 s. Per un’analisi della questione nella più recentegiurisprudenza della suprema Corte, si veda, fra gli altri, F. Serraino, Il problema della configurabilitàdel concorso di persone a titoli soggettivi diversi (nota a Cass. pen., Sez. IV, 9 ottobre2002), in Riv. it. dir. e proc. pen., 2005, p. 453 s.


SAGGI E OPINIONI19rinnovandone – senza però abbandonarlo –, lo schema a ‘‘concorso anomalo’’con modalità conformi al principio di colpevolezza( 22 ).Se, inoltre, si partisse dalla semplice idea che la fissazione di due diverselinee d’imputazione soggettiva del medesimo fatto sia compatibilecon i principi penalistici (più esattamente: con normali criteri della normazione<strong>penale</strong>) purché l’eccezione sia espressamente prevista dalla legge, sitornerebbe al punto di partenza. La base legislativa che traccia la responsabilitàdell’ente, infatti, sarebbe di per sé sola sufficiente a segnalare la legittimitàdella deviazione dalla regola, così che nessuna risposta se ne potrebbedesumere in merito al carattere <strong>penale</strong> o meno della responsabilità.Se si vogliono evitare errori di metodo, la diagnosi circa la natura dellaresponsabilità dell’ente deve, dunque, necessariamente partire da dati chesiano ontologici al modello punitivo <strong>penale</strong>: in ultima analisi, dai principicostituzionali che ne costituiscono il fondamento.In questa prospettiva, va detto, anzitutto, che l’idea per cui il fatto imputatoall’autore persona fisica ed all’ente sia il medesimo pare viziata dauna considerevole approssimazione. Anche tralasciando per un attimo il rilievoper cui la ‘‘colpa d’organizzazione’’ rappresenta non solo una forma diresponsabilità, ma essa stessa anzitutto un fatto autonomo rispetto al reatoche ne è presupposto, questa idea sembra trascurare un altro, ancor piùessenziale dato di fondo.La responsabilità, infatti, sorge in capo all’ente sulla base di un assailabile anello di congiunzione: i canoni ‘‘dell’interesse’’ e del ‘‘vantaggio’’.Il venire in essere di uno di questi due parametri d’imputazione consente,nei casi disciplinati dall’art. 8 della legge, laddove si ha un reato senza unautore, addirittura di colmare l’intero versante oggettivo della fattispecieimputata all’ente.Non è richiesta alcuna verifica causale. Il fatto è attribuito oggettivamenteall’ente sulla base, invero, di assai meno che di un legame eziologico.L’interesse ed il vantaggio, infatti, sono parametri così sterili da risultaredel tutto esterni alla sfera della ‘‘signoria d’azione’’ del soggetto imputatoe tali che, se il raffronto dovesse essere operato con l’ipotesi di un autorepersona fisica, dovrebbe dirsi che egli sostanzialmente risponderebbe di unfatto altrui.Non c’è, dunque, bisogno di spingersi sino ad effettuare complesseconsiderazioni in tema di ‘‘colpevolezza’’ dell’ente, per avvedersi che ilprincipio di personalità della responsabilità <strong>penale</strong> di cui all’art. 27 Cost.è qui contraddetto nei suoi postulati minimi( 23 ).Non si dà responsabilità <strong>penale</strong> se non si ha responsabilità personale:( 22 ) Cfr. Corte cost., 13 maggio 1965, n. 42, in Riv. pen., 1965, II, 598.( 23 ) Nello stesso senso si veda T. Padovani, op. cit., p.17s.


20SAGGI E OPINIONIl’imputazione, a livello oggettivo, di un fatto sostanzialmente ‘‘altrui’’ rappresentaun’inaccettabile deviazione rispetto ai dati costituzionali (‘‘ontologici’’)della penalità.Se ne deve concludere che l’illecito dell’ente assume una natura complessa,connotata da un’imputazione ‘‘sui generis’’, di evidente matrice non<strong>penale</strong>.Il versante oggettivo dell’illecito ha una struttura non causale, giacchéil raccordo materiale fra fatto ed autore è largamente divergente dalla sferadella ‘‘personalità’’ intesa nella sua accezione minima, di rigoroso divieto diresponsabilità per fatto altrui( 24 ).Il momento ‘‘soggettivo’’, per contro, si approssima singolarmente adun giudizio di causalità ipotetica e richiama il modello dell’omesso impedimentocolposo, secondo le linee di un nuovo concetto di ‘‘colpevolezza’’forgiato ad hoc per le esigenze dell’autore collettivo. La colpa così dettad’organizzazione, infatti, nei suoi contenuti di colpevolezza, risponde allalogica dell’omesso impedimento del fatto altrui, ma con regole cautelari icui formanti vanno rintracciati in un peculiare contesto plurisoggettivo,con le cadenze strutturali di una stravagante colpa ‘‘diffusa’’.In conclusione: la natura della responsabilità degli enti non è assimilabileai referenti punitivi noti e rappresenta un quid novi; essa, in quantodotata di una disciplina formalmente e concettualmente autonoma, configurauna forma non assimilabile né alla responsabilità <strong>penale</strong> né a quellaamministrativa; i suoi connotati più peculiari sono un’illiceità costruitaben oltre le regole della tradizionale responsabilità personale ed un’imputazionesui generis.§ 7. Le ragioni sottostanti ad una configurazione ‘‘eccentrica’’ della responsabilitàC’è da chiedersi, a conclusione dell’analisi brevemente condotta sullanatura della responsabilità degli enti, per quali ragioni il legislatore nonabbia preferito avvalersi, sia pure in un contesto soggettivamente nuovo,dei più collaudati schemi della legislazione <strong>penale</strong> e dell’illecito amministrativo.Possono individuarsi tre motivazioni di fondo: la prima attiene l’aspettoordinamentale – interno; la seconda i profili internazionali della‘‘nuova’’ responsabilità; la terza ha a che fare con considerazioni assaipiù pratiche che teoriche.( 24 ) Circa i postulati della responsabilità per ‘‘fatto proprio’’ in tema di concorso dipersone nel reato si vedano i rilievi di L. Stortoni, Agevolazione e concorso di personenel reato, Padova, 1981, p. 56 s.


SAGGI E OPINIONI21Sotto il primo punto di vista, la creazione di un ibrido nasconde la volontàdi aggirare l’ostacolo maggiore – e storicamente più evidente – allapenalizzazione di soggetti collettivi, rappresentato dal dubbio fondamentologico – giuridico di una ‘‘colpevolezza’’ degli enti. Solo per il diritto <strong>penale</strong>,infatti, la costituzione pone il principio di personalità della responsabilità,con tutte le implicazioni che ne derivano nella teoria dell’elementooggettivo del reato così come della colpevolezza; problemi di spessorenon diverso si sarebbero posti, d’altronde, con riferimento all’umanitàdelle pene ed al loro finalismo rieducativo; concetti, questi, che, nell’enormitàdel bagaglio culturale che rappresentano sono tutti collegati logicamenteed empiricamente all’autore persona fisica.Il pericolo di una censura d’incostituzionalità – ed, ancor prima, diuna inconciliabilità logica con ben radicati topoi della teoria del reato –hanno consigliato la soluzione di un semplice cambiamento d’etichetta:da qui la scelta definitoria di ‘‘responsabilità amministrativa’’, per quellache, in realtà, rappresenta una forma ibrida ed eccentrica di illecito.Per quanto riguarda la situazione internazionale essa è, in una certa misura,il riflesso di quella interna: la Convenzione europea per i diritti dell’uomonon si occupa ex professo dell’illecito amministrativo, così che il ventagliodi garanzie previsto a livello internazionale in rapporto alle sanzionipenali non è estensibile – almeno se si resta alla lettera della Convenzione– a questo terreno. Fra i principi garantistici previsti in relazione alla sanzione<strong>penale</strong> si pensi, ad esempio, al diritto ad essere informati in tempo utilesui motivi dell’accusa; alla presunzione d’innocenza; al diritto al contraddittorio;alla legalità ed all’irretroattività dei delitti e delle pene; al ne bis in idem.Va detto, ad onor del vero, che qualora venisse qui in considerazione,come qualcuno ipotizza, un ‘‘camuffamento’’ di un illecito <strong>penale</strong> sotto lementite spoglie della responsabilità amministrativa, il ‘‘trucco’’ sarebbeforse destinato a durare poco: da lungo tempo la Corte europea ha, infatti,esteso in via interpretativa all’illecito amministrativo – quando ciò sia suggeritodalla ‘‘qualità’’ del precetto e della sanzione – le medesime garanzieespressamente previste per quello <strong>penale</strong>( 25 ).L’ultima spiegazione della scelta di ‘‘aggiramento’’ del modello <strong>penale</strong>di responsabilità compiuta dal legislatore del 2001 sembra rintracciabile inun esigenza pratica, ritagliata sulle caratteristiche dell’imputato – ente: ilcomma 4 bis dell’art. 13 della legge 537/1997 vieta di portare a detrazionefiscale ‘‘i costi, o le spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabilicome reato’’( 26 ).Viene qui in rilievo, in definitiva, una scelta di ordine pratico, motivata( 25 ) Cfr. F. Lambertucci, op. cit., p. 677.( 26 ) Su questo aspetto si vedano, in particolare, le osservazioni di O. Di Giovine, op.cit., p. 434, alla nota 26.


22SAGGI E OPINIONIdalla necessità di mitigare, in rapporto alla specifica natura soggettiva delresponsabile (per definizione esercente un’attività a scopo di lucro o, quantomeno,gestita secondo criteri di economicità) le conseguenze della sanzione:basti pensare al problema, del quale il decreto legislativo tiene contoin più punti del proprio articolato, degli effetti ‘‘riflessi’’ derivanti, sull’occupazionee sull’economia in generale, dall’applicazione in capo all’ente disanzioni interdittive e pecuniarie.§ 8. Quali soggetti?I problemi sollevati dall’individuazione dei soggetti responsabili possonoessere analizzati prendendo le mosse da alcuni aspetti chiave, che laletteratura penalistica aveva posto in evidenza lungo tempo prima che lanovella legislativa in commento prendesse corpo, cioè sin da quando l’ideadi un superamento del dogma societas deliquere non potest ha acquistatospessore nel pensiero dottrinale.Non è certo un rilievo recente – né, invero, avanzato solo in rapportoall’applicazione del diritto <strong>penale</strong> – quello per cui lo schermo ‘‘protettivo’’della personalità giuridica possa occultare rilevanti profili – individuali enon – di responsabilità( 27 ); siffatto schermo meta-individuale ha, tuttavia,per lungo tempo simbolicamente rappresentato un insuperabile ostacoloalla penalizzazione di comportamenti di matrice ‘‘societaria’’; esso ha, anzi,concettualmente incarnato la negazione stessa di una tale possibilità.La prima e più evidente conquista ‘‘storica’’ che è dato rinvenire nellescarne righe dedicate dall’art. 1 del decreto all’individuazione dei soggettiresponsabili è dunque data dall’espressa menzione, fra i destinatari delladisciplina, degli ‘‘enti dotati di personalità giuridica’’. L’importanza dell’affermazionenon è certo smentita dalla natura – ibrida ed in definitiva ‘‘a séstante’’, come si è detto – della responsabilità: essa comunque rappresentail recepimento legislativo di un’esigenza, che da tempi ormai risalenti la letteraturapenalistica aveva lamentato, di commisurazione della sanzione allarealtà degli illeciti penali ‘‘a sfondo’’ societario( 28 ).L’importanza della ricerca di questo equilibrio sanzionatorio può esserecolta ponendo l’attenzione sul rapporto esistente fra la responsabilitàdegli enti e quella <strong>penale</strong> delle persone fisiche che hanno agito nel loro interesse.Colpire i soli individui – con il ‘‘tradizionale’’ meccanismo dellasanzione <strong>penale</strong> – significa, nel contesto di un agire collettivo, assai spessoporre in essere una risposta eccessiva ed al contempo insufficiente. Ecces-( 27 ) Si rinvia, per tutti, a F. Bricola, Il costo del principio, cit., 956 s.( 28 ) Si consenta di rinviare a L. Stortoni, Profili penali delle società commerciali comeimprenditori, inRiv. it. dir. proc. pen., 1971, 1163 s.


SAGGI E OPINIONI23siva, in quanto concentrata unicamente sull’uomo, al quale vengono imputatifatti per definizione esorbitanti dalla sua sfera di ideazione e controllo,quasi ‘‘geneticamente’’ caratterizzati da una latitudine meta-individuale. Lasingola persona fisica corre in questo senso il rischio di divenire un caproespiatorio, la ‘‘testa di legno’’ sulla quale incombe una responsabilità di dimensioni‘‘sociali’’; per ciò stesso ben può realizzarsi, rivolgendo la sanzionenei suoi soli confronti, una forma d’imputazione prossima alla responsabilitàper fatto altrui.La punizione individuale può risultare, sotto un altro profilo, insufficiente,poiché essa di per sé sola è inidonea a soddisfare le reali esigenzesanzionatorie – e dunque preventive – che si manifestano ogni qual voltail fatto commesso possieda un’essenziale contrassegno collettivo( 29 ).L’interrogativo che sta alla base del tema dei soggetti è, dunque, quellodel ‘‘quando’’ la duplicazione della sanzione e la ricerca, ad essa correlata, diun equilibrio fra la sfera individuale e quella collettiva della responsabilità siarispondente alle intrinseche esigenze di commisurazione proprie del dirittopunitivo. La penalizzazione della sola persona fisica si ripercuoterebbe, infatti,sull’ente irresponsabile unicamente ‘‘di riflesso’’: mediante il blando –se rapportato alla dimensione finanziaria propria all’autore collettivo – meccanismodella pena pecuniaria, sovente pagata, in via di fatto, dall’ente stesso‘‘per conto’’ dell’autore ed inserita fra i normali ‘‘costi di gestione’’.Per quanto riguarda le figure collettive dotate di personalità giuridica,come si è accennato, la risposta viene fornita dalla novella legislativa inmodo univoco. In questo caso il bisogno di punire l’organizzazione oltreall’uomo che ne è stato strumento viene, invero, presunto dal legislatore.Si tratta di una scelta che, pur condivisibile in termini generali, sollevaqualche motivata perplessità rispetto all’ipotesi, non secondaria, in cui allapresenza della personalità giuridica non si accompagni una situazione di pluralitàdi soci. Il caso è quello della società unipersonale, laddove lo ‘‘schermo’’societario assolve l’essenziale funzione di limitazione della responsabilità,senza però che si determinino vere differenze qualitative – almeno rispettoalla sostanza economica del fenomeno – con l’impresa individuale.Più problematica è l’individuazione dell’ampia categoria di soggetti responsabilirientranti fra le ‘‘società ed associazioni anche prive di personalitàgiuridica’’ cui si riferisce l’art. 1 co. 2 del decreto. In questo contesto, ilconcetto di ‘‘ente’’ pare suscettibile, una volta posto a confronto con l’innumerevolecasistica di organizzazioni ‘‘collettive’’ prive di autonoma personalità,di incredibili dilatazioni; ciò sino ad abbracciare addirittura lostesso imprenditore individuale. Proprio di quest’ultimo aspetto, che certo( 29 ) Sul punto cfr. anche F. Giunta, La punizione degli enti collettivi: una novità attesa,in AA.VV., La responsabilità, cit., p. 35.


24SAGGI E OPINIONIben descrive la portata pratica della delimitazione soggettiva degli ‘‘enti’’responsabili, si è di recente occupata la suprema Corte( 30 ).La tesi della riferibilità della disciplina del 2001 all’imprenditore individuale,sostenuta dal Pubblico Ministero con il proprio ricorso al supremoCollegio, era argomentata facendo leva sulla sostanziale identità della situazioneeconomica sottostante alla società unipersonale ed all’impresa individuale.In quest’ottica, la sottoposizione della prima, ma non della seconda,alla disciplina del decreto, avrebbe generato una disparità di trattamentotale da porre in forse la stessa legittimità costituzionale della novella legislativa.Da qui, a dire dell’accusa, l’esigenza di un ‘‘livellamento’’ (ovviamentein senso espansivo della responsabilità) delle due situazioni: sul piano empirico,inoltre, l’impresa individuale, non meno di quella esercitata in formasocietaria, sarebbe spesso caratterizzata da una complessità di struttura e diorganizzazione tali da rendere necessaria una sua sanzionabilità autonoma.Tale tesi – di per sé alquanto audace – è stata, in modo condivisibile,rigettata dalla Corte, non solo in ragione dell’evidente analogia in malampartem che l’assimilazione esegetica fra la persona fisica e l’ente avrebbecomportato; ma anche perché – ciò che appare ancor più importante –‘‘la responsabilità dell’ente è chiaramente aggiuntiva, e non sostitutiva, diquella delle persone fisiche’’.L’idea di una responsabilità ‘‘aggiuntiva’’ si riallaccia significativamenteall’interrogativo, già anticipato, di quando la sanzione debba divenire‘‘duplice’’ e di quando invece essa debba essere ‘‘unica’’ e riferita alsolo autore individuale.Il concetto stesso di ‘‘ente’’, presuppone, invero, un minimum di organizzazionestrutturale, come del resto si evince anche dal particolare meccanismod’imputazione fondato sui modelli. Non può, insomma, alla lucedell’intero impianto della novella legislativa, ma anche in ragione di quell’esigenzacommisurativa a cui si è fatto cenno, non ritenersi che la nozionedi ente rinvii ad un contesto plurisoggettivo. Essa non è, dunque, per ragionilogico sistematiche ancor prima che interpretative, suscettibile di essereestesa sino a comprendere realtà in cui ‘‘ente’’ e ‘‘persona fisica’’ sianovirtualmente indistinguibili.In queste ipotesi il pericolo di inaccettabili duplicazioni della sanzionediviene assai forte: tanto meno sarà avvertibile l’alterità fra la persona fisicae l’ente a cui questa appartiene, tanto più vi sarà il rischio di dar corpo adun bis in idem sostanziale, contrassegnato dal concorso di una norma <strong>penale</strong>e di una ‘‘ibrido amministrativa’’.Una particolare cautela pare, dunque, doversi usare in rapporto arealtà organizzative di piccole dimensioni. Una delle preoccupazioni del le-( 30 ) Cfr. Cass., 3 marzo 2004, in Cass. pen., 2004, p. 4046.


SAGGI E OPINIONI25gislatore, come si legge nella relazione alla legge, era proprio quella di lasciarefuori dal suo campo di applicazione le realtà minimali, delle quali apparechiara, sul piano empirico e criminologico, la scarsissima rilevanza rispettoai fini sottesi alla responsabilizzazione dell’ente. A ciò aggiungasi ilpericolo non solo di inaccettabili sovrapposizioni fra la disciplina <strong>penale</strong> equella amministrativa, ma anche di forzature repressive: si pensi al caso diun lavoratore dipendente che, avendo commesso uno dei reati presupposto,evochi la responsabilità ‘‘amministrativa’’ dei membri di una piccolasocietà di persone. In simili ipotesi, sotto l’etichetta di una responsabilitàdell’ente, potrebbe celarsi un’impropria estensione – a titolo di colpa‘‘sui generis’’ – della responsabilità dei datori di lavoro, che altrimenti si attesterebbesui più solidi criteri d’imputazione per dolo vigenti sul terrenodella responsabilità <strong>penale</strong> concorsuale( 31 ).Il gruppo degli enti ‘‘privi di personalità giuridica’’, in definitiva, apparealquanto eterogeneo e, verosimilmente, potrà essere meglio definitodal lento consolidarsi del diritto ‘‘vivente’’: si pensi a casi problematici,ad oggi presi in esame solo dalla dottrina, come quello del comitato odel condominio; o, in relazione all’esigenza o meno di uno scopo di lucro– che pare sotteso all’impianto della normativa – dei consorzi a mera rilevanzainterna e delle cooperative. Ancora: peculiari problemi potrebberoporsi in relazione alle figure della società apparente e, simmetricamente,alla società di fatto, ipotesi per le quali può ipotizzarsi la necessaria prevalenzadella realtà sulla finzione, così che solo la seconda, a differenza dellaprima, potrà rispondere ‘‘in via amministrativa’’( 32 ).Per quanto riguarda il versante ‘‘pubblico’’ la nuova legge contempla,nel disposto di cui all’art. 1 co. 3, essenzialmente esclusioni: l’unica eccezionea questa regola è rappresentata dagli enti pubblici economici. Essiben si amalgamano alla ‘‘tipologia d’autore’’ – per usare un linguaggio mutuatodall’ambitone concettuale del diritto punitivo delle persone fisiche –degli enti con finalità lucrativa, che, ad una lettura complessiva dell’articolato,si configurano come destinatari ideali del provvedimento. Basti pensareal ‘‘classico’’ nucleo di incriminazioni – presupposto rappresentatodalle fattispecie corruttive: si tratta, invero, del settore che ad oggi ha datoluogo al maggior numero di applicazioni giurisprudenziali.Fra i soggetti pubblici esclusi spiccano, oltre allo Stato ed agli enti territoriali,egli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale.L’esclusione dello Stato è in sintonia con la disciplina della responsabilitàdegli enti accolta in altri ordinamenti( 33 ) e pare motivata, come la( 31 ) Cfr., sul punto, O. Di Giovine, op. cit., p. 457.( 32 ) Per una più compiuta individuazione dei casi qui citati in via esemplificativa si vedaO. Di Giovine, op. cit., p. 456 s.( 33 ) Identica soluzione è accolta nel codice <strong>penale</strong> francese. In generale, per una pano-


26SAGGI E OPINIONIdottrina ha posto in evidenza, dalla necessità di evitare troppo evidenticontraddizioni sistematiche( 34 ). Nell’attuale novero di delitti individuatidal decreto – che fungono da presupposto per l’ascrizione della responsabilità– un ruolo eminente è infatti riservato alle fattispecie corruttive edalla concussione, ovvero ad ipotesi in cui proprio lo Stato e gli enti pubbliciterritoriali potrebbero per primi essere chiamati a rispondere di una‘‘colpa’’ diffusa.Occorre anzi rilevare come l’inserimento della concussione fra i reatipresupposto,una volta esclusi dalla sfera soggettiva del decreto lo Stato, glienti territoriali e gli altri enti pubblici non economici, perda buona partedella propria portata applicativa: questa appare ridotta essenzialmente alleipotesi in cui autore del reato sia un incaricato di pubblico servizio, ed inspecie, al caso del concessionario privato( 35 ). L’inserimento della concussionenella cornice dei reati-base, pare, insomma, motivato più da intentisimbolici – forse un’ideale eco della stagione culturale di mani pulite –che non da un reale finalismo preventivo – repressivo. L’ampia sfera diesclusione soggettiva, d’altro canto, si spinge sino ad abbracciare, perquanto riguarda il novero degli ‘‘enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale’’,i partiti politici ed i sindacati, ai quali la lettera della norma parerivolta ad hoc. Si tratta, invero, di una esclusione condivisibile, ove si riflettasul peculiare ruolo istituzionale svolto da tali ‘‘enti’’, la cui responsabilizzazioneavrebbe dato corpo a largamente lamentati – la ‘‘stagione’’ è ancoraquella di mani pulite – pericoli di prevaricazione della sfera giudiziaria suquella politica( 36 ).Luigi Stortoni - Davide Tassinariramica storico – comparatistica relativa all’ordinamento francese si vedano G. De Simone, Ilnuovo codice francese e la responsabilità <strong>penale</strong> delle personnes morales, in Riv. it. dir. proc.pen., 1995, p. 189 s.; R. Guerrini, La responsabilità <strong>penale</strong> delle personnes morales nel codice<strong>penale</strong> francese, inLe società, 1993, p. 691 s. Per un più generale quadro di diritto comparatosi vedano, per tutti, K. Tiedemann, La responsabilità <strong>penale</strong> delle persone giuridichenel diritto comparato, inRiv. it. dir. e proc. pen., 2002, p. 615 s.; E. Paliero, La fabbrica delgolem, cit., p. 499. Sulle matrici internazionali del d.lgs 231 e sul dibattito da esso suscitato siveda S. Manacorda, Corruzione internazionale e tutela degli interessi comunitari, inDir.pen. e proc., 2001, p. 410 s.( 34 ) Cfr. O. Di giovine, op. cit., p. 452 s.( 35 ) Per l’individuazione del concetto di incaricato di pubblico servizio in seguito allariforma legislativa operata con la L. n. 86 del 1990 si consenta di rinviare a L. Stortoni,Delitti contro la pubblica amministrazione, in AA.VV., Diritto <strong>penale</strong>, Lineamenti di parte speciale,3ª ed., Bologna, 2003, p. 102 s.( 36 ) In merito ai pericoli di repressione del fenomeno associativo che il superamentodel principio societas delinquere non potest porta con sé, si vedano i rilievi di F. Bricola,Il costo, cit., p. 1001.


SAGGI E OPINIONI27LA RESPONSAB<strong>IL</strong>ITÀ ‘‘DA REATO’’ DEGLI ENTI COLLETTIVIE I CRITERI DI ATTRIBUZIONE DELLA RESPONSAB<strong>IL</strong>ITÀTRA TEORIA E PRASSISommario: 1. Premessa: linee generali del d. lgs. n. 231/2001. – 2. Le origini del d. lgs. n.231/2001: A) Le esigenze politico-criminali alla base del superamento del principio societasdelinquere non potest; B) Le esigenze sistematiche; C) Gli input di diritto internazionalee comunitario. – 3. La natura giuridica della responsabilità dell’ente: un falsoproblema? – 4. I criteri di attribuzione della responsabilità: il criterio oggettivo: A) Lepersone fisiche che fanno ‘‘scattare’’ la responsabilità dell’ente; B) Il criterio dell’interesseo vantaggio: un ostacolo alla funzionalità della responsabilità degli enti? – 5.(Segue:) I criteri di imputazione soggettiva: alla ricerca della colpevolezza dell’ente:A) Reati commessi dai vertici e reati commessi dai sottoposti: aspetti problematici;B) Il modello quadripartito di colpevolezza dell’ente proposto dalla de Maglie; C) Imodelli di organizzazione, gestione e controllo: a) Profili disciplinari; b) L’impattosul sistema delle imprese. – 6. I limiti del d. lgs. n. 231/2001: il catalogo dei reati.1. Premessa: linee generali del d. lgs. n. 231/2001L’entrata in vigore del d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, attuativo dell’art.11 della legge delega 29 settembre 2000, n. 300( 1 ), con cui è stata introdottain Italia la responsabilità per gli illeciti amministrativi derivanti dareato delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche privedi personalità giuridica, rappresenta una «rivoluzione copernicana»( 2 ) nelnostro ordinamento.È stato infatti creato un vero e proprio «nuovo paradigma sanziona-( 1 ) A proposito della legge delega n. 300/2000 deve osservarsi che essa – secondo unadeprecabile tendenza che caratterizza la legislazione <strong>penale</strong> degli ultimi anni – si presenta deltutto generica ed indefinita, con palese violazione del principio della riserva di legge di cuiall’art. 25, comma 2, Cost.: per una giusta critica sul modo di legiferare che ha caratterizzatodi recente soprattutto il diritto <strong>penale</strong> dell’economia, con particolare riferimento all’abusodello strumento della legge delega, v. E. Musco, Il nuovo diritto <strong>penale</strong> dell’economia tralegislativo ed esecutivo, inRiv. Guardia di Finanza, 2003, Supplemento al n. 4, 121 ss.( 2 ) L’espressione è diA. Manna, La c.d. responsabilità amministrativa delle personegiuridiche: un primo sguardo d’insieme, inRiv. trim. dir. pen. ec., 2002, 502.


28SAGGI E OPINIONItorio»( 3 ) volto a colpire la criminalità di impresa attraverso una responsabilitàdiretta dell’ente, formalmente qualificata come amministrativa, collegataalla commissione di determinati reati, accertata dal giudice <strong>penale</strong> eche prevede il ricorso a sanzioni di carattere afflittivo. A prescindere dailimiti e dalle insufficienze che la disciplina del d. lgs. n. 231/2001 presentae che verranno analizzati nel proseguo della presente indagine, ve n’è piùche abbastanza per sconvolgere la nostra cultura giuridica tradizionale, saldamenteancorata all’«idea che fosse la persona fisica l’unico soggetto chepotesse e dovesse entrare nella vicenda punitiva»( 4 )(societas delinquerenon potest).( 3 ) A. Alessandri, Note penalistiche sulla nuova responsabilità delle persone giuridiche,inRiv. trim. dir. pen. ec., 2002, 33.( 4 ) A. Alessandri, op. cit., 33 s.; cfr. altresì C. Piergallini, La disciplina della responsabilitàamministrativa delle persone giuridiche e delle associazioni. Sistema sanzionatorioe reati previsti dal codice <strong>penale</strong>, inDir. pen. proc., 2001, 1353, secondo cui con il d. lgs. 231/2001 «il nostro paese si è finalmente dotato di un modello generale di responsabilità sanzionatoriadegli enti collettivi che, per struttura e finalità, sembra capace di integrare un efficacestrumento di controllo sociale»; Id., Societas delinquere et puniri non potest: la fine tardivadi un dogma, inRiv. trim dir. pen. ec., 2002, 571, ove si afferma che «il vetusto principio‘‘Societas delinquere non potest’’ ha conosciuto la sua fine anche nel nostro ordinamento, dovel’edificio dogmatico sul quale poggiava ostentava una solidità apparentemente inattaccabile»;Id., Societas delinquere et puniri non potest. Riflessioni sul recente (contrastato) superamentodi un dogma, inQuest. giust., 2002, 1087 ss.; D. Pulitanó, La responsabilità «dareato» degli enti nell’ordinamento italiano, in AA.VV., Responsabilità degli enti per i reaticommessi nel loro interesse, Atti del Convegno di Roma, 30 novembre-1º dicembre 2001,in Cass. pen., 2003, n. 6, Supplemento, 8, il quale parla di forte innovazione sistematicache comporta il superamento del tradizionale principio societas delinquere non potest; M.Donini, Un nuovo medioevo <strong>penale</strong>? Vecchio e nuovo nell’espansione del diritto <strong>penale</strong> economico,inCass. pen., 2003, 1814; C. De Maglie, Corporate criminal liability in italian law:an overview, inStudi senesi, CXV (III serie, LII), 2003, secondo cui il d. lgs. n. 231/2001rappresenta «a great innovation in our system, one more significative step towards the demolitionof the dogma ‘‘societas delinquere non potest’’»; F. Santi, La responsabilità dellesocietà e degli enti. Modelli di esonero delle imprese, Milano, 2004, 22. La novità rappresentatadall’introduzione della responsabilità amministrativa da reato degli enti è stata di portatatale da determinare un interesse diffuso da parte della dottrina, che dall’entrata in vigore deld. lgs. n. 231/2001 ad oggi non ha praticamente mai smesso di dedicare all’argomento articoli,saggi e monografie; tra i contributi più recenti si segnalano, a titolo meramente esemplificativo,G. Flora, Le sanzioni punitive nei confronti delle persone giuridiche: un esempiodi ‘‘metamorfosi’’ della sanzione <strong>penale</strong>?, inDir. pen. proc., 2003, 1398 ss.; M. Ronco, voceResponsabilità delle persone giuridiche. Diritto <strong>penale</strong>, inEnc. Giur., agg., XI, Roma, 2003, 2ss.; AA.VV., La responsabilità degli enti: un nuovo modello di giustizia ‘‘punitiva’’, a cura diG.A. De Francesco, Torino, 2004; G. De Simone, La responsabilità da reato degli enti nelsistema sanzionatorio italiano: alcuni aspetti problematici, inRiv. trim. dir. pen. ec., 2004, 657ss.; G. Ruggiero, Capacità <strong>penale</strong> e responsabilità degli enti. Una rivisitazione della teoria deisoggetti nel diritto <strong>penale</strong>, Torino, 2004, che adotta un interessante approccio di teoria generale;AA.VV., Reati e responsabilità degli enti. Guida al d 1gs. 8 giugno 2001, n. 231, a cura diG. Lattanzi, Milano, 2005; E. Amodio, Prevenzione del rischio <strong>penale</strong> di impresa e modelliintegrati di responsabilità degli enti, inCass. pen., 2005, 320 ss.; G.A. De Francesco, Gli


SAGGI E OPINIONI29I soggetti ai quali si applica la disciplina prevista dal d. lgs. n. 231/2001 sono gli enti forniti di personalità giuridica, le società e le associazionianche prive di personalità giuridica, con esclusione espressa dello Stato,degli enti pubblici territoriali, degli enti pubblici non economici e di quelliche svolgono funzioni di rilievo costituzionale( 5 ) (art. 1 d. lgs. n. 231/2001)( 6 ). L’ente, ai sensi dell’art. 5, risponde per i reati commessi nelsuo interesse o vantaggio: a) da persone che rivestono funzioni di rappresentanza,di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativadotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da personeche esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso (c.d.soggetti apicali); b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanzadi uno dei soggetti apicali (c.d. sottoposti). A fianco alla responsabilità dell’entecoesiste la responsabilità <strong>penale</strong> della persone fisica che ha commessoil reato, pur essendo la responsabilità della persona giuridica del tutto autonomada quella della persona fisica (art. 8). A carico dell’ente è stato concepitoun articolato apparato sanzionatorio che si compone di sanzione pecuniaria(i cui criteri di commisurazione sono delineati secondo un interessantemodello per quote ispirato al sistema dei tassi giornalieri adottato inmolti paesi), sanzioni interdittive, confisca (anche per equivalente) e pubblicazionedella sentenza di condanna( 7 ).enti collettivi: soggetti dell’illecito o garanti dei precetti normativi?, inDir. pen. proc., 2005,753 ss.; F. Guerini, La responsabilità da reato degli enti, sanzioni e loro natura, Siena,2005; A. Zoppini, Imputazione dell’illecito <strong>penale</strong> e «responsabilità amministrativa» nellateoria della persona giuridica, in Riv. soc., 2005, 1314 ss.( 5 ) Sul tema degli enti destinatari della disciplina e delle esclusioni cfr. S. Gennai-A.Traversi, La responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, Milano,2001, 12 ss.; C. Pecorella, Principi generali e criteri di attribuzione della responsabilità,in AA.VV., La responsabilità amministrativa degli enti, D. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, Milano,2002, 65 ss.; F. Santi, op. cit., 130 ss.; F. Guerino, La responsabilità dell’ente pubblicoper i reati commessi nel proprio interesse, inCass. pen., 2004, 2201 ss. In giurisprudenza v.Cass., 22 aprile 2004, in Dir. prat. soc., 2004, n. 9, 72 ss., con commento di R. Bricchetti(ora anche in Dir. e Giust., 2004, n. 30, 25 ss., e in Cass. pen., 2004, 4047 ss., con nota di P.Di Geronimo, La Cassazione esclude l’applicabilità alle imprese individuali della responsabilitàda reato prevista per gli enti collettivi: spunti di diritto comparato), la quale ha escluso l’applicabilitàalle imprese individuali delle norme sulla responsabilità degli enti per gli illecitiamministrativi dipendenti da reato; nonché, nello stesso senso, Trib. Roma, Ufficio G.I.P.,Ord. 30 maggio 2003, in Il merito, 2004, n. 5, 57 ss., con commento di A. Balsamo eM. Ruvolo.( 6 ) Da ora in poi gli articoli citati senza ulteriore specificazione devono intendersi appartenential d. lgs. n. 231/2001.( 7 ) Sul sistema sanzionatorio si vedano i contributi di G. Amato, Un regime diversificatoper reprimere gli illeciti, inGuida al diritto, 2001, n. 26, 67 ss.; C. Piergallini, Ladisciplina, op. cit., 1353 ss.; N. Folla, Le sanzioni pecuniarie, in AA.VV., La responsabilitàamministrativa degli enti, D. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, Milano, 2002, 91 ss.; S. Giavazzi, Lesanzioni interdittive e la pubblicazione della sentenza <strong>penale</strong> di condanna, ivi, 117 ss.; R. Lottini,Il sistema sanzionatorio, in AA.VV., Responsabilità degli enti per illeciti amministrativi


30SAGGI E OPINIONI2. Le origini del d. lgs. n. 231/2001:A) le esigenze politico-criminali alla base del superamento del principio societasdelinquere non potestTra i fattori che hanno favorito la nascita del d. lgs. n. 231/2001 vi sonoinnanzitutto pressanti esigenze di politica criminale. I costi del principio societasdelinquere non potest – già magistralmente esplorati da Franco Bricola(8 ) nei suoi studi degli anni settanta – sono divenuti progressivamente insostenibiliin seguito all’enorme sviluppo dell’economia e dei traffici verificatosinegli ultimi decenni, con l’avvento della globalizzazione e di quella che, aragione, è stata definita come ‘‘la società del rischio’’ (Risikogesellschaft)( 9 ).Protagonisti indiscussi di questo impetuoso sviluppo economico e socialesono gli enti( 10 ), ed in particolare le imprese, che come sono in gradodi generare effetti positivi per i consociati, così sono anche la causa di conseguenzenefaste originate dai propri comportamenti illeciti (societas saepedelinquit)( 11 ): «L’impresa in particolare, per propria specifica natura, madipendenti da reato, a cura di G. Garuti, Padova, 2002, 127 ss.; A. Fiorella, Le sanzioniamministrative pecuniarie e le sanzioni interdittive, in AA.VV., Responsabilità degli enti peri reati commessi nel loro interesse, op. cit., 73 ss.( 8 ) F. Bricola, Il costo del principio «societas delinquere non potest» nell’attuale dimensionedel fenomeno societario, inRiv. it. dir. proc. pen., 1970, 951 ss., ora anche in F.Bricola, Scritti di diritto <strong>penale</strong>, vol. II, tomo II, Milano, 1997, 2975 ss.; Id., Il problemadella responsabilità <strong>penale</strong> della società commerciale nel diritto italiano, in AA.VV., La responsabilità<strong>penale</strong> delle persone giuridiche in diritto comunitario, Atti della Conferenza di Messina,30 aprile-5 maggio 1979, Milano, 1981, 235 ss., ora anche in F. Bricola, Scritti di diritto<strong>penale</strong>, op. cit., 3089 ss.; Id., Luci e ombre nella prospettiva di una responsabilità <strong>penale</strong> deglienti nei paesi della C.E.E., in Giur. comm., 1979, 647 ss., ora anche in F. Bricola, Scritti didiritto <strong>penale</strong>, op. cit., 3063 ss.( 9 ) Cfr. U. Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, trad. it., Roma,2000, passim; J.M. Silva Sanchez, L’espansione del diritto <strong>penale</strong>: aspetti della politica criminalenelle società postindustriali, ed. it. a cura di V. Militello, Milano, 2004, passim; F.Stella, Giustizia e modernità. La protezione dell’innocente e la tutela delle vittime, Milano,2003, passim. In argomento v. anche G. Amarelli, Mito giuridico ed evoluzione della realtà:il crollo del principio societas delinquere non potest, in Riv. trim dir. pen. ec., 2003, 945 ss.( 10 ) Già nel 1953 Jescheck evidenziava l’importanza del ruolo socio-economico assuntodagli enti collettivi: «Gli enti collettivi (persone giuridiche, società di persone ed associazioninon riconosciute) dominano oggi come partiti la politica, come imprese, associazioni didatori di lavoro o sindacati la vita economica, come banche il sistema creditizio. Enti collettivi,in qualità di editori, di aziende giornalistiche o di agenzie di informazione, determinanoil volto della pubblicistica, come organizzazioni di categoria hanno un influsso decisivo sullavoro e sulla vita culturale (H.H. Jescheck, Zur Frage der Strafbarkeit von Personenverbände,inDÖV, 1953, 539, citato in G. De Simone, Societas delinquere et puniri potest, Lecce,1997, in edizione provvisoria stampata in proprio dall’autore, 76). Sul tema v. anche A. Falzea,La responsabilità <strong>penale</strong> delle persone giuridiche, in AA.VV., La responsabilità <strong>penale</strong> dellepersone giuridiche in diritto comunitario, op. cit., 139 s.( 11 ) J. De Faria Costa, Contributo per una legittimazione della responsabilità <strong>penale</strong>


SAGGI E OPINIONI31ancor più per l’evoluzione che essa ha interpretato nello sviluppo economicodegli ultimi decenni – la cosiddetta impresa manageriale – ha conseguitoin vario modo livelli di potere economico, di influenza sui mercati, didominanza competitiva, di superiorità strategica, di pervasività nel tessutoeconomico-sociale, tali da rendere assolutamente impellente e necessarial’assunzione di responsabilità, di vario tipo e certamente anche penalistiche»(12 ).La scienza criminologica ha ormai accertato che le persone giuridichesono il vero epicentro della criminalità di impresa, la quale è la conseguenzanon tanto delle scelte operate dalle singole persone fisiche che agisconoper conto dell’ente, quanto di politiche di impresa spregiudicate o didifetti organizzativi interni alle corporations( 13 ). Ne deriva che lasciare impunitigli enti, punendo solo le persone fisiche, che spesso si rivelano esseredelle mere ‘‘teste di paglia’’ che l’ente sostituisce in caso di scoperta delreato da parte dell’autorità giudiziaria, costituisce paradossalmente unaviolazione del principio di personalità della responsabilità <strong>penale</strong> (art. 27,comma 1, Cost.)( 14 ), da sempre indicato come il principale ostacolo allacriminalizzazione degli enti dalla dottrina dominante in Italia. Sono poi evidentii gravi guasti provocati dalla criminalità degli enti( 15 ), che determinadelle persone giuridiche, inRiv. it. dir. proc. pen., 1993, 1246: «...in quest’ultimo periodo divertiginoso sviluppo tecnologico, e, di conseguenza, di aumento dei fatti lesivi correlati all’attivitàdi impresa (...), i protagonisti principali della competizione economica sono enti collettiviil cui riconoscimento normativo, se conferisce loro la qualità di soggetti dell’ordinamento,li mantiene, peraltro, fuori dall’influenza penalistica. Si riscontra, quindi, una contraddizionetra il riconoscerli soggetti protagonisti del sistema e, nel contempo, garantire loro unacompleta immunità nei confronti del sistema <strong>penale</strong>». Analogamente cfr. L. Zúñiga Rodríguez,La cuestión de la responsabilidad penal de las personas jurídicas, un punto y seguido,in www.lexstricta.com, 1.( 12 ) P. Bastia, Implicazioni organizzative e gestionali della responsabilità amministrativadelle aziende, in AA.VV., Societas puniri potest. La responsabilità da reato degli enti collettivi,a cura di F. Palazzo, Padova, 2003, 37.( 13 ) Cfr. C. Pedrazzi, La responsabilité pénale non individuelle, in AA.VV., Rapportsnationaux italiens au X e Congrès International de Droit Comparé, Budapest, 1978, Milano,1978, 749 s., ora anche in C. Pedrazzi, Diritto <strong>penale</strong>. Scritti di parte generale, vol.I,Milano,2003, 203 s.; K. Tiedemann, La responsabilità <strong>penale</strong> delle persone giuridiche nel dirittocomparato, inRiv. it. dir. proc. pen., 1995, 616 s.; C.E. Paliero, Problemi e prospettivedella responsabilità <strong>penale</strong> dell’ente nell’ordinamento italiano, inRiv. trim. dir. pen. ec.,1996, 1174.( 14 ) In tal senso v. L. Stortoni, Profili penali delle società commerciali come imprenditori,inRiv. it. dir. proc. pen., 1971, 1165; F.C. Palazzo, Associazioni illecite ed illeciti delleassociazioni, ivi, 1976, 439 s.; L. Fornari, Criminalità del profitto e tecniche sanzionatorie.Confisca e sanzioni pecuniarie nel diritto <strong>penale</strong> ‘‘moderno’’, Padova, 1997, 257 ss.( 15 ) L’aggressività e l’intollerabile perniciosità della criminalità di impresa è ben illustratada C. De Maglie, L’etica e il mercato. La responsabilità <strong>penale</strong> delle società, Milano,2002, 263 s., la quale riporta i dati di una serie di studi condotti negli Stati Uniti: una ricostruzionedelle cause degli incidenti nelle industrie chimiche indica che su 251 incidenti il


32SAGGI E OPINIONIla lesione o la messa in pericolo di beni giuridici interni ed esterni all’impresa– individuali, collettivi e istituzionali – anche di rango primario (vita,integrità fisica, salute, ambiente, concorrenza, corretto funzionamento delmercato finanziario, ecc.) attraverso attacchi seriali che implicano talvoltauna ‘‘vittimizzazione di massa’’( 16 ).Un’altra costante criminologica è rappresentata dall’individuazione al-32% è dovuto ad errore umano, il 3,5% ad eventi esterni e cause naturali, mentre tutto ilresto va imputato all’organizzazione nella sua interezza; il danno economico provocato daicorporate crimes è superiore a quello della criminalità comune, come dimostra un noto studiodegli anni ‘90, secondo cui il danno economico medio per ciascun reato ammonta a circa 6,8milioni di dollari; ogni anno inoltre le società sono responsabili di migliaia di decessi, mutilazionie malattie, se si pensa che più di 100.000 morti all’anno e più di 1.200.000 feriti derivanoda incidenti sui luoghi di lavoro e circa la metà possono essere ricondotti a violazionidelle norme antinfortunistiche. 20.000.000 di feriti e circa 30.000 morti sono il frutto di prodottidifettosi. Circa la metà dei tumori sono causati dalle condizioni in cui si svolge il lavoro(sul punto cfr. F. Stella, Criminalità d’impresa: lotta di sumo e lotta di judo,inRiv. trim. dir.pen. ec., 1998, 460). Le statistiche ci dicono inoltre che in Germania oltre l’80% dei fatti piùgravi di criminalità economica vengono realizzati sotto la copertura di un’impresa (il dato ètratto da G. De Simone, op. cit., 77 s., nota n. 7). In questo quadro non si può non concordarecon chi afferma che «Nell’attuale contesto storico-culturale, caratterizzato da un’accresciutaconsapevolezza della gravità della criminalità d’impresa, astenersi dal punire direttamentele persone giuridiche può essere solo fonte di un più accentuato senso di sfiducianelle istituzioni, il cui prestigio può essere solo ulteriormente scosso dallo spettacolo diuno Stato che è ‘‘forte’’ con i ‘‘deboli’’ e ‘‘debole’’ con i ‘‘forti’’» (così, efficacemente, C.De Maglie, op. ult. cit., 266).( 16 ) Cfr. A. Alessandri, Reati di impresa e modelli sanzionatori, Milano, 1984, 28 s.;Id., Commento all’art. 27 comma 1º Cost., inCommentario della Costituzione fondato da G.Branca e continuato da A. Pizzorusso, Bologna-Roma, 1991, 152 ss.; Id., voce Impresa (responsabilitàpenali), inDig. disc. pen., vol. VI, Torino, 1992, 196: «la massiccia componentetecnologica dell’attività di produzione di beni e, in misura non minore, di servizi, è causa diuna tendenziale diffusità degli eventi lesivi, di una moltiplicazione interminabile delle ricadutenocive su cerchie sempre più vaste di soggetti»; Id., Parte generale, in AA.VV., Manuale didiritto <strong>penale</strong> dell’impresa, Bologna, 2000, 15 s.; Id., La responsabilità amministrativa dellepersone giuridiche: osservazioni generali, in AA.VV., Responsabilità d’impresa e strumenti internazionalianticorruzione dalla Convenzione OCSE 1997 al Decreto n. 231/2001, Milano,2003, 208; P. Patrono, Diritto <strong>penale</strong> dell’impresa e interessi umani fondamentali, Padova,1993, 1 ss.; L. Fornari, op. cit., 253 s.; C. Piergallini, La disciplina, op. cit., 1353; Id.,Societas delinquere et puniri non potest: la fine tardiva di un dogma, op. cit., 576 s.; J. ReáteguiSánchez, La presencia de personas juridicas como caracteristica del moderno derechopenal del riesgo y las propuestas de imputación de corte individual, inwww.unifr.ch/derechopenal/articulos.htm,1 ss.; L. Zúñiga Rodríguez, op. cit., 2. In Italia non mancano certo gliesempi di gravi episodi di criminalità di impresa: si pensi al disastro di Seveso, alle spregiudicateoperazioni di Sindona e Calvi che portarono alla rovina le rispettive banche, alle gestionifuori bilancio realizzate da importanti gruppi nazionali come l’allora Montecatini Edisone l’IRI, al carattere sistemico assunto dalla corruzione con il fenomeno noto come ‘‘Tangentopoli’’,fino ai recenti scandali finanziari di Parmalat, Cirio e Banca 121. Per unainteressante panoramica dei più clamorosi casi di corporate crimes verificatisi nel mondo v.G. Marinucci, ‘‘Societas puniri potest’’: uno sguardo sui fenomeni e sulle discipline contemporanee,inRiv. it. dir. proc. pen., 2002, 1195 s.


SAGGI E OPINIONI33l’interno di strutture complesse quali le persone giuridiche di una serie difattori predisponenti che le rendono criminogene: 1) il fenomeno delgruppo; 2) la segretezza dell’organizzazione; 3) gli scopi dell’ente; 4) il contestosociale in cui opera l’impresa( 17 ).L’appartenenza al gruppo spinge chi ne fa parte (ed in particolare imanagers) ad atteggiamenti spregiudicati, manifestazione di una sindromedenominata ‘‘ebbrezza da rischio’’ (è il c.d. risky shift), che portano spessoa violare la legge( 18 ). La spinta criminogena è aumentata dalla distanzaspazio-temporale che sovente separa il comportamento criminoso e l’eventoche colpisce la vittima, la cui invisibilità impedisce ogni coinvolgimentoemotivo del soggetto attivo del reato, contribuendo in tal modoad abbassare i freni inibitori di colui che agisce in gruppo( 19 ).La segretezza, elemento indispensabile nella vita delle organizzazioni,offre però anche una protezione che spinge alla commissione di reati. Essaè alimentata da un clima di autogiustificazione delle azioni illecite, che lepriva del loro disvalore, tipico dei white collar crimes( 20 ). Il ricorso a pressionie minacce di ritorsioni impedisce la collaborazione con gli inquirentiqualora la lealtà al gruppo dovesse mancare( 21 ).( 17 ) Cfr. C. De Maglie, op. ult. cit., 251. In generale sul gruppo di società come fattorecriminogeno cfr. V. Militello, Attività del gruppo e comportamenti illeciti: il gruppocome fattore criminogeno, inRiv. trim. dir. pen ec., 1998, 367 ss.( 18 ) F. Stella, op. ult. cit., 463 s.: «L’ebbrezza da rischio fa sì che questi soggetti manifestinouna particolare propensione a compiere le azioni più pericolose, ad agire sul filo delrasoio, a praticare manovre azzardate che spesso superano il confine della legalità: il decideree l’agire collettivamente all’interno di singoli gruppi rende queste persone più baldanzose,maggiormente inclini a sopravvalutare le possibilità di successo e a sottovalutare le percentualidi insuccesso; in una parola ad accettare dei rischi, connessi alla violazione della legge,anche quando il cittadino medio, da solo, se ne guarderebbe bene»; C. De Maglie, op. ult.cit., 252. Nella letteratura anglosassone cfr. C. Wells, Corporations and Criminal Responsibility,Oxford, 2001, 146 ss.; Id., Corporate law: Corporate Criminal Liability – Developmentsin Europe and beyond, inLaw Society Journal, 2001, 39, (7), 62 ss.; S.S. Simpson, Corporatecrime, law and social Control, Cambridge, 2002.( 19 ) C. De Maglie, op. ult. cit., 252 s. In senso analogo v. G. De Simone, op. cit., 83,il quale individua un ulteriore fattore criminogeno nella ‘‘lontananza dal bene giuridico’’ dellecondotte illecite, espressa dall’elevato numero di fattispecie a pericolo astratto e che provocauna sorta di ‘‘neutralizzazione etica’’ del comportamento richiesto dalla norma.( 20 ) Sulla c.d. criminalità dei colletti bianchi rimane fondamentale il celebre saggio diE.H. Sutherland, White collar crime, trad. it. a cura di G. Forti, Milano, 1987, il quale –con riferimento al carattere criminogeno di determinati ambienti economici – riporta la dichiarazionedi un chimico incaricato di fornire basi scientifiche agli annunci pubblicitari: «Seprendevo in disparte i dirigenti dell’azienda e parlavamo in termini confidenziali, essi deploravanosinceramente le falsità contenute nei loro annunci pubblicitari. Nello stesso tempoperò dicevano che era necessario ricorrere a questa forma di pubblicità per attirare l’attenzionedei consumatori e per vendere i prodotti. Poiché altre ditte usavano affermazioni esageratea proposito dei loro articoli, noi dovevamo fare lo stesso per i nostri» (312).( 21 ) C. De Maglie, op. ult. cit., 254 ss.


34SAGGI E OPINIONIRicerche condotte negli Stati Uniti hanno dimostrato che lo scopodella massimizzazione dei profitti (inteso come obiettivo d’impresa incui tutti gli individui che ne fanno parte si identificano) è la principalemolla della criminalità diimpresa( 22 ): si è rilevato che l’impresa che delinque,sia essa legale o criminale, è caratterizzata da un comune denominatore:la violazione delle norme allo scopo di massimizzare il profitto o,più raramente, di minimizzare le perdite; in tal modo l’impresa che delinque«impone (...) al mercato un modello illegale di comportamentoche lo distorce, secondo i casi, direttamente o per l’effetto dell’emulazionedettata dalla gara»( 23 ). Sanzionare direttamente le imprese che violano leregole del gioco favorisce quindi il corretto funzionamento del mercato(24 ).Infine, anche l’ambiente esterno in cui opera la persona giuridica –composto da fattori economici, politici, culturali e tecnologici – è in gradodi condizionarne la struttura interna ed il modo di agire, esercitando pressioniche talvolta sfociano nell’illecito <strong>penale</strong>( 25 ).B) Le esigenze sistematicheAnche dal punto di vista sistematico, delle ragioni interne al sistema<strong>penale</strong>, i vantaggi connessi alla punizione delle persone giuridiche sono innumerevoli.All’interno delle moderne aziende è presente una polverizzazione diresponsabilità che è il frutto di una serie di fattori: a) l’organizzazionenon più di tipo verticale, ma orizzontale, caratterizzata da frammentazione,decentramento e specializzazione( 26 ); b) il blocco delle informazioni tra ivari settori dell’azienda, dovuto all’eccesso di competizione fra i dirigenti(27 ); c) la fissazione da parte del management di primo livello (i verticidella società) di obiettivi spesso irraggiungibili per i managers operativi senon ricorrendo all’illecito <strong>penale</strong>, a cui questi ultimi vengono spinti – consapevolmenteo meno – anche attraverso un sistema di premi e punizioni(fringe benefits, aumenti di salario, aumento o riduzione del personale odel budget, allontanamento dalla società)( 28 ).( 22 ) C. De Maglie, op. ult. cit., 257 ss.( 23 ) A. Carmona, Premesse a un corso di diritto <strong>penale</strong> dell’economia. Mercato, regole,e controllo <strong>penale</strong> della postmodernità, Padova, 2002, 204.( 24 ) Cfr. V. Militello, Prospettive e limiti di una responsabilità della persona giuridicanel sistema <strong>penale</strong> italiano, inStudium Juris, 2000, 781.( 25 ) C. De Maglie, op. ult. cit., 262 s.( 26 ) Cfr. C. De Maglie, op. ult. cit., 274 s.( 27 ) Cfr. C. De Maglie, op. ult. cit., 275 s.( 28 ) Cfr. F. Stella, Criminalità d’impresa, op. cit., 465 s., il quale osserva: «proprio ildecentramento permette alle ‘‘alte sfere’’ di isolarsi dalla responsabilità per le decisioni ope-


SAGGI E OPINIONI35L’insieme di questi fattori ingenera quella ‘‘organisierte Unverantwortlichkeit’’(irresponsabilità organizzata) che rende frequentemente difficoltoso,se non impossibile, individuare la persona fisica che ha commesso ilreato( 29 ), favorendo così la configurazione di ipotesi di responsabilità daposizione o in generale di responsabilità oggettiva da parte della giurisprudenza(30 ): sanzionare direttamente gli enti contribuisce dunque ad assicurarenei confronti delle persone fisiche il rispetto dei principî garantisticirative, e allo stesso tempo di far pressioni per soluzioni rapide di problemi molto difficili. – Ilmanager operativo sa bene di poter essere facilmente sostituito, sa bene che se non ottiene unrapido successo un altro manager è già alle sue spalle, pronto a prendere in mano la gestionedella società o della divisione operativa. – Il risultato di questa situazione è del tutto prevedibile:quando la pressione è intensificata, i mezzi illegali diventano allettanti per un managerche non ha ripari contro un modo d’intendere la responsabilità aziendale duro ma miope,perché tiene conto solo dell’obiettivo del massimo profitto». Studiosi della Business Schooldi Harvard rilevano che «presso parecchie industrie la pressione ad ottenere determinateprestazioni è così eccezionale e gli obiettivi da raggiungere così irragionevoli, da indurre imanagers operativi a pensare che l’unica via d’uscita sia quella di piegare le regole, anchese ciò significa venire a compromessi con la propria etica professionale. Quando un manageravverte che il suo lavoro o la sopravvivenza della società o della sua divisione operativa rischianodi venirsi a trovare su una strada senza via d’uscita, gli standards di condotta nelbusiness della società sono pronti ad essere sacrificati (J.C. Coffee, No Soul to Damn: NoBody to Kick: An Unscandalized inquiry into the Problem of Corporate Punishment, inMichiganLaw Rewiew, 1981, Vol. 79, 399 ss., citato in F. Stella, op. e loc. ult. cit.).( 29 ) Sulla difficoltà di individuare le responsabilità penali individuali tra le pieghe dellecomplesse strutture organizzative delle odierne persone giuridiche cfr. A. Alessandri, Reatid’impresa, op. cit., 29 s.; V. Militello, La responsabilità <strong>penale</strong> dell’impresa societaria e deisuoi organi in Italia, inRiv. trim. dir. pen. ec., 1992, 103 s.; L. Fornari, op. cit., 256 s. Nelladottrina straniera v. G. Heine, La responsabilidad penal de las empresas: evolucion internationaly conseguencias nacionales, 1996, in www.unifr.ch/derechopenal/anuario/96/an96.htm,2; J. Reátegui Sánchez, op. cit., 7.( 30 ) Cfr. C. Piergallini, Societas delinquere et puniri non potest: la fine tardiva di undogma, op. cit., 580 s.: «È risaputo che le difficoltà di reperire responsabilità autenticamenteindividuali nel ventre delle organizzazioni complesse, portatrici di una propria politica e diuna propria cultura, fomentano criteri di ascrizione che costituiscono espressione di mereresponsabilità ‘‘da posizione’’, non di rado solcate da fenomeni di implementazione artificiosadelle posizioni di garanzia, che hanno come esito quello di stendere un elenco di ‘‘capriespiatori’’, volta per volta individuati, con un pendolarismo assai poco rassicurante». Su taledegenerazione giurisprudenziale v. C. Pedrazzi, Gestione d’impresa e responsabilità penali,in Riv. soc., 1962, 220 ss.; Id., Profili problematici del diritto <strong>penale</strong> d’impresa, inRiv. trim.dir. pen. ec., 1988, 125 ss.; E. Carletti, La responsabilità <strong>penale</strong> delle persone giuridiche:aspetti problematici, in AA.VV., La responsabilità <strong>penale</strong> delle persone giuridiche in diritto comunitario,op. cit., 502 s.; D. Pulitanó, Posizioni di garanzia e criteri di imputazione nel diritto<strong>penale</strong> del lavoro, inRiv. giur. lav., IV, 1982, 179 ss.; A. Alessandri, voce Impresa, op.cit., 195 ss. Nella dottrina sudamericana v. L. Rodríguez Ramos, Societas delinquere potest.Nuevos aspectos dogmáticos y procesales de la cuestión, 1996, in www.unifr.ch/derechopenal/anuario/96/an96.htm,2 s., il quale stigmatizza, tra le distorsioni a cui dà luogo il dogmadel societas nell’ambito del diritto <strong>penale</strong> d’impresa, la creazione di ipotesi di responsabilitàoggettiva finalizzate a consentire il risarcimento dei danni nei confronti delle vittime.


36SAGGI E OPINIONIche governano il diritto <strong>penale</strong> (in primis quello di personalità della responsabilità<strong>penale</strong>).L’introduzione di una responsabilità diretta degli enti rende inoltre ilsistema <strong>penale</strong> più equo e trasparente, riequilibrando una serie di istituti: inprimo luogo la pena pecuniaria, i cui limiti edittali in alcuni settori (ambiente,territorio, economia) sono elevatissimi perché pensati per colpirel’ente – reale motore dell’illecito – che di fatto ne sostiene il pagamento,a cui è comunque obbligato sussidiariamente (art. 197 c.p.)( 31 ); in secondoluogo istituti che per legge – oblazione discrezionale (art. 162-bis c.p.) esospensione condizionale (art. 165 c.p.) – o per prassi – patteggiamento– sono condizionati a condotte riparatorie dell’offesa che quasi sempre solol’impresa è in grado di porre in essere( 32 ): viene così spezzato quell’«intreccioambiguo ed iniquo fra giudizio <strong>penale</strong> nei confronti di persone fisiche,e interessi risarcitori o reintegratori il cui soddisfacimento, proprionei casi di maggior rilievo, eccede le possibilità degli imputati»( 33 ).( 31 ) Sul punto cfr. Commissione ministeriale per la riforma del codice <strong>penale</strong> presiedutadal prof. Carlo Federico Grosso, Relazione, Roma, 12 settembre 2000, in www.giustizia.it/studierapporti/riformacp/comm_grosso2.htm,ove dopo aver evidenziato tali «esigenze di riequilibriodelle sanzioni pecuniarie del diritto <strong>penale</strong> d’impresa», si ritiene che l’introduzione della responsabilitàdiretta delle persone giuridiche renda il sistema più equo e trasparente; C. Piergallini,Sistema sanzionatorio, op. cit., 1354, che, con icastica espressione, parla di «unsistema ventriloquo, che muove formalmente le labbra in direzione della persona fisica (...),ma in cui a parlare è il ventre della responsabilità sanzionatoria degli enti»; C. De Maglie,Responsabilità delle persone giuridiche: pregi e limiti del d. lgs. n. 231/2001, inDanno e resp.,2002, 247; Id., L’etica e il mercato, op. cit., 289, in cui si portano ad esempio le fattispecie inmateria di inquinamento di acque (art. 21 della legge Merli, riformulato dall’art. 3 comma 1 d.l.17 marzo 1995 n. 79, convertito con modificazioni nella legge 17 maggio 1995, n. 172).( 32 ) Cfr. F. Foglia Manzillo, Verso la configurazione della responsabilità <strong>penale</strong> perla persona giuridica, inDir. pen. proc., 2000, 109 s.; A. Alessandri, Note penalistiche, op.cit., 39; C. De Maglie, op. ult. cit., 289 s., la quale conclude: «l’introduzione nel sistemadella responsabilità <strong>penale</strong> delle persone giuridiche risponde ad esigenze di giustizia e di razionalizzazionedell’esistente. L’ostinato ancoraggio al principio di umanità sottopone tutto ilsistema ad uno ‘‘stress gravemente deformante’’, perché formalizza una finzione legislativache determina un vistoso scollamento tra chi è chiamato formalmente al pagamento e chi,di fatto, provvede all’esborso del denaro. Il risultato è l’avallo della responsabilità per fattoaltrui». Contra v. S. Moccia, Considerazioni sul sistema sanzionatorio del Progetto preliminaredi un nuovo codice <strong>penale</strong>, inCrit. dir., 2000, 295 s., secondo cui in realtà quello chesi pone è «un problema di ragionevolezza dell’imposizione di siffatte sanzioni pecuniarie, allequali si attribuisce impropriamente una finalità di abbattimento dei profitti realizzati dall’autorea favore del terzo persona giuridica», problema che andrebbe affrontato, come fannoordinamenti a cui è estranea la responsabilità delle persone giuridiche, tramite il ricorso allaconfisca del profitto del reato nei confronti del terzo che ne trae indebitamente vantaggio;l’autore ritiene inoltre che, in quest’ordine di idee, verrebbe superata l’irragionevolezza derivantedall’impraticabilità per la persona fisica di un’oblazione o di un patteggiamento inrelazione a sanzioni pecuniarie elevatissime.( 33 ) Commissione ministeriale per la riforma del codice <strong>penale</strong> presieduta dal prof.Carlo Federico Grosso, Relazione, cit.


SAGGI E OPINIONI37C) Gli input di diritto internazionale e comunitarioUn ruolo decisivo ai fini dell’emanazione del d. lgs. n. 231/2001 hannosvolto gli input di provenienza esterna all’ordinamento italiano, ed in particolarela ratifica obbligata di una serie di protocolli e convenzioni internazionali(34 ).La legge delega n. 300/2000 – al cui art. 11 dà appunto attuazione il d.lgs. n. 231/2001 – ratifica e dà esecuzione alla Convenzione per la tuteladegli interessi finanziari delle Comunità europee (Convenzione PIF), Bruxelles,26 luglio 1995; al primo Protocollo della Convenzione PIF, Dublino,1996; alla Convenzione relativa alla lotta contro la corruzione nellaquale sono coinvolti funzionari delle Comunità europee o degli statimembri dell’Unione europea, Bruxelles, 26 maggio 1997; ed alla ConvenzioneOCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelleoperazioni economiche internazionali( 35 ), con annesso, Parigi, 17 dicembre1997.Per la verità, solo la Convenzione OCSE contiene un generico accennoall’adozione, da parte di ciascuno degli Stati aderenti, delle misure necessariea stabilire una forma di responsabilità degli enti nei casi di corruzionedi un pubblico ufficiale straniero. Una presa di posizione esplicita e abbastanzadettagliata in questo senso è invece contenuta nel secondo Protocollodella Convenzione PIF, adottato e firmato a Lussemburgo il 19 luglio( 34 ) In generale sull’argomento cfr. G. Michelini, Responsabilità delle persone giuridichee normativa internazionale multilaterale, inQuest. giust., 2002, 1079 ss., il quale fa notareche «Nell’ipertrofia che pure talvolta caratterizza la produzione normativa internazionale,il pressante richiamo all’individuazione di forme più pregnanti di responsabilità delle impreseè una costante da almeno un decennio». La maggiore sensibilità delle istituzionicomunitarie e internazionali nei confronti dell’introduzione di una responsabilità diretta derivanteda reato delle persone giuridiche al fine di fronteggiare meglio la criminalità organizzatatransnazionale in materia lato sensu economica è dovuta alla «diversa visione di insiemedi cui beneficiava il ‘‘legislatore’’ comunitario, non delimitata dai ristretti confini geograficinazionali ed implementata da valutazioni estranee ai giudizi dei legislatori locali, come quelleinerenti alla necessità di salvaguardare la libertà di iniziativa economica in ambito internazionalee di garantire all’interno del mercato comunitario la parità di condizioni delle impresesul terreno della concorrenza», nonché al fatto che «nell’ottica di una economia globalizzata,la mancata adozione di una soluzione normativa uniforme del problema della responsabilitàdegli enti e la sua remissione all’autonoma valutazione di ciascuno Stato membro, venivaconsiderata come un potenziale fattore di squilibrio del sistema economico europeo» (G.Amarelli, La responsabilità delle persone giuridiche e la repressione della criminalità organizzatatransnazionale, in AA.VV., Nuove strategie per la lotta al crimine organizzato transnazionale,a cura di V. Patalano, Torino, 2003, 33).( 35 ) Sul contenuto di questa convenzione cfr. U. Draetta, La nuova ConvenzioneOECD e la lotta alla corruzione nelle operazioni commerciali internazionali, inDir. scambie comm. int., 1998, 969 ss.; G. Sacerdoti, La convenzione OCSE del 1997 sulla lotta controla corruzione dei pubblici ufficiali stranieri nelle transazioni commerciali internazionali, inRiv.it. dir. proc. pen., 1998, II, 1349 ss.


38SAGGI E OPINIONI1997, per il quale non si è dato corso alla ratifica in seguito alla mancanzadella relazione esplicativa( 36 ). Quest’ultimo documento, tuttavia, pur nonpotendo essere oggetto di ossequio formale da parte del legislatore italiano,è stato la sua reale fonte di ispirazione riguardo alla responsabilità dellepersone giuridiche, è ciò in quanto – volendo l’Unione Europea dotarsidi un corpus unitario di regole inerenti la tutela dei propri interessi finanziari– il recepimento del contenuto del secondo Protocollo si presentavaindispensabile per realizzare efficacemente tale scopo( 37 ).Il secondo Protocollo prevede – in relazione ai delitti di frode, riciclaggio,corruzione attiva ai danni degli interessi finanziari delle Comunitàeuropee, corruzione nel settore privato – che le persone giuridiche «sianopassibili di sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive»( 38 ), lasciandodunque ai legislatori nazionali la scelta sulla natura della responsabilità (<strong>penale</strong>,amministrativa o civile)( 39 ).Una preziosa funzione di moral suasion indirizzata a favorire la diffusionedella responsabilità <strong>penale</strong> degli enti è stata svolta dal Consigliod’Europa tramite una serie di raccomandazioni( 40 ): la Risoluzione (77)( 36 ) Cfr. G. Marra, Note a margine dell’art. 6 ddl n. 3915-s contenente una ‘‘delega algoverno per la disciplina della responsabilità delle persone giuridiche’’, in Ind. pen., 2000, II,829; C. Piergallini, La disciplina, op. cit., 1355.( 37 ) In tal senso v. G. Marra, op. cit., 829 s.; C. Piergallini, op. e loc. ult. cit.( 38 ) Sul secondo Protocollo alla Convenzione PIF cfr. M.F. Fontanella, Corruzionee superamento del principio societas delinquere non potest nel quadro internazionale, inDir.comm. int., 2000, II, 943 ss.( 39 ) La Corte di Giustizia delle Comunità europee, nella sentenza sull’affare Vandevenne,ha stabilito che «né l’art. 5 del Trattato CEE, né l’art. 17 del reg. n. 2820/85 obbliganouno Stato membro ad introdurre nel proprio ordinamento nazionale il principio della responsabilità<strong>penale</strong> delle persone giuridiche» (Corte di Giustizia, 2 ottobre 1991, causa c-7/90, in Raccolta, 1991, vol. I, 4371 ss.). E. Dolcini, Principi costituzionali e diritto <strong>penale</strong>alle soglie del nuovo millennio. Riflessioni in tema di fonti, diritto <strong>penale</strong> minimo, responsabilitàdegli enti e sanzioni, inRiv. it. dir. proc. pen., 1999, 20, ritiene che «i tratti di tale responsabilità,con tutta evidenza, sono quelli caratteristici di una responsabilità <strong>penale</strong>» e che«se le convenzioni si astengono dall’attribuirle espressamente tale qualifica, lo fanno soltantoin ossequio formale alle scelte di quei legislatori nazionali che ancora non prevedono la responsabilità<strong>penale</strong> delle persone giuridiche». Contra v. A.M. Castellana, Diritto <strong>penale</strong>dell’Unione Europea e principio «societas delinquere non potest», inRiv. trim. dir. pen. econ.,1996, 758 ss. e spec. 802 ss., la quale rileva che l’armonizzazione sanzionatoria delle normativenazionali, necessaria per una adeguata realizzazione degli scopi dell’Unione Europea,viene attuata dagli organi comunitari ricorrendo allo strumento del diritto <strong>penale</strong> amministrativo,onde gli enti collettivi dovrebbero essere sanzionati nello stesso modo; l’autore, infatti,aderisce alla posizione di coloro che sono contrari all’introduzione della responsabilità<strong>penale</strong> delle persone giuridiche, propugnando il ricorso a strumenti sanzionatori alternativiquali le sanzioni penali-amministrative.( 40 ) Sull’attività del Consiglio d’Europa cfr. C. Bolognese, The criminal responsibilityof legal person in the instruments of the Council of Europe: un ongoing project, intervento alseminario di studio (programma comunitario Grotius) sul tema La responsabilità <strong>penale</strong> delle


SAGGI E OPINIONI3928 sul ‘‘contributo del diritto <strong>penale</strong> alla protezione dell’ambiente’’, adottatadal Comitato dei Ministri il 28 settembre 1977; la Raccomandazionen. R. (81) 12 del 25 giugno 1981 sulla criminalità economica; la Raccomandazionen. R. (82) 15 del 24 settembre 1982 sul ‘‘Ruolo del diritto <strong>penale</strong>nella tutela del consumatore’’; la nota Raccomandazione n. R. (88) 18adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 20 ottobre1988( 41 ), che contiene una presa di posizione generale a favore della responsabilitàdelle persone giuridiche, giacché ha sollecitato gli statimembri a colpire con sanzioni dirette (eventualmente anche penali) le impreseche tengono comportamenti criminali; ed infine la Raccomandazionen. R (96) 8 adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europail 5 settembre 1996 e dedicata a ‘‘Politica criminale e diritto <strong>penale</strong>in un’Europa in trasformazione’’( 42 ).Nel quadro di un’armonizzazione del diritto <strong>penale</strong> degli stati membridell’Unione Europea e della creazione di uno ‘‘spazio giuridico europeo’’,si inserisce poi il Corpus Juris, un documento che è il prodotto di unostudio elaborato per conto del Parlamento europeo con la supervisionedella Commissione dell’Unione Europea, che ha avuto una prima versionenel 1996 ed una seconda nel 2000( 43 ). Questo elaborato è «un insieme dinorme penali che costituiscono una sorta di corpus juris, limitatamente allatutela <strong>penale</strong> degli interessi finanziari dell’Unione Europea, e volte a garantire,in uno spazio giudiziario ampiamente unificato, una repressione piùgiusta, più semplice, più efficace»( 44 ); al suo interno, l’art. 13 disciplinala responsabilità <strong>penale</strong> delle persone giuridiche per una serie di reati lesividegli interessi finanziari dell’Unione Europea( 45 ).persone giuridiche, organizzato dal Ministero della Giustizia, Direzione Generale degli AffariPenali, Roma, 10-12 giugno 1999.( 41 ) Il testo della Raccomandazione è pubblicato in Riv. trim. dir. pen. ec., 1991, 653ss., con traduzione di V. Militello.( 42 ) Cfr. C. De Maglie, op. ult. cit., 231 ss.; G. Amarelli, op. ult. cit., 38s.( 43 ) Sul Corpus Juris cfr. G. Grasso, Il ‘‘Corpus Juris’’ e le prospettive di formazione diun diritto <strong>penale</strong> dell’Unione Europea, inG. Grasso (a cura di), Verso uno spazio giuridicoeuropeo, Milano, 1997, 1 ss.; Id., Il Corpus Juris: Profili generali e prospettive di recepimentonel sistema delle fonti e delle competenze comunitarie, inL. Picotti (a cura di), Possibilità elimiti di un diritto <strong>penale</strong> dell’Unione Europea, Milano, 1999, 127 ss.; M. Delmas-Marty-J.A.E. Vervaele (a cura di), The implementetion of the Corpus Juris in the Member States:penal previsions for the protection of the European finance, voll. I, II, III, IV, Antwerpen-Groningen-Oxford,2000; M. Delmas-Marty, Il Corpus Juris delle norme penali per la protezionedegli interessi finanziari dell’Unione Europea, inQuest. giust., 2000, 164 ss.( 44 ) Corpus Juris – Motivazione, inG. Grasso (a cura di), Verso uno spazio, op.cit., 50.( 45 ) L’art. 13 comma 1 prevede che per i reati di cui agli artt. 1-8 (frode al bilanciocomunitario, frode in materia di appalti, corruzione, abuso d’ufficio, malversazione, rivelazionedi segreti d’ufficio, riciclaggio e ricettazione, associazione per delinquere) «Sono responsabili(...) anche gli enti che possiedono la personalità giuridica, così come quelli che


40SAGGI E OPINIONINon va dimenticata, inoltre, come fattore di pressione, l’enorme diffusioneche la responsabilità <strong>penale</strong> delle persone giuridiche – originariamenteconfinata nei paesi di common law – ha avuto nei paesi dell’Europacontinentale( 46 ) (l’istituto è ormai presente in Olanda, Irlanda, Danimarca,Svezia, Finlandia, Norvegia, Portogallo, Francia, Belgio, Svizzera( 47 )).3. La natura giuridica della responsabilità dell’ente: un falso problema?È opportuno ora prendere in esame il problema, molto dibattuto indottrina, della natura della responsabilità dell’ente, al fine di verificare sesi tratti di una questione del tutto astratta e teorica, o se invece essa nonrivesta comunque una rilevanza pratica.Secondo l’opinione prevalente in dottrina, nonostante il d. lgs. n. 231/2001 preveda formalmente una responsabilità amministrativa, ci troviamodi fronte ad una responsabilità sostanzialmente <strong>penale</strong>, che di amministrativopresenta solo il nome. In sostanza, il legislatore avrebbe realizzato unavera e propria ‘‘frode delle etichette’’( 48 ) per evitare ogni problema di com-possiedono la qualità di soggetti di diritto e che sono titolari di un patrimonio autonomo,quando il reato è stato realizzato per conto dell’ente da un organo, da un rappresentanteo da qualunque persona che abbia agito in nome dell’ente o che abbia un potere di decisione,di diritto o di fatto». Per un commento dell’art. 13 cfr. I. Caraccioli, La responsabilità<strong>penale</strong> delle persone morali, inL. Picotti (a cura di), Possibilità e limiti, op. cit., 177 ss.; G.De Simone, La responsabilità <strong>penale</strong> dell’imprenditore e degli enti collettivi nel Corpus Juris,ivi, 187 ss.; C. De Maglie, op. ult. cit., 240 s.; G. Amarelli, op. ult. cit., 39 ss.( 46 ) Per un quadro di diritto comparato cfr. H. De Doelder-K. Tiededmann (a curadi), La criminalisation du comportement collectif. Criminal Liability of Corporations, 1996,passim; A. Eser-G. Heine-B. Huber (a cura di), Criminal responsibility of legal and collectiveentities, Freiburg, 1999, passim.; nonché l’approfondita indagine di C. De Maglie, L’eticae il mercato, op. cit., 11-226. Da ultimo cfr. A. Menghini, Sistemi sanzionatori a confronto,inG. Fornasari-A. Menghini, Percorsi europei di diritto <strong>penale</strong>, Padova, 2005, 207 ss.( 47 ) In Svizzera la responsabilità <strong>penale</strong> delle persone giuridiche – novità storica perquesto paese – è in vigore dal 1º ottobre 2003. Sono previste due forme di responsabilità<strong>penale</strong> dell’impresa: una primaria ed una sussidiaria. Si ha responsabilità primaria se inun’impresa viene commesso uno dei reati connessi al crimine organizzato ed al terrorismo,al riciclaggio o alla corruzione di funzionari, «qualora le si possa rimproverare di non averepreso tutte le misure organizzative, ragionevoli ed indispensabili per impedire un simile reato»(art. 100-quater cpv. 2 c.p.s.); mentre si ha responsabilità sussidiaria se in un’impresa vienecommesso un crimine o un delitto, intenzionale o colposo, il cui autore non può essereaccertato a causa dell’organizzazione interna carente dell’impresa medesima (art. 100-quatercpv. 1 c.p.s.): la responsabilità dell’impresa, dunque, scatta solo se non è individuata la personafisica autore del reato (cfr. P. Bernasconi, Introdotta anche in Svizzera la responsabilità<strong>penale</strong> dell’impresa, inCass. pen., 2003, 4043 ss.).( 48 ) In proposito, vi è chi intelligentemente ha osservato che non si può parlare di ‘‘frodedelle etichette’’ in senso tecnico, dato che questa espressione si riferisce ad ipotesi in cui laclassificazione formale serve a coprire l’elusione di garanzie rese necessarie dalla sostanza


SAGGI E OPINIONI41patibilità della nuova disciplina con l’art. 27 della Costituzione( 49 ). Ed infavore della natura <strong>penale</strong> della responsabilità depongono in primo luogoil fatto che la responsabilità dell’ente è collegata alla commissione di unreato, viene accertata dal giudice <strong>penale</strong> all’interno di un processo <strong>penale</strong>,e comporta l’irrogazione di sanzioni afflittive e stigmatizzanti( 50 ). A questoargomento, indubbiamente forte, si aggiunge l’individuazione di una seriedi indici che portano nella stessa direzione( 51 ): l’autonomia della responsabilitàdell’ente rispetto a quella della persona fisica (art. 8); il sistema dicommisurazione delle pene pecuniarie, di chiara ispirazione penalistica‘‘punitiva’’ degli istituti (è il caso delle misure di sicurezza), mentre nel caso del d. lgs. n. 231/2001 il legislatore ha apprestato tutte le garanzie, sostanziali e processuali, tipiche del diritto<strong>penale</strong> (D. Pulitanó, La responsabilità ‘‘da reato’’ degli enti: i criteri di imputazione, inRiv.it. dir. proc. pen., 2002, 417 s.).( 49 ) G. De Vero, Struttura e natura giuridica dell’illecito di ente collettivo dipendenteda reato. Luci ed ombre nell’attuazione della delega legislativa, inRiv. it. dir. proc. pen., 2001,1158, evidenzia che l’etichetta «responsabilità amministrativa» è dettata «dalla sola motivazionedi non urtare la pruderie di quanti si dichiarano in via di principio contrari ad ammettereun’autentica responsabilità <strong>penale</strong> delle persone giuridiche»; Id., Introduzione al sistema<strong>penale</strong>, Torino, 2002, 105.( 50 ) In tal senso cfr. E. Musco, Le imprese a scuola di responsabilità tra pene pecuniariee misura interdittive, inDir. e Giust., 2001, n. 23, 8, il quale osserva che tale responsabilità,per struttura e funzione, «di amministrativo presenta solo il nome, apparendo, con una probabilitàche rasenta la certezza, un mascheramento di quella responsabilità <strong>penale</strong> della personagiuridica di cui si predica da anni la necessità e/o opportunità di una valorizzazione anchenel sistema <strong>penale</strong> italiano»; P. Ferrua, Le insanabili contraddizioni nella responsabilitàdell’impresa, inDir. e Giust., 2001, n. 29, 8; L. Conti, La responsabilità amministrativa dellepersone giuridiche. Abbandonato il principio societas delinquere non potest?, in Il diritto <strong>penale</strong>dell’impresa, a cura di L. Conti, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblicodell’economia, diretto da F. Galgano, Padova, 2001, 866, secondo cui vi è stato un mascheramentolegislativo di veri e propri reati indicati come illeciti amministrativi per superare remorecostituzionali; C.E. Paliero, Il d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231: da ora in poi, societasdelinquere (et puniri) potest, in Corr. giur., 2001, 845; G. Graziano, La responsabilità ‘‘<strong>penale</strong>-amministrativa’’delle persone giuridiche, inDir. prat. soc., 2002, n. 21, 22; A. Manna,La c.d. responsabilità amministrativa delle persone giuridiche: il punto di vista del penalista, inCass. pen., 2003, 1103 s.; G. Fiandaca-E. Musco, Diritto Penale, Parte gen., IV ed., rist.agg., Bologna, 2004, 146; T. Padovani, Diritto <strong>penale</strong>, Parte gen., VII ed., Milano, 2004, 88s. Sostanzialmente su questa linea si pone anche A. Fiorella, Principi generali e criteri diattribuzione all’ente della responsabilità amministrativa, inA. Fiorella-G. Lancellotti,La responsabilità dell’impresa per i fatti di reato. Commento alla legge 29 settembre 2000,n. 300 ed al d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231. Presupposti della responsabilità e modelli organizzativi,Torino, 2004, 3 s., 14, che parla di responsabilità para-<strong>penale</strong> o in ogni caso assimilabilese non addirittura da identificare a quella <strong>penale</strong>, almeno dal punto di vista delle garanziecostituzionali.( 51 ) Cfr. P. Patrono, Verso la soggettività <strong>penale</strong> di società ed enti, inRiv. trim. dir.pen. ec., 2002, 187 ss.; V. Maiello, La natura (formalmente amministrativa ma sostanzialmente<strong>penale</strong>) della responsabilità degli enti nel d. lgs. n. 231/2001: una «truffa delle etichette»davvero innocua?, inRiv. trim. dir. pen. ec., 2002, 900 ss.; G. Amarelli, Mito giuridico edevoluzione della realtà, op. cit., 969 ss.


42SAGGI E OPINIONI(artt. 10 e 11); la punizione della persona giuridica anche per il tentativo(art. 26); la rinunciabilità all’amnistia da parte dell’ente (art. 8, comma3); l’istituzione dell’anagrafe nazionale delle sanzioni amministrative comminateagli enti (art. 80); l’applicazione dei principî di legalità (art. 2) edi retroattività della lex mitior (art. 3, comma 2).Autorevole ma minoritaria dottrina( 52 ) ritiene invece trattarsi di responsabilitàin tutto e per tutto amministrativa, facendo leva su tre argomenti:1) recentemente una serie di reati in materia alimentare sono statidepenalizzati e ridotti al rango di illeciti amministrativi, ma ai fatti più gravisi applicano sempre sanzioni accessorie di carattere interdittivo, che hannomantenuto inalterato il loro contenuto a prescindere dalla qualificazionegiuridica, per cui è il nome della sanzione che ne determina la natura enon viceversa; 2) nel d. lgs. n. 231/2001 sono presenti elementi estraneial sistema <strong>penale</strong>, come la disciplina della prescrizione (art. 22) e quelladelle vicende modificative dell’ente (fusione, scissione, cessione e conferimentodi azienda: artt. 28-33); 3) il fatto che la responsabilità dell’entesia accertata con le forme e le garanzie del processo <strong>penale</strong> non implica necessariamentela sua natura <strong>penale</strong>, in quanto «se è vero che ‘‘non c’è penasenza processo <strong>penale</strong>’’, non è vero l’opposto, perché ‘‘vi può essere unasanzione amministrativa anche se inflitta nel corso e con le garanzie delprocesso <strong>penale</strong>’’», come nell’ipotesi di connessione obiettiva di un illecitoamministrativo con un reato di cui all’art. 8 della legge n. 689/1981.In realtà, se all’interno di questa spinosa problematica c’è un datocerto, è che deve escludersi la natura amministrativa della responsabilitàdell’ente, che nulla possiede del paradigma amministrativo sia perché«non è in questione una funzione amministrativa, ma si è in presenza diuna funzione giurisdizionale <strong>penale</strong>»( 53 ) – tant’è che la sanzione non è irrogatatramite un atto amministrativo – sia perché l’ente risponde per lacommissione di un reato e non di un illecito amministrativo. Né le predetteargomentazioni sono in grado di ribaltare questa conclusione: all’argomentosub 1) deve ribattersi che il titolo è solo uno degli elementi da utilizzareper l’interpretazione di una norma: laddove tutto o quasi nella disciplinasia in disaccordo con esso non può non prevalere l’interpretazionesistematica( 54 ); riguardo all’argomento sub 2) la presenza di elementi in-( 52 ) G. Marinucci, op. cit., 1201 ss. Qualifica la responsabilità dell’ente come amministrativaanche M. Romano, La responsabilità amministrativa degli enti, società o associazioni:profili generali, inRiv. soc., 2002, 398.( 53 ) Così A. Travi, La responsabilità della persona giuridica nel D. Lgs. n. 231/2001:prime considerazioni di ordine amministrativo, inLe soc., 2001, 1305.( 54 ) Cfr. Corte cost., sentenza 28 novembre 1968, n. 116, in Giur. cost., 1968, II, 2071ss., con nota di A. Pradieri, I titoli delle leggi – Osservazioni sul loro procedimento di formazione;G. Amarelli, op. ult. cit., 967 ss.


SAGGI E OPINIONI43compatibili con la natura <strong>penale</strong> della responsabilità non depone automaticamentea favore della sua qualificazione come amministrativa; infine, inmerito all’argomento sub 3), è vero che il giudice <strong>penale</strong> talvolta è chiamatoad applicare sanzioni amministrative, ma ciò non avviene «mai come concretizzazionedi uno scopo esclusivo ed originario del processo»( 55 ).Secondo un altro punto di vista, stante l’impossibilità di una rieducazionedell’ente, si è in presenza di un terzo binario del diritto <strong>penale</strong> criminale,che si affianca alla pena e alle misure di sicurezza, il quale si concretain «una sanzione punitiva intesa a realizzare la prevenzione dei reati per iltramite delle componenti più superficiali (negative) della prevenzione generalee speciale, le sole compatibili con la depotenziata e settoriale dimensionesoggettiva dell’ente collettivo»( 56 ).Il dato che emerge è che sono presenti elementi che legittimano differentiinquadramenti, anche se la struttura e le modalità del modello disegnanoun paradigma sanzionatorio che è più vicino a quello <strong>penale</strong>( 57 ),pur non essendo interamente tale( 58 ). Per questo motivo è più importantevalutare il nuovo modello punitivo sul piano dell’effettività e delle garanzie,rifiutando comunque l’etichetta ambigua ed indefinita di tertium genus utilizzatanella relazione governativa al decreto legislativo( 59 ). La formula «re-( 55 ) V. Maiello, op. cit., 901.( 56 ) G. De Vero, Struttura e natura giuridica dell’illecito di ente collettivo dipendenteda reato, op. cit., 1165 ss.; Id., La responsabilità diretta ex crimine degli enti collettivi: modellisanzionatori e modelli strutturali, in AA.VV., L’ultima sfida della politica criminale: la responsabilità(<strong>penale</strong>?) degli enti collettivi, inLeg. pen., 2003, 358. Nello stesso senso cfr. F. Nuzzo,Primi appunti sugli aspetti probatori e sulle decisioni finali concernenti l’illecito amministrativodipendente da reato, inArch. nuova proc. pen., 2001, 455 s., nonché – tra gli economistiche ascrivono la criminalità economica al calcolo razionale dei vantaggi conseguibiliattraverso il reato – M. Centorrino-F. Ofria, L’impatto criminale sulla produttività delsettore privato, Milano, 2002, passim.( 57 ) Cfr. C. Piergallini, La disciplina, op. cit., 1365; A. Alessandri, Note penalistiche,op. cit., 55 ss. e spec. 58: «si tratta di una responsabilità punitiva, che sorge in ambientepenalistico, per esigenze di migliore tutela dei beni giuridici, ma non assume lo schema penalistico»;C. De Maglie, L’etica e il mercato, op. cit., 329.( 58 ) Segnano un distacco dal modello penalistico il regime della prescrizione, la disciplinadell’archiviazione (art. 58) e della contestazione dell’illecito (art. 59), l’inesistenza di unregime di conversione per le sanzioni pecuniarie e l’assenza di istituti sospensivi (cfr. C.Piergallini, op. e loc. ult. cit.).( 59 ) La Relazione governativa al d. lgs. n. 231/2001, inGuida al diritto, 2001, n. 26, 31ss., parla di «tertium genus che coniuga i tratti essenziali del sistema <strong>penale</strong> e di quello amministrativonel tentativo di contemperare le ragioni dell’efficacia preventiva con quelle, ancorpiù ineludibili, della massima garanzia». Il Progetto preliminare di riforma del codice <strong>penale</strong>elaborato dalla Commissione ministeriale presieduta dal prof. Carlo Federico Grosso, incui è contenuta una forma di responsabilità da reato delle persone giuridiche che ha ispiratoil legislatore del d. lgs. n. 231/2001, ha invece scelto di non qualificare la responsabilità nécome <strong>penale</strong>, né come amministrativa, delineando – secondo la Relazione al Progetto – «unasorta di tertium genus, che è sìancorato a presupposti penalistici (commissione di un reato) e


44SAGGI E OPINIONIsponsabilità amministrativa» adoperata dal legislatore si rivela dunquenulla più che «un’etichetta carica di significati simbolici, del tutto neutra rispettoalla disciplina degli istituti»( 60 ), mentre in ultima analisi siamo difronte ad «un sottosistema autonomo, entro il complesso di quello che puòessere ed è definito dalla dottrina come sistema punitivo, comprendente siail diritto <strong>penale</strong> sia il sistema dell’illecito ‘‘amministrativo’’», rispetto alquale la formula ‘‘responsabilità da reato’’ appare come la più congeniale(61 ).Non si può però concordare con chi ritiene che la questione della naturagiuridica della responsabilità degli enti sia questione meramente accademica(62 ): se è innegabile che ciò che conta maggiormente in concreto è ilgovernato dalle garanzie forti del diritto <strong>penale</strong>, ma che rispetto al diritto <strong>penale</strong> classico presentainevitabili diversità, dovute alla diversità dei destinatari» (l’Articolato del Progetto e laRelazione sono consultabili sul sito www.giustizia.it, nonché inRiv. it. dir. proc. pen., 2001, 3ss.). Criticano la scelta di etichettare come amministrativa la responsabilità dell’ente operatadal legislatore, esaltando invece l’opzione astensionistica presente nel Progetto Grosso M.Pelissero-G. Fidelbo, La ‘‘nuova’’ responsabilità amministrativa delle persone giuridiche(d. lgs. 8.6.2001 n. 231), inLeg. pen., 2002, 592 s. A sé stante la posizione di S. Vinciguerra,Quale specie di illecito?, inS. Vinciguerra-M. Ceresa Gastaldo-A. Rossi, La responsabilitàdell’ente per il reato commesso nel suo interesse (D. Lgs. n. 231/2001), Padova,2004, 183 ss., spec. 211 s., il quale configura addirittura un quartum genus tra responsabilitàcivile, <strong>penale</strong>, <strong>penale</strong>-amministrativa, dato che «Il risultato dell’ibridazione è un modello chenon riproduce la responsabilità punitivo-amministrativa né si colloca esclusivamente fra quest’ultimae la responsabilità <strong>penale</strong>, perché riproduce anche caratteri della responsabilità civileaquiliana», modello ottenuto recependo caratteri comuni e caratteri esclusivi delle suddetteforme di responsabilità.( 60 ) D. Pulitanó, La responsabilità ‘‘da reato’’ degli enti: i criteri di imputazione, op.ult. cit., 417; Id., voce Responsabilità amministrativa per i reati delle persone giuridiche, inEnc. dir., Aggiornamento, vol. VI, Milano, 2002, 954: «il legislatore italiano ha fatto una sceltadi forte valenza simbolica: l’etichetta adoperata trasmette un messaggio di minor gravità edi minore riprovazione, rispetto alla responsabilità <strong>penale</strong>. Soltanto dentro questo involucrosimbolico la responsabilità degli enti è stata accettata (e non senza contrasti) nel contesto culturalee (soprattutto) nel contesto politico italiano, ancora alla svolta del millennio».( 61 ) Così D. Pulitanó, La responsabilità ‘‘da reato’’ degli enti: i criteri di imputazione,op. cit., 417 ss.; in senso adesivo v. C. De Maglie, op. ult. cit., 329 s.( 62 ) Di questa idea sono D. Pulitanó, op. ult. cit., 417, che reputa sterile la discussionesulla natura giuridica della responsabilità dell’ente, in quanto rischia di «scambiareper problemi ‘‘dogmatici’’, di sostanza, problemi di mera costruzione del linguaggio»; Id.,voce Responsabilità amministrativa per i reati delle persone giuridiche, op. cit., 954; Id., Laresponsabilità «da reato» degli enti nell’ordinamento italiano, in AA.VV., Responsabilità deglienti per i reati commessi nel loro interesse, op. cit., 9;C. De Maglie, op. ult. cit., 328; Id.,Corporate criminal liability in italian law, op. cit., 398. Contra v. M.A. Pasculli, Questioniinsolute ed eccessi di delega nel d.l.vo n. 231/01, inRiv. pen., 2002, 740; A. Manna, La c.d.responsabilità amministrativa delle persone giuridiche: un primo sguardo d’insieme, op. cit.,517; G. Amarelli, op. ult. cit., 967 s.; S. Vinciguerra, La struttura dell’illecito, inS. Vinciguerra-M.Ceresa Gastaldo-A. Rossi, op. cit., 5: «La qualificazione del tipo di responsabilitàvenuta in essere con il d. lgs. n. 231/2001 non presenta un interesse puramenteaccademico, perché da essa dipendono importanti conseguenze, quali il grado di completez-


SAGGI E OPINIONI45contenuto della disciplina, al fine di contemperare le esigenze politico-criminalicon quelle garantistiche, è altresì vero che la qualificazione giuridicamantiene una sua rilevanza pratica oltre che dogmatica, e ciò per due ordinidi ragioni. In primo luogo, per coloro che ritengono la responsabilità<strong>penale</strong> degli enti in contrasto con l’art. 27, commi 1 e 3, Cost., conoscere lanatura della responsabilità èindispensabile per stabilire la legittimità costituzionaledel d. lgs. n. 231/2001; in secondo luogo, qualificare la responsabilitàcome <strong>penale</strong> renderebbe i principî garantistici che governano laresponsabilità dell’ente – traslati dagli stessi principî che la Costituzioneprevede per la persona fisica – inderogabili da parte del legislatore ordinario(63 ). Il problema è che il legislatore, con una scelta timida e compromissoria,ha reso impossibile stabilire la reale natura della responsabilità(64 ), mentre sarebbe stato opportuno imboccare chiaramente e con decisionela strada della responsabilità <strong>penale</strong> stricto sensu, soprattutto se siritiene «superata l’antica obiezione legata al presunto sbarramento dell’art.27 Cost., e cioè all’impossibilità di adattare il principio di colpevolezza allaresponsabilità degli enti»( 65 ), in forza del prevalere della concezione normativadella colpevolezza sulla concezione psicologica( 66 ).za richiesto alla delega parlamentare, la misura della discrezionalità consentita al legislatoredelegato, i limiti costituzionali della responsabilità degli enti, la disciplina di riferimento perintegrare la legge istitutiva nelle parti in cui si rivela lacunosa».( 63 ) Similmente cfr. G. De Simone, I profili sostanziali della responsabilità c.d. amministrativadegli enti: la «parte generale» e la «parte speciale» del d. lgs. 8 giugno 2001 n. 231,inAA.VV., Responsabilità degli enti per illeciti amministrativi dipendenti da reato, op. cit., 80,secondo cui «il problema della qualificazione formale (...) andrebbe forse sdrammatizzato edassumerebbe un rilievo tutto sommato marginale, una volta imboccata la via della ‘‘massimizzazione’’dei principî e delle garanzie di stampo penalistico. Non si deve, però, dimenticareche talune opzioni tutt’altro che irrilevanti (quale, in primis, quella relativa ai ‘‘referenti costituzionali’’cui agganciare questi principî e queste garanzie) potrebbero dipendere propriodall’etichetta che si intende assegnare a questo modello di responsabilità»; Id., La responsabilitàda reato dell’impresa nel sistema italiano: alcune osservazioni rapsodiche e una preliminaredivagazione comparatistica, in AA.VV., Societas puniri potest. La responsabilità da reatodegli enti collettivi, op. cit., 223 s.( 64 ) In senso critico nei confronti della mancanza di chiarezza del legislatore nella definizionedella natura della responsabilità degli enti cfr. F. Foglia Manzillo, Responsabilitàdell’ente: amministrativa, <strong>penale</strong> o ‘‘tertium genus’’, inDir. prat. soc., 2002, n. 8, 19.( 65 ) Relazione governativa al d. lgs. n. 231/2001, cit., 31.( 66 ) Secondo la concezione psicologica, la colpevolezza consiste in una mera relazionepsicologica tra fatto e autore, mentre secondo la concezione normativa – oggi accolta dalladottrina dominante – la colpevolezza consiste nella rimproverabilità dell’atteggiamento psicologicotenuto dal soggetto agente: il giudizio di rimprovero da parte dell’ordinamento vertesull’atteggiamento antidoveroso della volontà presente sia nel fatto doloso che nel fattocolposo; il vantaggio offerto da questa seconda concezione è di prospettare un concettodi colpevolezza che funga anche da criterio di commisurazione giudiziale, consentendo ditenere conto dei motivi e delle circostanze dell’agire (fra gli autori che hanno fatta propriala concezione normativa cfr. G. Delitala, Il fatto nella teoria generale del reato, Padova,


46SAGGI E OPINION<strong>IL</strong>a dottrina prevalente ha sempre sostenuto sia l’incompatibilità dellaresponsabilità <strong>penale</strong> delle persone giuridiche con il principio costituzionaledi colpevolezza, ritenendo che l’ente non possa per sua natura esprimereuna volontà psicologica colpevole( 67 ), sia l’impossibilità di concepireun finalismo rieducativo nei confronti dell’ente, dato che questo presupponeuna personalità strutturata, una storia di vita reale, un substrato psicologicominimo che possa essere orientato verso la riappropriazione deivalori della legalità( 68 ). Si è anche sostenuto che, pur non essendovi forseostacoli dogmatici e costituzionali tali da impedire la configurazione di unaresponsabilità <strong>penale</strong> delle persone giuridiche, la criminalizzazione deglienti avrebbe l’effetto di sfigurare il volto costituzionale dell’illecito <strong>penale</strong>,aprendo la via ad un diritto <strong>penale</strong> tecnocratico, che rischierebbe di compromettereanche le garanzie faticosamente conquistate per l’individuo( 69 ).1930, 85; C. Fiore, Diritto <strong>penale</strong>, Parte gen., vol. I, Torino, 1993, 139 ss.; G. Fiandaca-E.Musco, op. cit., 282 ss.; F. Mantovani, Diritto <strong>penale</strong>, Parte gen., Padova, 2001, 297; G.Marinucci-E. Dolcini, Corso di diritto <strong>penale</strong>, III ed., Milano, 2001, 489 ss.; M. Romano,sub Pre-Art. 39 c.p., in Commentario sistematico del codice <strong>penale</strong>, vol. I, III ed., Milano,2004, 329 ss. Contra v. F. Pagliaro, Il fatto di reato, Palermo, 1960, 240 ss.; Id., Principi didiritto <strong>penale</strong>, Parte gen., VIII ed., Milano, 2003, 322 s.). In giurisprudenza, per una importantepronuncia di accoglimento della concezione normativa della colpevolezza, cfr. Cass.,Sez. Un., 25 gennaio-8 marzo 2005, n. 9163, in Guida al diritto, 2005, n. 17, 54 ss.( 67 ) Cfr., fra i tanti, C.F. Grosso, voce Responsabilità <strong>penale</strong>, inNoviss. Dig. It., vol.XV, Torino, 1968, 712; M. Romano, Societas delinquere non potest (nel ricordo di FrancoBricola), inRiv. it. dir. proc. pen., 1995, 1031 ss.; Id., La responsabilità, op. cit., 398 ss.;G. Maiello, op. cit., 887, spec. 897 ss., che ripropone con forza tutte le tradizionali obiezionialla criminalizzazione degli enti; G. Amarelli, op. cit., 982 ss., per il quale, se si vuoleintrodurre una responsabilità <strong>penale</strong> delle persone giuridiche, la via obbligata è quella dellariforma dell’art. 27 Cost., rimanendo preclusa ogni lettura evolutiva dello stesso. In passato,si sono invece espressi – con varietà di argomenti – a favore della responsabilità <strong>penale</strong> deglienti L. Stortoni, op. cit., 1163 ss.; F.C. Palazzo, op. cit., 418 ss.; G. Pecorella, Societasdelinquere potest, inRiv. giur. lav., IV, 1977, 357 ss. Vi è chi acutamente ha notato come laresponsabilità <strong>penale</strong> delle persone giuridiche è «l’unico terreno in cui l’orientamento costituzionaledel sistema <strong>penale</strong> italiano ha svolto un ruolo frenante e conservatore, anziché progressista,vale a dire di adeguamento dello strumento <strong>penale</strong> alle moderne esigenze politicocriminali»(così C.E. Paliero, La fabbrica del Golem. Progettualità e metodologia per la«Parte generale» di un codice <strong>penale</strong> dell’Unione Europea, inRiv. it. dir. proc. pen., 2000,499).( 68 ) Cfr. A. Alessandri, Reati d’impresa, op. cit., 58; Id., Commento, op. cit., 160 s.L’autore ha ribadito la sua posizione anche di recente in Id., Note penalistiche, op. cit., 44.( 69 ) In tal senso cfr. A. Alessandri, Reati d’impresa, op. cit., 57 s.; Id., Commento, op.cit., 159 s. In senso adesivo v. G. Flora, L’attualità del principio «societas delinquere nonpotest», inRiv. trim. dir. pen. econ., 1995, 18 s.; G. Izzo, Prospettive di esclusione per la responsabilità<strong>penale</strong> delle persone giuridiche, inIl fisco, 1999, n. 21, 7057 s., che suggerisce diintrodurre nei confronti delle persone giuridiche sanzioni emanate dall’autorità amministrativa;nonché, da ultimo, M.L. Ferrante, Considerazioni sul titolo VII dell’articolato del progettopreliminare di riforma del codice <strong>penale</strong> elaborato dalla commissione presieduta da C.F.Grosso, in AA.VV., La riforma della parte generale del codice <strong>penale</strong>. La posizione della dot-


SAGGI E OPINIONI47Queste obiezioni, come ha dimostrato la dottrina più recente, sonoperò tutte superabili.Riguardo alla colpevolezza, è evidente che l’art. 27, comma 1, Cost.non contiene alcun divieto espresso di criminalizzazione degli enti( 70 ),per cui – adattando il principio di colpevolezza alla persona giuridica edevitando di rimanere prigionieri di un deleterio antropomorfismo – è possibileconfigurare una colpevolezza autonoma dell’ente di contenuto esclu-trina sul progetto Grosso, a cura di A.M. Stile, Napoli, 2003, 650 s. A sé stante è invece l’opinionedi I. Caraccioli, Osservazioni sulla responsabilità <strong>penale</strong> propria delle persone giuridiche,in AA.VV., Studi in onore di Marcello Gallo. Scritti degli allievi, Torino, 2004, 73 ss.,spec. 77 ss., il quale ritiene che l’art. 27, comma 1, Cost. impedisca esclusivamente l’applicazionealla persona giuridica di una sanzione <strong>penale</strong> in conseguenza di un fatto realizzato dauna persona fisica: il principio di personalità della responsabilità <strong>penale</strong> implicherebbe dunqueche la responsabilità <strong>penale</strong> della persona giuridica possa legittimamente configurarsi solonel caso in cui per la stessa condotta non si abbia la contemporanea responsabilità dellapersona fisica e della persona giuridica. In questo quadro, la persona giuridica risponderebbepenalmente solo per i fatti che non possono strutturalmente essere realizzati dalla personafisica e che presuppongono necessariamente come autore un ente collettivo, quali i fatti criminosi,necessariamente plurisoggettivi, che nascono da un delibera o una decisione o unavotazione di più persone nell’ambito di un’impresa (l’autore porta ad esempio il caso diun reato ambientale derivante dalla mancata attuazione delle misure anti-inquinamento inconseguenza di una delibera del consiglio di amministrazione che abbia omesso di destinarei fondi necessari all’acquisto delle apparecchiature disinquinanti), o i reati che nascono daatti giuridici (per esempio il bilancio) che sono il frutto della necessaria collaborazione-partecipazionedi più soggetti (è l’ipotesi delle false comunicazioni sociali ex artt. 2621-2622c.c.). Non vi è chi non veda come una tale impostazione – pur presentata all’insegna diuna liberazione della persona fisica ‘‘debole’’ (a fronte di una persona giuridica ‘‘forte’’)da un diritto <strong>penale</strong> vessatorio e alla ricerca di capri espiatori, comporti l’introduzione di vastissimezone di impunità per la persona fisica, in particolare nel campo della criminalità economica,determinando in tal modo gravi ed irragionevoli disuguaglianze fra ‘‘colletti bianchi’’e ‘‘cittadini comuni’’ che si rendano autori di reati, con seri rischi di tenuta del sistema <strong>penale</strong>:non è un caso, d’altronde, che in tutti gli ordinamenti che accolgono la responsabilità<strong>penale</strong> delle persona giuridiche essa dia luogo ad una responsabilità cumulativa della personafisica che ha commesso il reato, qualora sia possibile identificarla.( 70 ) Cfr. E. Dolcini, op. cit., 23; C. De Maglie, L’etica e il mercato, op. cit., 341 ss.Negli anni settanta Bricola aveva già dimostrato – attraverso il ricorso alla teoria organica – lacompatibilità tra responsabilità <strong>penale</strong> delle persone giuridiche e divieto di responsabilità perfatto altrui, ma aveva ritenuto insuperabile la barriera del nulla poena sine culpa, proponendo– secondo una tesi risalente a Exner – l’adozione di apposite misure di sicurezza (cfr. F. Bricola,Il costo, op. cit., 1010 ss.); successivamente il compianto autore modificò la propriaopinione, ritenendo anche l’utilizzo delle misure di sicurezza nei confronti degli enti in contrastocon il principio di colpevolezza e optando per le sanzioni amministrative (v. F. Bricola,Responsabilità <strong>penale</strong> per il tipo e il modo di produzione, inLa responsabilità dell’impresaper i danni all’ambiente e ai consumatori, Atti del Convegno di studi organizzato dalCentro Nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale, Milano, 17-18 dicembre 1976, Milano,1978, 89 s., ora anche in F. Bricola, Scritti, op. cit., vol. I, tomo II, 1252 s.; Id., Tecnichedi tutela <strong>penale</strong> e tecniche alternativa di tutela, in AA.VV., Funzioni e limiti del diritto <strong>penale</strong>,a cura di M. De Acutis e G. Palombarini, Padova, 1984, 73).


48SAGGI E OPINIONIsivamente normativo, fondata essenzialmente sulle nozioni di politica diimpresa e di colpa di organizzazione( 71 ), come insegnano le esperienzedi molti dei paesi che già accolgono la responsabilità <strong>penale</strong> degli enti.La bontà di questa soluzione è confermata dal fatto che in un paese incui il principio di colpevolezza è costituzionalizzato (Spagna), il TribunaleCostituzionale – nella sentenza n. 246/1991 – ha affermato la compatibilitàdella responsabilità <strong>penale</strong>-amministrativa degli enti con il principio di colpevolezza,dovendo la colpevolezza per le persone giuridiche essere intesadiversamente che per le persone fisiche: per gli uomini essa consiste nellacapacità di infrazione e quindi nella rimproverabilità diretta, mentre per glienti essa va individuata nel fatto di non stimolare il rigoroso adempimentodelle misure di sicurezza da parte dei dipendenti( 72 ). Quanto alla rieducazione,l’esperienza di altri ordinamenti – in particolare quello statunitense equello francese – ha già dimostrato che nei confronti dell’ente è possibilericorrere, oltre alla pena pecuniaria, a sanzioni (quali il probation,ilcommunityservice oiremedial orders) che possono produrre effetti risocializzantinettamente superiori rispetto a quelli prodotti dalla pena detentiva nei confrontidelle persone fisiche( 73 ), in quanto «non essendoci un corpo da straziaree un animo da umiliare, la sanzione diretta all’impresa può permettersiquell’invadenza, quella pervasività e anche quella violenza che un diritto<strong>penale</strong> moderno e rispettoso della dignità umana respinge con forzaqualora il destinatario sia una persona fisica. Nei confronti di un’impresail diritto <strong>penale</strong> può dar sfogo a tutte le pretese di rimodellamento e di ri-( 71 ) In tal senso cfr. J. De Faria Costa, op. cit., 1253 ss.; H.J. Hirsch, La criminalisationdu comportement collectif – Allemagne, inH. De Doelder-K. Tiedemann (a curadi), op. cit., 59 s.; G. De Simone, Societas, op. cit., 117 ss., spec. 127 ss.; S. Bacigalupo, Laresponsabilidad penal de las personas jurídicas, Barcelona, 1998, 359; A. Manna, op. ult. cit.,505; G. Marinucci, op. cit., 1208 ss.; C. Piergallini, Societas delinquere et puniri nonpotest : la fine tardiva di un dogma, op. cit., 582; D. Pulitanó, La responsabilità ‘‘da reato’’degli enti: i criteri di imputazione, op. cit., 423, secondo cui «La ‘‘capacità di colpevolezza’’della persona giuridica, ideologicamente negata da un filone della dottrina, è implicita nellaconfigurazione fattuale e giuridica di un soggetto capace di agire», per cui «la tesi che negain radice la ‘‘capacità di colpevolezza’’ delle persone giuridiche è supporto ideologico di pretesedi ingiustificato privilegio»; C. De Maglie, op. ult. cit., 355 ss.; Id., Verso un codice <strong>penale</strong>europeo: la responsabilità <strong>penale</strong> delle persone giuridiche, in AA.VV., Verso un codice <strong>penale</strong>modello per l’Europa. Offensività e colpevolezza, a cura di A. Cadoppi, Padova, 2002, 65 ss.;L. Zúñiga Rodríguez, La cuestión, op. cit., 8.( 72 ) Sul punto cfr. L. Arroyo Zapatero, Persone giuridiche e responsabilità <strong>penale</strong> inSpagna, in AA.VV., Societas puniri potest, op. cit., 182 s. In Spagna a carico dell’ente esiste unsistema di Consecuencias Accesorias (art. 129 c.p. del 1995) derivanti dalla commissione dideterminati reati, la cui natura giuridica è molto controversa in dottrina (in argomento v.A. Menghini, Consecuencias accesorias e responsabilità delle persone giuridiche, in AA.VV.,Le strategie di contrasto alla criminalità organizzata nella prospettiva di diritto comparato, acura di G. Fornasari, Padova, 2002, 147 ss.).( 73 ) Cfr. E. Dolcini, op. cit., 23s.


SAGGI E OPINIONI49formulazione completa della struttura; può ricostruire una ‘‘personanuova’’, modificando il carattere e reimpostando la condotta di vita»( 74 ).Infine, in merito al paventato vulnus nei confronti delle garanzie dei singoli,è stato efficacemente affermato che «una disciplina legislativa che dall’operatodell’amministratore di una società faccia conseguire sanzioni penalinon solo nei confronti della persona fisica, ma anche nei confronti della societànon rende nessun uomo responsabile per il fatto altrui, né lo renderesponsabile oltre i limiti segnati dalla colpevolezza»( 75 ).Una volta superati gli ostacoli costituzionali, una corretta applicazionedel principio di sussidiarietà depone – in una prospettiva de iure condendo– a favore dell’introduzione di una responsabilità <strong>penale</strong> in senso strettodegli enti, rivelandosi gli strumenti sanzionatori alternativi a quello <strong>penale</strong>(controllo amministrativo e controllo civilistico) del tutto insufficienti difronte all’aggressività e alla dannosità dei corporate crimes: solo la sanzione<strong>penale</strong> è in grado di offrire protezione ai beni giuridici offesi dai reati riconducibilialle persone giuridiche giacché solo il diritto <strong>penale</strong> è in grado diesprimere condanna morale per il comportamento tenuto, stigmatizzandoil valore particolare e superiore posseduto da certi beni giuridici. Il criterioper stabilire l’entrata in gioco del diritto <strong>penale</strong>, infatti, è l’offesa al benegiuridico e non certo il tipo di autore( 76 ).4. I criteri di attribuzione della responsabilità: il criterio oggettivo:A) Le persone fisiche che fanno ‘‘scattare’’ la responsabilità dell’enteAffinché possa ‘‘scattare’’ la responsabilità dell’ente è necessario innanzituttoche il reato sia stato commesso da determinate persone fisiche.Il sistema si articola su due livelli. L’ente risponde se il reato è statocommesso da: a) soggetti posti al vertice della persona giuridica (i c.d. soggettiin posizione apicale), categoria che comprende coloro che rivestono( 74 ) C. De Maglie, L’etica e il mercato, op. cit., 291, 377 ss., la quale rileva inoltre chegrazie a questo tipo di rimedi, demolitori e ricostruttivi, «la persona giuridica è indotta giocoforzaad individuare i punti deboli delle gestione da cui sono scaturiti gli illeciti ed a modificarli,adottando precauzioni che impediscono la commissione di nuovi reati: il risultato èun’opera di ristrutturazione, che assicura per il futuro l’adozione da parte dell’ente di unalinea di politica organizzativa rispettosa dei precetti della legge <strong>penale</strong>. Non solo: la manipolazionedell’organizzazione interna trasforma la persona giuridica autrice di reati in un ‘‘cittadinomodello’’, cambiandone completamente lo stile di vita: l’obiettivo della rieducazioneviene così conseguito nella sua espressione più intensa e totale, improponibile quando il condannatoè un individuo!».( 75 ) Così E. Dolcini, op. cit., 21.( 76 ) Cfr. C. De Maglie, op. ult. cit., 292 ss.; Id., Verso un codice <strong>penale</strong> europeo, op.cit., 64.


50SAGGI E OPINIONIfunzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o diuna sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale,nonché coloro che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dell’ente(art. 5, comma 1, lett. a); ß) persone sottoposte alla direzione o vigilanzadei vertici (art. 5, comma 1, lett. b).Si è giustamente precisato che la nozione di soggetti in posizione apicaledeve essere intesa in senso relativo, giacché «èevidente che solo l’amministratoreunico o il consiglio di amministrazione nel suo complesso possonodirsi davvero all’apice della struttura societaria, mentre qualsiasi diversosoggetto è sempre in qualche misura tenuto a rendere conto delproprio operato all’organo amministrativo»( 77 ). Nella categoria dei verticisono stati comunque inclusi tutti soggetti che esprimono la volontà dell’entee formano la sua politica di impresa, al fine di consentire – in forzadella teoria organica – il rispetto nel principio di personalità della responsabilità<strong>penale</strong> (art. 27, comma 1, Cost.) nella sua accezione minima (divietodi responsabilità per fatto altrui)( 78 ). Nell’individuare i soggetti apicaliil legislatore ha opportunamente seguito un criterio funzionale, di tipopragmatico, incentrato non sulla qualifica formale ricoperta dalla personafisica, ma sulla funzione svolta in concreto( 79 ), consentendo in tal mododi dare rilevanza all’operato dell’amministratore di fatto e, più in generale,di tutti coloro che – nell’ambito delle proprie mansioni – siano in grado diesercitare un vero e proprio dominio sull’ente o su una sua unità operativa(80 ).( 77 ) R. Rordorf, I criteri di attribuzione della responsabilità. I modelli organizzativi egestionali idonei a prevenire i reati, inLe soc., 2001, 1299; G. Graziano, op. cit., 23.( 78 ) Cfr. G. De Simone, I profili sostanziali della responsabilità c.d. amministrativa deglienti, op. cit., 102 s.; contra v. F. Vignoli, Societas puniri postest: profili critici di un’autonomaresponsabilità dell’ente collettivo, inDir. pen. proc., 2004, 908, secondo cui un’applicazioneortodossa della teoria organica – la quale comporta l’imputazione all’ente della condottamateriale e degli atteggiamenti psicologici del soggetto agente – dovrebbe condurre aduna responsabilità esclusiva della persona giuridica, con esclusione di ogni responsabilità dellapersona fisica, mentre il d. lgs. n. 231/2001 opta per la punizione di entrambi.( 79 ) Cfr. Relazione governativa al d. lgs. n. 231/2001, cit., 34: «L’utilizzazione di unaformula elastica è stata preferita ad una elencazione tassativa di soggetti, difficilmente praticabile,vista l’eterogeneità degli enti e quindi delle situazioni di riferimento (quanto a dimensionie a natura giuridica), e dota la disciplina di una connotazione oggettivo-funzionale»;S. Gennai-A. Traversi, op. cit., 40 s.; C. Pecorella, op. cit., 82; G. De Simone, op.ult. cit., 103.( 80 ) Si è così seguita una tendenza che era già presente nella legislazione – si pensi all’art134 del Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (d. lgs. n. 385/1993) e adiverse disposizioni del Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria(d. lgs. n. 58/1998) – ora ulteriormente rafforzata dal nuovo art. 2639 c.c. introdotto dald. lgs. n. 61/2002. La scelta del legislatore di limitare la responsabilità dell’ente al comportamentodi soggetti che, esercitando di fatto la gestione e il controllo, siano veri e propri dominusdell’impresa è bollata coma troppo prudente da F. Vignoli, op. cit., 906.


SAGGI E OPINIONI51Con riferimento alla concreta individuazione dei soggetti in posizioneapicale, occorre interrogarsi sugli effetti che su di essa può esercitare la recenteriforma del diritto societario introdotta dal d. lgs. n. 6/2003. La riforma,accanto a quello già esistente, ha previsto due sistemi alternatividi amministrazione e di controllo della società di capitali: il sistema dualistico(artt. 2409-octies-2409-quinquedecies c.c.) ed il sistema monistico(artt. 2409-sexiesdecies-2409-noviesdecies c.c.). Nel sistema dualistico, lagestione dell’impresa spetta esclusivamente al consiglio di gestione( 81 ),mentre il consiglio di sorveglianza esercita le funzioni di controllo (assorbendoquelle tradizionalmente spettanti al collegio sindacale più alcuni poteriappartenenti all’assemblea): appare dunque evidente che all’interno delsistema dualistico, nonostante l’ispirazione al modello tedesco, il consigliodi sorveglianza è del tutto privo di potere gestorio, riservato ex lege al consigliodi gestione. Ciò ha come conseguenza che i membri del consiglio disorveglianza non potranno mai rientrare nel novero dei soggetti in posizioneapicale in grado di dar luogo alla responsabilità della società in casodi commissione di un reato( 82 ). Questa conclusione potrebbe però essererovesciata laddove si condivida quell’opinione dottrinale che, in virtù delfatto che il consiglio di sorveglianza nomina i membri del consiglio di gestione,ritiene logico e naturale che esso possa dare ai soggetti che nominale linee a cui attenersi, potendo quindi compiere atti di gestione e di indirizzoo approvare operazioni di particolare rilevanza( 83 ). L’orientamentoprevalente, tuttavia, sostiene che nel silenzio della legge gli statuti non possanoattribuire al consiglio di sorveglianza il potere di autorizzare operazionigestorie o di dettare le linee di indirizzo della gestione( 84 ).Analogamente – in linea con quanto affermato dalla Relazione governativaal decreto legislativo( 85 ) – sono esclusi dal novero dei soggetti in posizioneapicale i sindaci: essi non sono formalmente menzionati dall’art. 5,né possono considerarsi soggetti che esercitano, anche di fatto, la gestionee il controllo dell’ente dato che hanno solo funzioni di vigilanza, mentrel’endiadi «gestione e controllo» si riferisce a chi ha il dominio ed il pilotaggiodell’ente (si pensi al socio sovrano o al socio tiranno)( 86 ).( 81 ) Tale organo «compie le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto socialee nel suo seno può delegare le proprie attribuzioni ad uno o più dei suoi componenti» (art.2409-novies, comma 1, c.c.).( 82 ) Cfr. F. Santi, op. cit., 166 ss.( 83 ) Cfr. F. Santi, op. cit., 168.( 84 ) Cfr. F. Santi, op. e loc. ult. cit.( 85 ) Relazione governativa al d. lgs. n. 231/2001, cit., 34.( 86 ) Cfr. S. Gennai-A. Traversi, op. cit., 43; R. Rordorf, op. e loc. ult. cit.; F. Santi,op. cit., 189 ss. È stato altresì notato che un discorso differente deve essere fatto per i reatipropri commessi dai sindaci – ovviamente afferenti alla classe dei reati societari – che in basealle disposizioni generali del d. lgs. n. 231/2001 dovrebbero essere ascritti all’ente, in quanto


52SAGGI E OPINIONIRiguardo alla categoria dei sottoposti alla direzione o alla vigilanzadegli organi apicali, la loro inclusione nel novero dei soggetti che fanno‘‘scattare’’ la responsabilità dell’ente, in conformità con la soluzione adottatadalla prassi nell’avanzato sistema statunitense( 87 ), è quanto mai opportunaal fine di evitare scaricamenti verso il basso della responsabilità da«nel compimento di una specifica condotta giudicata nel contempo meritevole di pena dallegislatore e in contrasto con gli specifici doveri inerenti alla qualifica funzionale, il soggetto(in questo caso il sindaco) agisce come rappresentante dell’ente», ma che a ben guardare nonpossono essere attribuiti alla società in seguito all’intervento in deroga dell’art. 25-ter, chedetermina l’esclusione del nesso imputativo a carico dell’ente per il fatto del sindaco (intal senso v. C.E. Paliero, La responsabilità delle persone giuridiche: profili generali e criteridi imputazione, in AA.VV., Il nuovo diritto <strong>penale</strong> delle società, Milano, 2002, 59).( 87 ) Negli Stati Uniti l’orientamento prevalente delle corti federali è di estendere almassimo la nozione di agent: la persona giuridica deve essere considerata penalmente responsabileper gli atti commessi da qualsiasi dipendente, anche di infimo grado, mentre sonoirrilevanti lo status, le mansioni o il settore del soggetto agente; l’unico limite all’imputazionealla persona giuridica dei reati commessi dai suoi dipendenti è rappresentato dal fatto cheessi devono agire nell’ambito delle proprie mansioni (scope of employment) e nell’interessedella persona giuridica (intent to benefit the corporation). Minoritaria è invece la soluzionerestrittiva seguita dal Model Penal Code, che ritiene la persona giuridica responsabile soloper le violazioni commesse da un soggetto che svolge funzioni di dirigente (high managerialagent). In argomento cfr. E.M. Wise, Criminal liability of corporations – Usa, inH. DeDoelber-K. Tiedemann (a cura di), La criminalisation du comportement collectif, op.cit., 390 s.; C. De Maglie, L’etica e il mercato, op. cit., 16 ss., e la copiosa giurisprudenzaivi citata; E. Gilioli, La responsabilità <strong>penale</strong> delle persone giuridiche negli Stati uniti: penepecuniarie e modelli di organizzazione e di gestione (‘‘compliance programs’’), in AA.VV., Responsabilitàdegli enti per i reati commessi nel loro interesse, op. cit., 48, il quale sottolinea chela casistica americana segue un principio anche più ampio rispetto alla disciplina italiana, laquale stabilisce che la responsabilità dell’ente discende dagli atti di persone che rivestonofunzioni di rappresentanza, amministrazione o direzione, o di coloro che sono sottoposti alladirezione o alla vigilanza dei primi. Più restrittiva, invece, la scelta fatta dal sistema francese,in cui l’art. 121-2 del codice <strong>penale</strong> prevede che la persona giuridica risponda quando il reatoè stato commesso da parte di un proprio organo o rappresentante. La dottrina interpretapacificamente tale previsione nel senso che la personne morale risponde per un reato commessonon da un soggetto qualunque (quale un semplice impiegato o dipendente), ma daun soggetto qualificato, che esprime e rappresenta la linea politica dell’organizzazione(cfr. R. Guerrini, La responsabilità <strong>penale</strong> delle persone giuridiche, inLe soc., 1993, 695;J. Pradel, Il nuovo codice <strong>penale</strong> francese. Alcune note sulla sua parte generale, inInd.pen., 1994, 15 s., spec. nota n. 25; B. Bouloc, La criminalisation du comportement collectif– France, inH. De Doelder-K. Tiedemann (a cura di), La criminalisation du comportementcollectif, op. cit., 240; C. De Maglie, op. ult. cit., 204 s.), mentre in giurisprudenzasi è affermata un’interpretazione molto ampia del concetto di organo o rappresentante, secondocui è sufficiente che il rappresentante abbia la possibilità di cooperare nella commissionedell’illecito, tanto che si è giunti a qualificare rappresentate ai fini penalistici impiegati, soci diassociazioni e membri di organizzazioni sindacali (per un quadro di tale casistica giurisprudenzialecfr. C. Ducouloux-Favard, Un primo tentativo di comparazione della responsabilità<strong>penale</strong> delle persone giuridiche francese con la cosiddetta responsabilità amministrativa dellepersone giuridiche italiana, in AA.VV., Societas puniri potest. La responsabilità da reato deglienti collettivi, op. cit., 99 s.).


SAGGI E OPINIONI53parte dell’ente( 88 ), visto che «considerata la complessità delle attuali struttureaziendali e la molteplicità degli incombenti, con conseguente inevitabileframmentazione di compiti e attribuzioni, sottrarre all’operatività delprovvedimento legislativo la responsabilità connessa agli eventuali illecitipenali posti in essere dai suddetti soggetti avrebbe comportato un’areadi ‘‘impunità’’ per l’ente»( 89 ).Non è condivisibile la tesi di chi circoscrive la categoria dei sottopostiai lavoratori subordinati( 90 ): senza dubbio devono esservi ricompresi anchetutti i soggetti esterni alla societas, che eseguono un incarico sotto la direzionee il controllo dei soggetti apicali dell’ente, dato che situazioni diquesto genere ben potrebbero essere strumento od occasione di illeciti:ciò che conta, infatti, non è l’essere inquadrati in uno stabile rapporto subordinato,bensì che l’ente risulti impegnato dal compimento di un’attivitàdestinata ad esplicare i suoi effetti nella sua sfera giuridica( 91 ). In dottrina enel mondo imprenditoriale permangono comunque incertezze interpretativein merito alla concreta individuazione dei rapporti rientranti nella categoriadei sottoposti( 92 ).( 88 ) Cfr. Relazione governativa al d. lgs. n. 231/2001, cit., 34: «una diversa opzioneavrebbe significato ignorare la crescente complessità delle realtà economiche disciplinate ela conseguente frammentazione delle relative fondamenta operative»; G. De Simone, op.ult. cit., 105.( 89 ) S. Gennai-A. Traversi, op. cit., 44.( 90 ) Di questo avviso sono S. Gennai-A. Traversi, op. cit., 43s.( 91 ) Cfr. D. Pulitanó, La responsabilità «da reato» degli enti nell’ordinamento italiano,in AA.VV., Responsabilità degli enti per i reati commessi nel loro interesse, op. cit.,16. Di diversa opinione è chi reputa che l’unica soluzione de iure condito per chiamare arispondere l’ente dei reati commessi dai dipendenti di fatto, se non si vuole incorrere inun’inammissibile analogia in malam partem, èimboccare la stretta via del concorso nelreato-presupposto, in cui l’autore materiale del reato è il soggetto avulso dalla strutturaaziendale, mentre concorrente morale risulta il soggetto in posizione apicale (cfr. F. Vignoli,op. cit., 907).( 92 ) Cfr. R. Rordorf, op. e loc. ult. cit.: «‘‘Soggetto all’altrui direzione’’ può esserechiunque si trovi ad operare nell’ente in una posizione anche non formalmente inquadrabilein un rapporto di lavoro dipendente, purché sottoposto alla direzione o alla vigilanzaaltrui»; A. Frignani-P. Grosso-G. Rossi, I modelli di organizzazione previsti dal D.Lgs. n. 231/2001 sulla responsabilità degli enti, inLe soc., 2002, 153, che includono nellacategoria collaboratori esterni che subiscono compressioni anche significative della propriaautonomia, ricomprendendo rapporti inerenti alla distribuzione quali quelli degliagenti, dei concessionari alla vendita e dei franchisees; Id., La responsabilità ‘‘amministrativa’’degli enti ed i ‘‘modelli di organizzazione e gestione’’ di cui agli artt. 6 e 7 del d. lgs. n.231/2001, inRiv. del dir. comm. e del diritto generale delle obbligazioni, 2003, 186 s., iquali rilevano che se da un lato è evidente l’esigenza di evitare che l’ente sfugga alla responsabilitàsemplicemente delegando a collaboratori esterni la commissione di reati, dall’altrolato il principio di stretta interpretazione (divieto di analogia) impedisce di dilatareoltre misura l’ambito della responsabilità dell’ente. Le ‘‘Linee guida dell’AssociazioneBancaria Italiana’’ (ABI) fanno riferimento, oltre che ai dipendenti, ai rapporti di lavoro


54SAGGI E OPINIONIPer quanto riguarda i reati societari, l’art. 25-ter, introdotto nel d. lgs.n. 231/2001 dal d. lgs. n. 61/2002 (il quale ha esteso il catalogo dei reatipresupposto a gran parte dei reati societari), ha delimitato l’ambito dei soggettiin posizione apicale di cui all’art. 5, indicando espressamente e tassativamentegli amministratori, i direttori generali ed i liquidatori; ne consegueuna restrizione indiretta della cerchia dei sottoposti a coloro chesono soggetti alla vigilanza di amministratori, direttori generali e liquidatori(93 ). In dottrina è stato evidenziato come tale previsione debba essereinterpretata alla luce del nuovo art. 2639 c.c.( 94 ), che estende le qualificheparasubordinato e addirittura a quelli di lavoro autonomo (v. ABI, Linee guida dell’ABIper l’adozione di modelli organizzativi sulla responsabilità amministrativa delle banche – d.lgs. 231/2001, 2002, in AA.VV., Societas puniri potest. La responsabilità da reato degli enticollettivi, op. cit., 386 ss., con commento di E. Busson, nonchéinwww.abi.it); il ‘‘Codiceetico ai sensi del d. lgs. n. 231/2001’’, predisposto dall’Associazione italiana intermediarimobiliari (ASSOSIM) annovera in un’unica classe dipendenti e collaboratori; le ‘‘Lineeguida per il settore assicurativo ex art. 6, comma 3, d. lgs. 8.6.2001, n. 231 (responsabilitàamministrativa delle imprese di assicurazione)’’ predisposte dall’ANIA includono gli agentidi assicurazione e le società costituite per l’esternalizzazione di funzioni comprese nelciclo produttivo dell’impresa assicuratrice; ed infine l’Associazione fra le società italianeper azioni (ASSONIME), nella circolare del 19 novembre 2002, n. 68, interpreta il terminesottoposti ricomprendendovi, oltre ai lavoratori subordinati, tutti quei prestatori di lavoroche abbiano con l’ente «un rapporto tale da far ritenere sussistente un obbligo divigilanza da parte dei vertici dell’ente medesimo» quali, ad esempio, gli agenti, i partnersin operazioni di joint-ventures, i c.d. parasubordinati in genere, i distributori, i fornitori, iconsulenti e i collaboratori. La tesi estensiva sembra condivisa anche dalla nota ordinanzaSiemens (che ha applicato alla società Siemens AG – sottoposta a procedimento per responsabilitàamministrativa derivante dal reato di corruzione posto in essere da alcunisuoi alti dirigenti nei confronti di funzionari Enel al fine di aggiudicarsi alcuni appaltiper la fornitura di turbine a gas – la misura interdittiva, sotto forma di misura cautelare,del divieto di contrattare con la pubblica amministrazione per un anno), laddove prendein considerazione i gravi indizi di illiceità della condotta di due dipendenti e di un consulente(ex dipendente) della Siemens, senza che l’estraneità all’organigramma aziendaledi quest’ultimo sia valorizzata in alcun modo (cfr. Trib. Milano, Ufficio G.I.P., Ord.27 aprile 2004, in Guida al diritto, 2004, n. 19, 72 ss., con commento di A. Lanzi, L’obbligatorietàdella legge italiana non si ferma davanti alle multinazionali, nonché in Dir.prat. soc., 2004, n. 10, 75 ss., con commento di U. Guerini, einLe soc., 2004, 1275ss., con commento di F. Pernazza, 1282 ss., il quale critica la tesi estensiva rilevandoche «così opinando gli enti possono essere chiamati a rispondere della condotta criminosadi persone fisiche ad essi estranee e con le quali intrattengono rapporti della più diversanatura e, conseguentemente, sono di fatto tenuti a configurare i modelli organizzativi diprevenzione in modo tale da poter vigilare anche sull’attività di collaboratori esterni»;l’ordinanza può leggersi da ultimo in A. Fiorella-G. Lancellotti, op. cit., 287 ss.,con nota di F. Prete, Le misure cautelari nel processo contro gli enti, 304 ss.).( 93 ) Cfr. G. De Vero, I reati societari nella dinamica evolutiva della responsabilità excrimine degli enti collettivi, inRiv. it. dir. proc. pen., 2003, 723.( 94 ) Sull’art. 2639 c.c. cfr. A. Alessandri, I soggetti, in AA.VV., Il nuovo diritto <strong>penale</strong>delle società, op. cit., 37 ss.; O. Di Giovine, L’estensione delle qualifiche soggettive (art.2639), in AA.VV., I nuovi reati societari: diritto e processo, a cura di A. Giarda-S. Seminara,


SAGGI E OPINIONI55soggettive anche a coloro che esercitano di fatto (in modo continuativo esignificativo) i poteri inerenti alla funzione: stante la natura di reati propridella quasi totalità dei reati societari, dunque, coloro che esercitano di fattole funzioni di amministratore, direttore generale o liquidatore possono determinarela responsabilità della società qualora commettano uno dei reatidi cui all’art. 25-ter( 95 ).Con la disposizione di cui all’art. 8, comma 1, lett. a), secondo la qualel’ente risponde anche se l’autore del reato non è stato identificato o non èimputabile, il legislatore ha opportunamente introdotto il principio di autonomiadella responsabilità dell’ente, svincolando la responsabilità delle personegiuridiche dalla necessità di accertare la responsabilità <strong>penale</strong> in capoa determinate persone fisiche, operazione spesso impossibile nelle moderneorganizzazioni caratterizzate, come precisato in precedenza, dalla decentralizzazione:in particolare, nell’ambito dei c.d. rischi tecnologici, «subordinarela responsabilità dell’organizzazione alla verifica della commissione,da parte dei singoli, diunreato completo di tutti i suoi elementi oggettivie soggettivi è un criterio che, fondato su premesse empiriche inconsistenti(...), impegnerebbe l’accusa in una irragionevole ricerca di ciò che nellamaggior parte dei casi non esiste o non può essere trovato: la responsabilità<strong>penale</strong> individuale»( 96 ).Padova, 2002, 5 ss.; P. Veneziani, Art. 2639 c.c., in AA.VV., I nuovi reati societari (Commentarioal decreto legislativo 11 aprile 2002, n. 61), a cura di A. Lanzi-A. Cadoppi, Padova,2002, 189 ss.; F. Giunta, Reati societari e qualifiche soggettive: questioni normative ed interpretative,inDir. prat. soc., 2004, n. 19, 31 ss.( 95 ) Cfr. R. Guerrini, Art. 3. Responsabilità amministrativa delle società, in AA.VV., Inuovi illeciti penali ed amministrativi riguardanti le società commerciali, a cura di F. Giunta,Torino, 2002, 253 ss.; C.E. Paliero, op. ult. cit., 58 s.; M. Formica, La responsabilità amministrativadegli enti ed i reati societari, inLa riforma dei reati societari, Atti del seminario,Macerata, 21 marzo 2003, a cura di C. Piergallini, Milano, 2004, 217 s. In proposito, vi è chiritiene che in assenza dell’art. 2639 c.c. non sarebbe stato possibile estendere la responsabilitàdell’ente ai reati commessi dai soggetti che esercitano di fatto le funzioni poiché «altrimentil’ambito dei soggetti attivi rilevante ai fini della responsabilità dell’ente sarebbe risultatopiù ampio di quello che circoscrive la responsabilità <strong>penale</strong> individuale» (G. De Vero,op. ult. cit., 724 ss.). Contra v. C. Piergallini, La responsabilità amministrativa delle personegiuridiche, in AA.VV., I nuovi reati societari: diritto e processo, op. cit., 83 s., secondo cuianche se si reputasse che l’art. 25-ter descrive un microsistema autonomo di responsabilitàda reato dell’ente collettivo, sarebbe legittima un’interpretazione estensiva della disposizione,che ne apra l’applicazione agli ‘‘autori di fatto’’.( 96 ) F. Centonze, La normalità dei disastri tecnologici. Il problema del congedo daldiritto <strong>penale</strong>, Milano, 2004, 437, il quale ricorda che i disastri tecnologici sono il fruttodella combinazione di diverse condotte e di inconvenienti del sistema, che interagisconoin modo imprevedibile ed inevitabile cagionando il disastro, onde quasi mai è presenteun reato realizzato da un individuo, specialmente quando concorrono tra loro diverse organizzazioni(come nei disastri di Linate, della ValuJet e dello Shuttle Challenger Columbia).L’autore, con riferimento al campo dei disastri tecnologici, propone un modello diresponsabilità dell’ente articolato su tre livelli (421 ss.): 1) un primo livello implica la fissa-


56SAGGI E OPINIONIB) Il criterio dell’interesse o vantaggio: un ostacolo alla funzionalità della responsabilitàdegli enti?L’altro criterio di attribuzione della responsabilità da reato dell’enteoperante sul piano oggettivo è costituito dal fatto che la persona fisicache ha commesso il reato deve avere agito nell’interesse o a vantaggio dell’ente(art. 5, comma 1).Il soggetto che commette il reato nell’interesse o a vantaggio dellapersona giuridica si identifica con l’ente: si è dunque scelto di aderirealla teoria organica, consentendo in tal modo il rispetto del principiodi personalità della responsabilità <strong>penale</strong> nella sua accezione minimadi divieto di responsabilità per fatto altrui( 97 ), se è veroche«Laprovadell’esistenza di un collegamento rilevante tra individuo e personagiuridica consente (...) di identificare l’organizzazione come assolutamenteprotagonista di tutte le vicende che caratterizzano la vita socialeed economica dell’impresa e quindi anche come fonte di rischio direato»( 98 ).Secondo la Relazione governativa al decreto legislativo – la cui impostazioneè condivisa da parte della dottrina e dalla giurisprudenza – il richiamoall’interesse caratterizza la condotta criminosa della persona fisicain senso marcatamente soggettivo, rendendo necessario un accertamentoex ante condotto dal giudice col metodo della prognosi postuma, mentreil vantaggio (che può essere ricavato dall’ente anche se la persona fisicazione da parte di un’apposita autorità indipendente o agenzia di una regolamentazione deiparametri di sicurezza che le imprese devono seguire, evitando di lasciare – come avvieneoggi – ogni valutazione sui rischi tecnologici nelle mani dell’organizzazione: questo apparatonormativo sarebbe presidiato da sanzioni amministrative irrogate dalla stessa autoritànei confronti delle imprese che pongono in essere violazioni minime degli standard precauzionali,inottemperanze alle ingiunzioni, mancata previsione di un sistema informativo, trasgressionedel dovere di reporting (tutte avvisaglie di una cultura deviante); 2) un secondolivello prevede il ricorso al diritto <strong>penale</strong> nei confronti della persona giuridica per violazionedi norme poste immediatamente a tutela della sicurezza e del controllo del rischio tecnologico;3) un terzo livello comporta sempre l’applicazione della sanzione <strong>penale</strong> quandodalla violazione delle predette norme scaturisca la verificazione di un disastro o di eventilesivi dell’incolumità individuale.( 97 ) Considerato che l’ente risponde anche nell’ipotesi in cui non sia stata identificatala persona fisica che ha commesso il reato (art. 8), qualcuno si è giustamente chiesto che finefaccia in tal caso il criterio di attribuzione oggettivo, visto che non è possibile accertare né ilruolo rivestito dalla persona fisica all’interno dell’ente, né se il soggetto agente ha realizzato ilfatto nell’interesse esclusivo suo o di terzi, nell’interesse della persona giuridica o prevalentementenel proprio interesse (cfr. P. Patrono, op. ult. cit., 189 s.). Si tratta di un’evidentelacuna della disciplina.( 98 ) C. De Maglie, La disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridichee delle associazioni. Principi generali e criteri di attribuzione della responsabilità,inDir.pen. proc., 2001, 1350.


SAGGI E OPINIONI57non ha operato nel suo interesse) assume una connotazione oggettiva, cherichiede sempre una verifica ex post( 99 ).Di diverso avviso è chi – forzando il dato letterale – ritiene preferibileinterpretare i due termini come un’endiadi che esprime un criterio unitario,riducibile ad un interesse dell’ente inteso in senso obiettivo: non necessariamenteun interesse in concreto soddisfatto, ma un interesse (o un possibilevantaggio) dell’ente riconoscibilmente connesso alla condotta dell’autoredel reato, visto che non sarebbe ragionevole affidare il collegamentodel reato con l’ente alle soggettive intenzioni o rappresentazioni dell’agente(100 ).In realtà, se è condivisibile agganciare l’interesse dell’ente a dei datiobiettivi, è altresì vero che tale interesse deve pur sempre «rispondere aduna tensione al risultato o all’utilità anticipata ideologicamente dal suo( 99 ) Cfr. Relazione governativa al d. lgs. n. 231/2001, cit., 34; S. Gennai-A. Traversi,op. cit., 38; G. De Simone, op. ult. cit., 101. In giurisprudenza cfr. Trib. Milano, Sezione XIriesame, Ord. 20 dicembre 2004, in Dir. prat. soc., 2005, n. 6, 74, con commento di L.D.Cerqua (76 ss.), nonché inwww.reatisocietari.it, ove dopo aver richiamato la disposizionedi cui all’art. 12, comma 1, lett. a), si afferma che, in virtù del criterio ermeneutico dell’interpretazioneutile, «deve ritenersi che i sintagmi ‘‘interesse’’ e ‘‘vantaggio’’ non siano usaticome sinonimi e che il secondo termine faccia riferimento alla concreta acquisizione di un’utilitàeconomica, mentre l’‘‘interesse’’ implica solo la finalizzazione del reato a quella utilità,senza peraltro richiedere che questa venga effettivamente conseguita: se l’utilità economicanon si consegue o si consegue solo in minima parte, sussisterà un’attenuante e la sanzione neiconfronti dell’ente potrà essere ridotta».( 100 ) Così D. Pulitanó, La responsabilità ‘‘da reato’’ degli enti: i criteri di imputazione,op. cit., 425. Condividono questa tesi M. Guernelli, La responsabilità delle persone giuridichenel diritto <strong>penale</strong>-amministrativo, Parte I, in Studium Juris, 2002, 290 s., secondo cui«soccorrono al riguardo (...) la ratio legis, che sarebbe frustrata qualora si consentisse all’entedi trarre vantaggio da una erronea autorappresentazione dei mezzi e dei fini da parte dellapersona fisica; sia la generale irrilevanza nel nostro sistema <strong>penale</strong> del movente del reo; sia laconsiderazione che la delega, già prevedente il requisito, si riferiva espressamente anche allacopertura di possibili reati colposi, in cui l’atteggiamento soggettivo dell’individuo può, siapure astrattamente, rivelarsi estraneo alla considerazione del predetto interesse o vantaggio»,nonché il fatto che l’ente è responsabile o subisce conseguenze in senso lato sanzionatorieanche quando può risultare impossibile verificare se l’autore del reato era motivato dall’intentodi perseguite l’interesse o vantaggio ‘‘collettivo’’ (art. 8, comma 1) o quando il reo consapevolmentene trasgredisce le norme interne (art. 6, comma 5); A. Manna, La c.d. responsabilitàamministrativa delle persone giuridiche: il punto di vista del penalista, op. cit., 1114.Contra v. A. Astrologo, ‘‘Interesse’’ e ‘‘vantaggio’’ quali criteri di attribuzione della responsabilitàdell’ente,inInd. pen., 2003, 656 ss., la quale ritiene che considerare l’espressione «interesseo vantaggio» come una mera tautologia contrasta con il principio ermeneutico di conservazionedelle norme, oltre che con un’interpretazione sistematica della disciplina, dato chel’art. 12, che prevede uno dei casi di pagamento della sanzione pecuniaria in misura ridotta,configura una fattispecie in cui sussistono contestualmente entrambi i presupposti: il prevalenteinteresse dell’autore materiale dell’illecito o di un terzo e il vantaggio minimo che l’enteha tratto dal reato (l’autore intende l’interesse nel senso di politica d’impresa e il vantaggiocome profitto, arricchimento economico o beneficio); F. Vignoli, op. cit., 909.


58SAGGI E OPINIONIautore nel momento in cui ha posto in essere il comportamento criminoso»(101 ).L’interesse deve essere concreto ed attuale( 102 ), e non deve avere necessariamentecontenuto economico (anche se ciò accadrà nella normalitàdei casi)( 103 ).Qualora la persona fisica abbia agito nell’esclusivo interesse proprio odi terzi l’ente non risponde (art. 5, comma 2): si tratta di una causa oggettivadi esclusione della responsabilità dell’ente, fondata sulla rottura dell’immedesimazioneorganica che si determina in questo caso( 104 ). Ne derivache il riferimento al vantaggio risulta del tutto privo di utilità, dovendoil reato essere commesso sempre quantomeno nell’interesse parziale dell’ente(105 ): «appare infatti difficile immaginare un reato che non sia statocommesso, neppure in parte, nell’interesse dell’ente, ma neanche nell’interesseesclusivo dell’agente o di terzi, e che risulti quindi attribuibile all’entesolo in quanto ad una verifica successiva risulti essere stato commesso a suovantaggio»( 106 ). Questa osservazione ci porta a ritenere privo di ogni rile-( 101 ) F. Santi, op. cit., 236.( 102 ) F. Santi, op. e loc. ult. cit.( 103 ) Cfr. D. Pulitanó, op. ult. cit., 426.( 104 ) Èinteressante notare come la giurisprudenza ha ritenuto, nell’ambito del fenomenodel gruppo di società, che il reato di corruzione di un alto funzionario di Poste Italianes.p.a. al fine di ottenere il rinnovo per un triennio dell’appalto per i servizi di scorta valoripresso gli uffici postali di numerose province, posto in essere dal (rispettivamente) presidentedel consiglio di amministrazione e amministratore unico di due holding operative (IvriHolding e Cogefi) in qualità di amministratore di fatto di due società controllate (VCM eIvri Torino), debba essere considerato commesso nell’interesse delle medesime società controllantiall’interno di una logica infra-gruppo: in questi termini v. Trib. Milano, UfficioG.I.P., Ord. 9 novembre 2004, in www.reatisocietari.it. Nello stesso senso, per un caso analogo,cfr. Trib. Milano, Sezione XI riesame, Ord. 20 dicembre 2004, cit., 69 ss.( 105 ) Al riguardo vi è chi ritiene che il reato commesso nell’interesse dell’autore (o diun terzo) e solo in misura ridottissima nell’interesse dell’ente non è idoneo a fungere da ragionevolecriterio di collegamento tra la persona fisica che agisce per l’ente e l’ente stesso,non essendo in grado un simile criterio di rispettare il principio di personalità della responsabilità<strong>penale</strong> con riferimento all’ente (in tal senso v. A. Fiorella, Principi generali, op. cit.,11 s.).( 106 ) C. Pecorella, op. cit., 83, nota n. 54; contra v. D. Pulitanó, voce Responsabilitàamministrativa per i reati delle persone giuridiche, op. cit., 958, il quale rileva che taledisposizione va interpretata in coerenza con il criterio di cui al comma 1 e con l’ipotesi diriduzione della sanzione pecuniaria di cui all’art. 12, comma 1, lett. a), onde se l’ente ha ottenutoun qualche vantaggio, il fatto non potrà essere considerato nell’esclusivo interesse dialtri. Critico nei confronti della scelta del legislatore è C.E. Paliero, op. ult. cit., 52, cheriguardo ai casi di reati commessi nell’interesse esclusivo dell’autore o di terzi ma che comportanoun vantaggio obiettivo per l’ente parla di «ipotesi tutt’altro che marginali, rispettoalle quali era preferibile configurare comunque la responsabilità dell’ente, al più ricorrendo,sul versante sanzionatorio, alla irrogazione di una pena pecuniaria attenuata e/o alla sola confiscadel profitto del reato».


SAGGI E OPINIONI59vanza pratica il fatto che l’art. 25-ter, con riferimento ai reati societari, contemplisolo il criterio di collegamento dell’interesse, omettendo completamenteil vantaggio( 107 ).Occorre ora chiedersi se almeno in certi casi l’ancoraggio della responsabilitàdell’ente al requisito dell’interesse o vantaggio non vada a scapitodella funzionalità della responsabilità da reato degli enti, frustrando le esigenzedi politica criminale alla base dell’introduzione dell’istituto.Si pensi, in primo luogo, alle fattispecie di infedeltà patrimoniale (art.2634 c.c.) e di corruzione in seguito a dazione o promessa di utilità (art.2635 c.c.), escluse dal novero dei reati societari che fanno ‘‘scattare’’ la responsabilitàdella persona giuridica in quanto ontologicamente orientate indanno della società( 108 ): se la funzione della responsabilità degli enti è innanzituttouna funzione di prevenzione del rischio-reato, non si capisceperché esonerare l’ente dalla responsabilità per reati, quali quelli di infedeltà,che sono spesso all’origine di ulteriori comportamenti criminosi, lesividi una pluralità di soggetti (creditori sociali, dipendenti, stakeholders ingenerale)( 109 ), come insegnano i clamorosi casi Enron, Arthur Andersen,WorldCom, Parmalat e Cirio( 110 ).( 107 ) Sul punto cfr. R. Guerrini, op. ult. cit., 257; C.E. Paliero, op. ult. cit., 59s.S.Putinati, La responsabilità amministrativa degli enti per i reati societari, inDir. prat. soc.,2002, n. 2, 84; G. De Vero, op. ult. cit., 727 s.; M. Formica, op. cit., 219 s.( 108 ) Il legislatore è però incorso in una svista poiché ha ricompreso nel catalogo deireati le fattispecie di illecite operazioni sulle azioni o quote sociali o della società controllante(art. 2628 c.c.) e di formazione fittizia del capitale (art. 2632 c.c.), entrambe contrassegnatedalla produzione di un danno per la società sub specie di lesione dell’integrità del capitalesociale e/o delle riserve non distribuibili per legge (cfr. F. Santi, op. cit., 240 s.).( 109 ) Cfr. L. Foffani, Le infedeltà, in AA.VV., Il nuovo diritto <strong>penale</strong> delle società, op.cit., 371 ss.; Id., Responsabilità delle persone giuridiche e riforma dei reati societari, inAA.VV., Societas puniri potest. La responsabilità da reato degli enti collettivi, op. cit., 256ss., il quale soggiunge che esiste un interesse generale alla prevenzione non solo dei reati societaricommessi nell’interesse della società, ma anche di quelli realizzati in danno della società,in quanto l’intreccio di interessi interdipendenti che caratterizza la società commercialeingenera un interesse di mercato alla sua fedele e corretta amministrazione. In argomento cfr.G. Marinucci-M. Romano, Tecniche normative nella repressione <strong>penale</strong> degli abusi degliamministratori di società per azioni, in AA.VV., Il diritto <strong>penale</strong> delle società commerciali, acura di P. Nuvolone, Milano, 1971, 96: «il passaggio dell’impresa personale ad una organizzazionesocietaria sovrapersonale – di dimensioni economiche e strutturali sempre più vaste– determina l’individuazione di una serie di ‘‘categorie’’ di soggetti (istituti di credito, risparmiatori,azionisti, lavoratori, terzi, contraenti), i cui interessi sono ad un tempo colossali e atal punto interdipendenti, che la lesione di alcuni di essi si trasferisce immediatamente suglialtri, in una sorta di reazione a catena».( 110 ) Per un’attenta disamina delle vicende Enron e Parmalat, che offre un raffrontofra i due fenomeni e solleva inquietanti interrogativi sul fallimento dei meccanismi di regolazionee controllo dei mercati, dell’etica e della morale, cfr. G. Sapelli, Giochi proibiti. Enrone Parmalat capitalismi a confronto, Milano, 2004. Sul caso della Arthur Andersen, la societàdi revisione e consulenza contabile condannata negli Stati Uniti per il reato di ostruzio-


60SAGGI E OPINIONIVi è chi come Stella rileva il grave ‘‘buco’’ della disciplina, ma ritieneimpraticabile sanzionare con pesanti pene pecuniarie società già ‘‘spogliate’’dai propri amministratori e managers( 111 ). La soluzione potrebbeessere quella di escludere la sanzione pecuniaria per queste ipotesi, sottoponendol’ente solo a sanzioni che incidano sull’attività e sull’organizzazione.Inoltre, effetti negativi per l’ente sono a volte determinati ancheda reati commessi ex ante nel suo interesse: si pensi ad un falso in bilanciorealizzato per costituire fondi neri destinati al pagamento di tangenti nell’interessedella società, il quale, ad una valutazione ex post, potrebbe avereconcretamente prodotto conseguenze disastrose per la società, come dimostral’esperienza di Tangentopoli( 112 ).Non si può quindi che concordare quando si osserva che «il criteriodell’interesse (...) se appare come un meccanismo di imputazione oggettivacongruo e accettabile con riferimento al ristretto nucleo di fattispecie incriminatricioriginariamente individuate dal d. lgs. 231/2001 (...), rivela tuttaviai suoi limiti se riferito a fatti di reato commessi da soggetti in posizioneapicale e strettamente e strutturalmente inerenti – come nel casodelle figure di infedeltà – al cuore dell’esercizio delle funzioni di gestionesociale»( 113 ).In secondo luogo si pensi ai reati colposi, attualmente non inclusi nelcatalogo dei reati ascrivibili agli enti ma che in futuro non potranno nonesservi inseriti, rispetto ai quali il criterio dell’interesse – che nella prospettivadella persona fisica autore del reato assume necessariamente un connotatosoggettivo – impedirebbe qualunque collegamento con l’ente( 114 ).Insomma, se è vero che in molti ordinamenti che accolgono la responsabilità<strong>penale</strong> delle persone giuridiche si ricorre al criterio di collegamentodell’interesse (si pensi all’intent to benefit del sistema statunitense( 115 )) – inne alla giustizia in relazione alla bancarotta della Enron, cfr. M. Arena, Il caso Enron e l’incriminazionedell’Arthur Andersen, 18 marzo 2002, in www.reatisocietari.it; Id., La condannadell’Arthur Andersen, 14 settembre 2002, ivi.( 111 ) F. Stella, Il mercato senza etica, Prefazione a C. De Maglie, op. cit., XIV.( 112 ) Cfr. L. Foffani, op. cit., 259 s.( 113 ) L. Foffani, op. cit., 265 s.( 114 ) Sul punto cfr. M. Pelissero, La responsabilizzazione degli enti. Alla ricerca di undifficile equilibrio tra modelli ‘‘punitivi’’ e prospettive di efficienza, in AA.VV., L’ultima sfidadella politica criminale, op. cit., 366, il quale osserva che se si interpreta in senso finalistico ilrequisito dell’interesse, la futura estensione del catalogo dei reati alle fattispecie colpose comporteràla necessità di modificare il criterio di imputazione oggettiva, per esempio sostituendoil riferimento ai reati commessi «nel suo interesse o a suo vantaggio» con un più generico«per suo conto»; S. Vinciguerra, La struttura dell’illecito, op. cit., 23.( 115 ) Il requisito dell’intent to benefit è interpretato in maniera estensiva dalla giurisprudenzastatunitense, secondo cui non è necessario che l’agent commetta il reato con loscopo esclusivo e totale di recare un beneficio all’impresa, ma è sufficiente anche un motivomisto, cioè che abbia di mira almeno in parte l’interesse dell’ente; le corti federali, inoltre,


SAGGI E OPINIONI61quanto rappresenta «quel nesso in assenza del quale il reato si configurerebbecome fatto ‘‘altrui’’ rispetto alla societas, allo stesso modo che risultairrimediabilmente estraneo alla persona fisica il fatto che non abbia conessa alcun collegamento già sul piano della causalità materiale»( 116 )–èaltresìinnegabile che non mancano esempi di segno opposto (è il caso dell’Olanda(117 )): la soluzione più equilibrata potrebbe essere quella mediana,nel senso di prevedere il criterio dell’interesse o vantaggio come requisitogenerale e di escluderlo nelle ipotesi in cui esso si riveli disfunzionale edincompatibile rispetto alle esigenze di politica criminale, essendo più chesufficiente il criterio di ascrizione soggettiva di cui agli artt. 6 e 7 (responsabilitàper la politica di impresa o per colpa organizzativa) a garantire l’osservanzadel principio di responsabilità per fatto proprio, oltre che delnon richiedono la prova che di fatto la persona giuridica abbia ottenuto un vantaggio concretodal comportamento dell’agente, mentre nell’ipotesi in cui la persona fisica abbia agitonello scope of employment ma con l’obiettivo di danneggiare l’ente ed avvantaggiare terziescludono la responsabilità <strong>penale</strong> delle imprese (cfr. C. De Maglie, L’etica e il mercato,op. cit., 21 s.; E. Gilioli, op. cit., 49). In Francia, riguardo ai comportamenti rientranti nellalocuzione reati commessi dagli organi o rappresentanti per conto della personne morale, sifronteggiano tre teorie (cfr. C. De Maglie, op. ult. cit., 208 s.): 1) quella minima, secondocui l’organo o il rappresentante deve aver commesso il reato allo scopo di arrecare un vantaggio(materiale o morale, attuale o eventuale) all’ente, rimanendo esclusi i fatti posti in esserenell’esclusivo interesse dell’agente o di un’altra persona (cfr. R. Guerrini, La responsabilità<strong>penale</strong> delle persone giuridiche, op. cit., 695; B. Bouloc, op. cit., 240; G. De Simone,Il nuovo codice francese e la responsabilità <strong>penale</strong> delle personnes morales, in Riv. it. dir.proc. pen., 1995, 226); 2) quella estensiva, in base alla quale atto commesso pour compte dellapersona giuridica significa realizzato nell’esercizio dell’attività dell’ente; 3) quella intermedia,che distingue caso per caso, ricorrendo a un criterio misto, oggettivo (il profitto ottenuto opreso di mira) e soggettivo (la faute della persona fisica), nell’ipotesi di infraction intentionellecontro il patrimonio, al criterio dell’intention criminelle dell’agente per i reati intenzionalicontro la persona, ed al criterio oggettivo del profitto per i reati non intenzionali.( 116 ) G. De Vero, Struttura e natura giuridica, op. cit., 1131.( 117 ) Nell’ordinamento olandese – in cui la responsabilità <strong>penale</strong> delle persone giuridicheè stato introdotta a livello settoriale, nel campo del diritto <strong>penale</strong> economico, già dal1951, e a livello generale nel 1976 dal paragrafo 51 del codice <strong>penale</strong> olandese – è sufficienteche l’atto del singolo sia commesso nel contesto sociale della persona giuridica (per esempio,se compro un oggetto ai grandi magazzini Harrods, io compro da Harrods e non dal commessoche materialmente mi consegna l’oggetto, ma se acquisto cocaina dal commesso aglistessi grandi magazzini, in realtà non compro da Harrods ma dal commesso): cfr. H. DeDoelder, Criminal liability of corporations – Netherlands, inH. De Doelder-K. Tiedemann(a cura di), La criminalisation du comportement collectif, op. cit., 299 s.; C. De Maglie,op. ult. cit., 182. In generale sul sistema olandese di responsabilità <strong>penale</strong> degli enti v.R. Screvens, Les sanctions applicables aux personnes morales, in AA.VV., La responsabilità<strong>penale</strong> delle persone giuridiche in diritto comunitario - Atti della Conferenza di Messina, op.cit., 177 ss.; J.A.E. Vervaele, La responsabilité pénale de et au sein de la personne moraleaux Pais-Bas. Marriage entre pragmatisme et dogmativisme jurudique, in Rev. sc. crim.,1997, 325 ss.; Id., La responsabilità <strong>penale</strong> della persona giuridica nei Paesi Bassi. Storia e sviluppirecenti, in AA.VV., Verso un codice <strong>penale</strong> modello per l’Europa, op. cit., 3 ss., nonché inAA.VV., Societas puniri potest. La responsabilità da reato degli enti collettivi, op. cit., 135 ss.


62SAGGI E OPINIONIprincipio di colpevolezza, nei confronti dell’ente. In definitiva, se si intendecostruire una forma responsabilità punitiva della persona giuridica veramenteautonoma, occorre liberarsi di ogni residuo di antropocentrismoanche con riferimento al profilo oggettivo dell’illecito( 118 ), seguendo l’esempiodel legislatore inglese che nel 1996 ha progettato – anche se nonancora introdotto( 119 ) – la fattispecie di corporate killing, ovvero di omicidiocolposo di impresa, nella quale l’ente è ritenuto responsabile per ilsolo fatto che la morte è la conseguenza (anche indiretta) di un proprio difettodi organizzazione (management failure)( 120 ).5. (Segue:) I criteri di attribuzione soggettiva: alla ricerca della colpevolezzadell’ente:A) Reati commessi dai vertici e reati commessi dai sottoposti: aspetti problematiciIl fulcro della disciplina di cui al d. lgs. n. 231/2001 è costituito daicriteri di attribuzione soggettiva della responsabilità.Il legislatore italiano, infatti, ha opportunamente deciso di introdurreuna colpevolezza autonoma dell’ente, seguendo il modello avanzato di ordinamenticome quello statunitense e non accontentandosi di una sempliceresponsabilità par ricochet come nel sistema francese, dove la responsabilitàdell’ente è il semplice riflesso della responsabilità della persona fisica cheha agito per suo conto( 121 ).( 118 ) In tal senso cfr. F. Vignoli, op. cit., 911.( 119 ) È singolare che una riforma progettata per costringere le imprese ad adottare misureorganizzative volte a prevenire incidenti sul lavoro e in generale danni alla sicurezzapubblica non sia stata ancora portata a compimento da un governo laburista come quelloattualmente in carica, nonostante le ripetute assunzioni di impegno in tal senso (cfr., da ultimo,J. Eaglesham, Blear to break corporate killing pledge, inFinancial Times, 23 ottobre2004).( 120 ) Sulla fattispecie di corporate killing – contenuta nel Law Commission Report n.237 del 1996 e congegnata per frenare la devastante aggressività delle corporations nel campodella public safety, manifestatasi in episodi come il naufragio di Zeebrugge, l’incendio dellametropolitana a King’s Cross e il deragliamento di Clapman Junction – cfr. C. De Maglie,op. ult. cit., 159 ss.; C. Wells, Corporate criminal liability in England and Wales, in AA.VV.,Societas puniri potest. La responsabilità da reato degli enti collettivi, op. cit., 125 ss.( 121 ) L’art. 121-2 del codice <strong>penale</strong> francese prevede che le personnes morales sono penalmenteresponsabili dei reati commessi per loro conto (pour compte) dai loro organi o rappresentanti.Si è scelto dunque di costruire un criterio di imputazione fondato esclusivamentesul rapporto di causalità tra la realizzazione materiale del reato e l’attività svolta dall’ente,prescindendo del tutto dalla dimostrazione di una colpevolezza (faute) della persona giuridica:si tratta di un modello di responsabilità dell’ente la cui manovrabilità rischia di esserenotevolmente limitata dalla necessità di accertare la responsabilità del singolo individuo


SAGGI E OPINIONI63La colpevolezza dell’ente si articola in un duplice criterio di imputazione(122 ). Per i reati commessi dai c.d. soggetti apicali l’ente (art. 6), invirtù della teoria organica, risponde per la politica di impresa, eccettoche nel caso in cui esso riesca a provare (inversione dell’onere della prova):1) l’adozione e l’efficace attuazione di modelli organizzativi (ritagliati suicompliance programs statunitensi) volti alla prevenzione dei reati; 2) l’ado-(in argomento cfr. C. De Maglie, op. ult. cit., 206 s., 226), che infatti ha subito le critichedella migliore dottrina, la quale sostiene la necessità di aggirare la regola, richiedendo un’autonomacolpevolezza dell’ente: «La responsabilité pénale des entitès personnifiées est uneresponsabilité personnelle (art. 121-1) et pas un simple refles des malversations des personnesqui agissent en leur sein. Il faut en effet se garder (...) de faire de la responsabilité pénaledes personnes morales une responsabilité par ricochet en trasposant les solutions du droitcivil (et de la responsabilité du préposé) au droit répressif. S’il est possible d’affirmer quela responsabilité pénale des personnes morales est une responsabilité indirecte, c’est uniquementparce qu’il faut nécessairement un bras, une main, une personne en chair et en os pourse prêter à l’acte délictueux, en l’occurrence pour user des fausses attestations en les transmettantdans le dossier adressé au tribunal. C’est au niveau de la commission matérielledu délit que le personnes physiques sont indispensables; cela ne signifie pas que le personnesphysiques doivent être également coupables. L’élément moral de l’infraction imputée à lapersonne morale reste propre à celle-ci. Sinon, on ne comprendrait pas pourquoi le législateura cru bon d’écrire que la responsabilité pénale de la personne morale n’excluait pas cellede la personne physique» (C. Ducouloux-Favard, Quatre annés de sanctions pénales àl’encontre des personnes morales, inRecueil Dalloz, 1998, 396). La giurisprudenza è invecedivisa, con la Corte di Cassazione arroccata nella difesa nella responsabilità par ricochet, ele corti di merito che al contrario hanno condannato più volte persone giuridiche in assenzadell’accertamento della responsabilità dei suoi agenti o rappresentanti, spingendosi addiritturaad elaborare una colpevolezza autonoma dell’ente. L’ambito della responsabilità par ricochetè stato ridotto dal legislatore con la legge 2000-647 del 10 luglio 2000 che, con riferimentoalle infractions non intentionnelles, ha distinto le ipotesi in cui vi è un collegamentodiretto tra colpevolezza della persona fisica e danno da quelle in cui tale collegamento è indiretto:nel primo caso la persona fisica risponde sempre insieme alla persona giuridica, mentrenel secondo caso le persone fisiche rispondono solo per colpa grave e qualificata, vale adire che qualora manchi il suddetto elemento soggettivo la responsabilità della personne moralenon sarà agganciata a quella dei suoi organi o rappresentanti; la piena validità della responsabilitàpar ricochet, sia prima che dopo l’entrata in vigore della legge 2000-647 del 10luglio 2000, qualunque sia il reato commesso dalla persona fisica, ancorché non punibile perdifetto dell’elemento soggettivo, è stata però ribadita da Corte di Cassazione, Sezione <strong>penale</strong>(Chambre criminelle), 24 ottobre 2000, n. 6289, Avril, in Diritto <strong>penale</strong> XXI secolo, 2003, n.1, 145 s., con commento di A.F. Morone, La responsabilità <strong>penale</strong> par ricochet della personnemorale in Francia dopo la L. 10 luglio 2000 N. 2000-647, 146 ss., spec. 151 ss. In argomentocfr. altresì J. Pradel, La responsabilité des personnes morales en France, in AA.VV.,Societas puniri potest. La responsabilità da reato degli enti collettivi, op. cit., 79 ss.; C. Ducouloux-Favard,Un primo tentativo di comparazione, op. cit., 100 ss., il quale evidenziache i casi in cui non è necessario verificare la presenza di una colpevolezza dell’ente – comequello esaminato dalla nota sentenza Carrefour della Corte di Cassazione (26 giugno 2001, n.4700) – sono del tutto eccezionali e non rappresentano un principio generale, come pretendonoinvece i sostenitori della teoria du ricochet.( 122 ) Sul punto v. De Maglie, La disciplina, op. cit., 1351; Id., L’etica e il mercato, op.cit., 333 ss.


64SAGGI E OPINIONIzione di un organismo di controllo interno all’ente, autonomo e indipendente,che vigili sull’osservanza del modello; 3) che i vertici hanno commessoil reato eludendo fraudolentemente i modelli organizzativi; 4) chenon vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organo di controllo.Per reati commessi dai c.d. sottoposti (art. 7), invece, la persona giuridicaè chiamata a rispondere per una colpevolezza di organizzazione, laquale si sostanzia nella violazione dei propri doveri di direzione e vigilanzada parte dei soggetti apicali: l’adozione preventiva da parte dell’ente deimodelli di organizzazione, gestione e controllo comporta una presunzioneiuris et de iure di rispetto dei suddetti obblighi di direzione e vigilanza, conla conseguente esclusione della responsabilità dell’ente.Le critiche della dottrina hanno immediatamente investito il complessomeccanismo che consente all’ente di evitare di incorrere in responsabilitàamministrativa da reato, da molti autori considerata unascusante che esclude la colpevolezza dell’ente( 123 ), ma più fondatamentequalificabile come causa di esclusione della punibilità in quanto è costruitasecondo lo schema dell’inversione dell’onere della prova (talchél’accusa non deve provare l’assenza delle quattro condizioni di cui all’art.6, comma 1( 124 )) e non esclude la confisca (anche per equivalente) delprofitto che l’ente ha tratto dal reato (art. 6, comma 5), confisca che– non si dimentichi – nel sistema della responsabilità da reato dell’enterappresenta una sanzione e presuppone quindi un riconoscimento di responsabilità(125 ).Secondo la Relazione governativa al decreto legislativo, a cui si accodauna parte della dottrina, la previsione del fatto impeditivo di cui all’art. 6risponde all’esigenza garantistica di rendere anche la responsabilità dellepersone giuridiche per i reati commessi dai vertici conforme al principio( 123 ) Cfr. G. De Vero, Struttura e natura giuridica, op. cit., 1135 s.; C.E. Paliero, op.ult. cit., 55: «il legislatore ha introdotto un paradigma di organizzazione, per il vertice societario,costruito negativamente, alla stregua cioè di una scusante con inversione dell’onere dellaprova a carico dell’ente».( 124 ) Cfr. P. Ferrua, op. cit., 80, il quale osserva come la colpa organizzativa non èelemento costitutivo della responsabilità dell’ente poiché non vi è un onere probatorio a caricodell’accusa, ma si configura come un fatto impeditivo la cui prova grava interamente sulladifesa. Secondo l’opinione di A. Fiorella, Principi generali, op. cit., 15, i modelli organizzativiavrebbero la funzione di circoscrivere un’area di ‘‘rischio permesso’’ nell’eserciziodell’attività dell’ente: giacché l’ente per il fatto stesso di esistere ed agire dovuti al fattoche taluno può approfittarne per commettere fatti di reato, il legislatore avrebbe creato un’areadi ‘‘rischio permesso’’ in cui il rischio non può essere imputato all’impresa quando questaabbia creato soddisfacenti modelli di organizzazione e gestione idonei a prevenire i fatti direato.( 125 ) In tal senso cfr. D. Pulitanó, La responsabilità ‘‘da reato’’ degli enti: i criteri diimputazione, op. cit., 428; G. Cocco, L’illecito degli enti dipendente da reato ed il ruolo deimodelli di prevenzione, inRiv. it. dir. proc. pen., 2004, 103 s.


SAGGI E OPINIONI65costituzionale di colpevolezza, tenuto conto che la realtà societaria attuale ècostellata da una serie di entità organizzativamente complesse, in cui il managementnon si sviluppa più secondo un modello verticistico, ma siestende su un’ampia base orizzontale, con la conseguente frantumazionedei centri decisionali, onde in una situazione di questo tipo imputare all’entenella sua interezza le conseguenze di comportamenti criminosi tenutida soggetti che pure svolgono funzioni apicali, ma che non risultano pienamenterappresentativi della societas, esporrebbe la riforma a censure di costituzionalità,perché fonda la responsabilità degli enti su criteri meramenteoggettivi( 126 ). In sostanza, dunque, anche la responsabilità dell’ente perreati posti in essere dai vertici ricadrebbe nell’alveo della colpa di organizzazione(127 ).Questa impostazione non può tuttavia essere condivisa, perché si( 126 ) Cfr. Relazione governativa al d. lgs. n. 231/2001, cit., 36; C. Paliero, Il d. lgs. 8giugno 2001, n. 231, op. cit., 847; Id., La responsabilità delle persone giuridiche, op. cit., 54 s.,il quale parla di «un concetto di colpevolezza organizzativa che ricorda molto da vicino la c.d.misura oggettiva della colpa»; Id., La responsabilità <strong>penale</strong> della persona giuridica nell’ordinamentoitaliano: profili sistematici, in AA.VV., Societas puniri potest, op. cit., 29 s., secondi cuila necessità di introdurre tale esimente «deriva dal fatto che la persona giuridica, nella suastoria, nella sua politica di impresa di periodo lungo o medio-lungo, da un lato, e il concretoamministratore del momento, dall’altro, possono presentare, per così dire, una ‘‘dissociazionedi personalità’’»; A. Manna, La c.d. responsabilità amministrativa delle persone giuridiche:un primo sguardo d’insieme, op. cit., 509 ss.; Id., La c.d. responsabilità amministrativa dellepersone giuridiche: il punto di vista del penalista, op. cit., 1116 ss.; C. Piergallini, Societasdelinquere et puniri non potest : la fine tardiva di un dogma, op. cit., 589 s. In senso conformecfr. Trib. Torino, Sezione G.U.P., Ord. 10 febbraio 2005, in www.reatisocietari.it.( 127 ) Pur convenendo sulla collocazione del criterio di imputazione soggettiva previstoper i reati commessi dai vertici all’interno dello schema della colpa di organizzazione, alcuniautori negano in radice la capacità di questo modello di fondare un’autentica colpevolezzadell’ente: cfr. A. Alessandri, Note penalistiche, op. cit., 54 s: «Ci si dovrebbe chiedere seuna siffatta colpa di organizzazione (...) possa davvero integrare la colpevolezza penalistica, seppurin senso normativo. Non è che l’accezione ‘‘normativa’’ della colpevolezza permetta ditrascurare gli elementi psicologici: com’è ben noto li organizza e li supera in una visione unitaria,che combina elementi psicologici con elementi normativi, rendendo il prezioso serviziodi poter graduare il giudizio», «Se non si vuole arrivare al drastico giudizio di fictio culpae,certo si ha a che fare con una ‘‘colpa’’ intessuta esclusivamente di elementi oggettivi, riconducibiliall’operato di una moltitudine di soggetti, che non si vede come possano lasciare spazioai tradizionali elementi psicologici della colpa, ridotti ma esistenti (e, a maggior ragione,del dolo)»; P. Patrono, Verso la soggettività <strong>penale</strong>, op. cit., 191 s., il quale rileva che «talecolpevolezza non riesce a staccarsi dalla sua dimensione prevalentemente oggettiva e comunque,appare assumere i caratteri di una colpevolezza per la condotta di vita: per ciò che l’enteha dimostrato di essere attraverso le carenze e i difetti di organizzazione e non per ciò che hafatto». Tali obiezioni non colgono però nel segno in quanto viziate da antropomorfismo: inverità non si riesce ad immaginare quale altro tipo di colpevolezza sia configurabile per glienti se non una colpevolezza fondata su elementi oggettivi ed eventualmente anche sulla condottadi vita, giacché non si può pretendere che il diritto <strong>penale</strong> delle persone giuridiche siamodellato su principî che hanno la loro ragion d’essere esclusivamente per le persone fisiche.


66SAGGI E OPINIONIespone ad una serie di rilievi critici molto convincenti. In primo luogo, si èevidenziato come enfatizzare in questo modo la frantumazione della basemanageriale nelle moderne imprese sminuisce la concezione della personagiuridica come autonomo centro di interessi, attività e decisioni alla basedella criminalizzazione degli enti, favorendo una deresponsabilizzazionecomplessiva dell’ente collettivo( 128 ); secondariamente, si è osservato chel’insieme degli elementi concorrenti che compongono la causa di esclusionedella punibilità di cui all’art. 6 determina una formulazione normativa farraginosa,la quale – unitamente alla totale implausibilità empirico-criminosa– comporta a carico dell’ente una vera e propria probatio diabolica(si pensi alla enorme difficoltà di provare che il reato è stato commessodal soggetto apicale eludendo fraudolentemente i modelli organizzativi esenza che vi sia stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organodi controllo( 129 )). Tale implausibilità empirico-criminosa è dimostrata dalfatto che non sembra rimanere alcuno spazio logico per la configurabilitàdell’‘‘esimente’’ de qua, dato che: o si verifica effettivamente una cesuranetta tra il comportamento dei vertici e la condotta virtuosa dell’ente,ma in tal caso è altamente probabile che la persona fisica abbia agito nell’esclusivointeresse proprio o di terzi (se non a danno dell’ente), con conseguentevenir meno – prima ancora della colpevolezza – del criterio di imputazioneoggettivo; oppure il diaframma fra i vertici e ‘‘la condotta divita’’ aziendale nasconde in realtà una collusione fra dirigenti e controllori,in cui l’adozione e l’efficace attuazione dei compliance programs si rivela esserenient’altro che un’impalcatura di facciata che può dar luogo ad ingiustificatearee di impunità( 130 ).( 128 ) Cfr. G. De Vero, op. ult. cit., 1136.( 129 ) La difficoltà di prova dell’esimente è aggravata dal c.d. management override, cioèdalla ridotta efficacia dei controlli effettuati dai subordinati sull’operato dei soggetti apicali:infatti, non è difficile per un amministratore o un dirigente costringere o indurre un dipendentea compiere o a ignorare un’operazione irregolare, soprattutto quando, a causa di unostile di direzione autocratico, i sottoposti assumono atteggiamenti poco critici, compiacenti,servili o ricattatori; in tali casi, sarà necessario dimostrare che il modello organizzativo contenevatutti gli elementi dissuasivi, persuasivi, culturali ed etici occorrenti per limitare ragionevolmenteil rischio di management override (sul punto v. S. Fortunato, La prevenzionedegli illeciti nel D. Lgs. 231/2001,inD. Davies, La prevenzione degli illeciti societari, Milano,2002, 279). Per ovviare al problema in dottrina vi è chi addirittura arriva a sostenere che «Sesi vuole evitare di rendere fittizia la prova liberatoria voluta dal legislatore e di costringere ladifesa dell’ente a trasmodare nell’accusa della persona fisica, non resta (...) che negare autonomiaalla fraudolenta elusione del modello, considerando quest’ultima eventualità implicitamentedimostrata con la prova dell’efficace adozione del modello, il quale non può certogarantire anche contro le sue elusioni fraudolente» (così F. Giunta, Attività bancaria e responsabilitàex crimine degli enti collettivi, inRiv. trim. dir. pen. ec., 2004, 9 s.).( 130 ) Cfr. G. De Vero, op. ult. cit., 1137 ss.; Id., Introduzione al diritto <strong>penale</strong>, op. cit.,111 s.; Id., La responsabilità diretta ex crimine, op. cit., 360. Similmente cfr. A. Carmona,op. cit., 212 ss., il quale chiosa affermando come «non esiste, né possa esistere, alcuna regola


SAGGI E OPINIONI67Ma anche ad ammettere la configurabilità dell’‘‘esimente’’ ex art. 6,non sembra comunque opportuno, dal punto di vista politico-criminale edella prevenzione generale, consentire l’impunità dell’ente per un reatocommesso nel suo interesse da un soggetto apicale: «Sarebbe come dire(...) che il reato commesso dal soggetto individuale non debba essere punito(e non soltanto punito di meno) quando non si ponga in alcuna relazionedi continuità con la condotta di vita precedente»( 131 ).L’errore in cui è incorso il legislatore delegato – peraltro andando al dilà di quanto richiesto dalla legge delega( 132 )–èstato quello di voler costruireuna colpevolezza di organizzazione a tutti i costi, estendendolaanche ad ambiti in cui essa non è necessaria, in quanto «non esiste alcunacontroindicazione a ritenere che il dolo del reato commesso dal soggetto inposizione apicale, qualificato dallo scopo di perseguire l’interesse o il vantaggiodell’ente collettivo, rappresenta un coefficiente di imputazione soggettivadel reato alla societas del tutto adeguato e non bisognevole di ulte-organizzativa che consenta all’interno di una impresa, gestita in forma societaria, un controllo– da parte di alcuno o in automatico – sugli atti di gestione dell’amministratore delegato odell’amministratore unico. Il vertice aziendale e l’azienda sono sul piano dell’operare – proprioper la stessa teoria organicistica in forza della quale possiamo oggettivamente riteneresussistente la responsabilità dell’ente per le attività dell’organo – esattamente la stessa entità»;M. Guernelli, op. cit., 292: «La disposizione lascia perplessi perché, più che dettata dallaacquisizioni della scienza dell’organizzazione, nella sua complessità talvolta superflua sembranon tener conto del fatto che l’organo dirigente o è coinvolto nei reati, o comunque non puòessere controllato da un organismo, sia pure autonomo, che gli è sottoordinato: si intendedire che, o il modello è di difficile se non impossibile efficacia (...), e quindi non se ne potràquasi mai provare l’idoneità a prevenire reati, specialmente in ragione delle rispettive qualifichesoggettive, ovvero varrà solo per funzionari intermedi (ad es. direttori di filiali) per iquali la gerarchia interna, i relativi protocolli, eventuali servizi di ispettorato, cautele qualile firme congiunte, le sanzioni disciplinari ecc., possono essere offerte in giudizio quali elementiintegratori delle previsioni normative; dovendosi altrimenti concludere che basti unadeguamento formale, con organigrammi e procedure solo sulla carta, per eludere il sistema»;D. Pulitanó, op. ult. cit., 429 s., che paventa il rischio che la possibile esenzione dell’entein casi di commissione del reato possa «aprire la strada alla predisposizione di adempimentifittizi, premessa di scuse pretestuose, con effetti di inutile complicazione del processo».( 131 ) La bella metafora è diG. De Vero, Struttura e natura giuridica, op. cit., 1142, chefa l’esempio di un soggetto apicale che – in un momento delicato per la stessa sopravvivenzadell’impresa – realizza un delitto di corruzione di pubblico ufficiale straniero all’interno diuna importante e delicata operazione economica internazionale, eludendo fraudolentementei meccanismi di controllo attivati dalla società.( 132 ) Ci troviamo dunque di fronte ad un eccesso di delega per illegittimo restringimentodella responsabilità degli enti in relazione alla commissione di reati da parte di soggettiapicali, dato che l’art. 11, comma 1, lett. n) della legge n. 300/2000 ricollegava all’adozionedel modello organizzativo-gestionale idoneo l’esclusione delle sanzioni interdittive e ladiminuzione da un terzo alla metà delle sanzioni pecuniarie, mentre il Governo vi ha ricondottoun’esenzione completa dalla responsabilità (in tal senso cfr. M.A. Pasculli, op. cit.,743; S. Vinciguerra, La struttura dell’illecito, op. cit., 17).


68SAGGI E OPINIONIriori integrazioni»( 133 ), tanto più che «non è con la creazione di categoriegiuridiche di pura apparenza che si supera il versari in re illicita e si rispettanoi principî costituzionali»( 134 ).Questa conclusione è avallata da due ordini di considerazioni. Inprimis, néil Progetto Grosso, né l’ordinamento statunitense – che è ilpiù evoluto in materia di responsabilità <strong>penale</strong> delle corporations – prevedonoun’esclusione di responsabilità per l’ente in caso di reato commessodai vertici qualora la persona giuridica abbia preventivamente adottato edefficacemente attuato un compliance program, disponendo il primo che nonvi è esclusione della responsabilità se l’autore del reato aveva poteri di direzionedella persona giuridica, o di una unità organizzativa dotata di autonomiafinanziaria e tecnico funzionale, o ne esercitava di fatto la direzione(art. 126, comma 3 dell’Articolato( 135 )), e limitandosi il secondo a contemplareuna circostanza attenuante (soluzione preferibile anche per il sistemaitaliano), peraltro circoscritta fortemente nel suo campo di applicazione(136 ). E ciò dimostra che l’immedesimazione organica è più che suffi-( 133 ) Così G. De Vero, op. ult. cit., 1141; cfr. altresì Id., Intervento, in AA.VV., Societaspuniri potest. La responsabilità da reato degli enti collettivi, op. cit., 270: «Questo è unodei punti della disciplina del decreto legislativo in cui l’esigenza di tener presenti criteri diimputazione soggettivi ulteriori rispetto a quelli postulati dalla teoria dell’identificazione, ecoerenti con il modello della colpa di organizzazione, si traduce, in chiave scusante, inuno scrupolo garantistico difficilmente condivisibile. Già èsufficiente a salvaguardare il principiodi personalità della responsabilità <strong>penale</strong> il fatto che il (...) reato (...) sia stato posto inessere dolosamente da un ‘‘vertice’’ nell’esclusivo interesse dell’ente».; G. De Simone, I profilisostanziali, op. cit., 110, che stigmatizza l’«eccesso di zelo ipergarantistico» del legislatore«perché nel fatto doloso e colpevole commesso dai ‘‘vertici’’ vi è già quanto basta e avanzaper fondare una responsabilità dolosa della societas»; M. Pelissero-G. Fidelbo, op. cit.,581, la cui critica è però rivolta indistintamente a entrambi i criteri di attribuzione soggettiva:«trattandosi della responsabilità di un ente, il giudizio non può essere arricchito delle stessecomponenti personali che ne giustificano l’addebito nella responsabilità <strong>penale</strong> delle personefisiche: è, infatti, indubbio che la ricerca di parallelismi di struttura tra responsabilità dellepersone fisiche e responsabilità delle persone giuridiche rischia di antropomorfizzare l’approccioalla nuova disciplina, sollecitando inutili forzature nella interpretazione delle normee ricercando all’interno dell’ente elementi di tipo ‘‘pseudo-volontaristico’’»; F. Giunta, op.cit., 10.( 134 ) A. Carmona, op. cit., 213.( 135 ) Progetto preliminare di riforma del codice <strong>penale</strong>, Articolato, cit. LaRelazione alProgetto, cit., spiega la mancata esclusione della responsabilità in questa ipotesi affermandoche «l’elevato livello di poteri e di responsabilità dell’autore del reato, per il ruolo dirigentericoperto nell’organizzazione, consente di identificare nella sua colpa la colpevolezza dell’organizzazionestessa».( 136 ) Le Federal Sentencing Guidelines del 1991 considerano la mera adozione di uncompliance program insufficiente per la concessione delle attenuanti in tre casi: 1) quandoun soggetto facente parte del gruppo dirigente dell’impresa o il responsabile della gestionedi un compliance program ha partecipato ad un reato, lo ha consentito o consapevolmenteignorato; 2) quando si sia ritardata la denuncia all’autorità giudiziaria del reato di cui sisia venuti a conoscenza all’interno della società; 3) quando abbia partecipato al reato un sog-


SAGGI E OPINIONI69ciente per imputare agli enti i reati posti in essere dai vertici nel loro interesse.In secundis, anche autorevole dottrina aziendalistica ritiene astrattoed incoerente rispetto a una sostenibile teoria dell’impresa il meccanismodi esenzione dell’ente disciplinato dall’art. 6, giacché identificare la responsabilitàdell’impresa esclusivamente in termini di colpa organizzativa equivalead accogliere implicitamente un concetto riduttivo di azienda, degradandolaa mero apparato impersonale e burocratico, mentre la modernateoria economica considera l’impresa come un’istituzione umana e intenzionale,come la ‘‘mano visibile del management’’, dove la struttura organizzativaderiva dalla strategia deliberatamente attuata dal top management,così che può affermarsi che «Per i reati commessi da soggetti in posizioneapicale, che tendono ad identificare i propri obiettivi con quelli dell’aziendae che comunque hanno l’autorità e la responsabilità della progettazioneorganizzativa, la possibilità di escludere la responsabilità dell’aziendaappare (...) priva di sostegno logico e pericolosa per la concreta lotta allacriminalità aziendale, pur con l’inversione dell’onere della prova»( 137 ).Riguardo alla responsabilità dell’ente per i reati commessi dai sottoposti,costruita come fattispecie di agevolazione colposa, è pacifico in dottrinache l’onere di provare la mancata adozione o la mancata attuazionedei modelli di organizzazione, gestione e controllo finalizzati alla prevenzionedei reati grava stavolta sulla pubblica accusa, dovendosi applicarela regola generale in mancanza di una deroga espressa come quella previstadall’art. 6( 138 ).Quanto alla sua qualificazione, in letteratura vi è chi ritiene che taleforma di attribuzione della responsabilità rientri pur sempre nello schemadell’immedesimazione organica e non in quello della colpa di organizzazione,è ciò sulla base del rilievo che ai fini della responsabilità dell’ente è necessariogetto che si trova in posizione di comando sostanziale (in questo caso si è di fronte ad unapresunzione iuris tantum che l’impresa è priva di un compliance program caratterizzato dall’effettività):cfr. C. De Maglie, Sanzioni pecuniarie e tecniche di controllo dell’impresa. Crisie innovazioni nel diritto <strong>penale</strong> statunitense, inRiv. it. dir. proc. pen., 1995, I, 137 s.; Id., L’eticae il mercato, op. cit., 111; F. Stella, Criminalità d’impresa, op. cit., 474.( 137 ) Così, efficacemente, P. Bastia, op. cit., 50s.( 138 ) Per tutti cfr. S. Gennai-A. Traversi, op. cit., 55; G. De Simone, op. ult. cit.,110 s.; M. Guernelli, op. cit., 293. Il pubblico ministero nel corso delle indagini dovràdunque richiedere all’ente la produzione del modello: se questo manca la responsabilità dellasocietas non è automatica poiché occorrerà provare l’inosservanza degli obblighi di direzionee vigilanza ed il rapporto di causalità tra la culpa in vigilando e la commissione del reato; seinvece il modello esiste le ipotesi sono due: 1) esso viene giudicato idoneo, magari in seguitoal ricorso ad una consulenza tecnica, e la responsabilità dell’ente è esclusa automaticamente;2) il modello è giudicato insufficiente, il ché non implica necessariamente la responsabilitàdell’ente, la quale può comunque essere esclusa dall’adozione di misure particolari che provinola mancata violazione degli obblighi di direzione e vigilanza (cfr. F. Santi, op. cit.,328 ss.).


70SAGGI E OPINIONIche la realizzazione del reato sia stata resa possibile dall’inosservanza degliobblighi di direzione o vigilanza da parte dei vertici, richiedendosi dunquela possibilità di muovere loro un rimprovero per negligenza, di cui è causadi esclusione l’attuazione dei modelli di prevenzione dei reati( 139 ). Tale opinionenon può peròessere condivisa poiché – se è vero che il riferimento all’inosservanzadei doveri di direzione o vigilanza da parte dei soggetti apicalipuò risultare fuorviante, rischiando di appiattire la responsabilità dell’enteper il fatto dei sottoposti sulla colpevolezza (sub specie di condotta colposa)dei vertici – quello che l’accusa in ultima analisi deve provare è pur sempre lamancata adozione ed attuazione dei modelli organizzativi da parte dell’entenel suo complesso, elemento quest’ultimo che inequivocabilmente configurauna forma di colpa di organizzazione oggettiva e normativa in quanto riferitaimpersonalmente alla struttura( 140 ).È pacifico in dottrina e tra le associazioni imprenditoriali che l’adozionee l’efficace attuazione dei modelli organizzativi rappresenti per l’enteun semplice onere( 141 ). Tuttavia, attenta dottrina ha sottolineato come alfine di stabilire si ci si trovi in presenza di un obbligo o di un onere occorreverificare se gli adempimenti da cui dipende l’esclusione della sanzionabilitàper l’ente corrispondono oppure no ad obblighi già altrimenti impostidall’ordinamento giuridico o derivanti dalla disciplina in esame( 142 ).( 139 ) In tal senso cfr. G. Cocco, op. cit., 108 ss., il quale rimarca che «la pervasivapresenza nel dettato normativo dell’influsso della dottrina della c.d. identificazione, che cacciatadalla porta immancabilmente rientra dalla finestra, in effetti non solo impedisce unacoerente costruzione normativa della colpevolezza di organizzazione, ma finisce per negarnela stessa sussistenza, con innegabili conseguenze sul piano della linearità del dettato normativo».( 140 ) Cfr. C.E. Paliero, Il d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, op. cit., 846: «superando glischemi tradizionali, questo modello fonda la responsabilità, non sulla prova della negligenzadella persona fisica-sorvegliante (dirigente) nel controllo della persona fisica-sorvegliato (dipendente),bensì sulla prova della (di una) generale e strutturale colpa di organizzazione nellaprevenzione e protezione dell’azienda (società, company, etc.) dallo specifico rischio (...) dellacommissione di un reato ‘‘della specie di quelli indicati’’, da parte di un qualsiasi dipendente,o nuncius, dell’impresa stessa»; Id., La responsabilità delle persone giuridiche, op. cit., 56; A.Alessandri, op. ult. cit., 49; F. Giunta, op. cit., 11.( 141 ) In dottrina v., ex plurimis, G. De Vero, Struttura e natura giuridica, op. cit. 1146.Nella stessa direzione vanno, come detto, le prese di posizione delle associazioni di categoriadegli imprenditori: cfr. Abi, Linee guida, cit., 363; Confindustria, Linee guida per la costruzionedei modelli di organizzazione, gestione e controllo ex D.Lgs. n. 231/2001, Roma,7 marzo 2002 (aggiornate al 24 maggio 2004), in www.confindustria.it, 5 s.: «la legge prevedel’adozione del modello di organizzazione, gestione e controllo in termini di facoltatività e nondi obbligatorietà. La mancata adozione non è soggetta, perciò, ad alcuna sanzione, ma esponel’ente alla responsabilità per gli illeciti realizzati da amministratori e dipendenti. Pertanto,nonostante la ricordata facoltatività del comportamento, di fatto l’adozione del modello divieneobbligatoria se si vuole beneficiare dell’esimente»; nonché la circolare dell’ASSONI-ME n. 68/2002.( 142 ) Cfr. D. Pulitanó, op. ult. cit., 431.


SAGGI E OPINIONI71In merito ai reati commessi dai sottoposti, il riferimento all’inosservanzadi obblighi di direzione o di vigilanza presuppone una disciplina correlata,dettata dalla legge o interna all’ente, che preveda i poteri ed i relatividoveri dei soggetti apicali, costituendo quindi i modelli organizzativi eserciziodi poteri e adempimento di doveri altrove stabiliti, finalizzati al buonfunzionamento dell’ente. Dunque si può affermare che «La predisposizionedi modelli organizzativi idonei a prevenire il reato dei sottoposti è(...) un obbligo, ad un tempo, dei soggetti apicali e dell’ente che essi ‘‘impersonano’’»(143 ).Per quanto concerne i reati commessi dai vertici, si è detto invece che«L’adozione di modelli ‘‘preventivi’’ ai sensi dell’art. 6 è (...) una possibilitàche la legge ha introdotto, rimettendola alla scelta discrezionale dell’ente.Non un obbligo, se non nella misura in cui doveri attinenti all’organizzazionesiano desumibili da altre fonti normative»( 144 ). Ma proprio quest’ultimo assuntolegittima la ricerca di eventuali fonti normative contenenti l’obbligodi adottare i modelli organizzativi per prevenire i reati dei soggetti apicali.Questa via è stata percorsa di recente, in maniera solo parzialmente convincente,da chi ritiene di potere fondare siffatto obbligo sulle norme inerentila gestione delle imprese e delle società, la quale è agganciata al criterio didiligenza e prudenza nell’espletamento del mandato. Per cui da un lato – inun’ottica interna all’ente – l’amministratore prudente deve porre la societàal riparo dalle ripercussioni negative che l’attività sociale può subire in seguitoall’irrogazione di sanzioni pecuniarie, interdittive e stigmatizzanti,dall’altro lato – in un’ottica esterna – l’organo ricopre una ‘‘posizione digaranzia’’ che lo obbliga alla prudenza ed a prendere tutte le cautele chela sua diligenza professionale gli impone per evitare che la società subiscaun danno in conseguenza di una grave irregolarità, onde non vi è dubbioche la mancata adozione ed attuazione del modello organizzativo possa giustificarel’intervento del collegio sindacale, il quale – ai sensi del nuovo art.2403 c.c. – vigila sull’osservanza della legge e dello statuto, sul rispetto deiprincipî di corretta amministrazione e in particolare sull’adeguatezza dell’assettoorganizzativo, amministrativo e contabile adottato dalla società esul suo concreto funzionamento, avvalendosi dei poteri di cui ai novellatiartt. 2403-bis, 2406 e 2409 c.c.( 145 ). Mentre per le società quotate e perle società finanziarie l’obbligo di munirsi di un compliance program potrebbeessere ricavato – forse un po’ arditamente, vista la genericità dellaprevisione – dall’art. 149, comma 1, d. lgs. n. 58/1998, il quale dispone( 143 ) D. Pulitanó, op. e loc. ult. cit.( 144 ) D. Pulitanó, op. ult. cit., 432 s.( 145 ) Cfr. F. Santi, op. cit., 291 s. Nello stesso senso v. G. Rubboli-M. Bramieri-D.Bagaglia-A. Bogliacino, La responsabilità amministrativa della società. Analisi del rischioreato e modelli di prevenzione, Milano, 2003, 127.


72SAGGI E OPINIONIche il collegio sindacale ha il dovere di vigilare sull’osservanza della legge edell’atto costitutivo, sul rispetto dei principî di corretta amministrazione,sull’adeguatezza della struttura organizzativa della società in relazione allanatura finanziaria dell’ente( 146 ).Ci si è interrogati, inoltre, sulla mancanza di ogni riferimento ai modelliorganizzativi – che costituiscono l’architrave dei criteri di imputazionesoggettiva – da parte dell’art. 25-ter in relazione alla responsabilità deglienti per i reati societari. L’opinione prevalente è nel senso di ritenereche anche in questo caso – come per i criteri di attribuzione oggettiva –non si sia dato luogo alla creazione di «un sottosistema nel sottosistema»(147 ) per i reati societari, giacché il richiamo effettuato dall’art. 11lett. h) della legge delega n. 366/2001 ai principî generali contenuti nellalegge delega n. 300/2000 e nel d. lgs. n. 231/2001 comporta l’impossibilitàdi escludere la rilevanza, sul piano della colpevolezza, dell’adozione deimodelli di prevenzione del rischio-reato, i quali integrano un elemento costitutivodel sistema di responsabilità da reato degli enti( 148 ). Se il legislatoredel 2002 avesse voluto mettere ‘‘fuori gioco’’ i modelli organizzativi inquesta specifica ipotesi, sarebbe stata necessaria un’esclusione espressa edinequivoca, che derogasse alla regola generale( 149 ).B) Il modello quadripartito di colpevolezza dell’ente proposto dalla de MagliePer superare le insufficienze e le aporie che affliggono l’attuale modellodi colpevolezza dell’ente previsto dal d. lgs. n. 231/2001, sarebbe opportuno– in una prospettiva de lege ferenda – adottare il modello di colpevolezza dellapersona giuridica autorevolmente proposto dalla de Maglie, articolato in«quattro forme fondamentali che (...) racchiudono ed esauriscono le diversemanifestazioni della patologia della gestione della società, dal grado più intensoa quello più leggero»: 1) la colpevolezza derivante dalle scelte di politicadi impresa; 2) la colpevolezza che scaturisce dalla cultura di impresa; 3) la colpevolezzadi organizzazione; 4) la colpevolezza di reazione( 150 ).( 146 ) Cfr. F. Santi, op. cit., 292.( 147 ) Il rischio di una simile eventualità èprospettato da E. Musco, Gli amministratoridisonesti producono sanzioni alle società, inDir. e Giust., 2002, n. 20, 82; Id., I nuovi reatisocietari, Milano, 2004, 32.( 148 ) Cfr. C.E. Paliero, Nasce il sistema delle soglie quantitative: pronto l’argine alleincriminazioni, inGuida al diritto, 2002, n. 16, 44; Id., La responsabilità delle persone giuridiche,op. cit., 57 s.; C. Piergallini, La responsabilità amministrativa delle persone giuridiche,op. cit., 83 ss.; U. Guerini, La disciplina della responsabilità ‘‘<strong>penale</strong>-amministrativa’’ deglienti, in AA.VV., La responsabilità amministrativa degli enti, monografia di Dir. prat. soc.,2002, n. 3, 30; S. Putinati, op. cit., 87.( 149 ) Cfr. C. Piergallini, op. ult. cit., 87; G. De Vero, I reati societari, op. cit., 730.( 150 ) Cfr. C. De Maglie, L’etica e il mercato, op. cit., 355 s.; Id., In difesa della respon-


SAGGI E OPINIONI73Tale modello quadripartito di colpevolezza avrebbe il pregio evidentedi consentire una graduazione della ‘‘riprovevolezza d’impresa’’ dalla formapiù grave (equiparabile al dolo intenzionale) a quella meno grave (equiparabilealla colpa)( 151 ), che ovviamente troverebbe una corrispondenza nelladiversa modulazione quantitativa e qualitativa delle sanzioni( 152 ).La colpevolezza come espressione delle scelte di politica di impresa,che integra la forma più grave di colpevolezza dell’ente, si ha o quandola persona giuridica ha operato principalmente per perseguire scopi criminosio servendosi di mezzi criminosi (c.d. impresa criminale), oppure nell’ipotesiin cui i dirigenti abbiano – piegando le strutture organizzative interne– realizzato, determinato, accettato o tollerato la commissione di unreato( 153 ).Al secondo stadio di riprovevolezza si colloca la colpevolezza manifestazionedella cultura d’impresa, la quale fa riferimento ai fenomeni criminaliche hanno un’origine ‘‘ambientale’’, che cioè sono il prodotto diuna mentalità e di uno stile di vita radicato nella persona giuridica. Paleseè la carenza di tassatività di una simile categoria, tanto che gli studiosi – siva dagli sforzi degli anni settanta compiuti da Stone e Bucy, fino alle recentielaborazioni di Schein, Vance e Stupack – hanno più volte tentato diprecisarne il contenuto. La formalizzazione del concetto è stata operataper la prima volta dal legislatore australiano del 1995, che al div. 12.3del Criminal Code Act definisce la corporate culture come «una mentalità,un’insieme di usi, di regole, un modo di gestire e di condurre l’aziendache è radicato generalmente all’interno della struttura della persona giuridicao nell’ambito di quella parte dell’impresa in cui si svolgono le attivitàdi rilievo»( 154 ). Certamente il ricorso a tale forma di colpevolezzasabilità <strong>penale</strong> delle persone giuridiche, in AA.VV., L’ultima sfida della politica criminale, op.cit., 351 ss.( 151 ) In tal senso cfr. C. De Maglie, L’etica e il mercato, op. cit., 356; contra v. C.Piergallini, La disciplina, op. cit., 1362, il quale – partendo dal presupposto che la colpevolezzadell’ente, essendo intrinsecamente normativa, sfugge alla possibilità di scandagliare afondo il nesso psicologico con il fatto illecito – arriva alla conclusione che, «mentre nel contestodella responsabilità della persona fisica, l’autonomia dei delitti dolosi e di quelli colposipoggia sopra un’indiscutibile piattaforma empirica, nell’ambito della responsabilità dell’enteè la violazione delle regole di prevenzione del rischio-reato nell’esercizio dell’attività economicaa costituire l’ossatura della disciplina, senza che residuino soverchi spazi per sottili distinguosulle forme di colpevolezza».( 152 ) Nell’attuale disciplina la differenza tra la colpevolezza dell’ente per i reati commessidai vertici e quella per i reati commessi dai sottoposti è purtroppo «neutralizzatasul piano sanzionatorio dall’identità delle comminatorie edittali» (lo nota G. De Vero,Struttura e natura giuridica, op. cit., 1136).( 153 ) Cfr. C. De Maglie, op. ult. cit., 356 s.( 154 ) Cfr. C. De Maglie, op. ult. cit., 359 ss.; F. Centonze, op. cit., 438, il quale considerariduttiva la definizione di corporate culture presente nel codice australiano, in quanto


74SAGGI E OPINIONIconsentirebbe di sanzionare gli enti che attuano un’adesione meramentedi facciata alla legalità, adottando un compliance program cherimanesolosulla carta e seguendo invece regole non scritte orientate verso l’illegalità(155 ), tuttavia permangono i dubbi sull’eccessiva genericità nella nozionedi corporate culture, che potrebbe prestarsi ad abusi applicativi daparte della giurisprudenza, pericolo segnalato dalla dottrina in relazionealla eventuale introduzione nel nostro codice <strong>penale</strong> della fattispecie di‘‘concussione ambientale’’( 156 ), peraltro già entrata nel linguaggio giurisprudenziale(157 ), le cui analogie con il concetto di corporate culture sonoevidenti.La colpa di organizzazione consiste in un difetto organizzativo inerentei processi di gestione interna dell’ente: la persona giuridica è con-non fa riferimento «alla persistenza e alla istituzionalizzazione di questo insieme di norme,valori e consuetudini nel contesto dell’organizzazione, a quel processo capace di determinarele condotte dei singoli, orientandoli ad allinearsi a questo sistema normativo e non a quelloimposto dall’ordinamento».( 155 ) Cfr. C. De Maglie, op. ult. cit., 362.( 156 ) In tal senso cfr. R. Zannotti, I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione:inefficienze attuali e prospettive di riforma, in AA.VV., Studi economico-giuridicidella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Cagliari, vol. LX, 2003-2004, In memoriadi Franco Ledda, II, Torino, 2004, 1371 s., secondo cui una fattispecie come quella descrittanell’art. 138 n. 5 del Progetto Pagliaro (1992) – consistente nel fatto del pubblicoagente che «riceve o ritiene denaro o altra utilità sfruttando l’altrui convinzione, determinatada situazioni ambientali, reali o supposte, di non poter altrimenti contare su un trattamentoimparziale» – «eliminerebbe i problemi sollevati dalla concussione per induzione, ma neaprirebbe altri ben più gravi, sollevati dalla preoccupante indeterminatezza della norma edalla vaghezza dei confini della stessa»; v. altresì E. Musco, Le attuali proposte individuatein tema di corruzione e concussione, in AA.VV., Revisione e riformulazione delle norme in temadi corruzione e concussione, Bari, 1995, 46, il quale rileva che introdurre una fattispeciebasata sullo «sfruttamento di una convinzione soggettiva – reale o addirittura supposta – dinon poter contare su un trattamento imparziale, significa tradire il principio di legalità e affidarsiagli inevitabili abusi e soprusi della prassi, come sempre accade quando la fattispecie<strong>penale</strong> abdica ad una descrizione semplice e tassativa e va a rifluire nella discrezionalità giudiziale»;Id., L’illusione penalistica, Milano, 2004, 89, ove si definisce la concussione ambientaleuna «manipolazione interpretativa, un arbitrio per varie ragioni che nessuna esigenza diordine sociale può giustificare e/o sanare».( 157 ) Cfr. App. Venezia, 24 giugno 1996, in Giur. merito, 1998, 92 ss.; Cass., 13 luglio1998, Salvi e altri, in Foro it., 1999, II, 644 ss., con nota di V. Manes, La «concussione ambientale»da fenomenologia a fattispecie «extra legem»; Trib. Roma, 20 luglio 2000, Bosca ealtri, in Giur. merito, 2002, 110 ss. In dottrina cfr. G. Forti, L’insostenibile pesantezza dellatangente ambientale: inattualità di disciplina e disagi applicativi del rapporto corruzione-concussione,inRiv. it. dir. proc. pen., 1996, 491 ss.; G. Contento, La concussione, inT. Padovani(a cura di), I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Torino,1998, 112 ss.; E. Palombi, La concussione, Torino, 1998, 145 ss.; G. Fiandaca, Esigenze eprospettive di riforma dei reati di concussione e corruzione, inRiv. it. dir. proc. pen., 2000, 889ss.; C. Benussi, I delitti contro la pubblica amministrazione, inTrattato di diritto <strong>penale</strong>, Partespeciale, diretto da G. Marinucci e E. Dolcini, vol. I, tomo I, Padova, 2001, 372 ss.


SAGGI E OPINIONI75siderata colpevole se si dimostra che non ha adottato misure organizzativedirette a prevenire la commissione di reati al proprio interno o sel’implementazione di tali misure si è rivelata insufficiente. Perno diquesta forma di colpevolezza sono dunque i compliance programs. Indubbisono i vantaggi offerti dalla colpa di organizzazione: 1) la possibilità,grazie ai compliance programs, di prevenire o scoprire nella fase iniziale– evitandone le conseguenze dannose o pericolose – reati altrimentispesso imprevedibili; 2) la creazione di una cultura di impresa volta alrispetto della legge e di natura ‘‘specialistica’’, ovvero diretta ad individuarecon precisione e a neutralizzare le fonti di rischio; 3) l’instaurazionedi una collaborazione fra impresa e ordinamento giuridico nellaprevenzione dei reati, determinata dalla premialità del meccanismo deicompliance programs, la cui efficace adozione consente il proscioglimentodella persona giuridica (eccetto che nel caso di reati dolosi posti in esseredai vertici)( 158 ).Infine, lo schema della colpevolezza di reazione (reactive corporatefault) – ideato dagli studiosi australiani Fisse e Braithwaite – è l’unicoche consenta di configurare la responsabilità <strong>penale</strong> degli enti in relazionea reati – come quelli ambientali – che per giungere a consumazione hannobisogno della somma di una pluralità di comportamenti distribuiti neltempo. Vi sono infatti beni, come l’ambiente, che solo eccezionalmentepossono essere lesi da una singola condotta, richiedendosi in genere il cumulodi una pluralità di comportamenti. La particolare struttura di tali fattispecierende impraticabile il ricorso sia al criterio dell’immedesimazioneorganica, facilmente eludibile attraverso una sostituzione del personale dirigente(cosicché non vi sarebbe mai una persona fisica responsabile dell’interaserie dei comportamenti), che a quello della colpa di organizzazione,giacché l’inefficacia del compliance program si manifesterebbequando ormai l’offesa si è prodotta, vanificando sistematicamente la funzionepreventiva della colpa di organizzazione. Per questo motivo, l’unicomodo di sanzionare gli enti per le c.d. offese dinamiche è quello di accertarela colpevolezza non al momento o prima della realizzazione del comportamento,ma successivamente alla condotta, valutando la reazione chel’ente ha avuto dopo la realizzazione di una parte del fatto tipico: occorrecioè verificare quali contromisure (rafforzamento dei meccanismi di controllointerno, modificazioni strutturali, ecc.) l’ente ha adottato nel periododi tempo immediatamente successivo alla condotta. La mancata o insufficientereazione, dolosa o colposa, integrerà la colpevolezza della personagiuridica( 159 ).( 158 ) Cfr. C. De Maglie, op. ult. cit., 363 ss.( 159 ) Cfr. C. De Maglie, op. ult. cit., 373 ss.


76SAGGI E OPINIONIC) I modelli di organizzazione, gestione e controllo:a) Profili disciplinariI modelli di organizzazione, gestione e controllo rappresentano – comesi è visto – l’architrave dell’intero sistema di responsabilità da reato deglienti.Attraverso l’introduzione di questo istituto – palesemente ispirato aicompliance programs statunitensi e sconosciuto agli ordinamenti europei –si è scelto di privilegiare, nella lotta contro la criminalità di impresa, la prevenzionerispetto alla mera repressione, ricorrendo al c.d. carrot-stick approach,lafilosofia del bastone e della carota, che prevede sanzioni elevate nei confrontidegli enti privi di modello organizzativo o che si sono dotati di modelli inefficacie forti riduzioni di pena nel caso in cui l’ente abbia tenuto un comportamentovirtuoso, adottando misure idonee a prevenire la commissione direati al suo interno( 160 ). La via italiana ai compliance programs è però caratterizzatada una notevole eccentricità rispetto al modello americano, visto che ilbastone – almeno per quanto riguarda la pena pecuniaria – è praticamenteinesistente, potendo raggiungere la misura massima di ‘‘soli’’ un milione emezzo di euro, mentre la carota è esageratamente grande giacché si sostanzianell’esclusione della responsabilità dell’ente e non in una semplice riduzionedi pena (che negli Stati Uniti può essere anche superiore all’80%)( 161 ).Un’ulteriore peculiarità rispetto al sistema statunitense è la polifunzionalitàdei modelli organizzativi emergente dall’impianto del d. lgs. n. 231/2001. Oltre ad escludere la responsabilità dell’ente per i reati commessidai vertici o dai sottoposti, i modelli organizzativi – se adottati prima dell’aperturadel dibattimento di primo grado – possono concorrere ad evitare all’entel’applicazione delle sanzioni interdittive (art. 17) e, conseguentemente,impedire la pubblicazione della sentenza di condanna (art. 18), nonché determinareuna sensibile riduzione della sanzione pecuniaria (art. 12, comma2, lett. b), e comma 3). Inoltre, la semplice dichiarazione di voler munirsi di( 160 ) Cfr. F. Stella, Criminalità d’impresa, op. cit., 473 ss., il quale osserva che «l’esperienzanord-americana sta ad indicare che il diritto <strong>penale</strong> può esercitare una efficaceazione deterrente e di prevenzione, nei confronti dei reati commessi all’interno della societàe dei gruppi, solo se si imbocca la strada di una reale ed efficace regolamentazione dell’impresa»;Id., Criminalità di impresa: nuovi modelli di intervento, inRiv. it. dir. proc. pen.,1999, 1254 ss., ove l’autore ribadisce il giudizio positivo sull’istituto dei compliance programscome strumento per combattere la criminalità di impresa; C. De Maglie, op. ult. cit., 71 ss.Secondo P. Severino, Il codice etico, in AA.VV., La responsabilità amministrativa della societàe degli enti, Atti del Convegno di studi tenuto a Roma – Lido di Ostia, 9 dicembre2002, presso la Scuola di polizia tributaria della Guardia di Finanza, Roma, 2003, 36, il passaggioad un’ottica preventiva è scaturito dalla maturazione di una coscienza sociale sullagravità del reato di impresa.( 161 ) Cfr. F. Stella, Il mercato senza etica, op. cit., XII s.


SAGGI E OPINIONI77tali modelli, unitamente alle altre condizioni di cui all’art. 17, può far ottenereall’ente la sospensione delle misure cautelari interdittive eventualmenteadottate nel corso del procedimento (art. 49, comma 1); misure destinate poiad essere revocate nell’ipotesi di effettiva attuazione dei modelli e delle suddettecondizioni (artt. 49, comma 4, e 50, comma 1). Ancora, l’art. 78 prevedeche se entro venti giorni dalla notifica della sentenza di condanna l’entedocumenta l’attuazione dei modelli organizzativi e delle altre condizioni richiestedall’art. 17 ottiene la conversione delle sanzioni interdittive in sanzionepecuniaria. Infine, nell’ipotesi di nomina di un commissario giudiziariosostitutiva dell’applicazione della sanzione interdittiva che comporta l’interruzionedell’attività di cui all’art. 15, il commissario dovrà, tra le altre cose,provvedere all’adozione dei modelli ex art. 15, comma 3( 162 ).L’art. 6, comma 2, prevede che il modello organizzativo volto a prevenirei reati dei vertici deve possedere le seguenti caratteristiche( 163 ): a)individuare le attività dell’ente al cui interno possono essere commessireati (c.d. mappatura del rischio)( 164 ), secondo un modello mutuato( 162 ) Cfr. R. Rordorf, op. cit., 1300; Id., La normativa sui modelli di organizzazionedell’ente, in AA.VV., Responsabilità degli enti per i reati commessi nel loro interesse, op. cit.,81. L’importanza del ruolo svolto dai modelli organizzativi nella disciplina della responsabilitàda reato degli enti collettivi e la loro funzione di prevenzione del rischio reato all’internodelle aziende li ha resi oggetto di studio privilegiato da parte della dottrina penalistica edaziendalistica: in argomento cfr., di recente, S. Bartolomucci, Corporate Governance e responsabilitàdelle persone giurfidiche. Modelli preventivi ad efficacia esimente ex d. lgs. n. 231del 2001, Milano, 2004; O. Di Giovine, La responsabilità degli enti: lineamenti di un nuovomodello di illecito punitivo, in AA.VV., Diritto e impresa: un rapporto controverso, a cura diA. Manna, Milano, 2004, 508 ss.; AA.VV., I modelli organizzativi ex d. lgs. 231/2001. Eticad’impresa e punibilità degli enti, a cura di C. Monesi, Milano, 2005; A. Iannini-G.M. Armone,Responsabilità amministrativa degli enti e modelli di organizzazione aziendale, Roma,2005.( 163 ) Negli Stati Uniti, le Guidelines del 1991 prevedono sette requisiti minimi che leimprese devono rispettare nella progettazione ed applicazione pratica dei compliance programsaffinché possa ritenersi soddisfatto il dovere di diligenza: 1) la capacità di ridurre lapossibilità di commettere reati; 2) la scelta di supervisori per l’attuazione del programma;3) la selezione dei dipendenti in base al criterio della ‘‘propensione al reato’’; 4) l’adozionedi tecniche di comunicazione pedagogica del modello all’interno dell’impresa; 5) l’instaurazionedi meccanismi di controllo e di canali di informazione interna; 6) la predisposizione diun apparato disciplinare; 7) l’adozione, una volta accertato un reato, di misure volte ad evitareil ripetersi di comportamenti criminosi (in argomento cfr. C. De Maglie, Sanzioni pecuniarie,op. cit., 139 ss.; Id., L’etica e il mercato, op. cit., 115 ss.; G. Capecchi, Le sentencingguidelines for organizations e i profili di responsabilità delle imprese nell’esperienza statunitense,inDir. comm. int., 1998, 471 ss.; E. Gilioli, op. cit., 52 s. Per un parallelo fra ladisciplina italiana e quella statunitense v. G. Graziano, Modelli organizzativi: disciplina italianae statunitense a confronto, in AA.VV., La responsabilità amministrativa degli enti, monografiadi Dir. prat. soc., op. cit., 58 ss.).( 164 ) Tale requisito è stato così efficacemente definito: «in pratica, si richiede che l’impresaidentifichi specifiche funzioni operative (per esempio, acquisti, vendite, investimenti,tesoreria, ecc.), oppure determinati mercati (per esempio, geografici, settoriali, a pronti o


78SAGGI E OPINIONIdal d. lgs. n. 626/1994 in materia di sicurezza del lavoro( 165 ); b) prevederespecifici protocolli finalizzati a procedimentalizzare la formazione el’attuazione delle decisioni dell’ente in relazione ai reati da prevenire( 166 );c) individuare modalità di gestione delle risorse finanziarie adeguate aimpedire la verificazione di reati; d) prevedere un flusso di informazioniobbligatorio verso l’organo di controllo che deve vigilare sul corretto funzionamentoe l’osservanza del modello; e) introdurre un sistema disciplinarediretto a sanzionare la violazione delle misure contemplate dal modello.Con riferimento ai modelli organizzativi finalizzati alla prevenzione deireati dei sottoposti, invece, la disciplina è più scarna. Essa si limita a prevedereche il modello, in relazione alla natura e alla dimensione dell’entenonché al tipo di attività svolta, deve contenere misure idonee a garantirelo svolgimento dell’attività nel rispetto della legge e a individuare e rimuoveretempestivamente le situazioni di rischio (art. 7, comma 3). A tal fine,l’efficace attuazione del modello viene fatta dipendere da due requisiti: a)una manutenzione periodica del modello, realizzata per mezzo di un sistemadi verifica ed aggiornamento in presenza di significative violazionidelle prescrizioni o di mutamenti nell’organizzazione o nell’attività; b) unsistema disciplinare idoneo a sanzionare le violazioni delle misure contenutenel modello (art. 7, comma 4).Apparentemente, dunque, le disposizioni normative sembrano indicarela necessità per l’ente di adottare due diversi modelli organizzativi,con caratteristiche strutturali differenziate in funzione dei potenziali soggettiattivi (vertici o sottoposti). In realtà, un’interpretazione funzionaledelle due norme suggerisce di considerare il modello unitario, costituendogli elementi di cui all’art. 6, comma 2, nient’altro che una specificazionea termine, governativi o privati ecc.), oppure determinati prodotti (per esempio, beni materialio immateriali, servizi, condizioni di vendita ecc.) che si prestano più di altri all’ottenimentodi vantaggi illeciti attraverso la violazione di una o più norme di legge» (S. Fortunato,op. cit., 281).( 165 ) Vi è altresì chi individua un’analogia fra i modelli organizzativi ex d. lgs. n. 231/2001 ed il piano di autocontrollo igienico sanitario di cui al d. lgs. n. 155/1997 (cfr. V. Pacileo,Autocontrollo igienico-sanitario nell’impresa alimentare e modelli di organizzazioneaziendale: un confronto possibile tra d.lg. n. 155/97 e d.lg. n. 231/01, inCass. pen., 2003,2494 ss.).( 166 ) In sostanza, è necessario «prevedere per ciascuna area di rischio le specifiche procedureoperative interne per la gestione delle fasi salienti di approvazione e di conduzionedelle operazioni più sensibili; quindi, per procedere alla definizione delle procedure operative,occorrerà prima aver individuato in ciascuna attività a rischio sia la gamma di comportamentiche configurano tutte le potenziali irregolarità per un ampio spettro di possibili reatisia le funzioni aziendali e i processi coinvolti e infine, in ciascuna funzione e in ciascun processo,i possibili casi di transazione o comportamenti aziendali anomali, identificandone i segnalipremonitori» (così S. Fortunato, op. cit., 282).


SAGGI E OPINIONI79(minima) della clausola generale di cui all’art. 7, comma 3( 167 ). È evidente,infatti, che qualunque modello organizzativo deve essere forgiatoin funzione della natura e della dimensione della societas, oltrechedeltipo di attività svolta (commerciale, industriale, finanziaria, ecc.), comportandotali fattori diverse scelte in termini di modalità di strutturazione delmodello (delega di poteri ed estensione dei poteri delegati, natura e gradazionedei rischi di commissione dei reati giacché diverse possono esserele potenziali modalità attuative degli stessi)( 168 ). Inoltre, le pur innegabilidifferenze nelle procedure e nei controlli postulate dalla diversità dei soggettiattivi possono essere comunque salvaguardate e distinte nell’ambitodi un’unica procedimentalizzazione di regole e comportamenti( 169 ).Stesso discorso deve farsi riguardo all’organo di controllo sul funzionamentoe sull’aggiornamento del modello, espressamente richiesto dall’art.6, ma non dall’art. 7: un’interpretazione teleologica conduce necessariamentea ritenere l’organismo di vigilanza nient’altro che una specializzazionedella funzione di controllo enunciata dall’art. 7, comma 2( 170 ),anche se vi è chi reputa che estendere la previsione dell’organo di vigilanzaal modello organizzativo inerente i reati dei sottoposti equivalgaad introdurre un elemento impeditivo della fattispecie che non è ‘‘scritto’’nella legge, con conseguente violazione del principio di legalità, che ha tra( 167 ) In tal senso v. P. Sfameni, La responsabilità delle persone giuridiche: fattispecie edisciplina dei modelli di organizzazione, gestione e controllo, in AA.VV., Il nuovo diritto <strong>penale</strong>delle società, op. cit., 70s.( 168 ) Cfr. P. Sfameni, op. cit., 71. Di diverso avviso sono A. Frignani-P. Grosso-G.Rossi, La responsabilità, op. cit., 168 s., secondo cui la necessità di uno sdoppiamento deimodelli deriva dalla natura dualistica del sistema di responsabilità, dai differenti presuppostisu cui si basa la responsabilità dell’ente in relazione ai reati commessi dai vertici e dai sottopostie dalle diverse funzioni che i modelli dovranno svolgere nei due casi; F. Santi, op. cit.,330 s., il quale distingue fra modelli di primo (soggetti apicali) e di secondo livello (sottoposti),pur riconducendo entrambi i modelli al principio unitario dell’esigenza che tutta l’attivitàdell’ente, in ogni comportato o manifestazione, sia improntata a canoni etici comunementecondivisi e che siano adottate tutte le misure necessarie ad evitare la commissionedi reati; la funzione e la struttura dei due modelli si diversificherebbero in virtù della differentenatura, qualità e posizione nell’organizzazione dell’ente di apicali e sottoposti, dovendoil modello di secondo livello indicare le linee di comportamento di un soggetto che agisce peraltri, che deve rendere conto e che è strumento di un decisore, quale è il soggetto apicale.( 169 ) Cfr. F. Maimeri, Controlli interni delle banche tra regolamentazione di vigilanza emodelli di organizzazione, inRiv. dir. comm., 2002, I, 622.( 170 ) Cfr. P. Sfameni, op. cit., 88. Vi è chi ritiene che dalla mancata previsione dell’organodi controllo nell’art. 7 possa desumersi la non imposizione di una competenza accentratadell’organo di vigilanza con riferimento ai sottoposti, potendo in tal caso la funzione divigilanza essere affidata ad altri organi e funzioni interne (dotati delle competenze necessariead assumere decisioni effettive), dato che la qualifica non apicale dei destinatari del modellonon rende più necessaria una posizione di terzietà e indipendenza dei responsabili del controllorispetto ai vertici aziendali (A. Frignani-P. Grosso-G. Rossi, op. ult. cit., 179).


80SAGGI E OPINIONIi suoi corollari il divieto di interpretazione analogica delle norme incriminatrici(171 ).Occorre ora definire le nozioni di organizzazione, gestione e controllo.Il concetto di organizzazione è un concetto statico, che fa riferimento allastruttura, all’articolazione e alla progettazione delle funzioni (interne edesterne all’impresa), delle responsabilità e dei processi decisionali: per prevenirela commissione di reati è necessario prima individuare le aree a rischioe poi al loro interno procedere a ridefinire l’organigramma delle funzionie delle responsabilità, nonché i meccanismi decisionali( 172 ). Il concettodi gestione è invece un concetto dinamico, relativo sia alle modalitàdi assunzione delle decisioni che alle scelte di acquisizione e di utilizzazionedelle risorse umane ed economico-finanziarie( 173 ). Cruciale al fine dell’efficaciadel modello organizzativo è poi la funzione di controllo, costituitada un lato da meccanismi di controllo preventivo da innestare all’internodella struttura organizzativa e delle modalità gestionali dell’impresa (sipensi alla previsione della firma congiunta per il compimento di operazioniche superano una certa soglia o alla precauzione di evitare che l’intero procedimentodi adozione di una decisione faccia capo ad un solo soggetto),dall’altro dall’organo di controllo, che ha il compito di segnalare le violazionidelle prescrizioni del modello e di proporre integrazioni e modificazioniper il suo aggiornamento( 174 ).L’art. 6, comma 3, prevede che i modelli organizzativi possono essereadottati sulla base di codici di comportamento redatti dalle associazionirappresentative degli enti, comunicati al Ministero della giustizia, chepuò formulare, di concerto con gli altri ministeri competenti, osservazionisulla loro idoneità( 175 ). Emerge così un sistema a tre livelli: il primo costituitodalle (volutamente) generiche previsioni dettate dal legislatore negliartt. 6 e 7, il secondo rappresentato dai codici di comportamento elaboratidalle associazioni di categoria ed il terzo consistente nei singoli modelliadottati da ciascun ente( 176 ). È chiaro che l’adeguamento dei modelliaziendali ai codici di comportamento – che le più importanti associazioni( 171 ) Così F. Santi, op. cit., 334 ss.( 172 ) Cfr. P. Sfameni, op. cit., 73. s.( 173 ) Cfr. P. Sfameni, op. cit., 74.( 174 ) Cfr. P. Sfameni, op. e loc. ult. cit. Quanto all’organo di controllo si è prospettatoil rischio che un’interpretazione rigorista del ruolo di tale organismo determini forti rallentamenti,se non vere e proprie situazioni di stallo, nella gestione dell’ente (così A. Fiorella,Principi generali, op. cit., 13 s.).( 175 ) La procedura di validazione dei codici di comportamento è stata disciplinata dalD.M. 26 giugno 2003, n. 201, su cui v. O. Forlenza, Definiti i termini per valicare i codici dicomportamento, inGuida normativa – Il Sole 24 Ore, 2003, n. 152, 15 s.; A. De Vivo, Luci eombre sull’esenzione dell’ente dalla responsabilità, ivi, 17; F. Santi, op. cit., 276 ss.( 176 ) Cfr. R. Rordorf, op. ult. cit., 83s.


SAGGI E OPINIONI81imprenditoriali italiane hanno tempestivamente predisposto( 177 ) – non determinaalcuna automatica esclusione della responsabilità degli enti che lirecepiscono, in quanto essi costituiscono delle semplici indicazioni di massimadirette a favorire uniformità di approccio e sensibilizzazione alle problematiche(178 ): ogni ente è tenuto ad adottare un modello individuale, costruito– come insegna la preziosa esperienza statunitense dei complianceprograms – in base alle caratteristiche concrete dell’ente stesso, dovendosiperciò tener conto delle dimensioni dell’impresa (size of the organization),del tipo di attività esercitata (the nature of its business) e della storia precedentedella società (prior history of the organization), fattore quest’ultimoche può contribuire all’individuazione dei punti deboli della gestione e suggerirequindi i correttivi da apportare per eliminare le disfunzioni interne(179 ); né alcun valore vincolante ha per il giudice la positiva valutazioneministeriale dei codici di comportamento( 180 ).In ultima analisi, spetta al giudice <strong>penale</strong> il sindacato sull’idoneità delmodello organizzativo: egli deve verificare l’adeguatezza del modello a prevenireil rischio di commissione di reati all’interno dell’ente tramite il criteriodella prognosi postuma, collocandosi mentalmente ex ante nel momentoin cui, all’interno della realtà aziendale, si è verificato l’illecito <strong>penale</strong>(181 ). Il criterio è lo stesso utilizzato per verificare l’idoneità degli( 177 ) Tra le associazioni che hanno provveduto ad emanare i codici di comportamentosi segnalano: CONFINDUSTRIA, ABI, ANCE, ANIA, ASSONIME, ASSOSIM, ASSO-BIOMEDICA. Tali documenti integrano i precetti normativi contenuti nel d. lgs. n. 231/2001 con le indicazioni provenienti dalla scienza aziendalistica e dalla migliore prassi internazionale.( 178 ) Sul punto cfr. S. Bartolomucci, Codici comportamentali di categoria, tra aspettativee reale portata normativa, inDir. prat. soc., 2003, n. 18, 37 ss., il quale rileva che «permanein capo al singolo associato il rischio della conformità e congruenza dei modelli concretamenteadottati, pur uniformandosi alla raccomandazioni categoriali»; D. Pulitanó, Laresponsabilità ‘‘da reato’’ degli enti: i criteri di imputazione, op. cit., 438: «Linee guida di categoriapossono aiutare il singolo ente nell’adempimento dei suoi doveri di buona organizzazione,ma non servono a risolvere il problema dell’eventuale colpa di organizzazione,con riferimento a vicende concrete di singoli enti». Critico nei confronti dei codici di comportamentoè P. Bastia, op. cit., 55, il quale registra «l’incongruenza di fondo nel voler fareriferimento a codici prodotti all’esterno dell’azienda, da parte di associazioni, che naturalmentepossono solo proporre degli standard generali che non potranno immediatamenteadattarsi alle singole fattispecie aziendali, alle peculiarità organizzative, alle specificità gestionali»,rivestendo al più il ruolo di «linee guida utili per una progettazione a fini interni: dasoli, infatti, essi rischieranno di risultare inefficaci allo scopo e dannosi in termini di burocratizzazionedel sistema aziendale».( 179 ) Cfr. C. De Maglie, op. ult. cit., 369 s.( 180 ) In tal senso v. V. Salafia, La responsabilità delle società alla luce del D.M. n. 201/2003 e delle modifiche al D.Lgs. n. 231/2001, inLe soc., 2003, 1436, il quale nota altresì chela valutazione ministeriale «rappresenta un’autorevole opinione, che potrà certamente esseredisattesa, in presenza però di valide giustificazioni».( 181 ) Cfr. G. Izzo, Sindacato giudiziario sull’idoneità dei modelli organizzativi, inIl fi-


82SAGGI E OPINIONIatti nel tentativo, per cui il giudice, al fine di accertare l’idoneità dei modelliorganizzativi, dovrà calibrare il proprio giudizio sull’allocazione del rischioreato, sulle caratteristiche dell’ente (prassi operative, organigrammi,deleghe di funzioni) e su tutte le circostanze conosciute o conoscibili al momentodella realizzazione del reato, vale a dire sulla capacità causale delmodello di prevenire con un tasso apprezzabile di probabilità il reato concretamenteverificatosi( 182 ). Va sans dire che il giudice, per esprimerequesta valutazione, dovrà analizzare non solo il modello organizzativo generale,ma anche i singoli protocolli applicativi, che contengono previsionimolto più specifiche e dettagliate.In ogni caso, volendo descrivere sinteticamente un modello organizzativoideale, si può pensare ad un articolato sempre formalizzato per iscritto,caratterizzato da regole chiare, precise ed espresse in un linguaggio noncomplesso e comprensibile a tutto il personale dell’impresa( 183 ).Deve inoltre essere stigmatizzata una grave lacuna concernente la disciplinadei modelli organizzativi: l’assenza, fra le norme che disciplinanoil procedimento a carico dell’ente, di una norma che garantisca la segretezzadi tutto il materiale istruttorio utilizzato per la preparazione del modelloorganizzativo (documenti, informazioni, colloqui, ispezioni, ecc.), lacui divulgazione potrebbe avere ripercussioni negative per l’ente (si pensialla cattiva pubblicità o all’avvio di procedimenti penali per reati che hannosegnato il passato della persona giuridica)( 184 ).b) L’impatto sul sistema delle impreseA distanza di oltre tre anni dall’introduzione della responsabilità dasco, 2002, n. 44, 16504 s.; C. Piergallini, Societas delinquere et puniri non potest : la finetardiva di un dogma, op. cit., 591. Fortemente critico nei confronti dell’utilizzo del criteriodella prognosi postuma è S. Vinciguerra, Quale specie di illecito?, op. cit., 216 s., secondocui «un giudizio del genere è, nel caso degli enti, uno pseudo giudizio. Infatti, nel caso deltentativo il delitto non si consuma e, quindi, ha senso chiedersi se, nonostante ciò, gli atticompiuti fossero suscettibili di sfociare nella consumazione (...). Invece, nel caso dell’ente,come si potrà dimostrare che il modello era idoneo a prevenire il reato, dal momento chenei fatti si è rivelato inadeguato, essendo il reato avvenuto?»; sulla base di questa considerazione,l’autore si dichiara contrario all’attribuzione di una funzione esimente ai modelli organizzativi.F. Giunta, op. cit., 15, mette giustamente in guardia dal rischio di pretendereche l’ente plasmi il modello «non già sulle caratteristiche del tipo di impresa, bensì unicamentealla stregua dei parametri della prevedibilità ed evitabilità dei reati, sì da ottenere ilmodello che avrebbe saputo delineare col senno di poi l’esperto universale. Si sa infattiche tutto o quasi è prevedibile da parte della migliore scienza ed esperienza, e che quantoè prevedibile è per lo più evitabile».( 182 ) Cfr. G. Izzo, op. cit., 16505.( 183 ) Cfr. C. De Maglie, op. ult. cit., 370.( 184 ) L’importante rilievo è diC. De Maglie, La disciplina, op. cit., 1352; Id., L’etica eil mercato, op. cit., 339, 372 s.


SAGGI E OPINIONI83reato degli enti, ci si deve interrogare su quale sia stato l’impatto praticodella disciplina, ed in particolare dei modelli organizzativi, sul sistema delleimprese italiano.In un primo momento, immediatamente successivo all’entrata in vigoredel d. lgs. n. 231/2001, si è verificata una fisiologica fase di transizionedurante la quale le imprese – in attesa di predisporre i modelli organizzativi– hanno rispolverato o attivato i codici etici( 185 ), contenenti prescrizioni distampo morale, da sempre oggetto di aspra contestazione da parte delladottrina europea perché privi di un meccanismo di coazione giuridica edunque considerati uno strumento con cui le società ‘‘ripuliscono’’ la propriaimmagine di fronte ai consumatori ed alle istituzioni( 186 ). Tuttavia, nonostantel’assenza di dati statistici ufficiali, un’analisi empirica consente diaffermare che, superato questo periodo intermedio, solo un ridotto numerodi aziende ha adottato i modelli organizzativi. Essi sono stati recepitiper ora soprattutto da società di dimensioni grandi o medio-grandi: sitratta per lo più di banche, società quotate in borsa e società di intermediazionemobiliare (Sim), le quali sono state facilitate dal fatto di possedere giàal proprio interno la funzione di internal auditing( 187 ) – finalizzata al con-( 185 ) Cfr. P. Severino, op. cit., 38. A titolo meramente esemplificativo si segnalano,tra quelli adottati o modificati da aziende italiane dopo l’entrata in vigore del d. lgs. n.231/2001, i seguenti codici etici: ENEL s.p.a., Codice Etico, 2002, in www.enel.it; BASICNET s.p.a., Codice etico di comportamento, 2003, in www.basicnet.com/html/gruppo.asp;BANCA POPOLARE DI PUGLIA E BAS<strong>IL</strong>ICATA s.p.a., Codice etico della Banca Popolaredi Puglia e Basilicata ai sensi del decreto legislativo n. 231/01, 2003, in www.bankpulias.it;ENI s.p.a., Codice di comportamento, 1998, 2003 (aggiornamento), in www.eni.it;GRUPPO EDITORIALE L’ESPRESSO s.p.a., Codice etico, 2003, in download.kataweb.it/gruppoespresso/codicetico.pdf;GRUPPO IMPREG<strong>IL</strong>O, Codice etico, 2003, in www.impregilo.it/impregiloist.Sulla diversa funzione svolta dai codici etici e dai modelli organizzativicfr. IMPREG<strong>IL</strong>O s.p.a., Modello di organizzazione e di gestione, 2003, in www.impregilo.it/impregiloist, 11: «Il modello risponde all’esigenza di prevenire, per quanto possibile, la commissionedei reati (...) attraverso la predisposizione di regole di comportamento specifiche.Da ciò emerge chiaramente la differenze con il Codice Etico, che è strumento di portata generale,finalizzato alla promozione di una ‘‘deontologia aziendale’’ ma privo di una specificaproceduralizzazione». Peraltro, non è infrequente che le imprese adottino sia il codice eticoche il modello organizzativo.( 186 ) In tal senso cfr. G. Rossi, L’etica degli affari, inRiv. soc., 1992, 541, il quale –constatando che i comportamenti delle grandi corporations americane non obbediscano minimamentea principî etici – osserva come sia difficile «ritenere del tutto infondato il sospettoche l’emanazione dei codici etici costituisca una sorta di tentativo estremo di salvataggiodell’immagine sociale dell’impresa, allo scopo di legittimare a tutti i costi e in tutti i settori ilsuo operare». Sui codici etici negli Stati Uniti v. C. De Maglie, Sanzioni pecuniarie, op. cit.,130 ss.; Id., L’etica e il mercato, op. cit., 104 ss.( 187 ) Cfr. P. Bastia, op. cit., 54: «L’osservanza di queste prescrizioni può più facilmenteessere realizzata da quelle imprese già attrezzate in termini di strumenti di pianificazione econtrollo della gestione, il cui management ha confidenza con l’impiego di supporti di pianificazioneper le decisioni. Diversamente, nelle ancora numerose aziende italiane ancorate


84SAGGI E OPINIONItrollo della correttezza, dell’efficacia e dell’efficienza della gestione( 188 )–che presenta importanti analogie con i compliance programs. Particolarmenteevidenti sono i punti di contatto con la struttura organizzativa dellebanche, che è da tempo funzionalizzata a porre in essere una serie di procedureindirizzate a conseguire una gestione complessivamente sana, equindi ad evitare l’insorgere di rischi di commissione di reati: infatti, elementiquali la procedimentalizzazione delle attività a rischio, il loro monitoraggio,l’adeguamento del sistema di controllo e il reporting ai verticifanno già parte integrante dell’internal auditing bancario( 189 ). Non devonoperò sfuggire le pur importanti differenze che sussistono fra i due modelli:il sistema di controllo interno è finalizzato alla prevenzione di reati commessidai dipendenti a danno della banca, mentre i modelli organizzativiad una gestione informale, con processi decisionali spontanei e destrutturati, l’impatto dimodelli formali per le decisioni può risultare alquanto impegnativo».( 188 ) Per una definizione del controllo operativo nelle banche cfr. ABI, Sistemi diControllo Interno ed evoluzione dell’Internal Auditing, Roma, 1999, ove per controllo operativosi intende «l’insieme dei processi finalizzati a fornire una ragionevole certezza chetutte le attività della Banca nei vari settori si svolgano nel rispetto formale e sostanziale dellestatuizioni legislative, regolamentari, di normativa secondaria nonché di autoregolamentazionenella più ampia accezione del termine; che le stesse siano volte alla tutela del patrimonioe alla garanzia della veridicità e significatività dei dati contabili». Negli Stati Uniti,per fronteggiare le pratiche illegali delle imprese, alcune grandi associazioni (American Instituteof Certified Public Accountants, American Accounting Association, The Institute ofInternal Auditors, Financial Executive Institute) hanno creato una commissione di studio(Committee of Sponsorising Organizations of the Treadway Commission) con il compito diindividuare le cause del fenomeno e di formulare possibili soluzioni; nel 1992 la commissioneha elaborato uno studio confluito in un documento noto come CoSo Report, che rappresentaun punto di riferimento importante per dare vita ad un adeguato sistema di controllointerno. Sulla scorta dell’esperienza statunitense, nel nostro paese è stato elaborato ilCodice di autodisciplina adottato dal Comitato per la Corporate Governance delle societàquotate presso la Borsa italiana nel 1999 ed aggiornato nel 2002, in cui il controllo internoviene concepito come processo svolto dal consiglio di amministrazione, dall’alta dirigenza edagli operatori della struttura aziendale al fine di fornire una ragionevole sicurezza sullarealizzazione dei seguenti obiettivi: 1) efficacia ed efficienza delle attività operative; 2) attendibilitàdelle informazioni di bilancio; 3) conformità alle leggi e ai regolamenti in vigore(cfr. F. Santi, op. cit., 307 s.). Cfr. altresì P. Montalenti, Corporate Governance, consigliodi amministrazione, sistemi di controllo interno: spunti per una riflessione, inRiv. soc.,2002, II, 821 ss., secondo cui il sistema di controllo interno «È mirato, in definitiva, a garantireil rispetto delle regole sia legislative (si pensi alla normativa contabile, alla disciplinasulla sicurezza del lavoro, alla legislazione sulla privacy) sia private (si pensi ai codici etici) eil perseguimento degli obiettivi di efficienza ed efficacia compendiati, oggi, nella formulashareholder value».( 189 ) Cfr. F. Maimeri, op. cit., 622; ABI, Linee guida, cit., 363: «tali regole – contenutein ordini di servizio, normative aziendali, codici di autodisciplina, codici deontologici, codicidisciplinari, ecc. – già di per sé possono costituire dei modelli organizzativi o quantomeno labase precettiva di ciò che è un modello organizzativo secondo il d. lgs. n. 231/2001».


SAGGI E OPINIONI85sono diretti a prevenire la commissione di reati da parte dei vertici o deisottoposti nell’interesse o a vantaggio dell’ente( 190 ).In generale si può dire che le grandi aziende, sia per una questione dicosti che per il loro assetto organizzativo già collaudato nella gestione diprocessi di risk management edirisk assessment, sono sicuramente più predispostedelle piccole a dotarsi dei modelli organizzativi, per cui, essendo iltessuto produttivo del nostro paese caratterizzato da una larga prevalenzadelle aziende piccole e medie, si spiega facilmente il basso livello di diffusionedei modelli organizzativi finora raggiunto. La lentezza nell’adeguarsida parte del sistema imprenditoriale italiano può essere ascritta altresì amotivi culturali: la partecipazione delle imprese in prima persona alla prevenzionedei reati, attraverso l’adozione di adeguate misure interne che costituisconoun’iniezione di etica degli affari diretta alla protezione degli interessidegli stakeholders( 191 ), rappresenta una novità di portata tale da richiedereun certo tempo per essere compresa, metabolizzata e recepita dalcapitalismo italiano, tra i cui valori ispiratori di fondo non rientra certo l’eticacalvinista dei paesi anglosassoni( 192 ). I recenti scandali finanziari chehanno investito gli Stati Uniti spingono tuttavia a rifuggire dall’idea che( 190 ) Cfr. F. Maimeri, op. cit., 623.( 191 ) Con riferimento ai codici etici – ma il discorso vale a fortiori per i modelli organizzativi– è stato sottolineato che essi possono contribuire, in un sistema di economia dimercato, ad assicurare il rispetto del limite dell’utilità sociale che l’art. 41 Cost. pone all’iniziativaeconomica esplicando una duplice funzione: a) l’integrazione della disciplina positiva,attraverso un’autodisciplina privata che può anticipare e guidare l’intervento del legislatore,nonché surrogarlo nelle materie che mal si prestano a regolamentazioni troppo generali eastratte; b) agevolare e garantire l’osservanza della legge positiva; in ultima analisi, «Un’apertaprofessione di principî e di criteri operativi eticamente fondati, debitamente ufficializzata,sembra singolarmente idonea a bonificare la mentalità dominante in azienda, aprendola aivalori della legalità e del civismo» (così C. Pedrazzi, Codici etici e leggi dello Stato, inRiv. trim. dir. pen. ec., 1993, 1050 s.). In senso critico v. però G. Rossi, op. cit., 539, il qualeevidenzia che «Il disagio insito nel voler dare un contenuto etico ai comportamenti imprenditorialiaffiora soprattutto quando le istituzioni e le strutture fondamentali del sistema appaionoinsufficienti a colpire atti riprovevoli non solo e non tanto sotto il profilo etico, bensìai fini della sopravvivenza del sistema stesso. In questo caso si ricorre al concetto dell’‘‘eticatampone’’,dell’etica cioè alla quale ci si affida per evitare che il sistema del capitalismo entriin una fase critica irreversibile e perda il consenso dei consociati e perciò ogni legittimazionesociale, che andrebbe, a quel punto, ricercata al di fuori della sua logica di sviluppo». Dalleconsiderazioni dell’illustre autore discende che il ricorso ad un sistema di regole etiche nelgoverno delle imprese deve costituire un dato strutturale, un vero e proprio principio fondantedel capitalismo moderno e non il risultato di un’adesione episodica e di facciata: i modelliorganizzativi, a differenza dei codici etici, essendo caratterizzati dal crisma della giuridicità,hanno le potenzialità per realizzare questa svolta.( 192 ) Cfr. B. Assumma, Principi e fondamenti della responsabilità amministrativa deglienti, in AA.VV., La responsabilità amministrativa della società e degli enti, Atti del Convegnodi studi tenuto a Roma – Lido di Ostia, op. cit., 10: «le aziende si trovano a fronteggiare unacultura penalistica, una cultura sanzionatoria ovviamente estranea alla loro tradizione».


86SAGGI E OPINIONIil ricorso ai compliance programs sia la panacea per tutti i mali( 193 ): occorreessere consapevoli che i modelli organizzativi costituiscono un utile strumentodi prevenzione della criminalità di impresa, ma il cui successo è comunquelegato all’orientarsi dell’intero sistema-paese verso la cultura dellalegalità( 194 ).Quanto al problema dei costi, è stato paventato il pericolo che, sullabase di un’analisi costi-benefici, le aziende rinuncino all’adozione delmodello tutte le volte in cui i costi per la sua implementazione siano superioria quelli che deriverebbero dalla commissione del reato (in terminidi sanzioni pecuniarie e/o interdittive e di pubblicità negativa presso l’opinionepubblica)( 195 ). La soglia concettuale di accettabilità del rischio,che l’art. 6, comma 1, indica nella creazione di un sistema di prevenzionetale da non poter essere aggirato se non fraudolentemente, dovràdunque essere necessariamente identificata con quella in cui i controlliaggiuntivi rispetto al livello predisposto ‘‘costano’’ più della risorsa daproteggere( 196 ). In applicazione del principio ad impossibilia nemo tenetur,nonèesigibile – anche perché distorsivo del mercato – «destinarerisorse finanziarie ingenti e sproporzionate rispetto alla dimensione economico-patrimonialedell’ente, per finalizzarle al raggiungimento di unideale assoluto di perfezione rispetto alla astratta possibilità di evitarela commissione di reati»( 197 ). L’utilizzo di questo parametro di ragionevolezzaconsente di scongiurare il pericolo di un’eccessiva burocratizzazionedelle imprese.( 193 ) Cfr. V. Nobili, La responsabilità sociale e la responsabilità <strong>penale</strong> delle imprese,2003, in www.feem.it (sito della Fondazione Eni Enrico Mattei), 18 s., che evidenzia l’incapacitàdimostrata dai compliance programs nel prevenire reati economico-finanziari comequelli che hanno caratterizzato il caso Enron (società che era dotata di un modello organizzativo).( 194 ) Per considerazioni simili inerenti il ruolo dei Codes of best practice rispetto allagestione delle public companies cfr. P. Montalenti, op. cit., 837 ss.( 195 ) Cfr. A. Bernardo, La responsabilità amministrativa delle società alla prova deifatti, inDir. prat. soc., 2004, n. 6, 30: «Poiché ogni innovazione strutturale e procedimentalecomporta costi significativi, in termini economici e organizzativi, il rischio è che le imprese, aseguito della cost-benefit analysis, scelgano di assumersi il rischio di un futuro processo, piuttostoche investire in una ristrutturazione gravosa e di dubbia efficacia»; Id., Prime pronuncesulla responsabilità amministrativa di società ed enti, ivi, n. 21, 27.( 196 ) Cfr. Confindustria, Linee guida, cit., 8;A. Bernardo, op. ult. cit., 30.( 197 ) A. Carmona, op. cit., 218. Cfr. inoltre S. Bartolomucci, Prevenzione deireati d’impresa e interesse dell’ente all’esenzione da responsabilità, in AA.VV., La responsabilitàamministrativa degli enti, monografia di Dir. prat. soc., op. cit., 55, il quale rilevache «È indispensabile evitare posizioni estreme, come dar vita ad una sterile raccolta diprincipî vaghi e astratti, capaci di burocratizzare i processi dilatandone i tempi, inducendoal discarico della responsabilità i centri decisionali o, all’opposto, costruire un rigidoreticolo di passaggi obbligati che ingessano l’operatività dell’impresa a danno della suacompetitività».


SAGGI E OPINIONI87Si può dire che se da un lato un certo aumento dei costi organizzativi edi controllo è inevitabile, dall’altro lato un’azienda che ispira la propria culturaaziendale alla correttezza e alla legalità dell’amministrazione può interpretarequesti valori fondamentali come risorse strategiche che contribuisconoal suo successo di lungo periodo( 198 ). Pertanto, per l’azienda investirenel modello organizzativo è come investire in risorse destinate allosviluppo dell’efficienza, dell’efficacia e della qualità, senza contare i vantaggiindiretti derivanti dalla reputazione favorevole che nel consorzio socialecirconda le imprese che si dotano di sistemi per la prevenzione deireati( 199 ). Quello che emerge è un legame fra redditività dell’impresa edetica aziendale, in cui quest’ultima non è più concepita come un costo,bensì come un investimento in termini di capacità competitiva, autorevolezza,integrazione sociale dei soggetti economici: se l’etica è un buon affare,allora il ruolo della business ethics va ripensato: non più valore esterno all’economia,ma strumento strategico, strettamente connesso alla capacitàdell’impresa di creare valore rispettando i valori( 200 ). I modelli organizzativipossono dunque svolgere un ruolo importante ai fini dell’affermazionedella c.d. Corporate Social Responsibility, cioè di quella responsabilità socialed’impresa (Rsi) in base alla quale le aziende non devono avere comefine esclusivo la produzione del massimo profitto possibile (c.d. massimoeconomico), ma devono tenere conto anche degli interessi dei numerosi stakeholdersinterni ed esterni all’impresa (azionisti, management, dipendenti,fornitori, sindacati, consumatori, associazioni, comunità-locali, università,ecc.), perseguendo altresì finalità ambientali e sociali (c.d. sviluppo sostenibile):il punto di incontro fra l’esigenza di creare profitto e quella di risponderead istanze sociali viene definito ottimo economico( 201 ); a questo pro-( 198 ) Cfr. P. Bastia, op. cit., 56; G.B. Alberti, Fondamenti aziendalistici della responsabilitàdegli enti ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, inLe soc., 2002, 542: «La presenza inun’organizzazione di una cultura del controllo e della regolarità èa sua volta presuppostofondamentale per l’esistenza di una cultura dello sviluppo e della creazione di valore».( 199 ) Cfr. P. Bastia, op. e loc. ult. cit.( 200 ) Per una approfondita analisi di questa concezione cfr. A. Marra, L’etica aziendalecome motore di progresso e di successo, Milano, 2002, passim.( 201 ) Il concetto di Corporate Social Responsibility nasce in seguito all’elaborazione,nella seconda metà degli anni ottanta, della teoria dell’impresa basata sul modello degli stakeholdersad opera degli americani W. Evan e E. Freeman. Fondamento di tale teoria è l’imperativocategorico kantiano secondo cui le persone devono essere trattate come fini in sé enon come mezzi per il perseguimento di un determinato fine. Questa concezione si contrapponealla teoria degli stockholders – che peraltro ha formato la cultura imprenditoriale italianadegli anni settanta e ottanta – in base alla quale l’impresa è responsabile esclusivamentenei confronti degli azionisti (gli stockholders) in quanto portatori di capitale, mentre gli stakeholderssono solo dei mezzi per il raggiungimento del profitto e le questioni sociali, ambientalied etiche un mero costo aggiuntivo che nuoce all’impresa. La logica della teoria deglistakeholders è che l’impresa deve essere orientata verso il perseguimento non solo del pro-


88SAGGI E OPINIONIposito è importante sottolineare che il tema della responsabilità socialedelle imprese non è più appannaggio esclusivo del mondo degli studiosi,ma è ormai entrato nell’agenda degli obiettivi della comunità internazionalee delle istituzioni europee: si pensi al Global Compact( 202 ) presentato nelluglio del 2000 dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan,oalLibro Verde predisposto nel 2001 dalla Commissione europea( 203 ).fitto per gli azionisti, ma anche di istanze sociali da realizzare attraverso il soddisfacimentodegli interessi degli stakeholders con cui essa interagisce. In argomento cfr. V. Nobili, op.cit., 2 ss., la quale rileva come affinché i codici etici – che costituiscono lo strumento di attuazionedella Corporate Social Responsibility – non diventino dei prodotti preconfezionati dimarketing aziendale che consentono alle imprese di rifarsi l’immagine è necessario che essisiano il frutto di un duplice processo di negoziazione: uno interno, con le associazioni di categoria,e soprattutto uno esterno, con il personale interno all’azienda, che consenta ai valorie ai precetti del codice etico di essere condivisi e sentiti come propri non solo dai dirigentima anche dai dipendenti, garantendone in tal modo l’effettività; l’esperienza italiana e quellastatunitense in materia di codici etici avuta fino ad ora ha però dimostrato che questo circuitovirtuoso non si è realizzato per problemi di costi, di incapacità organizzativa delle aziendee soprattutto di asimmetrie informative che hanno consentito alle imprese che hanno tenutocomportamenti opportunistici di non essere punite dal mercato e a quelle rispettose di modellidi responsabilità sociale di non essere premiate. Si vedano altresì i contributi di F. D’Alessandro,La responsabilità sociale delle imprese: un contributo per un nuovo modello di‘‘governance’’, inIter legis, 2003, 103 ss.; L. Sacconi, Etica e responsabilità sociale dell’impresa:cosa accomuna e cosa distingue l’impresa sociale dalle altre imprese, in AA.VV., Qualitàcome strategia dell’impresa sociale di comunità, a cura di G. Scaratti e G. Farinotti, Milano,2003, 71 ss.; Id., Responsabilità Sociale come Governance allargata d’impresa: una interpretazionebasata sulla teoria del contratto sociale e della reputazione, in AA.VV., La responsabilitàsociale dell’impresa, vol. I (Persone, Impresa e Società), a cura di G. Rusconi e M. Dorigatti,Milano, 2004, 107 ss.; R. Del Punta, Per un’impresa ‘‘responsabile’’, 7 marzo 2005, inwww.lavoce.info, 1 s.; P. Garibaldi-F. Panunzi, Responsabilità sociale d’impresa, manon per legge, 7 marzo 2005, ivi, 1 s., i quali evidenziano che quando Rsi e massimizzazionedel valore d’impresa vanno nella stessa direzione, non esiste alcun trade-off e non vi sono ragioniper opporsi all’attuazione della Rsi (ma in tal caso non vi sarebbe nemmeno la necessitàche lo Stato incoraggi la Rsi), mentre i problemi nascono nel caso in cui la Rsi e la massimizzazionedel valore d’impresa sono (anche solo parzialmente) in conflitto tra loro: al riguardola letteratura economica individua tre difficoltà a cui va incontro il perseguimento degli interessidegli stakeholders diversi dagli azionisti: 1) il pericolo che venga meno il finanziamentoaziendale da parte degli azionisti, 2) il rischio di rendere l’attività imprenditoriale ingestibilea causa del coinvolgimento dei diversi stakeholders, 3) la difficoltà (dovuta a problemi dimisurabilità delle performance) di controllare il management nel perseguimento degli obiettividi Rsi.( 202 ) Il Global Compact è un documento che invita le imprese ad aderire a nove principîuniversali nelle aree dei diritti umani, delle condizioni di lavoro e dell’ambiente: per approfondimentisi rinvia a www.unglobalcompact.org.( 203 ) Il Libro Verde definisce la Rsi come «l’integrazione su base volontaria, da partedelle imprese, delle preoccupazioni sociali ed ecologiche nelle loro operazioni commercialie nei rapporti con le parti interessate». La Commissione europea ha inoltre emanato nel lugliodel 2002 una articolata e dettagliata Comunicazione intitolata Responsabilità sociale delleimprese: un contributo delle imprese allo sviluppo sostenibile, consultabile all’indirizzo interneteuropa.eu.int/comm/employment/soc-dial/csr/csr2002_it. Sull’attività delle istituzioni co-


SAGGI E OPINIONI89A un livello più generale, inoltre, l’adozione dei modelli organizzativi,in virtù del suddetto effetto reputazione e della riduzione dei comportamentiopportunistici, favorirà l’efficienza del mercato( 204 ): la diffusione capillaredei compliance programs tra le imprese costituirà quindi «una rete dilegalità a sostegno del mercato»( 205 ).Sono poi evidenti i riflessi che l’adozione dei modelli organizzativi hasulla corporate governance, intendendo questa espressione non genericamentecome sistema con il quale le società sono amministrate e controllate,bensì in un’accezione più ampia, che richiama un fascio di problemi: il governodella società ed i mezzi per garantire un’efficiente allocazione delcontrollo delle imprese, i rimedi in grado di contemperare gli interessi degliamministratori con quelli degli azionisti (incremento dello shareholder’svalue) e, più in generale, degli stakeholders, evitando – o quantomeno minimizzando– i comportamenti opportunistici dei managers ed i conseguentiagency costs( 206 ). È vero che i modelli organizzativi sono principalmentevolti a prevenire la commissione di reati i cui effetti si riverberanosulla collettività quale conseguenza dell’attività di impresa, ma esigenzecome la separatezza tra gestione e controllo o la costruzione di strutturededicate all’audit interno della produzione e dell’impiego di risorse finanziariecreano inevitabilmente aree di possibile sovrapposizione( 207 ).A questo proposito, la dottrina più accorta ha tempestivamente messomunitarie in materia di Corporate Social Responsibility cfr. F. Sciaudone, Iniziative comunitariein tema di responsabilità sociale delle imprese: prime riflessioni, inDir. pub. comp.eur., 2003, 1419 ss. Il Governo italiano, da parte sua, si è reso protagonista di un’azione asostegno della Rsi, tramite la presentazione del Progetto Csr-Sc alla Conferenza europeadi Venezia del novembre 2003 nel corso del semestre di presidenza italiano; in attuazionedi tale progetto sono stati stipulati, nel corso del biennio 2003-2004, vari protocolli di intesafra il Governo e alcune associazioni di categoria (quali, ad esempio, Unioncamere, Confapi,Assolombarda, Associazione nazionale dei consulenti del lavoro) al fine di diffondere tra gliassociati la cultura della Rsi.( 204 ) Cfr. P. Bastia, op. e loc. ult. cit.( 205 ) A. Carmona, op. cit., 222.( 206 ) Cfr. A. Alessandri, Corporate Governance nelle società quotate: riflessi penalisticie nuovi reati societari,inGiur. comm., 2002, I, 524. Vi è chi acutamente ha osservato come,nel caso in cui proprietà e controllo non siano separati (come prevalentemente avviene nelcapitalismo italiano), le regole di corporate governance devono essere completamente differentirispetto a quelle adottabili nelle public companies, seèvero che «ogni sistema di corporategovernance deve (...) tenere conto delle condizioni sociali, economiche, legali e politichenelle quali andrà ad operare» e che «comportamenti passati sono estremamente resistenti aqualunque raccomandazione di buon governo societario, come dimostra la circostanza che,sebbene le discipline previste da paesi anche lontanissimi quali Giappone, Gran Bretagna,Italia e Russia non siano radicalmente differenti in termini di struttura, i risultati a cui conduconosono profondamente diversi» (così G. Rossi, Le c.d. regole di «corporate governance»sono in grado di incidere sul comportamento degli amministratori?, inRiv. soc., 2001, I,18 s.).( 207 ) Cfr. A. Alessandri, op. ult. cit., 547.


90SAGGI E OPINIONIin evidenza una serie di problematiche applicative con cui la prassi – comesi vedrà attraverso l’esame di singoli modelli organizzativi – si è già confrontata.In primo luogo, ci si è chiesti da chi debba essere adottato il modelloorganizzativo. Vi è chi ritiene che in assenza di qualunque indicazione daparte del legislatore su quale organo – se l’assemblea o il consiglio di amministrazione– debba procedere all’adozione del modello, vi sia in materiaun’ampia autonomia di scelta( 208 ). Secondo un’opinione più rigorosa, invece,l’introduzione di un organo di controllo ad hoc o l’adeguamentodei doveri e delle competenze del collegio sindacale in funzione della creazionedi un organo di vigilanza, introducendo nella disciplina della societàun elemento strutturale, dovrebbe trovare collocazione tra le norme sulfunzionamento della società contenute nello statuto ex art. 2328, ultimocomma, c.c., con la conseguenza che spetterebbe all’assemblea adottareil modello organizzativo( 209 ). La soluzione migliore sembra però quella seguitadalla prassi aziendale – peraltro avallata dalla giurisprudenza – da cuiè emerso che l’adozione del modello è avvenuta invariabilmente ad operadel consiglio di amministrazione, in linea, del resto, con quanto l’espressione«organo dirigente» di cui all’art. 6, comma 1, lett. a) sembra indicare(210 ).Gli interrogativi maggiori sono sorti in relazione all’organo di con-( 208 ) Cfr. A. Frignani-P. Grosso-G. Rossi, I modelli, op. cit., 147.( 209 ) Cfr. R. Rordorf, op. ult. cit., 86.( 210 ) Cfr. ABI, Linee guida, cit., 364 s.; Trib. Roma, Ufficio G.I.P., Ord. 4 aprile 2003,in Cass. pen., 2003, 2803 ss., nonché inGuida al diritto, 2003, n. 31, 66 ss., con commento diG. Amato, Con l’eliminazione delle situazioni di rischio le misure cautelari diventano superflue,einRiv. trim. dir. pen. ec., 2004, 293 ss., con nota di A. Nisco, Responsabilità amministrativadegli enti: riflessioni sui criteri ascrittivi soggettivi e sul nuovo assetto delle posizionidi garanzia nelle società, il quale sul punto – premesso che stante la tassatività delle attribuzioniassembleari emergente dal nuovo art. 2364, comma 1, n. 5 c.c., la validità di un modelloorganizzativo adottato con delibera del consiglio di amministrazione non può essere messa indiscussione – rileva: «È evidente che siamo in una sfera di competenza degli amministratori.Da un lato, è empiricamente riscontrabile che gli amministratori sono in una posizione privilegiatarispetto alla valutazione del coefficiente di rischio preliminare all’adozione di unprogramma preventivo, essendo dimostrato che la criminalità d’impresa si concentra nei livelligerarchici intermedi; dall’altro, coerentemente, la legge assegna loro i poteri organizzativinecessari e sufficienti all’attuazione del modello. Quest’ultima affermazione trova sostegnonel nuovo assetto della s.p.a., la cui filosofia di fondo è animata dalla volontà di sottrarrel’azione degli amministratori – la ‘‘gestione’’ – ad ingerenze assembleari, in una prospettiva ditendenziale ampliamento dei poteri degli amministratori» (301 s.), e della gestione – neanchea dirlo – fa parte integrante l’adozione e la concreta ed efficace attuazione del modello organizzativo.In dottrina v. altresì F. Santi, op. cit., 287, il quale ritiene che «il compito spettaall’organo che nell’ente è posto nella posizione di conoscere il rischio della commissione direati da parte dell’organizzazione e di decidere l’adozione di misure idonee ad assorbirlo»,ovvero – per quanto riguarda la società – agli amministratori, come rileva anche la circolaredell’ASSONIME n. 68/2002.


SAGGI E OPINIONI91trollo, allorché cisièdomandati da chi debba essere nominato tale organo,quale debba essere la sua composizione ed a chi debba rispondere( 211 ).Quanto alla composizione, vi è chi non esclude che esso possa essereindividuato – con gli opportuni correttivi – nel collegio sindacale( 212 ), mala maggior parte degli autori è di contrario avviso, ritenendo il collegio sindacalenon in grado di assicurare la necessaria continuità di azione, nonchéprivo dei requisiti di indipendenza ed autonomia che devono contraddistinguerel’organo di controllo, giacché nominato da quella stessa maggioranzadi cui gli amministratori sono espressione( 213 ). Argomento, quest’ultimo,che rende insoddisfacente qualunque soluzione si adotti per stabilirechi debba nominare l’organo di vigilanza: se il consiglio di amministrazioneo l’assemblea( 214 ). Anche l’ipotesi di affidare l’attività di vigilanza ad unafunzione aziendale già attiva quale l’ufficio legale o meglio ancora l’internalauditing( 215 ) viene respinta poiché tali funzioni non presentano un suffi-( 211 ) Cfr. C. De Maglie, La disciplina, op. cit., 1351 s.; Id., L’etica e il mercato, op.cit., 338 s.( 212 ) Cfr. R. Rordorf, Prime (e sparse) riflessioni sulla responsabilità amministrativadegli enti collettivi per reati commessi nel loro interesse o a loro vantaggio, in AA.VV., La responsabilitàamministrativa degli enti, D. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, op. cit., 18: «in via diprincipio (...) non (...) sembra si possa escludere l’attribuzione di tali compiti al collegio sindacale,che di piena autonomia gode, salvo integrarne statutariamente i poteri di iniziativaper quel che riguarda l’aggiornamento dei modelli. Il fatto che la legge parli di ‘‘organismodell’ente’’, senza menzionare i sindaci, non significa che li abbia voluti escludere, ma solo cheha adoperato un’espressione generica; né avrebbe potuto essere altrimenti dal momento chela portata della norma è estesa anche ad enti sforniti di organo sindacale, per i quali, ovviamente,un analogo problema di coordinamento con preesistenti organi di controllo non sipone»; Id., La normativa sui modelli di organizzazione dell’ente, op. cit., 85s.( 213 ) Cfr. A. Bernardo, La responsabilità, op. cit., 28 s.; Id., Prime pronunce, op. cit.,31 s. Analoghe obiezioni possono essere mosse, in seguito alla riforma del diritto societario,all’idea di individuare l’organo di controllo negli amministratori non esecutivi (modello monastico)o nel consiglio di sorveglianza (modello dualistico).( 214 ) Lo nota A. Bernardo, La responsabilità, op. cit., 29, che tuttavia ritiene preferibileattribuire il compito di nominare l’organo di controllo all’assemblea.( 215 ) In questo senso appare orientata l’Associazione Italiana Internal Auditors, nel positionpaper dal titolo D. lgs. 231/2001. Responsabilità amministrativa della società: modelliorganizzativi di prevenzione e di controllo, ottobre 2001, 36: «l’organo di Internal Auditingsembra più di altre funzioni istituzionalmente e deontologicamente connotato da quei requisitidi indipendenza ed autonomia che la normativa prescrive e dotato, inoltre, della visionedi insieme necessaria ad assicurare la corretta tenuta del modello». Favorevoli a conferire lafunzione di controllo all’internal auditing – laddove sia presente – sono E. Mattei, Modelliorganizzativi e organismo di controllo come strumenti di prevenzione, in AA.VV., La responsabilitàamministrativa degli enti, monografia di Dir. prat. soc., op. cit., 47 ss., il quale osservache in tal modo «si evita di istituire ulteriori unità organizzative che, indipendentemente daconsiderazioni economiche, rischiano di ingenerare sovrapposizioni o eccessive parcellizzazionidi attività»; l’autore evidenzia altresì il rischio che con la costituzione di un organodi controllo ad hoc una s.p.a. si ritrovi con la contemporanea presenza di ben cinque strutture(collegio sindacale, società di revisione, funzione di controllo interno, organismo di con-


92SAGGI E OPINIONIciente livello di autonomia ed indipendenza rispetto ai soggetti in posizioneapicale( 216 ), così come viene rigettata l’idea di affidare la funzione di controlloin outsourcing, dato che l’art. 6, comma 1, parla di organismo internoall’ente, che deve essere inserito permanentemente all’interno dell’organizzazioneaziendale( 217 ).L’opinione che riscuote più adesioni fra i commentatori – seguitaanche dalle linee guida delle associazioni di categoria degli imprenditori–èquella di istituire un organo ad hoc, che nelle banche e nelle societàdi diritto speciale potrebbe essere composto da responsabili di funzioni internealla società come l’internal auditing, da amministratori indipendenti eda esperti esterni all’impresa, che assicurino all’organismo il tasso di tecnicismorichiesto( 218 ). L’importante è che quest’organo sia posto sempre inposizione di staff e non di line rispetto al consiglio di amministrazione( 219 ).Indicazioni in tal senso arrivano anche dalla giurisprudenza, laddove si affermache «Al riguardo appare auspicabile che si tratti di un organismo divigilanza formato da soggetti non appartenenti agli organi sociali, soggettida individuare eventualmente ma non necessariamente, anche in collabora-trollo ex art. 6 d. lgs. n. 231/2001, staff adibito alla certificazione di qualità e al controllodegli standard certificati), che rappresenterebbero «più un ostacolo allo sviluppo dell’impresache un incentivo alla crescita e alla efficienza della stessa»; nonché R. Rosato, Il controllointerno nel D.Lgs. 231/01: la configurabilità del collegio sindacale come organismo di vigilanza,in Auditing, maggio-agosto 2003, 54.( 216 ) Cfr. A. Frignani-P. Grosso-G. Rossi, I modelli, op. cit., 149; Id., La responsabilità,op. cit., 176 s.; F. Maimeri, op. cit., 624; R. Rordorf, op. ult. cit., 86. In giurisprudenzav. Trib. Roma, Ufficio G.I.P., Ord. 4 aprile 2003, cit., che in sede di adozione di misurecautelari nei confronti di una società, ha ritenuto non idoneo – ai fini della non applicazionedella misura – il modello di organizzazione adottato dopo la commissione del reato,tra l’altro, in quanto un componente dell’organo di controllo ex art. 6 d. lgs. n. 231/2001 eragià deputato a svolgere compiti di controllo interno (si trattava del responsabile della sicurezzae del sistema Iso 9002).( 217 ) Cfr. P. Sfameni, op. cit., 92; R. Rordorf, op. ult. cit., 87.( 218 ) In dottrina cfr., ex multis, A. Frignani-P. Grosso-G. Rossi, I modelli, op. eloc. ult. cit.: «Sembra quindi preferibile l’istituzione di un organo ad hoc, a favore del qualesarà necessario prevedere apposite garanzie di stabilità, indipendenza, qualificazione professionaleed efficienza, attraverso l’inserimento nel ‘‘modello’’ di previsioni sulla composizionedell’organo di controllo, sulle cause di ineleggibilità e decadenza dei suoi membri, sulla nominae cessazione dall’ufficio, sulla presidenza dell’organo di controllo, sulle modalità di riunionidello stesso, sulle responsabilità attribuite»; F. Santi, op. cit., 321 s. In tal senso cfr.inoltre Confindustria, Linee guida, cit., 28 ss., ove in alternativa all’organo ad hoc si suggerisce,alle aziende che ne sono munite, di affidare l’attività di vigilanza al comitato di controllointerno o all’internal auditing; ABI, Linee guida, cit., 365 ss., in cui sono indicate trealternative per la costituzione dell’organo ad hoc: 1)internal auditing eventualmente integratonella composizione e nei poteri; 2) funzione costituita da professionalità interne alla banca(legali, esperti contabili, di gestione del personale o di controllo interno, membri del collegiosindacale, ecc.); 3) organismo composto da soli amministratori non esecutivi o indipendenti.( 219 ) Sul punto cfr. P. Bastia, op. cit., 62.


SAGGI E OPINIONI93tori esterni, forniti della necessaria professionalità, che vengono a realizzareeffettivamente quell’organismo dell’ente dotato di autonomia di poteri diiniziativa e controllo. Indubbio che per enti di dimensioni medio grandela forma collegiale si impone, così come si impone una continuità di azione,ovverosia un impegno esclusivo sull’attività di vigilanza relativa alla concretaattuazione del modello»( 220 ).L’unica norma in materia è l’art. 6, comma 4, il quale prevede chenegli enti di piccole dimensioni – per la cui individuazione non è indicatoalcun criterio dimensionale o qualitativo – le funzioni di vigilanza e aggiornamentodel modello possono essere svolte direttamente dall’organo dirigente:la disposizione, in base alla quale si verifica una paradossale coincidenzafra controllore e controllato, è dettata dall’esigenza di non sottoporrele piccole imprese all’aggravio, sia in termini di costi che in termini di funzionalitàgestionale, che l’introduzione di un siffatto organo determinerebbe.In realtà la disciplina non fornisce elementi per escludere aprioristicamentealcun organo della società dalla funzione di vigilanza, per cui gli entidevono procedere sulla scorta di una valutazione condotta caso per caso,tenendo conto della specifica organizzazione della società ed in base adun’analisi costi-benefici delle diverse opzioni praticabili( 221 ).Dall’analisi dei singoli modelli organizzativi( 222 ) emerge che nellegrandi aziende l’organo di controllo è nominato sempre dal consigliodi amministrazione. Varietà di soluzioni – tendenzialmente idonee ad assicurarel’autonomia e l’indipendenza dell’organo di controllo – si riscontrainvece riguardo alla composizione di detto organo: talvolta essocostituisce evoluzione della funzione di internal auditing ed ha natura( 220 ) Trib. Roma, Ufficio G.I.P., Ord. 4 aprile 2003, cit.( 221 ) Cfr. A. Bernardo, op. e loc. ult. cit. Similmente v. S. Fortunato, op. cit., 282s., secondo cui l’organo di controllo «può essere costituito come Comitato di varie funzioni eorgani societari (per esempio, Risorse Umane, Ufficio Affari Legali, Revisione Interna, Amministrazionee Finanza, Operazioni, Consiglio di Amministrazione, Collegio Sindacale), oppureessere identificato nell’ambito di un’unica funzione (per esempio, Revisione Interna),con diversi vantaggi e svantaggi in tema di autorevolezza, competenza specifiche disponibili,tempestività di intervento, aggiornamento delle informazioni, visione globale, ecc. – La soluzioneda scegliere dipenderà, infine, anche dalla volontà degli azionisti e/o amministratorie dalle caratteristiche e dalla complessità aziendale di ciascuna impresa».( 222 ) Sono stati esaminati i seguenti modelli organizzativi: ENEL s.p.a., Modello di organizzazionee di gestione ex Decreto Legislativo 8 giungo 2001 n. 231, 2002, in www.enel.it;AEM s.p.a., Modello organizzativo interno di AEM s.p.a. (ex decreto legislativo 8 giugno 2001n. 231), Milano, 2003, in www.aem.it/home/cms/default.jsp; ENI s.p.a., Principi del modello231, 2003, 2004, in www.eni.it; IMPREG<strong>IL</strong>O s.p.a., cit.; GRUPPO MONDADORI s.p.a.,Modello di Organizzazione di Gestione e di Controllo, 2004, in www.mondadori.com/ame/it/corporate/modello.html.; UNICREDITO ITALIANO s.p.a., Modello di organizzazione e digestione di UniCredito Italiano s.p.a., inedito.


94SAGGI E OPINIONIcollegiale( 223 ); in altri casi è un organo monocratico che può( 224 ) omeno( 225 ) identificarsi con il responsabile dell’internal auditing ed è supportatoda un apposito ufficio di staff e/o da consulenti esterni( 226 ); altrevolte ancora può essere un organo collegiale di composizione mista( 227 ).Si segnala, per la sua originalità ed efficacia, la soluzione ideata da Uni-Credito Italiano s.p.a., che ha affiancato all’organo di controllo i responsabilidelle unità operative di ciascun settore in cui sono stati individuatirischi di commissione di reati, assegnando loro il compito di effettuarecontinuativamente verifiche sul rispetto e sull’adeguatezza del mo-( 223 ) Cfr. UNICREDITO ITALIANO s.p.a., cit., 11: «L’Organismo di Controllo hanatura collegiale ed è composto dai seguenti soggetti: il Presidente, individuato in un amministratorenon esecutivo e indipendente; i Responsabili della Direzione Risorse e Organizzazione;della Direzione Audit di Gruppo; della Direzione Affari Societari e Legali; della DirezioneCorporate Identità di UniCredito Italiano s.p.a.».( 224 ) Cfr. ENEL s.p.a., cit., 14 s., ove si chiarisce che la scelta di affidare le funzioni diCompliance Officer (CO) al responsabile dell’internal audit è stata determinata dal fatto chetale figura è stata riconosciuta come la più adeguata in virtù dei requisiti di autonomia, indipendenza,professionalità e continuità d’azione che possiede; IMPREG<strong>IL</strong>O s.p.a., cit., 15.( 225 ) Cfr. GRUPPO MONDADORI s.p.a., cit., 6: «A tale organo monocratico sonostati conferiti tutti i poteri necessari al compito di vigilare sul funzionamento, sull’efficaciae sull’osservanza del modello stesso, conferendogli altresì le responsabilità attribuite dal Decreto;nonché l’incarico di curarne l’aggiornamento. – Nello svolgimento della propria funzionel’Organismo di Vigilanza e di Controllo, a supporto della propria azione e tenuto contodei contenuti professionali specifici richiesti per l’espletamento di alcune attività di controllo,potrà avvalersi, nell’ambito delle disponibilità previste ed approvate nel budget, della collaborazionedi risorse interne, per quanto possibile, nonché di professionisti esterni». Analogascelta sembra aver fatto Poste Italiane s.p.a. – prima società italiana per numero di dipendenti– nel cui modello organizzativo si dispone che il Compliance Officer opera con l’ausilio dellafunzione di internal auditing (lo si evince da C. Dittmeier, Poste italiane sceglie la prevenzione,inItaliaOggi, 2 marzo 2004, 47).( 226 ) Al riguardo, deve osservarsi che la soluzione di istituire un organo monocratico –per quanto supportato da appositi uffici di staff e/o da consulenti esterni – non appare idoneanelle società di dimensioni medie o grandi come Enel, Poste Italiane, Impregilo e Mondadoria garantire reale autonomia ed effettività all’organo di controllo: meglio darebbe stato– anche in considerazione delle indicazioni giurisprudenziali – prevedere un organo collegiale.( 227 ) Cfr. AEM s.p.a., cit., 19: «In considerazione della specificità dei compiti che adesso fanno capo, è stato individuato quale Organismo di Vigilanza un Comitato compostoda: Responsabile Internal Auditing, Responsabile Affari Generali, Responsabile Personalee Relazioni Industriali»; ENI s.p.a., cit., 13 s., ove si prevede che l’Organismo di Vigilanzaè composto dal Segretario del Consiglio di Amministrazione e Assistente dell’AmministratoreDelegato, dal Direttore dell’ufficio Affari Legali e dal Responsabile dell’Internal Audit,nonché che esso si avvale nello svolgimento dei propri compiti «della funzione di InternalAudit nell’ambito della quale è costituita l’unità organizzativa dedicata a tempo pieno aicompiti di vigilanza ai sensi del d. lgs. 231/2001, dotata di risorse adeguate, autonoma e indipendentedalle unità che assicurano le altre attività della funzione di Internal Audit» ed «èsupportato dalle risorse della Direzione Affari Legali e della Direzione Personale e Organizzazioneche a tal fine sono adeguatamente rafforzate».


SAGGI E OPINIONI95dello( 228 ), nonché il meccanismo predisposto da Aem s.p.a., secondo cuiil responsabile interno di ogni attività sensibile deve compilare all’iniziodi ogni operazione ritenuta rilevante un’apposita ‘‘scheda di evidenza’’,in modo da costruire una documentazione funzionale all’attività dell’organodi controllo( 229 ).Se realisticamente l’organo di controllo non può che essere nominatodall’organo amministrativo, è chiaro che la sua indipendenza e autonomiasi gioca tutta sul piano delle linee di reporting, per cui è indispensabile cheesso abbia come referente non solo il consiglio di amministrazione (o il presidente,o l’amministratore delegato), ma anche il collegio sindacale e/o ilcomitato di controllo interno( 230 ).In relazione all’organo di controllo, ci si è poi chiesti se possa sorgerein capo ai suoi componenti una responsabilità <strong>penale</strong> ex art. 40, comma 2,c.p. per non aver impedito il reato commesso all’interno dell’ente (concorsoomissivo). La mancanza di poteri impeditivi del fatto-reato in capoai membri dell’organo di vigilanza, su cui grava esclusivamente un obbligodi sorveglianza, dovrebbe portare a ritenere inconfigurabile una posizionedi garanzia penalmente rilevante ai sensi dell’art. 40, comma 2, c.p.: il mancatoo insufficiente controllo comporterebbe quindi delle semplici conseguenzedi tipo contrattuale (scioglimento dell’organo, revoca di alcunicomponenti, ecc.) nei confronti dei soggetti responsabili del controllo( 231 ).( 228 ) Cfr. UNICREDITO ITALIANO s.p.a., cit., 11 s.: «L’istituzione dei Responsabilidi Unità Operative resta a garanzia di una più concreta e perciò efficace possibilità di attuazionedel Modello, costituendo gli stessi un effettivo anello di congiunzione, operativo e informativo,tra l’OdC e le concrete unità operative nell’ambito delle quali sono stati individuatiprofili di rischio».( 229 ) Cfr. AEM s.p.a., cit., 26 ss. In dottrina cfr. F. Giunta, op. cit., 21, il quale sottolineala necessità che i vari passaggi del procedimento decisionale possano trovare un riscontroscritto anche in forma sintetica, in modo tale da consentire in monitoraggio già initinere della decisione.( 230 ) Tutti i modelli analizzati vanno in questa direzione: in tal senso cfr. ENEL s.p.a.,cit., 17, in cui sono previste due linee di reporting: una continuativa direttamente al Presidentee all’Amministratore Delegato, ed una periodica nei confronti del Comitato di ControlloInterno, del Consiglio di Amministrazione e del Collegio Sindacale; ENI s.p.a., cit., 17, AEMs.p.a., cit., 23, e IMPREG<strong>IL</strong>O s.p.a., cit., 17, che seguono la stessa soluzione del modelloEnel; GRUPPO MONDADORI s.p.a., cit., 7: «L’Organismo di Vigilanza e di Controllo riferisceal Consiglio di Amministrazione, al Comitato di Controllo Interno (...) e al CollegioSindacale, in merito all’applicazione e all’efficacia del Modello o con riferimento a specifichee significative situazioni»; UNICREDITO ITALIANO s.p.a., cit., 14: «l’Organismo di Controlloriporta direttamente al Consiglio di Amministrazione della società e al Collegio sindacale».( 231 ) In tal senso cfr. C. Piergallini, op. ult. cit., 594; F. Foglia Manzillo, Nessunobbligo per l’organo di vigilanza di impedire gli illeciti penali, inDir. prat. soc., 2003, n. 5, 36ss. Alla medesima conclusione giunge chi ritiene che «la volontà privata (espressa nella cornicecontrattuale e, a fortiori, in forme non negoziali) non possa creare nuovi obblighi penal-


96SAGGI E OPINIONIA una diversa conclusione si potrebbe invece pervenire considerando l’interventodei controllori come condizione necessaria, anche se non sufficiente,ai fini dell’impedimento del reato da parte dei vertici societari, analogamentea quanto sostenuto dalla giurisprudenza per i sindaci, di cui enfatizzai poteri di indagine, accertamento, sorveglianza e impulsosanzionatorio( 232 ). Uno sviluppo giurisprudenziale di questo tipo non ècerto auspicabile, dato che con elevata probabilità provocherebbe «l’impossibilitàpratica di adottare modelli per l’estrema difficoltà di reperiremartiri al di fuori degli amministratori; determinandosi così il naufragiodella speranza che l’adozione generalizzata dei modelli possa condurre,in chiave di prevenzione, ad una ripulitura del mercato e dei suoi comportamenti»(233 ).È opportuno altresì accennare ad alcuni problemi che possono caratterizzarel’implementazione e la concreta attuazione dei modelli organizzativida parte delle imprese, già verificatisi negli Stati Uniti in relazione aicompliance programs( 234 ). Essi sono: 1) il rischio che nella predisposizionemente sanzionabili, ma soltanto ‘‘spostare’’ su altri centri di imputazione l’esecuzione di unapreesistente ‘‘posizione di garanzia’’» (così F. Giunta, op. cit., 19).( 232 ) Cfr. C. Piergallini, op. ult. cit., 594 s. A quest’esito giunge chi paventa – a causadella presenza di una norma generica coma l’art. 40, comma 2, c.p. – una vera e propriamoltiplicazione delle posizioni di garanzia per le persone fisiche che fanno parte dell’ente:«Potenzialmente, tutti i soggetti coinvolti nella progettazione, predisposizione, esecuzione,attuazione e applicazione dei protocolli (elaboratori, progettisti, vigilantes, investigatori,membri di commissioni disciplinari, supervisori, ecc.) potrebbero risultare destinatari diun obbligo giuridico di prevenzione/impedimento dei reati, discendente direttamente dalsingolo modello organizzativo-gestionale adottato in concreto, quale attuazione della disciplinaprevista dal d. lgs. n. 231 del 2001, la quale assurgerebbe a vera e propria fonte generatricedell’obbligo giuridico di impedimento dei reati all’interno dell’impresa» (A. Gargani,Imputazione del reato agli enti collettivi e responsabilità <strong>penale</strong> dell’intraneo: due piani irrelati?,inDir.pen. proc., 2002, 1061 ss., spec. 1066; Id., Le conseguenze indirette della corresponsabilizzazionedegli enti collettivi, in AA.VV., Societas puniri potest, op. cit., 235 ss.). Fermamenteconvinto della configurabilità di una posizione di garanzia in capo ai componenti dell’organodi controllo è A. Nisco, op. cit., 317 ss., il quale – partendo dal presupposto che lamancanza di compiti operativi non degrada la posizione dell’organismo di controllo ad unobbligo di mera sorveglianza ma è finalizzata a garantirne l’indipendenza in funzione dell’espletamentodei compiti che gli sono attribuiti – afferma che «pur dovendosi ammettere che,in ultima istanza, la modifica del modello preventivo, a seguito di infrazioni, passi attraversouna scelta dell’organo amministrativo, l’operato dell’organismo di vigilanza si interpone qualeingranaggio necessario ai fini di un’idonea azione preventiva: avrebbe scarsa efficacia preventivail modello che affidasse la sua supervisione ad un organo adibito ad una semplice‘‘sorveglianza’’, quindi debilitato in ordine alle funzioni attribuitegli dall’art. 6, le quali si sostanzianoin un autonomo potere di intervento sul modello, oltre che di sollecitazione deivertici societari»; contra v. C. Pedrazzi, Corporate governance e posizioni di garanzia: nuoveprospettive?, in AA.VV., Governo delle imprese e mercato delle regole, Milano, 2002, II, 1374.( 233 ) Così A. Carmona, op. cit., 217 s.( 234 ) Sul punto v. D. Davies, op. cit., 56, 76, 80, anche se l’autore utilizza impropria-


SAGGI E OPINIONI97dei modelli si diffonda un approccio ‘‘copia e incolla’’, che consiste nelprendere il codice di un’altra società, modificandone solo il nome; 2) lapresenza di deficit informativi nella diffusione del modello fra il personaledell’azienda, spesso riconducibile alla prassi delle società di chiedere aipropri dipendenti una dichiarazione annuale che confermi la lettura dell’aggiornamentodel modello, mentre la maggior parte di essi non ha mailetto né il modello originario, né gli aggiornamenti( 235 ); 3) l’inadeguatezzadei canali di reporting e dei momenti di dialogo con i dipendenti; 4) l’eccessivaastrattezza del modello in caso di mancanza di indicazioni sulle circostanzespecifiche o sulle situazioni concrete in cui il personale potrebbetrovarsi (assenza di una valutazione dettagliata del rischio), che può comportareun’interpretazione dei controlli come procedimenti burocratici gravosi,con impossibilità di gestire i rischi più importanti; 5) l’inesistenza diindicazioni sull’atteggiamento della società nei confronti dell’integrità delreporting e delle informazioni finanziarie. Non deve inoltre essere sottovalutatoil pericolo che molte imprese adottino protocolli caratterizzati da assolutagenericità, che costituiscono un mero ossequio giuridico-formale alladisciplina del d. lgs. n. 231/2001( 236 ), mentre i modelli organizzativi dovrebberoessere specifici, concreti e dinamici.In conclusione, l’esame dei singoli modelli organizzativi sembra evidenziareuna certa tendenza delle aziende (quantomeno di quelle grandie medio-grandi) a garantire al modello una ragionevole effettività ed efficacia:l’idea del legislatore di non tipizzare le misure preventive a caricodell’ente sembra essersi rivelata vincente, poiché consente di adeguare imente l’espressione «codici etici», il fenomeno riguarda i modelli organizzativi nella loro interezza.( 235 ) Dai modelli organizzativi esaminati emerge un ampio ventaglio di strumenti informativirivolti al personale: corsi di formazione per dirigenti e dipendenti in aula e on line,affissione del modello in bacheca, creazione di una rete intranet aziendale per diffondere ilmodello ed i suoi aggiornamenti, note informative interne, e-mail di aggiornamento, ecc. (cfr.ENI s.p.a., cit., 25 s.; AEM s.p.a., cit., 40; IMPREG<strong>IL</strong>O s.p.a., cit., 24; UNICREDITO ITA-LIANO s.p.a., cit., 18 s.).( 236 ) In proposito cfr. Trib. Milano, Ufficio G.I.P., Ord. 9 novembre 2004, cit., il quale,valutando i modelli organizzativi adottati dalle società Ivri Holding, Cogefi, VCM e IvriTorino ai fini della sospensione delle misure cautelari interdittive, li ha ritenuti non idonei adescludere il rischio di commissione dei reati proprio per la genericità e la mancanza di effettivitàe concretezza che li contraddistingue; in particolare sono stati oggetto di censura: 1) lamancanza di protocolli dettagliati che individuino le aree aziendali a rischio di verificazionedi reati sulla base di una ricostruzione della storia dell’ente; 2) la possibilità per soggetti interniall’ente non condannati con sentenza passata in giudicato di far parte dell’organo dicontrollo; 3) la mancata previsione di specifici obblighi di informazione nei confronti dell’organismodi vigilanza; 4) l’assenza di misure concrete per realizzare una diffusione del modellofra il personale dell’azienda, nonché il non aver previsto una formazione differenziata percategorie di soggetti; 5) la mancata predisposizione di un sistema di misure disciplinari persanzionare le violazioni del modello e la commissione di illeciti penali.


98SAGGI E OPINIONImodelli alle singole realtà aziendali – che variano per forma giuridica, tipodi attività, dimensioni – e di procedere celermente agli aggiornamenti che sirendessero necessari, evitando gli ingessamenti e le rigidità che possono derivareda un’insieme chiuso di prescrizioni( 237 ).6. I limiti del d. lgs. n. 231/2001: il catalogo dei reatiPer quanto concerne i difetti e le aporie che affliggono il d. lgs. n. 231/2001, oltre alle insufficienza viste sopra, inerenti i criteri di attribuzionedella responsabilità, il limite principale della disciplina è stato individuatonella esiguità del catalogo dei reati per cui è prevista la responsabilità amministrativadell’ente.Il legislatore delegato ha compiuto infatti, anche sulla scorta della fortipressioni esercitate da Confindustria( 238 ), una scelta minimalista( 239 ), pre-( 237 ) In senso contrario v. G. De Vero, Struttura e natura giuridica, op. cit., 1146, secondocui le norme organizzative dirette alla neutralizzazione del rischio-reato all’internodelle imprese «dovrebbero essere contenute in atti normativi legislativi o regolamentari,che delineino un corpus tendenzialmente esaustivo di disposizioni intese ad evitare che nell’eserciziodi attività lecite si commettano determinati reati portatori di particolare pregiudiziosociale»; D. Pulitanó, op. ult. cit., 436, il quale – partendo dal presupposto che sia contraddittoriodesumere tout court il contenuto delle regole cautelari da inserire nei modelliorganizzativi da quella stessa prassi che la regola ha il compito di orientare – auspica unatipizzazione legislativa quanto più precisa ed esaustiva delle regole cautelari. Tale proposta,tuttavia, anche a voler soprassedere sui gravi guasti che determinerebbe una soluzione cosìrigida, appare del tutto irrealizzabile dal punto di vista pratico, a causa dell’impossibilità peril legislatore di individuare tutte le regole cautelari esistenti in materia di prevenzione del rischio-reato.( 238 ) Le reali e poco nobili ragioni che hanno determinato lo sfoltimento del catalogodei reati ad opera del legislatore delegato sono ben illustrate da C. Piergallini, La disciplina,op. cit., 1355 s.; Id., Societas delinquere et puniri non potest : la fine tardiva di un dogma,op. cit., 585 s.( 239 ) Il Governo ha giustificato tale scelta affermando che «poiché l’introduzione dellaresponsabilità sanzionatoria degli enti assume un carattere di forte innovazione nel nostroordinamento, sembra opportuno contenerne, per lo meno nella fase iniziale, la sfera di operatività,allo scopo di favorire il progressivo radicamento di una cultura delle legalità che, seimposta ex abrupto con riferimento ad un ampio novero di reati, potrebbe fatalmente provocarenon trascurabili difficoltà di adattamento» (cfr. Relazione governativa al d. lgs. n. 231/2001, cit.). Il self-restraint del legislatore è apprezzato da G. De Vero, op. ult. cit., 1128 s.,secondo cui si è in presenza di «un’esemplare applicazione ‘‘sul campo’’ del principio diframmentarietà»; nonché, più timidamente, da A. Rossi, Le sanzioni dell’ente, inS. Vinciguerra-M.Ceresa Gastaldo-A. Rossi, op. cit., 42. A tali posizioni deve però replicarsiche se «allo strumento giuridico è affidata la custodia della libertà economica e la determinazionedella sua misura, si effettua una selezione nel trattamento che, realizzata sul pianopenalistico attraverso l’incriminazione di certe modalità e forme della condotta piuttostoche di altre, corre il rischio gravissimo, sul piano delle propedeutiche valutazioni politiche,d’essere operata in base al potere di contrattazione che ciascun gruppo sociale riesce a met-


SAGGI E OPINIONI99vedendo la responsabilità dell’ente solo per reati finalizzati al profitto qualila corruzione e la concussione (artt. 24, 25)( 240 ), escludendo invece reatigià contemplati dalla legge delega (i reati contro l’incolumità pubblica, l’omicidioe le lesioni colpose commessi in violazione delle norme antinfortunistichee sulla tutela dell’igiene e della salute sul lavoro, i reati in materia diambiente e territorio), che costituiscono manifestazione tipica della criminalitàdi impresa. In questo modo si è creata una parte speciale che risultaassolutamente sottodimensionata rispetto alla parte generale, frustrando leesigenze politico-criminali alla base della criminalizzazione degli enti e svilendol’effettività del nuovo istituto( 241 ). Né si può dire che i successivi ampliamentidel catalogo dei reati effettuati dal legislatore abbiano posto rimedioa tale situazione. Vediamo perché.tere in moto» così che «la forza del peso gettato sulla bilancia da parte chi possiede potereeconomico può ben essere difficilmente resistibile e l’uso del potere di normazione <strong>penale</strong>tradursi nella creazione di spazi di non intervento a carattere sostanzialmente esentativo edi privilegio. Il rischio è straordinariamente grave in democrazia dove il consenso elettoralesi forma sulle opinioni comunicate e la comunicazione si fonda sul possesso di mezzi finanziari»(così, lucidamente, A. Carmona, La responsabilità degli enti: alcune note sui reati presupposto,inRiv. trim. dir. pen. ec., 2003, 1003).( 240 ) Gli artt. 24 e 25 contemplano alcuni fra i delitti dei pubblici ufficiali contro lapubblica amministrazione (malversazione ai danni dello Stato, art. 316-bis c.p.; indebita percezionedi erogazioni a danno dello Stato, art. 316-ter c.p.; concussione, art. 317 c.p.; corruzionee istigazione alla corruzione commesse anche da funzionari comunitari, artt. 318, 319,319-bis, 319-ter, 321 e 322 c.p., anche se commessi da incaricati di pubblico servizio o membridegli organi delle Comunità europee e da funzionari delle Comunità europee e di statiesteri) ed alcuni dei delitti contro il patrimonio commessi mediante frode (truffa a dannodello Stato o di altri enti pubblici e truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche,artt. 640, comma 2, n. 1 e 640-bis c.p.; frode informatica commessa a danno delloStato o di altro ente pubblico, art. 640-ter, comma 2, c.p.). Con riferimento alla frode informaticaex art. 640-ter, mentre la legge delega escludeva espressamente quella compiuta conabuso della qualità di operatore del sistema, il d. lgs. n. 231/2001 utilizza una formula chesembra includere anche le ipotesi in cui ricorrano entrambe le aggravanti (fatto commesso adanno dello Stato o di altro ente pubblico e abuso della qualità di operatore del sistema): sulpunto v. M. Guernelli, Frodi informatiche e responsabilità delle persone giuridiche alla lucedel decreto legislativo 8.6.2001, n. 231, inRiv. trim. dir. pen. ec., 2002, 308.( 241 ) In senso critico nei confronti della scelta effettuata dal legislatore delegato cfr. L.Stortoni, I reati per i quali è prevista la responsabilità degli enti, in AA.VV., Responsabilitàdegli enti per i reati commessi nel loro interesse, op. cit., 67 ss., che parla tra l’altro di «un benpoco edificante mercanteggiamento politico che ha dato vita ad un prodotto ben poco apprezzabileda qualsiasi punto di vista lo si guardi»; G. De Simone, I profili sostanziali, op.cit., 118: «sono stati tagliati fuori dall’ambito di applicazione della nuova disciplina, paradossalmente,proprio quei reati che ricadono fisiologicamente nel ‘‘cono d’ombra’’ della criminalitàd’impresa e per i quali è da sempre particolarmente avvertita l’esigenza di una revisionedell’arcaico societas delinquere non potest. Reati che rappresentano, d’altra parte, una sortadi proiezione sul piano fattuale di quella colpevolezza di organizzazione che si è volutoporre a fondamento della responsabilità degli enti»; A. Carmona, op. ult. cit., 1004; F.Giunta, op. cit., 23.


100SAGGI E OPINION<strong>IL</strong>a prima estensione è stata realizzata dal d.l. n. 350/2001, convertitodalla legge n. 409/2001, che ha inserito i delitti in materia di contraffazionedell’Euro (art. 25-bis), in attuazione della Decisione quadro del Consigliodell’Unione Europea del 29 maggio 2000, ispirata dalla considerazioneche in molti paesi dell’Unione Europea – a differenza di quanto avvienein Italia – la fabbricazione delle banconote e delle monete è affidata a societàprivate. È evidente l’assenza, nel nostro paese, di ogni esigenza politico-criminaleche giustifichi una simile scelta estensiva( 242 ), stante l’assolutaimplausibilità pratica che reati di questo tipo possano essere commessiin contesti aziendali leciti, a meno ché non si vogliano ipotizzare realtà deltutto «folkloristiche»( 243 ).Successivamente, l’opportuna estensione della responsabilità amministrativadegli enti ai reati societari (art. 25-ter introdotto dal d. lgs. n.61/2002) è stata vanificata dal legislatore delegato che, perseguendo un lucidodisegno di sterilizzazione all’interno di un quadro complessivo dismantellamento del controllo di legalità nel settore dell’economia( 244 ), haescluso per i reati societari l’applicazione agli enti delle sanzioni interdittive,compiendo una scelta che determina la quasi certa ineffettività dellanuova normativa( 245 ), visto che l’esperienza comparata ha ormai dimo-( 242 ) Cfr. C. Piergallini, op. ult. cit., 586.( 243 ) Cfr. A. Rossi, op. cit., 58, che fa l’esempio delle imprese che svolgono attività ditipografia.( 244 ) Sul punto cfr. B. Tinti, Il nuovo Corpus Iuris dell’economia, inIl fisco, 2003, n.4, 555 ss., spec. 565 s.( 245 ) In tal senso cfr. C.E. Paliero, La responsabilità delle persone giuridiche, op. cit.,48, 60 ss.; C. Piergallini, La responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, op. cit.,106 ss., che parla di «una scelta criminologicamente sciagurata»; A. Alessandri, CorporateGovernance, op. cit., 559: «L’amputazione delle misure interdittive evidenzia un lucido disegnodi sterilizzazione dell’istituto e smentisce i sostenitori di una penalizzazione più ‘‘discreta’’ma diffusa»; M. Pelissero, La responsabilizzazione degli enti, op. cit., 371. Tra glieffetti negativi derivanti dall’esclusione della sanzioni interdittive vi è l’impossibilità di applicazionedella pubblicazione della sentenza di condanna (art. 18), che si traduce in un vantaggioper le società marketing oriented, le quali potranno contabilizzare la sanzione pecuniariacome un mero costo di gestione ed evitare i gravi danni di immagine conseguenti allapubblicazione, e dell’intero sistema delle misure cautelari (eccezion fatta per quelle reali),nonché il probabile ricorso indiscriminato al procedimento per decreto (art. 64), di cui ècondizione l’applicazione della solo sanzione pecuniaria, ed al patteggiamento (art. 63), sempreammesso in caso di sola sanzione pecuniaria (cfr. M. Formica, op. cit., 226 ss.). Noncondivisibile è l’opinione di A. Lanzi, L’obbligatorietà della legge italiana, op. cit., 79 s., secondocui l’estromissione delle sanzioni interdittive in relazione ai reati societari si giustificacon esigenze di tutela dei soci di minoranza, che – essendo già stati danneggiati dal reato –verrebbero colpiti due volte in seguito all’applicazione delle sanzioni interdittive: in verità, lapossibile lesione dei terzi innocenti è una delle obiezioni che tradizionalmente vengono mossealla responsabilità <strong>penale</strong> degli enti, per cui non la si può abbracciare solo per alcuni reatie per altri no; per di più, la dottrina moderna ha già da tempo dimostrato che essa è priva dipregio, in quanto da un lato anche le pene inflitte alle persone fisiche hanno un effetto di


SAGGI E OPINIONI101strato in maniera incontrovertibile che l’unico modo efficace di combatterela criminalità delle imprese è di adottare un sistema sanzionatorio misto,che combini l’impiego di sanzioni di diversa natura (pecuniarie, interdittive,ripristinatorie, stigmatizzanti, ecc.)( 246 ).Per di più, la vocazione all’ineffettività dell’art. 25-ter risulta aggravatada altri due fattori: 1) l’infimo livello dei limiti edittali – in quanto calibratisulla gravità insédelle singole fattispecie penali presupposto – che caratterizzale sanzioni pecuniarie previste per l’ente in relazione ai reati societari(247 ) (vizio che in verità contraddistingue anche i limiti edittali di cuiagli artt. 24 e 25( 248 )), nonché la ridotta escursione tra minimo e massimoche impedisce ogni commisurazione da parte del giudice( 249 ); 2) la ‘‘depenalizzazionedi fatto’’ dei reati societari realizzata con il d. lgs. n. 61/2002( 250 ) – impedendo a monte la configurabilità della responsabilità pe-rimbalzo su terzi innocenti (lavoratori, familiari, ecc.), che rappresenta una conseguenza inevitabiledel ricorso al diritto <strong>penale</strong>, dall’altro lato, per i soci di minoranza gli effetti negativiprodotti dalle sanzioni interdittive rientrano nel rischio di impresa che essi si sono assuntientrando a far parte della società (cfr. A. Alessandri, Reati d’impresa, op. cit., 52; Id., Commento,op. cit., 144; E. Dolcini, Principi costituzionali, op. cit., 22; D. Pulitanó, op. ult.cit., 421 s.; C. De Maglie, L’etica e il mercato, op. cit., 313). Nel tentativo di dare una giustificazionerazionale alla scelta del legislatore si è altresì ipotizzato che l’esclusione delle sanzioniinterdittive in relazione ai reati societari possa essere stata indotta dalla carente determinatezzache caratterizza i presupposti applicativi (rilevante entità del profitto e gravità dellecarenze organizzative dell’ente) di tali misure: in tal senso cfr. F. Giunta, op. cit., 28.( 246 ) In argomento v. C. De Maglie, op. ult. cit., 34 ss., 337.( 247 ) Al riguardo si deve però tenere conto del fatto che la legge 28 dicembre 2005, n.262 di riforma del sistema di tutela del risparmio – oltre a inserire tra i reati societari per cuirisponde l’ente la nuova fattispecie di omessa comunicazione del conflitto di interessi (art.2629-bis c.c.) – prevede, all’art. 39 comma 5, il raddoppio delle sanzioni pecuniarie di cuiall’art. 25-ter.( 248 ) Lo rileva correttamente A. Carmona, op. ult. cit., 1011 ss.( 249 ) Cfr. C.E. Paliero, op. ult. cit., 60 s.; C. Piergallini, op. ult. cit., 107. Contra v.S. Putinati, La responsabilità, op. cit., 83 s., il quale non ritiene la sanzione pecuniaria unasanzione ‘‘manifesto’’, priva del contenuto affittivo necessario a svolgere una funzione di preventiva.( 250 ) Tale riforma è stata giustamente definita come «la riforma <strong>penale</strong> italiana che haforse suscitato il maggior numero di critiche, dal dopoguerra ad oggi, sia tra i tecnici chenell’opinione pubblica» (C.E. Paliero, op. ult. cit., 47). Tra le tante voci critiche che si sonolevate in dottrina nei confronti del d. lgs. n. 61/2002 cfr., a titolo meramente esemplificativo,A. Alessandri, La legge delega n. 366 del 2001: un congedo dal diritto <strong>penale</strong> societario, inCorr. giur., 2001, 1365 ss.; Id., Alcune considerazioni generali sulla riforma, in AA.VV., Ilnuovo diritto <strong>penale</strong> delle società, op. cit., 3 ss.; A. Crespi, Le false comunicazioni sociali:una riforma faceta, inRiv. soc., 2001, 1365 ss.; Id., Il falso in bilancio e il pendolarismo dellecoscienze, ivi, 2002, 449 ss.; L. Foffani, Rilievi critici in tema di riforma del diritto <strong>penale</strong>societario, inDir. pen. proc., 2001, 1197 ss.; F. Giunta, La riforma dei reati societari ai blocchidi partenza. Prima lettura del d. legisl. 11 aprile 2002, n. 61,inStudium Juris, 2002, 695 ss.e 833 ss.; G. Marinucci, Falso in bilancio: con la nuova legge avviata una depenalizzazione difatto, inGuida al diritto, 2001, n. 45, 10 ss.; Id., ‘‘Depenalizzazione’’ del falso in bilancio con


102SAGGI E OPINIONInale in capo alle persone fisiche – renderà quasi sempre impossibile far‘‘scattare’’ la responsabilità amministrativa dell’ente( 251 ). La conseguenzaè che il criminale d’impresa, che è il criminale razionale per eccellenza,tra un costo certo – rappresentato dall’adozione dei modelli organizzativiper prevenire i reati – ed un costo remoto e di lieve entità costituito dall’applicazionedella sanzione pecuniaria, sceglierà senza ombra di dubbio la secondastrada( 252 ). Il legislatore è dunque riuscito nell’impresa di mortifi-l’avallo della SEC: ma è proprio così?,inDir. pen. proc., 2002, 137 ss.; A. Mereu, Il problemadel ‘‘falso quantitativo’’ e del ‘‘falso qualitativo’’ nel falso in bilancio prima e dopo la riforma,inIl fisco, 2002, n. 47, 7514 ss.; C.E. Paliero, Nasce il sistema delle soglie, op. cit., 44 ss.; C.Pedrazzi, In memoria del ‘‘falso in bilancio’’, inRiv. soc., 2001, 1373 ss.; D. Pulitanó, Falsoin bilancio: arretrare sui principi non contribuisce al libero mercato, inGuida al diritto,2001, n. 39, 9 ss.; S. Seminara, False comunicazioni sociali, falso in prospetto e nella revisionecontabile e ostacolo alle funzioni delle autorità di vigilanza, inDir. pen. proc., 2002, 676 ss.; B.Tinti, La legge ‘‘forza ladri’’, inMicroMega, 2001, n. 4, 173 ss.; R. Zannotti, False comunicazionisociali: reato uno e trino a valenza patrimoniale, inDir. e Giust., 2001, n. 37, 21 ss.;Id., Il futuro del diritto <strong>penale</strong> societario nella bozza del decreto legislativo, ivi, 2002, n. 1, 16ss.; Id., Il falso in bilancio è delitto quando è «dannoso», inGuida normativa – Il Sole 24 Ore,Dossier mensile su La riforma dei reati societari, maggio 2002, n. 5, 85 ss. Tra i pochi autorifavorevoli alla riforma cfr. I. Caraccioli, Una riforma in linea con la realtà economica, inAA.VV., La tavola rotonda, inLeg. pen., 2002, 531 ss.; A. Lanzi, La riforma sceglie una risposta‘‘civile’’ contro l’uso distorto dei reati societari, inGuida al diritto, 2002, n. 16, 9 ss.; C.Nordio, Novella necessaria e doverosa per riportare certezza nel diritto, ivi, 2001, n. 45, 12ss. Autorevole dottrina ha condivisibilmente osservato che la riforma dei reati societari del2002 rientra nel fenomeno delle c.d. leggi penali ad personam, cioè di quelle norme penalisolo formalmente generali e astratte, ma in realtà modellate sugli specifici casi giudiziari diquesto o di quel personaggio eccellente al fine di ottenere l’impunità per fatti pregressi eper fatti futuri, fenomeno che ha tristemente contrassegnato la XIV legislatura (sul temav. le illuminati considerazioni di E. Dolcini, Leggi penali ‘ad personam‘, riserva di leggee principio costituzionale di eguaglianza, inRiv. it. dir. proc. pen., 2004, 50 ss., spec. 56ss.). Peraltro, deve rilevarsi come la legge 28 dicembre 2005, n. 262 – approvata dopo quasidue anni di gestazione schizofrenica, sotto la spinta emotiva dei gravi scandali finanziari verificatisidi recente in Italia – «ha apportato nei confronti del diritto <strong>penale</strong> societario unaserie di modifiche marginali, comunque non idonee a mutare la filosofia di fondo impressaal sistema dalla riforma del 2002» (così R. Zannotti, Il nuovo diritto <strong>penale</strong> dell’economia -Reati societari e reati in materia di mercato finanziario, Milano, 2006, in corso di pubblicazione,pagina 98 del dattiloscritto).( 251 ) In tal senso v. C.E. Paliero, op. ult. cit., 63 s.; A. Alessandri, op. ult. cit., 559s.: «la forte selettività delle figure ora introdotte, riservate a ipotesi di elevatissima gravità ediaccertamento assai complesso, e l’esclusione dall’area del penalmente rilevante di ipotesi inprecedenza pacificamente ricomprese nella vecchia norma, con un consistente grado di disvalore,importano che la responsabilità degli enti sarà in ogni casi assai rara, nella prassi,ed andrà a colpire figure che erano già al vertice della gravità, divenendo un ‘‘costo’’ perle operazioni societarie più spericolate, non uno stimolo per una continuativa, quotidianacultura della legalità degli affari»; G. De Francesco, La responsabilità della societas: un croceviadi problematiche per un nuovo ‘‘modello’’ repressivo, in AA.VV., L’ultima sfida della politicacriminale, op. cit., 377; Id., Disciplina <strong>penale</strong> societaria e responsabilità degli enti: le occasioniperdute della politica criminale, inDir. pen. proc., 2003, 930.( 252 ) Così, quasi testualmente, C.E. Paliero, op. ult. cit., 64.


SAGGI E OPINIONI103care ogni funzione preventiva della responsabilità amministrativa degli entiproprio nel settore dei reati societari, che rappresenta uno dei suoi campidi applicazione più congeniali.L’art. 3 della legge 14 gennaio 2003, n. 7, ha inserito l’art. 25-quater,ampliando la platea dei reati-presupposto ai delitti con finalità di terrorismoo di eversione dell’ordine democratico previsti dal codice <strong>penale</strong> oda leggi speciali e ai delitti diversi da questi, posti in essere in violazionedi quanto previsto dall’art. 2 della Convenzione internazionale per la repressionedel finanziamento al terrorismo adottata a New York il 9 dicembre1999( 253 ). Oltre a sanzioni pecuniarie, nei confronti dell’ente sonodisposte sanzioni interdittive per una durata non inferiore ad un anno,mentre si applicherà l’interdizione definitiva dall’esercizio dell’attività qualorasi accerti che l’ente o una sua unità organizzativa vengano stabilmenteutilizzati allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissionedei reati suddetti.Palese è la violazione del principio di legalità, sotto il profilo della tassativitàe determinatezza della fattispecie, che caratterizza la nuova normativa.Discostandosi dal metodo seguito nel d. lgs. n. 231/2001, il legislatorenon ha elencato le singole fattispecie incriminatrici, ma ha fatto ricorso aduna clausola generale potenzialmente in grado di ricomprendere qualunquereato purché aggravato dalla finalità di terrorismo o di eversione,con inevitabili ripercussioni sulla capacità dell’ente collettivo di rispettareil dettato normativo, in particolare per quanto riguarda la predisposizionedi un adeguato modello organizzativo( 254 ). Così, al fine di evitare possibilicensure di indeterminatezza da parte della Corte costituzionale, si è suggeritodi interpretare la disposizione come riferibile ai delitti che prevedonola finalità di terrorismo o di eversione come elemento costitutivo della fattispecie,escludendo i delitti ‘‘comuni’’ semplicemente aggravati dall’art. 1della legge n. 15/1980( 255 ).La critica di fondo che deve muoversi alla disciplina dell’art. 25-quater verte però sull’assoluta inverosimiglianza dell’ipotesi che un sog-( 253 ) Questa seconda categoria di reati viene divisa dal paragrafo 1 dell’art. 2 dellaConvenzione in tre gruppi: a) reati contemplati nelle convenzioni internazionali indicatein allegato alla Convenzione e riguardanti, in generale, crimini in materia di sicurezza aereae aeroportuale, presa di ostaggi, persone internazionalmente protette, navigazione marittima,piattaforme fisse e uso di esplosivo; b) reati di omicidio o lesioni personali rivolti contro «vittimeinnocenti» e finalizzati a intimidire la popolazione o a costringere un Governo o unoStato a fare o non fare qualcosa; c) la somministrazione o la raccolta di fondi destinati a finanziarel’esecuzione degli atti terroristici sopra indicati.( 254 ) Cfr. G. Amarelli, La responsabilità, op. cit., 50 s.; M. Leccese, Responsabilitàdelle persone giuridiche e delitti con finalità di terrorismo o eversione dell’ordine democratico(art. 25 quater d. lgs. n. 231 del 2001), inRiv. trim. dir. pen. ec., 2003, 1193 ss.( 255 ) Cfr. M. Leccese, op. cit., 1195.


104SAGGI E OPINIONIgetto apicale o un sottoposto commettano un delitto con finalità di terrorismoo di eversione nell’interesse o a vantaggio della persona giuridica:la realtà del fenomeno terroristico, infatti, dimostra che le societàcommerciali forniscono alle organizzazioni terroristiche contributi sganciatida qualunque interesse o vantaggio per le stesse, se non addiritturadannosi per l’ente( 256 ), in virtù del fatto che la criminalità terroristica edeversiva è «radicalmente diversa da quella economica poiché basata sufini ‘‘politici’’ e ‘‘antisociali’’ tendenzialmente incompatibili con quellidi lucro»( 257 ).Ancora, l’art. 4, comma 1, della legge 11 agosto 2003, n. 228, introducendol’art. 25-quinquies, ha esteso il catalogo dei reati ai delitti contro lapersonalità individuale disciplinati nella Sezione I del Capo III del TitoloXII del codice <strong>penale</strong> (riduzione in schiavitù, tratta e commercio di schiavi,alienazione e acquisto di schiavi, prostituzione minorile, pornografia minorilee detenzione di materiale pornografico, iniziative turistiche volte allosfruttamento della prostituzione minorile)( 258 ), prevedendo a carico dell’entesanzioni pecuniarie e interdittive.Deve osservarsi che l’inclusione fra i reati-presupposto dei delitti con( 256 ) Cfr. A. Carmona, op. ult. cit., 1016, che parla altresì di «inverosimiglianza criminologicadella conversione al terrorismo internazionale di un’azienda normale»; M. Leccese,op. cit., 1204 s., il quale cita il caso dell’immigrato algerino titolare di un’impresa commercialein Italia che, aderendo alle rivendicazioni del FIS, distrae, sia pure saltuariamente,una parte del reddito d’impresa per sostenere i terroristi algerini; quello del commerciante (ofabbricante) di armi italiano simpatizzante del PKK che decida di vendere sottocosto le armiche commercializza tramite la società a cui appartiene, pur sapendo che dette armi sarannoutilizzate per compiere attentati terroristici in Turchia; e quello del dirigente d’azienda chepone a disposizione di un gruppo terroristico l’appartamento che la propria società normalmenteadibisce ad uso foresteria per i clienti stranieri, pur essendo consapevole che esso verràutilizzato per custodire ostaggi.( 257 ) M. Leccese, op. cit., 1208. L’autore considera comunque possibili due ipotesiapplicative della normativa in questione: 1) l’impresa intrinsecamente illecita, in cui lo scopocommerciale dissimula quello unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione direati con finalità di terrorismo o di eversione; 2) la condotta di finanziamento di un’associazioneterroristica o eversiva di cui all’art. 270-bis c.p.: si pensi, per esempio, al direttore dibanca che concede un prestito o compie operazioni di trasferimento titoli in favore di un’organizzazioneterroristica e che, pur sapendo che le utilità derivanti dalle operazioni che compiecontribuiranno a rafforzare l’organizzazione terroristica (verso cui nutre sentimenti di indifferenza),agisce ugualmente perché interessato ad allargare il portafoglio clienti della propriafiliale e a mostrare ai suoi superiori le proprie capacità professionali, in vista di unafutura promozione.( 258 ) Anche con riferimento a queste fattispecie si è messa in evidenza la difficoltà diconfigurare una connessione fra l’attività illecita – che dovrà necessariamente fuoriuscire dailimiti dell’oggetto sociale – e l’interesse o il vantaggio della società, con l’unica eccezione dell’ipotesiin cui i costi sostenuti e gli utili conseguiti siano imputati al conto economico dellasocietà (cfr. V. Salafia, op. cit., 1434 s., che individua una serie di attività in cui i reati dequibus potrebbero realizzarsi: la riduzione in schiavitù, così come la tratta e l’alienazione ed


SAGGI E OPINIONI105finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico e dei delitticontro la personalità individuale, anche se conseguenza inevitabile dell’adesionedel nostro paese a convenzioni internazionali, determina un’eterogeneitàmalsana( 259 ), che fa deviare la responsabilità amministrativa da reatodegli enti dal suo ambito di applicazione naturale, rappresentato dalla criminalitàdi impresa, snaturando lo spirito della nuova disciplina( 260 ). Allostesso tempo, permangono gravi lacune all’interno del catalogo dei reati,che dovrebbe essere esteso quantomeno ai reati originariamente contemplatidalla legge delega, ai reati tributari, alle fattispecie di spionaggio industrialee alle truffe in danno dei consumatori( 261 ), ai reati di abusivismo infunzione antiriciclaggio( 262 ), nonché ai reati previsti dalla legge sul trattamentodei dati personali( 263 ). Nel complesso, l’attuale assetto del catalogodei reati è la principale (se non unica) causa della sporadica applicazionegiurisprudenziale che la responsabilità amministrativa da reato degli entiha avuto a quasi cinque anni dall’entrata in vigore del d. lgs. n. 231/2001( 264 ).acquisto di schiavi, potrebbe riguardare le società di lavoro interinale; l’induzione alla prostituzionedi minori degli anni diciotto è ipotizzabile in seno a società che impiegano o addestranominorenni o svolgono attività a favore di essi, come le società cinematografiche,quelle che addestrano alla danza o erogano terapie fisioterapiche; infine, la pornografia minorilepotrebbe svilupparsi in società o enti cinematografici o editoriali. Secondo A. Rossi,op. cit., 56, le iniziative turistiche finalizzate allo sfruttamento della prostituzione minorilepotrebbero rientrare tra le attività imprenditoriali dei tour operators).( 259 ) Il rischio di un allargamento irrazionale del catalogo dei reati come conseguenzadell’adesione a convenzioni internazionali era stato segnalato da M. Miedico, I reati che determinanola responsabilità amministrativa dell’ente, in AA.VV., La responsabilità amministrativadegli enti, D. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, op. cit., 148: «Sussiste quindi il pericoloche (...) il nostro legislatore realizzi un’estensione irragionevole dell’ambito di operatività dellanuova disciplina della responsabilità degli enti, per ottemperare ai numerosissimi impegnipresi in sede internazionale – ove peraltro tale responsabilità può essere prevista non in basead una vera e propria scelta razionale ma per effetto di ‘‘clausole di stile’’ adottate all’internodelle Convenzioni internazionali – senza che invece si sia riconosciuta preliminarmente taleresponsabilità nelle ipotesi più frequenti e più gravi di criminalità d’impresa»; L. Stortoni,op. ult. cit., 70.( 260 ) Cfr. A. Carmona, op. ult. cit., 1015, che ravvisa «un percorso di deviazione dallalogica ispiratrice» del sistema di responsabilità amministrativa degli enti iniziato con l’art. 25-quater e proseguito con l’art. 25-quinquies; A. Rossi, op. cit., 55s.( 261 ) Cfr. A. Carmona, op. ult. cit., 1004.( 262 ) Cfr. R. Zannotti, La tutela dell’accesso al mercato nella prospettiva della lottacontro il riciclaggio: il caso dell’abusivismo, inInd. pen., 2003, 948 s., e in Riv. Guardia diFinanza, 2004, n. 1, 62 ss.: «L’estensione della responsabilità amministrativa anche nei confrontidelle società che operano abusivamente rivestirebbe indubbiamente una funzione dienforcement nei confronti della tutela del mercato, in quanto renderebbe la persona giuridicaresponsabile in via diretta dell’operato dei suoi amministratori».( 263 ) Cfr. M. Miedico, op. cit., 149.( 264 ) Le poche applicazioni giurisprudenziali, a quanto consta, sono per ora costituitepressoché esclusivamente da sentenze di patteggiamento e da ordinanze che dispongono o


106SAGGI E OPINIONIPeraltro, deve segnalarsi come negli ultimi tempi il quadro complessivodel catalogo dei reati si sia ulteriormente arricchito e complicato,sempre sulla spinta del diritto internazionale e del diritto comunitario.In primo luogo l’art. 9 della legge 18 aprile 2005, n. 62 (legge comunitaria2004), nel recepire la direttiva 2003/6/CE del Parlamento Europeoe del Consiglio, del 28 gennaio 2003, relativa all’abuso di informazioni privilegiatee alla manipolazione del mercato, nonché agli abusi di mercato(c.d. direttiva sul market abuse), e delle direttive di attuazione della Commissione2003/124/CE, 2003/125/CE e 2004/72/CE, ha creato una nuovafigura di responsabilità amministrativa degli enti (emittenti strumenti finanziariammessi, o per i quali sia stata presentata richiesta di ammissione, allenegoziazioni in un mercato regolamentato italiano o di altro paese U.E.)per i nuovi illeciti amministrativi di abuso di informazioni privilegiate (insidertrading) e di manipolazione del mercato (art. 187-quinquies d. lgs. n.58/1998), le cui condotte sono pressoché coincidenti con quelle delle parallelefigure di reato( 265 ) (nuovi artt. 184 e 185 d. lgs. n. 58/1998): si creadunque un’anomala forma di responsabilità amministrativa dell’ente – ilquale è responsabile del pagamento di una somma pari all’importo dellasanzione amministrativa irrogata alla persona fisica – derivante da un illecitoamministrativo, che quasi sempre è anche illecito <strong>penale</strong>, commessonel suo interesse o a suo vantaggio( 266 ), la cui procedura sanzionatoria ènegano l’applicazione di misure cautelari: cfr. Trib. Pordenone, Ufficio G.U.P., 4 novembre2002, in Dir. prat. soc., 2003, n. 11, 79 ss., con commento di F. Foglia Manzillo, einDir.comm. int., 2003, 193 ss., con nota di G. Capecchi, Funzione rieducatrice della pena e responsabilità<strong>penale</strong> delle persone giuridiche; Trib. Salerno, Ufficio G.I.P., Ord. 28 marzo2003, in Dir. prat. soc., 2004, n. 23, 77 ss., con commento di I. Di Domenico; Trib. Roma,Ufficio G.I.P., 7 marzo 2003, in www.reatisocietari.it; Trib. Roma, Ufficio G.I.P., Ord. 4aprile 2003, cit.; Trib. Milano, Ufficio G.I.P., Ord. 27 aprile 2004, cit.; Trib. Milano, UfficioG.I.P., Ord. 9 novembre 2004, cit.; Trib. Milano, Sezione XI riesame, 20 dicembre 2004,cit.; Trib. Torino, Sezione G.U.P., Ord. 10 febbraio 2005, cit.( 265 ) Deve precisarsi che tra il reato di abuso di informazione privilegiate (insider trading)ed il parallelo illecito amministrativo vi è una coincidenza totale della condotta, mentrela sovrapposizione tra illecito <strong>penale</strong> e illecito amministrativo è solo parziale per la manipolazionedel mercato. Incidentalmente si rileva come l’aver qualificato condotte pressochécoincidenti sia come illecito amministrativo che come illecito <strong>penale</strong> costituisce una macroscopicaviolazione del principio di sussidiarietà del diritto <strong>penale</strong>, in contrasto con le indicazionicontenute nella circolare della Presidenza del Consiglio dei ministri del 19 dicembre1983 in tema di criteri orientativi per la scelta tra sanzioni penali e sanzioni amministrativee con i principi in materia di concorso tra sanzioni penali e sanzioni amministrative (art. 9legge 24 novembre 1981, n. 689).( 266 ) Che ci troviamo di fronte ad una nuova forma di responsabilità dell’ente pare altresìconfermato dalla previsione di cui al comma 4 del nuovo art. 187-quinquies d. lgs. n. 58/1998: «In relazione agli illeciti di cui al comma 1 si applicano, in quanto compatibili, gli articoli6, 7, 8 e 12 del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231...». Ricalcando il meccanismodi cui all’art. 5, comma 2, del d. lgs. n. 231/2001, l’art. 187-quinquies, comma 2, ha previsto


SAGGI E OPINIONI107affidata alla Consob (art. 187-septies d. lgs. n. 58/1998). A fianco a taleforma di responsabilità si introduce inoltre nel d. lgs. n. 231/2001 l’articolo25-sexies, che amplia il catalogo dei reati alle fattispecie incriminatrici diabuso di informazioni privilegiate e di manipolazione del mercato( 267 ), determinandocosì a carico dell’ente una duplicazione di responsabilità e procedimentisanzionatori in relazione allo stesso fatto( 268 ). In questa novella illegislatore si è altresì orientato a perseverare nella scelta nefasta, già compiutaper i reati societari, di escludere le sanzioni interdittive nei confrontidegli enti.In secondo luogo l’art. 8 della legge 9 gennaio 2006, n. 7 ha esteso laresponsabilità da reato degli enti – tramite l’inserimento di un nuovo art.25-quater 1( 269 ) nel d. lgs. n. 231/2001 – alla nuova fattispecie incriminatricedi cui all’art. 583-bis c.p., che punisce le pratiche di mutilazione degliorgani genitali femminili.Infine la legge 16 marzo 2006, n. 146 – che ha finalmente ratificato edato esecuzione nel nostro ordinamento alla Convenzione ONU, nonché airelativi Protocolli, contro il crimine organizzato transnazionale, adottatidall’Assemblea generale il 15 novembre 2000 ed il 31 maggio 2001 – haprevisto la responsabilità amministrativa da reato degli enti per una seriedi reati tipici della criminalità organizzata( 270 ), laddove essi presentino ilcarattere della transnazionalità così come definito nell’art. 3 della legge.un’esimente per il caso in cui l’ente – su cui dunque grava l’onere della prova – dimostri chela persona fisica ha agito «esclusivamente nell’interesse proprio o di terzi».( 267 ) Sull’argomento v. G. Paolozzi, Modelli atipici a confronto. Nuovi schemi perl’accertamento della responsabilità degli enti (II), in Dir. pen. proc., 2006, 239 ss., nonché l’approfonditocontributo di F. Santi, La responsabilità delle «persone giuridiche» per illeciti penalie per illeciti amministrativi di abuso di informazioni privilegiate e di manipolazione delmercato, in Banca, borsa e titoli cred., 2006, I, 81 ss.( 268 ) In senso critico verso tale sovrapposizione di responsabilità a carico dell’ente cfr.S. Bartolomucci, Market abuse e «le» responsabilità amministrative degli emittenti, in Lesoc., 2005, 924; M. Bellacosa, ‘‘Insider trading’’: manipolazione, abusi di mercato e responsabilità,in Dir. prat. soc., 2005, n. 11, 26; R. Zannotti, Il nuovo diritto <strong>penale</strong> dell’economia,op. cit., pagina 359 del dattiloscritto, il quale parla di «incomprensibile accanimento del legislatoreche, per quanto motivato dalla gravità dei fatti di abuso di informazioni privilegiate,appare comunque sproporzionato e vessatorio».( 269 ) La nuova disposizione prevede che la sanzione pecuniaria da 300 a 700 quote e lesanzioni interdittive di cui all’art. 9, comma 2, d. lgs. n. 231/2001 si applicano all’ente «nellacui struttura è commesso il delitto»: un’interpretazione rigidamente letterale del dato normativopotrebbe indurre a ritenere non necessario il requisito dell’interesse o del vantaggio, essendosufficiente il dato fattuale del compimento della mutilazione all’interno della strutturadell’ente, con la conseguenza che ci troveremmo di fronte ad un’ipotesi di vera e propriaresponsabilità oggettiva.( 270 ) L’art. 8 della legge 16 marzo 2006, n. 146 ha introdotto la responsabilità amministrativadegli enti, prevedendo l’applicazione della sanzione pecuniaria e delle sanzioni interdittive,per i seguenti reati: associazione per delinquere (art. 416 c.p.); associazione perdelinquere di stampo mafioso (art. 416-bis c.p.); associazione per delinquere finalizzata al


108SAGGI E OPINIONIAppare singolare la non inclusione dei suddetti reati nel d. lgs. n. 231/2001, mentre per il resto vi è un rinvio alle disposizioni del citato testo normativo.Questi recenti ed innumerevoli ampliamenti del catalogo dei reati, unitamentealle ulteriori integrazioni che si determineranno in seguito alle sollecitazionicomunitarie( 271 ), dovrebbero contribuire ad incrementare l’applicazionepratica della disciplina sulla responsabilità amministrativa dareato degli enti.Andrea Mereucontrabbando di tabacchi lavorati esteri (art. 291-quater d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43); associazionefinalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope (art. 74 d.P.R. 9ottobre 1990, n. 309); riciclaggio (art. 648-bis c.p.); impiego di denaro, beni o utilità di provenienzaillecita (art. 648-ter c.p.); reati concernenti il traffico dei migranti (art. 12 commi 3,3-bis, e-ter, e 5 d. lgs. 25 luglio 1998, n. 286); art. 377-bis c.p. (induzione a non rendere dichiarazionio a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria); art. 378 c.p. (favoreggiamentopersonale).( 271 ) Il riferimento è alle seguenti decisioni quadro del Consiglio dell’U.E.: 2003/80/GAI del 27 gennaio 2003 sulla tutela ambientale (sul tema v. M. Arena-M. Pansarella,Verso l’(auspicabile) introduzione della responsabilità amministrativa delle persone giuridichein relazione ai reati ambientali, in Temi romana, 2003, 72 ss.); 2003/568/GAI in tema di lottaalla corruzione nell’esercizio di attività professionali provate; 2004/757/GAI del 25 ottobre2004 in tema di traffico di stupefacenti (in argomento cfr. M. Arena, Traffico di stupefacentie responsabilità delle persone giuridiche, 15 marzo 2005, in www.reatisocietari.it); 2005/222/GAI del 24 febbraio 2005 su l’accesso e l’influenza illecita su sistemi e dati informatici.


SAGGI E OPINIONI109S<strong>IL</strong>ENZIO COLPEVOLE, S<strong>IL</strong>ENZIO INNOCENTE.L’INTERROGATORIO DELL’IMPUTATO DA MEZZO DI PROVAA STRUMENTO DI DIFESA NELL’ESPERIENZAGIURIDICA ITALIANASommario: 1. Dopo la riforma del 2001: vicende nuove dal sapore antico. – 2. L’antefatto:ad eruendam veritatem. – 3. La ‘terza via’: la soluzione italiana del codice del 1807. – 4.Nella legislazione postunitaria: da indizio di colpevolezza a strumento di difesa. – 5. Lastoria infinita.1. Dopo la riforma del 2001: vicende nuove dal sapore antico. – Il processoè, per eccellenza, luogo di parola. Essa riveste un ruolo da protagonistanon soltanto nel contraddittorio, momento di massima drammaticità,quasi ‘rappresentazione teatrale’ di un ‘diritto che va in scena’, ma anchegli atti, le carte, i verbali, nella loro apparente inerzia, ‘parlano’. Si può affermarealtrettanto per il silenzio dell’imputato?Il ‘silenzio giuridico’ non è incolore, né neutro; non è inazione, non sisostanzia in un semplice non fare, in un atteggiamento passivo contrappostoall’agire di chi interroga. «Il silenzio è un fatto, un accadimento eil suo contenuto sarà più o meno negativo a seconda dell’interpretazioneche si potrà o si dovrà dare a tale comportamento»( 1 ). L’affermazionequi riprodotta implicitamente presuppone e accetta come vera l’idea cheil silenzio abbia forma negativa e contenuto positivo; esprima in sé un significato,non certo né univoco, ma, al contrario, correlato all’interpretazioneoffertane.Come è stato osservato, chi tace opera una frattura tra comportamentoesteriore e contenuto interiore; rifiuta l’assunzione di un impegno personale(quello che deriva dalla parola, ma ancor di più dalla risposta aduna domanda) e addossa il compito di sanare e di ricucire lo strappo traforma e sostanza alla persona nei cui confronti oppone il silenzio( 2 ). C’èl’atto di chi tace (e di quest’unica scelta il silente si assume la responsabilità,( 1 ) M.S. Goretti, Il problema giuridico del silenzio, Milano 1982, p. 12.( 2 ) M.S. Goretti, Il problema cit., p. 22.


110SAGGI E OPINIONIesentandosene per ciò che concerne il valore attribuito al suo silenzio) el’atto di chi interpreta (chiamato a riempire di significato lo spazio vuotocreato dall’assenza della parola).Nel rito processuale le conseguenze del silenzio sono predeterminatedalla legge. E questo può condurci a sostenere che lo stesso valore di talecomportamento (colpevole o innocente) sia stato rimesso nel tempo ad unadeterminazione a fortiori della legge (o della prassi)( 3 ), a prescindere dall’eventualecorrispondenza tra il significato giuridico ad esso attribuito (veritàprocessuale) e il suo significato reale (verità materiale)( 4 ): sempre che siritenga possibile, anche solo in via teorica, una simile distinzione.La questione del silenzio dell’imputato nel processo <strong>penale</strong> si è propostaquasi ciclicamente all’attenzione dei giuristi. Per i processualpenalisti,in particolare, essa rappresenta una sorta di ‘croce e delizia’.Il tema torna oggi ad essere di estrema attualità. Dopo la scossa generatadalla legge 5 dicembre 1969 n. 932, che, per la prima volta in modoesplicito( 5 ), ha introdotto nel nostro ordinamento (all’art. 78, 3º comma( 3 ) A. La Torre, Silenzio (dir. priv.), inEnciclopedia del diritto, XLII, Milano 1990, p.545.( 4 ) Il significato della ‘verità’ all’interno del processo è un problema centrale, così comelo è la possibilità o meno di distinguere tra una verità materiale oggettiva ed una processuale.Sul punto mi permetto di rinviare al mio Il diabolico intreccio. Reo convinto e indiziindubitati nel commento di Bartolomeo da Saliceto (C. 4.19.25): alle radici di un problema,in ‘Panta rei’. Studi dedicati a Manlio Bellomo, a cura di O. Condorelli, t. II, Roma2004, pp. 387-8 e relative ntt.; si veda L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo<strong>penale</strong>, Roma-Bari 1989, pp. 23-4 e 40-1; G. Ubertis, La ricerca della verità giudiziale, inLaconoscenza del fatto nel processo <strong>penale</strong>, a cura di G. Ubertis, Milano 1992, pp. 1-3; Id., Laprova <strong>penale</strong>. Profili giuridici ed epistemologici, Torino 1995, pp. 1-7; P. Comanducci, Lamotivazioni in fatto, inLa conoscenza del fatto cit., pp. 237-9; P. Ferrua, Anamorfosi delprocesso accusatorio, inId., Studi sul processo <strong>penale</strong>, II, Torino 1992, pp. 170-1; M. Taruffo,La prova dei fatti giuridici, inTrattato di diritto civile e commerciale, diretto da A. Cicu –F. Messineo, continuato da L. Mengoni, III, 2, 1, Milano 1992, pp. 152-6. Da ultimo, efficacee suggestiva la ricostruzione sui diversi significati di ‘verità’ operata da O. Mazza,L’interrogatorio e l’esame dell’imputato nel suo procedimento, inTrattato di procedura <strong>penale</strong>,diretto da G. Ubertis e G.P. Voena, 7, 1, Milano 2004, pp. 10-21. Donà ammoniva sull’esageratarilevanza data alla ricerca della verità, reale o materiale, nel procedimento <strong>penale</strong>,contrapposto a quello civile dominato invece dal principio della verità formale: «la verità nonpuò essere che una, ai fini della giustizia», secondo l’autore (G. Dona’, Il silenzio nella teoriadelle prove giudiziali, Torino 1929, p. 61). Respinge, invece, la dottrina secondo cui lo scopodel processo sarebbe la ricerca e la scoperta della verità materiale G. Sabatini, Principi didiritto processuale <strong>penale</strong> italiano, Città di Castello 1931, pp. 38-9, di cui sostenitore era U.Ferrari, La verità <strong>penale</strong> e la sua ricerca nel diritto processuale <strong>penale</strong> italiano, Milano 1927.( 5 ) In tali termini si esprime Vassalli, il quale sostiene che la consacrazione del canonenemo tenetur se detegere era rimasto fino ad allora implicito nel nostro ordinamento. La leggedel ’69 assumeva quindi per la prima volta questo principio (dopo i tentativi esperiti adinizio secolo dal codice di Finocchiaro-Aprile) come un diritto fondamentale dell’imputato edell’indiziato (G. Vassalli, Modificazioni al c.p.p. in merito alle indagini preliminari, al di-


SAGGI E OPINIONI111del c.p.p. del 1930) l’obbligo per l’autorità procedente di avvertire l’imputato(6 ), prima dell’inizio dell’interrogatorio, della possibilità di avvalersidella facoltà di non rispondere (attuando il riconoscimento della difesaquale diritto inviolabile così come sancito dall’art. 24, 2º comma della Costituzione)(7 ), una nuova ‘impennata’ di interesse si è avuta in seguito allaritto di difesa, all’avviso di procedimento ed alla nomina del difensore, inRiv. it. di dir. e proc.<strong>penale</strong>, 1969, p. 927).( 6 ) La dialettica del giudizio impone che all’esistenza di un’accusa faccia da contraltareun diritto alla difesa, che è quello che «meglio caratterizza la posizione stessa dell’imputatoall’interno del processo <strong>penale</strong>» (O. Mazza, L’interrogatorio e l’esame dell’imputato cit., p.42), intendendosi perciò l’espressione ‘imputato’ in senso lato e atecnico, secondo una valutazionecomunemente accolta, comprensiva del concetto di ‘accusato’, ‘indagato’, ‘inquisito’ecc. Sul punto cfr. M. Chiavario, Giudice, parti e altri personaggi sulla scena del nuovo processo<strong>penale</strong>, inCommento al nuovo codice di procedura <strong>penale</strong>, Torino 1989, I, p. 383; E.Marzaduri, Imputato e imputazione,inDigesto italiano, IV ed., Sez. Discipline penalisitiche,vol. VI, Torino 1992, pp. 279 e 283; G. Ubertis, La previsione del giusto processo secondo la‘‘Commissione bicamerale’’, inId., Argomenti di procedura <strong>penale</strong>, Milano 2003, pp. 36-8;G.P. Voena, Soggetti, inCompendio di procedura <strong>penale</strong>, diretto da G. Conso –V.Grevi,Padova 2003, pp. 90-6. Vale la pena di ricordare che, come si vedrà più avanti, nel passatoper lungo tempo l’imputato era designato dalle fonti con il termine di reo. Addirittura il paveseGiacomo Maria Anfossi, indotto a scrivere una proposta di riforma del diritto e dellaprocedura <strong>penale</strong> dai quarant’anni trascorsi in magistratura in cui «troppe ne vidi e ne passai»,prevedeva all’art. 7 del suo progetto di introdurre in via normativa una diversa nomenclaturadefinitoria. Il susseguirsi delle fasi processuali influiva, secondo l’Anfossi, sulla relativadenominazione adottabile per definire il soggetto in causa. Si doveva chiamare reo sospettocolui contro il quale, per mancanza di indizi legali, non era possibile aprirel’istruzione; l’espressione inquisito reo indicava colui contro il quale l’inquisizione era ‘deliberata’e reo condannato o assoluto chi era giudicato colpevole o innocente. Di conseguenzaanche gli esami, a cui i ‘rei’ erano sottoposti, ricevevano una distinta appellazione: si dicevanointerrogatori gli esami del reo sospetto e costituti quelli del reo inquisito (G.M. Anfossi,Studio e prime idee per servire alla compilazione di un nuovo codice di procedura criminale,Milano 1838, art. 7, pp. 254-5). Sul punto si veda anche S. Graziano, La difesa <strong>penale</strong> nell’istruttoriain rapporto alla scienza e al nuovo codice di procedura <strong>penale</strong>, Bologna 1913, p. 39.Scrive Carrara che il temine reo, la cui etimologia discende da reor, putare cioè supporre, staad indicare lo stato di accusa, ossia quella posizione intermedia fra l’innocenza e la condanna,in cui il soggetto si sospetta colpevole, ma non è ancora riconosciuto tale. La sua portata definitoriaè perciò ampia, nel senso che designa qualunque persona nei cui confronti si dirigeuna domanda giudiziale, chiarendo che la parola reo ha nel linguaggio giuridico un significatoassai diverso da quello in cui si adopera comunemente: per il ‘volgo’ il reo è colpevole,per il giurista può essere innocente: «ed è grave errore quello di chi, per una prevenzionefunesta, osi confondere il senso giuridico di questa denominazione col suo volgare significato»(F. Carrara, Programma del corso di diritto criminale, parte generale, vol. II, Firenze1902, § 870, pp. 354-5). Conferisce all’espressione un diverso significato Sbriccoli, per ilquale l’accusato è reus, ossia un oggetto (reus da res) «o una figura ficta, praticamente senzavoce, che nel combattimento processuale ha contro tutti i protagonisti» (M. Sbriccoli,«Tormentum idest torquere mentem». Processo inquisitorio e interrogatorio per tortura nell’Italiacomunale, inLa parola all’accusato, Palermo 1991, p. 23).( 7 ) Sull’art. 24 della Costituzione e il suo riconoscimento della difesa come diritto inviolabiledell’uomo, si veda, tra i tanti, A. Carli Gardino, Il diritto alla difesa nell’istrutto-


112SAGGI E OPINIONIlegge di revisione costituzionale del 1999, che ha introdotto i principi del‘giusto processo’ (formula, forse, infelice, quasi a presupporre per l’addietroun processo ingiusto).L’art. 111 della Costituzione, modificato secondo le nuove direttive,nei commi 2º e 4º ha elevato il contraddittorio a valore cardine dell’eserciziodella giurisdizione <strong>penale</strong>, sancendone una doppia valenza: da un latoesso si presenta quale mezzo di tutela della posizione del singolo; dall’altroè strumento di ricostruzione della verità giudiziale. Si è cercato così di bilanciareil significato del contraddittorio quale metodo di conoscenza conquello di garanzia individuale( 8 ).Se questo profilo ha sollevato qualche perplessità in ordine alla possibilee concreta conciliazione di termini tra loro eterogenei (aspetto soggettivoed oggettivo del contraddittorio), ulteriori quesiti ermeneutici sonostati posti dal 3º comma dell’art. 111, che stila un elenco, eccessivamentedettagliato ma non per questo privo di omissioni e lacune( 9 ), delle facoltàattribuite alla persona accusata di un reato. Tra queste, l’informativa nelpiù breve tempo possibile circa la natura e i motivi dell’accusa elevatanei suoi confronti o la garanzia del tempo e delle condizioni necessarieper predisporre la difesa; la facoltà di interrogare o di far interrogare, davantial giudice, le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, o di ottenerela convocazione e l’interrogatorio di persone a difesa nelle medesimecondizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a favore;infine, l’assistenza di un interprete a beneficio dei soggetti non ingrado di comprendere la lingua impiegata nel processo.ria <strong>penale</strong>. Saggio sull’art. 24 comma 2 Cost., Milano 1983, in particolare pp. 37-8. Tra le implicazionidell’art. 24 Vassalli vi riconosce anche il diritto di difendersi provando, consistentenel diritto di non vedere menomata la possibilità di difesa attraverso un’arbitraria restrizionedei mezzi di prova (G. Vassalli, Il diritto alla prova nel processo <strong>penale</strong>, inRiv.it. dir. proc.pen., 1968, p. 12).( 8 ) L’art. 111 afferma nel 2º comma che ogni processo si svolge nel contraddittoriodelle parti. Il 4º comma dispone che il processo <strong>penale</strong> è regolato dal principio del contraddittorionella formazione della prova. È una formula breve, ma potente, dove il contraddittorionon figura come semplice diritto individuale, ma come garanzia oggettiva e condizionedi regolarità del processo (P. Ferrua, Rischio contraddizione sul neo-contraddittorio, inDirittoe giustizia, vol. I, n. 1, 2000, p. 79). Esalta il significato non univoco del principio delcontraddittorio, che in sé contiene due anime, l’una oggettiva di accertamento dei fatti e l’altrasoggettiva che si configura come garanzia individuale, C. Conti, Le due ‘‘anime’’del contraddittorionel nuovo art. 111 Cost., inDiritto <strong>penale</strong> e processo, 2000, pp. 197-202.( 9 ) Così lamenta M. Chiavario, Nelle Carte europee garanzie più equilibrate e un frenoagli abusi,inDiritto e giustizia, vol. I, n. 1, 2000, p. 77; sono regole confusamente affastellate,fa eco P. Ferrua, Il processo <strong>penale</strong> dopo la riforma dell’art. 111 della Costituzione, inQuestionegiustizia, 1, 2000, p. 50. Si rinvia anche a M. Bargis, Studi di diritto processuale <strong>penale</strong>,I ‘‘Giusto processo’’ italiano e Corpus juris europeo, Torino 2002, pp. 43-53.


SAGGI E OPINIONI113Come si nota, manca l’espressa previsione della facoltà di non rispondere,e, più in generale, del possibile esercizio di un’autodifesa passiva.Si sostiene che nel mutato quadro costituzionale tale assenza derivi dalfatto che l’autodifesa mediante silenzio sia «una componente ineliminabiledel concetto stesso di giusto processo [...] implicita nella struttura di unprocesso che voglia dirsi giusto»( 10 ), e che l’articolo in oggetto abbia elevatola scelta tra tacere e rispondere a diritto costituzionalmente protetto(11 ) nel 4º comma dell’art. 111 («la colpevolezza dell’imputato nonpuò essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta,si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio dell’imputato o delsuo difensore»).È stato tuttavia rilevato come l’espressione ‘libera scelta’ (formula introdottaper evitare ad esempio l’inutilizzabilità di dichiarazioni rese da unsoggetto silenzioso perché minacciato, il quale rimane sì in silenzio volontariamente,ma non liberamente) non significhi ‘scelta legittima’ (anche ladecisione di commettere un reato è libera ma non lecita)( 12 ). Di conseguenza,non potrebbe trarsi dall’art. 111 alcuna conferma riguardo all’esistenzain capo all’imputato della ‘legittima’ facoltà di tacere( 13 ): tale principio,viceversa, continuerebbe a trovare, ad oggi, la propria ragion d’esserenegli artt. 24 (a cui unanimemente si attribuisce la funzione digarantire anche il ‘‘diritto’’ al silenzio) e 27 comma 2 della Costituzione(presunzione di non colpevolezza).È innegabile tuttavia che la Carta repubblicana contenga una restrizionedella facoltà di rimanere in silenzio laddove, assicurando all’imputatodi interrogare davanti al giudice o di far interrogare le persone che rendanodichiarazioni a suo carico, delinea una strategia difensiva libera finché nonlesiva di un diritto altrui. L’ampia dizione costituzionale (si parla di ‘per-( 10 ) O. Mazza, L’interrogatorio e l’esame dell’imputato cit., p. 63.( 11 ) Cfr. E. Amodio, Giusto processo, diritto al silenzio e obblighi di verità dell’imputatosul fatto altrui, inCassazione <strong>penale</strong>, 2001, p. 3589.( 12 ) A. Trapani, Finalmente recepiti gli accordi internazionali, inGuida al diritto,1999, p. 9 e 60.( 13 ) La scelta è libera, ma non legittima qualora sia contraria all’ordinamento. Sul puntocfr. P. Tonini, Diritto al silenzio e tipologia dei dichiaranti, inGiusto processo e prove penali.Legge 1º marzo 2001 n. 63, Milano 2001, pp. 73-4; Id., L’attuazione del contraddittorionell’esame di imputati e testimoni, inCassazione <strong>penale</strong>, 2001, p. 690; Id., Il diritto al silenziotra giusto processo e disciplina di attuazione, inCassazione <strong>penale</strong>, 2002, p. 837; F. Cordero,Procedura <strong>penale</strong>, Milano 2003, pp. 743-4; V. Grevi, Spunti problematici sul nuovo modellocostituzionale di ‘‘giusto processo’’ <strong>penale</strong> (tra ‘‘ragionevole’’ durata, diritti dell’imputato e garanziadel contraddittorio), inAlla ricerca di un processo <strong>penale</strong> ‘‘giusto’’. Itinerari e prospettive,Milano 2000, p. 339; Id., Dichiarazioni dell’imputato sul fatto altrui, diritto al silenzio egaranzia del contraddittorio, inAlla ricerca di un processo cit., pp. 280-3. Sulla necessitàche sia tutelata espressamente l’autodifesa a livello costituzionale cfr. L. Marafioti, Scelteautodifensive dell’indagato e alternative al silenzio, Torino 2000, pp. 97-8.


114SAGGI E OPINIONIsone’ e non di ‘testimoni’) consente di ricomprendere nel novero di soggettisottoponibili ad interrogatorio anche quel dichiarante che sia a suavolta imputato in altro processo. Ne discende, ovviamente, che se un imputatosceglie di accusare altri davanti al giudice, secondo l’art. 111 rinunciairrevocabilmente al diritto al silenzio.Le indicazioni programmatiche costituzionali si sono tradotte nellalegge n. 63 del 2001, che, relativamente al tema di cui si tratta, ne ha innovatoin modo significativo i connotati originari, in seguito alla riformulazionedel terzo comma dell’art. 64 del c.p.p. e all’inserimento di una nuovadisposizione, il terzo comma bis. Ebbene, nel 3º comma dell’art. 64 alpunto b la norma ribadisce che prima dell’inizio dell’interrogatorio la personadeve essere avvertita che ha facoltà di non rispondere ad alcuna domanda(14 ) (avvertimento che era presente anche nella versione originariadell’art. 64). Al punto c invece, in ottemperanza al dettato costituzionale,stabilisce che qualora egli renda dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilitàdi altri, assumerà, in ordine a tali fatti, l’ufficio di testimone.Questa è la novità più rilevante e discussa della riforma: nella fase dibattimentalepuò accadere che uno stesso soggetto rivesta contemporaneamentee contestualmente la qualifica di imputato e di testimone( 15 ); il passaggiodall’una all’altra genera ‘conflitto di posizioni’, precisamente fra lafacoltà di non rispondere propria dell’imputato e l’obbligo di risponderesecondo verità esistente in capo al testimone ex art. 197 bis c.p.p.Uno dei risultati di attuazione dell’art. 111 della Costituzione sta proprioin questo: una consistente riduzione dell’incompatibilità a testimoniareex art. 197, poiché cade il divieto di sentire come teste l’imputatodi reato connesso a quello per cui si procede e l’imputato di reato collegato.Si nota dunque come, accanto all’avvertimento, per così dire, tradizionalerivolto all’imputato, le legge ne sottintende un altro di segno oppostoper rendere edotto l’interrogato sugli effetti delle sue dichiarazioni. In praticaegli deve innanzitutto sapere, sul modello angloamericano, che quantoda lui riferito all’autorità procedente potrà essere sempre utilizzato nei suoiconfronti, seppur nei limiti sanciti dalla legge processuale in ordine all’ef-( 14 ) Sono fatte salve le domande che riguardano le sue generalità, sulle quali grava unvero e proprio obbligo di rispondere secondo verità e di cooperare con l’autorità indagante,poiché tali dichiarazioni non intaccherebbero l’esercizio del diritto alla difesa (così O. Campo,Interrogatorio: 1) interrogatorio dell’imputato, inEnc. Dir., XXII, Milano 1972, p. 342;cfr. anche O. Mazza, Interrogatorio ed esame dell’imputato: identità di natura giuridica e diefficacia probatoria,inRiv.it.dir.proc.pen., 1994, p. 836; Id., L’interrogatorio e l’esame dell’imputatocit., pp. 113-114).( 15 ) Si sostiene che ciò avvenga per la prima volta in Italia: cfr. P. Tonini, Il diritto aconfrontarsi con l’accusatore, inDir. pen. proc., 1988, p. 1511; Id., L’alchimia del nuovo sistemaprobatorio: una attuazione del giusto processo?, inGiusto processo cit., pp. 7-8.


SAGGI E OPINIONI115ficacia propria dell’atto considerato. Tale ammonimento «punta comprensibilmentea rendere effettivo il ius tacendi»( 16 ).Il problema, però, nasce riguardo alla citata lettera c dello stesso art.64 terzo comma. Essa infatti, per quanto circoscritta ai casi di procedimentiteleologicamente connessi ex art. 12 comma 1 lett. c del c.p.p.(«se dei reati per cui si procede gli uni sono stati commessi per eseguireo per occultare gli altri») e a quelli di collegamento probatorio previsti dall’art.371 comma 2 lett. b («se si tratta di reati dei quali gli uni sono staticommessi in occasione degli altri, o per conseguirne o assicurarne al colpevoleo ad altri il profitto, il prezzo, il prodotto o l’impunità, o che sono staticommessi da più persone in danno reciproco le une delle altre, ovvero se laprova di un reato o di una circostanza influisce sulla prova di un altro reatoo di un’altra circostanza»), escludendo l’ipotesi in cui le dichiarazioni dell’imputatosi riferiscano alla responsabilità di coimputati del medesimoreato nello stesso procedimento o in procedimenti connessi ex art. 12comma 1 lett. a c.p.p., è comunque tale da far sorgere seri dubbi sull’effettivatutela, oggi, del ius tacendi.L’ibrida( 17 ) figura di soggetti, testimoni per quanto affermano neiconfronti degli altri, imputati per ciò che li concerne in via diretta( 18 ), qualitànel passato mantenute nettamente distinte, come risulta dall’art. 348,comma 3 del Codice Rocco, induce a chiedersi se l’imputato, in relazionea dichiarazioni rese su responsabilità di terzi, possa oppure no, nel procedimentoconnesso, esercitare quello che è stato chiamato un «uso obliquodel silenzio»( 19 ). Se la norma pare indicare sul punto una risposta negativa,tracciando una distinzione tra diritto al silenzio sul fatto proprio e diritto alsilenzio sul fatto altrui, nulla è invece pacifico sul piano ermeneutico e applicativo(20 ), e non solo per la palese difficoltà di separare nettamente all’internodelle singole dichiarazioni ciò che riguarda la posizione processualealtrui e quella relativa al suo autore( 21 ), ma anche per l’evidente con-( 16 ) R. Orlandi, Dichiarazioni dell’imputato su responsabilità altrui: nuovo statuto deldiritto al silenzio e restrizioni in tema d’incompatibilità a testimoniare, inIl giusto processo tracontraddittorio e diritto al silenzio, a cura di R. E. Kostoris, Torino 2002, p. 162.( 17 ) La definizione è di G.D. Pisapia, Relazione introduttiva, inLa legislazione premiale.Atti del XV Convegno Enrico de Nicola, Milano 1987, p. 34.( 18 ) Cfr., tra gli altri, A. Giarda, Le ‘‘novelle di una notte di mezza estate’’, inLe nuoveleggi penali, Padova 1987, p. 137; P. Tonini, Giusto processo, diritto al silenzio ed obbligo diverità: la possibile coesistenza, inStudi in ricordo di Giandomenico Pisapia, vol. II Procedura<strong>penale</strong>, Milano 2000, p. 735-40.( 19 ) P. Ferrua, Il processo <strong>penale</strong> cit., p. 61.( 20 ) V. Grevi, Il diritto al silenzio dell’imputato sul fatto proprio e sul fatto altrui, inRiv.it.dir.proc.pen., 1998, p. 1136.( 21 ) Cfr. C. Conti, Le nuove norme sull’interrogatorio dell’indagato (art. 64 c.p.p.), inGiusto processo. Nuove norme sulla formazione e valutazione della prova (legge 1º marzo 2001,n. 63), a cura di P. Tonini, Padova 2001, pp. 201-9.


116SAGGI E OPINIONItrasto nascente tra due diritti di difesa ugualmente meritevoli di protezione(22 ).Si pone, in altri termini, il problema di valutare il silenzio come unfatto contra ius o secundum ius. Nella dialettica domanda-risposta si trattadi stabilire se e quando il soggetto interpellato possa o no rimanere in silenzioe, di conseguenza, quale sia il significato dell’elusione della domanda,giungendo alla conclusione che il silenzio dell’imputato è un diritto,quello del testimone è un delitto, in ragione del variare, nei due casi,della finalità dell’interrogatorio: nel primo prevale la garanzia di difesa equindi l’interesse dell’imputato; nel secondo la ricerca della verità e quindil’interesse dell’interrogante. Occorre perciò accertare, per stabilire l’eccezionalitào meno dell’esistenza di un dovere a rispondere, a quale interessela legge accordi maggiore tutela: solo così l’attesa di risposta diventa legittimaaspettativa delusa dal silenzio( 23 ).La figura dell’imputato accusatore induce perciò a ripensare il temadel silenzio. La dottrina avverte quanto sia precario il bilanciamento tra dirittoal confronto con l’accusatore (che incita ad ampliare quanto più possibilela cerchia dei soggetti obbligati a rispondere secondo verità) e dirittodell’imputato di sottrarsi alle domande incrociate opponendo un inespugnabilesilenzio. È, in altri termini, il dilemma tra istanza del contraddittorioex art. 111 Cost. nei confronti di chi accusa e diritto di astenersida risposte autoincriminanti.L’art. 111 Cost. e l’art. 64 3º comma c.p.p. sanciscono, di fatto, la perditadi un diritto al silenzio totale a carico dell’imputato connesso( 24 ). Nonmanca chi scorge nelle tendenze legislative attuali un pericoloso ritorno alpassato( 25 ), attraverso la creazione di un sistema che mira a valorizzare ledichiarazioni contra se, ed eventualmente contra alios, dell’indagato, inventandostrategie processuali volte ad ottenere ad arte confessioni ‘spontanee’da parte di chi potrebbe appellarsi alla facoltà di non rispondere, grazie ad( 22 ) Per non parlare poi della possibilità che l’imputato, onde evitare ogni conseguenza,decida fin dal principio di astenersi da qualunque dichiarazione, con conseguente dispersionedel sapere processuale.( 23 ) A. La Torre, Silenzio cit., p. 552.( 24 ) Esistono tuttavia in merito posizioni sfumate. Queste mirano a precisare comel’imputato che rende dichiarazioni sulle responsabilità di altri coimputati in realtà non mettein gioco alcun interesse difensivo: non avrebbe senso, pertanto, invocare il diritto di difesaper escludere l’assunzione degli obblighi testimoniali sul fatto altrui. Cfr. M. Chiavario,Contraddittorio e ‘‘ius tacendi’’: troppo coraggio o troppa prudenza nell’attuazione di una riformacostituzionale ‘‘a rime (non sempre) obbligate’’?, inLeg. pen., 2002, pp. 146-8; O. Dominioni,Un nuovo idolum theatri: il principio di non dispersione probatoria,inRiv. it. dir. proc.pen., 1997, p. 764.( 25 ) P. Corso, Diritto al silenzio: garanzia da difendere o ingombro processuale da rimuovere?,inStudi in ricordo di Giandomenico Pisapia, cit., pp. 167-90, il quale esplicitamentedichiara che oggi sembra di ripercorrere «all’indietro strade già battute» (ivi, p. 189).


SAGGI E OPINIONI117una politica ‘premiale’ che ricorda da vicino esperienze che si credevanosuperate( 26 ).Questo segnerebbe, a detta di alcuni, la sconfitta di un impianto processualpenalistico che per anni, come vedremo, ha sbandierato la propriacapacità di giungere al giudizio finale facendo a meno del supporto conoscitivodell’imputato. Oggi si pone nuovamente al centro del processo il recuperodelle dichiarazioni dell’accusato, accogliendo il principio di non dispersionedella prova.Un ritorno alle origini? Lo storico del diritto (e non lui soltanto, adire il vero) ritrova spunti familiari quando, ad esempio, scorre il dibattitodottrinale in atto sull’abuso della carcerazione preventiva (filo dicontinuità con le logiche inquisitorie del passato)( 27 ), o sulla promessadi impunità, premi, benefici, sconti di pena a chi decide di collaborare,quasi che nella circolarità degli eventi tornassero a galla argomenti giàdibattuti.Se la ‘nuova legislazione premiale’ è lontana dal poter essere assimilataalla tortura dei bui tempi andati, con questa tuttavia condivide il caratterepersuasivo e la capacità di pressione sulla volontà dell’imputato, limitandonela libertà di autodeterminazione. Simili incentivi dimostrano come alcunesoluzioni attuali possano accostarsi a quelle del passato: come allora,la parola dell’imputato rimane uno strumento necessario, talvolta persinoindispensabile, per ‘far vivere’ il processo, combattere la delinquenza e stanarei colpevoli. Sotto forme e con modi diversi, si cerca tuttora la collaborazionedell’imputato per «supplire alle carenze funzionali di un sistema incapacedi fronteggiare il fenomeno criminale senza ricorrere al contributodi chi è presunto innocente»( 28 ).In un simile schema la protezione ad oltranza e senza eccezioni del dirittoal silenzio assume i contorni di una sorta di ‘forma patologica’ ingrado di generare conseguenze devastanti. Si profila il timore che «il dichiarantecontra alios», attraverso un «uso improprio» di tale diritto, finiscaper sottrarsi al contraddittorio con l’accusato, con buona pace dei dettamicostituzionali( 29 ). La tutela del diritto al silenzio – si sostiene – non andrebbespinta oltre misura: non sino al punto, cioè, di scalfire l’effettivitàdel contraddittorio. Il rischio che tale confine possa esser travalicato esiste,sia in senso oggettivo (il silenzio potrebbe risultare di ostacolo all’accerta-( 26 ) Sul punto O. Mazza, L’interrogatorio e l’esame dell’imputato cit., pp. 359-68.( 27 ) T. Padovani, La soave inquisizione. Osservazioni e rilievi a proposito delle nuoveipotesi di ‘ravvedimento’, inRiv. it dir. proc. pen., 1981, p. 541.( 28 ) O. Mazza, L’interrogatorio e l’esame dell’imputato cit., p. 366.( 29 ) M. Ceresa Gastaldo, Le dichiarazioni spontanee dell’indagato alla polizia giudiziaria,Torino 2002, pp. 18-20.


118SAGGI E OPINIONImento del fatto) che soggettivo (in quanto vanifica la pretesa dell’accusatoal confronto con l’accusatore)( 30 ).Si è parlato di uno sviluppo ipertrofico di tale facoltà. Essa avrebbefinito per compromettere un intero settore della sfera probatoria, entrandoin collisione con l’esigenza di garantire la completezza dell’accertamento. Sisarebbe configurato, a detta di alcuni, un eccesso di tutela, che avrebbeposto le premesse per un uso improprio, deviato del diritto in questione(31 ).Si apre dunque una nuova stagione per il processo <strong>penale</strong>, che imponedi rivedere l’intangibilità e la sacralità di quel ius tacendi lentamente e faticosamenteaccolto nel nostro ordinamento( 32 ). Una simile ‘conquista diciviltà’, costata secoli di elaborazioni dottrinali e legislative, di voci solitariespesso inascoltate, è apparsa per lungo tempo una sorta di «rivoluzione copernicana»(33 ) e come tale intoccabile. La ‘seconda rivoluzione’ operatadalla riforma del 2001 sembra invece far vacillare certezze ( 34 ), prospettarecambi di visuale non da tutti condivisi, delineare una «netta involuzionedelle scelte di politica legislativa»( 35 ).L’«innovazione fondamentale»( 36 ) della legge del 1969, inserita in unmeccanismo processuale in grado di reprimere i reati e di accertare le responsabilitàpenali senza avvalersi del sapere dell’imputato( 37 ), appare oggil’ombra, quasi il simulacro di se stessa, mentre strisciante si insinua l’idea( 30 ) P. Ferrua, Il contraddittorio è salvo, ora va circoscritto il diritto al silenzio, inDirittoe giustizia, vol. IV, n. 37, 2000, p. 9.( 31 ) Significativo, sul punto, l’intervento di R. Orlandi, Dichiarazioni dell’imputatocit., pp. 153-95.( 32 ) È stato osservato come l’innovazione normativa del 1969 abbia scalfito stentatamenteradicati orientamenti giurisprudenziali, rischiando di rimanere ‘lettera morta’ per lamalcelata insofferenza mostrata dalla magistratura. Cfr. V. Grevi, «Nemo tenetur se detegere».Interrogatorio dell’imputato e diritto al silenzio nel processo <strong>penale</strong> italiano, Milano 1972,pp. 63-66; F. Cordero, Procedura <strong>penale</strong>, Milano 1987, p. 1129.( 33 ) C. Conti, L’imputato nel procedimento connesso. Diritto al silenzio e obbligo diverità, Padova 2003, p. 17; A. Nappi, Il codice di procedura <strong>penale</strong> torna alle origini,inDirittoe giustizia, vol. I, n. 1, 2000, p. 6.( 34 ) Inequivocabili le parole, a tal proposito, di Ceresa Gastaldo: «nonostante le affermazionidi principio necessariamente coerenti con i postulati costituzionali, il diritto al silenzioha subito e sta attraversando una profonda crisi» (M. Ceresa Gastaldo, Le dichiarazionispontanee cit., pp. 7-8). Ancora più esplicito Tonini, che parla di una «rinuncia irrevocabileal silenzio» imposta all’indagato o all’imputato che abbiano reso dichiarazioniriguardanti la responsabilità di altri (P. Tonini, L’alchimia cit., p. 36; Id., Riforma del sistemaprobatorio: un’attuazione parziale del ‘‘giusto processo’’, inDir. pen. proc., 2001, p. 271).( 35 ) O. Mazza, L’interrogatorio e l’esame dell’imputato cit., p. 320.( 36 ) Così G. Vassalli, Relazione alla Camera dei Deputati, inLe Leggi, 1969, p. 950.( 37 ) Sulle vicende più recenti di tale diritto, dalla legge del 1969, al modificato art. 78del codice Rocco, all’art. 64 del c.p.p. 1988, prima della legge del 2001, cfr. D. Barbieri,voce Interrogatorio nel processo <strong>penale</strong>, inDigesto delle discipline penalistiche, vol. VII, Torino1993, pp. 222-33.


SAGGI E OPINIONI119che «alla tutela del contraddittorio possa essere subordinata la tutela deldiritto al silenzio e che non via sia altra strada percorribile se non quelladi ridimensionare lo ius tacendi», da più parti avvertito come un fardelloormai ingombrante( 38 ).«Si tratta di un punto cruciale sul quale si giocano le garanzie di civiltàconquistate dopo secolari ed eroiche lotte contro il potere assoluto»( 39 ).Una simile affermazione, unita alla preoccupazione che il passato possa riproporsicome un ‘modello pericolosamente attrattivo’, rappresenta un invitoirresistibile per lo storico, che si sente chiamato in causa, pronto ad‘affilare le armi’ del suo sapere e delle sue metodologie di indagine per ripercorrerea ritroso le vicende storico-giuridiche nelle cui pieghe si annidano,forse, le risposte ai timori odierni.Le ragioni di una neppur troppo sotterranea «ostilità che parte delladottrina italiana tuttora mostra verso qualunque arretramento sul frontedella tutela del diritto silenzio»( 40 ) vanno forse ricercate in una sorta dipaura ancestrale di ritornare là dove ogni forma di garanzia era negata all’imputato.Il recupero, da parte del giurista, della dimensione storica è un’esigenzaavvertita dagli stessi studiosi di diritto vigente, come dimostrano alcuniinterventi miranti a sottolineare «l’imprescindibilità di una precisa ricostruzionedel diritto dell’Ottocento e delle sue premesse illuministicheper la interpretazione delle istanze politiche ed ideologiche dell’esperienzagiuridica contemporanea»( 41 ). Alla domanda di storia dei processualpenalistinon è possibile che rispondere «come giuristi a giuristi da parte deglistorici del diritto (ché tale è il ruolo di questi ultimi)»( 42 ): forse, l’idealeviaggio che ci apprestiamo a compiere potrebbe contribuire a decifrare megliol’oggi e scrutare i contorni del domani.2. L’antefatto: ad eruendam veritatem. – È un viaggio che prende le( 38 ) Cfr. P. Corso, Diritto al silenzio cit., pp. 177-83. Per un ridimensionamento deldiritto al silenzio cfr. P. Tonini, La prova, Padova 1998, p. 75; Id., Giusto processo, diritto alsilenzio ed obbligo di verità: la possibile coesistenza, inStudi in ricordo di Giandomenico Pisapiacit., pp. 727-43. Si segnalano, tra i tanti, gli interventi di E. Amodio, Il regime probatorioconseguente alla separazione di procedimenti connessi, inAmodio, Dominioni, Galli,Nuove norme sul processo <strong>penale</strong> e sull’ordine pubblico, Milano 1978, p. 47; C. Vettori, Dirittodell’imputato a confrontarsi con colui che lo accusa e diritto al silenzio: l’ordinamento inglese,inLe nuove leggi penali, Padova 1998, p. 273.( 39 ) C. Conti, L’imputato nel procedimento connesso cit., p. XV.( 40 ) C. Conti, L’imputato nel procedimento connesso cit., p. 17.( 41 ) E. Amodio, Diritto al silenzio o dovere di collaborazione? A proposito dell’interrogatoriodell’imputato in un libro recente, inRivista di diritto processuale, 29 (1974), pp. 408-9.( 42 ) A. Cavanna, Storia e scienza del diritto <strong>penale</strong>, inI Regolamenti penali di papaGregorio XVI per lo Stato pontificio (1832), rist. anast., in Casi, fonti e studi per il diritto <strong>penale</strong>,serie II, Le fonti, 16, Padova 2000, p. CCXCVI.


120SAGGI E OPINIONImosse,enonacaso,dalSettecento:secolodisnodo,alqualegiungecompatta l’eredità del passato, ma dal quale, al contempo, si dipartonosuggestioni e intuizioni destinate a segnare il tracciato delle scelte future.L’eredità ècostituita da un processo <strong>penale</strong> che vive della parola dell’imputatoe che intorno ad essa costruisce le sue trame. Il silenzio è consideratouna sfida, un’offesa alla corretta amministrazione della giustizia:sterile dispersione del sapere giuridico in un rito, come quello inquisitorio(43 ), che riposava sulla deposizione dell’indagato e che a quella tendevacon spasmodico sforzo.Un sistema che ‘inseguiva la verità’ non poteva permettersi di soffermarsisulla tutela di istanze soggettive. L’imputato era ancora lontano dall’esserericonosciuto titolare di diritti intangibili. Egli era al servizio dellamacchina giudiziaria, protagonista, sì, ma per un unico fine: non intralciarneil corso. La sua eventuale scelta di tacere era gravida di conseguenze,tutte negative: la giustizia non poteva arretrare di fronte al rifiuto dell’accusatodi offrire risposte chiare alle sue richieste. Si individuò, perciò,nel silenzio un indizio, non sufficiente alla condanna, ma legittimo tantoda condurre alla tortura.Se non si arrivò all’estremo di considerare colpevole, e perciò condannabile,l’indagato taciturnus( 44 ), equiparandolo sic et simpliciter al con-( 43 ) Così descrive efficacemente Carmignani il rito inquisitorio: «questo processo, quasitutto concentrato in se stesso, sembra un uomo, che aspetti l’altro all’agguato» (G. Carmignani,Teoria delle leggi della sicurezza sociale, t. IV, Pisa 1832, p. 66).( 44 ) Si è cercato nel diritto romano il fondamento di tale soluzione e si è spesso guardatoal frammento di Paolo (D. 50.17.142) in cui si afferma che chi tace non può considerarsiconfessus, mentre D. 11.1.11.4. equipara il silenzio alla parola oscura. In materia di confessioni,tacite od espresse, i giuristi romani distinguevano tra ambito civile e <strong>penale</strong>, comericorda anche Nicolini: «ne’ giudizii penali non mai que’ sommi filosofi parificarono per regolagenerale alla confessione espressa del reo il suo silenzio», richiamando in questo senso ilpasso paolino sopra citato (N. Nicolini, Della procedura <strong>penale</strong> nel Regno delle due Sicilieesposta [...] colle formole corrispondenti dedicata alla Maestà del Re N.S., parte III, vol. I, Napoli1831, p. 321). Più esplicito sul punto era stato Ambrosini, il quale, annoverando il silenzio,al pari della maggioranza dei suoi colleghi, tra gli indizi sufficienti e legittimi per disporrela tortura, considerava come conseguenza ovvia che «si tacens haberetur pro confesso,utique non esset torquendus, sed condemndandus» (T. Ambrosini, Praxis criminalis siveprocessus informativus, Augustae Taurinorum 1750, lib. III, cap. VII, n. 13, p. 160). Così anchesi esprimeva Filangieri, per il quale l’equiparazione presente nel diritto romano (confessuspro iudicato est, qui quodammodo sua sententia damnatur: D. 42.2.1, ma si veda anche D.11.1.11.4 che stabilisce il principio che il silenzio serve di prova per la legittimità e la giustiziadella proposizione dell’attore) riguardava i giudizi civili e non criminali (G. Filangieri, Lascienza della legislazione, Genova 1798, t. III, pp. 240-1, nt. 2). Si veda anche uno dei piùautorevoli commentatori della Riforma toscana del 1838, A. Ademollo, Il giudizio criminalein Toscana secondo la Riforma leopoldina del MDCCCXXXVIII. Cenni teorici pratici, Firenze1840, § 1388, p. 359.


SAGGI E OPINIONI121fessus( 45 ), si giunse ad un risultato simile per via mediata, frapponendo alladiretta equivalenza silenzio=confessione lo ‘schermo’ dei tormenti, insuperabilestrumento produttivo di parole.Si avvertiva il pericolo logico insito nell’attribuire al silenzio le stesseconseguenze della confessione: l’una è parola, l’altro ne è la negazione( 46 ).Chi non parla non ammette né nega e perciò il suo silenzio non può essereinterpretato come una ficta confessio.Il tacens, tuttavia, poneva in atto un comportamento ostruzionistico(47 ), che interrompeva l’iter normale del processo e violava «la leggesociale della chiarezza dei rapporti e quella processuale del rispetto del magistratoche interroga»( 48 ). Occorreva perciò rompere il ‘sigillo delle( 45 ) Sorprende pertanto trovare nei primi anni del XIX secolo un’affermazione in talsenso. Fondandosi sul diritto romano (le cui massime sono richiamate per sostenere soluzionidiametralmente opposte), Carlo Alberici considerava il silenzio una confessione tacita. Èvero, ritiene l’autore, che sulla base della massima del giureconsulto Paolo, vero perno attornoal quale ruota la costruzione del tema, qui tacet non utique fatetur, verum est eum negare(D. 50.17.142), ma esiste un contrapposto principio che consente di desumere la prova deldelitto da tutto ciò che ha rapporto con il medesimo (plurimum quoque in excutienda veritateetiam vox ipsa et cognitionis suptilis diligentia adfert: nam et ex sermone et ex eo, qua quisconstantia, qua trepidatione quid diceret, vel cuius existimationis quisque in civitate sua estquaedam ad inluminandam veritatem in lucem emergunt: D. 48.18.10.5). Da ciò Alberici desumeargomenti convincenti a sostegno della sua tesi, ossia che il silenzio si possa valutarecome una tacita confessione (C. Alberici, Commentarj sul codice di procedura <strong>penale</strong> pel Regnod’Italia, t. III, Milano 1812, p. 286). Sorprende l’epoca più che il principio, minoritario,ma comunque presente nella dottrina d’ancien régime, come attesta G. Mascardi, Conclusionumomnium probationum [...] volume primum, Augustae Taurinorum 1591, concl.CCCXLVIII, n. 31, f. 166, per il quale «ex taciturnitate alicuius praesumit confessionem».( 46 ) Giacomo Giuliani, Della procedura <strong>penale</strong>. Teoria, sez. III Delle interrogazioni, §88, ms. conservato presso la Biblioteca Antoniana di Padova, cod. 667. Sull’abate vicentino,professore di diritto criminale nell’ateneo patavino, cfr. A. Maggiolo, I soci dell’accademiaPatavina dalla sua fondazione (1599), Padova 1983, p. 145 e C. Carcereri de Prati, Lalibertas ecclesiae nel codice <strong>penale</strong> napoleonico, inCodice dei delitti e delle pene pel Regnod’Italia (1811), rist. anast. a cura di S. Vinciguerra, Padova 2002, pp. CLXXXII-CLXXXIII.Dello stesso avviso era anche Francesco Canofari, per il quale nei giudizi criminali non vi puòessere equipollenza fra silenzio e confessione per il fatto che «la confessione è un atto positivo,spontaneo, chiaro, circostanziato. [...] Sarebbe un logico ben infelice chi dicesse ‘‘B.interrogato ha taciuto. Dunque egli ha propinato il veleno’’. Non vi ha rapporto né proporzionequanto agli effetti. La confessione mena talvolta l’imputato ai ferri, all’ergastolo, allamorte. Soffrirebbe la giustizia che il suo silenzio abbia la forza stessa» (F. Canofari, Commentariosu la parte quarta del Codice per lo Regno delle Due Sicilie o sia su le leggi della procedurane’ giudizi penali, Napoli 1830, lib. I, tit. V Mandati contro gli imputati, §§ VII-VIII,pp. 192-3).( 47 ) Marchetti ipotizza in proposito un «atteggiamento di ribellione, di sfida nei confrontidel potere incarnato dal giudice», tale da giustificare la punizione (P. Marchetti, Testiscontra se. L’imputato come fonte di prova nel processo <strong>penale</strong> dell’età moderna, Milano1994, p. 119).( 48 ) M.S. Goretti, Il problema cit., p. 175. È quanto con conclamata chiarezza affermaAdemollo, per il quale la prova dei delitti riguarda la «pubblica salute, e perciò chiunque


122SAGGI E OPINIONIlabbra’ e costringere l’imputato a rivelare ciò di cui era a conoscenza. Era ilsegnale più evidente della debolezza endemica dell’intero impianto processuale,che implicitamente ammetteva di non essere in grado di raggiungereil proprio scopo (l’accertamento della verità giudiziale) senza l’aiuto della‘parte antagonista’, le cui dichiarazioni costituivano così non già un valoreaggiunto al quadro probatorio acquisito, ma l’unica base giustificativa dellacondanna.Nel ‘clima inquisitorio’( 49 ) l’interrogatorio era considerato ilfulcro dell’intero procedimento, momento fondante dell’accusa, piùche strumento di protezione e di tutela dell’imputato. L’esame dell’inquisitoera infatti condotto prima che si aprisse la fase difensiva vera epropria, consistente nella pubblicazione del processo( 50 ), anche se, avvertonoalcuni autori, ciò avveniva per mera consuetudine e non già inottemperanza alla legge, la quale anzi, sul punto, si mostrava contraria(51 ).Se esiste ancora qualche dubbio sulla funzione dell’interrogatorio nelprocesso <strong>penale</strong> di diritto comune, bastano a dissiparlo alcune citazioni, trale tante che efficacemente potrebbero essere riportate: «perché l’interrogareil reo ordinatamente, chiaramente, sottilmente, debitamente e condurlocon l’essame accomodatamente al confessare la verità ècosa moltodifficile e consequentemente molto laudabile, è d’honoro a chi la safare»( 52 ). La finalità dell’esame dell’inquisito appare qui una sola: giungeread eruendam veritatem( 53 ).Non è un caso che molte pratiche del tempo si soffermino sull’‘arte’dell’interrogare. Esse elaborano veri e propri prontuari per i magi-viene legittimamente interrogato deve rispondere; diversamente delinque contro la pubblicasicurezza» (A. Ademollo, Il giudizio criminale cit., § 1388, p. 359). Identico concetto èespresso da Giacomo Giuliani, Della procedura <strong>penale</strong> cit., sez. III Delle interrogazioni,§ 88.( 49 ) E. Amodio, Clima inquisitorio e clima accusatorio: due prassi a confronto, inDif.Pen., 20-21 (1988), p. 29.( 50 ) La pubblicazione del processo comportava la messa a disposizione degli atti processualialle parti, che solo in quel momento potevano prenderne visione al fine di preparare,entro un arco di tempo ridotto (dai tre agli otto giorni), le proprie difese. Nella pubblicazionedel processo si ravvisa solitamente l’avvio della fase difensiva, una difesa riconosciuta sulla‘carta dei principi teorici’, ma vanificata nell’esercizio sostanziale. Sia consentito rinviare almio Inseguendo la verità. Processo <strong>penale</strong> e giustizia nel Ristretto della prattica criminaleper lo Stato di Milano, Milano 1999, pp. 188-205.( 51 ) Ristretto di pratica criminale raccolto da più scelti e rinomati autori in cui sarannocitati i loro sentimenti non solo, ma le loro sentenze, Piobbico 1794, p. 41, nt. 84.( 52 ) M.A. Tirabosco, Ristretto di pratica criminale che serve per la formatione de’ Processiad offesa, Fuligno 1702, p. 76. L’autore rivela tuttavia un sussulto di consapevolezzadell’importanza e della delicatezza di questo compito, allorché aggiunge che su questo «sideve molto invigilare» (ivi, p. 76).( 53 ) Cfr. V. Manzini, Trattato di diritto processuale <strong>penale</strong>, vol. I, Torino 1967, p. 52.


SAGGI E OPINIONI123strati( 54 ), finalizzati ad istruirli in modo da vincere ogni resistenza frappostadall’indagato e «quasi insensibilmente, e contro sua voglia cavalidi bocca ora un indizio, ora l’altro, e finalmente la verità»( 55 ). L’obiettivoera quello di perfezionare una «sapiente tecnica discorsiva che solo allafine di un lungo percorso produceva i suoi effetti»( 56 ). Simili indicazioninon sono patrimonio della sola dottrina; si traducono anche in ‘manualinormativi’ inseriti in alcuni codici del tempo che trasformano in precettiimperativi semplici consigli o suggerimenti di tecniche istruttorie( 57 ).L’imputato è dunque fonte di prova nel suo processo( 58 ) in quantosoggetto informato dei fatti( 59 ). Il meccanismo inquisitorio ne fa forzosamenteun alleato per evitare di restare irreversibilmente paralizzato( 60 ).Chi è sotto inchiesta contiene in sé ‘la verità’( 61 ), a cui tende la macchina( 54 ) Tra i tanti si veda, per la loro particolare valenza ed efficacia, F. Cartari, Theoricaeet praxis interrogandum reorum libri quatuor, Venetiis 1600, lib. II, pp. 12-31; G.B. Cavallino,Actuarium practicae criminalis, §Quid agendum sequuta condemnatione pecuniariavel capitali, Milano 1587, f. 61; T. Ambrosini, Praxis criminalis cit., lib. III, cap. II, n. 4-7,pp. 135-6; Ristretto (1794) cit., pp. 47-52; T. Briganti, Pratica criminale, Napoli 1842, tit.II, § II, pp. 104-114 e tit. V, pp. 202-13.( 55 ) Ristretto (1794) cit., n. 105, p. 150.( 56 ) Così P. Marchetti, Testis contra se cit., p. 59.( 57 ) Ne costituisce un ottimo esempio il codice austriaco, in cui non è estranea un’aurapedagogica che proprio in tema di interrogatorio rivela la propria intima ambiguità. Il codicetenta qui di calibrare, in precario ed instabile equilibrio, volontà garantistica e intenti punitivi,affidando a magistrati abili nell’uso delle pratiche inquisitorie il compito di incarnare ilvolto paternalistico della legislazione conciliandolo con la capacità di condurre l’interrogatoriofino a ‘penetrare’ l’anima stessa dell’indagato. Ed è così che «un codice in qualche modogarantistico comincia a diventare terribile» (Cfr. A. Cavanna, Ragioni del diritto e ragioni delpotere nel codice <strong>penale</strong> austriaco del 1803, inCodice <strong>penale</strong> universale austriaco (1803), rist.anast., Padova 2001, pp. CCXXXV-CCCCXLV; in quest’ultima pagina si trova la citazioneriportata). Cfr. M. Sbriccoli, Giustizia criminale, inLo Stato moderno in Europa. Istituzionie diritto, a cura di M. Fioravanti, Roma-Bari 2002, p. 185.( 58 ) «La persona contro cui si dirige la ricerca speciale è dal processo considerata comemezzo di prova» (G. Carmignani, Teoria cit., p .69).( 59 ) Ad un imputato che qualora confessi merita fede, perché conosce meglio di chiunquealtro lo stato dei fatti, fanno riferimento G. Carmignani, Teoria cit., p. 138; C.G. Mittermaier,Teoria della prova nel processo <strong>penale</strong>, trad. it., Milano 1858, p. 167. Dello stessoparere è Bentham, per il quale le prove che si ricavano dall’accusato sono le più soddisfacentiperché le più credibili (J. Bentham, Teoria delle prove giudiziarie, trad. it., Bruxelles 1842,p. 279).( 60 ) Il problema di evitare la dispersione del sapere è sìesigenza insopprimibile per ilsistema inquisitorio, ma, come si è visto nelle pagine precedenti, è una necessità anche delnostro processo: in modi diversi rispetto al passato, in una prospettiva garantistica sconosciutaai tempi andati, all’interno di un processo che si è ormai emancipato dalla necessaria confessionedell’indagato, «la disciplina delle modalità acquisitive del sapere della persona neicui confronti si procede conserva intatta la sua fondamentale e peculiare rilevanza», a dimostrazionedi una continuità fra ieri e oggi su tematiche centrali (O. Mazza, L’interrogatorio el’esame dell’imputato cit., p. 2).( 61 ) L’imputato è visto come «una scatola umana che racchiude una verità materiale da


124SAGGI E OPINIONIdella giustizia. Come è stato efficacemente sostenuto occorre «premere sull’interrogato(sarei per dire: spremere l’interrogato) per ottenerne una rispostapositiva»( 62 ), con mezzi che vanno dalla coazione psicologica allatortura.Quest’ultima, ricordiamolo, veniva impiegata in una svariata serie diipotesi, tutte generate direttamente dall’interrogatorio( 63 ). Se il reo fingevasmemoratezza, se si mostrava reticente, se si contraddiceva, se ritrattavaquanto appena ammesso, se deponeva circostanze inverosimili, se coinvolgevanella responsabilità del reato altri soggetti e se, ovviamente, si rifiutavadi rispondere.Il silenzio era perciò inammissibile in un processo ossessionato dallaparola. Esso rappresentava la sconfitta dell’autorità procedente (indagantee giudicante, come sappiamo): «il ‘taciturnus’ costituisce un caso tecnicamentemal riuscito, anche se fosse condannato su prove ottenutealiunde»( 64 ) e per questo gli si imponeva di parlare e di parlare contrase( 65 ).Nei confronti di un imputato tenacemente silenzioso la tortura era applicata«ut certum respondeat», come sosteneva la maggior parte della dottrina.Scorrendo le pratiche criminali del tardo diritto comune, si comprendeche la taciturnitas dell’interrogato andava ad alimentare la vasta schiera diquegli indizi di cui il giudice poteva avvalersi non per irrogare la pena( 66 ),tirar fuori pezzo per pezzo» (A. Cavanna, Giudici e leggi a Milano nell’età del Beccaria, inCesare Beccaria tra Milano e l’Europa, Milano 1990, p. 179).( 62 ) F. Carnelutti, Principi del processo <strong>penale</strong>, Napoli 1960, p. 184. L’espressione èpoi ripresa da Cordero, che scrive infatti di un imputato «inteso come il depositario di unaverità da spremere» (F. Cordero, Procedura <strong>penale</strong>, ed. Milano 1987, p. 19; ed. 2003,p. 23).( 63 ) «L’interrogatorio è della tortura il padre legittimo [...] è un istituto ‘violento’, perchénasce dal presupposto che la verità appartiene solo a chi detiene il potere, mentre i sospettatisono dei ‘rei’ che devono solo confessare» (I. Mereu, Storia dell’intolleranza in Europa,Milano 2000, pp. 205-6).( 64 ) F. Cordero, Procedura <strong>penale</strong> (2003) cit., p. 247.( 65 ) A. Giarda, «Persistendo ‘l reo nella negativa», Milano 1980.( 66 ) L’estrema varietà di prassi esistenti non consente di sostenere che questa fosse lasoluzione univocamente accettata. Di fronte ad un quadro probatorio che non permetteval’irrogazione della pena ordinaria e tuttavia costituito da indizi formanti una prova semipiena,il giudice aveva davanti a sé due possibilità: o ‘accontentarsi’ di disporre la pena straordinariasulla base delle risultanze processuali (seguendo una politica del diritto che gli consentivadi ‘punire meno’ ma di punire comunque) o accettare il rischio della tortura. Quest’ultimaoffriva comunque un’alea: se l’imputato confessava (e poi ratificava ladichiarazione estorta), il giudice raggiungeva la piena prova e poteva dare attuazione alla sanzionecollegata al reato (e questo rappresentava per l’inquirente una vittoria); se il torturatosopportava lo strazio delle carni, purgava gli indizi e doveva in forza di ciò essere liberato.Ciò nonostante, un motivo di ‘consolazione’ derivava dal fatto che si vedeva nella tortura unasorta di castigo anticipato, un patimento ‘ragionevole’ in virtù del forte sospetto di colpevolezzanutrito nei suoi confronti (cfr. Ristretto [1794] cit., n. 181, p. 88). Si conferma così in-


SAGGI E OPINIONI125ma per disporre la tortura( 67 ). Si trattava d’un elemento privo in sé di pienadirettamente la veridicità del principale attacco dell’illuminismo contro la tortura, ossia il suoessere sostanzialmente una pena (sul punto v. P. Fiorelli, La tortura giudiziaria nel dirittocomune, vol. I, Milano 1954, pp. 223-31). Nell’Ottocento, Brugnoli, rifiutando che il silenziofosse da intendersi come finta confessione, elencava una serie di cause di tale contegno chenulla avevano a che spartire con la colpevolezza. Si poteva trattare di timore, di naturale timidezza,di perplessità, di mancata comprensione delle domande, di sbalordimento ed orroredi fronte ad un’accusa calunniosa, di indignazione, di generosità. Per questo l’autore invitavaad annoverare il silenzio fra gli indizi remoti, al pari della latitanza e della contumacia(G. Brugnoli, Della certezza e prova criminale col confronto di varie legislazioni d’Europa edin specie d’Italia, Modena 1846, § 567, pp. 456-9). Di «urgente indizio di reità» parla inveceil Buonfanti, ad attestare, una volta di più, le contrastanti posizioni della dottrina (J. Buonfanti,Della istruzione de’ processi criminali in Toscana. Commentario, Lucca 1850, p. 251).( 67 ) Èuna soluzione che trova consensi fin dal Cinquecento. A titolo meramente esemplificativocfr. P. Follerio, Practica Criminalis Dialogica, Venetiis 1575, rubr. Etsi comparent,n. 3, p. 151 e rubr. Et si confitebuntur, III parte, § 3, n. 4, pp. 351-2; G.B. Cavallino,Actuarium cit., § Quid agendum sequuta condemnatione pecuniaria, vel capitali, f. 61; G. Novello,Tractatus singularis defensione omnium reorum [...], Venetiis 1586, n. 46, pp. 121-122 («si ad interrogationem praedictam [reus] taceret haberet satis sufficens inditium ad torturamquod taciturnitas in civilibus facit semiplenam probationem [...] ea quae in civilibusfaciunt semiplenam probationem, in criminalibus faciunt sufficiens inditium ad torturam»);F. Cartari, Theoricae et praxis interrogandum reorum cit., lib. III, cap. II, n. 1-3, p. 57; O.Cavalcani, Tractatus de brachio regio sive de libera, ampla et absoluta potestate iudicis supremiin prosequendo, iudicando et exequendo, Venetiis 1608, parte III, n. 62-5, pp. 102-3 («exhac taciturnitate insurgens auspicio vehemens facit, ut merito torqueri possit»); P. Farinacci,Praxis et theoricae criminalis...partis primae tomus primus [tertius], Lugduni 1613-16, t. II,q. XXXVII, n. 176, p. 190 [se in questo passo l’autore afferma che coloro che non voglionorispondere «optime torti sunt», in un altro punto sostiene che «non respondens positionibushabetur pro confesso, tamen non ostante hac ficta confessione, potest qui non respondetprovare contrarium si vult», generando una contraddizione, evidente sì, ma tuttavia relativa,poiché questa indicazione di Farinaccio si inserisce in un più ampio discorso riguardante ilcontumace, contestualizzato in quella serie di praemitto, limita, sublimita, amplia che connotano– e complicano – lo svolgimento logico-razionale del pensiero del celebre giurista (Id.,Praxis cit., t. I, q. XI, n. 7, p. 130)]. Non solo, ma forse un aiuto ci può venire da Mancini, ilquale precisa che chi «non repondet positionibus habeatur pro confesso in causa civili, idnon procedit in criminali» (V. Mancini, De confessionibus tam iudicialibus, quam extraiudicialibus[...] tractatus, Romae 1611, cap. VI, n. 32, p. 176); S. Guazzini, Tractatus ad defensaminquisitorum, carceratorum reorum, et condemnatorum super quocunque crimine, Venetiis1639, lib. I, tit. I, defens. XX, cap. XVI, n. 1, p. 369; L. Priori, Pratica criminale secondo ilrito delle leggi della Serenissima Repubblica di Venetia, Venetia 1678, p. 70; A. Barbaro,Pratica criminale, Venezia 1739, p. 122; M.A. Bassani, Theorico-praxis criminalis additaad modernam praxis D. Thomae Scipioni, Ferrariae 1755, l. III, cap. VI, n. 3-6, p. 257 (dovesi afferma che se il reo non vuol rispondere «saltem per tres monetur vices ad respondendum»e se di nuovo persiste nel diniego, lo si ammonisce un’ultima volta, con l’avvertenzache la sua ostinazione varrà come indizio a tortura). Diversa nella finalità, ma non nella sostanzala posizione di Ambrosini, il quale ritiene che il reo che rifiuti di rispondere alle domandedel giudice «potest torqueri, non ad eruendam veritatem, sed ad habendam praecisamresponsionem affirmativam vel negativam». In ragione di ciò egli può essere torturatonon solo quando rifiuti di rispondere «totaliter, sed etiam quando praecise responderenon vult»: altra questione oggi ripropostasi alla dottrina, che si chiede se l’imputato possa


126SAGGI E OPINIONIvalenza probatoria, ma legittimo presupposto per ottenere con la forza la reginaprobationum( 68 ).I criminalisti, in realtà, mischiavano le carte, gettando manciate di‘fumo garantistico’ negli occhi, sostenendo che i tormenti non miravanoad estorcere una confessione, ma a far sì che si rispondesse «adeguatamentee congruamente all’interrogazioni»( 69 ). Il confine tra risposta e confessioneesiste ed è di immediata evidenza; diventa però labile e sfumatoquando si tenti di tracciarlo all’interno di un rito che, prendendo a prestitole parole di Beccaria, fa della tortura un crogiolo di verità.Il dato certo è lo spasmodico bisogno del contributo fattivo del sog-opporre il silenzio sull’intero interrogatorio, o decidere a favore di un ‘silenzio selettivo’, distinguendoa seconda del tipo di domanda proposta (T. Ambrosini, Praxis criminalis cit.,lib. III, cap. VI, n. 2, pp. 158-9). Simile impostazione si trova in A. Bonifazi, Institutionescriminales, Venettis 1768, l. IV, tit. V, n. 24, p. 204 («Il reo poi che ricusa di onninamenterispondere, o risponde incongruamente, si deve forzare a rispondere precisamente a forza ditormenti, perché èobbligato a dare risposta precisa, o assolutamente affermativa, o negativa»);e ancora, quasi traduzione letterale di Ambrosini: «se adunque il reo nell’atto dell’esamericusa di rispondere [...] si può tormentare colla corda, e non già per avere la verità deldelitto, ma per avere le risposte affermative, o negative», ammonendolo che «la sua taciturnitàsi conterà e s’avrà fra gli indizi contro di lui per il delitto e per il negozio principale [...] ese sostiene la taciturnità nel tormento non si ha per confesso» (A. Bonifazi, Nuova succintapratica civile, e criminale utile e necessaria a’ giudici, procuratori, attuarj, e cancellieri criminale[...], Venezia 1783, parte III, cap. XXVIII, pp. 178-9). Questa sintetica carrellata, dal valoremeramente esemplificativo, induce ad una riflessione su come il medesimo atteggiamentodell’inquisito, ossia il chiudersi nel silenzio, fosse produttivo di effetti diametralmente oppostinella fase pre e post tortura. Se nell’ambito del costituto il silenzio conduce l’indagato asubire i tormenti, la capacità di mantenerlo mentre si subisce l’orrore della violenza fisicaconduce l’imputato alla salvezza e alla liberazione. Ancora una volta si propone il dualismotra ‘silenzio colpevole e innocente’, così come siamo di nuovo di fronte alla dimostrazioneche nel sistema inquisitorio l’assenza di parola è in grado di determinare la sconfitta del processo.E si è così poco propensi ad accettare l’idea che «non vengano parole dal tormento delreo» che si preferisce spiegare questo atteggiamento ricorrendo alla magia, agli incantesimi,al sortilegio (M. Sbriccoli, «Tormentum idest torquere mentem» cit., p. 25).( 68 ) Precisa Fiorelli che anche se la tortura non può essere definita tecnicamente unmezzo di prova (lo sarebbe la confessione che con essa si ottiene), non è del tutto inesattoconsiderarla tale, in quanto la locuzione mezzo di prova può in senso lato indicare anche queifatti e quegli elementi che servono ad agevolarne l’attuazione giudiziale (P. Fiorelli, La torturacit., vol. I, pp. 190-1).( 69 ) «E se [il reo] non volesse rispondere all’interrogazioni, o dicesse non so, non miricordo, o quel che ho detto è scritto, e simili, all’ora si deve far torturare, non per estorquerela verità, cioè la confessione del delitto, ma acciò risponda adeguatamente e congruamenteall’interrogazioni». Non può sfuggire quell’incidentale equiparazione svolta dall’Anonimo redattoredel Ristretto fra verità e confessione. Cfr. Ristretto per la prattica criminale cit., f. 33,in Appendice a L. Garlati Giugni, Inseguendo la verità cit., p. 302. Identico concetto sitrova in M. A. Tirabosco, Ristretto cit., p. 86. O ancora: «Ma quale si è l’oggetto dell’interrogatoriodell’imputato? Niun altro che quello di sentire le sue discolpe nel caso che fosseinnocente, o di conseguire dal medesimo la confessione del proprio reato , ove risultasse colpevole»(C. Alberici, Commentarj cit., p. 279).


SAGGI E OPINIONI127getto, a cui si chiede di proclamarsi o colpevole o innocente; ciò che rilevaè che egli parli per evitare che il silenzio rappresenti lo scoglio su cui si infrangela speranza di un processo produttivo di soluzioni certe( 70 ).Era questo un lascito del passato, un punto fermo irrinunciabile e finoal Settecento mai messo seriamente in discussione. Ad esempio, un attentoosservatore e un testimone fedele della prassi come l’alessandrino GiulioClaro non nutriva alcun dubbio che in caso di «reus constitutus coramiudex» il quale «nihil respondeat [...] debet iudex illum ponere ad torturamet cogere ut respondeat affermative vel negative». E parimenti certosi mostrava sul fatto che «talis tortura non datur reo ad eruendam veritatem[...] sed ad extorquendam responsionem». Come sempre, l’illustrerappresentante del Senato milanese non si sottrae ad una presa di posizionepersonale. Fotografata la realtà giudiziaria, egli esprime una propria valutazione:«est iudicio meo bona pratica et eam saepe vidi observari nonmodo quando reus non vult respondere super facto principali, scilicet ancommiserit homicidum vel non, se etiam super circunstantiis substantialibuspertinentibus ad ipsum delictum», condendo il tutto con ricordi diretti(71 ).Se in pieno XVIII secolo sul punto vi è concordanza di massima tra igiuristi, non mancano tuttavia voci dissenzienti, numericamente esigue manon per questo flebili, che si levano contro l’esperimento dei tormenti neiconfronti dell’indagato silente, considerando ciò contrario ai principi postidal superiore ordine naturale.È proprio con l’individuazione e l’enucleazione di diritti soggettivi, appartenentiall’uomo in quanto tale, che muta lo scenario processuale. Gliscopi del giudice e quelli dell’imputato, che nel processo inquisitorio finivanoper coincidere, tornano nuovamente a separarsi e quasi impercettibilmente,ma significativamente, il principio del reus tenetur se detegere vacilla e si affaccia,seppure in modo ancora incerto e confuso, quello del nemo tenetur.Si cerca di modificare la logica del processo e il ruolo delle parti, diribaltare alcuni canoni di lettura consolidati. Si passa dalla presunzionedi colpevolezza a quella di innocenza; dalla figura del giudice inquisitorea quella del magistrato super partes, dall’imputato testis contra se a quelladi soggetto titolare di diritti e destinatario di garanzie, prima fra tutte ilnon essere l’artefice e il responsabile principale della propria condanna.( 70 ) Cfr. M. Sbriccoli, «Tormentum idest torquere mentem» cit., pp. 17-32.( 71 ) «Et recordor» che il 18 ottobre 1554 «quidam Moncinus», interrogato su una rissacui si sospettava avesse preso parte, non voleva né rispondere né giurare. Il Senato pensòbene di infliggere tre tratti di corda pubblicamente, ottenendo alla fine il risultato sperato,se mai vi fossero dubbi sull’efficacia di simile strumento: «deinde reductus ad carceres iuravit»(I. Clarus, Volumen alias Liber Quintus, Venetiis 1570, § Finalis, quaestio XLV, vers.Sed pone, f. 130).


128SAGGI E OPINIONISi nota, in linea di massima, un affievolimento dell’obbligo a rispondere all’interrogatorio,e a rispondere il vero, mentre si fa lentamente largo l’ideache nessuno possa essere tenuto ad accusare se stesso( 72 ).Vi è chi, come Franchino Rusca, adombra l’esistenza di un vero e proprio‘diritto dell’imputato a rimanere in silenzio’, enunciazione sorprendentementeanticipatrice di quelle che saranno conquiste dei secoli futuri.Individuando nei principali e originari diritti di natura la fondamentalelegge che impone a ciascuno la conservazione di se stesso, nessuna legislazione,secondo l’autore, può esigere da un uomo che egli diventi strumentodella sua morte, ponendo quasi in mano al carnefice la scure «per boccasua stessa»( 73 ). La lunga dissertazione, svolta dall’autore al fine di confutarel’uso della tortura nei confronti dell’indagato silenzioso, è un piccoloscrigno di indicazioni sulle ragioni che militano a favore del sovvertimentodella prassi in atto, accreditata presso i tutti i tribunali, ma foriera di iniquità.Rusca non si accontenta di ciò. Egli rifiuta anche il parere di chi, purlasciando intravedere un’intima ripugnanza verso il ricorso alla violenza fisica,mostra di non saper rinunciare alla parola dell’indagato. Taluni, infatti,suggerivano di soppiantare l’uso della quaestio con la minaccia rivoltaall’inquisito di considerare il suo silenzio come un indizio indubitato( 74 ),bastevole a renderlo convinto e quindi a condannarlo legittimamente allapena ordinaria( 75 ). Sprezzante dell’intimidazione ed incurante dellospettro della pena, l’accusato poteva tuttavia decidere di persistere in un( 72 ) Cfr. T. Hobbes, Leviatano, trad. it., Roma 2000, pp. 151-152. Si tratta della prima«massima del garantismo processuale accusatorio» (L. Ferrajoli, Diritto e ragione cit., p.623). Anche Tommaso Briganti sul punto velatamente interviene; mentre istruisce il giudicesul comportamento da tenere di fronte all’interrogato, lo ammonisce che nessuno «è obbligatosempre di palesare tutto quello, che ha nell’animo» e che il rapporto tra inquirente edaccusato non deve ricalcare quello tra confessore e penitente. «È cosa certa» – prosegue Briganti– «che Iddio ci ha tanto raccomandato il silenzio per tacere certe verità dannose, quantoci ha dato la facoltà del parlare per pubblicare le necessarie» (T. Briganti, Pratica criminalecit., tit. V, n. 33, p. 208 e n. 48, p. 212). Si veda anche F. Carrara, Programma cit., §932, p. 449, nt. 1.( 73 ) L’Autore configura in capo ad ogni uomo un dovere a conservare se stesso, e ciò lodispensa dal rispondere al giudice se ciò sia per lui in qualche modo dannoso (F. Rusca,Osservazioni pratiche sopra la tortura, Lugano 1776, p. 21).( 74 ) Sul delicato problema posto dagli indizi indubitati, terreno di incontro tra valorelegale della prova e libero convincimento del giudice, mi si consenta di rinviare al mio Il diabolicointreccio cit., pp. 387-419.( 75 ) Di simile avviso era Pietro Verri, che, pur avendo consegnato alla memoria paginedi non comune bellezza sulle ragioni militanti a favore dell’abolizione della tortura, cerca,tuttavia, di trovare modi indiretti per costringere «a rispondere un uomo che interrogatodal giudice si ostina al silenzio», giungendo a schierarsi a favore di quanti sostenevano«che una sola legge che abrogasse la tortura sarebbe dannosa al corso della giustizia, qualoracontemporaneamente non venisse promulgata l’altra che dichiarasse convinto» chi ricusi di


SAGGI E OPINIONI129mutismo ad oltranza. Che fare in questo caso, si chiede Rusca? Il giudicenon dispone che di due alternative: o non dà seguito alle minacce e rinunciaad emettere la sentenza (vanificando l’utilità delle intimidazioni) ovi dà corso e pronuncia la condanna del reo. È a questo punto che si toccacon mano la fragilità della costruzione: «Quale sarà il delitto, onde si vorràpunire?». Di che cosa l’individuo sarà chiamato a dar conto? «Di ostinazionea non rispondere?». E cosa è mai questa «colpa ancora sconosciuta?»(76 ).L’autore coglie il cuore del problema: la pena non può essere irrogatase non in ragione di un reato commesso e il silenzio non può di certo annoverarsitra le ipotesi di illecito previste dalle legge. Sono gettate le basi diun ribaltamento di prospettiva che induce a non vedere più nell’imputatouna «bestia da confessione»( 77 ).Troppo semplice pensare che d’ora in poi la strada da percorrere sarebbestata tutta in discesa. In realtà, di fronte ad un simile tema, la dottrinaprocede ‘per strappi’, per concessioni e ripensamenti, per arretramentie progressioni( 78 ). Nemmeno i piú insigni esponenti dell’illuminismo<strong>penale</strong> riusciranno ad esprimere sino in fondo, sul punto, la propria caricadirompente.È innegabile che i riformatori settecenteschi determinarono una sferzatadestinata a smuovere l’immobilismo stagnante. Tuttavia la loro autenticabattaglia ‘vincente’ fu quella condotta contro la tortura: il ripudio dell’assurdapretesa che «il dolore divenga crogiuolo di verità, quasi che il criteriodi essa risieda nei muscoli e nelle fibre di un miserabile»( 79 ),comportava di escludere che un uomo potesse essere al contempo accusatoreed accusato. Ma tale valore pacificamente condiviso dai philosophesrispondere (P. Verri, Osservazioni sulla tortura, ed. a cura di G. Barbarisi, Milano 1993, §15, p. 106). Non stupisce pertanto che di identico segno sia la soluzione prospettata da Beccaria,il quale sul brogliaccio delle Osservazioni dell’amico Verri stilò il suo phamplet. Cfr. L.Garlati Giugni, Molto rumore per nulla? L’abolizione della tortura tra cultura universitariae illuminismo giuridico: le Note critiche di Antonio Giudici a Dei delitti e delle pene, in Formareil giurista. Esperienze nell’area lombarda tra Sette e Ottocento, Milano 2004, pp. 274-5 erelative ntt.( 76 ) F. Rusca, Osservazioni cit., p. 31.( 77 ) F. Cordero, Procedura <strong>penale</strong> (2003) cit., p. 25.( 78 ) Carmignani, in un noto passo, bollava come stravagante ed assurda la proposizioneche vede nei mezzi usati per indurre l’imputato a rispondere il vero un attentato abusivo etirannico alla sua libertà di rispondere, con la motivazione che concedere nel giudizio <strong>penale</strong>una libertà illimitata di rispondere a proprio talento finirebbe per «supplantare il diritto d’interrogarenon che quello di avere risposte coerenti alla verità» (G. Carmignani, Teoria cit.,pp. 213-4).( 79 ) C.Beccaria, Dei delitti e delle pene, Edizione nazionale delle Opere di Cesare Beccaria,diretta da L. Firpo e G. Francioni, Milano 1984, § XVI, p. 62.


130SAGGI E OPINIONInon significò necessariamente accettazione da parte di tutti di un diritto alsilenzio, né la sua configurazione come tecnica difensiva.Anzi, il personaggio più rappresentativo del movimento, Cesare Beccaria,mostra a tal proposito qualche cedimento e non poche incoerenze.Dopo aver regalato pagine di esemplare lucidità e di intenso pathos nel §16 del suo celeberrimo libro, dedicato a dimostrare l’inutilità della tortura,spostando il discorso da accenti moraleggianti ad un’analisi di politica deldiritto, nel § 38, intitolato Interrogazioni suggestive, deposizioni, il Marchesereclama per «colui che nell’esame si ostinasse a non rispondere alleinterrogazioni fattegli» una pena fissata dalle leggi, per giunta «delle piùgravi che siano da quelle intimate»( 80 ).Mal si concilia questa richiesta di sanzionare penalmente il silenzio conla premessa iniziale del suo ragionamento: vi è una commistione di elementiche inducono Beccaria ad esigere, da un lato, l’abolizione della tortura,ma al tempo stesso a sostenere la necessità della confessione( 81 ). Cosìlampante appare l’ambiguità di fondo di tale riflessione da indurre un anonimoprofessore pavese, Antonio Giudici, a vergare con mano sicura unareplica che, se non appare degna del più acceso riformista, svela impietosamentee con toni vivaci tale incongruenza: «non dovea l’Autore, che sisforza in più luoghi di promover cotanto la dolcezza delle pene, e che affettadi favorir l’innocenza ragionar così. Egli vuole, che si castighi con una dellepene più gravi colui, che si ostinasse a non rispondere al giudice. Pardunque, che l’Autore approvi pure in tal caso qualche tormento, che lo costringaa parlare [...] poi omette di dire in favor dell’accusato, che potrebbetal pena essere ingiusta, odiniqua»( 82 ).Il pensiero di Beccaria rimane una ‘bella incompiuta’, innaturalmentespezzato sul filo del traguardo: «Una volta ripudiati gli istituti della torturae del giuramento dell’imputato, sarebbe stato logico escludere la configurabilità,nei confronti del medesimo, di un dovere di rispondere all’interrogatorio»(83 ), a dimostrazione che la via per giungere ad affermare la «spontaneitàdei meccanismi di autodeterminazione dell’individuo in sede di interrogatorio<strong>penale</strong> [...] e del riconoscimento all’imputato della possibilità( 80 ) C. Beccaria, Dei delitti e delle pene cit., § XXXVIII, p. 117.( 81 ) È una posizione definita ora deludente (L. Ferrajoli, Diritto e ragione cit., p.701, nt. 285) ora incongruente (V. Grevi, «Nemo tenetur» cit., p. 14).( 82 ) A. Giudici, Apologia della giurisprudenza romana, o Note critiche al libro intitolato:Dei delitti, e delle pene, Milano 1784, nota CCXLII al § 38, p. 208. Mi permetto di rinviarea Molto rumore per nulla? cit., pp. 309-10.( 83 ) V. Grevi, «Nemo tenetur» cit., p. 14. Marchetti ritiene invece che la riflessionesvolta sul punto da Beccaria sia perfettamente coerente con l’insieme dell’opera, tanto darappresentarne la logica conseguenza (P. Marchetti, Testis contra se cit., pp. 270-1, nt.267).


SAGGI E OPINIONI131di astenersi dal rispondere all’interrogatorio» era lastricata, per ora, solo dibuone intenzioni( 84 ).Per un Beccaria che perde l’occasione di proporsi, anche su tale questione,come profondo innovatore, c’è un Filangieri pronto ad osare di più.Riprendendo le posizioni di Rusca e maturando le acerbe intuizioni diHobbes, Gaetano Filangieri ribadisce l’esistenza di un diritto naturale alsilenzio. È la natura che chiude la bocca al reo; l’istinto di conservazione,di sopravvivenza è più forte di qualunque altro stimolo: «la confessione deldelitto, portando sicuramente la perdita o dell’esistenza, o di una partedella sua felicità, richiede o uno sforzo superiore al contrario impulso dellanatura, o un’illusione, che gli faccia vedere nella perdita di una di questedue cose l’acquisto di un bene più grande»( 85 ), ponendolo nella stessa condizionedel suicida, il quale si dà la morte con le proprie mani credendo diravvisare nella fine dell’esistenza l’acquisto della felicità piuttosto che il terminedelle sue sciagure. Se – continua il filosofo napoletano – la primalegge di natura esige che ognuno preservi la propria vita, qualsiasi patto socialeche intimi di confessare è da considerarsi nullo, in quanto costringe aviolare un principio antecedente e superiore al diritto positivo( 86 ).Le argomentazioni di Filangieri conducono ad enucleare concettualmenteun vero e proprio diritto-dovere al silenzio( 87 ), cui l’imputato nonpuò contravvenire senza infrangere la legge di natura che gli ingiunge ditacere. Il magistrato che pretenda di punirlo per questo motivo lo istigaa commettere due delitti «quando egli potrebbe non essere reo che diun solo»( 88 ).( 84 ) V. Grevi, «Nemo tenetur» cit., p. 12.( 85 ) G. Filangieri, La scienza della legislazione cit., pp. 238-9.( 86 ) G. Filangieri, La scienza della legislazione cit., p. 283.( 87 ) G. Filangieri, La scienza della legislazione cit., p. 290, nt.( 88 ) G. Filangieri, La scienza della legislazione cit., p. 285. Echi di una simile impostazionesi trovano anche nell’opera di Francesco Maria Pagano, che, pur non affrontandodirettamente il problema del ius tacendi, sviluppa gli enunciati di Filangieri e, prima ancora,di Beccaria, spogliando di ogni aura la confessione (vista come violazione del diritto naturaledell’uomo a conservare se stesso e da considerare come mero indizio e non già quale dimostrazionedi responsabilità) e il giuramento che pone l’individuo di fronte ad un bivio drammatico:salvare se stesso o non mentire alla presenza dell’eterno (F.M. Pagano, Principi delcodice <strong>penale</strong> e logica de’ probabili per servire di teoria alle prove nei giudizi criminali, Napoli1819, p. 149, ma in generale cfr. pp. 146-52). Lo stesso autore rafforzerà ulteriormente leproprie osservazioni definendo il giuramento e l’ammonimento a confessare il vero una «spiritualetortura»: se quella fisica costringe a riconoscersi colpevole, «il timore dello spergiurofa violenza allo spirito» (F.M. Pagano, Considerazioni sul processo criminale, Milano 1801,p. 110). La battaglia contro il giuramento non è originale né esclusiva prerogativa dell’illuminismo,che anzi raccoglie l’esperienza maturata dalla criminalistica passata, come attestacon onestà intellettuale il medesimo Pagano. Se non vi è una presa di posizione esplicita ediretta sul silenzio, la dissertazione sul giuramento, sulla tortura, sul valore della confessionecreano le premesse per ravvisare in esso un diritto e non una colpa. Più articolato il pensiero


132SAGGI E OPINIONISi tratta di soluzioni giudicate audaci e temerarie per quell’epoca, eppuredestinate, alla lunga, a prevalere. Non ora però, non subito. Lo confermala legislazione europea continentale settecentesca, e italiana in particolare,che, già poco incline per sua natura ad innovare, mostra, nei rariguizzi di ‘originalità’, di preferire e di recepire i cauti suggerimenti beccarianialla carica ideale insita nei postulati della dottrina progressista e minoritaria.La normativa d’ancien régime rivela l’esistenza d’uno stretto legame tradeferimento del giuramento di verità, tortura e spazi ‘protetti’ riservati alsilenzio, in una prospettiva inversamente proporzionale: ove si insiste suiprimi due aspetti, inevitabile è l’assenza del terzo.Se l’Ordonnance criminelle, nella versione definitiva, si ‘limitava’ nell’art.VII a pretendere il giuramento di verità dell’imputato, anche se ciòsignificava costringerlo a fare dichiarazioni contro se stesso( 89 ), nel dibattitoprecedente si era profilata una certa avversione verso questa scelta, sulpresupposto che il giuramento fosse un istituto contrario al diritto di natura:nul n’est tenu de se condamner soi-méme par sa bouche, che equivalea dire, in conformità ai principi romanistici, che esse inhumanum videtur,per leges quae periuria puniunt, viam periuriis aperiri (C.6.40.2.2). Lamoignon,tra gli altri, rimarcava che il giuramento imposto all’interrogato erastato introdotto non solo in Francia, ma nell’Europa intera dalla consuetudine,non dal diritto; era un’usanza, non un precetto normativo, come attestavaper l’appunto anche Giulio Claro, sostenendo che questo era sìl’uso in Francia, ma anche lo stylus communis Italiae, sebbene riprovatodalla prevalente opinio: «mihi certe haec practica nunquam placuit, quiaest manifesta occasio periurii»( 90 ).Le tesi sposate da quanti adombravano almeno la possibilità di salvaguardarsida se stessi in virtù di un principio naturale, e di ricevere perciòl’interrogatorio senza giuramento, erano definite «tres-grande, soutenue defortes raison [...] mais qu’aiant dépuis communiqué certe ouverture à Messieursles Commissaires du Roi, qui travaillent à la reformation de la justice,di Brugnoli, il quale considera la difesa un diritto naturale ed in ragione di ciò «dev’esserefacoltativo a ciascuno di proporla qual ei la creda opportuna», quindi anche attraverso il silenzio.Ma se concediamo al giudice la possibilità di punire colui che opta per il silenzio ècome se si attribuisse «il diritto di punire un inquisito perché cerca di difendersi» (G. Brugnoli,Della certezza e prova morale cit., § 569, p. 460).( 89 ) Ordonnance criminelle, (1670), rist. anast. Code Louis t. II, in Testi e documenti perla storia del processo, a cura di N. Picardi eA.Giuliani, Milano 1996, art. VII, p. 153. Pergli ultimi sviluppi nel processo francese si veda A. Astaing-G. Clemént, Les ‘‘muets volontaires’’dans la procedure <strong>penale</strong> française de l’epoque moderne et contemporaine, inTijdschriftvoor Rechtsgeschiedenis (Revue d’Histoire du droit – The Legal History Review), 70 (2002),pp. 291-316.( 90 ) I. Clarus, Volumen cit., § Finalis, quaestio XLV, vers. Sed pone, ff. 130-1.


SAGGI E OPINIONI133elle leur avoit paru de dangéreuse conséquence [...] nonobstant les raisonsalleguées par Mr. Le P. Président, l’article VII a été inséré dans l’Ordonnance»(91 ).La legislazione settecentesca pare invece accogliere tutte le variegateopinioni espresse da una dottrina ‘garantista a metà’. Immediata e diretta,ad esempio, è l’influenza di Beccaria sulle normative europee del tempo.«Singolare e interessante è la circostanza che l’idea della punizione dell’imputatoreticente non sia rimasta senza seguito sul piano politico legislativo»(92 ): e se ciò vale nell’immediato per l’Istruzione di Caterina II diRussia, che tradusse letteralmente la proposta del giovane aristocraticolombardo( 93 ), lo stesso può dirsi, come si vedrà più diffusamente nelle pagineseguenti, per il Codice universale dei delitti e delle pene austriaco.Sembra quasi che là dove ‘‘siedono sovrani illuminati’’ il pensiero di Beccariariesca ad affermarsi in virtù di una sostanziale aderenza ai programmidell’assolutismo: il ripudio della tortura, da una parte, l’adozione di sanzionicorporali per l’imputato silente dall’altra.Era apparsa più cauta Maria Teresa, che nella sua Constituto criminalisdel 1768 aveva scelto la via dell’intimidazione (la norma usa letteralmentel’espressione «acre minaccia»), non l’immediata applicazione della pena, finendoperò in quella sorta di vicolo cieco paventato da Rusca: la ratio delladisposizione risiedeva nell’ottimistica fiducia che la minaccia di adottare unsevero provvedimento (lasciato però nella assoluta vaghezza) partorissebuoni risultati, configurandosi quale sorta di costrizione legittima. Finqui i propositi. Desolatamente inefficace risultava invece il rimedio difronte al perseverare del silenzio( 94 ): «quand’anche ciò nulla giovasse», allasovrana non restava che adottare una linea ‘interlocutoria’, ossia disporre laconsultazione sul da farsi con il tribunale superiore( 95 ). A parte la discutibilitàdi una tecnica normativa che impedisce all’individuo di conoscere apriori il suo destino, con buona pace della certezza del diritto, siamo di( 91 ) Gli interventi più significativi sul tema sono riprodotti nella rist. anast. dell’Ordonnancecit. supra, pp. 153-61.( 92 ) V. Grevi, «Nemo tenetur» cit., p. 14.( 93 ) Istruzione emanata da Caterina seconda, imperatrice e legislatrice di tutta la Russia...perla redazione di un nuovo codice delle leggi ...tradotta nuovamente dal francese in linguatoscana, Firenze 1769, cap. X, § 181.( 94 ) Rusca enumera una serie di ragioni che possono spingere l’imputato a proseguirenella linea di condotta intrapresa a dispetto delle intimidazioni. Oltre alla nutrita speranza dinon vedere tramutata la minaccia in realtà, l’accusato può decidere di persistere nel diniegoper disprezzo della morte, per desiderio di distinguersi, per volontà di mostrare una fermezzasuperiore a quella dei suoi persecutori, per avversione verso la vita. Saranno «stravaganze,ma la stravaganza è sempre possibile» e tanto basta ad escludere ogni condanna nei confrontidi chiunque si ostini a tacere (F. Rusca, Osservazioni cit., p. 30).( 95 ) Constitutio criminalis Theresiana, Vienna 1769, art. XXXI, § 33, p. 34.


134SAGGI E OPINIONIfronte alla riprova di quanto fosse fondato lo scetticismo di Rusca verso laconcreta realizzabilità e, quindi l’utilità, di tale opzione.L’impasse non è meno evidente se si guarda ai progetti di riforma inatto in quegli stessi anni in Lombardia, sotto il dominio asburgico. IlNuovo piano della prattica civile e criminale e per lo Stato di Milano del1768, compilato dai senatori Giuseppe Santucci e Gabriele Verri, e destinato,nelle intenzioni dei redattori, a creare una struttura processuale semplice,breve, chiara e finalmente libera da ogni tipo di abuso, escludeva latortura per gli imputati negativi, ma la manteneva «se i rei non voglianorispondere o se non rispondano congruamente»( 96 ), a dimostrazione checonservatori e illuministi, separati da abissi concettuali, viaggiavano di concertoalmeno su di un punto: l’ostilità verso il silenzio. Gli uni e gli altri invirtù delle differenti premesse ideologiche maturavano poi risposte diverse(la tortura i primi, una pena i secondi), ma innegabilmente affine era lo spiritoche animava entrambi.Le ragioni che determinavano alla tortura sono condensate, con pregevolesintesi, nella consulta di Gabriele Verri del 19 aprile 1776, ossia nellareplica stilata dai senatori milanesi alla richiesta del governo di pronunciarsisull’abolizione della tortura, nella speranza che Milano si allineassecon quanto già disposto il 2 gennaio per l’Austria. Nella tenace difesa dellanecessità di mantenerla in vigore per fronteggiare una criminalità dilagante,Verri affrontava anche la vexata quaestio della taciturnitas. Sottolineato chela tortura mirava ad eruendam veritatem, il primo caso in cui la si consideravaesperibile era proprio quello del «reus qui iudici interroganti aut nonrespondet, aut congruum negat responsum: iste, si terque quaterque interrogatus,impulsus, territus obmutescit vel incongrue respondet, per hoc silentiumse prodit sontem. Cur enim tacet, si insons?». In questo interrogativoriposa un intero mondo.Perché tacere se si è innocenti? La cultura del sospetto abita qui. Lapresunzione di colpevolezza non potrebbe trovare paladino più efficace:si matura la convinzione che chi tace ha qualcosa da nascondere, qualcosache appartiene non a lui ma alla collettività, la quale deve conoscere i fattiper poter scoprire i perturbatori della pace sociale. Il ‘contumaciale silenzio’,come lo si definisce nel documento, lede la legitima interrogandi potestaset publica res bono exemplo fraudatur. In nome di ciò, si consentivaun turbinio di vessazioni: «excutitur pluries, vehementer urgetur metu infligenditormenti, si diutius se praebet contumacem. Isto plane casu torturaesubiicitur, ut tam iniuriosum iustitiae et legitimae potestati silentium,( 96 ) Si vedano le correzioni alle Regole per la Pratica criminale del Nuovo Piano, §Perregola generale, in ASMi, Miscellanea storica, cart. 56, p. 258, edito in G. Volpi Rosselli,Tentativi di riforma del processo nella Lombardia teresiana. Il Nuovo Piano di Gabriele Verri,Milano 1986, Appendice, p. 311, nt. 229).


SAGGI E OPINIONI135quo veritas premitur, frangatur»( 97 ). Insiste più volte su questo punto ilvecchio Verri nella sua risposta alla Corona, dimostrando che l’autodifesadel reo mediante il silenzio era inteso nell’ancien régime come un indizio dicolpevolezza. E si può dire – caso forse più unico che raro nel confronto adistanza sui temi processuali – che anche alcuni humaniores philosophierano nel caso di specie concordi con lui( 98 ).Le cose non andavano meglio fuori dai confini lombardi. Si può, anzi,affermare che le posizione più retrive, e al tempo stesso maggiormente rappresentativedella tradizione, si ritrovano nelle consolidazioni settecentesche,dove l’inveterata prassi criminale si fa norma: le Costituzioni piemontesi,nell’ultima edizione del 1770, quella, per intenderci, che tornerà adavere piena vigenza nell’interregno fra l’abolizione della codificazione napoleonicae la formazione dei codici sabaudi, riassumono tutte le potenzialichiusure di fronte al silenzio. La legislazione del Regno di Sardegna è sulpunto estremamente articolata: dopo aver esperito un perentorio quantovano invito a rispondere, dispone la tortura nei confronti del sospettoreo di delitto punito con la morte o con la galera, ma non pienamente provato,sempre che sussistano indizi di colpevolezza, seppur non indubitati(99 ). Un ultimo tentativo di condurre a ragionevolezza l’imputato èesperito prima di eseguire materialmente i tormenti: di nuovo minacce,di nuovo si prospettano bui scenari in risposta al perdurare del silenzio. Ribaditoche la tortura si propone come fine non la confessione, ma «d’averele di lui risposte», si stabilisce che se essa non apporta alcuna novità, persistendol’atteggiamento silente, si avrà «il delitto per confessato», non senzaperò aver primo informato i magistrati superiori dei passi compiuti( 100 ).Discorso diverso nel caso di reato non sanzionato con la morte o la galera,ma di cui esistano piene prove o indizi sufficienti per affermare la colpevolezzadell’indagato: l’imputato è in questo caso ammonito a parlaresotto pena di considerare il silenzio equivalente alla confessione( 101 ).Si noti come il testo faccia ‘tesoro’ dell’ampia gamma di soluzioni dottrinalifino a quel momento messe a punto, senza disperdere nulla di un( 97 ) La Consulta del senatore Verri è riprodotta in Appendice aS.Di Noto, Documentidel dibattito su tortura e pena capitale nella Lombardia austriaca, inStudi Parmensi, 19(1977), pp. 267-406, doc. n. 6, p. 393.( 98 ) Marchetti fornisce una possibile interpretazione della posizione sorprendentementeriottosa di alcuni riformatori del XVIII secolo. A suo avviso, la scelta di punire il silenzioconsentiva agli abolizionisti di convincere l’opinione pubblica che la scomparsa della torturanon avrebbe comportato una dilagante impunità dei criminali più incalliti (P. Marchetti,Testis contra se cit., p. 207, ma in generale pp. 202-8).( 99 ) Leggi e Costituzioni di Sua Maestà, t. II, Torino 1770, lib. IV, tit. XI, art. 20, pp.72-3.( 100 ) Leggi e Costituzioni di Sua Maestà, t. II, Torino 1770, lib. IV, tit. XI, art. 21, p. 73.( 101 ) Leggi e Costituzioni di Sua Maestà, t. II, Torino 1770, lib. IV, tit. XI, art. 22, p. 74.


136SAGGI E OPINIONItale ‘patrimonio di saggezza’: sembra una sorta di patchwork della carrellatafin qui presentata, sino a recuperare persino la soluzione piú paventata,ossia l’assimilazione del silenzio alla ficta confessio. Se Maria Teresa nonaveva osato andare al di là del mero avvertimento, rifiutando di dare esecuzionead intimidazioni che costringevano a scelte difficilmente sostenibilisul piano logico-giuridico, le Costituzioni sabaude intraprendono unastrada senza ritorno: «si comminerà a rispondere, sotto pena d’aversi il delittoper confessato; e dovrà aversi effettivamente per tale, quando replicatain altro diverso giorno tal comminazione, sarà ostinato in non rispondere»(102 ).Pervengono a conclusioni meno radicali, ma di analoga impronta leCostituzioni modenesi, che senza apportare alcun elemento di originalitàa quanto fin qui detto ricalcano vie già battute( 103 ).A fronte di simili normative ve ne sono altre in cui il garantismo sigioca su tre tavoli: finalità dell’interrogatorio (o concezione del ruolo dell’imputato),giuramento, tortura. La sorte degli ultimi due istituti dipendedalla modulazione assunta dal primo; l’ambito di operatività del silenzio è ilrisultato di queste tre componenti.È il caso della Riforma toscana del 1786. Al categorico divieto in essacontenuto di deferire il giuramento all’imputato, e non solo per ciò checoncerne il fatto proprio, ma anche relativamente al fatto di complici deldelitto per cui si procede( 104 ), corrisponde, quasi in logica ed inevitabile( 102 ) Leggi e Costituzioni di Sua Maestà, t. II, Torino 1770, lib. IV, tit. XI, art. 22, p. 74.( 103 ) Dedicando al problema un solo articolo, il Codice estense si limita a ribadirequanto si è esposto fino ad ora: il ricorso alla tortura al fine di estorcere informazioni, precedutadall’approvazione del Consiglio di Giustizia. Recita infatti la norma: «allorché l’inquisitoricusasse di rispondere categoricamente agl’interrogatori previe le opportune ammonizioni,si dovrà venire alla tortura per obbligarlo a rispondere, con avvertirlo di torturarloal solo fine d’avere le risposte, ben inteso però che a tale tortura debba precedere l’approvazionedel Nostro Consiglio di Giustizia, o de’ Feudatari rispettivamente» (Codice di leggi,costituzioni per gli Stati di Sua Altezza Serenissima, t. II, Modena 1771, lib. IV, tit. IX, art.VII, pp. 133-4). La norma sembra riprodurre quel conflitto di competenze e di giurisdizionetra Supremo Consiglio di Giustizia e giudicature locali ben espresso da C. E. Tavilla, Riformee giustizia nel Settecento estense. Il Supremo Consiglio di Giustizia (1761-1796), Milano2000, in partic. pp. 281-91; 405-22; 458-60 per ciò che concerne il profilo <strong>penale</strong>. Dello stessoautore si veda, relativamente al codice estense, Il codice estense del 1771: il processo civiletra istanze consolidatrici e tensioni riformatrici, introduzione a Codice estense 1771, Testi edocumenti per la storia del processo, a cura di N. Picardi eA.Giuliani, II sezione: Codicidi procedura civile degli Stati italiani preunitari, Milano 2001, in partic. pp. IX-XVI.( 104 ) La Riforma toscana recepisce appieno, dunque, il pensiero di Beccaria, che nel §XI del suo celeberrimo pamphlet esprimeva in modo chiaro l’assurdità d’imporre il giuramentoa chi aveva il massimo interesse ad essere falso «quasi che l’uomo potesse giurarda dovero di contribuire alla propria distruzione; quasi che la religione non tacesse nellamaggior parte degli uomini quando parla l’interesse [..] Perché mettere l’uomo nella terribilecontradizione, o di mancare a Dio, o di concorrere alla propria rovina? talché la legge, che


SAGGI E OPINIONI137consequenzialità, l’abolizione della tortura, «non eccettuatane alcunaspecie, siccome non eccettuato verun caso, né veruno degli effetti per iquali era stata nei processi criminali per l’addietro praticata»( 105 ).E lo stesso può dirsi per la Norma interinale di Giuseppe II, risalenteal medesimo ‘glorioso’ anno per il <strong>penale</strong> (il 1786) ed ispirata dalla identicamatrice ideologica della Leopoldina, entrambe creature di un’unica filosofiapolitica( 106 ). Anche tale ‘codice di procedura <strong>penale</strong>’( 107 ), destinato nelleintenzioni a traghettare la Lombardia dal particolarismo, soggettivo e oggettivo,all’entrata in vigore in via definitiva del Regolamento di procedura<strong>penale</strong> che si andava nel frattempo predisponendo, e rivelatosi invece neifatti una regolamentazione di lunga durata, imponeva al giudice di astenersidall’esigere dall’inquisito il giuramento, «essendosi rilevato coll’esperienza,che il giuramento anzi che influire alla verità èsoventi volte unanuova occasione di delinquere collo spergiuro»( 108 ).Al tempo stesso, l’art. XXI era interamente dedicato ai mezzi sostituitialla tortura, la quale era evidentemente considerata strumento incerto e pe-obbliga a un tal giuramento, comanda o di essere cattivo cristiano o martire» (C. Beccaria,Dei delitti e delle pene cit., § XVIII, p. 70). «E perciò il gran Pietro Leopoldo, nel dare il suocodice alla Toscana, nell’art. 6 statuì il primo in Europa» l’abolizione dell’obbligo di giurare(N. Nicolini, Della procedura <strong>penale</strong> nel Regno delle due Sicilie esposta [...] colle formolecorrispondenti dedicata alla Maestà del Re N.S., parte III, vol. II, Napoli 1831, § 984. pp.373-4). Ancora: «il giuramento dell’imputato, che il codice leopoldino in Toscana ebbe lagloria di ripudiare prima di ogni altro codice in Italia, non venne mai più riprodotto nellaPenisola né in altri stati di Europa» (F. Saluto, Commenti al codice di procedura <strong>penale</strong>per il Regno d’Italia, vol. II, Roma-Torino-Firenze 1877, p. 546). L’autore ritiene che taledisposizione ispirò l’art. 232 del codice di procedura <strong>penale</strong> del 1865 e che entrambi presentasserola stessa base logica: quella di impedire che un individuo risultasse all’interno dellamedesima causa accusato e testimone, poiché rivelazioni rese sul fatto altrui potevano contenereaccuse indirette verso se stessi. Se – osserva il Saluto – le dichiarazioni sono vincolatedal giuramento, l’individuo è posto in quella atroce alternativa (mentire per salvarsi e quindispergiurare o divenire ‘omicida’ di se stesso) che le moderne legislazioni, cresciute all’ombradegli insegnamenti di Beccaria, devono evitare. Realizza una particolare ricostruzione dellefasi che portarono all’abbandono del giuramento nel processo <strong>penale</strong> E. Allorio, Il giuramentodella parte, Milano 1937.( 105 ) Cfr. artt. VI e XXXIII delle Legge toscana del 30 novembre 1786, consultata nell’ed.critica di D. Zuliani, La riforma <strong>penale</strong> di Pietro Leopoldo, inLa ‘‘Leopoldina’’. Criminalitàe giustizia criminale nelle riforme del ‘700 europeo, 2, Milano 1995, p. 47. Sul punto T.Nani, Nuova legislazione criminale da osservarsi nella Toscana, Milano 1803, pp. 11-3 e 37.( 106 ) In questo senso si esprime E. Dezza, Il codice di procedura <strong>penale</strong> del Regno italico(1807). Storia di un decennio di elaborazione legislativa, Padova 1983, p. 6.( 107 ) Provin ritiene che con l’entrata in vigore della Norma interinale si possa dire iniziatal’età dei codici, segnando un punto di non ritorno nell’evoluzione del moderno ordinamentoprocessuale <strong>penale</strong> (G. Provin, Una riforma per la Lombardia dei lumi. Tradizione enovità nella ‘‘Norma Interinale del processo criminale’’, Milano 1990, p. 58).( 108 ) Norma Interinale del processo criminale per la Lombardia austriaca, Milano 1786,art. XIV, § 162, p. 90.


138SAGGI E OPINIONIricoloso per il conseguimento della verità. Ciò non significava rinunciare aperseguire l’accertamento dei fatti: «Non potendo però una norma generaleservire a tutti i casi, viene commesso al R. tribunale d’Appello di prescrivereall’uopo li mezzi opportuni per superare l’ostinazione de’ rei, ondela giustizia non ne risenta pregiudizio da quella»( 109 ).Le norme di Giuseppe II si collocano a metà tra quanto disposto daMaria Teresa, prima di lui, e il superamento della visione cristallizzatadel processo <strong>penale</strong>. Ne sortisce un risultato in bilico tra rifiuto dell’anticoed esitazione verso il nuovo che avanza. Da un lato il sovrano sembra invitareil giudice a fare a meno dell’imputato come strumento di prova: la suaparola, secondo l’Imperatore austriaco, può essere la conferma delle informativeacquisite, può rafforzare il quadro probatorio, ma non deve più essereconsiderata indispensabile. L’invito è di ‘costruire’ solidi processi, nondi fabbricare castelli accusatori così fragili da essere spazzati via dal silenzio.Si vuole, insomma, assicurare il corso della giustizia indipendentementedal comportamento che l’imputato riterrà di tenere.Una vittoria? Non completamente. Si tratta quasi più di un’enunciazionedi intenti che di una vera informativa di principio dell’intero processo.Perché, a dispetto delle ottime premesse, con lo stile enfatico che a volte contraddistingueil frasario giuridico dei codici austriaci, si afferma altresì chequalora l’interrogato ricusi di spiegare, e non appaghi il bisogno di conoscenzadella giustizia con congrue e sincere risposte, lo si deve ammonire affinchéparli. E se l’ostinazione permane, i giudici, in linea con la soluzione giàadottata dalla Constitutio Theresiana, sono invitati a fare relazione al tribunaled’appello ed attendere istruzioni sulla condotta da assumere nei diversicasi, a discapito di una celere spedizione della causa( 110 ). Manca l’espressaprevisione di sanzioni, è vero, e questo segna un progresso rispetto alle stesseIstruzioni divulgate dall’Imperatore( 111 ), ma permane la preoccupazione per( 109 ) Norma Interinale cit., art. XXI, § 238, p. 131.( 110 ) Norma Interinale cit., art. XXI, § 239, pp. 131-2.( 111 ) Le Istruzioni per i Tribunali, Giudici, e Podestà sìRegi che Feudali di tutte le Curiedella Lombardia austriaca di quanto dovranno osservare nella costruzione de’ Processi Criminali(ASMi, Giustizia punitiva, p.a., cart. 6, fasc. 10), disciplina transitoria destinata a fornireun metodo giudiziario negli anni 1784-1786, fino all’entrata in vigore della Norma Interinale,lamentavano il massiccio impiego della tortura quale diretta conseguenza e riprovevole necessitàdiscendente dalla «poca esattezza e negligenza» con cui si formavano i processi criminali.Si invitavano pertanto i giusdicenti della Lombardia austriaca ad assumere con lamassima cura e diligenza tutte le informazioni possibili per disporre dei mezzi legittimi ondegiungere alla scoperta e alla punizione dei colpevoli. Tuttavia, qualora l’indiziato negava dirispondere al giudice, dopo tre diffide a desistere da tale comportamento, lo si riteneva colpevoledel delitto ascrittogli e non veniva più ascoltato. Il giudice aveva tuttavia la facoltà diconcedere all’imputato un termine massimo di 24 ore entro le quali gli era ancora consentitochiedere un’audizione: se anche queste trascorrevano vanamente «dovrà essere consideratoquale reo contumace pienamente convinto, e come tale punito secondo la disposizione di


SAGGI E OPINIONI139la totale assenza di certezza circa la sorte dell’imputato. Il compromessoregna sovrano: siamo ancora allo stadio d’un tentativo, confuso e timoroso,di pensare ad un processo <strong>penale</strong> con forma e regole diverse rispetto al passato,senza perdere però in efficacia repressiva.Da ultimo, vale la pena di segnalare che la legislazione costituzionaledelle repubbliche giacobine italiane non affronta mai questo tema nello specifico.Del dibattito illuministico e delle articolate istanze garantististiche finqui esaminate le Costituzioni del triennio ‘rivoluzionario’ recepiscono quasiesclusivamente le regole attinenti alla tutela della libertà personale.Una rapida scorsa alle leggi fondamentali di quella stagione attesta chele norme dedicate al processo <strong>penale</strong> s’incentrano per lo più sulle condizioniper procedere all’arresto, sulle modalità e i tempi del controllo giurisdizionale,sulla competenza e sui limiti che devono presiedere alla misuradi privazione della libertà. In una imitazione quasi pedissequa, le norme genericamentericomprese sotto il titolo di Giustizia criminale sembrano preoccupatesoprattutto di fissare disposizioni chiare in tema di legittimità eregolarità degli arresti, ricalcando formule che da una legislazione all’altraassumono carattere tralatizio( 112 ), tentando di conciliare il valore rivoluzionarioper antonomasia (la libertà) con la limitazione dello stesso per ragionisuperiori. Tali guarentigie, che rivelano un chiaro ascendente nel costituzionalismobritannico ed, in particolare, nel principio dell’Habeascorpus( 113 ), troveranno poi una definitiva consacrazione nelle carte fondamentalidel XX secolo, che quasi sempre le ospitano nel catalogo dei dirittiinviolabili della persona( 114 ).Con questo carico di posizioni, fluttuanti e divergenti, ci si presentalegge». Si noti come la tanto vituperata assimilazione tra silenzio e tacita confessione vengaqui accolta, e da mero indizio di colpevolezza il silenzio si trasformi in prova piena, capace direndere convinto il taciturnus.( 112 ) A conferma di tale specularità, per non dire di una vera e propria riproduzionemeccanica, cfr. Piano di Costituzione per la Repubblica Cispadana, Bologna 1797, artt. 242-252; Costituzione della Repubblica Cisalpina dell’anno VI Repubblicano, tit. VIII, artt. 219-229; Costituzione della Repubblica ligure, Genova 1797, cap. IX, artt. 235-248; Costituzionedella Repubblica romana, Genova 1798, tit. VIII, artt. CCXIX-CCXXVIII; Progetto di costituzionedella Repubblica napoletana, Napoli 1799, tit. VIII, artt. 221-230. Soltanto il Piano diCostituzione presentato al Senato di Bologna dalla Giunta Costituzionale, Bologna 1796 indicaall’art. 172 che «la tortura, ed altre barbare forme per trarre di bocca a’ rei la confessione,sono abolite». Le disposizioni qui richiamate sono state consultate nella raccolta Legislazioneprocessuale delle Repubbliche giacobine in Italia 1796-1799, inTesti e documenti per la storiadel processo, a cura di N. Picardi –A.Giuliani, V, Milano 2004.( 113 ) Cfr. F. Benevolo, Il decreto del 9 ottobre 1789 dell’Assemblea Nazionale francesee le moderne legislazioni di procedura <strong>penale</strong>, inRiv. pen., 23 (1886), pp. 528-41, dove l’autoresostiene l’esigenza di modellare il processo <strong>penale</strong> sull’esempio inglese anziché su quellofrancese.( 114 ) Cfr. M. Fioravanti, Appunti di storia delle costituzioni moderne. Le libertà fondamentali,Torino 1995.


140SAGGI E OPINIONIall’appuntamento con la codificazione, cui si chiede il coraggio di compiereuna precisa scelta di campo. Il Settecento conteneva già inséun ventagliodi possibili risposte: all’Ottocento il compito di decidere se solcare il maredella tradizione, seguire la scia delle proposte più innovative o tracciarenuove e più ardimentose rotte.3. La ‘terza via’: la soluzione italiana del codice del 1807. – Nella legislazionedi fine secolo appare difficile scorgere, come invece è stato sostenuto,«un affievolimento del potere coercitivo posto a presidio dell’obbligodi collaborazione»( 115 ): se talune normative vietano il deferimento del giuramento,mostrano però di non saper rinunciare ad interventi ‘esortativi’ opunitivi nei confronti di chi sfugge il confronto diretto e si sottrae alle domandedell’autorità giudiziaria.La legge positiva, com’è forse inevitabile, si mostra più arretrata rispettoalla dottrina. Mentre quest’ultima è pronta ad alcune ‘concessionigarantistiche’ e a dissodare il terreno per l’enunciazione del principio delnemo tenetur, nella prima si intuiscono cenni di titubanza: quanto più sembranoaprirsi delle falle nel rigore del sistema inquisitorio, tanto più, paradossalmente,si reagisce serrando le fila laddove è possibile. C’è il timore dicompiere salti nel vuoto, di abbandonare metodi che appaiono sì semprepiù discutibili e irrazionali ma efficaci.Lo scoccare dell’era codicistica indica che qualcosa sta cambiando. Unvento nuovo soffia all’aprirsi del XIX secolo e spira proprio dall’Italia.Il primo codice moderno di redazione italiana entrato effettivamentein vigore( 116 ), ossia il codice di procedura <strong>penale</strong> del 1807, segna una significativasvolta. Frutto di una gestazione circa decennale, tra progetti giacobinie opere di revisione, il Codice Romagnosi, come sarà celebrativamentedenominato per ricordare il determinante apporto del giurista parmense, èun punto di partenza per comprendere gli sviluppi della futura codificazioneprocessual penalistica e non solo nazionale.Opera di mediazione tra la tradizione inquisitoria, reinterpretata allaluce dei principi dell’assolutismo illuminato, quelli espressi, per intenderci,nella Norma Interinale, e gli afflati riformisti della legislazione rivoluzionaria,il testo accoglie dalle disposizioni giuseppine il divieto di deferire,sotto pena di nullità, il giuramento dell’imputato, così come qualunquefalsa supposizione, sedizione o minaccia volta ad ottenere una risposta diversada quella che l’interrogato è disposto a rendere spontaneamente( 117 ).( 115 ) C. Conti, L’imputato cit., p. 12.( 116 ) E. Dezza, Introduzione a Le fonti del codice di procedura <strong>penale</strong> del Regno italico,Milano 1985, p. 7. Del medesimo autore si veda Il codice di procedura <strong>penale</strong> cit., passim.( 117 ) Codice di procedura <strong>penale</strong> pel Regno d’Italia, Milano 1807, art. 204. La normarichiama il principio espresso, come già sièvisto, dall’art. XIV, § 162 della Norma Interinale.


SAGGI E OPINIONI141Si presenta invece del tutto originale la regola dettata in tema di silenzio.È possibile sostenere che di fronte a questo specifico tema il Codicedi procedura <strong>penale</strong> pel Regno d’Italia tracci una terza via rispetto ai tradizionali‘modelli’ di legislazione continentale considerati tra loro alternativi(118 ), quello francese e austriaco. E sarà, per la nostra esperienza giuridica,una linea destinata a prevalere. Ciò denota come l’Italia abbia costituitonell’ambito <strong>penale</strong>, sostanziale e processuale, una fucina creativa etutt’altro che appiattita nei confronti delle leggi provenienti da Oltr’Alpe(119 ).Se per quanto riguarda il diritto sostanziale nei codici Zanardelli eRocco si possono trovare tracce cromosomiche del progetto milanese del1806( 120 ), pubblicato, per volontà del ministro Luosi, nella Collezionedei Travagli sul Codice Penale pel Regno d’Italia con fini meramente propagandistici(121 ), nell’ambito processuale, almeno limitatamente all’oggettodella mia analisi, riveste un equivalente ruolo di testo di riferimento il codiceRomagnosi( 122 ).( 118 ) Cfr. A. Cadoppi, Il ‘‘modello’’ rivale del code pénal. Le ‘‘forme piuttosto didattiche’’del codice <strong>penale</strong> universale austriaco del 1803, inCodice <strong>penale</strong> universale austriaco(1803), rist. anast., Padova 2001, pp. XCV-CXLI e Id., Il ‘‘modello italiano’’ di codice <strong>penale</strong>.Dalle ‘‘origini lombarde’’ al codice Rocco e ad altri codici europei odierni, inAmicitiae pignus.Studi in ricordo di Adriano Cavanna, t. I, Milano 2003, pp. 125-9. È un ‘dualismo’ che credopossa estendersi anche agli altri settori di intervento codificatorio, civile e processuale.( 119 ) La felice intuizione di Cavanna che scorse le origini della codificazione <strong>penale</strong> inItalia nel progetto leopoldino del 1791-92 (A. Cavanna, La codificazione <strong>penale</strong> in Italia. Leorigini lombarde, Milano 1975) ha trovato nel tempo altre conferme. Lo stesso Cavanna ribadìil debito di riconoscenza contratto con questo testo sia dal progetto Luosi del 1801-02che da quello del 1806 (A. Cavanna, Codificazione del diritto italiano e imperialismo giuridicofrancese nella Milano napoleonica. Giuseppe Luosi e il diritto <strong>penale</strong>, inIus Mediolani.Studi di storia del diritto milanese offerti dagli allievi a Giulio Vismara, Milano 1996, pp.659-760, ora anche in A. Cavanna –G.Vanzelli, Il primo progetto di codice <strong>penale</strong> perla Lombardia napoleonica [1801-1802], Padova 2000, pp. 143-238, in particolare pp. 222-3 e 226; A. Cavanna, Ragioni del diritto cit., pp. CCLXIII-CCLXIV). Di un modello italianodi codice <strong>penale</strong>, individuato proprio nel progetto del 1806, parla Cadoppi, il qualesi spinge a sostenere che esso coincida oggi col modello europeo (A. Cadoppi, Il ‘‘modelloitaliano’’ cit., pp. 121-74). Per una lettura particolare di questa capacità di imposizione nonsolo dei codici ma della scienza criminalistica italiana fuori dai confini nazionali mi si consentaun rinvio al mio ‘‘Nessun uomo è un’isola’’. L’omicidio nel codice <strong>penale</strong> di Malta tratradizione di diritto comune e suggestioni codicistiche, inLeggi criminali per l’isola di Maltae sue dipendenze (1854), rist. anast., Padova 2003 [ed. fuori commercio], in partic. pp.CCXXXIX-CCXLII.( 120 ) Per la storia di questo progetto cfr. in particolare E. Dezza, Appunti sulla codificazione<strong>penale</strong> nel primo Regno d’Italia: il progetto del 1809,inDiritto <strong>penale</strong> dell’Ottocento.I codici preunitari e il codice Zanardelli, Padova 1999, pp. 127-40, ma in generale si veda l’interosaggio, pp. 101-82.( 121 ) E. Dezza, Appunti cit., p. 140.( 122 ) Fra i numerosi attestati di stima espressi verso questo codice e già noti in partealla storiografia (si pensi all’elogio di Cambacérès, ricordato da Dezza, che lo celebrò dicen-


142SAGGI E OPINIONISiamo all’affermazione di autonomia da parte della ‘scuola <strong>penale</strong> italiana’(123 ). Quando la Restaurazione prima e il codice unitario poi sarannocostretti a compiere opzioni legislative in tema di silenzio, stretti tra lamorsa dei due giganti, il francese e l’austriaco, decideranno consapevolmentedi non seguirli, preferendo ispirarsi all’esempio italiano del1807( 124 ).Da un lato, dunque, vi era il codice austriaco, che nell’edizione del1803 mostrava di credere nell’efficacia di sanzioni corporali; dall’altro ilCode d’instruction criminelle e la sua indifferenza, forse più apparenteche reale, verso la questione( 125 ), a cui faceva da contrappeso un regimeparticolarmente rigido relativo alla carcerazione preventiva: «si trattavado: «Gli italiani la prima volta che hanno potuto fare un codice, lo hanno fatto perfetto»; cfr.E. Dezza, Il codice di procedura <strong>penale</strong> cit., p. 311), merita forse di essere ricordato il tributorivoltogli da Frühwald, che nella ricostruzione della legislazione austriaca sul processo <strong>penale</strong>riservava parole di elogio a questo «eccellente codice [...] che s’avea già acquistato il favoredella pubblica opinione, e lasciò non poco desiderio di sé quando venne abolito» (W.T.Frühwald, Manuale sul processo <strong>penale</strong> generale austriaco, trad. it. di F. Zangiacomi, Venezia1855, p. 9).( 123 ) Potremmo fare nostre le parole di Enrico Ferri, pronunciate in Parlamento nellaseduta del 22 maggio 1912, il quale, esaltando la sapienza, più o meno teorica, e il ‘geniogiuridico’ italico, dichiarava: «In Italia l’ingegno e la dottrina corrono per i rigagnoli» [Commentoal codice di procedura <strong>penale</strong>, parte prima Lavori preparatori, vol. III Lavori parlamentari(relazioni, discussioni), Discussioni, Tornata del 22 maggio 1912, Torino 1915, p. 348].( 124 ) In questo senso si esprime anche E. Dezza, Il modello nascosto. Tradizione inquisitoriae riferimenti napoleonici nel Regolamento organico e di procedura criminale del 5 novembre1831, inRegolamenti penali di papa Gregorio XVI per lo Stato pontificio (1832), rist.anast., Padova 2000, pp. XCIV-XCVI.( 125 ) Il codice di istruzione criminale napoleonico si limita a stabilire nei giudizi di poliziaall’art. 93 l’obbligo posto a carico del giudice di procedere immediatamente all’interrogatorionell’ipotesi di mandato di comparsa, e al più tardi nelle 24 ore successive nel caso dimandato di accompagnamento. Nessuna disposizione risulta dettata sul modo di procedereall’interrogatorio. Per il giudizio vero e proprio interviene l’art. 190, che stabilisce il soloprincipio dell’obbligo di interrogare il prevenuto. L’art. 293, in ordine ai giudizi criminali,sancisce che l’accusato deve essere interrogato dal presidente della corte di assise entro le24 ore dal suo arrivo nella casa di giustizia e per quanto concerne il dibattimento l’art.310 effettua un generico riferimento a domande circa le generalità. Vi è una indubbia sproporzionetra la disciplina di dettaglio in tema di interrogatorio riscontrata nella Ordonnancecriminelle, che vi dedicava un titolo intero, il XIV, composto da 23 articoli, e l’estrema laconicitàdel codice napoleonico. Pierluigi Cipolla ipotizza che tale disinteresse scaturisca dell’assorbimentodella lezione dei philosophes in tema di tortura e di diritti della persona e dall’accettazionedel principio per cui le parti non possono essere fonti primarie di informazioniutili per l’accertamento della verità: una sorta di nemo tenetur realizzato mediante una blanda,quasi inesistente normativa (P. Cipolla, Dal Code Louis al Code Napoleon: un caso diricorso storico?, inI codici napoleonici, t.IICodice di istruzione criminale, 1808, in Testi edocumenti per la storia del processo a cura di N. Picardi –A.Giuliani, V, Milano2002, p. LVIII).


SAGGI E OPINIONI143forse dell’opzione inconscia verso uno strumento meno eclatante, ma piùsottile, di induzione alla confessione?»( 126 ).In mezzo c’è il Codice del 1807. Il legislatore pre e post unitarioguardò ad esso come al testimone di una identità culturale e da lì decisedovesse avviarsi un itinerario di sviluppo.La novità di fondo del Codice del 1807 era rappresentata dall’art. 208:l’imputato che rifiutava di rispondere o che per non rispondere si fingevamuto veniva sì sollecitato a parlare, ma, contestualmente, lo si avvertiva chesi sarebbe proceduto oltre nell’istruzione malgrado il suo silenzio. Nel casopoi che egli «persista nel suo proposito, il giudice fa menzione del silenzio edell’avvertimento, e procede agli atti ulteriori. Lo stesso avrà luogo nel restantedella procedura, e nel dibattimento, se l’accusato ricusi di rispondere»(127 ).Una norma così formulata determinava un taglio netto con il passato,lasciando intravedere altri tipi di scenari: nessuna traccia dell’obbligo a rispondere,nessuna sanzione minacciata o disposta di fronte al persistere delsilenzio, nessuna equiparazione fra l’imputato reticente e quello convinto.Vi è unicamente l’avvertimento che con o senza l’apporto della parte il processosegue comunque il suo corso( 128 ). La giustizia accetta di fare a menodella parola dell’imputato; l’accusato accetta il rischio sotteso alla declinatapossibilità di discolparsi parlando, raccontando, spiegando.In un sistema che abbandona la valutazione legale delle prove e degliindizi e rimette tutto alla coscienziosa convinzione del giudice, nessun’altra( 126 ) P. Cipolla, Dal Code Louis cit., p. LVIII.( 127 ) Codice di procedura <strong>penale</strong> (1807) cit., sez. V, art. 208. L’articolo prendeva le distanzedal progetto dell’ottobre 1802, redatto sotto la guida di Spannocchi: un progetto chesi inseriva (per l’argomento qui in discussione) nel solco della tradizione. Si minacciava infattil’imputato di considerare per provati gli indizi militanti nel processo: e, qualora neppurequesto fosse risultato giovevole, il giudice faceva relazione al tribunale d’appello per avere«dal medesimo la norma con cui meglio obbligarlo a rispondere» (Progetto di Metodo di procederenelle cause penali [autunno 1802], in Le fonti cit., § 150, p. 41). Il testo dedicava poidue paragrafi distinti all’imputato silenzioso e a quello che si fingeva pazzo o muto: costuiveniva sottoposto ad un accertamento medico per verificarne l’effettiva condizione. Riscontrataun’ipotesi di simulazione, il giudice era chiamato a regolarsi secondo quanto dettato intema di silenzio (ibidem, § 151). Le due situazioni vennero affiancate ed equiparate nella versionedefinitiva. Tale impostazione sarà poi seguita dagli altri codici. È una linea risalente altit. XVIII dell’ Ordonnance criminelle che riservava all’imputato reticente lo stesso trattamentodel muet volontaire (V. Grevi, Nemo tenetur cit., p. 23, nt. 36).( 128 ) Eppure, nel commentare tale norma, vi è chi non rinuncia a criteri interpretaviancorati al passato. Ripudiata la tortura, si rimane però nella scia di quanto sostenuto asuo tempo da Beccaria: «sebbene sia detestabile l’antico uso [ossia quello dei tormenti],non cessa però di essere necessaria una pena. Anche gli umani filosofi, l’istesso Beccaria sonod’un tal parere». Dunque nell’intimazione della continuazione della procedura «senza piùcurarsi di ciò che potrebbe dire in sua discolpa» si ravvisa una forma sanzionatoria, anzi«la più spediente» (C. Alberici, Commentarj cit., p. 301).


144SAGGI E OPINIONIconseguenza poteva attribuirsi al diniego di rispondere. Chi tace non siconfessa reo per questo, ma la sua ostinazione non può arrestare il corsodegli atti( 129 ).Tale norma contiene in sé in forma embrionale l’enunciazione di principidi tutela: la mancata menzione dell’obbligo a rispondere crea indirettamenteun varco per la futura esplicita previsione del diritto a non rispondere.Comincia un’inversione di tendenza, un sovvertimento dei significatidi cui si era nel tempo caricato l’interrogatorio: siamo di fronte ad un’attenuazionedel reus tenetur se detegere che, se ancora non sfocia nel riconoscimentopieno di un diritto al silenzio, impone comunque di guardare all’interrogatoriocome strumento di difesa e al silenzio come ad uno dei possibilimezzi esperibili dall’imputato per presidiare i propri interessi( 130 ).La breve parentesi dell’introduzione nei nostri territori del codice diistruzione criminale francese significò solo sospensione temporanea dellavigenza di tale articolo, non cancellazione della sua validità di principio.Non riuscì a scalfirlo neppure l’altro monolito normativo, il codice austriacodel 1803, entrato in vigore, sia pure in modi e tempi differenziati,nei territori lombardi e veneti all’indomani della Restaurazione e qui rimastovivo fin quasi alle soglie dell’unità. Esso prevedeva una sorta di accanimentonei confronti del ‘muto volontario’, ricorrendo, come extremaratio, ai colpi di bastone( 131 ). Si assiste ad una sorta di escalation per ciò( 129 ) Ammoniva tuttavia Giuriati, a commento dell’art. 215 del codice sardo del 1847,che tale tipo di disciplina faceva sì che le prove e gli indizi a carico conservassero nella mentedei giudici tutta la loro forza, poiché l’imputato non si prestava a combatterli, sebbene invitatoa farlo. L’istruttore doveva avvertire il renitente delle conseguenze della sua condotta,ma non poteva uscire dai confini di una decorosa esortazione. Più severa la valutazione disimulata pazzia, sordomutismo, idiotismo o altra forma invalidante: le finzioni messe in attonel corso del processo finivano per porre in sinistra luce la moralità del soggetto, contribuendoa qualificarlo idoneo a delinquere (D. Giuriati, Commento teorico-pratico al Codice diprocedura criminale degli stati sardi con le leggi posteriori e le sentenze dei magistrati di cassazione,Torino 1853, p. 201).( 130 ) Esprime una posizione diversa Giarda, che insiste in particolare sul fatto che ilsistema processuale delineato dal codice del 1807 fosse comunque proteso a cercare la collaborazionedell’imputato, ravvisando nell’ammonimento a rispondere non una clausola distile, ma una formula carica di velati avvertimenti. Ritengo corretto tener conto di circostanzeche denotano come certi legami fossero stati purtroppo mantenuti (sono parole dell’autore),ma penso sia altresì giusto guardare all’esperienza storica contestualizzandola, nongià con il metro dell’oggi, ma del momento contingente in cui i fenomeni si manifestano.E certamente, rispetto alla normativa e alla prassi immediatamente antecedente (anzi, si potrebbedire rispetto alla ‘attualità’ del momento), il codice lombardo rappresentava un tentativodi superamento, grazie ad un impianto processuale con larghe ‘aperture libertarie’, comel’autore stesso è disposto a riconoscere (A. Giarda, «Persistendo il reo» cit., p. 85).( 131 ) Si tratta di un ‘rimedio’ di cui si trovano tracce frequenti lungo l’intero codice.Volta per volta le bastonate vengono usate come strumento di esacerbazione, o pena da infliggere,in via commutativa, nei confronti di chi, condannato al carcere, non era in grado discontarlo se non con grave e irreparabile pregiudizio economico per la famiglia, o ancora da


SAGGI E OPINIONI145che riguarda i provvedimenti da adottarsi nei confronti del taciturnus: seilprincipio che domina tanto il costituto( 132 ) sommario quanto l’ordinario(133 )èquello dell’ammonizione circa le severe misure che verrannoadottate, sono queste ultime, poi, a diversificarsi nei due casi.Nella prima ipotesi «gli si dichiara seriamente che l’ostinato silenzio oapplicare verso il detenuto sorpreso a tentare la fuga, e in genere all’imputato che teneva uncontegno sprezzante ed insultante, o che ricorreva a piccoli escamotage per allungare i tempiprocessuali, o che infine si fingeva pazzo. L’intero codice è disseminato da situazioni che giustificanola bastonatura, una pratica reputata dai più barbara e incivile, e ingenerante reazioniindignate da parte dell’intellighenzia lombarda all’indomani dell’estensione del codice ainostri territori (cfr. L. Garlati Giugni, Nella disuguaglianza la giustizia. Pietro Mantegazzae il codice <strong>penale</strong> austriaco [1816], Milano 2002, pp. 96-101).( 132 ) Il significato letterale di costituto può probabilmente spiegarsi come comprensivodi due concetti: consultum consilium, vale a dire «deliberazione ben ponderata dell’obbligarsi»;e «termine certo dato all’adempimento». Dunque «constituere nelle cause criminali fu lospiegare consulto consilio la intenzione dell’attore, e dare un termine al reo per rispondere ingiudizio e giustificarsi. Quindi in quest’ultimo interrogatorio presso i nostri antichi era ripostala contestazione della lite. Ciò non si avvera in tutto sotto l’impero delle nuove leggi. Oggiil procurator generale nel presentare il suo atto di accusa spiega la sua azione, ma non la manifestaancora al reo. Il reo in quel momento è arrestato di diritto, ed è costituito; ma l’atto diaccusa non gli è comunicato se non quando la gran corte l’abbia ammesso. La vera contestazionedunque si compie all’apertura de’ termini, e quello che diciamo costituto è piuttosto unpasso necessario per la contestazione della lite esso stesso» (N. Nicolini, Della procedura<strong>penale</strong> nel Regno delle due Sicilie esposta [...] colle formole corrispondenti dedicata alla MaestàFrancesco I re del Regno delle due Sicilie, parte II, vol. III, Napoli 1829, § 816, pp. 80-1).Nella pratica, si denominava ‘costituto’ l’esame del reo perché questa era la formula di aperturadell’interrogatorio. Sul punto e sulla diatriba circa il valore semantico del lemma cfr. dichi scrive Inseguendo la verità cit., p. 141, nt. 174.( 133 ) Per la differenza intercorrente tra costituto sommario e ordinario, il primo direttoa rivolgere domande di carattere generale, a cui l’incolpato rispondeva con una certa libertàformale, il secondo mirato ad approfondire il dettaglio e dominato perciò da rigore, ed intesocome supplemento al sommario, volto a completarne o rettificarne le parti principali, ossia lanatura del fatto e l’indagine sui motivi dell’accusa, cfr. S. Jenull, Commentario sul codice esulla processura criminale della monarchia austriaca ossia il diritto criminale austriaco espostosecondo i suoi principi ed il suo spirito, prima versione italiana dal tedesco, Milano 1816, vol.III, pp. 322-7. Si veda anche G. Resti Ferrari, De’ giudizj criminali pel Regno Lombardo-Veneto istituiti dal codice <strong>penale</strong> austriaco. Istruzioni teoriche-pratiche, tomo I, Mantova 1819,pp. 295-302; G.M. Anfossi, Studio cit., pp. 28-34 della Prefazione. In generale cfr. GiuseppeGiuliani, Istituzioni di diritto criminale col commento della legislazione gregoriana, t.I,Macerata 1840, pp. 496-7, dove per esame sommario si intende quello che deve svolgersi «alprimo apparire del reo innanzi al giudice»; l’ordinario invece si presenta quale «sagace catenad’interrogazioni analitiche rivolte al reo che vanno gradatamente a percuotere il delittoin ispecie». Da ultimo, sul tema, cfr. G. Chiodi, Le relazioni pericolose. Lorenzo Priori, ilsenatore invisibile e gli eccelsi Consigli veneziani, inL’amministrazione della giustizia <strong>penale</strong>nella Repubblica di Venezia (secoli XVI-XVIII),I:Lorenzo Priori e la sua Prattica Criminale, acura di G. Chiodi,C.Povolo, Verona 2004, pp. LXV-LXXXI; C. Povolo, Retoriche giudiziarie,dimensioni del <strong>penale</strong> e prassi processuale nella Repubblica di Venezia: da LorenzoPriori ai pratici settecenteschi, inL’amministrazione della giustizia <strong>penale</strong> cit., II. Retoriche,stereotipi, prassi, pp. 87-96.


146SAGGI E OPINIONIpertinace contegno non può che rendere peggiore la sua causa. Se persistenon ostante nello stesso modo, vien condotto in carcere»( 134 ). Nella seconda,dopo essere stato «ammonito seriamente dell’obbligo, che ha di rispondereal giudizio»( 135 ), gli si fa presente «che colla sua ostinazione vaad attirarsi un castigo». Se ciò non produce effetto alcuno, egli è trattatoal pari di colui che finge un’alterazione mentale, ossia è posto a pane edacqua per tre giorni consecutivi; ammonito nuovamente, ed invano, vienepunito con colpi di bastone, una volta ogni tre giorni, cominciando condieci e progressivamente aumentando il numero di cinque colpi in cinquecolpi fino ad un massimo di trenta( 136 ). Qualora anche questa drastica misuranon sortisca il risultato sperato, il caso viene segnalato al tribunale superiore,cui si trasmettono gli atti del processo in attesa di una deliberazione(137 ). Nulla esclude, come sostiene la dottrina, che in secondo grado( 134 ) Codice <strong>penale</strong> universale austriaco, Milano 1815, parte I, sez. II Del legale processosopra i delitti, § 291. Il contegno ulteriore del giudice dipende dalle circostanze: se l’esaminatorifiuta di rispondere gli si rammenta l’obbedienza dovuta alla suprema autorità e gli si prospettanole conseguenze funeste del suo agire. Se egli è innocente, un simile contegno non può cheprolungare un ingiusto processo; se è colpevole se ne terrà conto come elemento aggravantedella pena al momento della condanna. «Ma sarebbe cosa oltre modo prematura il rinfacciareall’incolpato gli indizi a suo carico sussistenti per far cessare la di lui ostinazione», perché ciò lometterebbe in condizione di vantaggio, venendo egli a conoscere gli elementi di prova in possessodell’accusa, senza tuttavia «imbarazzarlo, poiché egli non risponde». Ecco perché il prevenutova ricondotto in carcere, anche se gli si conferisce la possibilità di chiedere l’esame, cuiil magistrato ha l’obbligo di dar corso, disponendo, a seconda dei casi, o il costituto sommarioo quello articolato (S. Jenull, Commentario cit., pp. 245-246).( 135 ) Sostiene la dottrina che il rifiuto di rispondere può consistere anche nel limitarsi arinviare ad eventuale deposizione già resa in sede di costituto sommario oppure estragiudizialmente.Di ciò «il giudice non potrà certo esserne contento». Rammentato l’obbligo di risponderecon precisione alle domande postegli e ricevuto un nuovo generico rinvio al giàdeposto, si procede al castigo (S. Jenull, Commentario cit., p. 383). Si ritiene altresì rifiutoa rispondere anche la vaghezza espressiva. Se ad esempio il giudice chiede delucidazioni sull’armadel delitto, l’imputato non può cavarsela sostenendo di aver commesso l’omicidio conuno strumento mortale: alle domande incalzanti e via via più specifiche del giudice sul nomedell’arma, sul materiale, sulla forma non basta persistere nella precedente risposta generale,che non risulta più adatta all’interrogazione (ibidem, p. 384). Come si vede, il rifiuto a rispondereè inteso in un’accezione più ampia del silenzio: include anche la risposta non soddisfacente,non pertinente, inidonea a soddisfare le richieste di chiarezza da parte dell’autoritàindagante.( 136 ) Trattandosi di un aumento di pena, è evidente che il numero di colpi da darsiogni volta deve accrescersi di cinque, in modo che la seconda volta ne vengano dati quindici,la terza venti e così via, fino al massimo di trenta, limite oltre il quale non è consentito andare.Qui si arresta il castigo: la sua continuazione significherebbe morte sicura dell’imputato,punendo la sua ostinazione con troppo rigore. Misure ulteriori richiedono una maturariflessione ed è per questo che, astenendosi da prescrizioni a carattere generale, il legislatoreaustriaco ordina di rimettere simili casi alla ponderata valutazione della seconda istanza criminale.( 137 ) Codice <strong>penale</strong> universale austriaco cit., §§ 363-364.


SAGGI E OPINIONI147si decida di proseguire ad infliggere bastonature, dopo un accertamentosulle condizioni fisiche dell’imputato diretto a verificarne la capacità disopportazione. Se tuttavia l’ulteriore inasprimento non comporta alcunesito, egli potrà essere rinchiuso per un tempo determinato, o anche pertutta la vita, in carcere, a seconda del delitto di cui è indiziato( 138 ).«Siffatta disposizione basta per assicurare la pubblica sicurezza epunto non pregiudica alla sicurezza privata. Senza di essa non potrebberoavere efficacia le leggi punitive, poiché dipenderebbe dal reo il render vanele loro prescrizioni colla di lui ostinatezza. L’uomo innocente poi non hamotivo di lagnarsene, mentre può desistere alla fine e produrre le sue giustificazionicontro un’ingiusta imputazione. Se egli omette di ciò fare, deveattribuirne a lui stesso le conseguenze»( 139 ).Non andava meglio nel vicino Cantone svizzero del Ticino, il cui codiced’istruzione criminale del 1816 non risparmiava al taciturnus né il carcere,né lo scarno nutrimento, né i colpi di bastone. Gli artt. 143 e 144 pre-( 138 ) Così S. Jenull, Commentario cit., p. 379. Lo stesso commento, riprodotto quasialla lettera, si ritrova in G.A. Castelli, Manuale ragionato del codice <strong>penale</strong> e delle gravi trasgressionidi polizia, vol. II, Milano 1833, p. 137. Questi, ad ampliamento del commento, ricordache sono qui tradotti i principi sostenuti da Beccaria, il quale «aveva già preveduta ladisposizione del paragrafo»: ulteriore attestazione di quanto affermato più volte nel corso diqueste pagine. Significativa appare la testimonianza di Resti Ferrari, che vantava un’esperienzaquale magistrato nel tribunale di prima istanza di Mantova. Senza esplicitamente riconoscerloe confessarlo, Resti Ferrari sostiene che i §§ 363 e 364 siano una misura rimessa allibero e prudente apprezzamento del tribunale, che ne userà con la maggior cautela possibilee solo quando il concorso delle circostanze effettivamente lo consigli. Ricordando i casi giudiziarida lui esaminati ed esposti nella sua opera, l’autore afferma di essersi «limitato alleesortazioni ed alle minacce, ed attendendone l’effetto dalla calma e dalla riflessione, ho rimessoad altra sessione il proseguimento del Costituto» (G. Resti Ferrari, De’ giudizi criminalicit., tomo II, Mantova 1820, nt. 76, pp. 405-6). Resti Ferrari mostra costantementeun’intima ripugnanza verso i metodi imposti dal codice austriaco e invita i magistrati a rammentareche «la legge non ha accordato un mezzo onde dalla bocca del negativo strappare aforza la confessione. La pena è legittima; ma non perciò può l’uomo ritenersi obbligato adaccusar se stesso, ed a sottoporsi volontariamente alla medesima. Di ogni umana è superiorela naturale legge della individuale conservazione e del migliore ben essere; e perciò non possonocondannarsi quei modi che sieno diretti a rimuovere da se il mal della pena, quandonon contengano una violazione di altra legge» (ibidem, nt. 80, p. 407). Le parole di RestiFerrari rivelano quello che fu un costante orientamento della giurisprudenza lombarda difronte all’eccessivo rigore delle misure sanzionatorie approntate dal codice austriaco: attenuare,nel momento applicativo, l’asperità delle pene, scegliendo la via della mitigazione rispettoalla fedeltà alla lettera della legge.( 139 ) S.Jenull, Commentario cit., p. 380. Ci ricorda tuttavia Cavanna che la disciplinadel codice austriaco relativa al silenzio dell’imputato, in vigore in tutte le altre province, nonlo era in quelle italiane, in ragione di una deroga parziale e temporanea che ne impediva l’operativitàin via teorica, poiché rimaneva pur sempre nel pieno potere discrezionale dell’inquisitoavvalersene nei casi contemplati dal codice (A. Cavanna, Ragioni del diritto cit., p.CCXLVIII, nt. 125). Sul punto mi permetto di rinviare al mio Nella disuguaglianza la giustizia,pp. 99-100, in particolare nt. 66.


148SAGGI E OPINIONIscrivevano, di fronte al ‘silenzio malizioso’, la detenzione in una cella angusta,con l’aggravante delle catene e un nutrimento a base di pane e acquaper un mese, da somministrare in due ‘tornate’ di quindici giorni ciascunaper non provocare eccessivi danni alla salute del prevenuto. Si proseguivapoi ventilando nefandi castighi e infine gli si infliggevano venticinque colpidi staffile sul dorso nudo, raddoppiando volta per volta il numero in ragionedella ostinazione( 140 ).Neppure la proposta di modifica dell’impianto processuale per laLombardia proveniente da Giacomo Maria Anfossi nel suo Studio e primeidee per la compilazione di un nuovo codice riesce a guardare lontano( 141 ).Nell’art. 12 del progetto scompaiono le bastonature, ma all’assenza d’uncastigo fisico e corporale non si accompagna un mutamento di prospettiva.Anzi, l’autore riconosce esplicitamente nel silenzio un indizio di colpevolezza«poiché se innocente, ad esso nulla importar dovrebbe il dare le convenientirisposte alle fattegli domande». Ciò determina, di fatto, la perditadi ogni chance difensiva: «e non pertanto si procederà oltre nel suo costituto».Austria e Milano sembrano stringere sul punto una tacita alleanza, mostrandoun’identità di sentire e una comune cultura. Abolite le ignobili percosse,la concordanza ideologica di fondo è perfetta e passa costante attraverso‘filtri’ e veicoli tra loro apparentemente incompatibili o inconciliabili.Da Gabriele a Pietro Verri, da Beccaria a Maria Teresa e a Francesco I, masoprattutto dalla tradizione della prassi criminale di tardo diritto comune al‘radicale’ illuminismo asburgico uno solo è il motto, uno l’intento: punire ilrifiuto a rispondere, fondando su di esso una presunzione di responsabilità.Risulta speculare l’impianto processuale disposto per reprimere le trasgressionidi polizia. Anche qui i §§ 328 e 330 impongono all’interrogatol’obbligo di dire la verità e al giudice di preannunciare le severe misureadottabili in caso di inottemperanza al precetto( 142 ). Dalle minacce ai fatti:«se ricusa di rispondere o se le sue risposte non sono che sotterfugi estraneiall’argomento, gli si ripete l’ammonizione fattagli da principio coll’aggiun-( 140 ) Cfr. P. Rossi, Trattato di diritto <strong>penale</strong>, trad. it. con note e addizioni di E. Pessina,Torino 1859, p. 38, nt. 1.( 141 ) Sul punto v. supra nt. 6.( 142 ) L’ammonizione, ricorda Castelli, deve essere seria, ma senza che il giudice ricorraa modi bassi e ingiuriosi: è indegno di chi amministra la giustizia atterrire l’imputato facendoglicredere l’esistenza di indizi o prove simulate o allettandolo con promesse di premi o diimpunità. L’autore non può, tuttavia, che riconoscere l’indeterminatezza della disposizione:manca la precisa forma dell’ammonizione che dovrà pertanto essere «modellata sulla diversaqualità delle trasgressioni, sull’indole, condizione, carattere diverso de’ trasgressori, e finalmentesul maggiore o minore fondamento concernente il sospetto legale». L’avvertimentosarà ripetuto quante volte lo si ritiene necessario (G.A. Castelli, Manuale cit., vol. IV, Milano1834, p. 73).


SAGGI E OPINIONI149gervi la minaccia dell’arresto. Se poi persiste tuttavia in tale contegno, sideve punirlo coll’arresto sino a che egli stesso domandi di essere interrogatoe prometta di rispondere come conviene». Eccessivo rigore? A dettadi qualcuno no, perché questo provvedimento mirerebbe non a costringerel’inquisito a confessare il fatto imputatogli, né ad infliggergli pene anticipateper una trasgressione non sancita o riconosciuta legalmente, ma a imporglil’osservanza del dovere a rispondere( 143 ). Le logiche inquisitorie settecentesche(e non solo), lungi dall’essere abbandonate, ricevono nuovi stimoli.Se poi la carcerazione si protrae troppo a lungo in una situazione ditotale stallo, all’intendenza politica non resta che fare rapporto alle autoritàsuperiori, esprimendo altresì la propria opinione circa i motivi di tale caparbietà,attendendo le necessarie istruzioni sul modo di procedere percondurre in porto il processo.Gli espliciti ammonimenti e il ‘dovere’ di rispondere ottemperato asuon di bastonate riducono in polvere qualsiasi libertà morale dell’inquisito,pur ventilata qua e là nel codice( 144 ). La tortura illuministicamenteabolita ritorna sotto mentite spoglie quale spettro che aleggia con altronome in queste pagine non mirabili del codice( 145 ). Di nuovo l’imputatoè fonte di prova, di nuovo la configurazione del silenzio come dirittosembra una chimera lontana.Vi è una sostanziale coerenza e continuità nell’edificio processual penalisticoeretto in terra d’Austria. Le generazioni di sovrani che si succedonosul trono (da Maria Teresa a Giuseppe II a Francesco I) si mantengonofedeli ad alcuni principi di fondo dominanti la questione del silenzio.L’impianto sostanzialmente inquisitorio, pur evolvendosi, resta peròidentico a se stesso nei portati di base: l’interrogatorio ha come mira la ricercadella verità, una verità che solo l’‘‘io narrante’’ dell’accusato è ingrado di offrire; su quest’ultimo grava quindi il dovere di parlare, anchese non di confessare( 146 ). E se rispondere alle domande non è una facoltà,( 143 ) G.A. Castelli, Manuale cit., vol. IV cit., pp. 75-6.( 144 ) Di risvolti garantistici presenti nei paragrafi del codice dedicati al costituto è assertoreconvinto E. Dezza, L’impossibile conciliazione. Processo <strong>penale</strong>, assolutismo e garantismonel codice asburgico del 1803, inCodice <strong>penale</strong> universale austriaco (1803), rist. anast.,Padova 2001, pp. CLXX-CLXXII, ma in generale si veda l’intero contribuito, pp. CLV-CLXXXIII. Che questi profili fossero invece vanificati o per lo meno indeboliti dalla realtàdel processo è questione acutamente sviluppata da A. Cavanna, Ragioni del diritto cit., pp.CCXXXV-CCL.( 145 ) Sul punto cfr. V. Grevi, «Nemo tenetur», cit., pp. 16-7; A. Giarda, «Persistendoil reo» cit., p. 82; F. Cordero, Riti e sapienza del diritto, Bari 1981, pp. 409-10; A. Cavanna,Ragioni del diritto cit., pp. CCXLV-CCXLIX.( 146 ) Il castigo legale deve essere inteso inflitto come pena dell’ostinazione dell’imputatonel tacere e non quale mezzo coattivo per ottenere la confessione. Se così fosse, il giudice che sene avvalesse per indurre l’esaminato a dichiararsi colpevole commetterebbe un’azione illegale


150SAGGI E OPINIONIma un obbligo, la contravvenzione al precetto deve essere sanzionata, nelmodo più severo ed esemplare possibile, per scoraggiare possibili imitazionie riaffermare il ruolo centrale assolto dal giudice( 147 ). Ancora unavolta Beccaria docet.Un intervento significativo si registra nel 1848, quando con sovrana risoluzionesi abolisce il castigo corporale quale pena disciplinare per ‘‘mendacipalesi’’, per ostinazione nel silenzio ed alienazione mentale. Tale severamisura non compare piú, infatti, nel Regolamento del 1853, dove al § 182 siafferma che qualora l’imputato ricusi di rispondere o in generale o a determinatedomande( 148 ), il giudice si limita ad avvertirlo che il suo contegnoed è «generale opinione che la confessione estorta non possa annoverarsi fra i mezzi d’investigarela verità, ma bensì tra quelli che aumentano le vittime della giustizia denegata». Del restoad un «giudice umano, giusto ed illuminato» non mancano i mezzi opportuni e leciti per verificarei fatti e procedere contro gli astuti accusati. Così S. Jenull, Commentario, pp. 387-8.( 147 ) A completare il quadro vi è il tassello offerto dal tanto criticato § 337, che individuavanella difesa uno dei doveri d’ufficio del giudice. Non vi poteva perciò essere l’assistenzatecnica di un avvocato di parte: uno e trino, il magistrato assommava in sé le funzionidi inquisitore, di difensore e di giudicante, anche se in via di principio si affermava il dirittoillimitato dell’imputato durante l’intero corso del processo di avvalersi a propria tutela deimezzi ritenuti più opportuni. Tra le innumerevoli sollecitazioni provocate da questa normauna, in particolare, merita di essere presa in considerazione. La commistione di diverse funzioniin capo ad un unico soggetto generava conflitto riguardo al presupposto di partenzadell’intero processo: occorreva agire sulla base di una presunzione d’innocenza o di colpevolezza?Pone questo interrogativo pesante come un macigno uno dei principali commentatoriitaliani del codice austriaco, Antonio Albertini, il quale alla lettera sostiene: «Alcuni pensatoriamici dell’umanità, declamando contro le rigorose indagini e quistioni, che intervengononel costruire un processo criminale, ànno stabilito per massima, che il magistratoprocessante debba sempre supporre innocente l’individuo accusato, e con tale prevenzioneagire. [...] Ma chiunque à versato lungamente nelle criminali istruttorie formerà voti perchésentimenti così liberali dal pacifico gabinetto del filosofo non passino al legislatore e al giudice,che ànno il dovere di promuovere per vie diverse i mezzi, pe’ quali il colpevole punitoserve al pubblico esempio ed al freno de’ male intenzionati». Il primo compito di un magistratoè scoprire l’autore del reato: e la ricerca dell’innocenza comporta, inevitabilmente, ilsuperamento e la sconfessione di tutti gli indizi scrupolosamente raccolti per dimostrare lacolpevolezza di un soggetto. Trovare un equilibrio non è semplice, per non dire impossibile.Se è vero che l’inquisitore non deve «mettere ogni studio per avvicinare il prevenuto al fattocriminoso imputatogli, e trovare tra l’uno e l’altro apparenti relazioni», gli si richiede distacco,pacatezza, una oggettiva impassibilità per cercare non solo ciò che è contro, ma anche ciòche è a favore dell’imputato stesso. E nel tessere la trama del processo egli deve essere dispostoa sacrificare l’effimero ‘trionfo’ dell’ingegno alla pace della coscienza, dimenticandosiche nel momento della sentenza egli è chiamato a decidere della sua stessa ‘creatura’, operadel suo zelo e frutto delle sue meditazioni e delle sua pazienza (A. Albertini, Del diritto<strong>penale</strong> vigente nelle provincie lombardo venete, Venezia 1824, pp. 377-84). Sul significato delladefinizione di ‘prevenuto’ ci si richiama al fatto che chi prima agisce (qui prior agit) previene.La prima fase dell’istruzione, consistente nelle ricerche e nelle investigazioni volte ascoprire se il soggetto sia imputabile del delitto ascrittogli, è detta anche prevenzione. Daqui la definizione di prevenuto (A. Ademollo, Il giudizio criminale cit., § 730, p. 200).( 148 ) Rimane fermo quanto già detto a proposito del codice del 1803: integrano il ri-


SAGGI E OPINIONI151non può impedire, ma solo prolungare l’inquisizione, privandolo, per dipiù, degli eventuali mezzi di difesa. La medesima norma si trova riprodottanel Regolamento del 1873 al § 206( 149 ).Siamo ad una svolta. Dopo secoli di fedeltà ai propri principi in temadi silenzio, tramandati di legislazione in legislazione, l’Austria accetta difare a meno dei suoi abituali mezzi persuasivi, di generici rimandi alle decisionidi corti superiori e si allinea sulle posizioni dettate dal codice del1807, rendendo qui esplicito ciò che là si lasciava soltanto intendere: cono senza l’imputato la giustizia procede verso la verità ed il silenzio può solopregiudicare la strategia difensiva, non impedire alla giustizia di perseguirei suoi obiettivi. Il codice italiano aveva fatto scuola in Europa.Ed è così che, non appena gli stati preunitari sorti dalle ceneri del disegnoimperialistico napoleonico furono chiamati a darsi una propria normativaanche in ambito processual penalistico, rispolverarono il § 208 e loriprodussero, quasi senza apportarvi alterazione alcuna. La disciplina delsilenzio nell’Ottocento nasce e muore entro i confini tracciati dal codicedel 1807, quale sorta di fil rouge che attraversa l’intero secolo e che imprimeai nostri codici un’impronta genetica riconoscibile. La norma madreè il § 208 del codice Romagnosi: le altre ne sono la diretta filiazione.Vi si uniformano il Codice parmense( 150 ), le Riforme toscane( 151 ), ilCodice di procedura criminale degli Stati estensi( 152 ), quello sabaudo delfiuto a rispondere anche la non congruità, la divergenza o l’indeterminatezza del dire (Frühwald,Manuale cit., sub § 182, p. 209). Cfr, anche A. cav. di Hye-Glunek, I principii fondamentalidel Regolamento di procedura <strong>penale</strong> austriaco del 29 giugno 1853, trad. it. di P.Zajotti, Venezia 1854, pp. 355-68.( 149 ) Sull’accoglienza entusiasta di questo Regolamento da parte della dottrina italianacfr. M. N. Miletti, Un processo per la terza Italia. Il codice di procedura <strong>penale</strong> del 1913, I:L’attesa, Milano 2003, pp. 42-3 e ntt.( 150 ) Codice di processura criminale per gli Stati di Parma, Piacenza e Guastalla, Parma1820, art. 162: «se l’inquisito si finga muto o si ostini in qualunque modo a tacere, il giudicelo ammonisce a rispondere, e lo avverte che si procederà oltre malgrado il suo silenzio».Giarda definisce «subdolamente sanzionatorio» l’art. 398, in cui si legge che l’accusatoche si fingeva muto o che si ostinava a tacere era più volte ammonito a rispondere. Se persisteva,il Presidente procedeva all’esame dei testimoni senza avere l’obbligo di interpellarlodopo le loro deposizioni: «altro che diritto al silenzio» (A. Giarda, «Persistendo il reo»cit., p. 89).( 151 ) Cfr. A. Ademollo, Il giudizio criminale cit., p. 205, § 752 dove si legge: «Se l’imputatoricusasse di rispondere, o per non rispondere si fingesse sordo, muto, il Giudice l’ecciteràa rispondere e lo avvertirà che si procederà avanti in causa malgrado il suo silenzio».( 152 ) Codice criminale e di procedura criminale per gli Stati estensi, Modena 1855, l. I,tit. III, art. 202: «Quando l’imputato ricusa di rispondere o dà segni di pazzia, che possanocredersi simulati, o finge di essere sordo o muto per esimersi dal rispondere, il Giudice loavverte, che nonostante il suo silenzio e le sue infermità simulate, passerà all’istruzione delprocesso. Di tutto ciò èfatta menzione». La norma in esame è circondata da una serie dialtri provvedimenti volti a presidiare l’interrogatorio nella sua accezione difensiva. Si vieta,infatti, il deferimento del giuramento al prevenuto per i fatti sui quali è indagato (non però


152SAGGI E OPINIONI1847( 153 ) e del 1859, quest’ultimo di maggior rilevanza per il ruolo guidadestinato ad assumere all’indomani dell’unità( 154 ).Si situano su una linea lievemente diversa la legislazione napoletana equella pontificia. Entrambe pongono a carico del giudice l’obbligo di ammonirel’imputato che finge di essere muto( 155 ) o che rifiuti di rispondere.La prima però concede alla corte( 156 ), nell’ipotesi di persistenza, di nonsul fatto altrui, anche se la disposizione stabilisce che quando il medesimo sia «confesso rapportoa se stesso, gli si può deferire il giuramento riguardo ai correi o complici dello stessodelitto», lasciando intendere il carattere facoltativo, non vincolante dello stesso: cfr. art. 197),così come si prescrivono interrogatori caratterizzati dalla chiarezza, dalla precisione e dall’accertamentoimparziale dei fatti (art. 198), ribadendo poi il divieto per il giudice di usare minacceo seduzioni al fine di ottenere risposte diverse da quelle che l’interrogato intende darespontaneamente (art. 199).( 153 ) «Quando l’imputato ricuserà di rispondere, o darà segni di pazzia che possonocredersi simulati, o fingerà di essere sordo o muto per esimersi dal rispondere, il giudicelo avvertirà che, non ostante il suo silenzio o le sue infermità simulate, si passerà oltre all’istruttoriadel processo» (Codice di procedura criminale degli Stati Sardi, Torino 1847, art.215). Giuriati invitava il giudice a chiedersi per prima cosa le ragioni del rifiuto. Se si trattavadi richiesta di tempo per meglio ponderare le risposte da dare, si doveva accogliere l’istanza(D. Giuriati, Commento cit., p. 200). Quasi un secolo dopo, Donà insisteva sul punto, scomodandola psichiatria forense per comprendere i motivi del silenzio eventualmente oppostoalle interrogazioni rivolte (G. Donà, Il silenzio cit., pp. 68-70).( 154 ) «Quando l’imputato ricuserà di rispondere, o darà segni di pazzia che possanocredersi simulati, o fingerà di essere sordo o muto per esimersi dal rispondere, il giudicelo avvertirà che, non ostante il suo silenzio o le sue infermità simulate, si passerò oltre all’istruttoriadel processo. Di tutto sarà fatta menzione» (Codice di procedura <strong>penale</strong> per gli Statidi S.M. il re di Sardegna, Torino 1859, lib. I, tit. II, sez. IX, art. 228). Inutile sottolineare lalampante identità tra queste tre norme, una sorta di circolarità instauratasi tra il dettato piemontesee quello estense. L’unica aggiunta nel testo del 1859 è la richiesta di accertamentosull’effettivo stato mentale dell’imputato da parte dei periti, chiamati ad esprimere il proprioparere circa la natura e il grado della malattia e l’effettiva capacità di incidenza sul liberovolere del soggetto. Un ulteriore passo in avanti è rappresentato dall’estensione del divietodel giuramento anche per ciò che concerne il fatto altrui (art. 224), già presente nel testo del1847 (art. 211).( 155 ) Nicolini osserva che questo articolo va interpretato in senso estensivo fino a ricomprendereanche chi finga di essere folle, o infermo o cieco: nei confronti di tali soggettisi applica lo stesso disposto di legge, poiché si tratta di ipotesi che nelle antiche massime deldiritto romano erano raccolte in un solo titolo (D. 37.3.2). Cfr. N. Nicolini, Della procedura<strong>penale</strong> nel Regno delle due Sicilie esposta [...] colle formole corrispondenti dedicata alla Maestàdel Re N.S., parte III, vol. II, Napoli 1831, § 906, pp. 319-20. Canofari, dal canto suo, ritieneche sia raro il caso in cui l’accusato ammonito finga di essere muto, ma che se ciò avviene eglisi espone volontariamente a due conseguenze: subire il peso di quelle «induzioni morali» chel’inquirente può trarre dalle sue simulazioni e restare privo dei preziosi benefici che nasconodalle risposte, dalle osservazioni, dalle spiegazioni fautrici della difesa (F. Canofari, Commentariocit., libro II, tit. II De’ giudizi de’ misfatti co’ rei presenti, p. 118).( 156 ) La decisione rimessa alla corte di non sentire più l’interrogato in nessuna altraparte del giudizio deve essere guidata, a detta di Canofari, dalla moderazione e dall’umanità,mai dalla volontà di esercitare un potere. Si deve sperare che «l’uomo, tocco da pentimento,abbandoni le vie della simulazione» e del silenzio e risponda convenevolmente. Ma se mal-


SAGGI E OPINIONI153ascoltare più l’inquisito in alcun’altra parte del giudizio( 157 ); la secondaprescrive che il proseguimento del processo avvenga dopo aver opportunamenteavvertito l’indagato sull’interpretazione svantaggiosa derivante«dalla continuazione nello stesso sistema»( 158 ). Nelle leggi napoletana e ro-grado ciò insista in un comportamento protervo, il magistrato «troverà un compiacimentonell’umanità praticata; e quegli si dolerà tardi ed invano de’ dannevoli risultamenti dellasua durezza» (F. Canofari, Commentario cit., libro II, tit. II De’ giudizi de’ misfatti co’rei presenti, p. 119).( 157 ) Codice per lo Regno delle Due Sicile, Napoli 1819, parte IV: Leggi della procedura<strong>penale</strong> ne’ giudizj penali, art. 224. Il più insigne commentatore di tale codice, Niccola Nicolini,esclude, per prima cosa, che il silenzio possa equipararsi ad una confessione tacita, per ilprincipio, già esposto altre volte, della necessaria distinzione tra materia civile e <strong>penale</strong>. Tuttaviaqui omnino non respondit contumax est: contumaciae autem poenam hanc ferre debet, utin solidum conveniatur, quemadmodum si negasset, quia praetorem contemnere videtur (D.11.1.11.4). Ciò non significa totale perdita del diritto alla difesa: l’avvocato, infatti, benpuò parlare per lui: e, se l’imputato ci ripensa e volontariamente decide di deporre e di difendersi,non può essere impedito, «anzi allora far gli si dovrebbero le abbandonate interrogazioni».Interessanti le osservazioni svolte a tal proposito dall’autore che, sulla scorta delframmento sopra ricordato, equipara il contumace al silenzioso: come il primo purga lasua assenza presentandosi in giudizio, «è chiaro, per quanto a me pare, che tenuto costuiquasi come assente per la sua contumace taciturnità, quante volte pentito la rompa, facciaritornar le cose allo stato primero» (N. Nicolini, Della procedura <strong>penale</strong> [...], parte III,vol. II cit., § 907, p. 320). Di equiparazione tra taciturno e contumace parla anche Ademollo,ma giungendo a risultati opposti rispetto al collega meridionale. Egli infatti, dopo aver sostenutola necessità di un ammonimento da parte dell’autorità procedente a desistere da similecontegno, suggerisce alla Corte di decidere di non interrogarlo più in alcuna altra partedel giudizio: «così insomma si equiparerebbe all’accusato assente e contumace» (A. Ademollo,Il giudizio criminale cit., pp. 359-60, § 1389).( 158 ) Regolamento organico e di procedura criminale (Roma 1831), in Regolamenti penalidi papa Gregorio XVI per lo Stato pontificio (1832), rist. anast., Padova 2000, art. 364. Vatuttavia precisato come il Regolamento gregoriano appronti un sistema di guarentigie a favoredell’imputato, individuando, innanzitutto, quale fine unico delle interrogazioni quellodi indagare e conoscere la verità «sì favorevole che contraria al Fisco» (art. 340); vietandole domande suggestive e, in generale, tutte quelle che non siano semplici e chiare (art.347), così come l’impiego di qualunque mezzo, anche indiretto o di qualsiasi seduzione, lusinga,minaccia per estorcere dichiarazioni che l’inquisito, spontaneamente, non avrebbe reso(art. 348); escludendo il deferimento del giuramento «neppure in caso che debba interrogarsisu persone estranee» (art. 355). Questo principio, volto a scalfire uno dei capisaldidel processo inquisitorio, ossia l’obbligo di dire la verità, ricorrendo, se non alla tortura,ad un altro mezzo di coazione morale come il giuramento, è però bilanciato da una regolamentazionequanto mai particolareggiata dell’esame dell’imputato, penetrante ed invasivo,alla stregua di quanto avviene nel codice austriaco. Sul punto cfr. S. Ambrosio –P.DeZan, L’ossessione della verità: spirito di conservazione ed echi illuminati nel regime probatoriodel Regolamento gregoriano, inI Regolamenti cit., in partic. pp. CXI-CXXIII. Svolgendoun’accurata analisi, Giuseppe Giuliani afferma che il § 364 del Regolamento risponde adun principio cardine del processo, ossia che di fronte al silenzio il giudice deve placidamenteavvertire l’imputato che il suo contegno va a costituire un indizio a suo carico, e proseguirepoi l’esame. Il professore di Macerata avverte inoltre che la mancata risposta ad ogni domandaporta alla contestazione finale del reato. La scelta compiuta nel Regolamento era un de-


154SAGGI E OPINIONImana, dunque, si nota, rispetto allo schema fornito dal codice Romagnosi eadottato dai restanti codici preunitari, non tanto una sorta di neutralità rispettoalla preferenza accordata dall’imputato al silenzio come metodo diauto-tutela quanto un giudizio di disvalore, cui riconnettere, con tono velatamenteintimidatorio, imprecisate ma intuibili conseguenze negative(159 ).La via tracciata dal codice del 1807, che allentava la pressione sull’imputatoe lo rendeva immune «da ogni forma di costringimento diretta a forzarneil secretum della coscienza»( 160 ), resterà comunque la strada maestra,seguita anche dal primo codice unitario di procedura <strong>penale</strong>.4. Nella legislazione postunitaria: da indizio di colpevolezza a strumentodi difesa. – La promulgazione del codice di rito <strong>penale</strong> del 1865 non pareapportare variazioni di rilievo: la norma sul silenzio, così come strutturatadal § 208 del codice del 1807, era passata sostanzialmente immutata neltesto albertino e da qui transitata in quello del 1865. L’art. 236 del nuovocodice dell’Italia unita riproduceva infatti fedelmente la disciplina del codicesardo del 1847, mantenuta inalterata nella versione del 1859: equiparavala posizione del taciturno a quella del finto pazzo, sordo o muto, nelsenso che in entrambi i casi l’imputato doveva essere avvertito dal giudiceche nonostante il suo silenzio o le infermità simulate si sarebbe procedutooltre all’istruttoria del processo, facendo di tutto ciò menzione.Da questo momento la storia del silenzio conosce scansioni molto marcate:i tre codici di procedura <strong>penale</strong> dell’Italia unita riflettono politiche deldiritto ben precise e la cultura giuridica in cui maturano.Partiamo dal primo. Esso non persegue vie coraggiose, attestandosi suposizioni consolidate, quasi a dar credito a quel rimaneggiamento frettolosodel ‘modello’ piemontese( 161 ), anche se, come si vedrà di seguito,ciso passo in avanti rispetto al passato, dove si ricorreva all’aculeo per costringere l’esaminatoa parlare. Abolita la tortura, la discussione riguardò la possibilità di trattare il tacens comeconfesso oppure no, prendendo le mosse dalla massima romana espressa da Paolo e più voltequi ricordata (D. 50.17.42). Muovendo dall’ipotesi che il silenzio possa essere talvolta suggeritonon da una rea coscienza, ma da altre cause (un segreto che non si può rivelare, ades.), è preferibile, sostiene Giuliani, che esso costituisca un indizio a carico, di cui tener conto,unitamente agli altri, nel ‘calcolo’ effettuato dal giudice (G. Giuliani, Istituzioni cit., t. I,§ VI, p. 502, e pp. 502-3 nt. 5).( 159 ) È quanto si percepisce anche dallo scritto di Canofari, il quale precisa che i giudicipossono trarre dal silenzio «quelle discrete induzioni che consigliano la dirittura, la santitàdel loro criterio, e l’assieme delle prove raccolte» (F. Canofari, Commentario cit., libroII, tit V cit., p. 193).( 160 ) V. Grevi, «Nemo tenetur» cit., p. 24.( 161 ) Sulla genesi del codice di procedura <strong>penale</strong> del 1865 e sui suoi rapporti con i testidell’Italia pre-unitaria, in particolare con quelli piemontesi, cfr. M.N. Miletti, Un processocit., pp. 67-80.


SAGGI E OPINIONI155sul profilo specifico che qui interessa pare di poter smentire quanto asseritoda una certa letteratura, ossia che nell’elaborazione del primo codiceprocessuale unitario non si tenne conto né del codice Romagnosi né diquello napoletano, «che pure avevano avuto riguardo a’ caratteri e a’ costuminostrani, e recavano l’impronta del nostro genio giuridico»( 162 ).Fu proprio al primo che invece si guardò come ad esempio da seguire.A dire il vero, più che il nudo dettato legislativo interessa la dottrinache attorno ad esso fiorì. E non si tratta di posizioni univoche.Taluni, come Lucchini, ribadiscono che l’esame dell’imputato ha tra isuoi scopi principali quello di ottenere le dichiarazioni e le eventuali indicazioninecessarie allo sviluppo del procedimento. Egli sostiene che, scomparsii remoti giudizi di Dio, il duello giudiziario e la tortura, l’interrogatoriorimane l’unico strumento valido per giungere alla confessione. Si percepiscein Lucchini una sorta di rassegnata, amara, disincantata valutazionedelle norme chiamate a presiedere il cosiddetto costituto obiettivo: pur essendosivietato di deferire il giuramento (art. 232), benché si sia ammessoche le domande debbano riguardare tanto gli elementi a carico quantoquelli a discarico cosí da garantire un accertamento imparziale dei fatti(art. 233), tuttavia «l’esame è sempre diretto allo stesso fine inquisitorio,come si evince dalle disposizioni che minuziosamente lo reggono (artt.234-239 c.p.p.), come lo agevola il modo con cui si assume, scritto, segreto,presenti soltanto il giudice e il cancelliere, come naturalmente lo devonoindurre la naturale inclinazione del giudice e il suo impegno di riuscire nell’intento[...] con un imputato abbandonato a se stesso, confuso e intimoritodalla qualità del luogo e delle persone, col panico naturale in simili situazioni.Per modo che non è fuor di proposito il dire che l’interrogatorioobiettivo talora costituisca una specie di tortura morale, sostituita all’anticatortura dei tormenti fisici»( 163 ).Una simile lettura non convince tutti. In molti sono pronti a sostenere( 162 ) B. Franchi, Nuovo codice di procedura <strong>penale</strong>, Milano 1914, p. X.( 163 ) L. Lucchini, Elementi di procedura <strong>penale</strong>, Firenze 1899, p. 296. Sono quasiidentici gli accenti che ritroviamo nel commento di De Notaristefani al codice del 1913.L’autore ritiene che non siano estranei ai costumi giudiziari neppure del Novecento né iduelli defatiganti ingaggiati per ottenere ammissioni o per provocare contraddizioni, né letorture spirituali a cui gli imputati sono sottoposti durante l’interrogatorio, specialmentein corte di assise (R. De Notaristefani, Commento al codice di procedura <strong>penale</strong>, libro terzoDel giudizio, Torino 1923, p. 461). Sommario e sbrigativo sul punto è invece il commento diAntonio Vismara. Dopo aver richiamato, lodato e invitato a riflettere sui «principii moltofilosofici ed utili» espressi dal codice austriaco in tema di interrogatorio, l’autore, per illustrarel’art. 236, si limita a ribadire quanto qui è stato più volte evidenziato: ossia che, se in lineadi massima il silenzio è da considerarsi un delitto contro la giustizia pubblica, ciò non determinasic et simpliciter la sconfitta del silente nei giudizi penali, perché, a differenza di quantoavviene nel civile, nessuna finta confessione può arguirsi dal mutismo dell’individuo (A. Vismara,Codice di procedura <strong>penale</strong> del Regno d’Italia spiegato col mezzo analogico, coll’auto-


156SAGGI E OPINIONIche questa raffigurazione dipinge i tempi andati (quando l’interrogatorionon era la via naturale per giungere al compimento del processo, quantopiuttosto un mezzo per estorcere una confessione; non l’occasione offertaall’imputato per giustificare i propri comportamenti, bensì un atto di violenza),ma non rispecchia il presente. Avanza l’onda lunga di quanti riconosconoall’interrogatorio funzioni garantistiche e vi scorgono un mezzodiretto non al solo accertamento imparziale dei fatti ma alla difesa dell’imputato(164 ).L’interrogatorio cambia fisionomia, ruolo e finalità. Il piú diffuso manualedi procedura del tardo Ottocento, il Borsani – Casorati, riflette: «Ilprocesso oggidì lo usa ai fini della difesa, e ne ricava un mezzo d’istruzionenon già una prova», anche se, innegabilmente, esso rimane un momento disnodo nelle vicende processuali, un momento di grande rilevanza per laperdurante capacità d’influenzare il ‘convincimento’ dei giudici. Ma nonè questo il suo scopo: «il giudice lo deve usare come una deferenza dovutaalla difesa, e come ascolta l’accusatore, così, e con la stessa imparzialità,deve ascoltare l’accusato, registrarne le dichiarazioni spontanee, ma nonabusarne»( 165 ).Risente di questa nuova impostazione anche la concezione del silenzio,inteso come esercizio d’una facoltà, una scelta di libertà di cui avvalersiqualora non si intenda compromettere la propria posizione con risposte irriflessive«non potendosi pretendere che l’imputato divenga un suicida»(166 ). Si opta per la più letterale interpretazione della disciplina codicistica:chi tace accetta che le prove e gli indizi raccolti contro di lui conservinola loro forza non essendo combattuti, ma «ritenere la negativa arispondere come tacita confessione è una idea che ripugna al buon sensoed a’ principi del codice che non ammetta il sistema delle pruove legali»(167 ).rità del diritto romano e colle dottrine di sommi penalisti e posto in relazione coi codici abrogatidi procedura <strong>penale</strong> napoletano e italiano, Napoli 1871, p.106, nt. 3).( 164 ) Efficacemente si sostiene che uno dei principali vizi del processo inquisitorio fu lacorruzione del concetto di interrogatorio, considerato non quale provocazione dell’eserciziodella difesa (come avrebbe dovuto essere) ma esperimento di un mezzo di prova. «La difesaentrava nell’interrogatorio come un episodio; ma lo scopo che la legge si prefiggeva di raggiungereera la confessione della reità» (G. Borsani –L.Casorati, Codice di procedura <strong>penale</strong>italiano commentato, vol. II, Milano 1876, p. 422). Ne condividono l’impostazione G.Sabatini, Teoria delle prove nel diritto giudiziario <strong>penale</strong>, parte II Delle presunzioni e delleprove in generale, Catanzaro 1911, p. 324; P. Tuozzi, Principii del procedimento <strong>penale</strong>, Torinos.d., p. 205; V. Manzini, Manuale di procedura <strong>penale</strong> italiano, Torino 1912, p. 573.( 165 ) Entrambe le citazioni sono tratte da G. Borsani –L.Casorati, Codice cit., pp.423-4.( 166 ) F. Saluto, Commenti cit., pp. 555-6.( 167 ) F. Saluto, Commenti cit., pp. 555-6. In questa prospettiva, l’autore ammonisceil giudice a conservare la propria serenità anche nel caso in cui, durante l’interrogatorio, l’im-


SAGGI E OPINIONI157Prescrivere l’interrogatorio preliminare a pena di nullità, come fa il codiceunitario, significa solo che l’imputato deve essere interrogato dal giudice,ma non significa che qualora egli non risponda alle domande rivolteglil’istruzione si debba arrestare, perché, se così fosse sarebbe in balia dell’imputatosospendere il corso del processo con il suo silenzio: questo è il sensodell’art. 236( 168 ). È il logico corollario di chi vede nel fine dell’interrogatoriol’integrità della difesa( 169 ): la legge lascia libero l’imputato di sceglierese rispondere o meno alle domande rivoltegli, bandendo l’assurda teoricadi procedere contro di lui e di incriminarlo per il solo fatto di aver frappostodinieghi e rifiuti( 170 ).Neppur troppo velatamente si comincia a riconoscere al silenzio unafunzione di garanzia. E sebbene si ritenga l’art. 236 dettato forse «piùper porre un limite ai poteri del giudice interrogante che per assicurareun diritto all’imputato»( 171 ), va riconosciuto che la dottrina e la giurisprudenzalavorarono per riempire di specifico contenuto tale norma e farne ilvessillo di una nuova forma di tutela dell’individuo sottoposto a giudizio,non più ‘macchina di verità’, ma parte in causa che si avvale di ogni lecitastrategia per proteggersi( 172 ).Sì, anche la giurisprudenza. A dire il vero le pronunce sul punto sononumericamente esigue( 173 ) e anche questo è un dato di rilievo. Esso nonputato abbia un atteggiamento sconveniente e non solo perché ciò giova alla dignità sua edella giustizia, «ma pure all’efficacia delle esortazioni che occorrerebbero di dover fare, secondole circostanze» (ibidem). Lo stesso concetto aveva espresso Giuriati, convinto che ladolcezza dei modi fosse ben lungi dal nuocere alla fermezza del contegno; era utile anzi alla«dignità e alla efficacia delle esortazioni» (D. Giuriati, Commento cit., p. 202).( 168 ) Secondo Carfora, l’avvertenza rivolta all’imputato ex art. 236, ossia che si procedeoltre nell’istruzione nonostante il suo silenzio, intende rendergli noto il rischio di essere giudicatoprescindendosi dagli argomenti a discolpa che egli ha rinunciato ad esporre sottraendosial contraddittorio: al tempo stesso lo si vuole indurre a recedere dal proposito del silenzioper ottenere da lui tutte le dichiarazioni che possono essere utili per perseguire la verità(F. Carfora, voce Interrogatorio, inDigesto Italiano, vol. XIII, Torino 1927, p. 124, § 55).( 169 ) Sbriccoli individua nel riconoscimento del diritto al silenzio un passo decisivo per«l’inizio di un viaggio lunghissimo – non ancora giunto a termine – che modificherà la naturae il senso del processo <strong>penale</strong>, trasformandolo da macchina per attingere prove (prima ditutto) contro l’imputato, in luogo funzionalmente orientato a garantirgli l’esercizio della difesa»(M. Sbriccoli, Giustizia criminale cit., pp. 189-90).( 170 ) G. Borsani –L.Casorati, Codice cit., p. 495.( 171 ) V. Grevi, «Nemo tenetur» cit., p. 29.( 172 ) Borsani e Casorati parlano letteralmente d’un uso, da parte dell’imputato, del dirittodi natura a tutela della personale incolumità, saldando così un ideale cerchio con le posizionigiusnaturalistiche o (rectius) illuministiche (G. Borsani –L.Casorati, Codice cit.,p. 424).( 173 ) Lo evidenzierà decenni dopo Alessandro Stoppato, il quale definendo un «validousbergo» contro gli abusi la facoltà di non rispondere, al contempo mostrava di credere chenon sarebbero mai stati molti gli accusati pronti ad avvalersi di tale facoltà «perché tutti intendonoche l’interrogatorio, al quale si sottopongono, serve specialmente come mezzo di


158SAGGI E OPINIONIsolo ci fa capire che l’imputato trovava, nella maggioranza dei casi, ‘naturale’collaborare con la giustizia. Ma soprattutto svela che sul rifiuto a risponderegravava ancora un preconcetto duro a morire: quello di comportamentoscorretto, illegittimo se non illecito, chiaro retaggio del segno profondolasciato dai secoli andati. Se della plurisecolare repressione non restapiù traccia nel dettato normativo, l’eco si avverte ancora nella coscienza individualee collettiva: non basta un colpo di spugna a maturare la pienaconsapevolezza delle conquistate libertà.Le sentenze appaiono forse meno incisive ed esprimono posizionimeno nette di quelle dottrinali: non riproducono fedelmente la spaccaturafra chi non sembra voler rinunciare alle ‘sicurezze punitive’ del passato echi invece inneggia all’alba di nuovi giorni. I toni sono più sfumati, anchese alcune affermazioni significative non mancano.Ad esempio, di fronte alla Corte di Cassazione di Firenze, il ricorrentesostiene che l’accusato che viene assoggettato all’interrogatorio è libero didare risposte incomplete o di tacersi affatto, perché ciò costituisce un legittimoesercizio della sua difesa( 174 ). Ancor più significativamente, la Corted’Appello di Macerata, una decina di anni dopo, di fronte ad un imputatoche si lamentava del fatto che il presidente del tribunale non lo avesse obbligatoa difendersi, ribadiva la massima che l’interrogatorio ha due scopi:acquisire le prove del reato (e ciò interessa l’accusa) e permettere all’imputatodi fornire le sue giustificazioni (interesse della difesa). Se l’imputato haottenuto la parola per difendersi e non se ne è servito, si ritiene non vogliarispondere e nessuno può obbligarlo a farlo( 175 ).La decisione della Corte, così come lo stesso dettato normativo a benvedere, si presta ad una duplice lettura. Avvertito della prosecuzione dell’istruttoria,l’imputato non può recriminare per l’occasione persa, fruttod’una scelta libera che lo Stato gli riconosce e protegge. Al contempo, però,la rinuncia a difendersi ‘attivamente’ pare irrevocabile: la mancata spenditadella parola sembra precludere ripensamenti o modifica delle strategie difensive.Posizioni nostalgiche si percepiscono invece in una sentenza genovesedel 1888. Qui la Corte d’Appello, distinguendo tra rifiuto a rispondere edichiarazione dell’imputato di ignorare i fatti costituenti oggetto di interro-difesa» (Camera dei deputati, Relazione della Commissione sul progetto del codice di procedura<strong>penale</strong> per il Regno d’Italia e sul disegno di legge che ne autorizza la pubblicazione, n. 78, p.275, in Commento al codice di procedura <strong>penale</strong>, parte prima Lavori preparatori, vol. III Lavoriparlamentari [relazioni, discussioni], Torino 1915).( 174 ) Corte di Cassazione di Firenze, 28 giugno 1872, Gallicani e altri ricorrenti, inGiurisprudenza Italiana, 24 (1872), col. 439.( 175 ) Corte d’appello di Macerata, 25 agosto 1884, in Giurisprudenza Italiana, 36(1884), col. 527.


SAGGI E OPINIONI159gatorio, nella volontà di mostrare la mancata corrispondenza tra i due attianche ai fini degli effetti, non esita ad affermare che vi è presunzione dellaverità dei fatti in chi non risponde, quasi che il silenzio fosse implicita attestazionedi veridicità( 176 ).Di segno opposto altre decisioni, dove costantemente si insiste sull’intimacorrispondenza tra diritto del giudice a rivolgere qualunque domandaritenuta opportuna per l’accertamento della verità e diritto dell’accusato anon rispondere( 177 ).Non dura a lungo tuttavia il favore verso il primo codice nazionale.Elaborato nell’urgenza che aveva caratterizzato tutti i lavori di codificazioneall’indomani dell’unità politica, il testo viene messo in discussionenel volgere di pochi decenni. Accusato di essere una congerie di difetti tecnico-giuridicie pratici, attirò sudiséuna crociata di critiche, tanto che findai primi anni della sua applicazione Parlamento, dottrina e mondo forensesollecitarono una solerte riforma( 178 ).Tra i temi sul tavolo degli interventi svetta la necessità di migliorare lacondizione dell’imputato e dell’esercizio della difesa. Una panoramica dellelegislazioni straniere( 179 ) convince della improrogabilità di interventi voltia fornire maggiori strumenti a protezione dell’individuo nel momento del-( 176 ) Corte di Appello di Genova, 9 marzo 1888, in Giurisprudenza Italiana, 40 (1888),p. II, col. 727-8.( 177 ) Si veda, ad es., la decisione della Cassazione di Firenze del 31 ottobre 1885, dovesi legge che in omaggio al diritto di difesa il giudice non può imporre all’imputato di rispondereall’interrogatorio, per la «potentissima ragione che nemo potest cogi praecise ad factum»(Corte di Cassazione di Firenze, 31 ottobre 1885, Natale, citata in Rivista <strong>penale</strong>, 25 [1887],p. 136, nt. 1), così come la sentenza della Cassazione del 28 novembre 1912, ric. Bettmann,in Giustizia <strong>penale</strong>, XIX, col. 522. Le pronunce giudiziali specificavano che al silenzio l’imputatopoteva determinarsi da sé o in seguito a suggerimento del difensore; ma era consideratoillegale un qualsiasi incitamento da parte di chi dirige l’udienza, anche se espresso sottoforma di consiglio, a rimettersi ad interrogatori precedenti o a ciò che avrebbe potuto dire ildifensore (Cassazione di Torino, 22 luglio 1886, ric. Fratelli Corallo, inRivista <strong>penale</strong>, 25[1887] p. 136). Al contrario, la facoltà di rimettersi è concessa all’imputato, che esercita cosìil suo diritto di tacere (Cassazione di Firenze, 31 ottobre 1885, ric. Podestà, inRivista <strong>penale</strong>,24 [1886], p. 538; e ancora 11 novembre 1890, ric. Orsi, inRivista <strong>penale</strong>, 33 [1891], p. 74).Nel caso poi che l’imputato rifiuti di rispondere in sede di giudizio, si deve dare lettura dell’interrogatorioprecedentemente dato (Cassazione, 27 novembre 1895, ric. Falani, inGiustizia<strong>penale</strong>, I, col. 1533) e lo stesso vale se l’imputato rinvia ad altro interrogatorio (in sensocontrario Cassazione, 14 febbraio 1896, ric. Abate, inRivista <strong>penale</strong>, 43 [1896], p. 402).( 178 ) Per una panoramica delle critiche rivolte al codice del 1865 cfr. M. N. Miletti,Un processo cit., p. 2 e pp. 80-92.( 179 ) Cfr. sul punto Atti parlamentari, Camera dei deputati (n. 266), Progetto del Codicedi procedura <strong>penale</strong> per il Regno d’Italia e disegno di legge che ne autorizza la pubblicazionepresentato dal Ministro di Grazia e giustizia e dei culti (Finocchiaro-Aprile) nella seduta del28 novembre 1905, parte II Disegno di legge e Testo del Codice, Roma 1905, sez. VII, n.LXXIII, pp. 334-6, nt. 2.


160SAGGI E OPINIONIl’interrogatorio, una delle fasi processuali più pesantemente condizionatedal marchio inquisitorio o accusatorio del rito( 180 ).Si auspica quindi che l’interrogatorio sia condotto dal giudice in modotale da consentire all’imputato di mostrare l’insussistenza degli indizi risultantia suo carico e di far valere le circostanze che gli possono tornare favorevoli(181 ). L’aspirazione è quella di veder finalmente cessare tra giudicee accusato quella lotta «che troppo spesso traspare negli atti istruttori deinostri tribunali e della quale si dà talora disgustoso spettacolo alle pubblicheudienze, lotta in cui gareggia dall’una parte ad attaccare e confonderee dall’altra a difendersi e ad ingannare»( 182 ).Giudice e accusato si scoprono dunque alleati nel raggiungimentodello stesso fine: portare alla luce la verità giudiziaria. Si ambisce a realizzarequanto già accade nei sistemi di common law, ossia un judge counsel ofthe prisoner. Da noi, invece, «nella pratica ancor più che nella legge»( 183 )la( 180 ) Significativa in questo senso è la Relazione ministeriale presentata nella seduta del28 novembre 1905, in cui il Ministro di grazia e giustizia e dei culti, Finocchiaro-Aprile, ripercorrendole tappe che avevano condotto al progetto del 1905, non solo offre un quadroricco e articolato delle riforme processuali intraprese nell’Europa intera, ma sottolinea coninsistenza che la necessità e l’urgenza di un nuovo Codice di procedura <strong>penale</strong> sono postidalla vigenza di una legislazione, quella risalente al 1865, incapace di tutelare efficacementela repressione della delinquenza e la difesa dell’innocenza, entrambi interessi d’ordine pubblicoe sociale: non andava poi trascurato il fatto che l’entrata in vigore del codice <strong>penale</strong> del1889 rendeva improrogabile interventi massicci sul rito, per l’intimo legame esistente fra ledue parti della legislazione (Atti parlamentari, Camera dei deputati [n. 266], Progetto del Codicedi procedura <strong>penale</strong> per il Regno d’Italia e disegno di legge che ne autorizza la pubblicazionepresentato dal Ministro di Grazia e giustizia e dei culti [Finocchiaro-Aprile] nella sedutadel 28 novembre 1905, parte I Relazione ministeriale, Roma 1905, pp. 17-26).( 181 ) E. Pessina, Manuale del diritto <strong>penale</strong> italiano, parte prima, Napoli 1893, p. 51.Sarà un principio accolto anche nei progetti del c.p.p. del 1913, come dimostrato inequivocabilmentedalla Relazione composta per la Commissione della Camera da Stoppato sul progettodi legge del 1911, dove, in sintesi, si afferma che «non essendo l’interrogatorio consideratocome un mezzo di prova, non si può in alcun modo forzare o ridurre l’imputato a farsidella prova una fonte. La stessa confessione può facilitare la ricerca; ma per sé medesima nonla esaurisce. Ed è perciò che si intendono vietare violenze o suggestioni, e che il giudice deveeducarsi (e questo non può fare il Codice) a una concezione corrispondente al fine dell’interrogatorionei suoi rapporti con l’imputato» (Camera dei deputati, Relazione della Commissionesul progetto del codice di procedura <strong>penale</strong> per il Regno d’Italia e sul disegno di legge chene autorizza la pubblicazione, n. 75, p. 273, in Commento al codice di procedura <strong>penale</strong>, parteprima Lavori preparatori, vol. III Lavori parlamentari [relazioni, discussioni], Torino 1915).Qualche dissenziente puntualizzazione la troviamo in Ferri, per il quale l’accento va nuovamenteposto non sulla funzione difensiva dell’interrogatorio (come era esclusivamente consideratodal progetto di legge del 1911), ma sul suo essere fonte (e non mezzo) di prova(Commento al codice di procedura <strong>penale</strong>, parte prima Lavori preparatori, vol. III Lavori parlamentari[relazioni, discussioni], Torino 1915, p. 359).( 182 ) F. Benevolo, Il decreto cit., p. 541.( 183 ) Lo scollamento tra legislazione e prassi è additata chiaramente da Benevolo. In-


SAGGI E OPINIONI161prevenzione contro l’imputato trasforma l’interrogatorio in una «torturamorale per l’imputato, in un pericolo per l’innocente»( 184 ).Si modifica la visione della posizione processuale dell’imputato: se nelpassato secundum practicam mundi non sit dandum in criminalibus tempusreo ad deliberandum, oggi quisque praesumitur justus donec probetur injustus.Poiché nell’interrogatorio si annida la principale arma difensiva, siprofila la possibilità d’una legislazione la quale intimi al giudice interrogantedi avvertire l’accusato «che se non vuol rispondere è suo diritto»(185 ).Il nuovo secolo valorizza le conquiste del precedente, e le fa brillare diluce propria, osando quanto mai era stato fatto prima di allora.Si incomincia, ad esempio, a discutere del ruolo dell’interrogatorioproponendone una trasformazione radicale. Si arriva persino a proporre,sull’esempio della Francia, di abolirlo( 186 ), negandogli qualsiasi valore difatti l’art. 233 del c.p.p. del 1865 espressamente richiedeva interrogatori chiari, precisi, e direttiad accertare imparzialmente i fatti, così come l’imputato era eccitato a dichiarare se equali prove avesse a proprio discarico. L’unico rischio era di cadere in una vanificazionedi fatto dell’esercizio della difesa, come attestava, per il passato, una pronuncia della Cassazionedi Napoli del 19 gennaio 1863, in cui si affermava che, se era vero che l’interrogatorioera mezzo per accertare i fatti tanto a carico quanto a discolpa dell’imputato, ciò tuttavia nonsignificava che al giudice correva l’obbligo di raccogliere le prove indicate dall’interrogato(cfr. La Legge, vol. III, p. 457). Benevolo ammetteva inoltre che ciò segnava un indubbioprogresso rispetto alla normativa francese, muta sul punto e priva di ogni regola direttiva:lì dottrina e giurisprudenza erano costrette ad ispirarsi all’ordinanza del 1670 «emanataquando il sistema inquisitorio faceva maggior strazio degli imputati» (F. Benevolo, Ildecreto cit., p. 538, nt. 2).( 184 ) F. Benevolo, Il decreto cit., p. 541.( 185 ) E. Pessina, Manuale cit., p. 51.( 186 ) Prendendo posizione sul dibattito in atto tra quanti propugnavano l’abolizionedell’interrogatorio nel dibattimento, ritenendolo incompatibile con la giustizia, e chi invecelo considerava così necessario da invitare il giudice a sollecitare in ogni modo l’imputato arispondere, Casorati riconosceva da un lato la necessità dell’interrogatorio (sia nella sua funzionedi momento difensivo che di accertamento di verità) ma dall’altro ammoniva che non sipoteva costringere l’accusato a rispondere, perché nessuno poteva essere obbligato a testimoniarecontro di sé: ogni genere di coercizione morale o materiale usata a tal fine si sarebberisolta in una riproduzione della tortura. L’obbligo a rispondere era dunque reminiscenzadell’antico processo inquisitorio, in netta opposizione ai principi del diritto moderno voltoa bandire dai pubblici giudizi tutto quanto potesse inceppare la libertà morale e materialedegli accusati, menomandone il diritto di difesa. «Né dicasi che il diritto della giustizia diprescrivere l’interrogatorio e il diritto dell’accusato di osservare il silenzio costituiscanodue termini contradittorii. Anche il silenzio ha la sua eloquenza e il rifiuto dell’accusato dirispondere, se da una parte salva il diritto di lui di non offrire le armi contro se stesso, dall’altronon lede le esigenze legittime della giustizia, soddisfatte mercè le interpellanze rivolteall’accusato stesso, sia che egli risponda o non risponda. Spetta ai giudici valutare il significatodel silenzio, ponendolo in relazione con tutte le risultanze della causa» (L. Casorati, Ilprocesso <strong>penale</strong> e la riforma. Studi, inMonitore dei tribunali, anno XXI, n. 48 [1880], n. 72,p. 1064).


162SAGGI E OPINIONIprova, nel timore che si potesse estorcere una confessione con intimidazionio altri mezzi coercitivi.La posizione estrema, che pure aleggiava nel progetto ministeriale, nonpassò, ma certo, gettando ogni remora alle spalle, si intavolò un acceso dibattitoriguardo alla configurazione di un vero e proprio diritto al silenzio.È quanto troviamo enunciato agli inizi dei lavori preparatori del codice del1913( 187 ): nella seduta del 22 aprile 1899 la commissione votò, non senzacontrasti al proprio interno, la proposta di porre a carico del giudice istruttorel’obbligo di informare l’imputato, in sede di interrogatorio, della possibilitàdi avvalersi del diritto a non rispondere( 188 ). Tale scelta venne difesacontro il parere di alcuni commissari e della stessa magistratura.Questa, chiamata ad esprimersi sul punto, quasi unanimemente si opposea siffatta innovazione, rivelando da subito quell’ostilità e quella tenace volontàdi preservare le proprie posizioni (ritenute minacciate dalla norma inoggetto) che connotò l’intero iter dei lavori. Le Cassazioni di Palermo,Roma e Torino, le Corti d’Appello di Ancona, Aquila, Bologna, Cagliari,Catania, Casale, Firenze, Lucca, Milano, Napoli, Roma, Torino, Veneziafecero pervenire le loro contrarie osservazioni. A favore dell’art. 243( 189 )( 187 ) Per meglio comprendere le scansioni che condussero alla promulgazione delcodice di procedura <strong>penale</strong> del 1913 cfr. M. N. Miletti, Un processo cit., passim. Criticoed ironico il giudizio di Franchi sul succedersi delle varie commissioni: «Bisogna dirchiaro che tutte quelle Commissioni, già numerose quando venivano create, e dove i ministrisuccedendosi l’un l’altro andavano ancora aggiungendo commissari e commissarinon rappresentarono né, in genere, con i loro uomini, né con l’opera loro la rinnovatacoscienza giuridica del Paese, nella quale campeggiavano ormai una più profonda epiù viva dottrina liberatasi dai modelli francesi, e una più fresca e positiva coscienzadel carattere e dei fini del processo <strong>penale</strong>» (B. Franchi, Nuovo codice cit., p. XIX).Cfr.( 188 ) Si stabiliva che «con l’interrogatorio il giudice istruttore deve obbiettare all’imputatola imputazione e manifestargli le prove raccolte, indicandone le sorgenti. L’imputato deveessere eccitato a difendersi contro le medesime. Il giudice deve avvertirlo del diritto dinon rispondere all’interrogatorio, facendosi nell’atto menzione dell’adempimento di questaformalità» (Atti della commissione istituita con decreto 3 ottobre 1899 con l’incarico di studiaree proporre le modificazioni da introdurre nel vigente codice di procedura <strong>penale</strong>, inLavoripreparatori del codice di procedura <strong>penale</strong> per il Regno d’Italia, vol. I, Roma 1900, Verbali dellesedute, Verbale XXXII, pp. 322-323; Principii adottati dalla Commissione, n.45eOsservazionisui Principi adottati dalla Commissione istituita con decreto 3 ottobre 1898 con l’incaricodi studiare e proporre le modificazioni da introdurre nel vigente codice di procedura <strong>penale</strong>,pp. 19-22). Si rinvia anche a. R. Garofalo eL.Carelli, Riforma della procedura <strong>penale</strong> inItalia. Progetto di un nuovo codice, Torino 1889, Introduzione, pp. I-XXII; sull’interrogatoriopp. CCXII-CCXVII.( 189 ) Il Progetto presentato dalla sottocommissione al ministro di grazia e giustizia e deiculti Cocco-Ortu recava all’art. 243 tale formula: «Il giudice contesta, in forma chiara e precisa,all’imputato il fatto che gli è attribuito, gli indica le prove raccolte, e se non cagioni nocumentoall’istruzione, anche le fonti di essi, e gli rivolge ogni altra domanda che possa condurreall’accertamento della verità, offrendogli il modo di discolparsi sopra ciascuna circo-


SAGGI E OPINIONI163si pronunciò la sola Cassazione di Firenze, forse sospinta in questo sensodall’allora presidente Carlo Cesarini, noto per le sue idee progressiste.Si obiettava che l’avvertimento all’imputato dell’esistenza di un similediritto a suo favore fosse una sorta di incitamento a serbare il silenzio neiprimi interrogatori, per riservarsi di rispondere dopo un consulto con ildifensore( 190 ). Per mostrare una minima apertura ai suggerimenti pervenutida più parti si decise di mantenere ferma la previsione del monito,ma se ne attenuarono i toni. Fu così che nell’art. 247 2º comma del progettodella sottocommissione presieduta da Pessina( 191 ) si preferì alla dizionepalesemente incline ad esaltare il principio del nemo tenetur unaenunciazione di identica portata ma di più mite fattura: scomparve il riferimentoal diritto dell’imputato e lo si sostituì con l’avvertenza che eglinon aveva obbligo di rispondere a qualsiasi domanda gli venisse rivolta(192 ).Il principio passò indenne attraverso la revisione del 1902( 193 ) ed ap-stanza. Prima di ricevere le dichiarazioni, il giudice avverte l’imputato che ha facoltà di nonfarne. Il giudice deve investigare su tutte le circostanze che risultano dall’interrogatorio e nelleprove addotte dall’imputato in discolpa, in quanto conducono ad accertare la verità» (Lavoripreparatori cit., vol. V, pt. 1, Roma 1902, pp. 158-9).( 190 ) Esprimevano parere favorevole all’avvertimento l’Harburger e il Mayer, che riconoscevanoin questa formalità la garanzia della libera volontà dell’imputato di fronte all’autoritàgiuridica e morale del giudice (Osservazioni e pareri, inLavori preparatori cit., vol. IV,Roma 1902, pp. 192-205).( 191 ) Cfr. nt. 187.( 192 ) «Il giudice contesta in forma chiara e precisa, all’imputato il fatto che gli è attribuito,e gli fa noti gl’indizi esistenti a suo carico, e, se non cagioni nocumento all’istruzione,anche le fonti di essi. Indi il giudice invita l’imputato a fare, se voglia, le sue dichiarazioni, elo avverte che non ha obbligo di rispondere a qualsiasi domanda gli venga rivolta, facendodell’avvertimento menzione nel verbale. Successivamente il giudice rivolge all’imputato tuttequelle domande che ritenga necessarie od utili a scoprire la verità. Le norme suddette si applicanoaltresì al costituto, e sempre che si procede all’interrogatorio dell’imputato, in quantonon sia diversamente stabilito» (art. 247 del Progetto del codice di procedura <strong>penale</strong> precedutodalla relazione presentato dalla Sottocommissione al Ministro di grazia e giustizia e deiculti,inLavori preparatori cit., vol. V, parte I, Roma 1904, p. 151, 265; cfr. anche Esposizionesintetica dei progetti di riforme parziali [1806-1910] e dei lavori delle Commissioni incaricatedi proporre in progetto preliminare del Codice [1898-1905], inCommento al codice di procedura<strong>penale</strong>, Parte prima Lavori preparatori, vol. I I progetti di riforme parziali e i lavori delleCommissioni, Torino 1913, p. 324). È evidente la differenza intercorrente con i principi fissatidalla Commissione del 1899, per i quali si rinvia alla nt. 188.( 193 ) Progetto del Codice di procedura <strong>penale</strong> formulato dalla Sottocommissione con lemodificazioni proposte dalla Commissione di revisione, inLavori preparatori cit., vol. VI, Roma1905, p. 73. Non era passato il tentativo avanzato da alcuni (Fiocca e De Giulj, cui sicontrappose fieramente Mazzella, colui che per primo nel 1899, con l’appoggio di Pessinae di Brusa, aveva accolto il principio del nemo tenetur) di far cadere l’inciso relativamenteall’avvertimento da rivolgere all’imputato (cfr. Verbali della Commissione di revisione allegatial Progetto del codice di procedura <strong>penale</strong>, inLavori preparatori cit., vol. VII, parte II, Roma1906, verbale XXIV, p. 442).


164SAGGI E OPINIONIprodò invariato ai progetti del 1905 (art. 269 2º comma)( 194 ) e del 1911(art. 302 2º comma)( 195 ), superando le mai sopite ostilità mostrate nei suoiconfronti da alcuni relatori( 196 ).Si sottolineava una sostanziale differenza rispetto al vigente codice del1865. L’insistenza sull’avvertimento mirava a renderlo noto a tutti gli imputatie a suggerire ai giudici di astenersi da promesse contrarie al rispettodovuto alla libertà di difesa, impedendo che dal silenzio si potessero trarreesagerate conseguenze e deduzioni, alle quali l’esplicita autorizzazione dellalegge toglieva ogni fondamento.Fu questo, però, il suo canto del cigno. Salutato come una delle innovazioniprincipali del futuro codice, sbandierato quale attestazione di progressodell’Italia liberale( 197 ) e considerato imprescindibile sintomo del( 194 ) A convincere della bontà della scelta e a ‘blindare’ il mantenimento di una pienalibertà di non rispondere inducevano i primi timidi procedimenti psicologici sperimentati,con cui si cercava di penetrare nei segreti di un uomo, costringendolo a rivelare il propriopensiero senza il concorso della volontà o nonostante una volontà contraria, altro tema alloracome oggi delicato e complesso per evidenti implicazioni [cfr. Atti parlamentari, Camera deideputati (n. 266), Progetto del Codice di procedura <strong>penale</strong> per il Regno d’Italia e disegno dilegge che ne autorizza la pubblicazione presentato dal Ministro di Grazia e giustizia e dei culti(Finocchiaro-Aprile) nella seduta del 28 novembre 1905, parte II Disegno di legge e Testo delCodice, Roma 1905, sez. VII, n. LXXIII, p. 336, nt. 1].( 195 ) L’art. 302 riproduceva fedelmente, con alcune variazioni non sostanziali, l’originarioart. 247, stabilendo che «il giudice contesta in forma chiara e precisa all’imputato ilfatto che gli è attribuito, gli fa noti gl’indizii esistenti a suo carico, e, se non cagioni nocumentoall’istruzione, gli indica anche le fonti di essi. Indi il giudice invita l’imputato a discolparsie ad indicare le prove in discolpa, avvertendolo che non ha l’obbligo di rispondere.Dell’avvertimento è fatta menzione nel verbale» [Senato del Regno (n. 544), Progetto del Codicedi procedura <strong>penale</strong> per il Regno d’Italia e disegno di legge che ne autorizza la pubblicazionepresentato dal Ministro di grazia e giustizia e dei culti (Finocchiaro-Aprile) nella tornatadel 23 maggio 1911, Roma 1911, art. 302]. Lo stesso principio era ribadito, per la fase digiudizio, dall’art. 456 («Il presidente o il pretore, dopo aver informato l’accusato del fattoche viene posto a suo carico, lo invita a fare le sue dichiarazioni avvertendolo che non hal’obbligo di rispondere»).( 196 ) Pasquale Tuozzi, nel commentare il c.p.p. del 1913, all’indomani dell’entrata invigore, scorgeva nella formulazione del progetto un’influenza di pericolose teorie sfavorevoliallo stesso interrogatorio, «quasi che fosse una lodevole innovazione, e un lodevole gesto diciviltà e di progresso, il consigliare di rinunciare ad un atto, che oltre al porgere propiziaoccasione per appurare la verità, costituisce un opportuno mezzo difensivo». (P. Tuozzi,Il nuovo codice di procedura <strong>penale</strong> commentato, Milano 1914, p. 439). L’autore esprimevaperciò il proprio compiacimento per la prudente l’eliminazione dal testo definitivo di taleobbligo di avvertimento (ivi, p. 298).( 197 ) L’on. Raffaele Cotugno, nel corso del suo intervento alla Camera, si dichiaravafavorevole al mantenimento dell’art. 302 del progetto del 1911, definito quale vera conquistanella storia del diritto e dichiarandosi convinto che la giustizia avesse organi e forza sufficientiper raggiungere e colpire i violatori della norma <strong>penale</strong> anche quando questi non intendesserocollaborare per dimostrare la loro innocenza [Commento al codice di procedura <strong>penale</strong>,parte prima Lavori preparatori, vol. III Lavori parlamentari (relazioni, discussioni), Torino1915, p. 371, § 3].


SAGGI E OPINIONI165nuovo protagonismo assunto dall’imputato, che sarebbe stato cosí chiamatoad una maggior presa di coscienza di sé e dei propri diritti( 198 ), ilprincipio dell’avvertimento non sopravvisse allla discussione parlamentare(199 ).Già nella Relazione della Commissione senatoria redatta da Ludovico( 198 ) Nella Relazione ministeriale del 1905, illustrando gli articoli dedicati all’interrogatoriodell’imputato, quelli compresi fra il 268 e il 271, Finocchiaro-Aprile poneva l’accentosu due importanti novità: la potestà concessa al giudice istruttore di rendere note all’imputatole fonti degli indizi esistenti a suo carico (art. 269, 1º comma) e l’avvertimento all’imputatoche non ha l’obbligo di rispondere alle domande rivoltegli (art. 269, 2º comma). Quest’ultimoera la traduzione fedele del principio nemo tenetur se accusare e la più coerente attestazioneche l’interrogatorio era concepito quale mezzo di difesa e non di prova,sull’esempio di quanto avveniva in quel momento negli Stati progressisti. Ritorna, dunque,l’idea che la condanna deve trovare fondamento in prove indipendenti ed estranei alla paroladell’imputato, perché «èincivile che alcuno sia costretto a provare contro se stesso; e il costringimentonon viene soltanto dai tratti di corda, o da altra specie di fisici tormenti, maeziandio dalle suggestioni, dalle lusinghe, dalle sorprese, dalle insidie, alle quali si affida l’istruzioneinquisitoria» [Atti parlamentari, Camera dei deputati (n. 266), Progetto del Codicedi procedura <strong>penale</strong> per il Regno d’Italia e disegno di legge che ne autorizza la pubblicazionepresentato dal Ministro di Grazia e giustizia e dei culti (Finocchiaro-Aprile) nella seduta del28 novembre 1905, parte I Relazione ministeriale, Roma 1905, p. 250, ma si veda anche parteII Disegno di legge e Testo del Codice, sez. VII, n. LXXIII, pp. 333-6].( 199 ) In particolare, furono gli esponenti della scuola criminale positiva ad esprimere illoro disfavore verso l’art. 302. Tra alti e bassi e alcune oscillazioni, che coinvolsero Mortara eStoppato, si cercò di far prevalere in aula gli orientamenti di questa corrente dottrinale e diinserire all’interno del testo proprio quelle modifiche che meglio ne esprimessero i principifondamentali. A suffragio di tali considerazioni, basterebbe il discorso di Enrico Ferri, il qualedopo un’esplicita ammissione del proprio ‘credo’ («io sono un eterodosso: quindi ho i mieicriteri personali, ai quali ho dato il mio pensiero e la mia vita da tanti anni e per i quali vadoosservando una conquista progressiva del comune consenso») si rallegrava di ritrovare nelprogetto un comune sentire ai suoi ideali. E, rivolgendosi al collega Stoppato, ne approvaval’avvicinamento a «quell’indirizzo che la scuola criminale positiva italiana da tanti anni haportato nell’evoluzione della scienza giuridica»; alle obiezioni del relatore rispondeva «leinon è mai stato della scuola classica pura, lo so bene; è sempre stato un giurista, che purtenendosi fedele alle astrazioni dei principi teoretici non ha però dimenticato il senso dellarealtà e quindi spesso ha accolto le conclusioni della scuola positiva. E così ha fatto ora esinceramente me ne compiaccio» [Commento al codice di procedura <strong>penale</strong>, parte prima Lavoripreparatori, vol. III Lavori parlamentari (relazioni, discussioni), Torino 1915, p. 350].Sullo sfondo del dibattito tra il modellare l’interrogatorio come fonte di prova o mezzo didifesa e l’obbligo o meno imposto al giudice di avvertire l’imputato della facoltà di non risponderevi è il confronto tra queste due scuole, che fortemente hanno caratterizzato la penalisticaottocentesca. Ce lo conferma l’intervento dell’onorevole Giacomo Pala nella tornatadel 28 maggio 1912. Questi, riconoscendo nell’interrogatorio un mezzo normale e indispensabiledi ricerca nel giudizio, precisa che l’obbligo imposto al giudice di avvisare il prevenutoo l’accusato della possibilità di avvalersi della facoltà di non rispondere «è, per me, nient’altroche una concessione ad insegnamento di scuola, al principio dottrinale, pel quale l’interrogatorionon potrebbe mai essere un mezzo di prova, ma un mezzo di difesa. Mi schiereròfra i seguaci di tale dottrina, quando mi avranno spiegato fin dove un mezzo qualunqueistruttorio costituisca un mezzo di accusa, e dove cominci ad essere un mezzo di difesa. L’e-


166SAGGI E OPINIONIMortara sul disegno di legge del 1911 si coglie qualcosa di più d’una notastonata: è un vero e proprio ribaltamento di posizioni, che mette in discussionel’impianto stesso dell’interrogatorio. Si arriva addirittura a sostenereche le disposizioni contenute nel progetto del 1911 azzeravano la facoltà diinterrogare l’imputato. La prescrizione di avvertirlo del riconosciutogli dirittoa non rispondere e di annotare nel processo verbale il compiuto adempimentodi tale obbligo da parte del giudice, con scrittura di mano del cancelliere,poteva dar luogo, in caso di dimenticanza, ad una di quelle nullitàinsanabili dalle disastrose conseguenze( 200 ). Si auspica, per contro, un ri-videnza pratica delle cose dimostra che non vi sono mezzi istruttori che siano una cosa o l’altra.Tutti i mezzi istruttorii sono mezzi di accusa e mezzi di difesa [...]. E, del resto, il dibattitomi pare che sia più dottrinario che pratico, perché l’unica diversità fra il Codice attuale eil progetto è questa: che nel progetto è imposto al magistrato l’obbligo di dire al prevenuto oall’accusato: ‘‘voi non siete obbligato a rispondere’’, e nel Codice attuale se ne tace. Nel fattoniuno nega questo diritto all’accusato di astenersi dal dare risposta e d’altra parte bisognache il prevenuto pensi quattro volte prima di chiudersi nel silenzio, che non potrebbe essereinterpretato da nessun giudice a suo favore» [Commento al codice di procedura <strong>penale</strong>, parteprima Lavori preparatori, vol. III Lavori parlamentari (relazioni, discussioni), Torino 1915, p.378]. In una prospettiva più ampia, il Ministro guardasigilli in persona, il 5 giugno 1912, nelchiudere la discussione in aula, confermava che il dibattito aveva messo in luce le diversetendenze scientifiche. Ma controbatteva a Ferri, che sembrava fare del codice il trampolinodi lancio per le teorie alle quali si ispirava la scuola giuridica di cui era illustre sostenitore, adiscapito di quelle fino ad allora prevalenti, che un codice non poteva essere un ordine completodi criteri teorici, ma un’opera a servizio della società verso cui è rivolto. L’accusa mossaal progetto di essere una miscela confusa e incerta di tendenze diverse è in realtà, per Finocchiaro-Aprile,la miglior attestazione della sua bontà, «perché dimostra che il progetto, ispirandosifondamentalmente ai concetti della dottrina giuridica tradizionale in Italia, non hachiuso gli occhi alle nuove idee, e ne ha secondato i postulati in tutto quanto risponde allenecessità sociali» [Commento al codice di procedura <strong>penale</strong>, parte prima Lavori preparatori,vol. III Lavori parlamentari (relazioni, discussioni), Torino 1915, p. 406, § 2]. Stoppato, replicandoalla Camera il 15 giugno 1912 proprio a Ferri, da un lato esortava ciascuno ad abbandonareuna parte del proprio fardello scientifico nel momento in cui si trattava di discuteree di votare un Codice di procedura <strong>penale</strong> («Questo è sano positivismo», tuonava il giurista),dall’altro ammetteva che intorno al tronco forte, robusto e organico del codice vierano «efflorescenze dottrinali» [Commento al codice di procedura <strong>penale</strong>, parte prima Lavoripreparatori, vol. III Lavori parlamentari (relazioni, discussioni), Torino 1915, p. 456, § 2]. Soprattutto,sul punto, si veda B. Franchi, Il positivismo nelle relazioni e discussioni parlamentarisulla procedura <strong>penale</strong>. La leggenda di ‘nuove teorie reazionarie’ nel discorso Ferri. Gli on.Fera e Viazzi. Altre postille, inLa scuola positiva nella dottrina e nella giurisprudenza <strong>penale</strong>,22 (1912), pp. 321-31; Id., Nuovo codice cit., pp. IX-XXXII. Cfr. M. N. Miletti, Un processocit., pp. 315-34; M. Sbriccoli, La penalistica civile. Teorie e ideologie del diritto <strong>penale</strong>nell’Italia unita, inStato e cultura giuridica in Italia dall’unità alla Repubblica, Bari 1990, pp.147-232, , in partic. pp. 189-217.( 200 ) Senato del Regno (n. 544-A), Relazione della commissione speciale sul nuovo codicedi procedura <strong>penale</strong> presentato dal Ministro di grazia e giustizia e dei culti nella tornata del 23maggio 1911, Roma 1912, p. 32. Il testo della Relazione per quanto qui interessa si trova ancheriprodotto in Commento al codice di procedura <strong>penale</strong>, parte prima Lavori preparatori,vol. III Lavori parlamentari (relazioni, discussioni), Torino 1915, pp. 42-5 e 61.


SAGGI E OPINIONI167torno alla distinzione ‘gerarchica’ tra Stato / giudice e cittadino / imputato(201 ). E soprattutto, nei toni spesso ironici, talvolta pungentemente critici,altri perfino venati da acrimonia, si punta il dito contro l’art. 302, 2ºcomma del progetto.Quest’ultimo, figlio di un pregiudizio atavico che vede in ogni magistratoun astutissimo inquisitore disposto a qualunque sotterfugio controun ingenuo inquisito, finirebbe per costringere il giudice – secondo l’accusadella Commissione senatoria – a chiedere all’imputato il permessod’interrogarlo «poiché èun vero permesso che si domanda, quando lo siavverte che può ricusarsi a rispondere. Ciò equivale a dire che il magistratodebba sottoporsi egli al giudizio di un malfattore qualunque, prima diavere la facoltà di accingersi a giudicarlo»( 202 ).La dichiarazione solenne ed ufficiale di tale diritto era guardata contimore, quasi fosse un’esplicita ammissione d’impotenza, e quindi di inferioritàdella legge e dell’autorità inquirente, di fronte all’indagato( 203 ).Le più retrive posizioni guadagnavano terreno palmo a palmo: il rifiuto arispondere, coraggiosamente qualificato ‘diritto’, tornava ora ad essere manifestazioned’irriducibile protervia. Sembrava soprattutto uno spauracchioper gli organi giudiziari, che dipingevano i più cupi scenari per impedirnel’accoglimento: «diasi consacrazione ufficiale, e incoraggiamento, a similecontegno, e si vedrà ben presto come tutta la turpe genia dei facinorosi( 201 ) «Lo Stato è attore nel giudizio <strong>penale</strong>; questa proposizione non autorizza affatto amettere di fronte, nel sistema del processo <strong>penale</strong>, lo Stato e il presunto delinquente, allastessa stregua di parità, come l’attore e il convenuto nel processo civile. Gli aforismi più omeno abusati non devono far velo alla percezione degli attributi dello Stato, il quale tutelanon interessi patrimoniali singoli e privati, ma un interesse sociale che è il massimo degli interessicollettivi, vale a dire il mantenimento delle condizioni supreme per la pacifica convivenzanel consorzio civile [...] si dimostra la irrazionalità di seguire schemi dottrinari astratti iquali presuppongono la perfetta parità giuridica fra le due parti contrastanti nel processogiudiziario; presupposto vero nel processo civile, falsissimo nel <strong>penale</strong>» (ivi, pp. 32-3).( 202 ) Prosegue la relazione di Mortara: «quando il magistrato chiederà licenza all’imputatodi procedere al suo interrogatorio verrà in buona sostanza a fargli questo discorso:Se tu giudichi che io abbia l’anima e la coscienza di un Torquemada, rifiuta di rispondermi;la legge, che ha soppresso i Torquemada, ti riconosce questo diritto. Ma se mi stimi un onest’uomo,una coscienza diritta, allora mi puoi onorare della tua fiducia rispondendomi perchéla legge obbliga me ad ascoltarti, dando a te la facoltà di parlarmi» (ivi, p. 33).( 203 ) Questo timore, in effetti, sembra legittimato dall’intervento di Stoppato alla Camera:«L’ordine di avvertire che ha diritto di non rispondere consacra la facoltà d’interrogarenell’atto istesso che ne distrugge il valore. L’obbligo di rispondere non potrebbe concepirsiche sotto l’assurda forma di coazione; e perciò il non avvertire del diritto di non risponderenon ha significato altro che di impotenza e di inferiorità in chi rappresenta la legge.Ciò a noi pare evidente» [Camera dei deputati, Relazione della Commissione sul progetto delcodice di procedura <strong>penale</strong> per il Regno d’Italia e sul disegno di legge che ne autorizza la pubblicazione,p. 274, § 77, in Commento al codice di procedura <strong>penale</strong>, parte prima Lavori preparatori,vol. III Lavori parlamentari (relazioni, discussioni), Torino 1915].


168SAGGI E OPINIONIe dei delinquenti acquisterà maggiore baldanza e si renderà sempre più difficileogni ricerca di prova di qualsivoglia specie!»( 204 ).La Commissione della Camera Alta chiedeva pertanto emendamenti( 204 ) Senato del Regno (n. 544-A), Relazione della commissione speciale sul nuovo codicedi procedura <strong>penale</strong> presentato dal Ministro di grazia e giustizia e dei culti nella tornata del 23maggio 1911, Roma 1912, pp. 32-3. Si riteneva la tutela del silenzio strettamente connessaall’accoglimento del principio di presunzione di non colpevolezza e dipendente da questa.La presenza di tale principio nel codice vanificava, secondo taluni, la necessità di enucleareun vero e proprio diritto di non rispondere, inteso anzi come un’ingiuria gratuita nei confrontidella magistratura. In realtà, il tono intero della Relazione senatoria, i termini usatiper indicare l’interrogato (non casualmente definito delinquente, e già implicitamente sottintendendocon questa espressione un giudizio di valore) sembrerebbero delineare addiritturauna presunzione di colpevolezza, anziché di innocenza. Di questo, almeno, erano convintialcuni autorevoli giuristi, chiamati ad intervenire nel dibattito parlamentare, come Vacca,Lucchini [Commento al codice di procedura <strong>penale</strong>, parte prima Lavori preparatori, vol. II<strong>IL</strong>avori parlamentari (relazioni, discussioni), Torino 1915: per l’intervento di Vacca, v. pp.97-8 § 14; per quello di Lucchini v. p. 114, § 6]. A costoro rispondeva però nuovamenteMortara nella tornata del 5 marzo 1912, ribadendo che la presunzione di innocenza, ritenutaprincipio non contrattabile, altro non è se non una «esagerazione di quel principio sacrosantoche è venuto in onore nel diritto <strong>penale</strong> e nella procedura, quando le conquiste della civiltàmoderna trionfarono sui metodi barbari del procedimento criminale antico». Il concettovero e da sostenere è che nessuno può essere ritenuto colpevole finché una sentenza irrevocabilenon lo ha condannato: questa è, a detta di Mortara, l’unica verità dogmaticaincancellabile; ma una cosa è dire che l’accusato non si deve ritenere colpevole, altro è direche lo si deve presumere innocente. Nella seconda formulazione «si perverte il concetto dellaprima. Coloro che l’adottarono non furono pochi, anche perché le formule retoriche hannola facile fortuna di piacere al maggior numero; tutti reputano di averle rapidamente comprese,e sono accettate con fervore specialmente perché si prestano all’enfasi e alla sonorità deldiscorso». Ne deriva, a suo dire, un’ulteriore erronea conseguenza, secondo la quale il Codicedi procedura <strong>penale</strong> tutelerebbe l’innocenza, mentre quello <strong>penale</strong> reprimerebbe la malvagità.«Io vorrei sapere quale uso farebbe la società del Codice <strong>penale</strong> per difendersi dalladelinquenza se quello di procedura <strong>penale</strong> non fosse lo strumento necessariamente destinatoa ricercare e cogliere i malvagi, per colpirli appunto con le sanzioni del Codice <strong>penale</strong>! IlCodice di procedura <strong>penale</strong> è essenzialmente un istrumento di difesa sociale contro il delitto,come lo è il Codice <strong>penale</strong>» [Commento al codice di procedura <strong>penale</strong>, parte prima Lavoripreparatori, vol. III Lavori parlamentari (relazioni, discussioni), Torino 1915, pp. 153-4].Con altre parole Enrico Ferri, nelle discussioni del 22 maggio 1912, ricorrendo ad un concettoromagnosiano (peraltro già anticipato in qualche misura da Pagano), considerava il codice<strong>penale</strong> il codice dei soli delinquenti, quello di procedura <strong>penale</strong> il codice anche dei galantuomini:il primo si applicava a chi era riconosciuto con sentenza definitiva autore di delitti;sotto il secondo poteva cadere ciascun cittadino libero vittima di un equivoco, di unacalunnia e via dicendo [Commento al codice di procedura <strong>penale</strong>, parte prima Lavori preparatori,vol. III Lavori parlamentari (relazioni, discussioni), Discussioni, Tornata del 22 maggio1912, Torino 1915, p. 346]. Si tratta di valutazioni di ampio respiro, che travalicano i confinidel mero silenzio, ma che in qualche modo finiscono per ripercuotersi sulla sua percezionelegale, direttamente discendente dalla prima e fondamentale domanda: quale carattere e qualeindirizzo deve avere un Codice di procedura <strong>penale</strong>? A seconda della risposta data al quesito,i singoli partecipanti al processo formativo del c.p.p. del 1913 connotarono tale istitutocon una fisionomia propria e specifica.


SAGGI E OPINIONI169che ovviassero all’inopportuna veste formale impressa alla norma, quantunqueMortara riconoscesse che l’estensore era senz’altro animato dal desideriodi agevolare la vittoria della giustizia nella lotta condotta contro ilcrimine. La Relazione evitava di procedere ad un esame analitico dei singoliarticoli, preferendo concentrare l’attenzione sulle modifiche da introdurre:per il profilo che qui rileva il principio generale suggerito era quello di nonpredisporre sanzione alcuna, essendo il silenzio una facoltà di cui ogni personasottoposta a procedimento poteva liberamente avvalersi( 205 ).Questa linea fu condivisa da molti. Fra tutti giganteggia Enrico Ferri, ilquale arrivò a sostenere che una vera e propria fobia di non interrogarel’imputato aveva preso i redattori del progetto e che il ritornello costantementepresente nel codice «per cui bisogna dire all’imputato bada che nonhai l’obbligo di rispondere» doveva considerarsi un lapsus calami da cancellaresenza timore alcuno( 206 ).Mortara, Ferri, Stoppato, Canevari, per citarne alcuni, fecero dunquesentire la loro voce autorevole contro il mantenimento di una similenorma( 207 ). Il loro peso fu decisivo nel decretarne l’affossamento. Una pri-( 205 ) Senato del Regno (n. 544-A), Relazione della commissione speciale sul nuovo codicedi procedura <strong>penale</strong> presentato dal Ministro di grazia e giustizia e dei culti nella tornata del 23maggio 1911, Roma 1912, pp. 32 e. 34. Tali principi erano ripresi, e se possibile maggiormenteevidenziati, in tema di dibattimento. La Commissione riteneva che nell’udienza pubblica,in particolare quella da tenersi di fronte alla Corte d’Assise, le finalità della giustizia sipotevano meglio raggiungere eliminando la forma vera e propria dell’interrogatorio e sostituendolacon un sistema ritenuto ‘semplice e razionale’: il giudice, o il presidente, aveva ilsolo onere di informare l’accusato del fatto a lui addebitato e di avvertirlo della facoltà diesporre le proprie discolpe. Si eliminava così il «preconcetto che le dichiarazioni dell’accusatodebbano promuoversi mediante interrogatorio a cui però egli abbia il diritto di non rispondere».E di nuovo si ribadiva la necessità di dispensare il magistrato «dall’umiliante obbligodi accompagnare le interrogazioni coll’avviso del diritto di non rispondere» (ivi, p. 45).E così nei Voti della Commissione al punto XVIII si invitava a sostituire alla forma esistentel’avvertimento che l’imputato godeva della facoltà di esporre le sue discolpe e che quandoegli se ne avvaleva il presidente aveva la facoltà di aggiungere, di propria iniziativa o a richiesta,domande di chiarimenti (ivi, p. 62).( 206 ) L’intervento di Enrico Ferri è mirabile per la sprezzante ironia, la profonditàscientifica e l’icastica struttura sintattica: «ora ve lo immaginate voi un giudice che dice algiudicabile: tu sei imputato di aver rubato, ferito, ucciso: ora dimmi come è andata la cosa;bada però che non sei obbligato a rispondere! Ma allora che serietà, che autorità può avere ilgiudice istruttore, il giudice di pubblica udienza? [...]». Ferri riesuma vecchie impostazioni:«badate bene che l’innocente, imputato in un processo <strong>penale</strong>, fin dal primo momento diceapertamente l’animo suo perché non ha che da dire la verità. Chi si riserva e tace è il delinquentepiù scaltro, più pericoloso» [Commento al codice di procedura <strong>penale</strong>, parte prima Lavoripreparatori, vol. III Lavori parlamentari (relazioni, discussioni), Torino 1915, p. 360. Cfr.M. N. Miletti, Un processo cit., pp. 288-91 e 334-8).( 207 ) La ferma opposizione di Stoppato fu espressa nella sua Relazione al grido «No,noi questa imposizione non la approviamo!». Se l’imputato andava considerato come soggettoavente diritto di parlare o di tacere e non come strumento di cui il giudice dovesse avva-


170SAGGI E OPINIONImavera di libertà tramontava velocemente, oscurata dai timori circa l’impattoche il principio avrebbe avuto sull’effettivo svolgimento dei processi.«Un mal inteso senso di ossequio per il prestigio e per l’autorità della magistratura,unito alla preoccupazione di rendere troppo difficoltosa la ricercadelle prove»( 208 ), finirono per prevalere( 209 ) ed orientarono versoil passato la nascente codificazione. Era quell’eccesso di ‘modernità’ ostentatospecialmente sotto il vessillo del riconoscimento di un diritto al silenzioa suscitare perplessità ed ansie( 210 ).lersi per trovare la verità, era altrettanto indubitabile che l’obbligo imposto al giudice di avvertirlodi un’inesistenza del dovere di rispondere «è una espressione di diffidenza ed unaprostrazione dell’autorità del giudice, che non si può consentire» [Camera dei deputati, Relazionedella Commissione sul progetto del codice di procedura <strong>penale</strong> per il Regno d’Italia e suldisegno di legge che ne autorizza la pubblicazione, p. 274, n. 77, in Commento al codice diprocedura <strong>penale</strong>, parte prima Lavori preparatori, vol. III Lavori parlamentari (relazioni, discussioni),Torino 1915]. E ancora Stoppato, in sede di discussione parlamentare, pur riconoscendoil significato morale del principio contemplato dall’art. 302, ribadiva la propriacontrarietà al suo mantenimento: «Come! Si chiama uno perché renda conto di un fatto esi comincia con l’avvertirlo che non ha l’obbligo di renderne conto! È un po’ strano onorevolicolleghi. Onde la vostra Commissione, non tanto perché tema l’avvilimento del poteredel giudice, quanto per il principio che si adultera l’istituto dell’interrogatorio, non accetta laproposta riforma» [Commento al codice di procedura <strong>penale</strong>, parte prima Lavori preparatori,vol. III Lavori parlamentari (relazioni, discussioni), Torino 1915, p. 457, § 4. Sulla relazionedi Stoppato cfr. M. N. Miletti, Un processo cit., pp. 281-4]. Di identico avviso era l’onorevoleAlfredo Canevari, che nell’intervento alla Camera ravvisava nell’art. 302 2º comma ilrischio d’esautorare il potere del magistrato [Commento al codice di procedura <strong>penale</strong>, parteprima Lavori preparatori, vol. III Lavori parlamentari (relazioni, discussioni), Torino 1915, p.429, § 4]. A questa nutrita schiera di giuristi si opponeva una manciata di ‘coraggiosi’ sostenitoridi tesi antitetiche, quali Vacca, Cotugno e Pagani Cesa. Quest’ultimo, ad esempio, nellaseduta alla Camera del 1º giugno 1912, riteneva non doversi abolire la proposta contenutanel progetto, non riuscendo a comprendere come l’avvertimento ex art. 302 2º comma potesseessere ritenuto poco dignitoso per il giudice, costituendo, al contrario, la prova dellasua lealtà [Commento al codice di procedura <strong>penale</strong>, parte prima Lavori preparatori, vol. II<strong>IL</strong>avori parlamentari (relazioni, discussioni), Torino 1915, p. 396, § 6].( 208 ) V. Grevi, «Nemo tenetur» cit., p. 33.( 209 ) La citazione di Grevi ricalca in realtà le parole con cui il ministro Finocchiaro-Aprile accompagnò l’entrata in vigore del codice del 1913. Nella sua Relazione, il Guardasigilliosservava che l’obbligo di avvertire l’imputato della facoltà di non rispondere, presentegià nel progetto del 1905, si proponeva l’effetto di renderlo edotto della sfera dei suoi diritti,consigliando per converso ai giudici di non indulgere ad insistenze contrarie al rispetto dellalibertà di difesa ed evitando che dal silenzio si potessero trarre conseguenze e deduzioni illegittime.«Ma nel dubbio che una disposizione identica a quella del progetto potesse eventualmentecreare difficoltà alla ricerca delle prove o riuscire pregiudizievole alla dignità delmagistrato, in conformità all’emendamento delle Commissioni parlamentari ho, nell’art. 261,sostituito l’obbligo di avvertire l’imputato che, se anche non risponda, si procederà oltre nellaistruzione» [Relazione a S.M. il Re dal Ministro Guardasigilli (Finocchiaro-Aprile) presentatanell’udienza del 27 febbraio 1913 per l’approvazione del Testo definitivo del Codice di procedura<strong>penale</strong>, Roma 1913, p. 39].( 210 ) Vacca, come si è detto, mostrava un netto dissenso contro le proposte di emenda-


SAGGI E OPINIONI171La magistratura volle difendere le proprie prerogative, eccessivamenteimpensierita da quella paritetica posizione di ruoli riconosciuta al giudice eall’imputato( 211 ), che rischiava, nell’ipotesi del silenzio, di sbilanciarsi a favoredel secondo. I progetti, imponendo un obbligo in capo al giudice, ericonoscendo un diritto dell’imputato, partorivano il disastroso effetto, secondotaluni, di screditare la funzione del giudice, di ridurre l’importanzadell’interrogatorio e di indurre taluni indagati a credere di essere preferibileil tacere, anche nel caso in cui vi fossero circostanze favorevoli da addurrea propria discolpa( 212 ).Torna con insistenza, negli interventi nei due rami del Parlamento, iltimore che dietro l’art. 302 del progetto si celi la visione d’una magistraturaincapace di utilizzare lo strumento dell’interrogatorio per fini diversi daquelli di indagine. Serpeggia una certa sfiducia della classe forense nei riguardidei giudici, che giustifica le trepidazioni con cui si attende il nuovorito. Per secoli strumento di terrore e di arbitrio, riesce difficile ai magistratiscrollarsi di dosso una triste nomea spesso guadagnata sul campo:li si ritiene, in altre parole, incapaci di esercitare il loro ufficio verso l’accusatocon temperanza, avvedutezza ed onestà.Quanti insorsero contro questa percezione svilente dell’operato deimagistrati, confinati nel ruolo di inquisitori a caccia di ‘colpevoli’ piùche di verità, concordavano con il dovere di astenersi da ogni forma di violenzadiretta ad ottenere delle risposte, ma al tempo stesso chiedevano chenon vi fosse «nessuna dedizione per parte della giustizia. Se si vuole, si avvertal’accusato, come oggi si fa, che qualora non creda di rispondere, siprocederà oltre nella causa, ciò che è ben diverso dall’avvertirlo che nonha obbligo di rispondere»( 213 ).Ci si orientò dunque verso una soluzione di compromesso( 214 ), chemento della Commissione, scorgendo nella relazione di Mortara una preoccupante enunciazionedel principio di ‘presunzione di colpevolezza’. Egli pertanto ribadiva che non la sfiduciaverso la magistratura aveva dettato la regola di avvertire l’imputato che non ha l’obbligo di rispondere,ma il carattere stesso dell’interrogatorio, essendo questo un atto di difesa e non d’istruzione.Al tempo stesso, le radicali soluzioni del progetto del 1911 non lo convincevano,ritenendo inutile sancire espressamente nella legge il diritto di non rispondere, perché «ancheattualmente l’imputato non ha l’obbligo di rispondere, e nessun mezzo coercitivo può esserviper farlo parlare» [Commento al codice di procedura <strong>penale</strong>, parte prima Lavori preparatori, vol.III Lavori parlamentari (relazioni, discussioni), Torino 1915, pp. 97-8].( 211 ) Si veda R. De Notaristefani, Commento cit., p. 456.( 212 ) Così, ad esempio, P. Tuozzi, Il nuovo codice cit., p. 298, il quale riteneva che, inluogo dell’avvertimento a tacere, nell’art. 261 era stato accolto un principio di segno opposto,ossia far intendere all’imputato che, malgrado il suo silenzio, si sarebbe proceduto nell’istruttoria,«ciò che si traduce in invito a parlare e a difendersi».( 213 ) L. Mortara –U.Aloisi, Spiegazione pratica del codice di procedura <strong>penale</strong>, parteI, libri I-II, Torino 1922, p. 532.( 214 ) «La forma, con la quale la legge consacra il diritto dell’imputato di non rispon-


172SAGGI E OPINIONImostrasse una sostanziale continuità con la legislazione precedente( 215 ).L’art. 261 del testo definitivamente approvato così recitava: «il giudice contestain forma chiara e precisa all’imputato il fatto che gli è attribuito, gli fanoti gli indizi esistenti contro di lui e, se non possa derivarne pregiudizioall’istruzione, gli indica anche le fonti di essi.Il giudice invita quindi l’imputato a discolparsi e a indicare le prove insuo favore, avvertendolo che, se anche non risponda, si procederà oltre nell’istruzione».Lo stesso si disponeva nell’art. 388, relativo all’interrogatorio nella fasedel giudizio( 216 ).Il dibattito acceso e i continui interventi sul tema in sede di lavori preparatorinon erano però stati vani. La formulazione della norma è solo apparentementeneutra, e sembra, piuttosto, lasciar filtrare sotto traccia talunispazi di libertà. Quanti plaudivano al legame con il passato( 217 ) non si avvedevanoin realtà del cambiamento di prospettiva avvenuto rispetto all’art.236 del c.p.p. del 1865. Lì il giudice aveva sì l’obbligo d’informare l’impu-dere, è più, dirò così, riservata, ma non meno chiara di quella usata dai progetti e da altreleggi. [...] Il silenzio è, pertanto, niente altro che esercizio di un diritto, non contegno irriverenteverso il giudice, non ammissione dell’accusa» (R. De Notaristefani, Commentocit., pp. 458-9). Cfr. anche A. Bruno, Codice di procedura <strong>penale</strong> del Regno d’Italia illustratocon i lavori preparatori, Firenze 1915, p. 241, nt. 1; M. Pinto, Manuale di procedura <strong>penale</strong>illustrativo del Nuovo Codice, Milano 1921, pp. 182-4; S. Graziano, La difesa <strong>penale</strong> cit.,pp. 823-5.( 215 ) Era quanto richiesto da Stoppato, il quale nella sua Relazione, richiamando il codicevigente, sollevava un’obiezione: «non è difficile riconsacrare questo principio nella nuovaprocedura disponendo che il giudice contesta il fatto, e invita l’imputato a fare le sue dichiarazionie indicare le prove a discolpa, avvertendolo che se ricusi di rispondere la causaproseguirà egualmente» [Camera dei deputati, Relazione della Commissione sul progetto delcodice di procedura <strong>penale</strong> per il Regno d’Italia e sul disegno di legge che ne autorizza la pubblicazione,n. 77, p. 274, in Commento al codice di procedura <strong>penale</strong>, parte prima Lavori preparatori,vol. III Lavori parlamentari (relazioni, discussioni), Torino 1915). Anche Ferri esaltavala scelta del codice vigente e la formula limpida e positiva dell’art. 233 [Commento alcodice di procedura <strong>penale</strong>, parte prima Lavori preparatori, vol. III Lavori parlamentari (relazioni,discussioni), Torino 1915, p. 360].( 216 ) «Adempiuto a quanto è prescritto nel precedente articolo, e qualora in seguito aiprovvedimenti pronunciati il giudizio debba proseguire, chi dirige l’udienza procede all’interrogatoriodell’imputato. All’uopo gli domanda il nome, il cognome, l’età e altre qualitàpersonali; indi gli contesta in forma chiara il fatto che gli è attribuito e lo invita a esporrele discolpe, e tutto ciò che ritenga utile alla propria difesa, avvertendolo che, anche senon risponda, il dibattimento sarà continuato. All’imputato possono essere rivolte in qualsiasimomento interrogazioni su singoli fatti o circostanze».( 217 ) Cfr. ad es. L. Mortara –U.Aloisi, Spiegazione pratica cit., p. 538, dove si insisteche si tratta di un semplice avvertimento sprovvisto di sanzione, inteso non tanto a riconoscereun principio di ragione naturale che sarebbe stato peraltro inutile sancire (e cioèche l’imputato non può essere costretto a rispondere alle domande del giudice), quanto adaffermare che dal silenzio dell’imputato la legge non trae alcuna conseguenza riguardo allasua colpevolezza.


SAGGI E OPINIONI173tato sulla prosecuzione dell’istruttoria, ma si trattava di un’avvertenza pronunciatasoltanto dopo che l’imputato si era astenuto dal rispondere. Inaltre parole, egli non veniva informato in via preventiva della possibilitàdi esercitare tale facoltà e delle conseguenze derivanti: al comportamentomaterialmente ed effettivamente assunto faceva seguito l’avvertimento.Nel c.p.p. del 1913 si rende invece pienamente edotto l’imputato ditutti i suoi diritti: fra le modalità di estrinsecazione degli stessi figura ancheil ricorso al silenzio.È come se nel primo caso si ritardasse il più possibile il monito del giudice,sperando comunque nella parola dell’imputato. Nel nuovo rito egli èinvece avvertito prima, concedendogli di scegliere tra una difesa ‘passiva’ o‘attiva’: si rinsalda la consapevolezza dell’imputato circa le conseguenzedelle sue tattiche difensive, indicandogli ex ante (e non piú ex post) gli effettidella sua opzione.È l’ultimo sussulto di un’Italia liberale, prima che il quadro politicomuti repentinamente e radicalmente. L’avvento del fascismo e dei suoi portatitotalitari travolse l’art. 261 del c.p.p. del 1913, il cui destino era segnatodalla crescente diffidenza verso ogni forma di rafforzamento dell’autodifesadell’imputato. Nel codice Rocco non si ritrova norma analoga: essa sarebberisultata in contrasto con la concezione di uno Stato forte, che tendeva adaffermarsi sull’individuo mediante un apparato repressivo ed intimidatorio.Mutata la concezione filosofica e politica dei rapporti tra Stato ed individuo,il codice degli anni Trenta preferì una dizione neutrale( 218 ) e guardòai dissensi espressi in fase di progettazione del codice del 1913 per tracciarele nuove linee-guida sul tema.Non è solo il silenzio a cadere nell’occhio del ciclone. Si guarda consospetto a tutte quelle teorie definite demo-liberali, tese a contrapporrel’individuo allo Stato e a considerare l’autorità come insidiosa sopraffattricedel singolo. Sembra quasi di percepire un sospiro di sollievo nella Relazionedel guardasigilli al progetto preliminare, laddove annuncia l’eliminazionedella presunzione di innocenza come pure la generica tendenza a favorirei delinquenti «frutto di un sentimentalismo aberrante e morboso che( 218 ) Aloisi considerava un ciclo storico completamente superato quell’‘‘individualismoad oltranza’’ che aveva influenzato le legislazioni processuali precedenti. Alla domanda:«L’imputato può rifiutarsi di rispondere al magistrato che l’interroga?», la risposta «che siaffaccia spontanea alla mente, è nei termini lineari la seguente»: no! «A noi desta sorpresache si sia potuto seriamente sostenere che l’imputato abbia viceversa il diritto a non rispondereal giudice» (U. Aloisi, Manuale pratico di procedura <strong>penale</strong>, Milano 1932, p. 21). A rincararela dose ecco le parole di Foschini: «secondo noi di un diritto di non rispondere o peggioancora di mentire non può assolutamente parlarsi», anche perché nel processo <strong>penale</strong>l’interrogatorio è principalmente se non esclusivamente un mezzo di prova «e più precisamenteuna testimonianza resa dalla parte» (G. Foschini, L’imputato. Studi, Milano 1956,p. 51 e 53).


174SAGGI E OPINIONIha tanto indebolito la repressione e favorito il dilagare della criminalità. Ilprincipio del giusto equilibrio tra le garanzie processuali destinate a salvaguardaregli interessi dello Stato nella sua funzione repressiva, e quelli spettantiall’imputato è il criterio a cui costantemente si ispira il presente progetto»(219 ).Ancora una volta appare a prima vista impercettibile la differenza ditecnica legislativa intercorrente tra i due testi in tema di silenzio. Un’attentaanalisi e una comparazione della lettera della legge rivela invece appieno lemodificazioni intervenute, le quali risultano tanto più significative quantopiù evidenziano e dimostrano lo stretto rapporto (mai sufficientemente sottolineato)intercorrente tra politica e diritto.L’art. 367 2º comma del codice del 1930, erede non ultimo di unlungo cammino, contemplava la mera annotazione nel processo verbaledel rifiuto dell’imputato a rispondere e la relativa prosecuzione dell’istruttoria,non preceduta però da nessun avvertimento da parte del giudice(220 ).Non si trattava solo di una semplice mancanza. Era un’assenza gravidadi significato( 221 ). Lo testimoniano inequivocamente i lavori preparatori,che più e più volte insistono sul fatto che sul giudice non debba gravarealcun obbligo di ammonimento: obbligo dannoso e disdicevole perchémetteva al riparo gli indagati a scapito della giustizia, dando prevalenzaai loro interessi particolari e non a quelli superiori dello Stato( 222 ).( 219 ) Relazione del Guardasigilli al Progetto preliminare di un nuovo Codice di procedura<strong>penale</strong>, inLavori preparatori del codice <strong>penale</strong> e del codice di procedura <strong>penale</strong>, vol. VIII,Roma 1930, p. 7.( 220 ) L’art. 367 stabiliva che il giudice invitava l’imputato a discolparsi e ad indicare leprove a suo favore. Se l’imputato si rifiutava di rispondere, ne era fatta menzione nel processoverbale e si procedeva oltre nell’istruzione. Sul punto V. Manzini, Trattato di diritto processuale<strong>penale</strong> italiano, 6ª ed., vol. IV, Torino 1972, p. 204. Sabatini evidenzia che, allo scopodi lasciare libera la difesa all’imputato, egli poteva rispondere o tacere, senza che il silenziofosse equiparato alla confessione, ma limitandosi il giudice alla semplice menzione,procedendo oltre nell’istruzione (G. Sabatini, Principi cit., pp. 374-5). Identico precettoera contemplato nell’art. 368 del progetto definitivo (Lavori preparatori del codice <strong>penale</strong> edel codice di procedura <strong>penale</strong>, vol. X: Progetto definitivo di un nuovo codice di procedura <strong>penale</strong>con la relazione del guardasigilli on. Alfredo Rocco, Roma 1930, p. 239).( 221 ) Una lettura ‘positiva’ di questo articolo è invece svolta da E. Massari, Il processo<strong>penale</strong> nella nuova legislazione italiana, Napoli 1934, p. 138, in cui si afferma che l’art. 367, adifferenza di quanto disposto dal c.p.c. per l’interrogatorio delle parti, riconosceva in modoesplicito all’imputato la facoltà di non rispondere in merito all’imputazione, senza che la leggericonnettesse a tale reticenza alcuna conseguenza di disfavore.( 222 ) Esprime una posizione diversa Carlotta Conti, la quale ritiene che non sia riconducibileal codice del 1930 un apprezzabile arretramento della tutela del diritto di difesa rispettoall’età liberale. L’autrice rileva come, al di là delle proclamazioni di bandiera, il regimegiuridico riservato all’imputato fosse grosso modo equivalente a quello previsto nel codicedel 1913. Ritengo però che, a prescindere dalla singola norma, siano i lavori preparatori a


SAGGI E OPINIONI175Il legislatore del 1913 venne sospettato d’aver voluto agevolare gli imputati,d’averli istigati a tenere un comportamento contrario al diritto, diaver tutelato oltre misura chi, spontaneamente, aveva deciso di porsi aldi fuori della legalità( 223 ).Ancora una volta la magistratura, attraverso le sue osservazioni, ribadiscela propria contrarietà a quanto stabilito nel codice previgente eplaude alla soppressione dell’avvertimento realizzata dal testo del Trenta,mostrando una sostanziale coerenza e fedeltà alla difesa del proprio ruoloe della propria dignità( 224 ).fornire una valida chiave di lettura della scelta compiuta dal legislatore fascista. Per la posizionequi indicata rinvio a C. Conti, L’imputato cit., p. 15.( 223 ) La relazione del Guardasigilli al Progetto preliminare è a dir poco illuminante sull’ideologiaispiratrice del codice Rocco. Ribadito che si mantiene all’interrogatorio il caratteredi mezzo di difesa, si precisa la necessità della soppressione dell’obbligo di avvertimento,imposto al giudice dal c.p.p. del 1913. «Questo monito è superfluo, se con esso si vuol direche il silenzio dell’imputato non impedisce il corso dell’istruzione; è dannoso e disdicevole,se con esso si vuole avvertire l’imputato della facoltà che ha di tacere. Non si tratta di uninteresse legittimo dell’imputato, che, per dovere di lealtà e di obiettività, convenga farglipresente ad opera del giudice; ma di un interesse che per se stesso contrasta con quello dellagiustizia (e non precisamente con quello dell’accusa; non si tratta di un rifiuto conforme aldiritto, ma di un rifiuto contrario al diritto, che tuttavia non dà luogo all’applicazione di sanzioni,perché data la particolare condizione dell’imputato e il principio nemo tenetur se detegere,si ritiene equo lasciare impunito, a differenza di ciò che avveniva in parecchie legislazionidel tempo intermedio» (Lavori preparatori del codice <strong>penale</strong> e del codice di procedura<strong>penale</strong>, vol. VIII: Progetto preliminare di un nuovo codice di procedura <strong>penale</strong> con la relazionedel guardasigilli on. Alfredo Rocco: Relazione, Roma 1929, capo IX, p. 71). Cfr. F. P. Gabrielli,voce Interrogatorio (Diritto processuale <strong>penale</strong>) ,inNuovo Digesto Italiano, vol.XVII, Torino 1938, p. 81, § 6 e anche in Novissimo Digesto Italiano, vol. VIII, Torino1962, p. 923, § 6.( 224 ) A differenza della magistratura, le Università mostravano rammarico per la soluzionenormativa adottata dal codice. L’Ateneo di Pisa, ad es., rilevando che l’interrogatorio sisvolgeva prevalentemente nell’interesse dell’imputato, torna ad abbracciare posizioni quasida giusnaturalismo moderno: precisando che la mancata risposta alle domande non è comportamentopenalmente reprensibile, si richiama l’idea che l’imputato agisca per un naturaleimpulso di salvezza. L’avvertimento contemplato dall’art. 261 del c.p.p. del 1913 era pertantoun utile strumento difensivo, che ora, nella stesura del nuovo testo, viene a mancare (Lavoripreparatori del codice <strong>penale</strong> e del codice di procedura <strong>penale</strong>, vol. IX osservazioni e propostesul progetto preliminare di un nuovo codice di procedura <strong>penale</strong>, parte III, articoli 22-407, Roma 1930, capo IX, p. 395). Di parere contrario il Sindacato degli avvocati di GeraceMarina («e ben fu soppresso l’inutile monito all’imputato , che ove non voglia rispondere,che si procede oltre»: ivi, p. 395), della Sezione Corte d’Appello di Potenza (ivi, p. 396), dellaCommissione Reale Avvocati di Torino («il capoverso dell’art. 366 ha emendato la menofelice formula del capoverso dell’articolo 261 del Codice di procedura <strong>penale</strong> vigente. Unquasi invito indiretto del giudice all’imputato a non rispondere non potrebbe approvarsi.Che malgrado il rifiuto di rispondere dell’imputato si procedere nell’istruzione è disposizionecongrua e sufficiente»: ivi, p. 396), la Commissione Reale Avvocati e Sindacato Avvocati eProcuratori di Trieste (che reputa «illogico, superfluo e disdicevole» l’obbligo di avvertimento:ivi, p. 396), le Commissioni Reali Avvocati e Procuratori di Vercelli (che denunciava da


176SAGGI E OPINION<strong>IL</strong>a lenta e faticosa parabola evolutiva subisce, com’è fisiologico, un arrestoe si è risucchiati nel vortice imperioso di concezioni che sembrano destinatea morire. Non si giunge ad adottare misure sanzionatorie di fronteall’imputato reticente (ed era questa l’unica concessione), ma neppure ci sipreoccupa di renderlo edotto del proprio destino.Il cerchio si salda e si chiude. Si torna alle premesse di partenza, aquelli che parevano bagliori di epoche remote: si rifugge l’estremo di configurarein capo all’imputato l’obbligo di dire la verità, ma la libera scelta ditacere arma la mano del giudice, finendo per costituire un indizio di colpevolezza(225 ). Il silenzio non viene meccanicamente equiparato alla confessione,ma certo va a rafforzare, avvalorandoli, un insieme di indizi da soliinsufficienti a produrre una ragionevole certezza di responsabilità. Curtacet si insons? L’interrogativo settecentesco risuona imperioso: la reticenzadell’interrogato, che si rifiuta di essere collaboratore di giustizia, può risultaredecisiva nel convincere il giudice a pronunciare una sentenza di condanna.Siamo al quae singula non prosunt collecta iuvant di inquisitoriamemoria? Senza raggiungere tali estremi è innegabile l’esistenza di un inestricabilerapporto tra calcolo degli indizi e libera valutazione (o arbitrariamento)del giudice.Il resto è storia recente, fatta di una Costituzione repubblicana chemette fine ad ogni ambiguità sancendo all’art. 27 la presunzione di non colpevolezzadell’imputato fino a condanna definitiva (una presunzione che ilcodice del Trenta, ma soprattutto la dottrina che su di esso si era sviluppata,aveva fatto più volte vacillare) e all’art. 24 l’inviolabilità del diritto alladifesa.5. La storia infinita. – La parola dell’imputato ha la massima importanzaper l’accertamento della verità, che è la ragione del processo, iericome oggi. Nel tempo è però mutata la rilevanza ad essa attribuita dallalegge: da principale strumento accusatorio è divenuta uno dei possibili esolo eventuali mezzi probatori. È maturata lentamente e consapevolmentel’idea che essere imputati non equivalga ad essere colpevoli. L’interessedella persona sottoposta a giudizio può coincidere con l’interesse socialeun lato l’inutilità dell’obbligo in questione ai fini di render piú serio l’interrogatorio, dall’altropericoloso in quanto «sollecitava la furberia del delinquente», indotto a sperare nell’impunitào quanto meno nell’intralcio dell’istruttoria: ivi, p. 397).( 225 ) Donà, sotto l’egida del codice del 1913, aveva riconosciuto in capo all’imputato lalibertà assoluta al silenzio, salva la facoltà del giudice di ricavarne qualche indizio di verità.Precisava tuttavia che tale indizio poteva essere tanto di colpevolezza quanto di innocenza,richiamando addirittura a sostegno di quest’ultima argomentazione l’atteggiamento di Cristoche, accusato di sedizione e di bestemmia dai sacerdoti e dal popolo, nihil respondit, benchéredarguito da Pilato: non audis quanta adversum te dicunt testimonia? (G. Donà, Il silenziocit., pp. 64-5).


SAGGI E OPINIONI177a che egli manifesti la verità, oppure opporsi ad ogni comunicazione che,accertando la verità, ne determini la condanna.In uno Stato libero, di diritto, fino a che punto deve giungere la protezionelegale di tale interesse sociale e fino a che punto l’uso dei mezzi necessaria soddisfarlo deve essere autorizzato? Questo è l’interrogativo chesintetizza tre secoli di storia qui ripercorsi. Da essi emerge, a mio avvisocon evidenza, che la linea di confine tracciata dal diritto tra protezionedegli interessi sociali e individuali è questione politica per eccellenza. Ela risposta fornita dalla legge è nel tempo dipesa dalla fisionomia assuntavolta per volta dal procedimento <strong>penale</strong>.Nella differente posizione giuridica dell’imputato nel processo inquisitorioe accusatorio si trovano le ragioni del diverso grado di tutela concessaal silenzio( 226 ). Nella configurazione del regime e dell’ideologia sottesa alclima politico si trovano invece le ragioni di una diversa inflessione del rapportodiritto-potere e, conseguentemente, della relazione fra imputato emagistratura, tra mezzi di prova e strumenti di autodifesa riconosciuti all’individuo.Da un imputato obbligato con ogni mezzo a collaborare perconsentire all’accusa (prevalente nella dialettica processuale) di conseguirela finalità di ‘costruire’ colpevoli ed evitare l’impunità del crimine, si è passatiad una concezione dell’interrogatorio come strumento di difesa, da utilizzarecon le modalità più ampie possibili per garantire le ragioni del singolo.In altre parole, il ius tacendi si presenta quale banco di prova per cogliereil momento formativo di un processo <strong>penale</strong> ‘moderno’. La tuteladella libertà morale dell’imputato ha rappresentato per lungo tempo l’obiettivod’una cultura volta per volta definitasi illuministica, liberale, garantistica.La concezione del silenzio quale affronto agli interessi superiori di giustiziao semplice alternativa tra le tante possibili armi di discolpa dell’indagatorisiede nella sottile trama intrecciata da questi elementi. Ciascuno diessi apre scorci per ulteriori riflessioni. Nei paragrafi che precedono si èsfiorato il legame tra obbligo di dire il vero, sancito in capo all’imputatomediante il giuramento, e silenzio. Ulteriori profili di interesse derivanodai rapporti tra silenzio e mendacio, ossia tra diritto di non rispondere equello di mentire quale espressione di difesa; tra contumacia e diritto diparola, tra riconoscimento di un diritto totale o solo parziale, meglio ancoraselettivo, tra esercizio del silenzio nel solo interrogatorio o anche in quellospazio procedimentale( 227 ) rappresentato dall’istruttoria in cui possono es-( 226 ) Secondo Amodio il silenzio ha conosciuto nel tempo tre fasi distinte: da dirittonegato a comportamento processuale tollerato a diritto garantito (E. Amodio, Diritto al silenziocit., p. 409).( 227 ) L’espressione è diE.Amodio, Diritto al silenzio cit., p. 416.


178SAGGI E OPINIONIservi dichiarazioni spontanee rese alla polizia. Per non parlare, da ultimo,delle conseguenze discendenti dall’omissione dell’avvertimento nelle diversefasi o nei diversi stadi del giudizio. Non è questa, tuttavia, la sedeadatta a simili approfondimenti.Fin qui le pagine già scritte dalla storia. Si tratta ora di orientare glisviluppi futuri del diritto dopo le modifiche introdotte dalla riforma del2001. Inutile negare che siamo in una fase delicata, anche per quella sotterraneaerosione di valori che minano, nel rispetto formale della legalità, alcunidiritti fino ad oggi garantiti.Il presente rischia di contenere semi pericolosi per il futuro. Il codiceattuale, come si è detto, conosce la figura dell’imputato-testimone: imputatoriguardo a sé, testimone per ciò che concerne la responsabilità altrui.Vi è chi ha ravvisato in questo principio, così come nell’esaltazione delcontraddittorio, il ritorno di un passato fatto di ricerca della parola dell’imputato,nella veste di dichiarante, ponendo di nuovo al centro del rito l’interrogatoriofinalizzato ad una non dispersione del sapere giuridico. Si relegain una posizione sbiadita, quasi di irrilevante significato, la mancanzad’interesse del terzo all’uso probatorio di tali dichiarazioni di responsabilità,con conseguente innesco d’un altro conflitto tra interessi individualie tra questi ultimi e l’interesse alla ricerca della verità giudiziale. Cosí comerisulta complesso – lo si accennava all’inizio del presente saggio – discernereall’interno di ogni affermazione tra ciò che concerne il fatto proprioe ciò che è relativo al fatto altrui.Per non parlare del tentativo d’introdurre la figura dell’imputato testimoneanche per ciò che concerne il fatto proprio, con l’inevitabile conseguenzadi poter perseguire per falso il dichiarante-teste. Davvero questo segnerebbela fine di ogni tutela del silenzio, destinato a divenire, di fatto,lettera morta pur se ‘legalisticamente’ accolto e sancito.È allora più che mai necessario che la penna con cui saranno tracciatele strade future sia intinta anche nell’inchiostro dell’esperienza passata: lìrisiedono la nostra conoscenza e il già vissuto, che occorre riconsiderareper misurare con equilibrio i potenziali effetti delle nostre scelte attuali.A volte il futuro non è una mera incognita: la chiave di volta può esserealle nostre spalle.Per questo è necessario che ‘ieri e oggi’ si incontrino: il passato devediventare «presente effettivo perché è già presente potenziale, radice diesso e fondazione di esso»( 228 ).( 228 ) P. Grossi, Assolutismo giuridico e diritto <strong>penale</strong> (a proposito di recenti appuntamenti‘carrariani’ e della ristampa della ‘Parte generale’ del ‘Programma del corso di diritto criminale’di Francesco Carrara), inQuaderni fiorentini, 24 (1995), p. 471. Da ultimo, la massimasi trova ripresa ed arricchita nello scritto dello stesso A. Crisi della legge e processi di globalizzazione,inQuaderni del Dottorato di ricerca in Diritto ed Economia, Università degli


SAGGI E OPINIONI179E così, appropriandomi delle parole di un nostro indimenticato maestro,occorre tessere la tela di un incessante dialogo e raffronto con gli studiosidi diritto vigente. «È davvero giunto il momento che lo storico guardial [...] giurista di oggi più che mai stracarico di responsabilità. Che loguardi e gli dica: parliamo, io sono la tua memoria»( 229 ).Loredana GarlatiStudi di Napoli Federico II, Scuola Superiore per l’Alta Formazione Universitaria, Prolusioni,Napoli 2004, in partic. pp. 1-10, dove, richiamando l’esperienza di Cesare Vivante, si parladella storia del diritto come di «una vita interamente vissuta da porre in rapporto dialetticocon la vita in divenire, il già vissuto come arricchimento del vivente» (p. 5).( 229 ) A. Cavanna, Storia e scienza cit., p. CCC.


SAGGI E OPINIONI181NEMICI E CRIMINALI. LE LOGICHE DEL CONTROLLOSommario: 1. Considerazioni introduttive. – 2. Sicurezza cognitiva e difesa sociale. – 3. Ilparadosso del Täterstrafrecht. – 4. Dinamiche di esclusione. – 5. La risposta italiana aGround Zero. – 6. La ragion di Stato ed i suoi ‘‘nemici’’. – 7. Malati, nemici e criminali.Ovvero, della pena come stigma. – 8. La diversità del migrante. Diritto <strong>penale</strong> del nemicoe legislazione in materia di immigrazione.1. Il concetto di ‘Feindstrafrecht’ – cui ricorre Günther Jakobs, contrapponendoloall’altro, ‘Bürgerstrafrecht’, che indica il ‘tradizionale’ diritto<strong>penale</strong> «del cittadino» – è per sua natura suscettibile di molteplici implicazioni.Individua un codice binario, nemico/cittadino, che riproduce e trasforma,ribadisce e revoca ad un tempo, il codice politico dell’amico/nemico.Più degli altri, il sistema <strong>penale</strong> ‘‘custodisce metamorfosi’’( 1 ) e conservastrati di senso densi di significato. Quel codice segna l’ultima fasedi uno scivolamento semantico che ha visto i sistemi politici lavorare condifferenziazioni ‘‘paradossali’’: amico/nemico, inimicus/hostis (nemico interno/nemicoesterno), nemici/criminali. In questa complessa semanticastorica il criminale segna l’incorporazione (Verkörperung) e la ‘‘paradossale’’neutralizzazione della figura del nemico all’interno del sistema <strong>penale</strong>.Ne conserva paradossalmente l’origine e ne sancisce la differenza. Ma rimanegioco ‘‘paradossale’’, in cui ogni Entparadoxierung mostra un voltodoppio: revoca e conferma, ribadisce e smentisce ad un tempo. Inseguirloin queste oscillazioni significa riattraversare dimensioni inattese della questionedella penalità, oltre che gli aspetti più profondi della sua communitas.Se la formula di Jakobs ci riporta alla coppia oppositiva classica, checompare già con Antigone e Socrate, la sua cornice teorica è certamentepiù complessa. Fa riferimento da un lato al funzionalismo sistemico diascendenza luhmanniana – integrato da richiami alle concezioni neohegelianedella pena ed alle più recenti teorie del labelling approach e del «chivo( 1 ) E. Canetti, Masse und Macht, Hamburg, 1960.


182SAGGI E OPINIONIexpiatorio» – e, dall’altro riproduce il recente ampio dibattito sulla questionedella pena e della legittimazione del diritto <strong>penale</strong> nel Rechtsstaat.Con l’espressione «Feindstrafrecht» si intende infatti riferirsi a quella«terza velocità», attualmente caratterizzante taluni settori dei sistemi penalieuropei e nordamericani, in particolare per quanto concerne la legislazioneantiterroristica (indubbiamente segnata da Ground Zero), il contrasto al fenomenodella criminalità organizzata lato sensu intesa, la disciplina dell’immigrazione,nonché la repressione della delinquenza a sfondo sessuale, conparticolare riferimento alla disciplina dello sfruttamento sessuale del minore(2 ). Si osserva in dottrina come tali settori della legislazione <strong>penale</strong>siano caratterizzati non soltanto da una sensibile Vorfeldkriminalisierungche determina in primo luogo, in nome di una tutela fortemente anticipatae di una concezione ontologista del bene giuridico di riferimento, la nettaprevalenza del paradigma del reato di pericolo indiretto e di quello di pericolopresunto, così determinando l’autonoma incriminazione sinanche dicondotte astrattamente inidonee ad attingere la soglia di immanente, generelleGefährlichkeit.Questa tendenza all’anticipazione dell’intervento <strong>penale</strong> – caratteristicaperaltro anche di altri settori dei sistemi penali nella postmoderna societàdel rischio – si combina pericolosamente, con una sensibile attenuazionedelle garanzie individuali di ascendenza illuministico-liberale, sulpiano non soltanto del trattamento sanzionatorio( 3 ) e dell’accertamentoprocessuale( 4 ), ma altresì della stessa struttura delle fattispecie incriminatrici,sovente costruite in chiave soggettivamente pregnante, di talché il di-( 2 ) La metafora del diritto <strong>penale</strong> ‘a tre velocità’ si deve a J. M. Silva Sánchez, Laexpansión del derecho penal. Aspectos de la política criminal en las sociedades postindustriales,2ª ed., Madrid, 2001, 163 ss.; v. anche F. Muñoz Conde, Edmund Mezger y el Dereche penalde su tiempo - Estudios sobre el Derecho penal en el Nacionalsocialismo. Valencia, 2002.( 3 ) Prevalente appare infatti il ricorso alla pena detentiva, caratterizzata da un lato daun notevole inasprimento dei livelli di pena edittalmente comminati, e, dall’altro, da un assolutorigore repressivo sul piano delle modalità dell’esecuzione, che giustamente ha indottoEugenio Raùl Zaffaroni, Buscando al enemigo: de Satàn al derecho penal cool, trad. it. acura di F. Resta, in Scritti in onore di Giorgio Marinucci, di prossima pubblicazione, p. 20(del dattiloscritto), a parlare di ritorno «de la inocuizaciòn y de la neytralizaciòn». Sul punto,V. anche M. Cancio Melia, JpD, 2002, n. 44, 19 ss.; P. Faraldo Cabana, Un derechopenal para los integrantes de organizaciones criminales. La Ley Orgànica 7/2003, de 30 de junio,de medidas de reforma para el cumplimiento íntegro y efectivo de las penas, inId.-J.A.Brandaris García-L.M. Puente Aba, Nuevos retos del derecho penal en la era de la globalización,Valencia, 2002, 299 ss.; nonché, nella letteratura italiana, v., profili più generali,M. Donini, Il volto attuale dell’illecito <strong>penale</strong>. La democrazia <strong>penale</strong> tra differenziazione esussidiarietà, Milano, 2004, 53 ss..( 4 ) In violazione della presunzione di innocenza dell’imputato, taluni sistemi penali –ed in particolare quello spagnolo, nel settore della repressione della criminalità organizzata edelle associazioni sovversive a finalità terroristica, di cui alla Ley Organica 5/2003 – prevedononumerose ipotesi di inversione dell’onus probandi, a carico dell’imputato.


SAGGI E OPINIONI183svalore risulti interamente assorbito nella proiezione finalistica dell’agente.Ne deriva una soggettivizzazione dell’illecito, secondo gli stilemi del Täter-(o del Gesinnung-)Strafrecht, sino a porre talora in crisi il postulato del «cogitationispoenam nemo patitur».Invero, il senso di insicurezza collettivo (Unsichereitsgefühl) che animal’attuale ‘società del rischio’( 5 ) determina il prevalere di concezioni tecnocratiche(6 ) dei fini della pena, tali da volgerne la funzione generalpreventivapositiva (o integratrice) nel presupposto per il risorgere di orientamentipolitico-criminali tesi alla segregazione ed alla neutralizzazione del reo ilquale, per il solo fatto di avere destabilizzato – con la condotta criminosae con la violazione del ruolo assegnatogli dalla struttura sociale – le aspettativenormative condivise, si sarebbe posto in ‘guerra’ contro lo Stato,autoescludendosi da esso e negando il proprio carattere di persona, la propriastessa esistenza come cittadino. Sarebbe lo stesso reo (scil. l’high riskoffender, macchiatosi dei delitti cui si accennava sopra), a sancire, nel momentoin cui pone in essere la condotta criminosa, la propria autoesclusionedalla comunità giuridica (e, prima ancora, sociale), legittimando cosìlo Stato ad adottare nei propri confronti misure tese alla segregazione, all’innocuizzazioneed alla più strenua difesa sociale, in nome dell’esigenza diristabilire, nella coscienza collettiva, la percezione della vigenza (nonostanteil reato) della sua stessa identità normativa( 7 ).Il Feindstrafrecht si oppone dunque al Bürgerstrafrecht nella misura incui il nemico, mediante il suo comportamento, la sua occupazione od il suovincolo ad un’organizzazione criminale, si sia autoescluso volontariamenteed in forma permanente (non accidentale, dunque, e per la commissione diun crimine isolato) dal sistema giuridico. Il diritto <strong>penale</strong> del resto, dinanziad una realtà caratterizzata dalla presenza di nuovi tipi di illecito, amplia lasua sfera di ingerenza, con una sensibile e parallela riduzione delle garanzieformali e sostanziali, dal momento che la societá intraprende esattamente( 5 ) U. Beck, Risikogesellschaft, Berlin, 1996. In arg., si rinvia al raffinato saggio di L.Stortoni, Angoscia tecnologica ed esorcismo <strong>penale</strong>, in AA.VV., Il rischio da ignoto tecnologico,Milano, 2002, 85 ss., nonché aZ. Bauman, Flüchtige Moderne, Frankfurt am Main,2003. Sul concetto di sicurezza v. Baratta, Bedürfnisse als Grundlage von Menschenrechte,in Festschrift fürGünther Ellscheid zum 65. Geburstag, Baden Baden, 1999, 9-18; nonché Id.,SEguridad, inId., Criminología y sistema penal. Comiplación in memoriam, Buenos Aires,2004, 199 ss.; F. Stella, Giustizia e modernità, Milano, 2001, in particolare 137 ss.; C.Prittwitz, Strafrecht und Risiko, Frankfurt am Main, 1993, 183 ss.; Id., O Direito Penalentre Direito penal do risco e Direito Penal do Inimigo: tendências atuais em direito penal epolítica criminal, inRev. Brs. Ciênc. Crim., 2004, n. 47, 31 ss.; B. Hudson, Justice in the risksociety, London-Thousand Oaks-New Delhi, 2003, spec. 70 ss..( 6 ) A. Baratta, Funzioni strumentali e funzioni simboliche del diritto <strong>penale</strong>, inScrittiin memoria di Giovanni Tarello, II, Milano, 1990, 22 ss..( 7 ) G. Jakobs, Introducciòn: la pena como contradicciòn o como aseguramiento, inG.Jakobs-M. Cancio Melià, Derecho penal del enemigo, 2003, Madrid, 21 ss..


184SAGGI E OPINIONIuna lotta – che si avvale di politiche ispirate agli slogans di Law and Order,Zero tolerance, Broken Windows – contro un nemico del sistema.2. La garanzia della securité contro un nemico costante diviene l’imperativocategorico dello Stato attuale, la legislazione emergenziale assurgendoa paradigma del sistema <strong>penale</strong>, indissolubilmente legato al mitodurkheimiano di una coscienza sociale ‘‘che integra tutti i membri di unasocietà, in particolare nel momento della violazione delle norme’’( 8 ).Lo sviluppo tecnologico e la conseguente moltiplicazione delle fonti dirischio innesca una spirale in cui il rischio di vittimizzazione è socialmentepercepito come costante pericolo comune, non circoscritto a contesti specificie marginali, ma suscettibile di incidere su chiunque, imponendosipertanto quale problema di cui le istituzioni statuali must take care. La vittimane diviene l’emblema, quale soggetto che si fa carico del costo socialedi un rischio collettivo, non già perché deterministicamente predisposto alcrimine, per ragioni individuali e contingenti, ma solo in quanto membrodi un contesto sociale ad alto tasso di devianza, ove ciascuno è vittima potenziale:il modello teoretico del deficit si volge in quello delle opportunità.Il primo – descrivendo il fenomeno <strong>penale</strong> come relazione tra soggetti‘deboli’ (più che per struttura esistenziale, per contingenza storico-situazionale)– ascrive alla vittima, sulla scorta dell’interazionismo simbolico, un deficiteducativo, economico, sociale e di integrazione, da cui deriverebbe unamaggiore esposizione al rischio del crimine. Il paradigma delle opportunità,valorizzando gli effetti dell’evoluzione in senso tecnocratico della società,legge nel fenomeno deviante non il riflesso di un deficit sociale, ma ilportato dell’aumento delle opportunità a delinquere, da cui deriverebbe ladiffusione del crimine, emblematicamente di tipo ‘predatorio’( 9 ).Se la vittima configura un soggetto occasionale, fungibile, il suo rapportocon il reo perde ogni carattere di predittività, assurgendo a meroesito contingente dell’interazione sociale. Tuttavia, la vittima è condannataad un’ananke paradossale: se nella dinamica politica rappresenta istanze soventeoggetto di negoziazioni propagandistiche ad alta risonanza( 10 ), nelcontesto della giustizia <strong>penale</strong> il suo ruolo si riduce ad una marginale comparsa,perché su quella scena si rappresenta il diverso copione del crimen( 8 ) A. Baratta, Principi del diritto <strong>penale</strong> minimo. Per una teoria dei diritti umani comeoggetti e limiti della legge <strong>penale</strong>, inId. (a cura di), Il diritto <strong>penale</strong> minimo. La questionecriminale tra riduzionismo e abolizionismo, num. 3, settembre-dicembre 1985, di Dei delitti edelle pene, 443 ss., e, quivi, 456.( 9 ) In tal senso, M. Pavarini, Relazione al convegno ‘‘La vittima del reato: questa sconosciuta’’,Torino, 9 giugno 2001.( 10 ) Significativo in tal senso il protagonismo associativo delle vittime, quale sviluppoprogressivo di un soggetto collettivo, la cui identità politico-sociale si innesta sulla paradossalecondivisione dell’esperienza dell’aver subito un crimine.


SAGGI E OPINIONI185laesae maiestatis; ‘‘alla fine di quella spettacolarizzazione, essa non trarrebbemai un utile’’ e neppure, forse, ‘‘un timido applauso’’( 11 ).Protagonista solo sulla scena politica – ove le si ascrive il ruolo di emblemadi capro espiatorio del fenomeno deviante, in funzione preformativadel consenso in favore del potere costituito – la vittima è estromessa dall’orizzontedel processo <strong>penale</strong>, la cui proiezione finalistica si rivolge alle prospettivefuture, del reo e della società, in chiave preventiva (generale e speciale),quando invece la dimensione retrospettiva del reato subìto, che dellavittima rappresenta l’identità, non può che condannare la stessa allo stigmadel passato. Ora, autorappresentandosi quale forza necessaria alla repressionedella criminalità diffusa, il potere costituito trae la propria (altrimenticarente) legittimazione dalla strumentalizzazione dell’allarme sociale,agendo il processo di criminalizzazione quale fattore propulsivo del Koalitionsgebotdei cittadini a sostegno dello Stato.Il teleologismo della pena si identifica così nella necessaria rimozioneintrapsichica dell’allarme sociale, consolidando la Rechtsgesinnung, la fiduciacomune in una struttura normativa, rappresentata come esposta allacostante minaccia del fenomeno criminale( 12 ). Non è che il paradosso sucui si fonda la pena, indissolubilmente legata al rituale della vendetta (sacrificalee catartico perché denso di violenza), e dal cui superamento tuttaviapretende legittimazione.Dall’asserita tutela funzionale di vittime potenziali trae giustificazionela pena come emanazione di un’autorità indispensabile alla securité comune,cui il contratto sociale – ce lo ricorda Hobbes – ha delegato un poterenecessario perché strumentale: il pharmakon, catarsi sacrificale, avvelenaper risanare; annienta e sacralizza, mimetizzando la violenza in un ritualenormativizzato( 13 ). Se il rito della vendetta nasceva per ripristinarel’ordine violato, e l’espiazione del sacrificio tendeva a placare la vendettadivina, così l’esercizio monopolistico – istituzionalmente codificato dal sistemanormativo – dello jus puniendi da parte dell’istanza statuale mira aprevenire la conflittualità endemica delle interazioni sociali.In tale contesto, la strumentalizzazione politica del rischio di vittimizzazioneinduce l’identificazione collettiva nel corpo sociale minacciato dalcriminale-nemico, rispetto al quale la pena canalizza e sublima il bisogno divendetta comune( 14 ). Le esperienze britanniche e statunitensi (si pensi al( 11 ) M. Pavarini, op. ult. cit..( 12 ) Così E. Morselli, La prevenzione generale integratrice nella moderna prospettivaretribuzionista, inRiv. it. dir. proc. pen., 1988, 48, muovendo da postulati psicodinamici, descriveil contenuto teleologico della pena.( 13 ) E. Resta, La certezza e la speranza. Saggio su diritto e violenza, Roma-Bari, 2ª ed.,1996.( 14 ) È l’analisi di R. Girard, La violenza e la politica, Roma, 1980.


186SAGGI E OPINIONIVictims Task Force Report di Reagan) dimostrano come, in un contesto(quasi) privo di forme di reciprocità, l’identificazione empatica del corposociale con la vittima – assunta ad emblema della necessità di intervento( 15 )– determini una prospettiva politica simile ad un gioco ‘‘a somma zero: lavittoria dell’autore di reato significa necessariamente la sconfitta della vittima,ed essere ‘‘a favore’’ delle vittime significa automaticamente essere inflessibilicon gli autori di reato’’( 16 ).È un aut-aut tragico, che alla ingovernabilità della complessità socialeoppone un codice rigidamente binario: la neutralizzazione del criminalenemicoin nome della tutela della società, rappresentata quale vittima (collettiva)del reato. Poco importa, poi, se questa spirale ritorsiva garantiscadavvero le esigenze dei soggetti in concreto incisi dal reato. La retoricadel controllo, traendo legittimazione dalla logica socialdifensiva della segregazionepunitiva, non può che disinteressarsi della sorte individuale di chi,per mera contingenza, subisca il reato, da vittima reale. Alla pena non puòcosì che ascriversi il fine di riaffermare ritorsivamente la Wertordnung violatadal reato, sublimando il bisogno collettivo di vendetta, ideologicamenteproiettato (non su determinate forme di criminalità, nésulle lorocause strutturali), ma su stereotipi di devianti-nemici( 17 ).( 15 ) D. Garland, La cultura del controllo. Crimine e ordine sociale nel mondo contemporaneo,ed. it. a cura di Ceretti, Milano, 2004, 323.( 16 ) D. Melossi, Stato, controllo sociale, devianza, Milano, 2002, 225.( 17 ) Emblema di un’involuzione soggettivistica e sostanzialistica del diritto <strong>penale</strong> è lavalorizzazione-operata dalla L. 251/2005 – di un paradigma quasi costitutivo (L. Ferrajoli,Diritto e ragione. Teoria del garantismo <strong>penale</strong>, Roma-Bari, 1989, 512) quale la recidiva, inchiave peraltro aspecifica ed atemporale. Per effetto di essa si prevede un netto inasprimentodegli aumenti di pena (con conseguente aumento del termine prescrizionale), una pesanterestrizione all’accesso ai benefici penitenziari ed ai permessi premio, l’inammissibilità dell’automaticasospensione dell’ordine di esecuzione della pena. Nell’ipotesi di recidivi reiterati sipreclude il giudizio di prevalenza delle attenuanti, ed ove trattisi dei delitti di cui all’art. 407,co. 2, lett. a) c.p.p. (tra cui, delitti in materia di associazione mafiosa, terrorismo, schiavitù,sfruttamento sessuale dei minori, violenza sessuale, stupefacenti) si elimina la possibilità diricondurre la concessione delle attenuanti generiche alla valutazione discrezionale del giudice,prescrivendosi peraltro per gli autori dei medesimi reati (oltre che per i plurirecidivi, sulmodello del ‘Three strikes and you’re out’) l’obbligatorietà dell’aumento di pena per la recidiva(in violazione dell’art. 27, co. 3, Cost., non potendo peraltro il giudice in tali casi valutarei criteri di cui ai commi primo, n. 3 e secondo, dell’art. 133, ai fini della determinazionedella pena. Si conferma così un regime speciale (di Zero tolerance) per tipi di autore, per iquali la pena (necessariamente afflittiva e tendenzialmente carceraria, viste le restrizioni previsteall’accesso alle misure alternative), disancorata dal parametro della Tatschuld, non rappresentache uno stigma indelebile (si preclude la concedibilità della detenzione domiciliareall’ultrasettantenne plurirecidivo), privo di ogni finalità risocializzante. Va peraltro aggiuntoche la categoria di ‘autori’ delineata dalla legge in parola, è nella maggior parte dei casi ulteriormentepenalizzata, in fase esecutiva, dall’assoggettamento (fortemente discriminante) alregime di sorveglianza particolare di cui all’art. 41 bis ord. pen.. Ne consegue non soltantouna deformazione sostanzialistica e soggettivistica di tutte le componenti del fenomeno pe-


SAGGI E OPINIONI1873. Nella logica-orientata in chiave preventiva-del Feindstrafercht ilnemico è colui che, nel suo comportamento (delinquenza sessuale, abituale,recidiva), occupazione professionale (delinquenza economica, organizzata,traffico di stupefacenti) od attraverso il vincolo ad un’organizzazione(terrorismo, delinquenza organizzata, od ancora mediante l’anticocomplotto d’assassinio) abbia, in forma presuntivamente duratura, rifiutatovolontariamente lo status di cittadino (Bürger) per autoconvertirsi in nemico(Feind) del sistema. Per ció solo lo Stato si autolegittimerebbe, ad avvisodi Jakobs, ad offrire al resto dei cittadini una protezione rafforzata dacoloro che abbiano violato le aspettative normative su di loro riposte, ammettendosil’applicazione di misure di sicurezza (molte delle quali in formaapparente di pene) in uno stadio di molto precedente alla realizzazionedella condotta tipica, in ragione della pericolosità propria del tipo diautore.Riemerge, sebbene in forma diversa, il paradigma del diritto <strong>penale</strong>d’autore, che nella logica del. § 20 a) alte Fass. StGB, che ricorreva alle misuredi sicurezza in funzione segregativa e neutralizzante rispetto al soggettoritenuto pericoloso, sulla scorta dei postulati della criminologia positivistadel XIX secolo.Ora, i caratteri del Feindstrafrecht sono: 1) ampio avanzamento dellasoglia di punibilità e conseguente mutamento di paradigma, dalla prospettivadel fatto commesso a quello che si va a realizzare( 18 ); (2) assenza diuna riduzione di pena proporzionale a detta anticipazione( 19 ); (3) pas-nale (reato, responsabilità, pena), ma altresì una connotazione in senso esemplare della condannaed un’ascrizione alla pena di contenuti disciplinari e segregativi. Va aggiunto che lalegge in esame configura, di contro a questa categoria di Feindstrafrecht, un regime di irragionevolemitezza, ai limiti dell’indulgenzialismo (se non dell’impunità), nei confronti deiwhite collar crimes, o comunque dei soggetti appartenenti a classi privilegiate, che potrannodifendersi dal (non già semplicemente nel) processo, beneficiando degli effetti connessi allaprevista parificazione del regime della sospensione a quello dell’interruzione della prescrizione,che incentiva il ricorso a strategie dilatorie. Si introduce altresì un regime di prescrizionebreve, tale da trasformare l’istituto da civile rinuncia alla pretesa punitiva in una sorta di amnistiapermanente. Secondo la logica del Täterstrafrecht, da tali effetti sono eslcusi i recidivi, isoggetti dichiarati delinquenti abituali o delinquenti o contravventori professionali, ovverogli autori dei delitti di cui agli artt. 51, commi 3-bis e3-quater c.p.p. (soggetti a termini prescrizionaliaddirittura raddoppiati), per i quali il regime dell’aumento della prescrizione perinterruzione o sospensione è decisamente più rigido.( 18 ) Sul modello dei reati in materia di formazione di organizzazioni criminali o terroriste(§ 129 e 129 a) StGB), o di produzione di stupefacenti mediante bande organizzate (§§30I1e31I1Betäubungsmittelgesetz).( 19 ) Ad es., la pena per il capo di un’organizzazione terrorista è la stessa di quella previstaper l’autore di un tentato assassinio, supponendo di applicarvi la riduzione di pena previstaper il tentativo (§§ 129 a), comma 2, 211 comma 1 e 49 comma 1, n. 1, StGB), superandonella maggior parte dei casi le pene (ridotte per il tentativo) previste per gli altri delittidi associazione terrorista.


188SAGGI E OPINIONIsaggio dalla legislazione codicistica alla legislazione speciale, significativamentemodulata sui temi della ‘lotta’ contro la delinquenza (di variotipo)( 20 ); (4) riduzione delle garanzie processuali. L’inversione dell’oneredella prova e la riduzione delle garanzie individuali si legittimerebbero, intale prospettiva, in ragione della riprovevole Gesinnung dell’individuo,così rendendo più agevole qualsiasi prova a carico. È peraltro interessantenotare come queste caratteristiche del Feindstrafrecht rievochino in granparte i tratti peculiari della legislazione <strong>penale</strong> tedesca del regime nazionalsocialista.Il c.d. ‘‘catalogo dell’orrore’’( 21 ) comprende infatti, tra i paradigmi deldiritto <strong>penale</strong> nazionalsocialista, i seguenti: 1) Punibilità anticipata, mediantefattispecie di pericolo astratto, Organisationstatbestände e Unternehmenstatbestände(fattispecie in cui cioè il tentaivo viene punito come delittoconsumato); 2) Svalutazione del principio di tassativitá in ragione della modifica– risalente al 1935 – del § 2 dello StGB, che autorizzava l’analogia inbonam ed in malam partem, sulla base del parametro del ‘sano sentimentodel popolo’; nonché del ricorso alla elencazione di condotte (all’internodella fattispecie) ed elementi costitutivi, in funzione meramente esemplificativa,anziché tassativa 3) Costruzione della fattispecie in chiave soggettivamentepregnante e tale da assorbirne l’intiero disvalore nell’elementosoggettivo, a fronte di una descrizione evanescente degli elementi oggettivi;4) Progressiva trasformazione dell’evento in condizione obiettiva di punibilità(secondo la linea che poi sará sviluppata, sebbene in termini e con-( 20 ) Ed in particolare la delinquenza economica (prima legge per la lotta contro ladelinquenza economica, 29 luglio 1976, Bundesgesetzblatt I, 2034; Seconda legge per lalotta contro la delinquenza economica, 15 maggio 1986, in BGBl I, 721), il terrorismo(art. 1 legge del 1998 per la lotta contro il traffico illegale di stupefacenti e altre formedi delinquenza organizzata, in BGBl, II, 745), ma anche delitti sessuali e altre condottepericolose (legge per la lotta contro delitti sessuali e altre condotte pericolose, 26 gennaio1998, in BGBl I, 160: in tal caso l’esigenza nomotetica derivava dalla risoluzione UE inmateria di lotta contro lo sfruttamento a fini sessuali del minore), così come nella delinquenzagenerale (Legge per la lotta contro la delinquenza, 28 ottobre 1994, BGBl I,3186). Sottolinea T. Vormbaum, Il confronto con il diritto <strong>penale</strong> nazionalsocialista, Relazionetenuta al Seminario di Bologna dell’11/12 novembre 2004, come nella legislazionetedesca del Novecento rappresenti una costante l’assunzione, nelle rubriche legislative, diun ‘ordine per la tutela’, ma soprattutto per la lotta). Ronald Freisler, Segretario di Statodel Ministerio tedesco della giustizia a partire dal 1933, ed in seguito Presidente del Tribunaledel popolo, ha efficacemente espresso questa Weltanschauung, affermando che ‘‘Ildiritto <strong>penale</strong> è un diritto di lotta!’’. E, osserva lucidamente Vormbaum, ‘‘da allora in poiil legislatore ha scoperto esigenze di ‘tutela’ e di ‘lotta’ in modo sempre più frequente. Apartire dagli anni Settanta questa tendenza aumenta al punto che vengono varate solonorme di questo tipo’’.( 21 ) È questa la definizione proposta, nella prospettiva del diritto <strong>penale</strong> liberale, da T.Vormbaum, Il confront, cit., loc. ult. cit., in rapporto alle caratteristiche del diritto <strong>penale</strong> delregime nazionalsocialista.


SAGGI E OPINIONI189testi diversi, dalla Bonner Schule; 5) Concessione di un margine ampio didiscrezionalitá giudiziale nella scelta e nella commisurazione delle sanzioni(cfr. § 23, cpv., StGB, in relazione al carattere meramente facoltativo delladiminuente per il tentativo, rispetto alla forma consumata); 6) Misure disicurezza e misure per la rieducazione per i soggetti non imputabili; 9) Tendenziale(ri-)assunzione di stilemi burocratici-inquisitori da parte del processo,caratterizzato da un rafforzamento del ruolo dell’Avvocatura delloStato e dalla limitazione delle facoltá legittime del difensore.Nel precisare come tali caratteristiche fossero giá presenti, sia pure innuce, nel diritto <strong>penale</strong> preweimeriano, Vormbaum sottolinea come talunedi esse riemergano talora anche nelle legislazioni contemporanee, essendoriconducibili alla sinergia dei processi di funzionalizzazione (prevalenzadello Zweckorientierung nell’attività nomotetica ed interpretativa); moralizzazione(tendenziale attenuazione della separazione, che fu giá kantiana, tradiritto ed etica); subiettivizzazione (Gesinnungstrafrecht (più che Willensstrafrecht):progressiva valorizzazione dei requisiti di fattispecie riferibili all’atteggiamentointeriore del reo, tendenziale svalutazione della colpevolezzaper il fatto). Caratteristiche, queste, che connotano anche il ‘diritto<strong>penale</strong> del nemico’ e che rappresentano tendenzialmente una costante dellelegislazioni di tipo emergenziale, in ragione delle progressive riduzioni dellegaranzie individuali (di matrice liberale), attuate in nome della difesa socialedal ‘nemico’ di turno.Il paradosso cui conduce tale logica socialdifensiva( 22 ) presuppone –in particolare nella concezione jakobsiana del Feindstrafrecht – un’ideadella pena( 23 ) quale marginalizzazione del fatto (di reato) nel suo signifi-( 22 ) Disfunzionale anche in termini di generalprevenzione integratrice, in quanto anzichéstabilizzare nella coscienza collettiva la fiducia nella vigenza delle norme violate, amplificail rilievo – assunto come pericoloso – degli atti dei nemici-criminali la cui identità differenziale(e deviante) è attribuita dallo stesso precetto.( 23 ) La pena rappresenta, in Jakobs, un mezzo per riaffermare il vincolo al diritto difronte al cittadino a lui fedele, per ribadire dunque la vigenza degli orientamenti del contestosociale garantiti (e negati dal delitto, che produce una Desavounierung der Norm). Essa hafunzioni preventive in quanto tutela le interazioni sociali e la istituzionalizzazione delle aspettativenormative, ma non ha finalità (principali) intimidative di potenziali delinquenti né miraad incidere sulla condotta futura del condannato. La pena si applica dunque come eserciziodi riconoscimento della norma (intesa come modello orientativo delle condotte), che comprendel’esercizio nella fiducia nella norma; quello di fedeltà al diritto; quello di accettazionedelle conseguenze, in un processo di conferma della identità normativa (della società) checoinvolge come tale tutti i membri della collettività. Se il fatto punibile consiste, hegelianamente,in una comunicazione erronea o difettosa (fehlerhafte Kommunikation) rispetto allavigenza della norma, e tendente ad affermarsi come configurazione del mondo, nella misurain cui viene obiettivata, tale difetto è imputato all’autore dell’atto come sua colpa. La pena èanch’essa comunicazione, tesa a riaffermare la persistente validità della norma violata. Dellautilità della pena non sarebbe necessaria, secondo Jakobs, verifica empirica, in quanto nonsarebbe empiricamente provabile il significato del processo collettivo di (ri)affermazione del-


190SAGGI E OPINIONIcato lesivo della norma, in funzione confermativa della struttura normativa(e della stessa identità) del sociale( 24 ). Se il fine manifesto della pena (di cuil’identità normativa della società, violata dal delitto, poiché essa ne costituisce appunto nonl’effetto, ma il significato. Sul punto, G. Jakobs, Schuld und Prävention, Recht und Staat, heft452/453, Tübingen, 1976, 3 ss.; Id., Norm, Person, Gesellschaft, Berlin, 1997, 42.( 24 ) G. Jakobs, Sobre la normativización de la dogmàtica jurídico-penal, Madrid, 2003,47 (ma nello stesso senso, Id., Dogmàtica de derecho penal y la configuración normativa de lasociedad, Madrid, 2004, 56 ss.), sostiene che se il reato è la ribellione contro la norma, la penarappresenta il corrispondente di tale ribellione: mediante il dolore che infligge elimina unaerosione generale della vigenza delle norme (prevenzione generale positiva), apparendo decisivodunque l’aspetto della protezione della vigenza della norma e non di beni giuridici, dalmomento che il diritto rappresenta una relazione tra persone, attraverso la quale soltanto vienecoinvolto il profilo relativo ai beni. Ciò che del resto qualifica il reato è il suo provocare ladelusione di un’aspettativa normativa riposta sul soggetto, di talché la pena diviene contraffattosimbolico di tale ‘tradimento’, modalità cognitiva di intimidazione del reo e della societàintera. Tuttavia, se l’intimidazione rappresenta un fine secondario della pena, non ne ècerto il fondamento, che si radica invece nella riaffermazione della vigenza delle strutturenormative sociali. Il principio di colpevolezza garantisce l’attribuzione del fatto all’autore(il fatto non deve essere percepito come casuale, ma come opera del suo autore, in quantoun atto colpevole tende ad affermare una «configurazione del mondo» che pretende di esseredeterminante, con ció attribuendo una valenza sociale e comunicativa al suo stesso atto)ed in secondo luogo rivela come il reo possa intervenire nella società. L’atto colpevole ingeneraun conflitto in ordine alla configurazione della società; la pena deve dunque essere unacoazione che infligga dolore: una risposta comunicativa tesa a negare validità a ciò che l’attodel reo pretendeva affermare, per ristabilire la vigenza della struttura normativa sociale. Lastessa denominazione del delitto in tal senso (come un delitto specifico) esprime la marginalizzazionecomunicativa del fatto e del suo significato; tuttavia la necessità di una pena comecoazione (e non del semplice stigma, della mera dichiarazione di colpevolezza) nasce dal fattoche ogni denominazione è eterea, a fronte del delitto che è l’obiettivazione della volontà delreo. Pertanto, la pena deve rivestire un contenuto obiettivizzante allo stesso modo del delitto,dovendo il reo risarcire, con la pena, il danno che ha prodotto alla vigenza dell’ordine normativosociale; risarcimento che avviene con la privazione dei suoi mezzi di sviluppo (pena dimorte, detenzione, multa). «L’impressionante del taglione, della retribuzione nella stessaspecie (Kant, Metaphysik der Sitten, Tübingen, 332) è che, almeno sul piano concettuale,le rispettive obiettivazioni del fatto e della pena coincidono, risultano identiche» (G. Jakobs,Introducciòn, etc., cit., 32). Ora, osserva Jakobs, op. loc. ult. cit.., come «a parte la ridicolizzazionedelle pene-riflesso di Hegel (Rechtsphilosophie, § 101, «occhio per occhio, dente perdente»), sull’idea del taglione si radica il problema della estensione concreta della pena. Se ilreato rappresenta il tradimento di un’aspettativa normativa che non puó risolversi medianteun apprendimento cognitivo, ma esige l’imputazione di un fatto alsuo autore, e se lo Stato èl’ordine coattivo effettivo nel suo fondamento (Kelsen, Reine Rechtslehre, 205), per la vigenzadel diritto non basta che siano sanzionate le infrazioni, perché la collettività comunqueporrebbe in dubbio la realtà e l’effettività dell’ordinamento, ma è necessario che si attui anchela parte precettiva della norma <strong>penale</strong>, assicurandosi l’ordine che la norma mirava ad instaurare.Il dolore inflitto dalla pena si misura allora secondo ciò che sia necessario ad unacompensazione del danno prodotto alla vigenza della norma primaria (parte precettiva dellanorma <strong>penale</strong>)». Si tratterebbe allora di un retributivismo il cui parametro non è la lesionedel bene giuridico ma la perturbazione dell’ordine normativo, arrecata dal delitto. Prevenzionegenerale positiva come fine della pena significa allora, in Jakobs, che il destinatariodel processo punitivo è la società, che deve, attraverso l’irrogazione della pena, essere con-


SAGGI E OPINIONI191è destinatario il cittadino come persona, homo noumeno, come tale non necessitantedi intimidazione) è la conferma dell’identità normativa della società,mediante la marginalizzazione del significato del fatto( 25 ) e la privazionedei mezzi di sviluppo del reo in funzione di neutralizzazione ed incapacitazione,il suo fine latente, performativo di un orientamento culturale(sittenbildende Kraft)( 26 ), si rivolge all’homo phaenomenon, cioè una nonpersona(27 ).fermata nella sua attitudine alla fedeltà all’ordinamento, e ciò rappresenta un prodotto deldolore generato dalla pena.( 25 ) L’idea della pena come contraffatto simbolico rispetto alla violazione della stabilitànormativa (perpetrata dal reato) presenta in Jakobs evidenti legami con il pensiero hegeliano,ove, pur ammettendosi che la pena potesse esplicare altresì fini intimiditivi e di emenda, essarappresentava in primo luogo il ristabilimento dell’ordine giuridico violato dal delitto, attointrinsecamente irrazionale in quanto pretesamene negatorio degli altrui diritti, al fine di affermare,contro di essi, la libertà del reo. Pur criticando tale tesi retribuzionista – come «sequenzairrazionale di due mali» (la pena come male in sé, che segue al delitto), dovendo pertantoconcepirsi il rapporto pena-reato come relazione razionale, ove la prima si attua al finedi ristabilire la vigenza dell’ordine normativo sociale – persiste in Jakobs la metafisica dellanegazione, nella misura in cui la pena esige un’obiettivizzazione corrispondente a quella realizzatadal delitto. Similmente, in Mezger la necessità della pena si radica sul suo carattere diindispensabile affermazione del diritto, mediante la negazione della negazione di esso. In Hegel,tuttavia, la necessità della pena si fonda sulla necessità di ristabilire la vigenza della volontàgenerale, contro l’affermazione particolaristica della «volontà speciale» effettuata con ildelitto. Se la tesi è la volontà generale, come ordine giuridico, l’antitesi è la negazione di essacon il delitto, la sintesi costituisce invece la pena. Jakobs critica però la scarsa valorizzazione,da parte di Hegel, del profilo della perturbazione sociale ingenerata dal delitto. Tale nozionereca in sé certamente il tema postmoderno del conflitto sociale e del bisogno di Sicherheitsgefühl,ma a nostro avviso può comunque ritenersi incluso, sia pure in nuce, nel concettohegeliano di negazione del diritto (mediante il delitto).( 26 ) A. Eser, Medicina y derecho penal: panorama orientado en el bien protegido, inEstudios de derecho penal medico, Lima, 2001.( 27 ) Dal greco prosopon, maschera, da cui il latino personare, far risuonare attraverso,come la voce dell’attore nella maschera. L’idea relazionale di persona si riferisce in Sant’Agostinoalla sfera della coscienza individuale, che si alimenta della propria esperienza interiore,mentre con Kant diviene libertà ed indipendenza rispetto al determinismo della realtànaturale, è la libertà di un essere razionale che si conforma a leggi morali (ogni essere umanoha diritto ad essere una persona nel diritto, persona è dunque paradigma della limitazionedell’arbitrarietà nel contesto di realizzazione di relazioni sociali). In Fichte persona è un’essenzametafisica che si costituisce da se stessa, ponendosi da se stessa. In Jakobs la personanon è espressione di una soggettività (Hegel) ma è la rappresentazione di una competenzasocialmente comprensibile, che si esterna mediante obiettivazioni delle aspettative normativecoerenti con il ruolo del soggetto. Al di là del paradigma imperativista – legato ad una concezioneatomistica dell’uomo e del dovere giuridico – la norma è la istituzionalizzazione diun’aspettativa sociale, pertanto il concetto di persona indica la realizzazione del ruolo socialmenteassunto da un soggetto, come tale ingenerante un’aspettativa sociale di armonia con lanorma e di compimento dei doveri giuridici inerenti a quel ruolo. Secondo il sillogismo romanisticodell’attribuzione di soggettività mediante l’imputazione di effetti giuridici, la personarappresenta un centro d’imputazione di effetti giuridici. Il concetto, richiamato nel testo,di esclusione del deviante come contenuto intrinseco della pena, e conseguente riduzio-


192SAGGI E OPINION<strong>IL</strong>a società del rischio determina una tendenziale prevalenza dei fini latentisu quelli manifesti della pena, nella misura in cui necessita maggiormentedi un orientamento culturale, mediante il diritto <strong>penale</strong>, che assicuriil rispetto della norma primaria, oltre che della sua appendice sanzionatoria,riaffermando così la validità del precetto. Ne deriva come nelle societàdel rischio la pena determinata conformemente ai principi dello Statodi diritto possa, in taluni contesti dell’ordinamento <strong>penale</strong>, non appariresufficiente.La riaffermazione controfattuale della validitá del precetto ne presupponeinfatti una violazione marginalizzata. Quando la garanzia delle aspettativenormative (garanzia cognitiva dell’osservanza del diritto) si fa labile emarginale ‘‘il diritto <strong>penale</strong>, da reazione della società contro il fatto illecitodi uno dei suoi membri, diviene reazione avverso un nemico’’( 28 ).Ciò non implica la legittimità di reazioni radicalmente sproporzionate,ben potendosi riconoscere al nemico – seppure in una logica di conflitto –una personalità potenziale; è invece certamente possibile superare il limitedella difesa legittima, non rilevando qui aggressioni attuali, ma future, dacui difendersi( 29 ). Con tale linguaggio lo Stato ‘‘non parla più con i cittadini,ma minaccia i suoi nemici’’, che del resto sembrano destinati ad aumentare,in una società che ha perso il legame con una religione di Statoe con la famiglia come istituzione, in cui la nazionalità èavvertita come caratteristicaincidentale, così concedendo a ciascuno infinite possibilitá dicostruire la propria identità a margine dal diritto, in misura maggiore rispettoa contesti a forte interazione sociale, caratterizzati dall’attribuzionealle istanze comunitarie di forme di contrainte sociale( 30 ).ne del reo alla stregua di una ‘non-persona’ rievoca la dinamica, criticata da E. Goffman,Modelli di interazione, Bologna, 1971, 12 ss., secondo la quale la conformità del soggetto alruolo impersonato gli attribuisce una ‘faccia’ – valore socialmente riconosciuto alla manifestazionedel sé da parte di ciascuno, attraverso la propria condotta – che tuttavia la società èpronta a revocare, quando il soggetto stesso dimostri la propra incapacità di conformarvisi.La revoca della ‘faccia’, ovvero la negazione del carattere di persona come parte di una relazionesociale e di un agire comunicativo, rappresenta pertanto la sanzione per la delusionedelle aspettative normative, ingenerata dalla trasgressione rispetto al frame.( 28 ) G. Jakobs, Introducciòn, etc., cit., 30.( 29 ) G. Jakobs, op. loc. ult. cit., osserva come quest’analisi non abbia valore deonticoprescittivo,ma meramente ontico-descrittivo, a prescindere dalla risoluzione della questionese il diritto <strong>penale</strong> del nemico rappresenti ‘‘una forma di diritto’’, precisando che sembrapiuttosto trattarsi di violenza, tout court.( 30 ) G. Jakobs, Introducciòn, etc., cit., 31. La tesi dell’Autore sembra riprendere, giungendotuttavia ad esiti opposti, le considerazioni svolte, in chiave critica, dai neoChicagoans,ma soprattutto da Goffman, che ha sottolineato come l’assetto normativo delle società attuali,non traendo legittimazione da parametri etici aprioristicamente condivisi, ma da una meraadesione individuale a strutture cognitive e convenzionali, si caratterizzi per una destabilizzanteperdita della fiducia durkheimiana in un ordine sociale intrinseco, razionalmente possibile(E. Goffman, Relazioni in pubblico, Milano, 1981, 171; vedasi altresì A. Salvini, In-


SAGGI E OPINIONI193La maggiore percezione sociale del rischio di vittimizzazione implicaallora che, se nel Bürgerstrafrecht la sicurezza cognitiva rappresenta unacondizione da raggiungersi anche incidentalmente, nel Feindstrafrecht divieneobiettivo principale, non trattandosi del mero mantenimento dell’ordinea fronte di conflitti interpersonali, ma invece del ristabilimento di unacondizione strutturale, accettabile, mediante la neutralizzazione di coloroche non offrano una minima garanzia di sicurezza cognitiva, necessariaper il riconoscimento dell’individuo quale persona.Il paradigma penologico attuariale ed i ‘‘zero-sum approaches’’( 31 ) dimostranocome l’illusione sicuritaria comporti la necessaria esclusione deisoggetti cui si attribuisce un’identità deviante in quanto ritenuti incapacidi soddisfare le istanze di cooperazione razionale, e pertanto immeritevolidi godere dei diritti e delle garanzie degli insiders.La dinamica dell’esclusione del ‘nemico’ abbandona quindi ogni pretesarieducativa, precludendo all’outsider la stessa possibilità di azione e discelta, mediante istituti (il carcere di massima sicurezza, l’espulsione, la castrazioneper i violent sexual offenders) improntati alla logica dell’incapacitazionee della segregazione.Privare il reo – mediante la preclusione della stessa possibilità di agire– della possibilitá di scegliere, in futuro, se conformarsi ai parametri assiologico-normatividell’ordinamento, significa ovviamente sancire la definitivasconfitta di ogni teleologismo della pena in chiave risocializzante, main primo luogo significa negare a tale soggetto la qualità di persona, comedestinataria della sittenbildende Kraft delle medesime norme giuridiche edin particolare penali.La negazione della qualità di persona all’outsider sociale riflette delresto i paradigmi del lessico attuariale: le statistiche sui fattori di rischioterazionismo e cognitivismo in Erving Goffman. Postfazione a E. Goffman, Stigma. L’identitànegata, tr. it., Milano, 1983, 165 ss.). Ne consegue come la complessità sociale inscriva lerelazioni tra individui all’interno di strutture cognitive a contenuto normativo (frames) rispettoalle quali la fenomenologia dell’azione rappresenta un meccanismo di significazione. Lacondotta individuale ingenera pertanto, nella percezione degli altri consociati, aspettativenormative corrispondenti al frame (nel linguaggio jakobsiano, ruolo) impersonificato dal soggetto.La delusione di queste aspettative normative da parte del ‘deviante’ implica un nettoindebolimento della sicurezza cognitiva sociale, che impone pertanto la reazione sanzionatoria,in funzione strumentale alla riaffermazione della validità dell’ordine normativo violato.L’esclusione dell’individuo che abbia trasgredito al proprio ruolo costituisce pertanto unmeccanismo difensivo, attuato dal contesto sociale di appartenenza, per ribadire la propriaidentità e l’ordine normativo ‘minacciato’ dalla violazione del frame.( 31 ) Le impostazioni basate cioè, come si diceva prima, sulla pretesa impossibilità dibilanciare tutela della vittima e funzioni strumentali del diritto <strong>penale</strong> (volte cioè alla salvaguardiadi beni giuridici) da un lato, con istanze individualgarantiste di protezione del reo daun’ingiustificata, sproporzionata (ed inutile) violenza punitiva dall’altro. Su questi temi, vedansii lavori già citatid i D. Garland e B. Hudson.


194SAGGI E OPINIONIe sui tassi di criminalità riducono il singolo, nella propria unicità e complessitàpersonologica, ad un novero di parametri di rischio, deterministicamenteprevedibile nel proprio agire, cui si nega la contingenza comportamentalee la libertà di scelta, sostituite dalle certezze deterministiche deicalcoli fattoriali. Il soggetto è cosi ridotto a mero ‘‘data-constructed bearerof the charachteristics of danger’’, per il quale ‘‘there is no way back to becominga rational moral agent; the route from the fortress to the wilderness isone-way( 32 )’’.La figura del nemico rievoca così paradossi foucaultiani: il suo trattamentoè regolato giuridicamente, pur rappresentando la normativizzazionedi una esclusione dalla società in quanto comunità normativa, poiché il nemicoè una non-persona. Il diritto <strong>penale</strong> del nemico è pertanto una guerrail cui carattere limitato od assoluto dipende solo dal grado di timore socialedel nemico stesso: il paradosso nasce dall’impossibilità di una giuridicizzazionecompleta, in ragione della rottura della equivalenza (hegeliana) tra razionalitàe personalità( 33 ).4. Tuttavia, la kantiana ultima ratio – alla cui stregua ciascuno puòessere obbligato (con la minaccia della pena) a partecipare ad una relazionegiuridica garantita, quale la comunità statale, per poter essere assicuratodella garanzia dei suoi diritti (patrimonio intelligibile) – non risolverebbela questione della reazione da opporre a quanti – non avvertendo la forzaintimidatrice del precetto – non si lascino obbligare a tale condotta doverosase non mediante la segregazione( 34 ), così persistendo ad agire e ad es-( 32 ) B. Hudson, op. cit., 76.( 33 ) G. Jakobs, Introducciòn, etc., cit., 31. Va aggiunto che per Hegel il reo è un soggettoportatore di un paradosso: agisce contraddicendo la razionalità della sottomissione alleleggi in quanto espressive di un valore assoluto di etica razionale, pertanto posponendo ilrispetto degli altrui diritti e libertà, in nome della soddisfazione egoistica di pulsioni non controllate.( 34 ) In Sobre la normativización, 57 ss., Jakobs precisa come la doppia componentedella prevenzione (generale positiva e speciale negativa) siano generalmente confusi, tantoda sembrare uniti, seppure in realtà la specialprevenzione «appartenga ad un contesto di legittimazionedistinto da quello della generalprevenzione integratrice». La ragione dell’offuscamentodi tale distinzione riposa sul fatto che entrambe hanno funzione coattiva, in quantola funzione specialpreventiva si esplica nel costringere il reo a comportarsi, almeno esteriormente,in maniera conforme al diritto, mentre la prevenzione generale positiva lo obbliga arisarcire il danno prodotto alla vigenza della norma. Tuttavia, tale equiparazione occulta unadifferenza ontologica: la prevenzione generale positiva impone di infliggere il dolore dellapena ad un soggetto capace di colpevolezza (per Jakobs, imputabile), perché solo verso talipersone si ripongono aspettative normative suscettibili di essere tradite, con Hegel: la penaviene loro inflitta in quanto esseri razionali, percepiti come uguali, cittadini pieni, non esclusidalla società, ma idonei a rappresentare un centro d’imputazione di aspettative normative.Nel caso di non imputabili (o di nemici, che autoescludendosi dalla società non rappresentanopiù soggetti da cui aspettarsi la garanzia di aspettative normative) prevale non già la


SAGGI E OPINIONI195sere percepiti come perturbatori dell’ordine sociale: nemici. Il funzionalismosistemico suggerirebbe di partire dalle nozioni ‘sociali’ di persona(soggetto mediato per il sociale, rappresentazione di una competenza comesocialmente percepibile), ambito del dovere e norma, quale aspettativa socialeistituzionalizzata. Se le aspettative normative si dirigono a personecome portatori di un ruolo, la condizione minima per la loro defraudazione– che costituisce il reato – è la violazione dei doveri inerenti al ruolo (eventualmentespeciale, nell’ipotesi di soggetti in posizione qualificata).L’obiettivo della stabilizzazione sociale implica così (in violazione deldiritto al rispetto della dignità individuale) la strumentalizzazione del reoa fini confermativi dell’identità sociale, la stessa colpevolezza perdendo ilproprio ruolo garantistico di limite alla pena( 35 ). Obiezioni cui Jakobsha replicato argomentando dall’attribuzione del carattere di persona comevariabile dipendente dalla realizzazione di una relazione comunicativa socialmenterilevante, in quanto cioè si contribuisca all’autodescrizione dellasocietà( 36 ). Non si tratterebbe allora di opporre le condizioni di costituzionedella soggettività a quelle di configurazione della società, dal momentoche libertà e soggettività individuale sono un prodotto della strutturasociale funzionalisticamente intesa. Sarebbe allora la garanzia della te-prevenzione generale positiva., ma l’effetto specialpreventivo negativo della segregazione.Dinanzi a tale soggetti la pena non si rapporta alla valutazione retrospettiva della colpevolezzaper gli atti commessi in passato, né alla prognosi di colpevolezza per atti futuri, ma è necessarioche la società si assicuri dalla loro pericolosità. In tale contesto, il soggetto non èconcepito quale persona, ma quale fonte di pericolosità: si tratta di una misura di sicurezzache peró riceve la denominazione di pena: Sicherungsverwahrung. Tale modo di trattare unsoggetto non deve sembrare necessariamente illegittimo. Come Kant ritiene che il soggettoche non voglia obbligarsi a tenere una condotta conforme al diritto debba essere separatodalla società, così il soggetto pericoloso, soggetto a custodia di sicurezza, deve essere segregato,e la custodia di sicurezza a ció èfinalizzata: ad escludere colui che, in ragione della suapericolosità, non garantisce adeguatamente la soddisfazione di aspettative normative, rappresentandopertanto un nemico.( 35 ) Che peraltro elide dal suo orizzonte teleologico l’autore, non più destinatario di unprocesso rieducativo, che lo trascende: la stabilizzazione dell’identità normativa coinvolge lasocietà, per mezzo del reo, ma non si finalizza ad esso. In senso analogo, osserva A. Baratta,Integratión-prevención: una nueva fundamentación de la pena dentro la teoría sistémica, inDoc. pen., 1985, 3 ss., come tale interpretazione della prevenzione generale positiva implichiun’applicazione meramente utilitaristica della pena, che strumentalizza il singolo in nome diun rafforzamento della capacità di coazione psichica dell’ordinamento sui cittadini.( 36 ) Quasi come se la riaffermazione dell’identità normativa della società mediante lapena rafforzasse, parallelamente, la stessa personalità individuale del condannato A nostroavviso, peraltro, le teorie preventivo-integrative richiedono la colpevolezza come condizionenecessaria alla stessa efficacia preventiva da loro perseguita: l’applicazione di pena ad un soggettonon imputabile non solo non avrà effetti intimiditivi, ma non determinerà neppurequella stabilizzazione della vigenza della norma che si assume essere il fine della pena. Analogamente,E. Bacigalupo, Manual de derecho penal, Bogotà, 1998, 149.


196SAGGI E OPINIONInuta delle aspettative normative e della loro istituzionalizzazione la condiciosine qua non della configurazione dell’individuo quale persona.In questa prospettiva, il contenuto precettivo delle norme perde la suapregnanza critica ed assiologica, per divenire mero strumento di legittimazionedel reale esistente: l‘hegeliano Stato etico si autorappresenta cometale a prescindere dalla sua concreta struttura. Non rileva cioè se il contenutonormativo sia radbruchianamente ingiusto ed intollerabilmente lesivoanche delle condizioni minime di rispetto della dignità umana, in quantol’ordinamento, anche il più totalitario, ripeterebbe la propria legittimitàdalla mera vigenza e dall’assenza di disfunzionalità al suo interno( 37 ).Ora, posto che la stessa tesi della generalprevenzione positiva rappresentaun modello formal-positivista, che dà per presupposta la contingente configurazionedella realtà, ne deriva che nella sua autoreferenzialitá, il diritto<strong>penale</strong> (che, con Jakobs, ‘‘non vale se non per l’ordine sociale che garantisce’’)come sistema luhmannianamente inteso trae legittimazione dal fondarsisu norme legittime, il cui rispetto sia cioè di esigibilità intrinseca.Certamente, i principi social-assiologici incarnati (à laWelzel) nellenorme penali costituiscono il prodotto della logica di autoconservazioneed autocomprensione del sistema stesso, ma il grado di intollerabilità delFeindstrafrecht lungi dal rappresentare una necessità cogente del sistema,esprime un’intrinseca disfunzionalità rispetto ad un ordinamento giuridico– la cui Wertordung costituzionale si conforma ai canoni dello Stato di diritto– che esprime una Stufenbau dotata di livelli gerarchicamente ordinatisecondo parametri assiologici, così consentendo un sindacato di legittimitádei contenuti delle singole norme non già autoreferenziale (sebbene intra-( 37 ) Al fine di descrivere un diritto <strong>penale</strong> differenziato a seconda della società, Jakobselabora il concetto di Schuldtatbestand, i cui elementi, indici di una mancanza di fedeltà aldiritto da parte del soggetto, sono la carente motivazione giuridica e la competenza del casoconcreto, mentre il Gesamtschuldtatbestand si compone dei caratteri del tipo di colpevolezzae degli elementi di inesigibilità, costituenti l’Entschuldigungstatbestand. Al tipo di colpevolezzaappartiene l’intiero illecito, in quanto oggettivazione del difetto di motivazione normativa,necessaria all’imputazione. Il tipo generale di colpevolezza presuppone un fatto tipico, dolosoo colposo, evitabile e non giustificato, nonché la competenza dell’autore, necessaria acontraddire le aspettative normative (imputabilità, come condizione di normale motivabilità,ex § 20 StGB, che riconduce imputabilità ed esigibilità al più ampio concetto di capacità dicolpevolezza). Tale concetto sociale di colpevolezza è funzionale all’eliminazione dalla Schulddel rimprovero etico individuale, ma rappresentando lo Stato l’universale rispetto all’individuo,ciò èpossibile solo individuando la fonte di eticità dell’uomo nelle sue obiettivazioni,quale sistema di relazioni incentrate sulla personalità Ora, se la colpevolezza materiale rappresentaun deficit di fedeltà a norme legittime, il cittadino – il cui ruolo è appunto l’osservanzadel precetto – sebbene libero nella configurazione di se stesso, è tuttavia obbligato,secondo Jakobs, alla fedeltà all’ordinamento giuridico, la persona non esprimendo la soggettivitàdel suo portatore, ma la rappresentazione di una competenza socialmente rilevante. Inargomento, G. Ruggiero, Capacità <strong>penale</strong> e responsabilità degli enti, Torino, 2004, 225 ss..


SAGGI E OPINIONI197sistemico) ma eterointegrato, secondo una logica Wertorientiert, capace dicorreggerne gli squilibri.La logica di un sistema complesso, quale il diritto, articolantesi in piùlivelli, impone un riequilibrio permanente delle condizioni disfunzionali,non potendo ammettersi intrasistemicamente ipotesi di ‘diritto positivo ingiusto’,sebbene garantito da statuto e potere( 38 ). Ne consegue la necessitàdi riequilibrare i possibili contrasti – extra od intrasistemici – tra norme appartenentia livelli distinti del sistema: una norma contraria al contenuto diuna di grado superiore non potrà mantenere che una vuota vigenza formale.Il diritto ingiusto – quale in primis il Feindstrafrecht – crea pertantouno squilibrio sistemico, rilevabile alla stregua della logica strutturale intrasistemica,che impone la considerazione del contenuto delle norme, al di làdella loro vigenza formale, e che tale contenuto continuamente verifica allaluce dei livelli superiori (la Costituzione, in quanto Grundnorm e criteriosupremo di legittimazione delle norme subordinate).Del resto, l’ordinamento giuridico non potrebbe mai conformarsi allalogica strumentale (della ragion di Stato) in cui il fine giustifica i mezzi, legittimandoogni tipo di violazioni ai suoi stessi principi fondamentali, senzarinnegare il proprio carattere di Rechtsstaat. Nello Stato di diritto è infattilo stesso mezzo – inteso quale rispetto di regole e procedure – a garantire ilfine. Perché lo Stato di diritto «non conosce amici né nemici, ma soltantoinnocenti e colpevoli»( 39 ).5. La questione della capacità di resistenza dello Stato di diritto – edella sua struttura garantistica, in quanto forma istituzionale strumentale allatutela dei diritti fondamentali dell’uomo – di fronte alle sfide promanantidalle attuali (e sempre più globalizzate) forme di criminalità (soprattutto,ma non solo terroristica) si ripropone oggi, in maniera tranchant, all’internodi un contesto mondiale dominato dal sicuritarismo tipico di uno ‘stato dieccezione permanente’( 40 ), che rinviene una forte copertura simbolica nelloslogan liberticida della ‘War against crime’, la cui stessa semantica esprime il( 38 ) Secondo Radbruch, il diritto si compone delle idee di giustizia, sicurezza (intesaquale certezza giuridica), finalità o funzionalità. La Natur der Sache rappresenterebbe poiil fondamento della progressiva trasformazione di una relazione giuridica in una istituzionenormativa, secondo uno sviluppo naturale che si osserva in virtù di una tipizzazione ed idealizzazionedella individualità della relazione vitale considerata. Incarnata nella figura dell’Antigonesofoclea, tale idea di razionalità (idonea ad emanciparsi, habermasianamente, da postulatisoggettivi ed individualistici, per assurgere ad un grado di razionalità comunicativa)sembra legarsi ad una metastorica Sittlichkeit, che rappresenta il parametro di intollerabilitàalla cui stregua il diritto positivo deve cedere alla giustizia. Con Tommaso d’Aquino, potremmodire non aversi, nell’ipotesi del diritto ingiusto, «lex, sed corruptio legis».( 39 ) L. Ferrajoli, op. loc. ult. cit..( 40 ) Nell’accezione accolta da G. Agamben, Stato di eccezione, Torino, 2003.


198SAGGI E OPINIONIprogressivo attenuarsi della differenza (che dovrebbe essere ontologica estrutturale, non già fenomenica e contingente) tra guerra e diritto.Emblematica in proposito appare la situazione statunitense( 41 ), ovel’attribuzione – in virtù dei Patriot Acts del 2001 e del 2002 – al Presidentedegli Stati Uniti del potere insindacabile (e pertanto ab-soluto) di emettereprovvedimenti coercitivi nei confronti di persone od organizzazioni che egliritenga coinvolte in attività terroristiche, nonché di istituire tribunali militariad hoc per giudicare – in assenza delle garanzie del due process oflaw – gli ‘enemy combatants’ ne legittima in realtà l’esercizio di una potestàdi guerra anche all’interno del territorio statunitense, in palese violazionecon il principio montesquieuviano della divisione e della reciproca limitazionedei poteri.Si delinea così un graduale (ma non per questo meno insidioso) passaggiodal Rechtsstaat ad un Machtstaat( 42 ) in cui il diritto, lungi dal limitareil potere in funzione individualgarantistica, ne diviene il braccio armato.Del resto, in nome della crociata contro gli ‘Stati canaglia’ si è pretesodi legittimare l’istituzione di un sistema carcerario globale, esteso da Guantanamoagli Usa, dall’Afghanistan all’Iraq, ove si praticano sistematicheviolazioni dei diritti fondamentali dei detenuti – la cui qualifica di enemycombatants e criminals è ritenuta sufficiente alla privazione degli status diprigionieri come anche di detenuti, cui i trattati internazionali riconosconoessenziali garanzie –. Ridotti al rango di non-persone, gli ‘enemy aliens’ divengonosoggetti ad uno specifico sottosistema dell’ordinamento <strong>penale</strong>,autoreferenziale e retto da codici e logiche di guerra. Sembra così profilarsiuno ‘‘stato di polizia globale, all’insegna di un maccartismo parimenti globaleche rinnova nella patria dell’habeas corpus e delle libertà civili il fenomenosudamericano dei desaparecidos’’( 43 ).Ora, questa involuzione illiberale (in risposta al ‘‘lutto collettivo’’) è ingran parte riconducibile al ruolo, giocato dall’ordinamento statunitense,malgrè soi, di parte immediatamente ‘offesa’ dagli eventi dell’11 settembre2001 ed alla conseguente dimostrazione di vulnerabilità del proprio sistema;fattori che hanno agito in senso catalizzatore rispetto a tendenze( 41 ) Che presenta peraltro notevoli analogie con la situazione ordinamentale britannica,a seguito dell’emanazione del Crime and Terrorism Act del 14 dicembre 2001.( 42 ) L’espressione è diC. Prittwitz, Derecho penal del enemigo?, inS. Mir Puig-M.Corcoy Bidasolo (dir. por), La politica criminal en Europa, Barcelona, 2004, 107 ss.. Inargomento, cfr. altresì A. David Aponte, Guerra y derecho penal de enemigo, Santa Fé deBogotà, 1999; nonché Id., Krieg und Feindstrafrecht, Baden-Baden, 2004, passim; A. M.Dershowitz, Rights from wrongs. A secular theory of the origin of rights, New York,2004, spec. 84 ss..( 43 ) Così, con la consueta eleganza, L. Ferrajoli, Le libertà nell’era del liberismo, inQG, 2004, 339; S. Butler, Precatious life. The powers of mourning and violence, London-New York, 2004; S. Derrida, Voyous, Paris, 2003.


SAGGI E OPINIONI199autoritario-repressive latenti. Tuttavia l’incremento dei tassi di criminalità ela recrudescenza e l’internazionalizzazione del terrorismo, accentuandonella coscienza collettiva la percezione del rischio di vittimizzazione, hannoindotto anche negli altri ordinamenti europei una progressiva flessibilizzazionedelle garanzie proprie del Rechtsstaat ed una modulazione di settorinevralgici del diritto <strong>penale</strong> (dal crimine organizzato, alla legislazione inmateria di immigrazione, al traffico di stupefacenti, alla delinquenza sessuale)secondo gli stilemi del Feindstrafrecht.Non ne sembra esente neppure l’Italia, ove la finalità politica di contrastareil terrorismo internazionale si è tradotta in interventi legislativi dalcarattere marcatamente autoritario-repressivo, incentrati sulla logica dell’inimicus-hostis.In particolare, la recente l. 155/2005, recante ‘‘misure urgentiper il contrasto del terrorismo internazionale’’, introduce numerosemodifiche di carattere sostanziale e processuale alla legislazione antiterroristica,accentuando la modulazione di questa categoria secondo il paradigmadel Feindstrafrecht, di cui ripropone gli elementi caratterizzanti.Sotto il profilo dell’anticipazione della soglia d’intervento <strong>penale</strong>, si segnalal’introduzione( 44 ) dei delités obstacles di cui agli artt. 270-quater e270-quinquies, che sanzionano, con la medesima pena della reclusione dasette a quindici anni, rispettivamente l’arruolamento e l’addestramentoad attività di violenza o sabotaggio di servizi pubblici essenziali con finalitàdi terrorismo anche internazionale, configurando due ipotesi di pericolo indiretto,il cui disvalore di azione si polarizza sulla proiezione finalisticadella condotta, contrassegnata da un ‘doppio dolo specifico’, la finalitàdi terrorismo assurgendo a requisito qualificante gli atti al cui compimento( 44 ) Si consideri in proposito come la tecnica dell’aggiunzione normativa (ossia le continueintroduzioni di nuove norme incriminatici, peraltro in assenza di un loro coordinamentoorganico e sistematico) rappresenti una costante della legislazione emergenziale, in quantofunzionale ad istanze di legittimazione politica. La carenza di tassatività sistemica, dovuta allasovrapposizione di più fattispecie incriminatrici in relazione al medesimo oggetto, comportaperaltro il rischio di applicazioni giurisprudenziali (se non arbitrarie, quantomeno) discrezionali,con evidenti ricadute sul canone costituzionale di eguaglianza e ragionevolezza e sul fondamentaleprincipio assiologico della certezza del diritto. In argomento, per profili più generali,T. Padovani, La tipicità inafferrabile. Problemi di struttura obiettiva delle fattispecie diattentato contro la personalità dello Stato, in AA.VV., Il delitto politico dalla fine dell’Ottocentoai giorni nostri, Quaderni di Critica del diritto, Roma, 1984, 169 ss.. Sul principio di tassatività,in generale, S. Moccia, La promessa non mantenuta: ruolo e prospettive del principiodi determinatezza/tassatività nel sistema <strong>penale</strong> italiano, Napoli-Roma, 2001. In merito all’introduzionedi questi due delitti sottolinea L. Pistorelli, Punito anche il solo arruolamento,in Guida al diritto, 2005, n. 33, 55 come la clausola di riserva in favore del reato di cui all’art.270-bis c.p. dimostri l’intenzione del legislatore di riservare a tali fattispecie la funzione disupplire ad eventuali carenze probatorie relative all’imputazione per l’ipotesi associativa, sanzionandoautonomamente, benché in via residuale, condotte ritenute (meramente) sintomatichedell’esistenza di organizzazioni terroristiche, ‘‘senza necessità di doverne fornire però ladimostrazione.


200SAGGI E OPINIONIsono a loro volta finalizzate le condotte base di arruolamento ed addestramento(45 ). L’eccessiva distanza della condotta dal bene giuridico tutelato(che lo stesso legislatore identifica nell’ordine democratico e nella sicurezzapubblica mondiale)( 46 ), non è del resto compensato dal dolo specifico, cheperde ogni funzione selettiva (per determinare invece un’ulteriore anticipazionedella soglia di rilevanza <strong>penale</strong>) in ragione della sua indeterminatezza.La sfera di ricettività della fattispecie non riceve delimitazione neppuredal requisito della finalità di terrorismo, riferibile agli atti di violenza cui èfinalizzato l’addestramento o l’arruolamento, in ragione della omincomprensivitàdella clausola di cui all’art. 270-sexies c.p.. Alla sensibile Vorfeldkriminalisierungrealizzata dall’autonoma incriminazione di atti meramentepreparatori, assunti dal legislatore come prodromici a più gravi condottecommesse con finalità di terrorismo, corrisponde del resto – secondoi canoni della legislazione simbolica – un trattamento sanzionatorio deltutto sproporzionato rispetto alla idoneità lesiva del fatto, la (draconiana)comminatoria edittale essendo modulata non giá sulla sua reale gravità,ma su esigenze di generalprevenzione (sia negativa, a fini cioè di deterrenza;sia positiva, a fini preformativi, di orientamento culturale)( 47 ).Si introduce peraltro, nel corpo dell’art. 414 c.p., un’ipotesi aggravatadi istigazione od apologia, ove tali condotte si riferiscano a ‘‘delitti di terrorismood a crimini contro l’umanità’’, così riproponendo il controversoparadigma del Klimaschutzdelikt, che rischiando di attribuire rilevanza <strong>penale</strong>a comportamenti meramente sintomatici di una Gesinnung, mira a tutelarela mera sicurezza cognitiva e la fedeltà dei consociati nella vigenzadell’ordinamento normativo( 48 ), in antinomia con l’impostazione liberaldemocraticadello Stato.( 45 ) Analog., L. Pistorelli, op. loc. ult. cit.. Devesi osservare come mentre l’art. 270-quater punisca soltanto colui che arruoli, ma non colui che si arruoli ai fini descritti, la normasuccessiva attribuisca rilevanza <strong>penale</strong> autonoma anche alla condotta di colui che venga addestratoalle attività tipizzate.( 46 ) Così si legge nella Relazione al disegno di legge di conversione, presentato in Senatoil 27 luglio 2005. In realtà, le fattispecie sembrano perseguire finalità (oltre che simbolico-espressive),processualserventi, essendo cioè funzionali a supplire alle carenze probatoriecui l’accusa per la fattispecie associativa sovente presenta, incriminandosi autonomamente(benché in via residuale: in tal senso depone la clausola di sussidiarietà rispetto all’art.270-bis), condotte ritenute sintomatiche dell’esistenza di organizzazioni terroristiche.( 47 ) Simile struttura di reati di pericolo indiretto, caratterizzati da una fattispecie soggettivamentepregnante, da una sensibile anticipazione della soglia di criminalizzazione, e dauna netta sproporzione tra trattamento sanzionatorio e gravità ed idoneità lesiva del fatto;nonché dalla strutturale indeterminatezza della norma, presentano i delitti introdotti, dagliartt. 8, comma 5 e 10, comma 4, rispettivamente all’art. 2-bis l. 89571967 (addestramentoindebito alla fabbricazione o all’uso di esplosivi, armi da guerra o altri congegni micidiali),ed all’art. 497-bis c.p. (possesso e fabbricazione di documenti di identificazione falsi).( 48 ) A tali delitti G. Jakobs, Kriminalisierung im Vorfeld einer rechtsgutverletzung,


SAGGI E OPINIONI201Sul versante processuale emergono sempre di più stilemi inquisitori,determinandosi una sensibile riduzione delle garanzie individuali ed uncorrispondente ampliamento dei poteri di intervento autonomo, anche invia precautelare, della polizia giudiziaria, nonché delle competenze, attribuitedall’art. 226 disp. att. c.p.p., agli organi dei Servizi informativi e disicurezza, nello svolgimento di intercettazioni e controlli preventivi sullecomunicazioni( 49 ). Oltre a prevedere la creazione di unità investigative interforzeantiterrorismo (sul modello della direzione investigativa antimafia),l’art. 13 l. 155 abbassa a quattro anni, dai precedenti cinque, il limite minimodi pena dei reati per cui si prevede l’arresto obbligatorio di chiunquesia colto in flagranza di delitto (consumato o tentato) commesso per finalitàdi terrorismo, così da ricondurre a questo regime anche reati, meno gravementepuniti, presumibilmente connessi ad attività terroristiche.Analoga ratio presenta l’art.13, cpv., l. 155, che estende la legittimitàdell’arresto facoltativo anche in relazione al delitto di possesso o fabbricazionedi documenti di identificazione falsi, di cui al ‘nuovo’ art. 497 bisc.p., ed il terzo comma dell’art. 13, che autorizza il fermo di indiziato didelitto, di cui all’art. 384 c.p.p., ed indipendentemente dagli editti di pena,nei confronti degli indiziati di un delitto commesso per finalità di terrorismo,anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico.Si prevede che la polizia giudiziaria possa procedere al fermo di propriainiziativa anche qualora l’indiziato sia individuato successivamente ovverosiano sopravvenuti specifici elementi tali da rendere fondato il pericoloil pericolo di fuga e non sia possibile, data l’urgenza, attendere la decisionedel pubblico ministero, peraltro precisandosi che il possesso didocumenti falsi costituisca un elemento di specifico rilievo ai fini della disciplinadi cui all’art. 384, co. 3.Al fine di ampliare le misure di identificazione degli indagati( 50 ), siZStW, 1985, 779, riconosce il carattere di radicale incompatibilità con il Bürgerstrafrecht, salvele ipotesi in cui l’apologia, pur riferendosi ad un reato già commesso – come previsto dal §140 StGB – si presenti con valenza istigativa.( 49 ) Notevole è anche l’ampliamento operato alle ipotesi di applicazione delle misuredi prevenzione personali e patrimoniali nate sul terreno della legislazione antimafia, in ragionedelle modifiche apportate dall’art. 14 l. 155 alle l. 1423/1956 e l. 575/1965. Nel quadrodell’attività preventiva di attentati contro l’incolumità pubblica rientra anche l’incisiva regolamentazioneamministrativa di attività ritenute astrattamente pericolose: dalla disciplina amministrativadegli esercizi pubblici di telefonia e telematica alle attività di volo a quelle concernentiesplosivi, alla prevenzione antiterroristica negli aeroporti.( 50 ) Come sottolineano G. Melillo e A. Spataro, Senza la creazione di una Procuranazionale a rischio il coordinamento tra gli uffici, inGuida al diritto, 2005, n. 33, 54, in particolarel’estensione (art. 10 l. cit.) sino a ventiquattr’ore del limite temporale del fermo peridentificazione personale – sul paradigma della garde a vue – se rispondente ad un’oggettivadifficoltà nell’accertamento rapido dell’identità delle persone e della veridicità dei loro documenti,rischia tuttavia di indurre surrettiziamente prassi poco garantiste, rivolte a fini di-


202SAGGI E OPINIONIautorizza peraltro il prelievo coatto di saliva o capelli, da parte della poliziagiudiziaria, previa autorizzazione del pubblico ministero, così legittimandosiun trattamento( 51 ) di dubbia invasività nei confronti dell’indagato, eche riesce difficile immaginare possa realizzarsi (proprio in quanto coattivo,e per le sue intrinseche modalità esecutive) nel rispetto ‘‘della dignitàpersonale del soggetto’’, come pur dispone la legge, con una formula (cherischia di risultare) meramente declamatoria. Al di là della dubbia efficaciaeuristica di tali procedure, non può peraltro sottacersi come questa modificadel terzo comma dell’art. 354 c.p.p. determini una palese violazionedella riserva di giurisdizione e di legge, implicante quest’ultima la specificadeterminazione dei casi e delle modalità di intervento, nonché dei requisitidi necessità ed urgenza legittimanti gli accertamenti compiuti dalla p.g. aisensi dei commi 2 e 3 dell’art. 354 c.p.p.( 52 ).La legge 155 estende peraltro le disposizioni dettate in tema di colloquiinvestigativi dall’art. 18 bis della legge sull’ordinamento penitenziarioanche alla prevenzione dei delitti commessi per finalità di terrorismo,anche internazionale ed autorizza l’acquisizione dei dati relativi al trafficotelefonico e telematico, anche sulla base del decreto motivato del pubblicoministero, in deroga all’art. 132, co. 3, d.lgs. 196/2003, che richiede invecel’intervento del giudice.Non mancano del resto, secondo i canoni della ‘‘soave inquisizione’’(53 ), disposizioni premiali, come quelle previste dall’art. 2 l. 155,che prevede il rilascio di uno speciale permesso di soggiorno agli stranieriche collaborano con la giustizia e la cui permanenza nel territorio nazionaleversi da quelli avuti di mira dalla norma. Per questa ragione si è suggerita (Cassese, Ma sulfermo di polizia servono più garanzie, inLa Repubblica, 22 luglio 2005, cit. dagli Autori) laprevisione di una visita medica di controllo obbligatoria del fermato, al momento del rilascio,del cui esito dovrebbe avere contezza il magistrato, conformemente alle direttive espresse dalComitato del Consiglio d’Europa in materia di prevenzione della tortura. La modifica in esameè del resto emblematica della più generale tendenza, che informa la legge 155, alla riduzionedelle garanzie proprie del controllo giurisdizionale sull’attività di prevenzione antiterroristica,in funzione di una rivendicazione della supremazia delle competenze dell’esecutivo(in tal senso depone peraltro il notevole ampliamento delle ipotesi di ammissibilità delle intercettazionipreventive, la cui natura eccezionale è motivata proprio dall’assenza del previovaglio giurisdizionale sotteso all’autorizzazione del giudice). Di contro,come sottolineano G.Melillo e A. Spataro, op. cit., 52, sarebbe stata ben più efficace la previsione di un ufficiocentrale di coordinamento delle indagini, tale da consentirne l’armonizzazione ed il sinergismo.( 51 ) Tuttora escluso dal novero dal novero di quelli che il giudice può disporre in sededi assegnazione di incarichi peritali, in seguito alla declaratoria di parziale illegittimità dell’art.244 c.p.p. da parte di C. Cost., sent. 238/1996.( 52 ) Analogamente, G. Frigo, Straniero «cacciato» senza garanzie, inGuida al diritto,2005, n. 33, 79.( 53 ) T. Padovani, La soave inquisizione. Osservazioni e rilievi a proposito delle nuoveipotesi di ‘‘ravvedimento’’, inRiv. it. dir. proc. pen., 1981, 532.


SAGGI E OPINIONI203sia utile ai fini dell’attività investigativa o di intelligence o per il prosieguodell’azione <strong>penale</strong>. La norma concede inoltre il rilascio della carta di soggiornoallo straniero che abbia fornito un contributo di straordinaria rilevanzaper la prevenzione, nel territorio dello Stato, di attentati terroristicialla vita od alla incolumità delle persone o per la concreta riduzione delleconseguenze dannose o pericolose degli attentati stessi ovvero per identificarei responsabili di atti di terrorismo. La natura premiale di simili istitutiemerge con particolare evidenza in relazione all’ipotesi di rilascio dellacarta di soggiorno, che a differenza del caso di concessione del permessodi soggiorno non implica alcuna valutazione prognostica in ordine alla presumibileefficacia, a fini investigativi e preventivi, della collaborazione, incentrandosiinvece unicamente sul risultato funzionale della stessa( 54 ).Non si tratta che della deformazione poliziesca della giurisdizione d’emergenza,ove il cuore del processo diviene il segreto del confessionale, inun rapporto impari che vive nell’ombra, vincolando inquisito ed inquisitoread una malsana dipendenza: chi collabora è nelle mani dell’accusa, allaquale a sua volta il primo s’impone, come fonte privilegiata di verità e giustizia(55 ). Del resto, ‘‘Le domaine de la récompense est le dernier asile oùc’est retranché le pouvoir arbitrarie’’( 56 ).Come già nel 2001, in sede di conversione si è eliminata la prevista riferibilitàai reati di cui agli artt. 207-bis, terzo comma, 207-quater e 207-quinquies (limitatamente al compimento di attività con finalità di terrorismointernazionale), dell’art. 313 c.p., ovvero della subordinazione dellaprocedibilità ad autorizzazione del Guardasigilli, diretta a consentire unavalutazione di natura politica dei fatti in questione, nella loro possibile rilevanzasul piano degli equilibri internazionali, a fronte della permanenzadell’esclusione, per le medesime ipotesi, del principio di difesa, sancito dall’art.7, n. 1, c.p., come modificato dalla l. 438/2001.Dalla sintesi dei tratti caratterizzanti la l. 155/2005 emerge pertantocome il legislatore attuale – ben più che il suo predecessore del 2001( 57 )– abbia inteso approntare delle misure ‘a tutto campo’ per la prevenzionee la repressione del terrorismo (anche) internazionale, in deroga rispetto aiparadigmi tipici del Bürgerstrafrecht – ed in forte analogia con l’idéé direc-( 54 ) G. Frigo, op. cit., 77.( 55 ) L. Ferrajoli, Diritto, etc., cit., 864.( 56 ) J. Bentham, Théorie des peines et des récompenses, Londres, 1811, II part., liv. I,chap. XII, 159.( 57 ) La l. 438/2001 – con la quale si è tra l’altro modificata la formulazione dell’art.270-bis c.p. e si è introdotta la fattispecie di assistenza agli associati, di cui all’art. 270-ter– ha infatti rappresentato un intervento di dimensioni decisamente ridotte rispetto a quellodel 2005, alle cui lacune tuttavia la legge 155 non sembra avere posto adeguatamente rimedio;accentuandone anzi i tratti emergenziali ed illiberali ed accordando, nel bilanciamentotra esigenze socialdifensive ed istanze individualgarantiste, netta prevalenza alle prime.


204SAGGI E OPINIONItrice dei Patriot Acts statunitensi e del Terrorism Act inglese – così introducendoun sottosistema <strong>penale</strong> d’eccezione, dalla logica illiberale e socialdifensiva,modellato sulla figura del nemico, ora individuato nel ‘terrorista’.Tuttavia, la strutturale carenza di determinatezza delle fattispecie introdotte,la loro scarsa tassatività sistemica (dovuta alla mancanza di coordinamentotra le disposizioni) e la conseguente ineffettività delle stesse, inducea rilevare come l’intervento legislativo in analisi (che nasce peraltro dallaconversione (straordinariamente tempestiva) di un decreto legge) perseguala funzione strumentale di catalizzare, a fini di legittimazione politica e distrategia elettorale, il consenso di un’opinione pubblica sempre più pervasa– complice anche la strumentalizzazione mediatica del fenomeno terroristicoe criminale in genere – dall’Unsicherheitsgefühl tipico della societàdel rischio, in cui cresce la percezione del rischio di vittimizzazione. Intal senso depone peraltro l’avere il legislatore introdotto, in sede di conversione,all’art. 270-sexies c.p., la ‘precisazione’, alla cui stregua ‘‘sono consideratecon finalità di terrorismo le condotte che, per la loro natura o contesto,possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un’organizzazioneinternazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione ocostringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiereo astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere lestrutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di unPaese o di un’organizzazione internazionale, nonché le altre condotte definiteterroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni oaltre norme di diritto internazionale vincolanti per l’Italia’’.Tale precisazione si conforma alla direttiva politico-criminale sottesaalla riformulazione dell’art. 270-bis c.p., da parte della l. 438/2001, voltaad estendere l’oggettività giuridica tutelata dalla fattispecie, valorizzandonela dimensione metanazionale. Se infatti si è tradizionalmente attribuita, albene giuridico protetto dalla norma, una valenza duplice (da un lato, cioè,la personalità dello Stato, come indicato peraltro dalla collocazione sistematicadella disposizione e dall’altro, l’ordine pubblico, inteso alla streguadella Wertordnung costituzionale, su cui incide l’attività eversiva dei terroristi),la novella del 2001 ha evidenziato come l’ipotesi di atti di violenzadiretti «contro uno Stato estero, un’istituzione od un organismo internazionale»sottenda la tutela dell’ordinamento costituzionale italiano, anchenella parte in cui «richiama le norme del diritto internazionale generalmentericonosciute e le organizzazioni internazionali che operano per assicurarela pace e la giustizia tra le nazioni (artt. 10 e 11 Cost.), nonché i vincoliderivanti dagli obblighi internazionali (art. 117 Cost.)»( 58 ).( 58 ) G. Palombarini, sub art. 270-bis, inA. Crespi – F. Stella – G. Zuccalà,Commentario breve al codice <strong>penale</strong>, Padova, 2004, 625.


SAGGI E OPINIONI205La finalità del rispetto, costituzionalmente sancito, degli obblighi assuntiin sede internazionale, muterebbe pertanto il concetto di «personalitàdello Stato», evidenziandone la dimensione di soggetto istituzionale titolaredi obblighi sul piano internazionale, tra i quali, in primis, quello di (contribuirea) garantire la pace e la sicurezza tra le nazioni. Ora, la riformulazionedell’art. 270-bis c.p., da parte della l. 438/2001, ha rappresentato certamente– come rilevato da autorevole dottrina( 59 ) – l’ennesima ‘occasionemancata’ per conferire maggiore determinatezza ad una fattispecie che demandavaalla discrezionalità giudiziale l’interpretazione del concetto di terrorismo,e conseguentemente (dato l’orientamento soggettivamente pregnantedella norma), l’individuazione del suo stesso ambito applicativo.Tuttavia, la norma introdotta dalla l. 155 non sembra conseguire i risultatiauspicati, in ragione della omnicomprensività( 60 ) (e conseguentescarsa selettività) della clausola prevista (che peraltro traspone pedissequamenteil primo alinea dell’art. 1 della Decisione Quadro 2002/475/GAI) esoprattutto dell’integrale rinvio recettizio operato, dalla formula di chiusura,alle disposizioni internazionali sul tema, carenti anch’esse (come lamaggior parte del diritto internazionale pattizio) in primo luogo, di tassatività(si pensi, a titolo meramente esemplificativo, all’art. 2 della Convenzionedi New York per la repressione di attentati terroristici dinamitardi( 59 ) A. Manna, Erosione delle garanzie individuali in nome dell’azione di contrasto alterrorismo: la privacy, in RIDPP, 2005, 33 ss.; si segnala in proposito come secondo il Gip diMilano (sent. 24.1.2005, in www.costituzionalismo.it), la norma non comprenda anche gliatti di guerriglia, per quanto violenti, posti in essere nell’ambito di conflitti bellici in attoin altri Stati ed a prescindere dall’obiettivo preso di mira, in quanto ciò determinerebbe ‘‘inevitabilmenteun’ingiustificata presa di posizione per una delle forze in campo, essendo peraltronotorio che nel conflitto bellico (iracheno: n.d.r.), come in tutti i conflitti dell’era contemporanea,strumenti di altissima potenzialità offensiva sono stati innescati da tutte le forze incampo’’.( 60 ) Comune peraltro alle legislazioni antiterroristiche inglesi e statunitensi. Secondo ilTerrorism Act britannico, infatti, la finalità terroristica è integrata anche dalla minaccia direttaal raggiungimento di generici fini religiosi, politici o ideologici, realizzabile persino da condottecostituenti una grave violenza contro la persona od un grave danno alla proprietà. Sottolineanotuttavia G. Melillo e A. Spataro, op. cit., 54, come le caratteristiche delle condottecon finalità di terrorismo tipizzate dall’art. 270-sexies siano pressoché assenti nellamaggior parte degli atti terroristici realizzati dalle Brigate rosse o da altre associazioni eversivenazionali, le quali pertanto non risulterebbero – paradossalmente – riconducibili alla disciplinadi nuovo conio. Rimarca il carattere tautologico della tipizzazione delle condotte confinalità di terrorismo di cui all’art. 270-sexies, norma inidonea a ‘raggiungere un contenutoeffettivamente autonomo e selettivo rispetto al significato che il termine terrorismo assumenel linguaggio comune, L. Pistorelli, op. loc. ult. cit. In una diversa prospettiva, evidenziala natura – assunta, già prima della legge 155, dalla formulazione della Decisione Quadro475-Gai del 13 giugno 2002 – di ‘referente esegetico’ di diritto interno per la definizionedi una nozione tecnico-giuridica di ‘terrorismo’, G. Frigo, Straniero «cacciato» senza garanzie,inGuida al diritto, 2005, n. 33, 82.


206SAGGI E OPINIONIdel 15 dicembre 1997, od all’art. 2 della Convenzione di New York per larepressione del finanziamento del terrorismo, del 9 dicembre 1999).La dubbia legittimità di tale integrazione di un requisito costitutivo delprecetto da parte di norme – quali quelle di fonte internazionalistica – cheper il loro carattere necessariamente compromissorio (dovuto all’esigenzadi armonizzazione delle legislazioni interne e dal voto all’unanimità, generalmenteprevisto per l’approvazione delle disposizioni internazionali) presentanoinevitabilmente una strutturale carenza di determinatezza, appareinfatti in contrasto con il principio costituzionale di precisione della normaincriminatrice, nella sua funzione precipuamente individualgarantistica.La norma introdotta all’art. 270-sexies c.p. conferma pertanto la vocazionesimbolico-espressiva e socialdifensiva di una legislazione nata sull’ondadei ‘bisogni emotivi di pena’ indotti dalla percezione (non di radostrumentalizzata) del fenomeno criminale, e dall’esigenza di legittimazione,ancora una volta politica.Si tratta, in termini più generali, della sovrapposizione della sécuritéalla sûreté. Nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo e del cittadinodel 1879 la sécurité costituiva il diritto del cittadino alla garanzia, daparte dello Stato, della sicurezza: sicurezza, quindi, nel(e mediante lo)Stato; la sûreté indicava il diritto ‘naturale ed imprescrittibile’ dell’uomo:sicurezza (quale sfera di intangibilità) dallo Stato. Le odierne politiche sicuritariehanno ridotto questa dicotomia ad un’equazione, sulla base dell’assiomamistificante secondo cui la sûreté non possa che realizzarsi nella sécurité(61 ).Assioma mistificante, si diceva, in quanto teso ad occultare la reale originedi fenomeni criminali quali in primis il terrorismo; fenomeni che nasconosul terreno di una profonda caduta di legittimazione dell’ordinamento,il cui aspetto primario è proprio l’inefficienza dei meccanismi democraticidi controllo sociale( 62 ).6. L’obiettivo politico di combattere il terrorismo internazionale e lastrumentalizzazione delle istanze repressive scaturite dal diffuso Unsicherheitsgefühlhanno pertanto riproposto, in primo luogo (ma, come si vedràtra breve, non solo) nel settore della legislazione di contrasto al terrorismoe, più in generale, al crimine organizzato, la logica del delitto politico( 63 ),( 61 ) M. Palma, Ristretti e detenuti: la situazione europea, inQG, 2004, 437 ss..( 62 ) E. Resta, Terrorismo e stato della crisi, Quest. Crim., 1979, 27.( 63 ) Nozione che intendiamo con riferimento all’accezione autoritaria, legata ad unconcetto di ‘ragion di Stato’ che da Machiavelli, a Bodin, all’idealismo di Fiche ed Hegel,giunge sino a Carl Schmitt. Accezione, questa, notoriamente contrapposta a quella ‘liberale’,che riconduce al diritto di resistenza (sancito peraltro dall’art. 2 della Dichiarazione del1789, dall’art. 50 del Progetto di Costituzione italiana, dalle Costituzioni del 1946 e 1947


SAGGI E OPINIONI207come luogo di affermazione della ragion di Stato sullo Stato di diritto. Lacostruzione di questa categoria di diritto <strong>penale</strong> ‘speciale’( 64 )ètendenzialmenteaccomunata dalla ricorrenza della figura del reato associativo, nellesue diverse specificazioni: dall’associazione di stampo mafioso( 65 ) a quellafinalizzata alla tratta di persone (introdotta dalla l. 228/2003)( 66 ), a quelladi taluni Länder tedeschi, dall’art. 20 della Costituzione portoghese del 1976) la legittimità diogni atto di opposizione (finanche il delitto politico) all’esercizio arbitrario del potere statuale.Tale pensiero affonda le proprie radici nell’Antigone sofoclea, nella dottrina paleocristianadella disobbedienza in caso di conflitto tra precetti religiosi e giuridici, nelle teorie medievalidel tirannicidio, per fondersi con il giusnaturalismo di matrice groziana: cfr. L. Ferrajoli,Delitto politico, ragion di stato e stato di diritto, in AA.VV., Il delitto politico, etc., cit.,53 ss.. È peraltro noto il rifiuto del Carrara di trattare la categoria, e le obiezioni opposte allatesi del Pessina (tendente a risolvere il conflitto autorità versus libertà a favore della ‘‘sicurezzainterna ed esterna’’ dello Stato), sulla base del paventato rischio che la difesa sociale possarisolversi nella mera protezione della posizione dei governanti, che si sono posti non ‘‘accanto’’,ma ‘‘sopra’’ ai consociati. Sul punto, v. F. Colao, Il delitto politico tra Ottocento e Novecento.Da «delitto fittizio» a «nemico dello Stato», Milano, 1986, 82 ss..( 64 ) Categoria che ha peraltro visto la progressiva estensione di istituti peculiari, natisul terreno della legislazione antimafia, anche al settore dei reati commessi per finalità di terrorismoo di eversione dell’ordine democratico: si pensi alla disciplina dei collaboratori digiustizia, all’ormai stabilizzato regime detentivo speciale ex art. 41-bis ord. pen., alle misuredi prevenzione patrimoniale, alle peculiari norme processuali in tema di confisca, intercettazionetelefonica ed attività di polizia sotto copertura: queste ultime peraltro di recente estese,tra l’altro, anche ai delitti di schiavitù di cui alla l. 228/2003 ed a taluni delitti di sfruttamentosessuale del minore, di cui alla l. 269/1998. L’estensione di tali istituti – accomunati dallafinalità repressiva e dalle modalità inquisitorie ed antigarantistiche – a fronte della eterogeneitàdei reati interessati, conferma ulteriormente l’opzione politico-criminale sottesavi, dicostruire una categoria speciale del diritto <strong>penale</strong>, retta dalla logica del diritto <strong>penale</strong> del nemico.( 65 ) La natura di delitto politico è stata del resto riferita anche all’associazione mafiosa,in quanto momento di ‘‘costruzione ed espressione del potere mafioso’’ (E. Musco, Mafia eistituzioni,inStudi Costa, 305 ss.; cit. da G. Forti, sub art. 416-bis in A. Crespi-F. Stella-G. Zuccalà, Commentario breve al codice <strong>penale</strong>, Padova, 2003). Non puó tuttavia negarsial fenomeno mafioso il riconoscimento del suo carattere strutturale della vita politica, economica,sociale del nostro Paese, contrassegnato dalla ricerca di relazioni d’influenza con la sferapolitica istituzionale, non già per rivolgerne l’assetto, ma anzi per mantenerlo costante edesercitare al suo interno la propria sfera di potere (in tal senso, G. Narducci, Terrorismo,criminalità organizzata e diritto <strong>penale</strong>, inQG, 2004, 393). Per un quadro generale della legislazionesul tema, non può tuttavia che rinviarsi a G. Fiandaca (a cura di), La legge antimafiatre anni dopo. Bilancio di un’esperienza applicativa, Milano, 1986.( 66 ) Che per i profili, che la caratterizzano, di strutturale indeterminatezza, carente tassativitàsistemica, esasperato rigore repressivo, nonché di ineffettività disnomica e conseguentefunzionalità meramente simbolico-preformativa, rivela come alla base dell’interventolegislativo del 2003 debba in realtà rinvenirsi la volontà politica di controbilanciare (e quindidistogliere l’attenzione dal)l’opzione politico-criminale sicuritaria e di stampo socialdifensivo,sottesa alla legislazione ‘terroristica’ in materia di immigrazione. Lo slittamento della questionedel neo-schiavismo sulla riformulazione dei delitti di cui agli artt. 600 ss. c.p., con particolareriferimento alla tratta di persone (tema cui sia l’Onu che l’Unione Europea hannodedicato diverse convenzioni e decisioni), è cioè funzionale ad occultare gli effetti delle po-


208SAGGI E OPINIONIcaratterizzata dalla finalità di terrorismo anche internazionale o di eversionedell’ordine democratico, di cui all’art. 270-bis c.p.( 67 ). Settori, questi,ove il diritto <strong>penale</strong> si modula tendenzialmente secondo i canoni del Täterstrafrechtin ragione della potenzialità, intrinseca alla dinamica concorsuale,di estensione della responsabilità, sempre meno vincolata alla colpevolezzaper il fatto piuttosto che alla appartenenza ad un sodalizio criminale.La repressione della criminalità organizzata denota una costante sovraesposizionedella figura dell’autore, rinunciandosi alla differenziazionetra i ruoli centrali e quelli marginali perché ‘‘non esiste più il centro dell’accadimento.Il nemico è l’organizzazione, la sua rete, la struttura. Una lottaefficiente ad una organizzazione non si attarda sulla differenziazione traruolo marginale e centrale’’, dal momento che l’appartenenza all’organizzazioneè punita come autoria( 68 ).Il tratto caratterizzante tali ipotesi criminose – pur nelle loro profondediversità –èla connotazione in chiave di ‘nemico’ dell’autore( 69 ), cui lolitiche di chiusura delle frontiere (dell’Unione e dei suoi Stati membri) e di ‘tolleranza zero’nei confronti dei migranti. La tesi sembrerebbe confermata dalla tendenza della giurisprudenzaad applicare la disciplina della legge Merlin anche in relazione ad ipotesi (in particolare,tratta o riduzione in schiavitù di donne a fini di sfruttamento sessuale o della prostituzione)compatibili con le incriminazioni di cui ai ‘nuovi’ artt. 600 o 601 c.p., la cui applicazionesembra invece limitata a rari casi, relativi a vittime minorenni (in tal senso, vds. M.G.Giammarinaro, Aspetti positivi e nodi critici della normativa contro la tratta di persone, inQG, 2005, 458. In argomento, sia consentito il rinvio a F. Rresta, voce Personalità individuale(delitti contro la), inS. Cassese (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, in corso dipubblicazione per l’editore Giuffré.( 67 ) Sottolinea L. Ferrajoli, Diritto, etc., 853, come la legislazione dell’emergenza inItalia abbia conosciuto, dopo una prima fase di ‘diritto speciale di polizia’ (dalla legge Bartolomeidel 1974, alla legge Reale del 1975, alla legislazione sull’ordine pubblico del biennio’77-’78, volte a duplicare, in capo alla polizia giudiziaria, tutti i poteri istruttori della magistratura),un diritto <strong>penale</strong> politico d’eccezione (dal decreto Cossiga del 15.12.1979, alla leggesui pentiti del 29.5.1982, alla l. 30471982), caratterizzato dalla contestazione dei reati associativicome ipotesi istruttorie da verificare nel corso del processo, ma comportanti la custodiacautelare (prorogata nel massimo e resa misura obbligatoria ed automatica, in ragionedell’obbligo del mandato di cattura e del divieto di libertà provvisoria sulla base del reatocontestato e della sua finalità terroristica; aggravante, questa, speciale, non bilanciabile e pertantocausa di aumento automatico della pena e della durata della custodia cautelare); dallastruttura inquisitoria del processo, dominato da logiche premiali e delatorie; dall’introdottadifferenziazione del regime detentivo. A questa fase è seguita l’estensione delle prassi emergenziali,nate sul terreno della lotta al terrorismo ed alla mafia, a più ampi settori (dalla legislazionein materia di stupefacenti, ai delitti di schiavitù, a quelli in tema di sfruttamento sessualedei minori), con una progressiva soggettivizzazione e differenziazione dello statuto <strong>penale</strong>per tipi di autore, nonché una connotazione poliziesca dell’intiera funzione giudiziariaed un’accentuazione del contenuto segregativo ed affittivo – non già risocializzante – dellapena.( 68 ) G. Insolera, Reati associativi, delitto politico e terrorismo globale, inDPP, 2004,1326.( 69 ) L’assimilazione tra nemico e criminale è daC. Schmitt, Der Nomos der Erde im


SAGGI E OPINIONI209Stato si contrappone in una strategia difensiva che ricorda l’antitesi schmittiana,escludendo ogni possibile mediazione dialettica.La sinergia funzionale tra Feindstrafrecht e delitto politico (in quantoterreno di scontro tra ragion di Stato e nemico-criminale, ma ancor piùtra ragion di Stato e Stato di diritto) emerge in maniera emblematica conriferimento ai reati associativi, che anche se non direttamente rivolti controla sicurezza dello Stato, presentano una nota di sostanziale politicità. L’associazionecriminosa, autoaffermandosi come ordinamento autonomo edoriginario in contrapposizione a quello statale, ed assumendo a fine del sodaliziola commissione di reati, mira a legittimarne lo statuto, ledendo ilbene costituzionalmente garantito dell’esclusività della normazione <strong>penale</strong>(70 ), al fine di delegittimare la stessa istanza statuale.È la stessa assolutezza del valore che si ritiene leso da questi delitti chene connota l’autore quale nemico, e trasformando l’accusa in nemesi, imponeallo Stato una reazione emergenziale, ove per ‘emergenza’ si intendedrammatizzazione della reazione <strong>penale</strong>, che da strumento di controllo socialediviene conflitto, in cui si dissolve ogni garanzia, ‘‘in nome della difesaessenziale dell’ordinamento’’( 71 ). Del resto, non è forse il diritto il mimodella guerra?, ci ricorda Nietzsche, con la consueta lungimiranza.Il paradosso del delitto politico si radica invero nel fatto che la stessatutela dell’ordinamento, strumentalmente invocata per legittimare, nella logicasocialdifensiva e sicuritaria della ‘lotta’ alla criminalità, inammissibiliVölkerrecht des Jus Publicum Europaeum, Köln, 1950, 232, ricondotta al superamento delconcetto tradizionale di justus hostis, determinatasi con il Trattato di Versailles. Con particolareriferimento al fenomeno terrorista, osserva acutamente L. Stortoni, Terrorismo eStato della crisi, inQuest. Crim., 1979, 7, che se esso è espressione di guerra, gli sono omogenee‘‘le categorie del nemico esterno che, come tale, va battuto e distrutto’’. Si snoda in altritermini qui il passaggio dal concetto di inimicus a quello di hostis, che mutuando la sua radiceda hospites, immette la dinamica del conflitto nei confini della comunità politica.( 70 ) È la tesi di G. Neppi Modona, Criminalità organizzata e reati associativi, inAA.VV., Beni e tecniche della tutela <strong>penale</strong>. Materiali per la riforma del codice, a cura delCRS, Milano, 1987, 118.( 71 ) A. Gamberini-G. Insolera, Delitto politico: luogo privilegiato per un’indaginesulla teoria costituzionale del bene giuridico, in AA.VV., Il delitto politico, cit., 41 ss.. Apparein proposito emblematico un passo della Relazione illustrativa del ddl 3571, successivamenteapprovato (l. 155/2001), ove si afferma l’ammissibilità dell’introduzione di norme incriminaticiindeterminate ‘‘allorché si verte su situazioni preliminari alla commissione di reati di terrorismoe di eversione’’, invocandosi enfaticamente la prevalenza ‘‘del preciso ed indeclinabiledovere dell’ordinamento alla tutela dell’ordine democratico e della sicurezza pubblicacontro il terrorismo e l’eversione, anche rispetto ad altri principi costituzionali» (c.a.). Sui paradigmidella legislazione emergenziale, non puó che rinviarsi a S. Moccia, La perenne emergenza.Tendenze autoritarie nel sistema <strong>penale</strong>, Napoli, 1997; nonché, con riferimento specificoalla legislazione in tema di criminalità organizzata ed ai suoi caratteri, appunto, emergenziali,Id. (a cura di), Criminalità organizzata e risposte ordinamentali: tra efficienza e garanzia,Napoli, 1999.


210SAGGI E OPINIONIderoghe ai principi cardine dello Stato di diritto e del sistema <strong>penale</strong>, siconverte in una mera ragion di Stato, di cui il diritto <strong>penale</strong> si fa strumento,convertendosi da Bürgerstrafrecht a Feindstrafrecht.Inteso quale paradigma della legislazione emergenziale, questo settoredel diritto <strong>penale</strong> si è contrassegnato da un esasperato rigore sanzionatorio(con un regime di esecuzione differenziale e fortemente segregativo), sproporzionatoalla idoneità lesiva del fatto e funzionale ad aggregare consensi eplacare la domanda di penalità; da una sensibile anticipazione della sogliadi tutela <strong>penale</strong>, sino all’autonoma criminalizzazione di atti meramente preparatori(con la parallela, netta prevalenza, del disvalore di azione su quellodi evento); da una strutturale indeterminatezza del precetto, che si prestacosì ad una lettura pericolosamente discrezionale, in sede applicativa; dauna tendenziale soggettivizzazione della fattispecie, in cui l’offesa al beneprotetto si esprime nella proiezione finalistica della condotta ed in cui lapena – ancorata alla Täterschuld ed alla dimensione prognostico-preventivadella pericolosità dell’autore – si modula sugli stilemi della neutralizzazione,programmaticamente escludendosene ogni finalità rieducativa, o, meglio,di specialprevenzione positiva; da una notevole riduzione delle garanzieprocessuali e sostanziali e dal tendenziale ricorso a strategie premiali, incentratesul dissociazionismo e sulla collaborazione processuale, e rispondentia strutture e logiche radicalmente diverse rispetto a quelle propriedei tradizionali istituti processuali e sostanziali di attenuazione od elisionedella responsabilità.In questo settore del diritto <strong>penale</strong> la politicità del delitto si radica inun livello più profondo della mera connotazione nominalistica, per divenireparametro valoriale di legittimazione, la cui fonte è appunto la ragion politicadi stato, e non i principi – formalistico-cognitivi, non sostanzialisticied assiologicamente neutrali – dello Stato di diritto, di cui la crociatacontro il ‘nemico’ ha consentito la violazione. Ponendosi la ragion di Statoquale parametro di autoregolazione della politica, pre-e meta-giuridico,essa costituisce il criterio assiologico nel cui nome lo Stato di diritto pretendedi legittimare giuridicamente la propria eversione, difendendosi attraversola negazione di sé( 72 ).Ma la politicità di questa categoria, pur eterogenea, di reati, si rinvienenella penetrazione della ragion di stato nelle stesse dinamiche dell’imputazionee del processo, che da procedura cognitiva di fatti – basata sullaWertneutralität delle categorie e sulla terzietà del giudizio – diviene ‘‘procedurapotestativa ed inquisitoria, informata al principio – schiettamentepolitico – dell’‘‘amico/nemico’’; (..) all’atto della formulazione delle accuse,( 72 ) L. Ferrajoli, Delitto politico, ragion di stato e stato di diritto, inIl delitto politico,etc., cit., 57.


SAGGI E OPINIONI211quando il nemico è identificato, con l’ausilio di figure di reato indeterminatecome sono i delitti associativi, non già in base a fatti ma direttamentecon riguardo alla sua personalità sovversiva, secondo il modello autoritariodel tipo d’autore che contraddice il principio liberale secondo cui si delinquein quanto si opera e non in quanto si è; nel corso del processo,quando ‘‘amici’’ e ‘‘nemici’’ si definiscono in forza del loro schierarsi dallaparte dell’accusa anziché dalla parte della difesa, che pure è la parte chel’imputato avrebbe normalmente il diritto di impersonare; nel momentodella condanna, quando pene e ricompense vengono distribuite non giàin base alle responsabilità accertate, ma al contributo recato alla verità accusatoria’’(73 ).7. Il delitto politico – categoria funzionalistica, in cui la flessibilitàdegli istituti in chiave pragmatica prevale sul momento teleologico – si èsempre rappresentato quale emblema dell’attacco frontale ai fondamentiultimi dell’ordinamento, e nei confronti dei suoi autori la ragion di Statoè ricorsa costantemente alle armi della neutralizzazione e della costruzionedi identità differenziali (labelling), escludendosi ogni possibilità di mediazionee, quindi, di reinserimento nella Gesellschaft, sia pur mediante l’irrogazionedella pena. Evidente come su questo terreno il diritto <strong>penale</strong> abbiaprogressivamente mutuato le sue logiche dai codici della guerra e della opposizioneal nemico (identificato da criteri costitutivi e sostanzialistici e daprocedure inquisitorie), dissolvendo ogni istanza garantistica di mediazionegiuridica, in nome della difesa sociale.Il Feindstrafrecht pertanto, lungi dall’essere la conseguenza meramentecontingente del sicuritarismo dominante nella ‘Società del rischio’ – natasul crollo del Welfare e sulle macerie di Ground Zero – vanta radici antiche,e della sua origine (il delitto politico, appunto) ripropone costantementel’antinomia tragica tra ragion di Stato e principi dello Stato di diritto.Ma la novità della presente congiuntura storico-politica consiste nell’espansionedei paradigmi della legislazione d’emergenza – nelle forme deldiritto <strong>penale</strong> del nemico – ben oltre i settori (di ‘tradizionale’ sviluppodel Feindstrafrecht) del delitto politico. In tal senso depone la progressivaestensione del paradigma antigarantista, sicuritario e socialdifensivo ai settoridella legislazione (in particolare, ma non solo italiana) in materia di stupefacenti,sfruttamento sessuale dei minori ed immigrazione.Rinviando, con riferimento a quest’ultima, alle considerazioni che seguiranno,appare opportuno rilevare, sia pure in estrema sintesi, come la legislazioneitaliana in materia di stupefacenti, di cui al d.p.r. 309/1990 presenti i( 73 ) L. Ferrajoli, Delitto politico, ragion di stato e stato di diritto, inIl delitto politico,etc., cit., 52.


212SAGGI E OPINIONIcaratteri, tipici del Feindstrafrecht, di esasperato rigore repressivo, notevoleanticipazione dell’intervento <strong>penale</strong> – sino all’autonoma incriminazione diatti preparatori e condotte meramente prodromiche all’esposizione a pericolodel bene protetto, senza che peraltro la ridotta offensività del fatto si riflettasul trattamento sanzionatorio – riduzione delle garanzie e dinamica processualemodulata su logiche inquisitorie e su ‘premi’ alle condotte delatorie.Queste considerazioni possono estendersi, a fortiori, alla recente riformadella disciplina degli stupefacenti di cui alla legge 49/2006, che –in direzione opposta alle politiche di harm reduction – giunge tra l’altroad equiparare, per quanto concerne il trattamento sanzionatorio, le droghepesanti a quelle leggere – equiparazione del tutto irragionevole e dalle evidentifinalità simboliche, stante la diversità gravità degli effetti connessi alconsumo dell’uno o dell’altro tipo di stupefacenti –, ripristina la criminalizzazionedella detenzione per uso personale in quantità superiori a quelleindicate dalla disciplina di settore (contrariamente alla volontà popolareespressasi in sede referendaria, nel 1993), prevede un netto incrementodella comminatoria edittale delle fattispecie de quibus ed un sistema di sanzioniamministrative, la cui afflittività ne rivela il carattere sostanzialmente<strong>penale</strong>, la subordinazione al regime amministrativo apparendo meramentefunzionale ad eludere le garanzie dello statuto penalistico.Ne emerge pertanto l’orientamento precipuamente generalpreventivo(sia in termini di deterrenza che in funzione preformativa di un atteggiamento,in primis etico, di stigmatizzazione del tossicodipendente: Zero tolerance),volto a costruire – secondo una dinamica oscillante tra il correzionalismoterapeutico e la segregazione manicomiale – l’identità differenzialedi un autore malato ma intrinsecamente deviante e pericoloso, pertantomeritevole di neutralizzazione ed incapacitazione, non già di misure davverotese, in chiave specialpreventiva positiva, al trattamento, né tantomenodell’apprezzamento (in sede di valutazione della piena capacità di intenderee volere al momento del fatto) dell’eventuale alterazione psichicache ne abbia sorretto la condotta.Analoghe flessioni delle garanzie individuali e dei principi costituzionalipropri del diritto <strong>penale</strong> (se non liberale, quantomeno ‘comune’) presentala legislazione italiana in materia di sfruttamento sessuale del minore,di cui alla l. 269/1998 (non a caso nota come legge contro la ‘pedofilia’),incentrata su di una sensibile anticipazione dell’intervento <strong>penale</strong> – chegiunge sino alla criminalizzazione di comportamenti i quali, per la loro eccessivadistanza dal bene giuridico di riferimento, sono al più meramentesintomatici di un vicious behaviour( 74 ) –, su di un rigore repressivo del( 74 ) Si pensi, in particolare, all’art. 600-quater c.p., che sanziona con pene draconianela mera detenzione di materiale pedopornografico, così giungendo ad incriminare un comportamentoche finisce con l’esaurirsi nel foro interno del soggetto; luogo precluso persino


SAGGI E OPINIONI213tutto sproporzionato rispetto alla idoneità lesiva (per il bene giuridico protetto)delle condotte – peraltro descritte da norme strutturalmente indeterminate– e su di una notevole riduzione delle garanzie processuali.La tendenza alla costruzione di victimless crimes sembra peraltro accentuarsia seguito della riforma operata dalla l. 38/2006, che ha introdottonel corpus codicistico l’art. 600-quater.1, ove si prevedono pene draconianeper condotte di produzione, divulgazione, cessione, detenzione, di materialepedopornografico virtuale, ovvero prodotto artificialmente o con fotomontaggi,in modo da escludere lo sfruttamento sessuale dei minori sindalla fase di realizzazione del materiale. Evidente come l’eccessiva distanzadel bene protetto rispetto alla condotta sia in tali ipotesi così accentuata dariproporre la confusione tra reato e peccato, dal momento che si punisconocondotte al più meramente sintomatiche di una Gesinnung, ritenuta eticamenteriprovevole e per questo stigmatizzata, al pari del suo autore (il ‘pedofilo-deviante’),cui si attribuisce lo statuto di ‘nemico interno’, da cui difendersicon una crociata che sostituisce alla mediazione della sanzione giuridico-<strong>penale</strong>la valenza escludente dello stigma( 75 ).Sembra pertanto che la sollecitazione sicuritaria si stia, anche in questisettore della legislazione, progressivamente traducendo in una torsione deiprincipi costituzionali e delle stesse categorie dommatiche fondamentali delBürgerstrafrecht, verso il limbo del diritto <strong>penale</strong> del nemico.all’azione del Leviathan, di hobbesiana memoria, o alle fattispecie di produzione e detenzionedi materiale pedopornografico virtuale, di cui all’art. 600-quater.1, introdotto dalla legge38/2006. Sul punto, sia consentito il rinvio a F. Resta, I delitti contro l’integrità psico-fisicadel minore, alla luce delle recenti riforme, inDir. Form., 2006, n. 2, 63 ss.; Ead., voce Personalitàindividuale (delitti contro la), inS. Cassese (a cura di), Dizionario Giuridico, Milano,2006, in corso di pubblicazione; A. Manna-F. Resta, La riforma della legge sulla pedopornografia.Una tutela virtuale?, inDir. Int., 2006, n. 3, 1 ss.; F. Resta, Nasenda de un direitopenal do inimigo?, inS.R. Martini Vial, (ORG), Temas atuais en sociologia jurìdica, SantaCruz do Sul, 2005, 107 ss.( 75 ) L’attribuzione alla pena del carattere di misura tesa alla incapacitazione e neutralizzazioneè del resto l’idea ispiratrice della proposta avanzata dal Ministro Calderoli in data22 giugno 2005, di prevedere per i delinquenti sessuali ed i condannati per i reati di cui alla l.269/1998, addirittura la castrazione, a sostegno di ciò adducendosi peraltro l’esperienza (deltutto fallimentare, vista la scarsa riduzione del tasso di recidività) di paesi esteri, tra i quali inprimo luogo il Belgio. Per un recupero del paradigma della innocuizzazione come fine dellapena, in relazione alla selective incapacitation degli high risk offenders negli Usa, ed alla Gesetzzur Bekämpfung von Sexualdelikten und anderen gefährlichen straftaten, del 26.1.1998, v.J.M. Silva Sánchez, Estudios de derecho penal, Lima, 2000, 233 ss.; nonché sia consentito ilrinvio a F. Resta, Tutela <strong>penale</strong> del minore: tra difesa sociale ed incriminazione del ‘‘viciousbehaviour’’. Riflessioni in tema di pornografia minorile, inDir. Form., 2004, 1144-1163; Id.,Crimini, autori e provocatori: detenzione di materiale pedopornografico e attiività di contrasto,in Dir. Inf., 2004, 239-271; Manna, La delinquenza sessuale: profili relativi all’imputabilità edal trattamento sanzionatorio, inIP, 2004, 867 ss..


214SAGGI E OPINIONI8. Tra i vari contesti della politica criminale italiana, che attualmentesi vanno sempre più modellando secondo gli stilemi della legislazioneemergenziale, il settore della normativa sull’immigrazione rappresentauno tra i più interessanti esempi dell’emersione del paradigma del ‘diritto<strong>penale</strong> del nemico’( 76 ).La legislazione in materia si è progressivamente orientata, nello spaziodi sei anni (1998-2004), verso forme di securitarismo sempre più marcate erepressive, con una irragionevole Vorfeldkriminalisierung (estesa sino allacriminalizzazione di condotte meramente preparatorie od agevolatorienon già di illeciti penali, ma addirittura soltanto amministrativi!: cfr. art.12 T.U. 286/1998 e succ. mod.), una sensibile riduzione delle garanzie processualie comminatorie edittali radicalmente sproporzionate rispetto allagravità dell’illecito, con la parallela configurazione delle finalità della penain termini di segregazione ed innocuizzazione.Il paradigma dell’esclusione e della segregazione del criminale-nemicoemerge, già a livello puramente lessicale (e pertanto denotativo), dalla semanticanormativa, che si incentra sulle misure (formalmente) amministrative(ma dalla idoneità afflittiva e stigmatizzante equivalente a quella propriadella pena tout court) dell’espulsione dello straniero dal territorio delloStato, del suo accompagnamento coattivo alla frontiera, del trattenimentodello stesso nei centri di permanenza temporanea. Veri e propri luoghi,questi, dell’esclusione, in cui le condizioni di vita dei trattenuti denotanola sistematica violazione dei diritti fondamentali e della dignità dell’uomo,subendo tali soggetti una degradazione – una deminutio capitis – tale darenderli non-persone, outsiders sociali( 77 ).La semantica dell’esclusione si lega del resto – in piena sintonia con ladinamica schmittiana della costruzione della figura del nemico e con la logicadi guerra che ne è alla base – alla militarizzazione delle strategie repressive(il richiamo, centrale nel contesto della disciplina in tema di immigrazione,all’idea di frontiere – sempre più blindate( 78 ) – denota in tal( 76 ) I tratti caratterizzanti le forme di tutela ante delictum previste dal testo unico delleleggi di pubblica sicurezza sono state da F. Bricola, Forme di tutela ‘‘ante delictum’’ e profilicostituzionali della prevenzione, inId., Politica criminale e scienza del diritto <strong>penale</strong>, Bologna,1997, 96, ricondotta alla politicità della materia, ovvero al necessario affidamento deiprovvedimenti in parola al potere esecutivo, con la conseguente tendenza alla progressivaamministrativizzazione delle posizioni giuridiche soggettive dei soggetti interessati da questenorme; alla riduzione dell’intervento giurisdizionale imposta dalla semplificazione e dalla celeritàdelle procedure.( 77 ) A. Dal Lago, Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Milano,1999.( 78 ) Si consideri come la l. 189/2002 abbia abrogato la disposizione di cui all’art. 3,comma quarto, t.u. 286/1998, relativa all’automatica reiterazione delle quote di ingresso consentiteper l’anno precedente, nell’ipotesi di mancata emanazione dei decreti di programma-


SAGGI E OPINIONI215senso una straordinaria valenza euristica). Ciò che nella normativa in esame(art. 11, commi 9-bis ss. l. 189/2002) si traduce nell’attribuzione ai corpidella marina militare di rilevanti funzioni di controllo e sequestro – ancheal di fuori delle acque territoriali, sancendosi così lo spostamento dellefrontiere ben oltre i limiti della sovranità territoriale, in una progressiva‘deterritorializzazione del diritto’( 79 ) – di navi adibite o coinvolte nel trasportoillecito di migranti.Evocativa della logica di guerra e del predominio della forza sul dirittoè del resto la disposizione di cui all’art. 7, comma quinto, d.m. 14 luglio2003 (attuativo della l. 189/2002) – che sancisce come nel contesto di attivitàdi contrasto in mare dell’immigrazione clandestina ‘ove si renda necessariol’uso della forza, l’intensità, la durata e l’estensione della risposta devonoessere proporzionate all’intensità dell’offesa, all’attualità e all’effettivitàdella minaccia’ – rispetto a cui appare meramente mistificatoria laclausola del rispetto ‘della salvaguardia della vita umana’ e della ‘dignitàdella persona’, posta in apertura della norma.I tratti caratterizzanti della disciplina italiana dell’immigrazione – c’està dire l’internazionalizzazione delle strategie di controllo e l’esternazionalizzazionedei luoghi e dei confini della segregazione( 80 ) – producano l’esitoilliberale di costruire una categoria di autore: l’immigrato qualificato comeclandestino, cui si attribuisce lo status di nemico pubblico, da escludere esegregare.L’attributo della clandestinità non rappresenta del resto – in sintoniacon la logica stigmatizzante del labelling – che il portato dell‘incapacità dell’ordinamentoitaliano( 81 ) ad approntare efficaci politiche (non già proibi-zione annuale dei flussi migratori, attribuendo all’esecutivo la potestà di blindare le frontiere,secondo un ferreo proibizionismo modellato sui paradigmi della Zero tolerance.( 79 ) S. Mezzadra-E. Rigo, L’Europa dei migranti, inG. Bronzini-H. Freise-A.Negri-P. Wagner, Europa, costituzione e movimenti sociali, Roma, 2003, 223. Rileva acutamenteA. Caputo, Immigrazione, diritto <strong>penale</strong> e sicurezza, inQG, 2004, 368, come lospostamento delle frontiere, ‘‘traducendosi nell’esclusione di qualsiasi contatto dello stranierocon il territorio e, quindi, con l’ordinamento dei paesi dell’Unione, comporterà losvuotamentodi fatto del diritto d’asilo (peraltro, già oggi largamente negato dai nostri ordinamenti):un esito, appunto, drammaticamente paradossale nell’epoca della guerra preventiva, finalizzata,secondo quanto proclamato dai suoi profeti, all’affermazione della democrazia e dellelibertà occidentali in ogni angolo del globo’’.( 80 ) A. Caputo, op. loc. ult. cit.( 81 ) Ma non solo. Si veda, in relazione all’analoga situazione spagnola, il raffinato contributodi M. Cancio Melià, La expulsión de ciudadanos extranjeros sin residencia legal (art.89 c.p.), Relazione tenuta in data 4.6.2004, nell’ambito del seminario ‘Retos de la globalizaciónpara el Derecho penal’, presso la Universidad Autónoma de Madrid. Del resto, l’originedel progressivo e sempre più marcato irrigidimento delle politiche antimigratorie, in Europama direi meglio in tutto il mondo occidentale, deve rinvenirsi in una congiuntura economicopoliticaglobale, che, dalla fine della guerra fredda e dalla correlativa caduta della divisionedel mondo in due blocchi contrapposti, ha visto la graduale precarizzazione – nella Risiko-


216SAGGI E OPINIONIzioniste, ma) di integrazione sociale, idonee a consentire la regolarizzazionedei migranti( 82 ) ricorrendo invece sistematicamente alla misura dell’espulsione(83 ), che riproduce nei confronti del migrante la dinamica di segrega-gesellschaft – dei diritti sociali e delle condizioni di impiego; il lento ma inesorabile indebolimentodelle strutture assistenziali del Welfare State; l’incremento delle aree della marginalitàsociale e quindi dei flussi migratori, da ciò derivanti. All’accentuazione in senso autoritario-repressivodelle politiche migratorie sviluppatesi in questo contesto, hanno indubbiamentecontribuito in misura esponenziale la reazione politica mondiale agli eventi diGround Zero e la progressiva diffidenza nei confronti del migrante, assunto quale emblemadel nemico-criminale, di per sé temibile e pericoloso, irriducibilmente diverso, alien. Sottolineanoquest’aspetto ed in particolare il legame tra le politiche migratorie fortemente restrittive– attuate da Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, in conseguenza dell’11/9 e sovente nelquadro di una legislazione antiterroristica di stampo repressivo e sicuritario – e l’esigenza diconferma identitaria delle nazioni occidentali, rispetto (non solo ai Paesi islamici, ma soprattutto)alle minoranze etniche presenti sui loro territori, J.P. Allinne, Gouverner le crime.Les politiques criminelle françaises de la révolution au XXIe Siécle, Tome II, Paris, 2004,170 ss.; J. Angrand, Enfermement identitaire et conflit intrasociétal: conséquences sur le plande la sécurité internationale; A. Macleod, Insécurités et sécurité après les événements du 11septembre: France et Gran Bretagne, inS. J. Kirschbaum, Terrorisme et sécurité internationale,Bruxelles, 2004, rispettivam.: 217 ss. e 199 ss. e, con riferimento all’ordinamento canadese,A. Donneur-S. Roussel-V. Chirica, Les conséquences des événements du 11 septembresur l’autonomie de la politique étrangère canadienne: les mesures de sécurité et la nouvellelégislation antiterroriste, ivi, 171 ss..( 82 ) Ad esempio sulla base del decorso del tempo, della mancata commissione di illecitipenali, o su significativi indici di integrazione, quali in primis il conseguimento di un impiegolavorativo (in tal senso, A. Caputo, op. cit., 362). Sottolinea C. Longobardo, La disciplinadelle espulsioni dei cittadini extracomunitari: presidi penali ed amministrativi al fenomeno dell’immigrazione,inS. Moccia (a cura di), Diritti dell’uomo e sistema <strong>penale</strong>, II, Napoli, 2002,260, come da un rapporto dell’Eurispes (Eurispes, a cura di, Rapporto Italia 1999, Roma,1999, 47) possa evincersi che la liberalizzazione degli ingressi degli immigrati comporterebbe– oltre alla possibilità di una migliore regolamentazione dovuta all’ufficialità degli stessi –l’impoverimento delle organizzazioni criminali che non di rado creano un ‘bisogno indotto’di emigrare verso il nostro paese, un netto risparmio delle risorse impiegate per la difesa ed ilcontrollo delle coste, contribuendo ad abbattere le ‘trincee marittime’ e ad impedire così ilsorgere di ‘trincee cittadine’. L’A. rileva giustamente come la frequente condizione di clandestinitàdel migrante, nella misura in cui lo rende maggiormente ricattabile, rappresenti diper sé un fattore criminogeno, come dimostra il dato secondo cui, a fronte di un notevoleincremento del tasso di clandestinità degli immigrati, il tasso di delittuosità degli stranieriregolari è inferiore a quello dei cittadini italiani (posizione di recente ribadita da Luigi Mancioniin La Repubblica, 23 giugno 2005, 15). Ove poi si consideri (C. Longobardo, op.loc. ult. cit.; D. Padovan, L’immigrato, lo straniero, il carcere: il nuovo razzismo nelle cittadelleoccidentali, inDei del. e delle pene, 1993, 1, 153) come il maggior numero di detenutistranieri provenga da comunità contrassegnate da un elevato tasso di immigrati irregolari elavoratori stagionali, emerge come le politiche migratorie di zero tolerance, lungi dal favorirela sicurezza interna, non abbiano che elevato il tasso di devianza, in una spirale in cui le logichesicuritarie determinano l’incremento del tasso di insicurezza collettivo: self-fullfillingprophecy?( 83 ) La normativa in esame prevede tre forme di espulsione: quella, di cui all’art. 15,costituente misura di sicurezza; la sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione, di cuiall’art. 16 (le cui eccezioni di illegittimità costituzionale per violazione dell’art. 27, comma


SAGGI E OPINIONI217zione – a sua volta criminogena – riconducendo sul terreno del contraintesociale la logica rituale della vendetta.La stigmatizzazione primaria del migrante e la conseguente costruzionedi questa nuova categoria di nemici pubblici (nonché capri espiatoriidi un sempre più diffuso Unsicherheitsgefühl) svolge peraltro unruolo funzionale (in termini di copertura simbolica legittimante la strutturadel sistema sociale) al mantenimento delle condizioni d’impiego salarialeprecario e sottopagato, che rappresentano il baricentro del sistemaeconomico occidentale, fondato sull’esternalizzazione dei processi produttivi,delocalizzati nei paesi di emigrazione. Di qui la connotazione inchiave militar-poliziesca delle politiche migratorie ed il loro carattere antinomicorispetto ad una garanzia pregnante dei diritti fondamentali dell’uomo,ed in particolare dello jus migrandi sancito quale libertà fondamentaledal quarto comma dell’art. 35 Cost., nonché dall’art. 13 cpv. dellaDichiarazione Universale dei diritti dell’uomo (se inteso nell’accezionepregnante di diritto di circolazione transnazionale,e non quale mero dirittoalla fuga)( 84 ).In tale prospettiva appare particolarmente significativo il teleologismodei delitti di favoreggiamento dell’immigrazione e dell’emigrazione clandestina,di cui all’art. 12 t.u. 286/1998 (come modificato dalla l. 189/2002, sulpunto invariato, salvo un ulteriore aggravio sanzionatorio, dalla l. 271/2004).In estrema sintesi, la struttura delle fattispecie( 85 ) si caratterizza per3, sono state respinte da C. Cost., ordd. 226 e 422/2004, in ragione della ritenuta naturaesclusivamente amministrativa della misura) e la misura (nominalmente) amministrativa dicui all’art. 13. Il comma 1 dell’art. 3 l. 155/2005 ha peraltro esteso le ipotesi di espulsionedisposte dal Ministro dell’interno o, su sua delega, dal prefetto, ai casi in cui vi siano fondatimotivi di ritenere che la permanenza dello straniero nel territorio nazionale possa in qualsiasimodo agevolare organizzazioni o attività terroristiche, anche internazionali. In ragione dell’eliminazione,da parte della l. 155, del comma 3-sexies dell’art. 13 del t.u. imm., ora l’espulsioneamministrativa (sia in generale sia nelle ipotesi di cui all’art. 3 d.l. 144/2005) può esseredisposta anche in relazione allo straniero nei cui confronti si proceda per uno dei delitti dicui all’art. 407 cpv. c.p.p., nonché di cui all’art. 12 t.u. imm..( 84 ) A. Caputo, op. cit., 363. Dello stesso vedasi altresì Favoreggiamento all’emigrazione:questioni interpretative e dubbi di costituzionalità, inQG, 2003, 1243 ss.. Si ricordi delresto che l’immigrato (il cui abbandono della residenza abituale, non motivato da ragionidi contrasto politico, né dall’espulsione da parte del Governo di appartenenza, ne escludela riconducibilità alle categorie soggettive di ‘rifugiato’ o ‘profugo’) non è destinatario dellegaranzie fondamentali statuite dalla Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status dei rifugiati.In tal senso, C. Longobardo, op. cit., 238-239.( 85 ) La cui forma base (art. 12, primo comma), sanziona ‘‘chiunque, in violazione delledisposizioni del presente testo unico, compie atti diretti a procurare l’ingresso nel territoriodello Stato di uno straniero ovvero atti diretti a procurare l’ingresso illegale in altro Stato delquale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente’’. Il terzo commadel medesimo articolo prevede un’analoga fattispecie, più gravemente sanzionata, qualificata


218SAGGI E OPINIONIuna eccessiva anticipazione dell’intervento <strong>penale</strong>( 86 ), connessa all’innestodel paradigma del delitto di attentato su di una condotta agevolatoria dell’altruiillecito (non già <strong>penale</strong>, ma meramente) amministrativo (quale è ilprimo ingresso contra jus dello straniero nel territorio dello Stato( 87 )), ov-dal dolo specifico – in funzione non tanto selettiva, data l’evanescenza del suo contenuto,quanto piuttosto di anticipazione del momento consumativo – di trarre profitto anche indirettodalla condotta, ovvero dalla realizzazione del fatto da tre o più persone in concorso traloro o utilizzando servizi internazionali di trasporto ovvero documenti contraffatti o alterati ocomunque illegalmente ottenuti. I commi 3-bis e3-ter prevedono peculiari circostanze aggravanti,sottratte – in linea con il rigore repressivo che caratterizza l’intiero ordito normativo –al bilanciamento. La vocazione simbolico-espressiva della norma ed il carattere emergenzialedelle opzioni politico-criminali ad essa sottese riemerge infine nella prevista esclusione deibenefici penitenziari ex art. 4-bis ord. pen., per gli autori dei reati di cui all’art. 12, nonchénella introduzione, di cui al comma 3-quinquies, di una fattispecie premiale. Ora, non puóomettersi di rilevare la carenza di precisione (nonché i profili di dubbia costituzionalità inrelazione al principio di riserva di legge di cui all’art. 25, cpv., Cost.) della fattispecie di favoreggiamentodell’emigrazione illegale di cui al primo comma dell’art. 12. Il requisito di illiceitàspeciale dell’ingresso illegale non precisa infatti il parametro normativo alla cui streguacondurre il giudizio di illegalità dell’ingresso stesso. Dovendosi escludere la possibilità diidentificarlo con la disciplina dell’ordinamento italiano (non potendo essa dettare le condizionidi legalità dell’ingresso in altro Paese), il parametro di illegalità dell’ingresso nel territoriodello Stato estero (di cui la persona ‘‘non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente’’),sembra doversi identificare con la disciplina dello Stato di destinazione, che regolila materia, con integrale assorbimento del precetto, quindi, nella normativa estera diriferimento, e con la conseguente denazionalizzazione dell’offesa, parallela all’internazionalizzazionedell’oggettività giuridica sottesa alla norma (in tal senso, A. Caputo, Favoreggiamento,etc., cit., 1246).( 86 ) Cui si ispira, tra l’altro, la fattispecie di pericolo indiretto di cui all’art. 5, comma 8-bis, del t.u., volta a sanzionare la contraffazione o l’alterazione di documenti al fine di determinareil rilascio di un visto di ingresso o reingresso, di un permesso, una carta od un contrattodi soggiorno. L’eccessiva anticipazione della soglia di intervento <strong>penale</strong> induce a dubitareche si tratti di meri ‘reati di sospetto’.( 87 ) Sottolinea C. Longobardo, op. cit., 254, come già in relazione al d.l. 489/95 sianostate avanzate, dagli esponenti del centro-destra, proposte volte a sanzionare con la reclusioneda tre mesi a tre anni la condotta del cittadino extracomunitario che, eludendo i controllidi frontiera, avesse fatto ingresso nel territorio dello Stato, o vi si fosse trattenuto sottraendosiall’esecuzione delle procedure di accompagnamento alla frontiera. Nella medesimaprospettiva repressivo-deterrente si è proposta, già nel 1998, l’introduzione del reato di ingressoe soggiorno clandestino e abusivo, subordinato all’arresto obbligatorio immediato inflagranza e ad ‘‘una pena detentiva piuttosto severa per essere efficace e sufficientemente intimidativa’’(E. Fortuna, Italia Oggi, 26 agosto 1998, cit. da C. Longobardo, op. loc. ult.cit.) [come se già Beccaria non avesse dimostrato a sufficienza il carattere mistificante ed illusoriodella pretesa equivalenza tra il rigore della comminatoria edittale e l’efficacia generalpreventivanegativa della norma incriminatrice]. Da ultimo, appare opportuno ricordare l’emendamentoproposto – e successivamente ritirato – dal relatore Luigi Bobbio nell’ambitodel dibattito parlamentare inerente la conversione del d.l. 241/2004, diretto all’introduzionedi un’autonoma fattispecie incriminatrice della condotta di immigrazione clandestina. Sulpunto, v. L. Scomparin, Stranieri e carcere. Tra diritto e realtà,,inLP 2005, 85 ss., cui sirinvia anche per l’analisi delle difficoltà concrete incontrate dai detenuti stranieri nell’accesso


SAGGI E OPINIONI219vero, paradossalmente (in relazione all’ipotesi, di cui al primo comma dell’art.12, di favoreggiamento dell’emigrazione illegale dall’Italia in assenzadei requisiti qualificanti di cui al terzo alinea), dell’esercizio di una libertà– quella di emigrazione – costituzionalmente garantita dall’art. 35, commaquarto( 88 ).Ora – a prescindere dalla valenza simbolica dell’utilizzazione del modellodel delitto di attentato, che affondando le proprie radici nei criminalesae maiestatis, rappresenta uno dei paradigmi caratteristici della legislazioned’emergenza – la sinergia funzionale tra lo schema del reato a consumazioneanticipata e la struttura del reato di agevolazione di una condottanon costituente reato determina un’anticipazione dell’intervento <strong>penale</strong>,estesa sino all’autonoma incriminazione di atti (meramente) preparatorial concorso in un illecito non <strong>penale</strong>( 89 ), con un’accentuazione della dimensioneprognostica della fattispecie( 90 ) e del suo momento soggettivo,con il rischio di risolverne il disvalore nella Gesinnung dell’autore( 91 ).Analoga costruzione in chiave soggettivistica si riscontra nell’ipotesi, dicui al quinto comma dell’art. 12, di favoreggiamento della permanenza illegaledello straniero, ove l’Handlungsunwert della fattispecie – la cui condottas’innesta sull’agevolazione di un comportamento penalmente irrilevante– si assorbe interamente nel contenuto (invero poco pregnante) deldolo specifico (‘al fine di trarre un ingiusto profitto dalla condizione di il-ai benefici penitenziari, ed in generale per il contenuto nient’affatto rieducativo che l’esecuzionedella pena detentiva presenta (in particolare) rispetto a tali soggetti. In proposito, rilevalucidamente G. Marotta, Detenuti stranieri in Italia: dimensioni e problematiche del multiculturalismopenitenziario, inRass. pen. crim., 2003, 2, come, se il ‘mito’ della rieducazioneè in parte tramontato per gli italiani, ‘‘per gli stranieri non [è] neanche iniziato’’.( 88 ) Parametro normativo la cui valorizzazione (anche in ragione del suo carattere metapositivo,che l’ordinamento si limita a riconoscere, non già ad attribuire) ha condotto laConsulta a dichiarare, con sent. 269/1986, l’illegittimità costituzionale della norma di cui all’art.5, primo comma, l. 1278/1930, volta a sanzionare la condotta di chi, in assenza di finilucrativi o della diffusione di notizie od indicazioni false, eccita(sse) con mezzi pubblicitariall’emigrazione.( 89 ) Così M. Meneghello-S. Riondato, sub artt. 2, 3, 4, l. 39/1990, inB. Nascimbene(a cura di), la condizione giuridica dello straniero, Padova, 1997, 237 ss..( 90 ) Elemento che secondo G. Jakobs, op. loc. ult. cit., costituisce uno dei tratti caratterizzantiil paradigma del diritto <strong>penale</strong> del nemico.( 91 ) Con ciò non si intende peraltro negare la doverosità di un’interpretazione costituzionalmenteorientata delle fattispecie di attentato, ovvero come richiedenti l’idoneità offensivadella condotta rispetto al fine (come peraltro affermato, in relazione alla norma in esame,da Cass., I, 5.6.2002, Galgano, in DPP, 2002, 1083, che ha sul punto rigettato l’eccezione dilegittimità costituzionale della fattispecie di cui al comma primo dell’art. 12, per violazionedel principio di tassatività). Si intende invece segnalare il rischio latente nella formulazionenormativa (con particolare riferimento alla ipotesi di favoreggiamento dell’emigrazione clandestina),soprattutto in considerazione del fatto che mira a sanzionare (peraltro assai gravemente)l’agevolazione dell’esercizio di una libertà – quella di emigrazione – costituzionalmentetutelata.


220SAGGI E OPINIONIlegalità dello straniero’). È su questo requisito soggettivo, dai contorni sfumatie dall’oggetto (se non evanescente, quantomeno) poco definito( 92 ),che si fonda una così avanzata anticipazione dell’intervento <strong>penale</strong>, contrassegnatada un rigore repressivo del tutto sproporzionato rispetto allaidoneità lesiva della condotta. Non solo.L’ambivalente costruzione della figura del migrante in chiave di soggettodebole, bisognoso di tutela dall’altrui sfruttamento, appare una meracopertura simbolica, funzionale ad un’opzione politico-criminale, emergentedall’intiera disciplina in esame, volta all’isolamento ed all’esclusionedei migranti – categoria che la stessa normativa, al di là delle fictiones juris,costruisce come socialmente pericolosa – cui corrisponde peraltro la radicaleassenza di strategie di possibile regolarizzazione e di integrazione socialedegli stranieri. In tal senso depone peraltro la natura del bene giuridicoprotetto dalle fattispecie di cui all’art. 12 t.u. 286/1998 e successivemodifiche, da taluni individuato nel duplice fine di garantire da un latol’integrità dei confini e l’effettivo controllo degli ingressi, e, dall’altro, la sicurezzae la dignità dei soggetti il cui ingresso illegale si agevola, non potendosidel resto ritenere il loro consenso idoneo a scriminare la condotta,in ragione dell’indisponibilità del bene della dignità( 93 ).Ora – a prescindere dalla dubbia idoneità delle fattispecie in analisi adapprontare un’efficace tutela alla posizione (certamente vulnerabile) delmigrante – la natura plurioffensiva potrebbe affermarsi soltanto in rela-( 92 ) Secondo i canoni della legislazione simbolica (per ineffettività disnomica: C.E. Paliero,Il principio di effettività del diritto <strong>penale</strong>, inRIDPP, 1990, 532; nonché su profili piùgenerali, Id., Minima non curat praetor, l’ipertrofia del diritto <strong>penale</strong> e decriminalizzazionedei reati bagatellari, Padova, 1985, passim), la insufficiente tipizzazione della norma si rivelastrumentale alla sua stessa ineffettività, assolvendo essa una mera funzione di stigmatizzazioneprimaria, rispondente ai ‘bisogni emotivi di pena’ (dal legislatore strumentalizzati, anzichéfiltrati) nei confronti degli outsiders sociali. L’ontologica carenza di determinatezza della fattispeciesi riverbera anche sulla descrizione della condotta, risolvendosi essa nell’agevolazione(concetto già di per sé semanticamente polivalente) di comportamenti (a loro volta) nonprecisamente individuabili sul piano naturalistico: la permanenza sul territorio dello Stato èinfatti una nozione di genere, suscettibile di integrazione da parte di molteplici condotte. Aconferire maggiore precisione alla fattispecie non potrebbe del resto contribuire il requisitodel carattere illegale della permanenza dello straniero, essendo esso costruito sulla della omnicomprensivaclausola della violazione delle norme stesse del testo unico. L’eccezione di illegittimitàcostituzionale, rispetto all’art. 25 cpv., Cost., dell’identica formula di cui al commaprimo dell’art. 12, è stata comunque ritenuta manifestamente infondata da Cass., Galgano,cit., argomentando – in maniera a nostro avviso tuttavia non risolutiva – dalla possibilità diricomprendere nella sfera applicativa della norma ‘‘ogni possibile applicazione della previstaattività diretta a favorire l’ingresso di stranieri in Italia con la violazione di ciascuna delle specifichedisposizioni’’ del testo unico, da ció asseritamene derivando non già la violazione dell’art.25, cpv., Cost., ma ‘‘soltanto (!) una maggiore difficoltà di individuazione e ricostruzionedella fattispecie concreta’’.( 93 ) M. Cerase, Il commento, inDPP, 2002, 1347.


SAGGI E OPINIONI221zione alle ipotesi di favoreggiamento qualificate dalla finalità lucrativa (art.12, commi terzo, prima parte, e quinto) ma non certo nei restanti casi. Ove(in particolare nel primo comma dell’art. 12), non essendo ravvisabili gliestremi dello sfruttamento, né tantomeno l’azione di organizzazioni criminali,il bene giuridico si identifica nell’ordine pubblico inteso in un’accezionea forte connotazione internazionalistica, quale cioè interesse dellapersonalità internazionale dello Stato al controllo dei flussi migratori transfrontalieried alla loro compatibilità con le convenzioni internazionali stipulate,in materia, dal Governo( 94 ).Rispetto a tale interesse, il migrante (a fortiori se irregolare o clandestino)viene percepito come soggetto pericoloso e l’emigrazione in sé qualefenomeno ‘emergenziale’ da contrastare con politiche (penali) di Zero tolerancee di isolamento( 95 ). Cui sembra finalizzata tra l’altro la fattispecie difavoreggiamento della permanenza illegale dello straniero sul territoriodello Stato, ove se ne consideri la reale portata e l’inidoneità del solo oggettodel dolo specifico di sfruttamento( 96 ) ad orientarne lo Schutzaspektverso la tutela della dignità del migrante.La flessibilizzazione delle categorie dommatiche e dei criteri d’imputa-( 94 ) È la tesi di L. Baima Bollone, Disposizioni contro le immigrazioni clandestine, inAA.VV., Il nuovo diritto dell’immigrazione, Milano, 2003, 212. La dimensione internazionaledel bene giuridico protetto [scil. dalla ratio tutelae, secondi i canoni dell’attuale tendenza all’amministrativizzazionedel diritto <strong>penale</strong>; analog., C. Longobardo, op. cit., 255] dallenorme in tema di immigrazione e la loro idoneità a tutelare un equilibrio (anche) sopranazionalenella gestione del fenomeno migratorio è ulteriormente avvalorata dalla disciplinadi cui al d.lgs. 12/2005, di attuazione della direttiva 2001/40/CE relativa al riconoscimentoreciproco delle decisioni di allontanamento dei cittadini di Paesi terzi.( 95 ) Appare in proposito significativo che nella rappresentazione mediatica il fenomenomigratorio e l’insicurezza cittadina (derivante dalla percezione dell’aumento dei tassi dicriminalità) siano sovente accomunati o descritti in termini strettamente consequenziali, sìda indurne, nell’opinione pubblica, l’equiparazione, nonché da veicolare una lettura pancriminologicadella realtà dei migranti. Efficaci in proposito le considerazioni di D. Padovan,op. cit., 155 (riportate da C. Longobardo, op. cit., 260): ‘‘quando la sanzione tocca in modoparticolarmente intenso sia dal lato giudiziario che dal lato della sua gestione a livello dellagrande informazione di massa, le minoranze degli immigrati, ciò èsufficiente a imprimereloro uno ‘‘stigma’’ di pericolosità sociale e percepire quotidianamente l’immigrato come uncriminale allo stato potenziale’’.( 96 ) Di cui come tale non si richiede la realizzazione, ma la mera proiezione finalisticadella condotta. Ritiene pertanto A. Caputo, Immigrazione, etc., cit., 372, che la ratio latentedella norma sia quella di ‘fare terra bruciata’ attorno allo straniero irregolare; la tesi trovandoperaltro conferma nelle considerazioni svolte da Trib. Roma, 28.2.2002, Thomas, in CP,2002, 3909, ove si afferma l’insussistenza di un dovere ‘‘di tutte le persone soggette all’ordinamento(..) di tenere comportamenti miranti all’allontanamento di persone illegalmentepresenti, rendendone ‘‘invivibile’’ la permanenza’’. Sembra pertanto meramente declamatoria(o forse dettata dalla ‘cattiva’ coscienza della eccessiva latitudine della fattispecie) la clausoladi cui al secondo comma dell’art. 12, alla cui stregua non costituiscono reato ‘‘le attivitàdi soccorso e assistenza umanitaria prestate in Italia nei confronti degli stranieri in condizioni


222SAGGI E OPINIONIzione della responsabilità, nonché la strumentalità del precetto <strong>penale</strong> rispettoad esigenze sicuritarie e socialdifensive – tratti, questi, caratterizzantiil paradigma del diritto <strong>penale</strong> del nemico – emergono chiaramente dall’evoluzionenormativa subìta dalla fattispecie di ingiustificato trattenimentodello straniero espulso nel territorio dello Stato (art. 14, comma 5-ter), trasformata(salvo una ipotesi, peraltro marginale, ancora di carattere contravvenzionale)da contravvenzione a delitto dalla l. 271/2004, al fine di ovviarealle censure di incostituzionalità( 97 ) di un arresto obbligatorio privo diqualsiasi esito sul piano processuale, in quanto previsto per una contravvenzionela cui comminatoria edittale precludeva l’applicazione di misurecautelari coercitive.Con l’esito paradossale di accentuare, in maniera del tutto sproporzionatarispetto al disvalore del fatto, il rigore repressivo di una fattispecie nonsolo di mera inosservanza (einfache Ungehorsam) e (anche astrattamente)carente di idoneità lesiva rispetto al bene tutelato( 98 ), ma altresì carentedi determinatezza( 99 ).Profili, questi, debitamente rilevati dalla prima sezione del Tribunaledi Genova, che con l’ordinanza n. 544, emessa in data 10 dicembre2004, ha sollevato eccezione di illegittimità costituzionale della norma inesame, per violazione del principio di ragionevolezza-proporzionalità, determinatain ragione della manifesta ed irragionevole sproporzione dallapena prevista dalla riforma del 2004 rispetto non soltanto alla sanzionecomminata solo due anni prima (pur non essendo tale inasprimento sanzionatoriogiustificato da significativi mutamenti del contesto sociale di riferi-di bisogno comunque presenti nel territorio dello Stato’’. Potrebbe infatti essere diversamente,in assenza della finalità di sfruttamento?( 97 ) Rilevate da C. Cost., 223/2004.( 98 ) Dovendo infatti identificarsi esso con l’ordine e la sicurezza pubblica, ne conseguel’assoluta inidoneità lesiva, nei confronti di tale bene giuridico, della condotta di mera inottemperanzaad un decreto di espulsione che lo stesso legislatore qualifica (art. 14, co. 5-bis),come ‘non immediatamente eseguibile’. In tal senso, v. E. Calcagno, Il commento, inDPP,2004, 846. Questi rilievi inducono pertanto a ritenere come all’oggettività giuridica in questionedebba ricomprendersi anche la tutela della mera regolarità ed effettività della disciplinaamministrativa di settore.( 99 ) La declaratoria di infondatezza della questione di illegittimità costituzionale, sollevatain relazione alla norma in esame, in ragione della carente determinatezza della formula‘senza giustificato motivo’, è stata infatti resa all’esito di una quantomai articolata sentenzainterpretativa (C. Cost., sent. 5/2004), volta a ridimensionarne (sia pur soltanto in parte)la latitudine applicativa e la polivalenza semantica, nonché a scongiurare la violazione dellapresunzione di non colpevolezza dell’imputato – conseguente ad un’interpretazione dellanorma come prescrivente un’indebita inversione dell’onere della prova della sussistenzadel giustificato motivo a carico dell’imputato, sul quale invece graverebbe, ad avviso dellaCorte, un mero onere di allegazione dei motivi non conosciuti né conoscibili dal giudice.


SAGGI E OPINIONI223mento), ma anche in riferimento alle pene previste per le ipotesi – dall’analogaratio – di cui agli artt. 650 c.p. e 2 l. 1423/1956( 100 ).Questo esasperato rigorismo repressivo (che ingenuamente identificanell’incremento della comminatoria edittale lo strumento privilegiato, senon esclusivo, di controllo della criminalità), la carente determinatezzadella maggior parte delle norme incriminatrici – che mina la certezza deldiritto e la funzione garantista del Tatbestand, rimettendo alla discrezionalitàdel giudice l’apprezzamento della <strong>penale</strong> rilevanza del caso concreto –la sensibile riduzione delle garanzie sostanziali e processuali( 101 ) e l’antici-( 100 ) Sul punto, vds. A. Caputo, Prime note sulle modifiche alle norme penali del testounico sull’immigrazione, inQG, 2005, 252 ss., il quale rileva come la modifica della normadetermini la riproposizione del regime penal-amministrativo incentrato sul passaggio dall’espulsioneall’ordine di allontanamento, dall’incriminazione della sua inosservanza all’arresto,dal giudizio direttissimo, nuovamente, all’espulsione. Ne consegue pertanto, ad avviso dell’A.,come lo Schutzaspekt della norma in esame si polarizzi sulla tutela del regime amministrativodell’immigrazione, rivelando il ‘persistente intreccio tra prevenzione e repressioneche del concetto di ordine pubblico rappresenta un tratto saliente».( 101 ) In ragione non solo dell’adozione di misure amministrative fortemente afflittive infunzione elusiva dello statuto penalistico, ma anche dell’introduzione di istituti processualipeculiari, quale ad es. l’arresto obbligatorio anche fuori dei casi di flagranza, per i reati dicui agli artt. 13 e 13-bis (come modificati dalla l. 27172004, peraltro a seguito di due pronuncedella Consulta volte a rimarcare l’esigenza di elementari garanzie in relazione a provvedimentirestrittivi della libertà personale), che contrasta con un principio generale dell’ordinamentocostituzionale, alla cui stregua la privazione della libertà personale da parte dellapolizia giudiziaria presuppone una situazione di necessità ed urgenza tale (art. 13, co. 3Cost.), che in assenza di flagranza sembra essere meramente presunta juris et de jure. Si considerialtresì che tra le ipotesi per cui si consente l’arresto obbligatorio anche fuori dai casi diflagranza, rientra l’inottemperanza all’ordine del questore conseguente ad espulsione dispostaai sensi dell’art. 13, comma 2, lett. c), il cui presupposto è la mera appartenenza dellostraniero alla categoria delle persone pericolose od indiziate di far parte di associazioni ditipo mafioso (artt. 1 l. 1423/1956 e art. 1, l. 675/1965), in assenza di alcuna necessità di indaginisulla legalità dell’ingresso nel territorio nazionale. Si tratta cioè di un’ulteriore ipotesidi stigmatizzazione di un tipo normativo d’autore, del tutto svincolata dalla Tatschuld, edidubbia legittimità costituzionale. La recente l. 155/2005 ha peraltro disposto ulteriori restrizionidelle garanzie sostanziali e processuali, nei confronti, tra l’altro, dello straniero appartenente‘‘ad una delle categorie di cui all’art. 18 l. 152/1975, o nei cui confronti vi siano fondatimotivi di ritenere che la sua permanenza nel territorio dello Stato possa in qualsiasi modoagevolare organizzazioni o attività terroristiche, anche internazionali’’. In relazione aquesta categoria di ‘‘nemici’’ si prevede (sino al 31 dicembre 2007) un regime espulsivo (affidatoalla determinazione del Ministro dell’Interno o, su sua delega, del prefetto) prescindentedall’intervento dell’autorità giurisdizionale – sia relativamente al nulla osta che allaconvalida dell’esecuzione, ove non comporti il trattenimento in un centro di permanenza– oltre a diverse ipotesi premiali, volte ad incentivare la collaborazione dello straniero alleindagini in materia di terrorismo. L’art. 3 l. 155 ha peraltro riassegnato al Tar la giurisdizionein materia di controversie sui decreti di espulsione disposti ai sensi della medesima norma(qualificando così la posizione giuridica soggettiva dello straniero colpito da provvedimentoespulsivo per ragioni di ordine e sicurezza dello Stato come di mero interesse legittimo). Lanorma presenta profili di dubbia legittimità costituzionale, in relazione: a) alla previsione del-


224SAGGI E OPINIONIpazione dell’intervento <strong>penale</strong>, estesa sino alla criminalizzazione di condotte(o di atti preparatori) in radice inidonee a ledere o ad esporre apericolo il bene tutelato( 102 ) – individuano inequivocabilmente nella disciplinaitaliana dell’immigrazione, l’emersione del paradigma del Feindstrafrecht.Nella discrasia tra funzioni simboliche (la disciplina del flusso migratorio)e funzioni strumentali del precetto (realizzare, con politiche sicuritariedi Zero tolerance, una segregazione della class dangereux dei migranti)si radica la valenza simbolico-espressiva e preformativa dell’identità differenzialedel nemico, propria di questa legislazione.Alla categoria del cittadino, dotato di diritti e garanzie formali e sostanziali,viene in tal modo contrapposta la sfera della marginalità sociale,costituita dagli immigrati irregolari, cui i meccanismi di etichettamento edesclusione, propri delle forme di contrainte sociale (tra le quali in primis ildiritto <strong>penale</strong>), negano non soltanto i diritti di cittadinanza, ma altresì lastessa qualificazione di persone.La selettività del diritto <strong>penale</strong> (ed in particolare di questo diritto <strong>penale</strong>)relega tali non-persone in un outside rappresentato dal carcere (comel’esecuzione dell’espulsione dello straniero sottoposto a procedimento <strong>penale</strong> in assenza delprevio nulla osta del giudice, idonea a violare i principi di cui agli artt. 24 e 25 Cost.; b) allaprevisione dell’esecuzione dell’espulsione con accompagnamento alla frontiera (che secondoC. Cost., sent. 105/2001, costituisce misura incidente sulla libertà personale) senza attendereil giudizio di convalida del giudice di pace, in violazione dell’art. 13 Cost.; c) alla previsionedell’esecuzione immediata del provvedimento di espulsione, la cui efficacia non può esseresospesa dal giudice amministrativo e che non richiede l’avvenuta convalida della misura dell’accompagnamento,in contrasto con l’art. 24 Cost., e con l’interpretazione fornitane da C.Cost., 222/2004, alla cui stregua il giudizio di convalida deve svolgersi in contraddittorio primadell’esecuzione dell’accompagnamento alla frontiera, con le garanzie della difesa; d) aldivieto di sospensione dell’efficacia del provvedimento di espulsione da parte del giudiceamministrativo, idoneo a violare gli artt. 3, 24 e 113 Cost., nella misura in cui limita il dirittoalla effettività tutela giurisdizionale, nel contenuto pregnante ribadito da C. Cost., sent. 284/1974, anche in relazione alla fase cautelare del procedimento amministrativo (in tal senso, O.Forlenza, Liti sui decreti di espulsione restituite al Tar, inGuida dir., 2005, n. 33, 75). Ancorain relazione ai profili antigarantistici della disciplina generale di cui al t.u. 286/1998, siconsideri l’esigenza di elementari garanzie giurisdizionali in relazione alle misure restrittivedella libertà personale, ribadita dalle pronunce della Consulta (222 e 223/2004) e sostanzialmentedisattesa anche dalla recente l. 271/2004, che nel modificare il comma 5-bis dell’art.13 t.u. 286, ha previsto la possibilità di convalidare in questura il provvedimento di accompagnamentocoattivo dello straniero alla frontiera, in assenza del trasferimento presso il centrodi permanenza, così surrettiziamente introducendosi, con il trattenimento presso gli ufficidi polizia, una misura privativa della libertà personale, non garantita dalla convalida dell’autoritàgiudiziaria, ex art. 13 Cost.( 102 ) Come abbiamo visto in relazione a diverse ipotesi di pericolo indiretto, od all’innestosul modulo del delitto di attentato, di una condotta agevolatoria di un illecito non <strong>penale</strong>,quando non di un comportamento costituente addirittura l’esercizio di un diritto fondamentaledell’uomo.


SAGGI E OPINIONI225luogo esterno al progetto politico della modernità) o dall’espulsione dallospazio cittadino.Seguendo i paradossi della logica attuariale, l’esigenza di produrre censura‘‘finisce per tracciare i confini della criminalizzazione primaria suquelli materiali dell’effettiva criminalizzazione secondaria. Si assiste cosìad un’inversione funzionale: dall’analisi degli autori che effettivamentesono penalizzati e cancerizzati si ridefinisce in una logica deflattiva qualisono i soli fatti che meritano di essere penalmente perseguiti’’( 103 ).Del resto, la (latente) finalità sicuritaria della disciplina (in particolare,ma non solo italiana) dell’immigrazione emerge dall’assoggettamento diquesta categoria di ‘nemici’ ad un sottosistema speciale di Sanktionenrecht,che si avvale (oltre alla sanzione <strong>penale</strong> tout court) di misure eccezionali,( 103 ) Come lucidamente osserva, in un contesto di riflessione più generale, M. Pavarini,Teoria e prassi del sistema sanzionatorio, inS. Moccia (a cura di), Diritti dell’uomo esistema <strong>penale</strong>, cit., II, 420. Sottolinea D. Melossi, La ‘‘sovrarappresentazione’’ degli stranierinei sistemi di giustizia <strong>penale</strong> europei ed italiano, inDir. Imm. Citt., 2003, (4), 19 ss., comemai come nel contesto dell’implementazione delle legislazioni in materia di immigrazione iltasso di incarcerazione costituisca ‘‘allo stesso tempo una misura di criminalità ed una misuradi criminalizzazione’’. La selettività del sistema <strong>penale</strong> (nonché il tendenziale etnocentrismodelle agenzie del controllo sociale) è infatti emblematicamente espressa dalla sovrarappresentazionedegli immigrati nelle carceri (non solo, ma in particolare) italiane, dovuta ad un sinergismodi fattori di ordine ad un tempo socioeconomico, normativo e strutturale. In particolaresotto il profilo giuspositivo, rilevano in tal senso l’alveo applicativo della disciplina dicui agli artt. 380 e 381 c.p.p. – che tra le ipotesi di arresto in flagranza ricomprende i reatipiù frequentemente commessi (secondo i dati statistici) da stranieri, oltre ai casi di arrestoobbligatorio in flagranza per gli illeciti di inottemperanza all’ordine di allontanamento, dicui all’art. 14, comma 5-quinquies t.u. 286/1998 e di arresto obbligatorio, anche non in flagranza,per la condotta di illecito reingresso nel territorio nazionale, di cui all’art. 13, comma13-ter t.u. cit. –, la vaghezza di molti dei parametri normativi che ne regolano l’applicazione(in particolare, i criteri disciplinanti l’arresto facoltativo nonché taluni requisiti propri di specificheipotesi di arresto obbligatorio, come quella di cui alla lett. h dell’art. 380 c.p.p.) con ilconseguente ampio margine di discrezionalità rimesso al giudice nella valutazione degli stessi;la circostanza che il giudizio di fondatezza del pericolo di fuga ai sensi dell’art. 384 c.p.p.,come modificato dalla l. 128/2001, si fondi anche sull’impossibilità di identificare l’indiziato(ipotesi notevolmente frequente nei casi di immigrati privi di documenti di identità odinpossesso di documenti falsi, circostanza questa che la l. 155 ha elevato a presunzione qualificatadel pericolo di fuga dell’indiziato, legittimante la polizia giudiziaria a procedere al fermodi propria iniziativa). Ne consegue come, anche in fase di convalida e di possibile applicazionedella misura cautelare la prospettiva carceraria tenda a privilegiare il migrante che,benché identificato in base a rilievi dattiloscopici, ‘‘non è generalmente in grado di fornireidonee garanzie quanto al proprio domicilio, risultando conseguentemente un soggetto rispettoal quale ritenere agevolmente dimostrata l’esigenza cautelare del pericolo di fugaed inadeguata ogni misura diversa dalla custodia in carcere’’ (L. Scomparin, op. cit., 85).Del resto, anche in caso di sentenza di condanna il ricorso all’istituzione totale privilegia tendenzialmenteil migrante, in ragione della frequente situazione di irregolarità, ritenuta generalmenteincompatibile con la prognosi negativa sulla futura astensione dal reato necessariaalla concessione della sospensione condizionale della pena (in tal senso, L. Scomparin, op.cit., 89).


226SAGGI E OPINIONI(formalmente) non penali (ma egualmente afflittive e stigmatizzanti) soltantoper eludere, surrettiziamente, le garanzie sostanziali e processuali dell’ordinamento<strong>penale</strong>, costruendo un ‘‘diritto della segregazione’’( 104 )dicui emblema significativo – non soltanto per la valenza semantica – è la peculiaremisura dell’espulsione.Escludente e stigmatizzante ancor più del carcere (qui infatti non si allontana‘‘soltanto’’ dalla comunità, ma si esclude, addirittura, dai confinidel territorio)( 105 ) essa rappresenta la ipostatizzazione simbolica della neutralizzazioneselettiva del ‘nemico interno’, quale viene costruito – in unasocietà globale dominata da politiche neoliberiste( 106 ) – il migrante, temibilenel suo naturale essere-altro, in primo luogo emblema di un freudiano‘‘regard permanent de l’autre sur soi’’ e pertanto segnato dallo stigma dell’esclusione.La schmittiana dialettica binaria amico-nemico, inclusione-esclusione,nella irriducibile alterità dei poli entro cui si muove, esclude ovviamenteogni funzione (non soltanto risocializzante, ma) comunque diversa dallaneutralizzazione selettiva mediante segregazione, a sua volta funzionale allastigmatizzazione di questi outsiders sociali.Ma quello dell’esclusione è unmetacodice più ambiguo e dalle dinamichepiù sottili: l’esclusione del nemico, in quanto in primo luogo diverso( 104 ) L’efficace espressione è diA. Caputo, Immigrazione, etc., cit., 379. In proposito,non può omettersi di rilevare come anche la misura del trattenimento dello straniero presso icentri di permanenza temporanea rappresenti un’ipotesi di detenzione amministrativa deltutto eccezionale, la cui afflittività è stata espressamente riconosciuta da C. Cost.,10572001, che pur rigettando l’eccezione di costituzionalità in ragione della prevista limitazionedel trattenimento al tempo strettamente necessario all’esecuzione dell’espulsione, haprecisato che non solo il provvedimento di ‘trattenimento’, ma anche quello presuppostodi accompagnamento coattivo alla frontiera, costituiscono misure incidenti sulla libertà personaleai sensi dell’art. 13 Cost., a motivo del carattere di immediata coercitività, che vale adifferenziare queste misure dalle altre, incidenti unicamente sulla libertà di circolazione.( 105 ) Si snoda in altri termini qui il passaggio dal concetto di inimicus a quello di hostis,che mutuando la sua radice da hospites, immette la dinamica del conflitto nei confini dellacomunità politica.( 106 ) Secondo J. Young, The Exclusive Society, London, 1999, questa caratterizzazionedella società attuale, nata sul crollo del Welfare, determinerebbe la prevalenza di prassi dineutralizzazione selettiva dei ‘nemici interni’ – identificati nelle fasce marginali e povere –sulle politiche di integrazione sociale. Il passaggio da una società ‘bulimica’ (che cioè tendea fagocitare i soggetti ritenuti ostili, sì da neutralizzarne la pericolosità mediante l’inclusionenel corpo sociale) ad una anoressica (che cioè, quale quella attuale, oppone un rifiuto ‘antropemico’nei confronti dei soggetti avvertiti come estranei), sarebbe in tal senso funzionaleall’affermazione delle politiche neoliberiste, naturalmente esigenti strategie di criminalizzazionedelle underdog class. Un’interessante illustrazione di questo tema è stata fornita daM. Pavarini, nella Relazione svolta al Convegno ‘‘Siléte poenologi in munere alieno’’ (Abbadiadi Fiastra, Macerata, 17-18 febbraio 2005); per ulteriori riferimenti al tema ricordiamo laRelazione svolta, nella medesima sede, da G. Forti, ed al suo L’immane concretezza, Milano,2000, 134 ss..


SAGGI E OPINIONI227e (rappresentato come) altro da sé, è funzionale al rafforzamento dell’identitàdi chi esclude( 107 ).L’identificazione del ‘nemico’ rafforza cioè i confini di una realtà inclusiva,segnata da un Nomos der Erde che nasce sulla logica della differenziazionedelle identità.Quella del nemico è del resto una figura che, sorta sul terreno degliarcana seditionis, ha sempre legittimato la forza dello jus publicum del sovrano,il solo capace di decidere – ci ricorda Carl Schmitt – sullo stato dieccezione( 108 ).Segnata inevitabilmente dalla doppiezza del codice dell’esclusione, edalla sottile sinergia con la dinamica della legittimazione del potere, la figuradel criminale-nemico ripropone, oggi più che mai, l’ambivalenza diun contratto sociale che, nato per includere, finisce con l’incorporare, tragicamente,la rottura.Federica Resta( 107 ) N. Luhmann, Das Recht der Gesellschaft, Frankfurt am Main, 1993, 583. Delresto, come rilevano M. Pastore, Frontiere, conflitti, identità. A proposito di libera circolazionee nuove forme di controllo sociale in Europa, inDei del. delle pene, 1993, 3, 31 ss., e C.Longobardo, op. cit. loc. ult. cit., il riconoscimento esclusivo ai cittadini dell’Unione Europeadel diritto alla libera circolazione all’interno del territorio dell’UE ha costituito, giàdalla Convenzione di Schengen, un fattore preponderante ai fini della definizione, appuntoper contrapposizione, dello status dei cittadini dell’Unione rispetto a quello degli extracomunitari(la semantica è significativa...) che già fanno parte, de facto, della popolazione europea.( 108 ) E. Resta Il diritto fraterno, Roma-Bari, 4ª ed., 2005, 99.


SAGGI E OPINIONI229LA RELAZIONE DIALETTICA TRA L’IRREFRAGAB<strong>IL</strong>ITÀDEL GIUDICATO PENALE ED <strong>IL</strong> GIUDIZIO DI REVISIONESommario: Premessa –1.L’evoluzione del principio di irrefragabilità del giudicato <strong>penale</strong>. –2. Il fondamento politico e giuridico del giudicato <strong>penale</strong>. –3. Il giudicato <strong>penale</strong> e la revisione.– 4. Il fondamento politico e giuridico della revisione.PremessaLa vexata quaestio dei rapporti tra l’irrefragabilità del giudicato <strong>penale</strong>ed il giudizio di revisione rappresenta, indubbiamente, un luogo ideale diricerca di notevole ampiezza e di grande interesse gnoseologico al fine diuna valutazione critica delle dinamiche evolutive del sistema processuale<strong>penale</strong> italiano. In tale ambito speculativo convergono e coesistono in armoniaargomenti di carattere prettamente giuridico, riflessioni di matricesociologica, suggestioni di ispirazione filosofica ed istanze di tipo politico.Ripercorrendo e analizzando le esperienze giuridiche del passato chehanno costituito le tappe fondamentali dell’evoluzione storica dei rapportitra il giudicato <strong>penale</strong> e la revisione, emerge chiaramente la rappresentazionedi una irriducibile conflittualità tra due istituti in perenne tendenza allaprevaricazione reciproca. Nel corso dei secoli, infatti, tanto più elevato èstato il grado di resistenza della res iudicata all’interno dell’ordinamentoprocessuale <strong>penale</strong>, tanto più ridotti sono stati gli spazi operativi riservatial giudizio di revisione; tanto più debole è stata l’aspirazione alla certezzadei rapporti giuridici regolati da una sentenza irrevocabile, tanto più forte èstata l’esigenza euristica di una verifica del dictum cognitivo attraverso l’esperimentodi un rimedio straordinario. Tale dura conflittualità, che perlungo tempo ha legato il giudizio di revisione e l’irrefragabilità del giudicato<strong>penale</strong>, è stata generata dal fatto che quest’ultimo, invece di essere assuntocome simbolo dell’ineluttabile temporalità del processo, è stato caricatodi significati metagiuridici, che attingono al fondamento logico ed eticodella sentenza <strong>penale</strong>. Il giudicato <strong>penale</strong>, infatti, è stato inteso dalla tradizionegiuridica come un dato certo, immutabile ed assoluto che conferiscedignità ed efficacia alla legge stessa. La revisione, viceversa, è stata costantementerappresentata come un rimedio estremo ed eccezionale, da


230SAGGI E OPINIONIcontenere, rigorosamente, in limiti di stretta necessità rapportati, esplicitamenteo implicitamente, ad una grave ingiustizia.Oggi, una graduale ma profonda evoluzione in senso democratico delleistituzioni e dei rapporti tra Stato e cittadino, insieme ad un significativoprocesso di sensibilizzazione delle coscienze degli individui, ha condotto ilsistema processuale <strong>penale</strong> ad una nuova configurazione del rapporto dialetticotra l’irrefragabilità del giudicato ed il giudizio di revisione. Abbandonatadefinitivamente la secolare posizione di antitesi, i due istituti svolgono,nell’attuale ordinamento giuridico, un ruolo complementare, al finedi salvaguardare il medesimo supremo interesse: la certezza del diritto. Ilgiudicato <strong>penale</strong> rappresenta un dato terminale, collegato ad un accertamentodel disvalore ordinamentale del comportamento, irrevocabile manon in senso assoluto; esso è oggi un elemento relativamente intangibilenel quale è dato notevole riconoscimento alla salvaguardia dei diritti e delleprerogative individuali. La revisione, pur conservando intatta la caratteristicaprimigenia di costituire la più intensa manifestazione di reazione ordinamentaleall’ingiustizia, è divenuta l’espressione massima di un esigenzadi integrazione funzionale del sistema processuale in relazione alla non perduranteattualità della rispondenza tra accertamento giudiziario e giustizia.La revisione è, oggi più che mai, un istituto essenziale della funzione giurisdizionaleche completa, garantisce e corrobora il giudicato <strong>penale</strong>, spogliandolodi quell’alone di sacralità metagiuridica di cui esso, per lungotempo, si è ammantato.1. L’evoluzione del principio di irrefragabilità del giudicato <strong>penale</strong>.«Hic unus inter humanas procellas portus, quem si homines fervida voluntatepraeterierint, in undosis semper jurgis errabunt»( 1 ). Con queste parole,un brocardo medievale si accingeva a descrivere un principio giuridicomolto antico, indispensabile presidio di civiltà: l’intangibilità dell’accertamentogiudiziario <strong>penale</strong> definitivo.Dal quadro delle esperienze normative emerse nel mondo e nella storiaaffiora con chiarezza come l’incontrovertibilità del dictum cognitivo <strong>penale</strong>sia sempre stato considerato un obiettivo fondamentale per una organizzazionearmonica della società civile. Tale incontrovertibilità èstata ed è perseguitamediante uno strumento tecnico composito, punto di equilibrio edi sintesi di interessi divergenti: l’istituto del giudicato <strong>penale</strong>. Un illustregiurista, Nicolini, diceva: «la differenza tra le varie epoche che l’uomo trascorrenon può essere giammai nella maggiore o minore stabilità della cosa( 1 ) Tuozzi, L’autorità della cosa giudicata nel civile e nel <strong>penale</strong>, Torino, 1900, p. 8.


SAGGI E OPINIONI231giudicata. Fin che vi è l’uomo, la forza immutabile della cosa giudicata èuno dei canoni necessari ed eterni dell’umanità»( 2 ).Per poter comprendere pienamente il valore e l’importanza dell’irrefragabilitàdel giudicato <strong>penale</strong> è, quindi, necessario ripercorrere, seppurbrevemente, le esperienze storiche del passato ed osservare: quandotale istituto si sia delineato; quale sia stata la sua evoluzione; e quandoabbia acquisito la maturità necessaria per affermarsi come principio fondamentalein ogni sistema processuale <strong>penale</strong>, «altera patrona generis humani»(3 ).Il concetto che i Romani avevano dell’intangibilità del giudicato <strong>penale</strong>si desume chiaramente da una famosa massima di Modestino: «Res judicatadicitur quae finem controversiarum pronunciatione judicis accipit, quod velcondemnatione vel absolutione contingit»( 4 ). Da questa definizione di‘‘res judicata’’ si può dedurre come, nel diritto romano, l’intangibilità delgiudicato producesse i suoi effetti tipici, ogni qual volta si fosse statuito soprauna accusa con una decisione giurisdizionale definitiva e irrevocabile,che ‘‘controversis finem dat’’. La definitività era un attributo che la sentenzaacquisiva quando, successivamente alla condemnatio o alla absolutio, nonpoteva essere più revocata e corretta dallo stesso giudice. «Iudex posteaquam semel sententiam dixit, postea iudex esse desint, et hoc jure utimurut qui semel vel pluris vel minoris condemnavit, amplius corrigere sententiamsuam non possit; semel enim male seu bono officio functus est»( 5 ). Per quantoriguarda il carattere della irrevocabilità, questo attributo in origine nonera richiesto, perché potesse operare l’autorità della ‘‘res iudicata’’; era sufficienteche la sentenza fosse definitiva. Il requisito dell’irrevocabilità sorse,infatti, con la nascita dell’istituto dell’appello. «Roma, ancora ai tempi dellarepubblica, era un popolo in via di consolidazione politica: perché essa potesseresistere alle lotte interne ed esterne occorreva il più rigoroso rispettoe la più stretta obbedienza all’autorità pubblica, ciò che non si sarebbe ottenutose i pareri resi sulle controversie giuridiche dall’autorità giudiziariaavessero potuti essere discussi e disconosciuti non solo dagli stessi magistratiin altri giudizi, bensì anche dalle parti e dai cittadini in genere. Quindiuna cosa, una volta e definitivamente giudicata, non doveva essere unaseconda volta ridiscussa e rigiudicata. Solo quando lo stato romano si fuconsolidato e fortificato poté permettere che sorgesse l’appello»( 6 ). Ma ancheallora «ne lites poenae immortales fient vitaeque hominum modus exce-( 2 ) Nicolini, Della procedura <strong>penale</strong> nel regno delle due Sicilie, Napoli, I, 1828, p. 33..( 3 ) Lucchini, Elementi di procedura <strong>penale</strong>, Firenze, 1899, p. 101.( 4 ) Modestino, libro septimo Pandectarum, l. 1, Dig. de re judicata, XLII, 1.( 5 ) L. 55 Dig. de re judicata, XLII, 1.( 6 ) Rocco, Trattato della cosa giudicata come causa di estinzione dell’azione <strong>penale</strong>, Roma,1932, p. 71.


232SAGGI E OPINIONIderent» fu stabilito un certo spazio di tempo, dapprima brevissimo poi gradatamentepiù lungo ma sempre limitato e perentorio, entro il quale fossepossibile appellare, scaduto il quale, scattava il giudicato che metteva fineper sempre alla lite giudiziaria. Dunque solo la sentenza, ‘‘pronunciatio jiudicis’’,definitiva e che non poteva essere appellata o per la quale era scadutoil dies appellationis poteva produrre l’intangibilità della res iudicata.«Addictos supplicio et pro criminum immanicate damnatus, nulli per vim utqueusurpationem vindicare liceat ac tenere. Quibus in causa criminali humanitatisconsideratione si tempora suffragantur interponendae provocationiscopiam non negamus, ut ubi diligentius examinetur ubi contra hominis salutemper errorem vel gratiam cognitoris oppressa putatur esse justitia»( 7 ).Caduto l’impero romano d’occidente, durante il regno longobardo,venne dimenticato l’istituto della ‘‘res judicata’’. La procedura criminalebarbarica differiva profondamente da quella romana. Il processo <strong>penale</strong>longobardo si incentrava principalmente sul ‘‘iudicium Dei’’, l’ordalia. Essaera una sorta di prova giudiziaria letale, tramite la quale si chiedeva l’interventodivino, perché si pronunciasse a favore di chi avesse ragione. Se l’accusatone usciva incolume, si diceva che la divinità era intervenuta per proteggereun innocente; se invece soccombeva, lo si considerava colpevole. Inquesta epoca, il valore del giudicato era totalmente assoluto e troncava, nelmodo più intransigente, ogni ulteriore questione di colpevolezza; poiché ladivinità si era espressa a nessuno, giudice o parte, doveva essere dato il poteredi mettere in discussione il giudizio da essa emanato. Dunque l’intangibilitàdel giudicato si fondava non su una base giuridica, bensì sulla ciecaignoranza e sulla superstizione, dimenticando secoli di raffinate riflessionidella dottrina romana sull’istituto della ‘‘res iudicata’’.Nel periodo carolingio, l’intangibilità del giudicato <strong>penale</strong> era riconosciuta,ma il concetto che racchiudeva era molto diverso da quello romano.Affinché il giudicato potesse costituirsi era necessario che le parti lo accettassero.Esse potevano anche non accettarlo, ma allora dovevano accusarlodi falsità ‘‘blasfemare iudicium’’, altrimenti sarebbero stati imprigionati inattesa che si pronunciassero in un senso o nell’altro. «De clamatoribusvel caudicis qui nec iudicium scabinorum adquiescere nec blasfemare volunt,antiqua consuetudo servetur id est ut in custodia recludantur donec unum edoubus faciant. Et si ad palatium pro hac re reclamaverint et litteras detulerint,non quidem eis credantur nec tamen in carcere ponantur sed cum custodiaet cum ipsis litteris pariter ad palatium nostrum remittantur, ut ibi discuntiantursicut dignum est»( 8 ). Dunque, in mancanza di una denunciadi falsità del giudizio, si adoperavano mezzi di coazione al fine di strappar( 7 ) Arcadio eOnorio, impp., l. 29, Cod. de appell. et cons., VII, 62.( 8 ) Ansegiso, Capitularium, de clamatoribus et causidicis, III, 7.


SAGGI E OPINIONI233loro quella manifestazione di volontà consenziente al giudicato, di cui nonsi poteva fare a meno. Questa formulazione del principio di intangibilitàdel giudicato rispecchiava pienamente una visione primitiva del diritto,per cui le situazioni di potere dovevano essere corroborate dal consenso.Nel cuore del XI secolo sorse, nella vita del diritto, una epoca nuova: ilrinascimento giuridico. Esso si presentava alla storia come «il saldarsi miracolosodel presente con un passato, che la barbarie aveva creduto di infrangeree che ora, invece, una rinnovata coscienza disseppelliva dalle maceriee chiamava a nuovi destini»( 9 ). In questo periodo incominciò un movimentodi rivalutazione del diritto romano, ad opera della dottrina giuridica,attraverso la riscoperta della compilazione giustinianea, ed in particolarmodo dei libri del Digesto «qui dudum neglecti fuerant»( 10 ). Questa reviviscenzadel diritto romano giustinianeo determinò lentamente, insiemecon il diritto canonico, la nascita dello ‘‘ius comune’’. Gli istituti, le normee i principi del diritto romano, ridivennero, pur se adattati alle esigenze deltempo, la struttura portante dei rapporti sociali fra i consociati, e fra essi el’autorità pubblica. Se l’apporto normativo dello ‘‘ius commune’’ fu massimonel campo dei rapporti civili, ciò avvenne in misura inferiore nel campocriminale, dove operarono notevolmente gli ‘‘iura propria’’, che, per la lorofreschezza e duttilità, meglio, rispetto all’antico diritto romano, facevanofronte alle necessità di tutela <strong>penale</strong> del tempo. In questo periodo si affermacon vigore il principio giuridico dell’immutabilità del giudicato <strong>penale</strong>:«sententia in criminosum facit ius contra eum ubicumque terrarum et pro etcontra omnes»( 11 ). Un passo delle costituzioni di Federico II si rivolgevaespressamente alle sentenze definitive e stabiliva dei termini per appellare,trascorsi i quali, esse si consideravano passate in ‘‘cosa giudicata’’. «Appellationumtempora per quas definitivae sententiae suspendutur certo dierumspatio iussimus limitari»( 12 ). Anche negli statuti comunali venne più voltestabilito il principio dell’immutabilità del giudicato e negato perfino, inomaggio ad esso, un secondo giudizio di appello. Secondo lo statuto dellaRepubblica di Firenze una causa criminale, una volta giudicata, non potevaessere ripresentata una seconda volta, non essendo ammesso neppure l’appello.«Et non possit de nullitate dici vel opponi vel appellari ab aliqua sententiavel condemnatione criminali lata per aliquem officialis communis Florentiaenec dictu judex appellationi conoscere vel se intromittere possit de dictiissententiis criminalibus vel de nullitate appellatione, oppositione quae fierentsuper eis sub poena librarum quingenatrum»( 13 ). Secondo lo statuto del( 9 ) Calasso, Medioevo del diritto, Milano, 1954, p. 346.( 10 ) Mon. Germ. Hist., Scriptores, XXIII, p. 32.( 11 ) Bartolus et Baldus, inZasius, l. 63, de re judicata, n. 76.( 12 ) Constitutiones Regni Siciliae, tit. XLIV.( 13 ) Statuta populi et communis Florentiae, lib. II, rubrica CXXVII.


234SAGGI E OPINIONIcomune di Bologna dopo che la sentenza fosse stata pronunziata, questarimaneva ferma e immutabile e non era possibile chiedere ed avere un nuovogiudizio. «Item dicimus quod nullus possit appellare vel restitutione impetrarecontra aliquam condemnationem personalem vel pecuniaria in aliquecausa criminali quocumque modo fiat, per quecumque jurisdictionem habentemvel nullam dicere vel de nullitate opponere si lectae, publicatae et depositaereperiantur»( 14 ). Dunque durante il basso medioevo il principio giuridicodell’immutabilità del giudicato fu pienamente riconosciuto, e ciò siaper le sentenze di assoluzione sia per le decisioni di condanna.Ma all’inizio del XVI secolo a queste due forme di sentenze se ne aggiunseuna terza, che si credette erroneamente usata anche dai romani,quella di rilascio momentaneo dell’imputato per difetto di prove ovverola ‘‘absolutio pro nunc’’. Questo tipo di sentenza prevedeva che, in casodi impossibile dimostrazione positiva della innocenza dell’accusato, il processonon si chiudeva, ma veniva sospeso fino a quando non si fossero scopertedelle nuove prove di colpevolezza. Diceva Pertile: «sentenziavasi aquesta maniera, che l’inquisito lo si obbligava di ripresentarsi nuovamentein giudizio ogni qual vota si scoprissero contro di lui nuove prove del reatoper cui era stato processato»( 15 ). Queste sentenze costituivano dei veri epropri dinieghi di giustizia, perché si risolvevano nel non giudicare e lasciaresotto la perenne minaccia di un accusa l’inquisito. Le sentenze di ‘‘absolutiopro nunc’’, nel corso dei secoli, finirono con il sostituire quasi completamentela tradizionale sentenza di assoluzione, provocando inesorabilmentela dissoluzione dell’intangibilità del giudicato <strong>penale</strong> per le decisioni assolutorie.Ma il grande movimento filosofico del XVIII secolo, che mise in discussionetutto il vecchio sistema processuale <strong>penale</strong>, non poteva non portarela sua attenzione su un principio giuridico fondamentale come quellodella intangibilità del giudicato <strong>penale</strong>, considerato «ancre de la société»(16 ). E così in Francia Prost de Royer e in Italia Cremani denunciavanofermamente «quella grande infamia legalizzata»( 17 ) che era la ‘‘absolutiopro nunc’’ e reclamavano l’intangibilità di tutte le sentenze penali. Da questomomento l’irrefragabilità del giudicato <strong>penale</strong> non venne consideratoun principio che garantiva globalmente la certezza del diritto, ma comeun grande e vitale presidio di libertà individuale e dell’innocenza, un limiteall’attività repressiva dello Stato. Questa idea non rimase a lungo una puraed astratta speculazione, e dal campo della teoria scese ben presto a cimen-( 14 ) Statuta criminalia communis Bonnoniae, de condemnationibus et absolutionibus legendiset publicandis.( 15 ) Pertile, Storia del diritto italiano, Padova, 1887, p. 715.( 16 ) Brissot de Warville, Thèories des lois criminelles, Neufchatel , 1781, II, p. 218.( 17 ) Cremani, De jure criminali, Ticini, 1787, p. 15.


SAGGI E OPINIONI235tarsi nella pratica viva delle leggi. Durante la rivoluzione francese, che travolsetutto il vecchio diritto criminale, l’Assemblea costituente non poténon soffermarsi sulla questione dell’intangibilità del giudicato e nella costituzionedel 3-14 settembre del 1791 pose espressamente questa regola:«tout homme acquitte par un jury légal ne peut plus être repris ni accuséà raison du même fait». La stessa disposizione venne inserita anche nellacostituzione del 5 fructidor anno III, per ribadirne la obbligatorietà, chein quel momento storico di grande agitazione, a volte non veniva osservatanella pratica forense.L’irrefragabilità del giudicato <strong>penale</strong>, come principio di libertà, vennerecepito nel codice di istruzione criminale del 1806 di Napoleone, dovevenne espresso nell’art. 360: «toute personne acquittée légalement ne pourraêtre plus réprise ni accusée à raison du même fait». Tale codice costituìda modello per il codice della procedura criminale del Regno di Sardegnadel 1847, che si occupò dell’intangibilità del giudicato <strong>penale</strong>, limitandosiin sostanza a riprodurre le corrispondenti disposizioni criminali francesi.L’articolo 438 fissava: «l’accusato assolto e riguardo al quale siasi dichiaratonon essersi fatto luogo a procedimento non potrà più essere sottoposto aprocesso né accusato pel medesimo fatto». Lo stesso principio valeva per lesentenze contumaciali ed era espresso nell’art. 470: «l’accusato che sarà statoassolto colla sentenza in contumacia od a riguardo del quale si sarà dichiaratonon essere stato luogo a procedere non potrà più essere sottopostoa processo né accusato pel medesimo fatto».Analoghe disposizioni furono inserite infine nel codice unitario di procedura<strong>penale</strong> del 1865, che sostituì la legislazione processuale <strong>penale</strong> ditutti gli stati preunitari, molti dei quali ammettevano ancora la possibilitàper il giudice di emettere una sentenza di ‘‘absolutio pro nunc’’. Nel lombardo-Veneto,infatti, l’art 437 del codice di procedura <strong>penale</strong> austriacostabiliva che: «se la sentenza dichiara sospesa l’inquisizione per difetto diprove l’inquisito viene condotto innanzi la magistratura nel prossimo giornoferiale, gli viene letta la sentenza, poscia consegnata copia della medesimae nello stesso tempo gli è significato da chi presiede che, emergendonuove prove, verrebbe riassunta l’inquisizione». Nel Regno delle due Sicilieil codice del 1819, in maniera più garantista per l’imputato, nell’art 136 statuivache: «in caso di insufficienza di indizi, pronunziata la libertà provvisoria,l’imputato non può per lo stesso misfatto essere tradotto nuovamentedavanti la Gran Corte a meno che non sopravvengano nuove prove a di luicarico dentro due anni».Dall’esame delle codificazioni del XIX secolo è possibile osservare comel’intangibilità del giudicato <strong>penale</strong> fosse legislativamente espressa nonuna volta e per sempre, quale divieto generico di risollevare ulteriormenteuna disputa criminale già decisa con una pronuncia definitiva, ma nelle sue,e neppure tutte, applicazioni particolari. Più precisamente, le sparute disposizioniriguardavano le sentenze assolutorie ed erano applicazioni o


236SAGGI E OPINIONIconseguenze dell’intangibilità del giudicato come derivazione del principiodi libertà individuale. Tutto ciò èlimitativo ed erroneo, perché l’irrefragabilitàdel giudicato <strong>penale</strong> non riguarda e non deve riguardare soltanto lesentenze assolutorie, bensì anche quelle di condanna, e non tutela e nondeve tutelare soltanto l’interesse della libertà e dell’innocenza, ma anchequello della repressione e punizione dei reati.Solo con la codificazione del XX secolo, l’istituto del giudicato <strong>penale</strong>fu espresso in modo diretto, organico e non frammentario, configurandosicome lo strumento giuridico che garantisce la certezza del diritto attraversol’immutabilità dell’accertamento operato da una decisione <strong>penale</strong> irrevocabile.Il giudicato <strong>penale</strong>, oggi, si sostanzia in «un vincolo delle autorità pubblichee dei privati ad un precetto d’origine giudiziaria, costruito su misuraper il caso singolo, il quale impone il dovere di una o alcune persone dieseguirlo senza poterlo contestare, il dovere di uno o alcuni giudici di usarlocome regola del decidere, il dovere dello stesso o di qualsiasi altro giudice,di fronte al quale sia riproposta la eadem res nei confronti della eadempersona, di declinare il giudizio»( 18 ).L’istituto del giudicato <strong>penale</strong> si articola idealmente sotto due fogge: lacosa giudicata formale e la cosa giudicata sostanziale. «Entrambe concorronoa chiudere il cerchio delle garanzie idonee ad assicurare l’intangibilitàdel risultato del processo»( 19 ). La cosa giudicata formale tende ad impedire,nell’ambito di uno stesso procedimento <strong>penale</strong>, una pluralità indefinitadi sentenze sullo stesso oggetto. Se l’ordinamento giuridico non ponesse unlimite certo al potere di impugnazione, o desse al giudice la facoltà di revocareliberamente in qualunque momento la decisione emanata, l’imputatosarebbe esposto ad una irragionevole e illimitata possibilità di reiterazionedi sentenze de eadem re, con grave pregiudizio alla sicurezza dei diritti ealla stabilità delle situazioni giuridiche pregresse.La cosa giudicata formale, che si esprime normativamente attraversol’irrevocabilità delle sentenze definitive, è disciplinata nel sistema processuale<strong>penale</strong> dalla regola contenuta nell’art. 648 c.p.p. che recita: «1. sonoirrevocabili le sentenze pronunciate in giudizio contro le quali non è ammessaimpugnazione diversa dalla revisione. 2. Se l’impugnazione è ammessala sentenza è irrevocabile quando è inutilmente decorso il termine perproporla o quello per impugnare l’ordinanza che la dichiara inammissibile.Se vi è stato ricorso per cassazione, la sentenza è irrevocabile dal giorno incui è pronunciata l’ordinanza o la sentenza che dichiara inammissibile o ri-( 18 ) Lupacchini, La risoluzione della cosa giudicata <strong>penale</strong> tra etica e diritto, inGiur.it., 1996, IV, p. 110( 19 ) De Luca, «Giudicato, II) diritto processuale <strong>penale</strong>», in Enc. Giur., XV, Roma,1988, p. 1.


SAGGI E OPINIONI237getta il ricorso. 3. Il decreto <strong>penale</strong> di condanna è irrevocabile quando èinutilmente decorso il termine per proporre opposizione o quello per impugnarel’ordinanza che la dichiara inammissibile». Dunque, attraverso lacosa giudicata formale l’interna fisiologia del processo spinge gli atti che locostituiscono verso un atto conclusivo e definitivo, espressione piena dell’attivitàgiurisdizionale.Tuttavia, la cosa giudicata formale costituisce una condizione fondamentalee imprescindibile, ma non sufficiente a garantire l’intangibilitàdel risultato processuale definitivo. La garanzia, infatti, sarebbe vanificatase lo stesso fatto, per cui l’imputato è stato condannato o assolto con sentenzairrevocabile, potesse essere oggetto di un ulteriore processo e di conseguenzanuovamente sottoposto all’accertamento di un giudice diverso.Non è sufficiente, quindi, l’irrevocabilità della sentenza, ma occorre anchegarantire l’intangibilità del contenuto della stessa, impedendo un nuovogiudizio de eadem re; a ciò provvede la cosa giudicata sostanziale. Essa infattitende ad impedire una illimitata pluralità di processi sullo stesso oggetto,invocando il risalente principio ‘‘ne bis in idem’’. La cosa giudicatasostanziale incarna l’autorità e la vincolatività della decisione giurisdizionale,la quale si presenta nel mondo del diritto in veste di vero e proprio attoimperativo, altrettanto efficace quanto quello promanante dal legislatore,una sorta di ‘‘lex specialis’’, «una norma di carattere giudiziario»( 20 ). Tuttaviaoccorre fermamente evitare ogni rischio di gratuita idealizzazione dellacapacità della cosa giudicata sostanziale e non perdere di vista il datonormativo che la esprime. Infatti, «la sentenza irrevocabile viene in considerazionenell’ordinamento giuridico come fatto giuridico in senso stretto.Essa si pone non già come atto normativo, dotato di efficacia regolamentare,ma come presupposto di fatto di taluni effetti, che per il suo tramitesi fanno discendere dalla legge. La cosa giudicata sostanziale <strong>penale</strong> non hacome oggetto l’accertamento positivo o negativo del reato, cioè la sua efficacianormativa»( 21 ). Da questa premessa deriva che la cosa giudicata sostanzialeè caratterizzata dalla indifferenza del contenuto della decisione rispettoal prodursi della sua efficacia tipica e che, quindi, anche la sentenzadi natura processuale irrevocabile è assistita dal ‘‘ne bis in idem’’.La cosa giudicata sostanziale trova espressione normativa nell’art. 649c.p.p., che recita: «1. L’imputato prosciolto o condannato con sentenza odecreto <strong>penale</strong> divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto aprocedimento <strong>penale</strong> per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamenteconsiderato per il titolo, per il grado o per le circostanze. 2. Se ciònonostante viene di nuovo iniziato procedimento <strong>penale</strong>, il giudice in ogni( 20 ) Cordero, Procedura <strong>penale</strong>, Milano, 2001, p. 416.( 21 ) De Luca, op. cit., p.3.


238SAGGI E OPINIONIstato e grado del processo pronuncia sentenza di proscioglimento o di nonluogo a procedere, enunciandone la causa nel dispositivo». L’efficacia preclusivariconosciuta alla cosa giudicata sostanziale si basa su due presupposti,che devono ricorrere entrambi per l’operatività del divieto. Essi sonouno di natura soggettiva e l’altro di natura oggettiva. Il presupposto di naturasoggettiva è costituito dall’identità tra la persona già sottoposta al processoconclusosi con una sentenza irrevocabile e quella che si vorrebbe sottoporread un nuovo procedimento <strong>penale</strong> (eadem persona). Il presuppostodi natura oggettiva è, invece, costituito dall’identità tra il fatto su cui ha giadeciso una sentenza irrevocabile ed il fatto per il quale si pretenderebbe diistaurare un nuovo processo <strong>penale</strong>. In conclusione l’istituto del giudicato<strong>penale</strong>, attraverso le sue articolazioni normative, consegue un accertamentodefinitivo il quale rappresenta lo scopo stesso dell’attività giurisdizionale erealizza l’interesse fondamentale dell’ordinamento alla certezza del diritto:«status reipublicae maxime judicatis rebus continetur»( 22 ).2. Il fondamento politico e giuridico del giudicato <strong>penale</strong>.In ogni periodo storico è stata più o meno profondamente sentita lanecessità etica e politica dell’intangibilità del giudicato <strong>penale</strong>. La società,infatti, ha bisogno, al fine della sua conservazione, di porre un termine allecontroversie e di tutelare durevolmente il diritto fra i consociati. «Per questaragione essa si organizza politicamente a Stato e crea le leggi tra cui,quasi ‘‘lex legum’’, la legge <strong>penale</strong>, che è chiamata ad assicurare la più fortetutela giuridica: la tutela politica del diritto»( 23 ). Ma la legge <strong>penale</strong>, affinchénon rimanga una astratta dichiarazione di norme, «una platonica comminatoriadi mali»( 24 ), deve potersi tradurre, nel campo tangibile dei fattiumani e dei rapporti sociali, in un atto concreto, definitivo ed irrevocabile,frutto della consumazione di un procedimento giurisdizionale. Dunque vi èstata sempre la consapevolezza, più o meno piena, che là dove ogni caso siaad infinitum giudicabile, ogni lite diventi un focolaio cronico, e che nessuncorpo sociale possa tollerare simili tensioni.Già in epoca romana i giuristi avvertirono, con straordinaria sensibilità,l’esigenza sociale che forma la radice politica dell’intangibilità del giudicato.Cicerone affermava: «perditae civitates disperatis ombibus rebus, hossolent habere exitus exitiales ut damnati in integrum restituantur, vincti solvantur,exules reducantur, res judicatae rescindunur. Quae, cum accidunt, ne-( 22 ) Cicerone, Orat. pro Sylla, c. 22.( 23 ) Rocco, Trattato della cosa giudicata come causa di estinzione dell’azione <strong>penale</strong>,Roma, 1932, p. 239( 24 ) Rocco, op. cit., p. 240.


SAGGI E OPINIONI239mo est quin intelligat, ruere illam rempubblicam. Haec ubi eveniunt nemoest quin ullam spem salutis reliquam esse arbitretur»( 25 ). Un passo del digestoafferma che: «singulis controversiis, singulas actiones unumque judicatifinem sufficere probabili ratione placuit ne aliter modus litium multiplicatussummam atque inexplicabilem faciat difficultatem, maxima si diversa pronunziaretur»(26 ). Ma se il fondamento politico del giudicato <strong>penale</strong> èuna costante nello svolgersi delle esperienze normative della storia, diversoè stato il fondamento giuridico che la dottrina, nel corso dei secoli, ha ricollegatoall’intangibilità del giudicato <strong>penale</strong>. I romani per giustificare giuridicamenteil giudicato, la ‘‘res judicata’’, enuclearono un principio: «resjudicata pro veritate accipitur»( 27 ). Questa famosa massima fu formulatada Ulpiano con riferimento ad un specifico tipo di sentenza, per motivarequanto aveva detto circa la sua efficacia. La generalizzazione della massimafu assai posteriore e deve verosimilmente ascriversi ai compilatori del digesto,i quali stralciarono la motivazione dal contesto originario e la riprodusseroisolata nel fr. 207 del titolo 50, 17, avente la rubrica De diversis regulisiuris antiqui. Con questa massima i giuristi romani intendevano affermareche la ‘‘res judicata’’ era una fonte autonoma di situazioni giuridiche, che siponeva nell’ordinamento giuridico non già come verità, ma al posto dellaverità: «sententia facit ius»( 28 ). Nelle Istituzioni, a tal proposito, Chiovendaaveva osservato: «non pensarono affatto i romani ad attribuire a quello chedice il giudice, per ciò solo che lo dice il giudice, una presunzione di verità;ed anche il testo famoso ‘‘res judicata pro veritate accipitur’’ vuol dire soltantoche la pronunzia del giudice, si ha, non già ‘‘come’’ verità, ma ‘‘invece’’della verità»( 29 ).Le potenzialità concettuali, racchiuse nella regula e nella sua generalizzazione,furono espresse e messe a profitto per vasti sviluppi dagli interpretimedievali e moderni delle fonti romane. I giuristi medievali collocaronola massima ‘‘res judicata pro veritate accipitur’’ sul terreno probatorio e viscorsero il principio secondo cui quanto era stabilito nel giudicato si presupponevavero e giusto senza possibilità di prova contraria. Il primo spuntodi una valutazione del giudicato sotto il profilo della prova si trova nelleQuestiones de iuris subtilitatibus, attribuite da Fitting a Irnerio e ora ritenuteopera di un ignoto glossatore del XII Secolo. Nel titolo De probationibusè presente una proposizione, che in pochissime parole enuncia quellache, per l’autore, sarebbe l’essenza del giudicato: «res apud iudicem queri( 25 ) Cicerone, Orat. in Verrem, II, lib. V, c. 6.( 26 ) L. 6 Dig. XLIV, 2( 27 ) Ulpiano, D. 1, 5, 25.( 28 ) D. 25, 3, 3 pr., Ulp. 34 ad ed.; D. 30, 50, 1, Ulp. 24 ad Sab.; D. 49, 1, 14 pr., Ulp.14 ad ed.; D. 5, 2, 17, 1, Paul. 2 quest.( 29 ) Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1960, p. 321.


240SAGGI E OPINIONIpotest, cum non est quod tollat questionem, ut auctoritas rei judicatae». È darilevare che il collegamento con la materia probatoria non è puramenteesteriore, bensì sostanziale, poiché il filo logico, seguito dall’autore, è cheun’istruzione probatoria ed un’argomentazione davanti al giudice hannoragione d’essere, quando esiste una materia di indagine e di contrasto, ossiauna quaestio; mentre quando qualcosa ha eliminato la suddetta questio, come‘‘l’auctoritas rei judicatae’’, viene a mancare la ‘‘res dubia’’ che possa‘‘queri apud iudicem’’. Ma l’elaborazione più compiuta e matura della teoriache collocava il fondamento giuridico dell’intangibilità del giudicato sulterreno probatorio, identificandolo in una presunzione di verità iuris etde iure, si ebbe nella seconda metà del XIII secolo, con l’opera di Jacquesde Révigny che scrisse: «sed contra res iudicata habetur pro veritate. Si habetispro veritate, non est veritas; ...Unde praesumptionem inducit iuris et deiure sententia condemnatoria. Et eodem modo in absolutoria sententia iudexabsolvit reum ...inducit praesumptionem iuris et de iure»( 30 ).Nel XVII secolo, anche se ancora prevaleva nel pensiero dei giuristi ilricorso alla presumptio iuris et de iure per giustificare giuridicamente il giudicato<strong>penale</strong>, cominciarono ad affacciarsi al dibattito dottrinale posizionieterodosse, che spostavano la ricerca del fondamento giuridico dal terrenoprobatorio a quello sostanziale. In questo periodo, infatti, si esprimeva incisivamenteil giurista genovese Scaccia con queste parole: «res iudicata diciturilla, quae habetur pro veritate, l. 207 ff. de reg.iur. et l. ingenuum ff. destatu homin.,et ideo facit ius, quod non potest retractari, quia facit de albonigrum, originem reat, equat quadrata rotundis, naturalia sanguinis vinculaet falsum in verum quoad iuris effectum, licet non essentialiter, mutat, et ideonon est curandum qualiter se habeat veritas»( 31 ).Nel corso del XVIII secolo questo modo di concepire il fondamentodell’intangibilità del giudicato, pur con varianti verbali, si diffuse in tuttal’Italia. In questo periodo De Luca affermava con sicurezza: «licet sententia,sive unica, sive trina quae in iudicatum transitum fecerit, pro lege habendasit, neque ulteriorem admittat impugnationem, idoque faciat de albo nigrum,seu ens de non ente, atque firmet statum»( 32 ). La massima ‘‘res iudicatapro veritate accipitur’’ non fu più intesa nel senso che il giudicato, operandosul terreno probatorio, producesse una praesumptio iuris et de iuredi verità; bensì nel senso che l’accertamento prodotto dalla sentenza definitivasi sovrapponesse alla verità della natura delle cose, rendendola irrilevante.Dunque, tra il XVII e XVIII secolo, la massima di Ulpiano, pur spiegandoancora una funzione essenziale nell’inquadramento del giudicato pe-( 30 ) Jacques de Révigny, Lectura super codice, Parigi, 1519.( 31 ) Scaccia, Tractatus de sententia et re judicata, Venezia, 1629.( 32 ) De Luca, Theatrum veritatis et iustitiae, Venezia, 1726.


SAGGI E OPINIONI241nale, non era, però, più intesa nel senso che la ‘‘res iudicata’’ si avesse perverità e creasse addirittura una presunzione invincibile di verità; bensì inquello che essa costituiva una nuova situazione giuridica, che stava al postodella verità. L’abbandono, ormai quasi totale, della teoria della praesumptioiuris et de iure come giustificazione del giudicato e della sua intangibilità,lasciò un vuoto nel dibattito dottrinale. Nel contempo, però, fu chiaro atutti che il fondamento giuridico andava ricercato non più su un piano formaleed esteriore come quello probatorio, bensì in una radice sostanziale,recuperando così la concezione di epoca romana, che i giuristi medievaliavevano abbandonato.La prima teoria che attribuì al fondamento del giudicato natura sostanzialefu frutto della elaborazione di Savigny. Nella prima metà delXIX secolo, egli, analizzando la massima ulpianea ‘‘res iudicata pro veritateaccipitur’’, affermò che la giustificazione giuridica del giudicato risiedeva inuna «finzione giuridica di verità»( 33 ). Secondo Savigny, infatti, la sentenzadefinitiva e irrevocabile creava una situazione giuridica sostanziale nuova,che operava nell’ordinamento come se fosse la ‘‘verità naturale’’.Un contributo fondamentale al dibattito dottrinale sulla giustificazionegiuridica del giudicato <strong>penale</strong> e della sua irrefragabilità venne offerto daArturo Rocco. Egli fece partire la sua riflessione dalla definitiva demolizionedelle teorie della praesumptio iuris et de iure di verità e della finzione diverità come fondamento del giudicato. Innanzitutto Rocco osservò chequeste due teorie erano state originariamente elaborate per giustificare giuridicamenteil giudicato civile e poi trasportate nel campo della procedura<strong>penale</strong> per dare il medesimo fondamento giuridico al giudicato <strong>penale</strong>.Rocco eccepì che queste operazioni speculative non potevano essere corretteper il fatto che nel giudicato <strong>penale</strong>, a differenza che in quello civile,sono coinvolti la vita, la libertà e l’onore dell’uomo; e ciò richiedeva che lateoria che cercasse di rintracciare la radice giuridica del giudicato <strong>penale</strong>prendesse in considerazione direttamente ed esclusivamente il fenomenodell’intangibilità delle sentenze penali irrevocabili. Per Rocco, inoltre, l’affermareche l’intangibilità del giudicato si fondava su una presunzione diverità o su una finzione di verità era solo uno spostare e non risolvere laquestione del fondamento del giudicato, perché in tal maniera restava ancorada spiegare su che cosa si fondassero quella presunzione o quella finzione.Infine, per Rocco, abbracciando queste teorie si veniva a delineare ilgiudicato come un istituto giuridico che serviva a legittimare normalmentel’errore, quasi un «marchio genuino di una merce contraffatta»( 34 ). Rocco,per costruire la sua teoria, parte da una considerazione: la verità della na-( 33 ) Savigny, System des heutigen römischen rechts, 1853, p. 285.( 34 ) Rocco, op. cit., p. 233.


242SAGGI E OPINIONItura delle cose non esiste, perché tutto quanto l’uomo percepisce ha un valoresoggettivo, in quanto imperfetti e fallibili sono i mezzi umani di cognizionedella realtà. Dunque, l’accertamento operato da una decisione giudiziariairrevocabile è in re ipsa conforme alla verità, è l’unica verità esistente,la verità umanamente conseguibile. L’intangibilità del giudicato <strong>penale</strong> trovala sua giustificazione nel fatto che il giudicato è la verità, quale fu giuridicamenteaccertata, e segna perciò il raggiungimento dello scopo e dellafine del processo con l’armonia dei due supremi interessi procedurali. Essoè il «suggello della giustizia che ha fornito il suo compito e dato il suo responso»(35 ). Per Rocco tutto ciò lo avevano ben presente anche gli antichiromani quando coniarono la massima ‘‘res iudicata pro veritate accipitur’’.Infatti, per Rocco, con questa frase essi non intesero imporre ai cittadiniuna norma obbligatoria, sia pure sotto forma di presunzione o di finzione,ma vollero solo costatare un fatto che per loro era evidente e incontestabile,cioè, che il giudicato era per tutti come la verità; se non fosse stato così nonavrebbero detto ‘‘accipitur’’ ma ‘‘accipiatur’’ o in altro modo simile. PerRocco il giudicato <strong>penale</strong> «si innalza e si purifica; è quasi la religione dell’umanagiustizia»( 36 ).Questa teoria di Rocco ebbe molto successo e si affermò per lungotempo nel dibattito dottrinale. Essa suscitò però la forte opposizione criticadi un insigne giurista, Francesco Carnelutti. Egli osservò come la giustificazionegiuridica del giudicato <strong>penale</strong> e della sua intangibilità andava ricercatain una ragione politica, in una ‘‘aliqua utilitas’’ e non in una ragionelogica in un ‘‘tenor rationis’’. Partendo da questa premessa lucida e corretta,che rimase un punto indiscusso per le riflessioni successive sul tema, egligiunse però ad estreme e inaccettabili conseguenze. Carnelutti sostenneche, mentre per il giudicato civile vi era un fondamento giuridico che risiedevanella certezza dei rapporti economici e sociali, ciò non era possibilerintracciarlo nel giudicato <strong>penale</strong>. Da questa contrapposizione tra i due istituti,come tra ‘‘essere e avere’’ egli fece discendere, de iure condendo, la necessitàdella conservazione del giudicato civile e l’opportunità dell’abolizionedel giudicato <strong>penale</strong>. Carnelutti fece ciò ponendo questi quesiti: «quandola posta in gioco non è la proprietà, tua o mia, ma puramente la mialibertà, qual è la contropartita del sacrificio che l’immutabilità impone allagiustizia della decisione?»( 37 ); ovvero: «se un lebbroso, sfuggito a una primadiagnosi, circola liberamente nella società basta il sospetto dello sbaglioper riacciuffarlo e sottoporlo a un nuovo esame e, viceversa quando si scopreche il ricoverato in un lebbrosario non è un lebbroso, nessun ostacolosi oppone alla sua liberazione; ma qual differenza passa, nei campi rispettivi( 35 ) Lucchini, Elementi di procedura <strong>penale</strong>, Firenze, 1899, p. 96.( 36 ) Rocco, op. cit., 1932, p. 243.( 37 ) Carnelutti, Contro il giudicato <strong>penale</strong>, inRiv. Dir. Proc., 1951, p. 291.


SAGGI E OPINIONI243del corpo e dello spirito, tra lebbroso e delinquente?»( 38 ). Questa teoriavenne demolita da una critica corrosiva quanto pertinente; si osservò infatticome «tutto un lato del problema, vale a dire la funzione di strumento dilibertà che è insita nel giudicato <strong>penale</strong>, fosse sfuggito all’autore»( 39 ) di essa,per nulla preoccupato dell’esigenza di evitare che l’innocente, semel suspectuse tuttavia assolto, resti, finché viva, «lo zimbello dei pubblici poteri,magari tirannici, parziali a lui nemici»( 40 ).In questo momento di fervente dibattito dottrinale sul fondamentodell’intangibilità del giudicato <strong>penale</strong> si colloca la riflessione di un illustregiurista, Giovanni Leone. Egli fa tesoro delle teorie del passato ed elaboraun pensiero che costituisce una pietra miliare della sensibilità e della culturagiuridica per qualsiasi operatore del diritto. Per Leone il fondamentogiuridico del giudicato <strong>penale</strong> e della sua intangibilità coincide esattamentecon il suo fondamento politico, perché, come egli osserva, non esiste unaradice ontologica di questo istituto, trattandosi solo di «un problema diconvenienza politica»( 41 ). Leone, inoltre afferma che: «a giustificazionedell’istituto del giudicato in <strong>penale</strong> certamente non possono richiamarsiquelle teorie che sono state elaborate esclusivamente per il giudicato civile.Non trattandosi, infatti, di una decisione che riguarda rapporti di dirittoprivato, non può dirsi che il giudicato serve ad assicurare un bene della vitaad una delle parti contendenti. Per quanto indubbiamente anche il giudicatocivile non sia affare privato...; non può negarsi che il problema del giudicato<strong>penale</strong> supera la limitata barriera della relazione tra due soggetti edinveste in pieno un superiore interesse della società: l’interesse dello Statoalla sentenza giusta»( 42 ). Partendo da queste importanti premesse Leonededuce un duplice fondamento del giudicato <strong>penale</strong>: l’autorità dello Statoe la sicurezza giuridica instaurata con la decisione irrevocabile, due aspetticonnaturali di un unico fenomeno: l’intangibilità del giudicato <strong>penale</strong> come«espressione della certezza del diritto nel caso concreto»( 43 ). In particolare,sotto il primo profilo, il giudicato <strong>penale</strong> garantisce l’esigenza «che lavoce del potere e dello Stato che giudica abbia una forza notevole, chenon diventi l’autorità giudiziaria un trastullo delle parti contendenti, enon sia ridotta all’ufficio di dar pareri meramente consultivi»( 44 ); sotto ilsecondo profilo, il giudicato <strong>penale</strong> garantisce «l’esigenza della fissità del( 38 ) Carnelutti, op. cit., p. 294.( 39 ) Allorio, Nuove riflessioni critiche in tema di giurisdizione e giudicato,inId., Sulladottrina della giurisdizione e del giudicato, Milano, 1957, p. 68.( 40 ) Allorio, op. cit., p. 69.( 41 ) Leone, Il mito del giudicato, inRiv. Proc. Pen., 1956, p. 173.( 42 ) Leone, op. cit., p. 173.( 43 ) Leone, op. cit., p.177.( 44 ) Coviello, De’ giudicati di stato, inArch. Giur., 1891, p. 175.


244SAGGI E OPINIONIdiritto, ovvero la necessità della permanenza di quello stato di pace che ladecisione ha voluto instaurare mediante la composizione degli interessi inconflitto»( 45 ). Stato di pace non soltanto tra persona offesa ed imputatoma anche e principalmente tra società ed imputato. «In sostanza il giudicato<strong>penale</strong> placa la aspettativa della società nei confronti di una notitia criminis;e placa l’aspettativa di giustizia dei soggetti del reato e di quegli altriindividui sui quali il reato incide direttamente»( 46 ). Si profila così un puntodi incontro tra diritto sostanziale e diritto processuale. L’immutabilità delgiudicato <strong>penale</strong> viene a costituire, infatti, uno strumento che attiene allastessa efficacia politica della legge <strong>penale</strong>, perché ogni insicurezza sulla definitivitàdell’accertamento del reato provoca sfiducia nella funzione stataledella persecuzione del crimine, sostitutiva della vendetta privata e satisfattricedel senso di giustizia della società.Dunque, possiamo concludere che, l’intangibilità del giudicato <strong>penale</strong>poggia su una saldissima base, su un principio cardine dell’ordinamentogiuridico, che affonda le sue radici in una profonda esigenza etica: la certezzadel diritto. Occorre, però, procedere ad una saggia delimitazione diconfini dell’immutabilità del giudicato <strong>penale</strong>. Essa, infatti, costituisce unodei pilastri della funzione giurisdizionale, la quale altrimenti rischierebbe difallire al suo scopo, dunque «rebus judicatis standum est»( 47 ). Ma l’immutabilitàdel giudicato <strong>penale</strong> «va depurata da tutti quegli elementi parossisticie irrazionali che hanno trasformato questo, che doveva essere un istitutodi salvaguardia della sicurezza giuridica, in una specie di castello turrito,tetragono ad ogni aspirazione di giustizia»( 48 ). Solo cosi l’irrefragabilitàdel giudicato <strong>penale</strong> contribuirà «a rendere il processo <strong>penale</strong> uno strumentosempre più affinato di giustizia, che è l’ansia dell’uomo e deve esserela grande aspirazione di uno Stato democratico»( 49 ).3. Il giudicato <strong>penale</strong> e la revisione.Il fondamento dell’intangibilità del giudicato <strong>penale</strong> è la certezza giuridicadi fronte ad un caso concreto, indispensabile condizione per unacomposizione armonica della società. Questa esigenza di carattere generalepuò prevalere facilmente sull’esigenza etica di giustizia, quando questa siariferita ad un interesse singolo e particolare. Ma, in uno stato democratico,l’esigenza di giustizia assume, decisamente, il carattere di interesse pubbli-( 45 ) Allorio, La cosa giudicata rispetto ai terzi, Milano 1935, p. 33.( 46 ) Leone, op. cit., p. 180.( 47 ) Fr. 12 § 3, De bonis liberatorum XXXVIII, 2.( 48 ) Leone, op. cit., p. 197.( 49 ) Leone, op. cit., p. 198.


SAGGI E OPINIONI245co. La democrazia, infatti, il regime della più ampia tutela della dignitàumana, non può tollerare che, in situazioni strettamente inerenti alla vitadell’uomo, possa una esigenza politica, una esigenza cioè afferente all’organizzazionedella società, schiacciare una vitale esigenza di equità che toccainteressi fondamentali della persona.Dunque, il rapporto tra la certezza del diritto e la giustizia, nel nostro ordinamentogiuridico, si pone sotto forma di conflitto tra due esigenze di interessegenerale di pari dignità, ed allora non è possibile semplicemente sacrificarneuna, ma è necessario cercare di armonizzarle, rispettandole entrambe.L’intangibilità del giudicato <strong>penale</strong> svolge una funzione certamenteessenziale nell’ordinamento giuridico: rendere concreta ed effettiva la legge<strong>penale</strong>. Essa, cioè, opera in modo che la tale legge non rimanga una astrattadichiarazione di norme, ma si traduca, nella realtà pratica delle azioni umanee delle relazioni sociali, in un atto imperativo certo e definitivo in relazionead un caso concreto.Affinché possa adempiere al meglio la sua funzione occorre, però, che l’intangibilitàdel giudicato <strong>penale</strong> venga mondata dalle esasperazioni e di queglielementi irrazionali, che hanno trasformato questo che doveva essere uno strumentodi tutela della certezza giuridica in un insormontabile ostacolo per qualsiasiaspirazione di giustizia. La lotta dell’uomo contro l’errore è, sia sul pianodella vita interiore dell’individuo, sia sul piano della vita organizzata della società,la più alta aspirazione, che contrassegna anche il grado di civiltà diunpopolo.In questa incessante e continua battaglia etica vi è un momento nel qualeall’ansia di giustizia deve essere posto un limite certo ed invalicabile. In questadirezione svolge la sua opera l’intangibilità del giudicato <strong>penale</strong> . L’errore chesta dietro di essa rimane coperto per sempre. Ma vi è anche un momento in cui«una specie di cinica legge di irreversibilità»( 50 ) non può sbarrare il passo allasopravveniente luce della verità; ed allora deve poter intervenire un istituto capacedi «scongiurare il pericolo che al rigore delle forme siano sacrificate le esigenzedella verità e della giustizia reale»( 51 ): la revisione. Essa costituisce unodei più delicati punti di equilibrio del nostro sistema processuale <strong>penale</strong>, il contemperamentotra una concezione esasperatamente formalistica della certezzadel diritto e la rinuncia alla stabilità ed alla sicurezza delle relazioni giuridiche.Attraverso l’istituto della revisione, infatti, l’ordinamento giuridico mira a realizzareuna non facile mediazione tra la rigida tendenza autoconservativa delgiudicato <strong>penale</strong> e la necessità di verificare l’ipotesi dell’errore giudiziario.La dottrina tradizionale configurava la relazione tra il giudicato <strong>penale</strong>e la revisione come una rigida antitesi, nella quale l’intangibilità del giudicatocostituiva la regola e la revisione invece rivestiva l’eccezione. Quindi( 50 ) Leone, op. cit., p. 197.( 51 ) De Marsico, Diritto processuale <strong>penale</strong>, Napoli, 1966, p. 328.


246SAGGI E OPINIONIper una esigenza di rispetto della intangibilità della sentenza <strong>penale</strong> irrevocabile,come conseguenza del valore preclusivo del giudicato, la revisioneera trattata con una sorta di diffidenza mista a timore. La dottrina sostenevache la revisione, essendo destinata a demolire il valore del giudicato, nonpoteva non avere un carattere estremamente eccezionale. Essa era, perciò,raffigurata «come una necessaria ed eccezionale ferita da infliggere alla cosagiudicata»( 52 ). Augenti, configurando la sentenza irrevocabile come unasalda e sicura costruzione, giungeva ad affermare che: «la revisione è il piccone,è quella che rescinde, che vuole abbattere, e tutti sanno quanto maisia difficile radere al suolo ciò che è stato costruito, cioè convincere di questanecessità, affermando che l’edificio è sbagliato e che un altro va innalzatoal posto del primo»( 53 ). La dottrina tradizionale, quindi, sostenevache l’istituto della revisione, anche se necessario per assicurare all’ordinamentogiuridico il mezzo con cui eliminare una sentenza ingiusta, dovevaessere contenuto rigorosamente in limiti di stretta necessità, rapportatiesplicitamente o implicitamente ad una «eccezionale gravità dell’ingiustizia»(54 ). A tal proposito Augenti diceva: «un giorno la vita smuove un mattonedell’edificio, fa crollare le fondamenta della decisione e gli uomini rimangonocauti, guardinghi, dubbiosi, vogliono, insomma l’evidenza, voglionoche il fatto non sia accaduto, o che sia certo che l’imputato nonlo abbia commesso, vogliono insomma non rimanere smarriti da una realtàimpetuosa che mostra come si siano ingannati e che il cuore, i pensieri, leparole degli uomini oscillano tra l’essere e il parere, tra ciò che è realtà e ciòche è illusione e che il confine tra questi due dati è permanentemente incerto»(55 ).A queste conclusioni giungeva la dottrina tradizionale, in quanto ritenevadi dovere inevitabilmente prendere in considerazione l’istituto dellarevisione in rapporto a quelli che sono gli effetti che il suo intervento provocasull’intangibilità del giudicato <strong>penale</strong>. La scienza giuridica tradizionaleesaminava questo aspetto della revisione come se fosse quello determinanteper la sua indagine conoscitiva, confondendo lo scopo dell’istituto nel quadrofinalistico della politica legislativa, con la sua essenza, che restava inombra. Partendo da questa premessa ed inteso il giudicato <strong>penale</strong> come«una forza costitutiva e costruttiva, che introduce nel mondo del dirittoqualcosa di nuovo e allo stesso modo di fermo, irrevocabile, di definivo»(56 ), un dato cioè certo e assoluto, non si poteva coerentemente non( 52 ) Sabatini, Principi di diritto processuale <strong>penale</strong> italiano, 1949, p. 353.( 53 ) Augenti, Lineamenti del processo di revisione, Padova 1949, p. 7.( 54 ) De Marsico, Lezioni di diritto processuale <strong>penale</strong>, 1952, p. 284.( 55 ) Augenti, op. cit., p. 8.( 56 ) Cesarini Sforza, Il problema dell’autorità, inBollettino dell’istituto di filosofiadel diritto 1940, p. 13.


SAGGI E OPINIONI247ammettere che la revisione fosse una rimedio eccezionale. Anche quando,più saggiamente, la dottrina tradizionale poneva come presupposto dellasua indagine conoscitiva la necessità di considerare la revisione separatamenterispetto al giudicato <strong>penale</strong>, ciò non avveniva con la consapevolezzadella completa autonomia ontologica dei due istituti, ma sulla base di unaimpostazione, che aveva, come premessa essenziale, il dato assoluto e indiscutibiledella immutabilità del giudicato <strong>penale</strong>, in conseguenza del suocarattere di ‘‘verità legale’’. La revisione veniva così configurata comeuno strumento giuridico mirante alla dimostrazione dell’inesistenza di ungiudicato conforme, «nei presupposti e in relazione all’esercizio normaledella giurisdizione, all’istituto voluto dalla legge»( 57 ). Da ciò derivavache, secondo questa concezione, la revisione poteva intervenire solo dovevi fosse stata una parvenza di giudicato e non un giudicato vero e proprio,che, per il fatto di essere destinato ad assumere il valore di verità legale,non poteva formarsi su una decisione suscettibile di revisione.Dunque l’idea della dottrina tradizionale, secondo cui la revisione costituivaun rimedio straordinario di natura anomala, presupponeva che,nella vita del diritto, la regola fosse costituita dal giudicato esatto e l’eccezionedal giudicato errato. Una ipotesi questa, smentita dalla logica primaancora che dal diritto, e che poteva essere condivisa solo a patto di una incondizionatafede nel valore dell’intangibilità del giudicato. La dottrina ritenevainfatti di dovere assegnare «un valore di principi assoluti alla immutabilitàed alla certezza che promanano dal giudicato <strong>penale</strong>»( 58 ). Era questoil punto debole della costruzione.Per poter comprendere in maniera autentica il rapporto che lega il giudicatoe la revisione occorre preliminarmente rigettare l’idea tradizionale dell’intangibilitàdel giudicato come principio assoluto e incontestabile; e riconoscere,viceversa, che l’esigenza di assicurare la certezza del diritto nel casoconcreto non può essere intesa in modo così radicale, da raffigurare il giudicatocome un rigido sbarramento all’insorgenza di qualsiasi istanza di giustizia.Esso è solamente un limite posto per necessità pratiche «in quel momentodelle vicende processuali in cui è probabile che oramai si sia fatto abbastanzaper scoprire la verità vera, che se ancora non si è scoperta neppureè da confidare in un migliore esito di esami e riesami ulteriori»( 59 ). Il giudicato<strong>penale</strong> riguarda una decisione del giudice così come si è formata nell’esamedel fatto portato alla sua conoscenza ed, in quanto impedisce una rivalutazionedegli stessi elementi che hanno concorso a formare tale decisione,esso è e deve essere immutabile. Se si ammettesse la possibilità di «introdurreun riesame degli elementi di giudizio sui quali si è basata la decisione irrevo-( 57 ) Jannitti Piromallo, La revisione dei giudicati penali, Roma, 1947, p. 20.( 58 ) Dalia, Le nuove norme sulla revisione, inRiv. It. Dir. Proc. Pen., 1965, p. 799.( 59 ) Tolomei, Riapertura dell’istruzione e revisione, inSc. Pos., 1934, p. 101.


248SAGGI E OPINIONIcabile, l’esigenza di sicurezza giuridica o lo stato della pace sociale, raggiuntacon il giudicato, potrebbe essere scossa»( 60 ). Ma la certezza e l’immutabilità,come attributi consequenziali di una pronuncia definitiva, non possono oltrepassarela decisione e coprire una realtà diversa, non ancora scoperta equindi non ancora giudicata. Se infatti dovesse risultare che il giudizio nonpoteva essere corretto, essendo emerso che esso aveva dovuto ignorare degliulteriori elementi, che se conosciuti avrebbero portato alla formazione di ungiudizio diverso, allora non sarebbe lecito invocare l’intangibilità del giudicato,per impedire l’esame dei suddetti nuovi elementi. Un istituto comequello del giudicato <strong>penale</strong>, costruito per la difesa della società, non devemai degenerare in una «paurosa preclusione alla luce della verità e della giustizia»(61 ). Quando si tratta di accertare l’ingiustizia di una sentenza irrevocabilenon già mediante il riesame del materiale del giudizio, bensì alla luce dinuovi elementi, «l’errore non può restare affogato nel mito del giudicato»(62 ).Questa prospettiva è l’unica che consenta di comprendere veramenteil rapporto che lega la revisione ed il giudicato <strong>penale</strong>. Essi, pur essendodue istituti autonomi di pari dignità, si pongono nell’ordinamento giuridiconon come concetti antitetici ma come due entità complementari, al fine ditutelare il medesimo supremo interesse: la certezza del diritto. Il giudicatoe la revisione, nel sistema <strong>penale</strong> italiano, si completano a vicenda: il primogarantisce la certezza giuridica di fronte ad un caso concreto; la seconda,invece, assicura che la condanna appaia sempre legittima, costituisca cioè,durevolmente, l’applicazione rigorosa della legge <strong>penale</strong> e non si ponga maicome conseguenza di un giudizio rivelatosi in contrasto con essa. Oppostosemmai può sembrare il bene giuridico particolare che è alla base dei dueistituti, perché nel giudicato è l’interesse della comunità a mantenere irrevocabilela decisione del giudice, mentre nella revisione è l’interesse individualedel condannato innocente a vedere riconosciuta la sua non colpevolezza.In conclusione, possiamo affermare che la revisione non deve essereintesa come una mera eccezione rispetto alla regola dell’intangibilità delgiudicato <strong>penale</strong>, bensì, occorre riconoscerle la dignità, il valore ed il ruolo,che l’ordinamento giuridico le riserva nel sistema processuale. Essa nonpossiede quel carattere di eccezionalità con cui la dottrina l’ha sempre descritta,trattandola con una sorta di diffidenza. La revisione è un istitutofondamentale che completa, garantisce e arricchisce di credibilità il giudicato<strong>penale</strong>, sottraendolo a quell’alone di sacralità metagiuridica, di cui essotende a circondarsi, per ricondurlo ad una più genuina dimensione giu-( 60 ) Leone, op. cit., p. 182.( 61 ) Leone, op. cit., p. 198.( 62 ) Leone, op. cit., p. 197.


SAGGI E OPINIONI249ridica, dove principi in apparenza antitetici, come la certezza del diritto e lagiustizia reale, convivono armonicamente.4. Il fondamento politico e giuridico della revisione.I legislatori di ogni tempo hanno avvertito la necessità etica di apprestareun qualche rimedio contro le decisioni che, dopo l’esperimento di tuttii mezzi ordinari di impugnazione, si fossero palesate ingiuste. A svolgerequesta nobile funzione non si sono rilevati adatti ed efficaci istituti comel’amnistia, l’indulto o la grazia, perché, a causa della loro natura essenzialmenteo prevalentemente politica, non riescono ad offrire una solida e nonarbitraria garanzia di giustizia.Lo strumento giuridico, che si è rivelato realmente capace di scongiurare«il pericolo che al rigore delle forme siano sacrificate le esigenze dellaverità e della giustizia reale»( 63 ), è il giudizio di revisione.Quando emergono fatti, prove, situazioni nuove, non valutate nel giudizioconclusosi con una sentenza irrevocabile, che se conosciuti, tempestivamente,avrebbero condotto al proscioglimento dell’imputato, si ritiene,allora, che la verità formale, contenuta nella decisione del giudice, debbacedere il passo alla verità reale e che il giudizio di revisione, in determinaticasi e con le dovute cautele, possa sconsacrare il giudicato al fine di rimuovereuna condanna ingiusta.Per potere inquadrare compiutamente l’istituto della revisione, la suafunzione all’interno del sistema processuale e, soprattutto, la sua relazionedinamica con il giudicato <strong>penale</strong>, occorre rintracciare e mettere in luce ilsuo fondamento giuridico. Se, infatti, non sembra revocabile in dubbioche il suo fondamento politico consista nell’eliminare una condanna ingiusta,è necessario però stabilire se, nell’ordinamento giuridico, la revisionecostituisca l’antidoto alla decisione errata o, piuttosto, sia lo strumento empiricodi rilevazione dell’errore giudiziario. Occorre, perciò, distogliere l’attenzionedallo scopo dell’istituto, nel quadro finalistico di politica legislativa,e rivolgere una attenta indagine conoscitiva verso l’essenza della revisione.Riguardo al fondamento giuridico di questo istituto, nel dibattito dottrinaleè possibile rintracciare due costruzioni, che si confrontano e si contrappongono,confutandosi a vicenda: l’una, tradizionale, per la quale la revisionesarebbe il rimedio giuridico predisposto dall’ordinamento per eliminarel’errore giudiziario; l’altra, più recente, per la quale la revisione sa-( 63 ) De Marsico, Diritto processuale <strong>penale</strong>, Napoli, 1966, p. 328.


250SAGGI E OPINIONIrebbe, invece, un istituto volto ad assicurare la coerenza dell’ordinamentogiuridico, ed attraverso ciò la certezza del diritto.In particolare, la dottrina tradizionale sostiene che «il concetto di revisionepostula quello di errore, in senso lato, come falsa rappresentazionedella realtà»( 64 ). Questa costruzione teorica svolge le sue riflessioni partendoda alcune lucide ed attente considerazioni. Innanzitutto, il diritto rispondead esigenze pratiche e la fallibilità èuna componente imprescindibile dellanatura umana. Pur prevenuto attraverso mille cautele ed accorgimenti,l’errore ha sempre la possibilità di manifestarsi nella vita del diritto. È saggioe ragionevole, quindi, arrendersi all’inevitabilità dell’errore giudiziario, ilquale consiste nell’insufficiente raggiungimento della verità attraverso unprocedimento giurisdizionale di accertamento. Mai, infatti, esso potrà esserescongiurato del tutto, anche se certamente tecniche di attingimento della veritàsempre più moderne e sofisticate potranno diminuirne l’incidenza statistica.Una volta che l’errore giudiziario sia stato accettato come accadimentonaturale, secondo la dottrina tradizionale, è assolutamente doverosoprovvedere a disciplinarlo pienamente e tramite criteri giuridici razionali. Adifferenza dell’errore interno al procedimento, che nel processo stesso ha isuoi correttivi, l’errore giudiziario che si fonda su documenti, prove e risultanzenuovi non conosciuti nel corso dell’iter giudiziario conclusosi con lacondanna irrevocabile, trova rimedio nell’istituto della revisione. «La improvvisaapparizione di situazioni sconosciute a quanti credevano di possederela verità o la sopravvenienza di fatti lontani da ogni normale previsioneinducono a rivedere tutto quanto prima era apparso fisso ed immutabile»(65 ).Sulla base di queste considerazioni la dottrina tradizionale configura larevisione come «un rimedio che gli uomini escogitano perché scompaia o siattenui quella opposizione violenta, che talvolta si manifesta, tra la finzionedel giudicato e la spontaneità della vita»( 66 ). Il diritto, attraverso la revisione,contempla l’errore, l’ingiusto; invece di averne timore o vergogna, l’ordinamentone fa occasione per un nuovo procedimento, che però nondàluogo ad una quarta istanza, in quanto si fonda sulla novità dell’accertamentoprobatorio. La revisione, pertanto, non è destinata ad inficiare la funzionegiurisdizionale, ma a disciplinare come, dove e quando l’errore possa esserevagliato ed eventualmente corretto. Del resto, «una giustizia che riconoscei propri torti e si corregge è una giustizia sublime, è una giustizia cheaccusa e giudica se stessa»( 67 ). Certamente, la revisione può adempiere questoruolo più facilmente negli ordinamenti democratici. In quelli autoritari,( 64 ) Augenti, Lineamenti del processo di revisione, Padova, 1949, p. 1.( 65 ) Augenti, op. cit., p. 1.( 66 ) Augenti, op. cit., p. 6.( 67 ) Arena, la revisione dei giudicati, Torino, 1910, p. 433.


SAGGI E OPINIONI251infatti, pur non lesinandosi la grazia, stenta ad essere riconosciuto e garantitoun simile mezzo giuridico in grado di correggere l’errore giudiziario, equesto, o perché si attribuisce alla tutela della dignità umana ed al rispettodella giustizia un valore minimo, o perché viene respinta, aprioristicamente,l’ipotesi di errore giudiziario, annegandolo nel mito del giudicato: «il despotanon sbaglia; la sua decisione irrevocabile è lo scudo contro ogni errore»(68 ). Dunque il fondamento della revisione è presentato dalla dottrinatradizionale, esclusivamente, come una questione di giustizia. Sul presuppostoche nel processo <strong>penale</strong> «non si controverte intorno ad un bene dellavita, secondo l’espressione chiovendiana, che entra a far parte del commerciogiuridico, bensì intorno al valore di un uomo, che è il vero protagonistadel dramma <strong>penale</strong>»( 69 ), la revisione viene delineata come una figura giuridicaautonoma, quasi sganciata dal sistema processuale e dominata esclusivamentedall’esigenza etica di giustizia. Tale esigenza dello spirito di superarel’astrattezza, la rigidità e l’insensibilità del diritto è ciò che, per la dottrinatradizionale, dà alla revisione il potere di infrangere l’intangibilità delgiudicato, quando emerge una contrapposizione tra i fatti stabiliti nella motivazionedi condanna e l’accertamento di fatti nuovi. «Nel processo <strong>penale</strong>l’immutabilità del giudicato mantiene un ruolo di primo ordine solo perchéun uguale ruolo è assegnato all’istituto della revisione: una specie di contravvelenoda usarsi quando la verità, che dovrebbe essere pura come l’acqua,appare inquinata»( 70 ) dall’errore giudiziario.Questa è la costruzione teorica che la dottrina tradizionale ha elaboratoriguardo il fondamento giuridico della revisione nel sistema processuale<strong>penale</strong>. Contro tale formulazione è insorto un orientamento speculativoche, lentamente ma in maniera inesorabile, ha conquistato considerazionee consensi. La dottrina moderna, infatti, si è opposta all’idea di potere individuarela giustificazione giuridica della revisione, semplicemente, nell’esigenzadi correggere l’errore giudiziario. Prima di procedere ad erigere lasua costruzione teorica riguardo il fondamento della revisione, essa, però,ha rivolto la sua attenzione a confutare i principali argomenti addotti dalladottrina tradizionale a sostegno della concezione della revisione come «rimedioalla opposizione violenta tra forma e realtà»( 71 ). La dottrina modernaha, innanzitutto, eccepito che il rappresentare la revisione solo come rimedioalla ingiustizia significa analizzare esclusivamente il suo profilo politicoe rinunciare ad avere, quindi, una visione completa dell’istituto, perchévengono, inevitabilmente, trascurati tutti gli aspetti formali che unqualsiasi mezzo processuale, per sua natura, sempre possiede. Essa ha,( 68 ) Vanni, «Revisione del giudicato <strong>penale</strong>», in Enc. Dir., XL, Milano, 1989, p. 159.( 69 ) De Luca, I limiti soggettivi del giudicato <strong>penale</strong>, Milano, 1963, p. 92.( 70 ) Augenti, op. cit., p. 2.( 71 ) Augenti, op. cit., p. 1.


252SAGGI E OPINIONIpoi, puntualizzato che la giustizia ed il diritto sono due concetti che dalgiurista devono, necessariamente, essere posti su due piani diversi, perchéla commistione tra pensiero giuridico e pensiero naturale conduce spesso asoluzioni parossistiche ed irrazionali. L’errore giudiziario, secondo la dottrinamoderna, non è un concetto tecnico-giuridico; «esso acquista la rilevanzadi una nozione tecnica solo per l’istituto della riparazione»( 72 ). L’affermazionedi Kelsen, secondo la quale «nella sfera del pensiero giuridiconon esiste persona condannata innocentemente»( 73 ), non è soltanto il corollariodi una concezione formalistica della certezza giudiziaria; è, piuttosto,la negazione che l’errore giudiziario sia un concetto di diritto. Comunque,anche accettando l’idea che l’errore giudiziario faccia pienamente partedell’ordinamento giuridico, il fare di esso il nucleo causale della revisione,per la dottrina moderna, è inammissibile, «perché equivale a confondereil momento conclusivo del processo di revisione (iudicium rescissorium)con il momento iniziale (condizioni di ammissibilità del iudicium rescindens).... Sentenza ingiusta non costituisce, di per sé, un concetto giuridico,ma lo diventa soltanto mediante la revisione; prima non esiste, esiste solo ilgiudicato»( 74 ). Infine, la dottrina moderna ha osservato che se l’errore giudiziariofosse, veramente, non solo la ragione di politica legislativa che ispirala revisione, ma anche e soprattutto la base concettuale di questo istituto,non sarebbero neppure concepibili, dal punto di vista puramente logico,dei limiti tassativi alla possibilità di intervento della revisione sul giudicato.Con queste osservazioni attente e precise, la dottrina moderna si èadoperata per demolire la teoria che configurava la revisione come estremorimedio per la correzione dell’errore giudiziario, liberando così il terrenoper poter far sorgere una diversa costruzione teorica capace di risolvere,in maniera più aderente al dato normativo e sistematico, il problema delfondamento giuridico della revisione.Secondo la dottrina moderna, per riuscire ad individuare la giustificazionegiuridica della revisione, occorre, inevitabilmente, risalire al concettodi certezza del diritto, valore fondamentale e struttura portante dell’ordinamentogiuridico. Essa è presa in considerazione, comunemente, solo dall’angolovisuale delle norme giuridiche. Ma tale rappresentazione è decisamenteinsufficiente e parziale. L’ordinamento giuridico, infatti, non si esauriscein un complesso di norme, anche se questo ne costituisce l’aspetto essenziale,ma risulta da tutta l’esperienza giuridica nel suo complesso. Dunque,l’esigenza di certezza giuridica non si manifesta solamente nei con-( 72 ) Cristiani, La revisione del giudicato nel sistema del processo <strong>penale</strong> italiano, Milano,1970, p. 104.( 73 ) Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, Milano, 1959, p. 139.( 74 ) Cristiani, op. cit., p. 103.


SAGGI E OPINIONI253fronti delle norme, anche se per esse, in quanto regole di condotta generali,è più palese, ma riguarda tutti i settori della vita del diritto, dagli atti normativigenerali ed astratti agli atti individuali e concreti. La certezza giudiziaria,in particolare, è quella che si ottiene dall’esercizio della funzione giurisdizionale.Essa si caratterizza perché contiene in sé elementi ed aspettilogici, psicologici e morali. «La certezza che si esprime attraverso il comandoparticolare non è mai soltanto derivazione di un atto razionale, ma risenteanche inevitabilmente di giudizi, di esperienze e di fattori psicologici.Ciò, forse, rende la certezza giudiziaria meno rigorosa sotto il profilo logico,ma più ricca di valori morali»( 75 ). Dunque, si può concludere che lacertezza giuridica nasce sia dalla uniforme interpretazione delle norme generali,sia dalla immutabilità di quelle individuali. Ma tale certezza ha unnemico inesorabile che rischia di compromettere e vanificare ciò che essa,lentamente, costruisce: le antinomie. «Quando due atti normativi o due attiindividuali si contraddicono, la certezza del diritto è compromessa; e dalpunto di vista sostanziale l’ordinamento giuridico rischia, perlomeno inquel settore, di mancare al suo scopo»( 76 ). Da ciò sorge l’assoluta necessitàdi eliminare e prevenire, ove possibile, le antinomie. In questa direzionel’ordinamento giuridico impegna, sistematicamente, tutto sé stesso e si servedi molteplici e diversificati strumenti. Basti pensare, per quanto riguardagli atti normativi, al principio di abrogazione tacita per l’incompatibilità trala legge anteriore e quella posteriore, contenuto nell’art. 15 delle preleggi.In questa opera di repressione delle antinomie, l’ordinamento giuridico si èmostrato particolarmente sensibile verso l’esigenza di certezza nel campodell’attività di giurisdizione. La contraddittorietà dei giudicati è stata edè considerata una delle più importanti cause in grado di comprometterela certezza del diritto e, per questa ragione, essa è stata sempre puntualmentedisciplinata e combattuta. Ma tale contraddittorietà non è l’unicache può rilevare, per la sua azione nefasta, nel campo del corretto eserciziodella giurisdizione <strong>penale</strong>. Una grave ferita all’ordinamento giuridico puòderivare anche dall’antinomia tra la sentenza definitiva e la sopravvenienzadi nuovi fatti rilevanti sullo stesso oggetto di accertamento. La collettività,infatti, considera, istintivamente, il giudicato come verità dichiarata e incontestabilee quindi come razionalità del comando particolare, ma ciò solamentefino a quando altre fonti di conoscenza, altri elementi di certezzanon ne mettano in crisi il fondamento. «Il momento del giudicato determinauna certezza operante nella psicologia collettiva come elemento del sentimentodi sicurezza giuridica; tuttavia l’eventuale sopravvenienza di altrefonti di certezza può creare una situazione insuperabile di antinomia fra( 75 ) Cristiani, op. cit., p. 10.( 76 ) Cristiani, op. cit., p.9.


254SAGGI E OPINIONIla certezza dichiarata in una sentenza ed altre certezze con quella incompatibili,onde l’ordinamento positivo deve provvedere ad eliminarla, anche aprezzo di sacrificare, eccezionalmente, l’autorità della cosa giudicata»( 77 ).La revisione è proprio lo strumento giuridico, che l’ordinamento appresta,affinché possa esser raggiunto tale obiettivo fondamentale, per una organizzazionearmonica della società.Dunque, secondo la dottrina moderna, il fondamento giuridico dellarevisione risiede nella necessità di porre nel nulla il valore del giudicato <strong>penale</strong>,quando, per cause sopravvenute, gli effetti della sentenza definitivanon sembrano coincidere più con la certezza giuridica. La sentenza che accogliel’istanza di revisione non demolisce, come può sembrare in apparenza,una certezza che dovrebbe essere intangibile, ma fisiologicamente sostituisceuna nuova certezza alla precedente, che già èstata distrutta dal rivelarsidi una antinomia. Riguardo alla relazione tra errore giudiziario e giudiziodi revisione, la dottrina moderna afferma che: «è fuori dubbio che larevisione serve a rimediare un errore giudiziario. Ma il primo sintomo rilevatoredell’esistenza dell’errore è una crisi della certezza che il giudicatodovrebbe possedere e che invece non sembra possedere. Se la diagnosi circal’esistenza della crisi è esatta, e attraverso la sentenza che si pronunziasull’istanza di revisione si elimina l’incertezza, non si può al contemponon eliminare anche l’ingiustizia»( 78 ).Dunque, si può concludere che entrambe le costruzioni teoriche sulfondamento della revisione attribuiscono a questo istituto una funzionedi prevalente attuazione di giustizia, mentre il vero ed unico punto di dissensotra di esse si riduce alla diversa rilevanza che riservano all’errore giudiziario.Comunque, dall’esame del dato normativo, l’unico elemento rilevanteper saggiare la fondatezza e l’attendibilità di una costruzione teoricadottrinale, se ne deve coerentemente desumere che il fondamento giuridicodella revisione risiede nell’esigenza di rimediare alla crisi della certezza giuridicache deve stare saldamente a base del giudicato, mentre l’eliminazionedell’errore giudiziario rappresenta, solamente, il risultato effettuale del giudiziodi revisione. Del resto, dal confronto, in chiave comparativa, tra lavecchia e la nuova disciplina della revisione emerge chiaramente che, mentrenella vigenza del codice di procedura <strong>penale</strong> del 1930 la rimozione delgiudicato avveniva già all’esito della fase rescindente, anticipando un risultatoche rischiava di essere smentito nel giudizio rescissorio, oggi, invece,solamente in caso «di accoglimento della richiesta di revisione, il giudicerevoca la ... condanna e pronuncia il proscioglimento, individuandone lacausa nel dispositivo» (art. 637, 1º comma, c.p.p.). Da ciò si deve dedurre( 77 ) Cristiani, op. cit.., p. 15.( 78 ) Cristiani, op. cit., p. 80.


SAGGI E OPINIONI255che l’istituto della revisione non è un mezzo di rimozione del giudicato, alfine di accertare l’esistenza di un errore giudiziario, ma è un strumento giuridicovolto, direttamente e principalmente, a sostituire una nuova certezzaalla precedente, che stava a base del giudicato, quando quest’ultima si èdissolta a causa del nefasto manifestarsi di una grave antinomia.Francesco Callari


STUDI E RASSEGNE257Studi e rassegneL’OGGETTO TUTELATO NELLE FATTISPECIE PENALIIN MATERIA DI RELIGIONE (*)( 1 )1. Una riflessione attuale sul tema del bene giuridico tutelato dalle fattispeciecodicistiche in materia di religione non può che prendere l’abbriviodalla sentenza della Corte Costituzionale del 29 aprile 2005, n. 168.Espungendo l’ultima sacca di ‘‘privilegio’’ riservata alle offese alla religionecattolica rispetto a quelle recate agli altri culti ammessi – quella ancòracontemplata dall’art. 403 c.p. – e recidendo, per tale via, l’ultimo legamecon le scelte di fondo ispiratrici della filosofia del codice Rocco nellarelativa disciplina di settore, questa decisione segna il definitivo commiatoda esse. E, al tempo stesso, spinge necessariamente ad interrogarsi sui duecorollari che in modo più immediato ne discendono: quello della ridefinizione,sulla scorta del passaggio compiuto, dell’oggetto di tutela dellefattispecie de quibus; e quello, che vi si riconnette strettamente, (collegatoal problema) della perdurante opportunità, in questo nuovo e differentecontesto, di figure autonome deputate a colpire con la sanzione <strong>penale</strong> leoffese a qualsivoglia tipo di religione.2. Sono evidenti le ripercussioni che il processo di equiparazione dellatutela <strong>penale</strong> riservata a tutte le religioni, portato a termine dalla sentenza168/2005, determina con riferimento al bene protetto dagli artt. 403 ss.c.p..Ricerche accreditate ne hanno messo a fuoco, parallelamente a quantoè riscontrabile in rapporto alle fattispecie penali a presidio della religionepresenti in altre esperienze, un’inequivoca bidimensionalità( 1 ).Da una parte, in effetti, la religione gode di una tutela <strong>penale</strong> in quan-(*) Il testo riproduce l’intervento svolto dall’autore nel corso del Convegno Religione,religioni: prospettive di tutela e tutela delle libertà, tenutosi a Pisa nei giorni 7 e 8 ottobre2005.( 1 ) Sulla duplice angolazione dalla quale si presta ad essere inquadrata la religione,quale bene tutelato dalle fattispecie penali poste a suo presidio, cfr. la lucida analisi di P.Siracusano, I delitti in materia di religione. Beni giuridici e limiti dell’intervento <strong>penale</strong>, Milano,1983, p. 67 ss..


258STUDI E RASSEGNEto ‘‘bene di civiltà’’( 2 ). Con questa formula si è soliti designare l’attitudinedella religione, qualunque essa sia, a fungere da fattore di coesione fra tutti imembri di una collettività, sì da agevolarne, appunto in forza di questo elementocomune che li avvince, il rispetto delle norme che lo Stato loro indirizza.In sostanza, l’omogeneità culturale radicata sul comune sentire religioso,sempre ovviamente che quest’ultimo non sia antinomico al contenutodelle pretese statuali, faciliterebbe la loro introiezione da parte dei rispettividestinatari. In quest’ottica, la religione vedrebbe quindi confermata la propriavalenza di instrumentum regni.Dall’altra, nondimeno, quale sia in concreto la religione cui spetta lafunzione di coagulare il consenso dei consociati e di cementarne i reciprocivincoli si può decidere solo sulla base del diritto ecclesiastico vigente in uncerto luogo e in un certo momento storico( 3 ). La tutela <strong>penale</strong> per tale viaaccordata ad una determinata religione piuttosto che a un’altra, fondandosiesclusivamente sulle scelte contenute nel diritto ecclesiastico di riferimento,ne disvela il preponderante ruolo di codeterminazione dell’oggetto di tutela;e, nel contempo, relega il diritto <strong>penale</strong> ad una funzione meramenteaccessoria rispetto alle statuizioni contenutevi. Così è infatti accaduto nellanostra esperienza, nella quale l’incondizionata supremazia riconosciuta daldiritto ecclesiastico alla religione cattolica non ha potuto che tradursi nelfarne l’oggetto privilegiato – rispetto a tutte le altre religioni – della tutela<strong>penale</strong> nella trama del codice del 1930.Proprio su questa seconda componente dell’oggetto di tutela delle ipotesicontenute negli artt. 402 ss. c.p. si sono via via( 4 ) abbattuti i colpi discure della Corte Costituzionale, la quale, precisamente a mezzo della sentenza168/2005, ne ha decretato la completa scomparsa. In effetti, due sonoi tòpoi argomentativi attraverso i quali la giurisprudenza della Corte ègiunta alla conclusione dell’illegittimità costituzionale della disciplina dequa, nella parte in cui, rifacendosi ai dettami del diritto ecclesiastico vigen-( 2 ) Il relativo concetto si trova efficacemente scolpito in P. Siracusano, I delitti inmateria di religione, cit., in particolare p. 59 ss..( 3 ) In argomento cfr. ancòra P. Siracusano, op. ult. cit., p. 69 e 71.( 4 ) Ripercorrendo in senso logico, prima ancòra che cronologico, le decisioni dei giudicicostituzionali richiamate nel testo, vanno ricordate le sentenze 329/1997 e 327/2002, rispettivamentedichiarative della illegittimità costituzionale degli artt. 404 e 405 c.p., nellaparte in cui assoggetta(va)no i fatti ivi previsti ad un trattamento sanzionatorio più severo,in quanto commessi a danno della religione cattolica, rispetto a quello previsto dall’art.406 c.p., per l’ipotesi in cui gli stessi fatti venissero commessi a danno di un culto ammesso;nonché la pronuncia 508/2000, contenente la declaratoria di illegittimità tout court dell’art.402 c.p., che contemplava il vilipendio della religione dello Stato.Per una considerazione approfondita, nonché preveggente, degli orizzonti delineatisi inmateria già a partire dalla decisione 329/1997 cfr. T. Padovani, La travagliata rinascita deidelitti in materia di religione, in Studium Iuris, 1998, in particolare p. 922.


STUDI E RASSEGNE259te, garantiva una tutela <strong>penale</strong> più intensa alle offese indirizzate alla religionecattolica rispetto a quella posta a presidio dei vulnera inferti alle altrereligioni. Da un lato vi è quello poggiante sull’art. 3, comma 1, Cost.che, garantendo identica tutela a tutti i cittadini ‘‘senza distinzione...di religione’’,interdice una valutazione differenziata delle offese loro recate, inrelazione ai culti che essi rispettivamente professano, la quale rinvenga appuntola propria ragione nella tipologia del culto professato. Dall’altro sicolloca quello che affonda le proprie radici nel c.d. principio di laicità delloStato, ricavabile dall’art. 8 Cost.. In sostanza, l’equiparazione di tutte le religioniinnanzi alla legge e il vincolo dello Stato a non intervenire per modificarnel’assetto, che vi sono consacrati, sarebbero invariabilmente contraddettida una legislazione che prevedesse un trattamento discriminatoriosul versante della tutela <strong>penale</strong> apprestata a favore dell’una o dell’altra afronte dell’identità delle offese che queste avessero rispettivamente a ricevere(5 ).Eliminate le sperequazioni di dosimetria sanzionatoria fra le offese aduna religione o all’altra, si staglia il quesito già prospettato in apertura diquesta indagine: qual è, nel quadro odierno, il bene tutelato dalle figurecodicistiche in materia di religione?3. Esce indenne – rectius, sembra uscire tale – dagli strali della CorteCostituzionale l’altro polo destinato, con quello or ora esaminato, a delineareil complessivo oggetto di tutela delle fattispecie penali in materiadi religione: quello della religione come bene di civiltà. Sorge spontaneo,allora, l’interrogativo: è possibile prospettare una legittimazione della permanenzadi tali fattispecie che faccia perno esclusivamente su di esso?Tenendo a mente quanto dianzi esposto sulle peculiarità della religionein questa prospettiva, id est sulla sua idoneità ad operare come fattore dicoesione fra i consociati capace di facilitarne l’adesione ai precetti statuali,è agevole inferirne come possa godere verosimilmente di questo predicatosoltanto la religione che è comune a tutti i membri della collettività; o,quanto meno, alla stragrande maggioranza di essi. Il che lascia intenderecome, in questa chiave, si presti a formare oggetto della tutela <strong>penale</strong> solola religione dominante in un determinato contesto storico-sociale. Chequesto dato finisca con il dar luogo ad aporìe insanabili con la parificazionedelle diverse religioni davanti alla legge <strong>penale</strong>, nella quale è sfociato il pluriennalecammino della Corte Costituzionale, appare di palmare evidenza.Questa acquisizione in ordine alle connotazioni che indefettibilmentedeve presupporre una religione, per poter rivestire i caratteri di un bene di( 5 ) Espliciti richiami al principio di laicità dello Stato, nei termini di cui al testo, si possonorinvenire nella sentenza 168/2005.


260STUDI E RASSEGNEciviltà ed usufruire, in quanto tale, di protezione <strong>penale</strong>, non costituisce,peraltro, l’unico ostacolo a ravvisare in un concetto di religione così ricostruitoun legittimo oggetto di tutela <strong>penale</strong>.Anche al di là dell’impiego della religione in termini di instrumentumregni e (dei pericoli) delle distorsioni in chiave autoritaria che vi sono insite,è lo stesso pluralismo religioso caratterizzante le società contemporanee, ilquale non è altro che l’ineliminabile pendant del multiculturalismo che lepervade, a rendere improponibile un ritorno all’identificazione nella religione,quale bene di civiltà, del bene tutelato dalle norme incriminatici postea suo presidio. Una tutela <strong>penale</strong> irragionevolmente sbilanciata a favoredi una delle religioni – sia pur quella di maggior impatto quantitativo – incampo si trasformerebbe in un univoco messaggio di intolleranza verso lealtre, che è proprio quanto il pluralismo in tema di religione adombratodalla Costituzione( 6 ) (e perfettamente metabolizzato dalla giurisprudenzacostituzionale in argomento) mira ad evitare.Scartato il recupero della religione come bene di civiltà nell’alveo delbene giuridico tutelato dalle fattispecie penali in subiecta materia, a causadel suo insanabile contrasto con le istanze di pluralismo promanati dal nostroquadro costituzionale, diventa allora di estremo interesse vagliare le soluzionielaborate da altre legislazioni, nello sforzo di coniugare il rispettoper i valori religiosi diffusi nella collettività con quello legato al pluralismodella loro espressione.4. È il modello tedesco, quale risultante dalla legge di riforma del 25giugno 1969, quello che ha suscitato il maggiore interesse della nostra letteraturain argomento, anche per la possibilità di trarne utili spunti in vistadi una revisione e/o di un definitivo superamento della disciplina dettatadagli artt. 402 ss. c.p.( 7 ).Provvedendo alla riscrittura del § 166 StGB, il legislatore (tedesco) del1969 vi ha contemplato il fatto di chi ‘‘pubblicamente o mediante la diffusionedi scritti vilipende il contenuto della confessione religiosa o ideologicadi terzi, in modo idoneo a turbare la pace pubblica( 8 )’’. Vero che la specifica(richiesta di una) nota di idoneità a turbare la pace pubblica incorporail tratto innovativo di maggior spessore del comportamento tipizzatodalla fattispecie, che non può non riverberarsi sulla determinazione del benegiuridico che vi è sotteso, resta parimenti assodato che la nuova confi-( 6 ) Sul significato del pluralismo, all’interno del globale disegno della nostra Costituzionee non solo per ciò che attiene alla materia religiosa, cfr., per tutti, G. Zagrebelsky,Il diritto mite, Torino, 1992, p. 11 ss..( 7 ) Ampie indicazioni al riguardo sono contenute in P. Siracusano, I delitti in materiadi religione, cit., p. 172 ss..( 8 ) Corsivo aggiunto.


STUDI E RASSEGNE261gurazione della norma si segnala pure per l’ampliamento dei possibili oggettimateriali della condotta. Oltre alle religioni, infatti, il vilipendio puòinvestire anche le ideologie. Certo, questo aspetto vale a conferire all’attuale§ 166 StGB una coloritura decisamente laica, depurandolo della valenzadiscriminatoria collegata ad una disciplina che assoggettava a sanzione <strong>penale</strong>i vilipendi indirizzati alle sole confessioni religiose e non quelli rivoltialle convinzioni ideologiche altrui. Nondimeno, l’allargamento dell’interventodel diritto <strong>penale</strong> suscita altresì preoccupazioni per la sua vocazionead estendersi su territori dai quali era consigliabile si ritraesse( 9 ), specieperché la sua proiezione a difesa di religioni e/o ideologie rischia inevitabilmentedi collidere con la libertà di opinione dei singoli, che tutti gli ordinamenticontemporanei puntano a salvaguardare. Questo tipo di preoccupazionifinisce, comunque, con lo stemperarsi al cospetto della funzionedelimitatrice dell’àmbito di operatività del § 166 StGB che alla c.d. clausoladi idoneità contenutavi si riconosce( 10 ).Di fatto, le problematiche legate all’individuazione del bene protettoda queste fattispecie vengono dissolte attraverso il mutamento di paradigmache le fa rifluire nell’alveo di quelle poste a tutela della pace pubblica;laddove la clausola di idoneità contenuta nel § 166 StGB, in quanto rapportataa tale ultimo bene, dovrebbe fungere da criterio di selezione trai fatti menzionati nella prima parte della norma che hanno rilevanza <strong>penale</strong>e quelli che, viceversa, non la possiedono.Centra prima facie il suo principale obiettivo, vale a dire quello di sancirel’abbandono di quella tutela <strong>penale</strong> della religione che appare incompatibilecon il consolidamento di impostazioni laiche e pluraliste( 11 ), la leggedi riforma del 1969. Ciò che si compie circoscrivendo la sfera di competenzadel diritto <strong>penale</strong> a quelle sole forme di offesa alla religione chepossono sfociare, appunto, in una messa in pericolo del bene giuridico(della) pace pubblica.Molto dubbio è, invece, che, in forza della combinazione fra il benetutelato, in tal modo riformulato, e la c.d. clausola di idoneità, a quest’ultimapossa attribuirsi quella valenza restrittiva dei comportamenti penalmenterilevanti che in astratto le si dovrebbe riconoscere. Questione, questa,non del tutto secondaria, se è vero che i fautori di una (ri)penalizzazionea tappeto delle offese alla religione non hanno mancato di elaborare( 9 ) Per questo genere di riserve cfr. P. Siracusano, I delitti in materia di religione,cit., p. 178 e nota 58.( 10 ) Riferimenti a questo tipo di considerazione si rinvengono in P. Siracusano, op.ult. cit., p. 187 e nota 95.( 11 ) Che questo fosse precisamente lo scopo perseguito dalla legge 25 giugno 1969 èesplicitato da Lenckner, in Schönke-Schröder, Strafgesetzbuch. Kommentar, XXVed., München, 1997, sub Vorbem § 166 ff., p. 1244.


262STUDI E RASSEGNEprogetti di riforma polarizzati proprio sull’eliminazione della clausola dequa, cui si imputava un’eccessiva delimitazione della sfera applicativa del§ 166 StGB( 12 ).Questo tema rimanda, a sua volta, a due campi d’indagine tuttaltroche scevri di difficoltà: quello della struttura del reato in parola e quellodel ruolo che vi gioca il bene tutelato.Scontata l’appartenenza del § 166 StGB alla classe dei reati di pericolo,è discutibile se, sulla base della formula che vi compare e ne fa un archetipodella categoria tutta tedesca dei reati di idoneità (Eignungsdelikte),esso vada inquadrato nel novero dei reati di pericolo astratto, di pericoloconcreto, o, addirittura, in un tertium genus( 13 ). Tutto dipende dal rapportofra il pericolo evocato dalla condotta tipica e quello richiesto dalla clausoladi idoneità. Se questa si limita a ribadire l’esigenza di un pericolo giàaffiorante da quella, è evidente che ciò spinge a ravvisarvi i segni di (un reatodi) pericolo astratto( 14 ). Visto che, in una tale evenienza, l’indicazioneproveniente dalla formula di idoneità nulla aggiunge rispetto alla tipizzazionedel pericolo già operata dal legislatore all’atto della descrizione dellacondotta rilevante, ne segue che il solo riscontro della tipicità del fatto èsufficiente ad attestarne la pericolosità, conformemente allo schema logicocui sono improntate tutte le fattispecie di pericolo astratto. In casi comequesto, la presenza della c.d. clausola d’idoneità risulta del tutto pleonastica.Il quadro muta, invece, quando il pericolo designato dalla clausola d’idoneitàrappresenta una concretizzazione del pericolo immanente alla realizzazionedella condotta tipica. In questa dimensione realmente aggiuntivarispetto a quest’ultimo, la sua ricorrenza dovrà essere giudizialmente accertata(15 ). Ciò ne fa un elemento costitutivo della fattispecie, necessario oggettodel dolo di chi ne integra gli estremi, in una logica che è quella del(reato di) pericolo concreto.Date queste premesse, bisogna adesso scendere all’esame della clau-( 12 ) Sul progetto di legge bavarese del 1986, orientato nel senso indicato nel testo, cfr.Fischer, Die Eignung, den öffentlichen Frieden zu stören –Zur Beseitigung eines ,,restriktiven‘‘Phantoms -, inNStZ, 1988, p. 159 s..( 13 ) Un’esaustiva rassegna delle opinioni in materia è fornita da Fischer, Das Verhältnisder Bekenntnisbeschimpfung (§ 166 StGB) zur Volksverhetzung (§ 130 StGB), inGA(Goltdammer’s Archiv für Strafrecht), 1989, p. 446 ss..Tralasciamo, in questa sede, di occuparci della tesi, invero del tutto isolata nella stessaletteratura tedesca, propensa a ravvisare nei c.d. delitti di idoneità una categoria autonomanell’àmbito dei reati di pericolo, perché ciò rappresenterebbe evidentemente un fuor d’operanell’economia di questo lavoro.( 14 ) Molto chiare, sul punto, le esemplificazioni esposte da Fischer, Das Verhältnis,cit., p. 448 ss..( 15 ) Che questa circostanza costituisca l’ubi consistam dei reati di pericolo concreto èacquisizione comune nella letteratura tedesca: al riguardo, cfr., per tutti, Cramer, inSchönke-Schröder, Strafgesetzbuch. Kommentar, cit., sub Vorbem §§ 306 ff., p. 2090.


STUDI E RASSEGNE263sola d’idoneità contenuta nel § 166 StGB. Qui si esige l’idoneità dellacondotta tipica (vilipendio, ecc.) a turbare la pace pubblica. La determinazionedel significato da attribuire in questo caso alla formula d’idoneitànon può prescindere, a questo punto, da una ricognizione, pur massimamentesuccinta, del contenuto del bene giuridico-pace pubblica nel sistematedesco.Nella portata ampia e generale che gli è coessenziale, questo suona comesinonimo di sicurezza giuridica pubblica. Adattato al contesto penalisticonel quale è calato, nel suo nucleo oggettivo esso designa la sicurezza ditutti i beni giuridicamente tutelati( 16 ). Se ne prospetta quindi una componentesoggettiva, additata da alcuni( 17 ) nella fiducia della maggioranza circail fatto che detti beni restino intatti; e intesa da altri, mediante una suatrasfigurazione in senso normativo, come un ‘‘dovere generale di volere’’che ciò accada, id est che detti beni vengano salvaguardati( 18 ). Qualeche sia la forma che si riconosce a questa seconda componente, rivestemaggiore importanza, ai fini che qui interessano, il versante oggettivo dellapace pubblica, del quale l’altro costituisce – come si è visto – soltanto unaproiezione soggettiva o normativa. Se per pace pubblica in senso oggettivosi intende la sicurezza che tutti i beni giuridici penalmente tutelati non subiscanolesioni, ne discende che questa risulterà turbata, rectius messa inpericolo, ogniqualvolta venga posto in essere un fatto suscettibile di evolverein un quid penalmente rilevante. Di fatto, si può quindi dire che ilbene giuridico della pace pubblica assolva alla funzione di duplicare, anticipandola,la tutela che ai beni giuridici penalmente salvaguardati è già offertada altre norme penali( 19 ). Per incidens, suggerisce accostamenti conl’oggetto sostanziale generico del reato di Arturo Rocco questo concettodi pace pubblica: l’esigenza di sicurezza di tutti i beni giuridici presidiatida norme penali sottostante a questo non è, in fondo, cosa diversa dall’interessedello Stato ‘‘alla sicurezza della propria esistenza’’, che è minata dallacommissione di qualsivoglia reato, postulato da quello( 20 ).Torniamo, a questo punto, al problema del significato da attribuire allaclausola d’idoneità prevista nel § 166 StGB. Alla luce delle acquisizioniappena raggiunte, sappiamo che il pericolo evocato da tale clausola è diportata talmente generale, da escludere radicalmente che vi si possa ravvi-( 16 ) In questo senso Fischer, Die Eignung, cit., p. 163; e, con maggiore incisività, ID.,Das Verhältnis, cit., p. 451.( 17 ) Su questo versante soggettivo (del concetto) della pace pubblica cfr., anche perulteriori riferimenti di letteratura e giurisprudenza, Lenckner, inSchönke-Schröder,Strafgesetzbuch. Kommentar, cit., sub § 126, p. 1087.( 18 ) Sottolinea il punto con particolare chiarezza Fischer, Das Verhältnis, cit., p. 451.( 19 ) Sul punto cfr. ancòra Fischer, op. ult. cit., ibidem.( 20 ) Art. Rocco, L’oggetto del reato e della tutela giuridica <strong>penale</strong>. Contributo alle teoriegenerali del reato e della pena, Milano-Torino-Roma, 1913, p. 555.


264STUDI E RASSEGNEsare una concretizzazione del pericolo immanente alle condotte descrittedalla prima parte del § 166 StGB. Donde il corollario che la norma in paroladelinea un’ipotesi di (reato di) pericolo astratto.Due indicatori lo confermano.Da una parte, il dato che nella prassi applicativa non constano casi neiquali sia stata esclusa la responsabilità a causa di un errore dell’agente, cheavesse ad oggetto precisamente l’idoneità della propria condotta a determinareil turbamento della pace pubblica, in applicazione del § 16 StGB( 21 ).Il che si armonizza perfettamente con la ricostruzione del § 166 StGB subspecie di reato di pericolo astratto, perché solo dei reati di pericolo concretoè propria la prerogativa che il pericolo per il bene protetto, in quantoelemento della fattispecie, debba formare oggetto del dolo del suo autore;sì che, correlativamente, l’errore che lo investe possa giovargli in forza del §16 StGB.E, dall’altra, il riscontro del modus procedendi invalso nella giurisprudenzatedesca in relazione all’integrazione della clausola d’idoneità figurantenel § 166 StGB. Emblematico, al riguardo, un arresto che, partendo dalpresupposto che da parte ‘‘della componente cattolica della popolazionenon si potesse pretendere l’accettazione’’ di un determinato insulto al propriocredo religioso, trae tout court la conseguenza che tale vilipendio ‘‘èidoneo a turbare la pace pubblica’’( 22 ). Il carattere del tutto apodittico dell’assuntone fa una vera e propria tautologia. In questo contesto, non pareazzardato asserire che, nel quadro del § 166 StGB, la clausola d’idoneità,lungi dal possedere una valenza restrittiva (nella cernita) dei comportamentipunibili, è ridotta in realtà a mera clausola... di stile. E che gli stessi progettidi riforma vòlti a sopprimerla, in ragione del suo presunto carattererestrittivo, altro non erano che battaglie dirette ad eliminare – come icasticamenteè stato scritto – quello che di fatto era un fantasma( 23 ).4 bis. L’azzeramento della clausola d’idoneità e la conseguente deduzioneche ad ognuna delle condotte descritte dal § 166 StGB si accompagniautomaticamente il turbamento della pace pubblica generano discrasìe palesifra gli intendimenti della riforma del 1969 e i suoi esiti applicativi.Quella puntava ad espungere le offese alla religione, in sé e per sé considerate,dall’àmbito del penalmente rilevante. Questi, nel momento in cui as-( 21 ) Rileva questo dato, nell’esperienza giurisprudenziale tedesca, Fischer, Die Eignung,cit., p. 161.( 22 ) La decisione è riportata da Fischer, Die Eignung, cit., p. 161 e nt. 24.( 23 ) Non a caso, il commento di Fischer, citato alla nota che precede, soffermandosisul progetto bavarese teso alla soppressione della clausola d’idoneità all’interno del § 166StGB, lo qualifica, già a partire dal suo titolo (cfr. antea nt. 12), come un’iniziativa rivoltaa rimuovere un Phantom, cioè – appunto – un fantasma.


STUDI E RASSEGNE265sociano indefettibilmente alle medesime l’attitudine a turbare la pace pubblica,finiscono con il farvele rientrare.A originare il paradosso è la stessa ricostruzione del bene giuridicodella pace pubblica, sopra delineata. Se per tale si intende, in senso oggettivo,la sicurezza che tutti gli altri beni giuridici penalmente tutelati nonvengano lesi, l’ammetterne l’offesa sulla sola base della realizzazione di vilipendialla religione equivale ad affermare che anche quest’ultima ricadafra i beni giuridici, già altrimenti tutelati, dei quali la pace pubblica devegarantire la sicurezza.Anche se è chiaro che un intento siffatto esulava dalle prospettive dellegislatore del 1969, contraddicendole anzi in modo manifesto, è nondimenoinnegabile che un risultato che vi corrisponde si associ ineluttabilmenteal completo svuotamento della clausola d’idoneità operato dalla giurisprudenza.Laddove, peraltro, sarebbe incongruo scaricare tutto il peso dellamancata corrispondenza fra intento e risultato della riforma sui giudicichiamati a farne applicazione. Ciò in quanto la constatata inoperatività dellaclausola d’idoneità è da riportare alla stessa formulazione del § 166StGB. In essa si rinviene, infatti, il germe di quella sua strutturazione inchiave di (reato di) pericolo astratto, che della clausola d’idoneità paralizzaogni efficacia.Bisogna, sulla scorta di queste considerazioni, dichiarare il fallimentodella svolta ‘‘laica’’ operata dalla legge di riforma tedesca del 1969? La conclusionesembra probabilmente eccessiva; ma è certo che, presente l’impulsodi eliminare le fattispecie penali poste a tutela esclusiva della religione,questo poteva essere sviluppato – come si vedrà – secondo criteri diversi daquelli effettivamente seguìti.Né a garanzia delle spinte alla laicità e al pluralismo sottostanti alla riformulazionedel § 166 StGB sembra poter essere un segnale significativol’accostamento ai vilipendi delle religioni di quelli aventi ad oggetto le ideologie.Anche a tacer del fatto che la rivendicazione di una tutela <strong>penale</strong> perqueste ultime risulta antinomica – il che vale anche per le religioni – a quelconsolidamento maturato per la spontanea adesione dei rispettivi aderentiche è loro essenziale( 24 ), resta il fatto che si tratta di una garanzia parzialee, per di più, storicamente datata. L’equiparazione alle religioni delle ideologie,sotto il profilo della tutela <strong>penale</strong>, smarrisce ogni senso in un’epoca,( 24 ) Puntualmente si rileva, nell’Alternativ Entwurf, che la salvaguardia garantita a certeconfessioni o a certe ideologie dall’intervento <strong>penale</strong> nei confronti delle offese loro recatepotrebbe convertirsi in un segnale della loro debolezza nell’affermarsi ex se presso i consociati.Ove, infatti, esse godessero di questa forza, non vi sarebbe necessità alcuna di imporreun’adesione obbligata ai loro valori mercé l’utilizzo dello strumento <strong>penale</strong> nei confronti diquanti non vi si riconoscano. Per i necessari riferimenti a quest’ordine di idee cfr. P.Siracusano, I delitti in materia di religione, p. 235-236 e nt. 34.


266STUDI E RASSEGNEcome quella attuale, nella quale le ideologie si sono ormai definitivamenteautoconsunte.5. Assodato che la via additata dal legislatore tedesco in sede di riformadelle fattispecie (già) poste a tutela della religione non convince, primadi prospettare altre soluzioni è bene tornare a soffermarsi sulla disciplinada noi tuttora vigente. Ciò permetterà, infatti, di metterne a fuoco profilidi incostituzionalità ulteriori rispetto a quelli fino ad oggi riconosciuti dallagiurisprudenza della Corte Costituzionale. E darà modo di metterli in contoal fine di elaborare una revisione globale della materia de qua, che non liignori e provveda a porvi adeguato rimedio.Lo sguardo si indirizza, in medias res, alla tipologia dei fatti efficienti adar luogo alla c.d. turbatio sacrorum di cui all’art. 405 c.p.. Riportato ancheil turbamento di funzioni della religione cattolica alla cornice sanzionatoriastabilita dall’art. 406 c.p., in luogo di quella più severa contenuta nell’originarioart. 405 c.p., dalla sentenza della Corte Costituzionale 9 luglio2002, n. 327, resta problematica l’equiparazione fra il fatto di impedimentoe quello di turbamento (sott.: di tali funzioni, a qualunque culto queste ineriscano)che vi compare.La questione risulta inesplorata negli orizzonti dei penalisti. Sorprenderelativamente la cosa, perché gli studi più approfonditi sulle fattispecie dequibus sono stati spesso appaltati agli ecclesiasticisti( 25 ). Eppure, che leespressioni ‘‘impedimento’’ e ‘‘turbamento’’ designino due forme ben distintedi offesa al bene istituzionale – nella concezione del codice Rocco– della religione traspare in modo lampante dalla Relazione ministerialesul relativo progetto( 26 ). Vi si legge, infatti, che ‘‘ogni doloso impedimentoo turbamento non può...non produrre una menomazione, effettiva o potenziale,della libertà di culto’’( 27 ). E, in ciò, è dato cogliere con immediatezzacome la limitazione effettiva di quest’ultima si abbini alla condotta di impedimento;mentre quella potenziale si associ a quella di turbamento.Del che si trova conferma inequivocabile nel passaggio sùbito successivodella Relazione: quello in cui si dice che ‘‘non è concepibile un impedimentoo turbamento’’, senza che ciò si risolva in una ‘‘lesione ounattentatocontro la legittima estrinsecazione del culto’’( 28 ).( 25 ) Si deve a M. Fiore, Il reato di «turbatio sacrorum». Contributo all’ermeneutica dell’art.405 c.p., Padova, 1978, la monografia più completa su questa norma.( 26 ) I tratti caratterizzanti l’impostazione del codice Rocco in materia di tutela dellareligione sono esposti con chiarezza da Manzini, Trattato di diritto <strong>penale</strong>, V ed., Vol.VI, Torino 1983 , p. 53.( 27 ) Questo passo della Relazione è riportato da P. Siracusano, I delitti in materia direligione, cit., p. 158; e da Manzini, Trattato di diritto <strong>penale</strong>, cit., p. 53, nt. 1.( 28 ) Per gli indispensabili riferimenti alla Relazione cfr., ancòra, P. Siracusano, op.ult. cit., p. 158 e nt. 255; Manzini, op. ult. cit., ibidem.


STUDI E RASSEGNE267Queste acquisizioni possono essere tradotte nel compendioso corollarioche l’impedimento e il turbamento delle funzioni religiose vanno intesi,rispettivamente, come eventi di danno edipericolo rispetto al bene tutelatodall’art. 405 c.p..Sviluppando ulteriormente l’indicazione della Relazione ministerialeda ultimo riportata, vale a dire quella alla cui stregua l’impedimento corrispondealla lesione del bene protetto e il turbamento ad un attentato al medesimo,emerge ictu oculi come l’espressione ‘‘attentato’’ non vada qui presaalla lettera, sì che il turbamento debba essere considerato come un delittodi attentato. Se così fosse, infatti, il turbamento, come fatto (ipoteticamente)diretto all’impedimento dell’esercizio di funzioni religiose (e salvaaltresì l’esigenza della sua idoneità all’uopo( 29 )), dovrebbe ex se dar luogoad un’ipotesi di delitto consumato( 30 ). Così, peraltro, non è, in quantol’art. 405 c.p. contempla, accanto alla situazione di pericolo delle funzioniin parola, l’impedimento delle medesime. Ciò posto, pare assai più plausibileritenere che la Relazione ministeriale, alludendo al turbamento in terminidi ‘‘attentato’’ nei confronti dell’esercizio del culto, abbia inteso riferirvisicome ad una forma di tentativo.Il che non manca di avere ripercussioni significative sulla (identificazionedella) struttura del reato enucleato dall’art. 405 c.p.. Essa sembra essere,precisamente, quella di un delitto nel quale il tentativo (il turbamento dellefunzioni) viene equiparato alla sua consumazione (il loro impedimento).Se e in quanto la si condivida, questa ricostruzione veicola un’aporìatuttaltro che indifferente nel sistema. Se ne ravvisa una prerogativa essenzialenell’indefettibile ancoraggio del reato ad un’offesa ad un bene protettoproprio nella disciplina del tentativo( 31 ); e, d’altra parte, questa si prestaanche ad essere letta come una conferma dell’ispirazione oggettiva del sistema,laddove prevede che alla meno grave offesa al bene protetto, insitanella sua messa in pericolo ad opera del tentativo, consegua un trattamentomeno severo di quello riservato alla sua lesione effettiva, perfezionata daldelitto consumato( 32 ). Esistono, certo, delle eccezioni a questa regola, ossìa( 29 ) Nel senso che l’idoneità degli atti costituisce un requisito imprescindibile anchedei delitti di attentato cfr. già Vannini, Il problema giuridico del tentativo, Milano, 1950,p. 23, a giudizio del quale in questa categoria di delitti non vi può essere un allargamentodella punibilità rispetto al tentativo, come invece accadrebbe ove si prescindesse dalla presenzadi questo elemento ai fini della loro integrazione.( 30 ) Per questa definizione del delitto di attentato M. Romano, Commentario sistematicodel codice <strong>penale</strong>. Art. 1-84, III ed., Milano, 2004, p. 602.( 31 ) Cfr., sul punto, Marinucci-Dolcini, Corso di diritto <strong>penale</strong>. 1. Le norme penali:fonti e limiti di applicabilità. Il reato: nozione, struttura e sistematica, III ed., Milano, 2001, p.528 s..( 32 ) Cfr. ancòra Marinucci-Dolcini, Corso, cit., p. 529; M. Romano, Commentariosistematico del codice <strong>penale</strong>. I, cit., p. 587.


268STUDI E RASSEGNEdei casi nei quali tentativo e consumazione vengono equiparati sotto il profilosanzionatorio. Ma si preferisce degradarle a mera quantité négligeable,relegandole per lo più alla sola materia (del diritto <strong>penale</strong>) doganale.In realtà sono più numerose( 33 ). E fanno sorgere tutte quante i medesimidubbi di legittimità costituzionale per l’irragionevolezza insita nel riservareun identico trattamento sanzionatorio ai responsabili di offese digrado ben diverso, quali quelle che si ricollegano, rispettivamente, al delittotentato e a quello consumato.Del tutto naturale, quindi, che un analogo contrasto con l’art. 3 Cost.infici l’art. 405 c.p., ove si ritenga che anche al suo interno sia incorporataun’equiparazione fra delitto tentato e delitto consumato.6. Esaurita la fase di analisi critica dei modelli di tutela <strong>penale</strong> dellareligione presenti nel nostro sistema e di alcune soluzioni alternative maturatenell’esperienza tedesca, è giunto ora il momento di misurarci conuna prospettiva construens, indirizzata a tracciare linee di una possibileriforma della materia. Còmpito, questo, che mette capo al (e trova giustificazionenel) principio di laicità dello Stato, ribadito da ultimo dallasentenza 168/2005 della Corte Costituzionale. Poiché un risvolto ineliminabilene è rappresentato dall’equidistanza dello Stato da tutte le confessionireligiose professate, ciò nonpuòche prefigurare l’idea di un possibile,se non doveroso, distacco da un paradigma di tutela <strong>penale</strong> dellareligione storicamente polarizzato sulla protezione quale interesse pubblicodi una sola delle religioni esistenti; e, soprattutto, sulla impostazionedi fondo che la tutela <strong>penale</strong> di qualsivoglia culto dovesse comunqueaver luogo nell’interesse dello Stato. Alpuntochelatuteladellalibertàdi culto del singolo veniva letta soltanto in chiave di proiezione indirettadi quella che lo Stato medesimo assicurava a quel culto( 34 ). Filosofia,questa, che la stessa esperienza tedesca, in ultima analisi, è ben lungi dallosmentire.Eclissata l’interposizione dello Stato nell’interesse alla tutela <strong>penale</strong> deiculti, la quale ne sottintendeva inevitabilmente l’opzione a favore di uno opiù di essi, sembra meritevole di esplorazione la via di una protezione <strong>penale</strong>a vantaggio della libertà individuale di culto. Che questo tipo di sceltanon si sia affacciata agli orizzonti del legislatore tedesco nella sua elaborazionedel 1969 non sorprende: è un sentiero estraneo ai geni della tradizioneculturale delle codificazioni germaniche in materia di tutela <strong>penale</strong> della( 33 ) Per una rassegna di queste ipotesi sia consentito il rinvìo aM. Mantovani, Leviolazioni tributarie nel sistema tedesco: sanzioni penali e sanzioni amministrative, in AA.VV., Sussidiarietà ed efficacia nel sistema sanzionatorio fiscale, a cura di Insolera e Acquaroli,Milano, 2005, p. 233 s.( 34 ) Sul punto rinviamo sempre a Manzini, op. ult. cit., ibidem.


STUDI E RASSEGNE269religione( 35 ). Non lo è, invece, per la nostra esperienza. Il codice Zanardellidel 1889 intitolava gli artt. 140-144 – al cui interno quelli dal 140 al 142corrispondevano ai delitti contro il sentimento religioso del codice vigente,mentre quelli successivi rinvengono il loro pendant nei delitti contro la pietàdei defunti previsti dal codice Rocco – ai delitti ‘‘contro la libertà dei culti’’.E – aspetto di portata ancòra maggiore – il vilipendio per causa religiosa(art. 141 del codice del 1889) non era perseguibile d’ufficio, ma a querela diparte. Titolare del diritto di querela, a sua volta, altri non era che il singolocredente pubblicamente offeso in presenza dell’intenzione dell’offensore direcare offesa non a lui, ma alla religione( 36 ) che questi professava.È allora il caso di invocare un ‘‘zurück zu Zanardelli’’, ossìa un ritornoalle scelte compiute in materia da quel codice <strong>penale</strong>?La risposta è sicuramente affermativa se ci si riferisce alla specifica prospettivadelineata nel codice del 1889 rispetto ai vilipendi in materia religiosa.Il loro inquadramento nell’alveo della (tutela <strong>penale</strong> attribuita alla) libertàdel singolo non può che essere preferibile al loro ancoraggio ad un bene superindividualedi incerta e discutibile determinazione, quale risulta essere lareligione nell’ottica del codice Rocco, specie a séguito dei mutamenti indottiper effetto delle più recenti decisioni della Corte Costituzionale in materia.È, viceversa, completamente negativa quanto alla riproposizione dellemodalità di aggressione al bene giuridico della libertà individuale di cultotratteggiate nell’art. 141 del codice Zanardelli. Vi si puntualizza, infatti, chela condotta tipica si sostanzia nel vilipendere ‘‘pubblicamente...chi lo professa’’.Diamo qui per noti tutti i problemi posti dal rapporto fra le fattispeciedi vilipendio in genere e la libertà di manifestazione del pensiero, garantitadall’art. 21 Cost.( 37 ). Problemi di questo tipo germinano perché la condottadi vilipendio non è un succedaneo dell’offesa ad una persona, eventualmenteriportabile al paradigma dell’ingiuria o della diffamazione; madeve la sua genesi proprio all’esigenza di colmare i vuoti di tutela in rapportoa determinati beni da proteggere, laddove le predette fattispecie comuninon risultano utilizzabili. Colmare l’horror vacui nascente dall’inapplicabilitàdi altre fattispecie costituisce (il motivo del)l’origine storica delleipotesi di vilipendio( 38 ). È appena il caso di ricordare a quante e quali cen-( 35 ) Segnala il dato che lo stesso codice tedesco del 1871, malgrado talune aperture afavore della tutela <strong>penale</strong> della religione intesa come un quid di carattere marcatamente individuale,si attesti ‘‘su uno standard più arretrato di realizzazione’’ di questa opzione rispettoalla svolta operata in tale direzione dal codice Zanardelli P. Siracusano, I delitti in materiadi religione, cit., p. 42.( 36 ) Su questa opzione del codice Zanardelli cfr. Majno, Commento al codice <strong>penale</strong>italiano, Verona, 1890, p. 422.( 37 ) Su queste problematiche, oggetto di ampie discussioni, rinviamo all’analisi di C.Fiore, I reati di opinione, Padova, 1972, p. 114 ss..( 38 ) Cfr., al riguardo, Conso, Contro i reati di vilipendio, inInd. pen., 1970, p. 550.


270STUDI E RASSEGNEsure vada incontro quel concetto di ‘‘tenere a vile’’ qualcuno o qualcosasotto il profilo del canone costituzionale della determinatezza della fattispecie<strong>penale</strong>( 39 ).In epoca relativamente recente si è cercato di stemperare la polemicarelativa a queste fattispecie, evidenziando come il vilipendio non sia unquid minoris rispetto all’offesa nei delitti contro l’onore; quanto, piuttosto,un aliud rispetto alle medesime, destinato a trovare applicazione quandol’offesa non investa persone fisiche, ma ‘‘entità’’( 40 ). Secondo questa ricostruzione,dunque, vi sarebbe offesa ogniqualvolta questa sia rivolta ad unapersona fisica; vilipendio, invece, quando l’offesa si indirizzi ad un’istituzione,sotto tale paradigma potendo essere sussunta – nell’impianto del codiceRocco – proprio la religione.L’argomentazione, a ben vedere, sembra tuttaltro che irresistibile. Lasmentisce precisamente l’art. 403 c.p., parlando di vilipendio con riferimentoad una persona fisica; edioffesa, invece, in relazione alla religione.Dal che traspare la completa fungibilità dei due termini, in luogo del loromeditato impiego per descrivere situazioni diverse, che l’impostazione daultimo esposta suppone.Se così è, nulla esclude che possa darsi un’offesa alla religione medianteoffesa alla persona che la professa o di un ministro del relativo culto.Nel disegno, che qui proponiamo, di impiegare su questo terreno le fattispeciecodicistiche comuni, sopprimendo lo specifico capo dedicato ai delittiin materia di religione (artt. 403-406 c.p.), l’ipotesi schizzata dall’art.403, comma 1, c.p. potrebbe essere ricompresa, nella parte in cui prevedeche l’offesa abbia luogo pubblicamente, nell’alveo dell’ingiuria aggravata dallapresenza di più persone (art. 594, comma 2, c.p.). In tal caso, il delittoresterebbe procedibile a querela di parte. D’altra parte, per l’ulteriore evenienzache destinatario dell’offesa sia un ministro del culto, sarebbe disponibilela circostanza aggravante comune di cui all’art. 61, n. 10, c.p..In relazione al vilipendio di cose previsto dall’art. 404 c.p., se ne potrebbe,in primis, restringere la rilevanza a quei fatti che attingano la sogliadi determinatezza e lesività – dove la lesività èrichiesta precisamente infunzione della determinatezza – propria del danneggiamento. Quindi si potrebbeintervenire sull’art. 635, comma 2, n. 3, c.p., sostituendo il riferimentoivi contenuto ai soli edifici destinati al culto con quello, di maggioreampiezza, alle cose che formano oggetto di culto, vi sono consacrate, o so-( 39 ) Lo evidenzia sempre Conso, Contro i reati, cit., p. 547, laddove rileva come, malgradoi molteplici tentativi di definirne il concetto, non si sia mai pervenuti a ‘‘dire nulla chepossa soddisfare e – aggiungo – tranquillizzare non soltanto il cittadino, ma anche il giurista’’.( 40 ) Così Prosdocimi, voce Vilipendio (reati di), inEnc. del Dir., vol. XLVI, Milano,1993, p. 739.


STUDI E RASSEGNE271no comunque destinate al suo esercizio (cfr. art. 404, comma 1, c.p.). Pertale via, ai fatti di danneggiamento ricadenti su tali cose si renderebbe applicabilela fattispecie di danneggiamento aggravato contemplata, appunto,dall’art. 635, comma 2, n. 3, c.p..7. Del tutto eccentrica rispetto alla prospettiva di una tutela <strong>penale</strong>della religione incentrata sull’aspetto individuale della sua professione èla c.d. turbatio sacrorum. Anche il codice Zanardelli la trattava a parte( 41 )e i relativi commenti evidenziavano come il turbamento delle funzioni religiose(art. 140 di quel codice) involgesse non soltanto problematiche attinentialla libertà individuale di religione, ma anche profili di ordine pubblico(42 ).Soltanto da un’analisi del tutto superficiale si potrebbe essere tentati dioperare un accostamento fra l’impedimento e il turbamento di funzioni religiose(art. 405 c.p.), da una parte; e l’interruzione o il turbamento di unpubblico servizio (art. 340 c.p.), dall’altra. Malgrado esso sia disciplinatoda norme di diritto pubblico (cfr. gli artt. 25 ss. R.D. 18 giugno 1931, n.773, Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza), ciò non basta a fare dell’eserciziodi funzioni religiose un pubblico servizio. E, anche qualora lo sivolesse per assurdo ammettere, ciò condurrebbe ad un’irragionevole estensionedella qualifica di incaricato di pubblico servizio in capo a tutti coloroche promuovono o dirigono funzioni religiose. La conseguente applicazionea loro carico dello statuto <strong>penale</strong> della pubblica amministrazione risulterebbe,a questo punto, del tutto antinomica rispetto a quella valorizzazionedella religione come momento prettamente individuale, che una riformadella normativa <strong>penale</strong> in materia sarebbe –secondo quanto abbiamo finorasostenuto– deputata a perseguire.Più fruttuoso è seguire l’indicazione che collega la tutela <strong>penale</strong> del regolareesercizio delle funzioni religiose ad esigenze di ordine pubblico.Possono servire da utile modello, limitatamente a questa tematica, lefattispecie all’uopo contenute nel codice <strong>penale</strong> tedesco. Non deve evidentementestupire l’idea di raccordarsi a questo sistema in subiecta materia,perché qui non è in gioco la tutela della religione come momento individuale,ma quello della pace pubblica (i cui punti di contatto con il nostroconcetto di ordine pubblico sono lampanti).Sdoppia in due fattispecie la materia il legislatore tedesco: nel § 167 sioccupa del turbamento dell’esercizio della religione; nel § 167a del turbamentodi un funerale.( 41 ) Uno spaccato eloquente ed esaustivo delle questioni esaminate in giurisprudenza ein letteratura sotto la vigenza del codice Zanardelli è fornito da M. Fiore, Il reato di «turbatiosacrorum», cit., p. 23 ss.( 42 ) In tal senso Majno, Commento al codice <strong>penale</strong> italiano, cit., p. 419.


272STUDI E RASSEGNEDi particolare interesse, ai fini che qui rilevano, appare sicuramente l’ipotesitratteggiata dal § 167, 1, 1 StGB: quella di chi turba le funzioni religioseo gli atti religiosi di una chiesa che si trova sul territorio nazionale odi un’altra società religiosa ‘‘intenzionalmente e in modo grave’’( 43 )( 44 ).Dunque, non qualsiasi turbamento di funzioni religiose si inquadra nel§ 167 StGB, ma solo quello contrassegnato da peculiari note di disvaloreoggettivo e soggettivo: dalla gravità del fatto, sotto il primo profilo; dal dolointenzionale, sotto il secondo.Questa fattispecie viene correttamente intesa come una figura (di delitto)di pericolo astratto( 45 ). In effetti, la condotta tipizzata dal legislatore,anche e proprio in ragione dell’intensità del turbamento richiesto, autorizzala prognosi di un pericolo per la pace pubblica che vi è immanente. Allabase di questo giudizio sta, in effetti, una regola di esperienza che autorizzala previsione che da un turbamento della specie di quello postulato dallanorma possa scaturire un pericolo per la pace pubblica collegato alle reazionidi quanti prendono parte alle funzioni o agli atti ivi richiamati, inquanto ‘‘provocati’’ dal turbamento de quo.Mutatis mutandis, ci sembra che una fattispecie così congegnata, anchese – diversamente dalla soluzione invalsa nell’esperienza tedesca – comprensivaanche del turbamento di un funerale (per il quale il § 167a StGBsi limita a esigere la presenza di un dolo intenzionale o, quanto meno, diretto),possa avere pieno diritto di cittadinanza anche da noi. La sua sedenaturale potrebbe essere, ovviamente, quella dei delitti contro l’ordine( 43 ) Corsivo aggiunto.( 44 ) Con riferimento al testo del § 167, 1, 1 StGB, nel quale si richiede che il turbamentoavvenga ‘‘in großer Weise’’, la traduzione che ne abbiamo personalmente fornito eche si sostanzia nell’intendere questa espressione come indicativa di un (turbamento che avvienein un) modo grave si discosta sensibilmente da quella che vi ravvisa l’esigenza che esso– sott.: il turbamento – abbia luogo ‘‘in modo grossolano’’ (così P. Siracusano, I delitti inmateria di religione, cit., p. 217).La divergenza non ha una portata meramente terminologica.Nel lessico penalistico, al concetto di grossolano si abbina l’inidoneità a ledere o a porrein pericolo il bene protetto. Basti pensare alle opinioni orientate, pur con motivazioni fraloro assai distanti, verso la non punibilità del falso grossolano; cioè di quell’attività di falsificazioneche, potendo essere riconosciuta come tale da chiunque, non è per ciò stesso idoneaa mettere in pericolo la pubblica fede. Che questo rappresenti l’esatto contrario dellepeculiari note di pericolosità che devono contrassegnare la condotta tipizzata dal § 167, 1,1 StGB è, del resto, in modo implicito ma inequivoco riconosciuto dallo stesso P. Siracusano.Si conviene, infatti, sul dato che, ai fini dell’integrazione della fattispecie de qua, i turbamentidebbano essere durevoli o pesanti (cfr. P. Siracusano, op. ult. cit., p. 218). E si ammette,con ciò, che possano farvi ingresso soltanto quelli che raggiungono un’elevata soglia di pericolosità.Il che val quanto dire che quelli viceversa grossolani – nell’accezione qui esposta –esuleranno dalla stessa.( 45 ) Cfr. Lenckner, inSchönke-Schröder, Strafgesetzbuch Kommentar, cit., sub §167, p. 1250.


STUDI E RASSEGNE273pubblico. La strutturazione della fattispecie, in quanto comprensiva dellanota della gravità del fatto, consentirebbe, in base a quanto sopra esposto,di superare ogni riserva in ordine al ricorso ad una figura di pericolo astratto(46 ). E avrebbe altresì il pregio di scongiurare quell’incongrua – nonchécostituzionalmente illegittima – parificazione fra tentativo e consumazione,che connota l’attuale art. 405 c.p..Marco Mantovani( 46 ) Conduce una serrata critica nei confronti della categoria dei reati di pericoloastratto Stella, Giustizia e modernità. La protezione dell’innocente e la tutela delle vittime,I ed., Milano, 2001, p. 441 ss..Ne sottolinea i riflessi rispetto ai reati contro l’ordine pubblico che si possono riportarea quel modello Forti, inCrespi-Stella-Zuccalà, Commentario breve al codice <strong>penale</strong>,IV ed., Padova, 2003, sub Nota introduttiva al Titolo V, p. 1138.


STUDI E RASSEGNE275TIPIZZAZIONE E INDIVIDUAZIONE DEL SOGGETTO ATTIVONEI REATI PROPRI: TRA LEGALITÀ ED EFFETTIVITÀDELLE NORME PENALISommario: 1. Considerazioni introduttive. – 2. Tipizzazione e individuazione del soggettoattivo nei reati propri. – 3. Il problema della delega di funzioni nelle organizzazionicomplesse. – 4. Trasferimento della qualifica soggettiva e delega di obblighi. – 5. Ladelega di funzioni come modalità di adempimento di obblighi penalmente rilevanti.– 6. Modelli di delega di funzioni e ruolo della qualifica soggettiva extrapenalisticanel ‘‘tipo’’ criminoso. – 7. Spunti ricostruttivi su natura ed efficacia della delega di funzioni.– 8. Modelli, condizioni di efficacia e onere probatorio della delega di funzioni.1. Considerazioni introduttive. – Tra i temi della dogmatica del reatoproprio( 1 ) particolarmente dibattuto è quello relativo alla determinazione( 1 ) Sul reato proprio, nella manualistica, v. C. Fiore, Diritto <strong>penale</strong>, parte generale, I,Torino, 1995, p. 158 ss.; F. Antolisei, Manuale di diritto <strong>penale</strong>, parte generale, Milano,2000, p. 171; A. Pagliaro, Principi di diritto <strong>penale</strong>, parte generale, Milano, 2003, p. 166ss.; G. Fiandaca, E.Musco, Diritto <strong>penale</strong>, parte generale, Bologna, 2004, p.142 ss.; F.Mantovani, Diritto <strong>penale</strong>, parte generale, Padova, 2001, p.115 ss.; T. Padovani, Diritto<strong>penale</strong>, Milano, 2002, p. 87 ss.; R. Riz, Lineamenti di diritto <strong>penale</strong>, parte generale, Padova,2002, p. 98 ss.; G. Marinucci, E.Dolcini, Manuale di diritto <strong>penale</strong>, parte generale, Milano,2004, p. 125 ss.; F. Palazzo, Il fatto di reato, Torino, 2004, p. 37 ss.; Id., Corso didiritto <strong>penale</strong>, Parte generale, II ed., Torino, 2006, p. 225 ss.; D.Pulitanò, Diritto <strong>penale</strong>,Torino, 2005, p. 206. Inoltre v. G. Allegra, Sulla rilevanza giuridica della posizione del soggettoattivo del reato, inRiv. it. dir. pen., 1936, p. 512 ss.; Id., Sulla rilevanza giuridica dellaposizione del soggetto attivo del reato, inRiv.it.dir.pen., 1937, p. 21 ss.; Id., Norme penali specialie reati speciali, inAnnali, 1939, pp. 95 ss. e 117 ss.; Id., Posizione e qualificazione delsoggetto attivo del reato, inRiv. pen., 1949, p. 155 ss.; G. Bettiol, Sul reato proprio, Milano,1939, p.1ss.; G. Maiani, In tema di reato proprio, Milano, 1965, 1ss.; A. Fiorella, Sui rapportitra il bene giuridico e le particolari condizioni personali, A.Stile (a cura di), Bene giuridicoe riforma della parte speciale, Napoli, 1985, p.193 ss.; E. Venafro, voce Reato proprio,in Dig. disc. pen., XI, 1996, Torino, p. 337 ss.; G. P. De Muro, Il bene giuridico proprioquale contenuto dei reati a soggettività ristretta, inRiv.it. dir. proc. pen., 1998, p. 945 ss.;Id., Tipicità ed offesa del bene giuridico nelle fattispecie proprie del diritto <strong>penale</strong> dell’economia,inRiv. trim. dir. pen. ec., 1998, p. 815 ss.; F. Cingari, Sul concorso dell’extraneus nelreato proprio, inInd. pen. 2004, p. 943 ss.; M. Pelissero, Il concorso nel reato proprio, Milano,2004, 1 ss.; M. Romano, Commentario sistematico del codice <strong>penale</strong>, I, Milano, 2004, p.


276STUDI E RASSEGNEdei criteri che devono orientare il giudice nella individuazione del soggettoresponsabile. In particolare, il problema della individuazione del soggettoattivo del reato proprio si pone sotto due angoli visuali: da un lato, quandola norma incriminatrice tipizza il soggetto attivo del reato proprio facendoriferimento ad una qualifica formale di origine extra<strong>penale</strong>, si pone ovviamentela necessità di verificare quale soggetto sia investito delle attribuzionicostitutive della qualità soggettiva; e dall’altro, quando il soggetto in possessodella particolare qualifica soggettiva richiesta dalla norma incriminatricedelega alcune delle funzioni inerenti alla qualifica ad un altro soggettoprivo della qualifica soggettiva, si pone il problema di determinare condizionie limiti di efficacia di tale trasferimento di funzioni.Nel primo caso, ci si chiede se debba essere considerato soggetto attivodel reato proprio solamente il soggetto in possesso della particolare qualificaformale richiesta dalla norma incriminatrice, oppure se possa essereconsiderato autore del reato proprio anche colui che, pur non essendoin possesso della particolare qualifica formale, di fatto esercita i poteri inerentialla qualifica soggettiva.Nella seconda ipotesi, ci si chiede, da un lato, se la delega di alcunefunzioni inerenti alla qualifica soggettiva comporti anche il trasferimentodella qualifica soggettiva, e dall’altro lato, se, per effetto della delega il delegantesi liberi dalle proprie responsabilità e il soggetto delegato acquisti lalegittimazione al reato proprio.Si tenterà qui di affrontare queste problematiche avendo riguardo, daun lato, alla struttura del reato proprio, ed in particolare al significato chein questi reati assume il riferimento alla particolare qualifica soggettiva diorigine extrapenalistica, e dall’altro lato, ai mai facili rapporti tra esigenzedi legalità e di effettività delle norme penali.2. Tipizzazione e individuazione del soggetto attivo nei reati propri. –Come è noto, la tipizzazione del soggetto attivo del reato può avvenire attraversoil riferimento ad una qualità naturalistica oppure normativa. Nel-348; A. Gullo, Il reato proprio. Dai problemi «tradizionali» alle nuove dinamiche d’impresa,Milano, 2005 p. 1 ss. Nella recente letteratura tedesca in generale sul reato proprio v. W.Langer, Das Sonderverbrechen, Berlin, 1972; H.H. Jescheck, T.Weigend, Lehrbuch desStrafrechts, Allgemeiner Teil, 5. Aufl, Berlin, 1996, p. 266 ss.; G. Jakobs, Derecho penal, Partegeneral. Fundamento y teoría de la imputación, Madrid, 1997, p. 214; K. Lenckner, inSchönke -Schröder, Strafgesetzbuch Kommentar, 2 Aulf., Munchen, 2001, 131 vor §13, p. 201; K. Kühl, vor 33 § 13, in Lackner/Kühl, Strafregesetzbuch mit Erlauterungen,Munchen, 2001, p. 70. Nella recente manualistica spagnola v. F. Muñoz Conde, M.GarcíaArán, Derecho penal, Parte general, Valencia, 2000, p. 294 ss.; S. Mir Puig, Derechopenal, parte general, (Fundamentos y teoria de delito), Barcellona, 1990, p. 169 ss.Nella dottrina francese vedi per tutti Merle R. - Vitu A., Traité de droit criminel, Paris,1984, p. 491ss.


STUDI E RASSEGNE277l’ipotesi in cui il legislatore tipizza il soggetto attivo del reato attraverso ilriferimento ad una qualità naturalistica non si pongono problemi particolarinella individuazione del soggetto attivo del reato. Così, ad esempio,non ci sono dubbi sul fatto che nel delitto di infanticidio previsto dall’art.578 c.p. il soggetto attivo del reato sia solamente colui che possiede la qualitàdi madre.Più problematica risulta, invece, l’individuazione del soggetto attivodel reato nell’ipotesi in cui la tipizzazione del soggetto attivo del reato avvieneattraverso il riferimento ad una qualifica formale di origine extrapenalistica.In questo caso, ci si chiede se sia legittimato al reato proprio il c.d.‘‘soggetto di fatto’’, cioè colui che, pur non essendo in possesso della particolarequalifica formale richiesta dalla norma incriminatrice a causa adesempio della nullità, della revoca, della decadenza o mancanza della nomina,di fatto esercita le funzioni e i poteri tipici del soggetto qualificato.Così, ad esempio, rispetto al reato proprio di bancarotta impropria, ci sichiede se soggetto attivo debba essere considerato solamente colui cheha la qualifica formale di amministratore oppure anche il c. d. amministratoredi fatto( 2 ).( 2 ) Sulla responsabilità <strong>penale</strong> dell’amministratore di fatto, v., tra gli altri, G. Escobedo,I cosiddetti amministratori di fatto delle società anonime e il reato di quasi bancarottasemplice, inGiust. pen., 1933, VIII, p. 685; P. Nuvolone, Il diritto <strong>penale</strong> del fallimentoe delle altre procedure concorsuali, Milano, 1955, p. 47 ss.; Id., Il diritto <strong>penale</strong>del fallimento, Milano, 1965, p. 47 ss.; Id., Il diritto <strong>penale</strong> delle società commerciali, inIl diritto <strong>penale</strong> degli anni settanta, Padova, 1982, p. 250 ss.; C. Pedrazzi, Gestione d’impresae responsabilità penali, inRiv. soc. 1962, p. 220 ss.; Id., voceSocietà commerciali(disciplina <strong>penale</strong>), in Dig.disc.pen. , XIII, Torino, 1998, p. 351; M. Romano, Profili penalidel conflitto di interessi dell’amministratore di società per azioni, Milano, 1967, p. 20;L. Conti, E.Bruti Liberati, Esercizio di fatto dei poteri di amministrazione e responsabilitàpenali nell’ambito delle società irregolari, in AA.VV., Il diritto delle società commerciali,Milano, 1971, p. 119 ss.; G. Marinucci -M.Romano, Tecniche normative nellarepressione <strong>penale</strong> degli abusi degli amministratori di società per azioni, inIl diritto <strong>penale</strong>delle società commerciali, Milano, 1971, p. 93; T. Padovani, Reato proprio del datore dilavoro e persona giuridica, inRiv. it. dir. proc. pen., 1979, p. 1179; G. Casaroli, Bancarottac.d. impropria: note su alcuni punti-chiave in tema di soggetto attivo del reato, inInd.-pen. 1979, p. 209 ss.; D. Pulitanò, Posizioni di garanzia e criteri di imputazione personalenel diritto <strong>penale</strong> del lavoro, inRiv. giur. lav., 1982, IV, p. 102; Id., voce Inosservanza dinorme di lavoro, inDig. disc. pen., VII, Torino, 1993, p. 68 ss.; A. Traversi, Responsabilitàpenali d’impresa, Padova, 1983, p. 154; G. Fornasari, I criteri di imputazione soggettivadel delitto di bancarotta semplice, inGiur. comm., 1988, I, p. 650; A. Fiorella, Iltrasferimento di funzioni, Firenze, 1985, p. 282 ss.; Id., I principi generali del diritto <strong>penale</strong>dell’impresa, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, Dir.daF. Galgano, Vol. 25, L. Conti, Il diritto <strong>penale</strong> dell’impresa, Padova,2001,56ss.;A.Pagliaro, Problemi del diritto <strong>penale</strong> dell’impresa, inInd. pen., 1985, p. 17 ss.; M. LaMonica, voceReati societari, inEnc. dir., XXXVII, Milano, 1987, p. 960 ss.; G. Fornasari,I criteri di imputazione soggettiva del delitto di bancarotta semplice, in Giur.


278STUDI E RASSEGNEA questo proposito, soprattutto con riferimento ai reati propri del diritto<strong>penale</strong> dell’impresa, sono due le tesi che si contendono il campo.Secondo una prima opinione (teoria formale-civilistica)( 3 ), sostenutada una parte della dottrina, nella individuazione del soggetto attivo del reatoproprio occorre utilizzare un criterio rigorosamente formale. Più precisamente,si afferma che, quando la norma incriminatrice tipizza il soggettoattivo del reato proprio attraverso il riferimento ad una particolare qualificaformale di origine extrapenalistica, le qualità soggettive devono essere interpretatenel loro esatto significato normativo, in quanto sono richiamatedalla fattispecie incriminatrice ‘‘con tutta la loro pregnanza normativa’’,cioè per attribuire rilevanza a determinati poteri e doveri giuridici. Da questopunto di vista, si osserva che, quando la norma incriminatrice tipizza ilsoggetto attivo del reato facendo riferimento ad una qualifica soggettiva diorigine extra<strong>penale</strong>, non è possibile considerare autore del reato anche coluiche, pur non essendo titolare della qualifica formale e quindi del compendiodi poteri e doveri giuridici a cui essa si riferisce, di fatto esercita lefunzioni tipiche del soggetto qualificato, in quanto si finirebbe per svilire latassatività del reato proprio( 4 ). Dunque, poiché le qualifiche formali e ilcompedio di poteri e doveri giuridici a cui si riferiscono contribuisconoa tracciare i confini del fatto tipico e della responsabilità <strong>penale</strong>, la estensionedella responsabilità <strong>penale</strong> al di là dei limiti segnati dalla qualifica formalenon sarebbe ammissibile, in quanto si tradurrebbe in una analogia inmalam partem( 5 ).comm., 1988, I, p. 650; F. Mucciarelli, Responsabilità dell’amministratore di fatto, inLesoc., 1989, p. 121 ss.; S. Canestrari, I soggetti responsabili. La delega di funzioni e responsabilitàa titolo di concorso di persone nei reati tributari, inAA.VV.,I reati in materiafiscale, a cura di P. Corso e L. Stortoni - Giurisprudenza sistematica di diritto <strong>penale</strong>, direttada Bricola e Zagrebelsky, Torino, 1990, p. 130; F. Antolisei, Manuale di diritto<strong>penale</strong>, Leggi complementari, Milano, 1999, p. 53 ss.; E. Musco, Diritto <strong>penale</strong> societario,Milano, 1999, p. 22; A. Alessandri, Parte generale, inC.Pedrazzi, A.Alessandri, L.Foffani, S.Seminara, S.Spagnolo, Manuale di diritto <strong>penale</strong> delle impresa, Bologna,2000, p. 65 ss.; Id., Voce Impresa (responsabilità penali),inDig. disc. pen., 1992, VI, p.206 ss.; U. Bulso, Profili problematici della responsabilità <strong>penale</strong> concorsuale dell’amministratorec.d. «inerte» per il delitto di bancarotta fraudolenta commesso dall’amministratore«di fatto», inRiv. dir. pen. ec., 2001, p.190; G. Marra, Legalità ed effettività delle normepenali, Torino, 2002, p. 1 ss.( 3 ) Cfr. C. Pedrazzi, Gestione d’impresa, cit., p. 220 ss.; Id., voce Società commerciali(disciplina <strong>penale</strong>), cit., p. 351; M. Romano, Profili penali, cit., p. 20; T. Padovani, Reatoproprio, cit., p. 1179; D. Pulitanò, Posizioni di garanzia, cit., p. 102; Id., voce Inosservanza,cit., p. 64 ss.; A. Fiorella, Il trasferimento di funzioni, cit., p. 282 ss.; A. Alessandri, Partegenerale, inC.Pedrazzi, A.Alessandri, L.Foffani, S.Seminara, S.Spagnolo, Manualedi diritto <strong>penale</strong>, cit., p. 65 ss.; Id., Voce Impresa (responsabilità penali), cit., p. 206 ss.; G.Marra, Legalità ed effettività, cit., p. 69 ss.( 4 ) Cfr. T. Padovani, Reato proprio, cit., p.1183; C. Pedrazzi, Gestione d’impresa,cit., p. 220 ss.; M. Romano, Profili penali, cit., p. 20 ss.


STUDI E RASSEGNE279Nella prospettiva formalistica, le condotte ‘‘sostanzialmente’’ riconducibilialle fattispecie proprie poste in essere da soggetti privi della qualitàsoggettiva con il preciso intento di eludere la legge <strong>penale</strong>, non potendoessere punite in base alla fattispecie monosoggettiva propria potrebbero esseresanzionate solamente attraverso il ricorso allo schema del concorsodell’extraneus nel reato proprio( 6 ).Sennonché, il ricorso allo schema del concorso dell’extraneus nel reatoproprio non solo comporta delle indubbie difficoltà probatorie ma anche esoprattutto difficoltà di ordine dogmatico. Si pensi alle difficoltà che si incontranonella configurabilità del concorso dell’extraneus nel reato proprionell’ipotesi in cui il soggetto qualificato non abbia eseguito la condotta tipicaoppure pur avendo eseguito la condotta tipica del reato proprio nonversi in dolo( 7 ).Ebbene, al fine di scongiurare l’emersione di significative lacune di tutelae di agevolare la repressione dei comportamenti realmente offensivi dei( 5 ) Cfr. A. Alessandri, voce Impresa (Responsabilità penali), cit., p. 206 ss.; M. LaMonica, Diritto <strong>penale</strong> commerciale, II, Milano, p. 36.( 6 ) Dottrina e giurisprudenza concordano circa l’ammissibilità del concorso dell’extraneusnel reato proprio. Nella dottrina italiana v. G. Bettiol, Sul reato, cit., p. 435 ss.; R.A.Frosali, Il concorso di persone nei ‘‘reati propri’’ e nei ‘‘reati di attuazione personale’’,inScuolapos. 1949, p. 28 ss.; A. Moro, Sul fondamento della responsabilità giuridica, cit., p. 25; F.Antolisei, Manuale di diritto <strong>penale</strong>, cit., p. 574; C. Pedrazzi, Il concorso di persone nelreato, 1952, Palermo, p. 15 ss.; R. Dell’Andro, La fattispecie plurisoggettiva in diritto <strong>penale</strong>,Milano, 1956, p. 131 ss.; M. Gallo, Lineamenti di una teoria sul concorso di personenel reato, Milano, 1957, p. 104 ss.; T. Padovani, Le ipotesi speciali di concorso nel reato,Milano, 1973, pp. 110 ss. e 250; S. Seminara, Tecniche normative e concorso di personenel reato, Milano, 1987, p. 394 ss.; G. Insolera, voce Concorso di persone nel reato, inDig. disc. pen., II, Torino, 1988, p. 493 ss.; C. Fiore, Diritto <strong>penale</strong>, parte generale, II, Leforme di manifestazione del reato, concorso di reati e concorso di norme, Torino, 1995, p.121 ss.; G. Grasso, inM.Romano, G.Grasso, Commentario sistematico del codice <strong>penale</strong>,II, Milano, 1996, sub. art. 117, p. 225; E. Venafro, voce Reato, cit. p. 343 ss.; G. P. Demuro,Tipicità e offesa, cit., p. 847 ss.; A. Pagliaro, Principi, cit., p. 581 ss; Id., Il concorso,cit., p. 976 ss.; F. Mantovani, Diritto <strong>penale</strong>, cit., p. 563; G. Fiandaca ,E.Musco, Diritto<strong>penale</strong>, cit., p. 480; M. Pelissero, Il concorso, cit., p. 11 ss.; A. Gullo, Il reato, cit., p. 237ss. Nella letteratura tedesca v. G. Jakobs, Derecho penal, p. 831; C. Roxin, Autoría y dominiodel hecho en derecho penal, Barcellona, 2000, p. 388 ss.; Kühl, inLackner- Kühl,StGB, Strafgesetzbuch mit Erlauterungen, Munchen, 24 Auflage, 2001, § 28, p. 181 ss.; K.Lackner, inSchönke - Schröder, StGB, §28. Nella letteratura spagnola v. F. MuñozConde, M.García Arán, Derecho penal, cit., p. 515 ss. In giurisprudenza v. Cass. pen.,sez. VI, 31 gennaio 1996, Alberuzzo, in Riv. pen, 1997, p. 515, in tema di illecita concorrenzamediante violenza o minaccia; Cass. pen., sez. VI, 25 maggio 1995, Tontoli, in Riv. pen.,1996, p.374, in tema di abuso d’ufficio; Cass. pen., sez. V, 29 novembre 1990, Bordoni,in Giust. pen., 1991, II, p. 645, in tema di bancarotta patrimoniale e documentale; Cass.pen., sez. VI, 17 giugno 1982, Favilla, in Giust. pen. 1982, III, 677.( 7 ) Sui problemi di ordine dogmatico che pone la configurabilità dell’extraneus nel reatoproprio v. M. Pelissero, Il concorso, cit., p. 249 ss.; G.P. De Muro, Tipicità ed offesa,cit., p. 815 ss.; A. Gullo, Il reato, cit., p. 237 ss.; F. Cingari, Sul concorso, cit., p. 957 ss.


280STUDI E RASSEGNEbeni tutelati dalle fattispecie costruite in forma propria, una parte della dottrina(8 ) suggerisce di interpretare le qualità soggettive formali in chiave funzionale(teoria funzionalistica). Più in particolare, si afferma che la qualificaformale richiesta dalla norma incriminatrice va interpretata in modo autonomorispetto alle formulazioni civilistiche, alla stessa stregua di quelloche avviene, senza difficoltà, con i concetti di ‘‘possesso’’ o di ‘‘altruità’’ dellacosa.( 9 ) In effetti, se la qualificazione formale di un soggetto dipende dalcomplesso delle funzioni di cui è titolare, allora anche colui che, pur nonessendo titolare della qualifica formale, di fatto esercita tali funzioni, dalmomento che si viene a trovare nella posizione richiesta dalla norma <strong>penale</strong>rispetto al bene giuridico tutelato, è legittimato a realizzare il reato proprio(10 ). Pertanto, del reato proprio può essere chiamato a rispondere comeintraneo non solamente colui che è titolare della qualifica formale richiestadalla norma incriminatrice, ma anche chi, avendo assunto le funzioni inerentialla qualifica, è in grado di eseguire la condotta tipica e di aggredireo proteggere i beni tutelati dalla norma che configura il reato proprio( 11 ).Questa impostazione a nostro avviso va incontro ad alcune insuperabiliobiezioni.In primo luogo, va detto che non è condivisibile la ‘‘visione’’ del reatoproprio, ed in particolare del ruolo svolto dalle qualifiche extrapenalistichenell’ambito della fattispecie propria, sottesa alla impostazione funzionalista.In effetti, questa impostazione sembra muovere dall’idea che nei reatipropri il riferimento alla qualifica formale serve ad individuare semplicementeil soggetto che in virtù dei poteri di cui è titolare è in grado di realizzarela condotta tipica descritta dalla norma incriminatrice( 12 ). Da questopunto di vista, nei reati propri ad essere qualificato più che il soggettoattivo sarebbe la condotta tipica realizzabile appunto solamente da coluiche si trova nella titolarità di certi poteri che la qualifica soggettiva compendia(13 ).Al contrario, a nostro avviso, nei reati propri in cui la tipizzazione del( 8 ) Cfr. L. Conti,E.Bruti Liberati, Esercizio di fatto dei poteri di amministrazione eresponsabilità penali nell’ambito delle società irregolari, cit., p. 119 ss.; A. Pagliaro, Problemi,cit., p. 17 ss.; P. Mangano, Titolarità degli obblighi penali in materia fallimentare, inGiust. pen., 1986, II, p. 437 ss.; F. Mucciarelli, Responsabilità dell’amministratore di fatto,cit., p. 121 ss.; L. Conti, I soggetti, in AA.VV., Trattato di diritto <strong>penale</strong> dell’impresa, Milano,1990, p. 231 ss.; F. Antolisei, Manuale di diritto <strong>penale</strong>, Leggi complementari, Milano,1999, p. 53 ss.( 9 ) Cfr. A. Pagliaro, Problemi, cit., p. 21.( 10 ) Cfr. A. Pagliaro, Problemi, cit., p. 21.( 11 ) Cfr. F. Antolisei, Manuale di diritto <strong>penale</strong>, cit., p. 53.( 12 ) Cfr. F.Vassalli, La responsabilità <strong>penale</strong> per il fatto dell’impresa, A. Iori, Organizzazionedell’impresa e responsabilità <strong>penale</strong> nella giurisprudenza, Firenze, 1981, p. 32.( 13 ) Cfr. G. Marra, Legalità, cit., p. 225.


STUDI E RASSEGNE281soggetto attivo avviene attraverso il richiamo a una qualifica extrapenalistica,il riferimento alla qualità soggettiva assume un significato molto piùpregnante di quello di designazione del soggetto capace di realizzare lacondotta tipica. Più precisamente, il riferimento alla qualifica formale sembranon solo e non tanto richiamare la titolarità del compendio di poteriche consentono al soggetto di aggredire (nei reati propri commissivi) odi proteggere (nei reati propri omissivi) il bene tutelato dalla norma incriminatrice,quanto piuttosto attribuire rilevanza ad una ‘‘posizione’’, ad un‘‘ruolo’’ giuridicamente riconosciuto che rivela sia una particolare capacitàdi offesa sia una specifica attitudine a tutelare il bene giuridico( 14 ). In questaprospettiva, poiché a caratterizzare il reato proprio non è semplicementel’attitudine del soggetto alla esecuzione della condotta tipica, ma la particolareposizione, per così dire, di ‘‘privilegio’’ nei confronti del bene giuridicotutelato da questi rivestita, solamente colui che si trova in tale posizionesembra possa essere legittimato al reato proprio( 15 ).In secondo luogo, il riferimento all’esercizio fattuale dei poteri corrispondentia quelli sottesi alla qualifica normativa come criterio di individuazionedel soggetto attivo del reato proprio non sembra in grado di assicurareun accettabile grado di certezza, tale da sottrarre l’individuazionedel soggetto attivo del reato alla logica del ‘‘caso per caso’’. Più in particolare,l’utilizzo del criterio funzionale rischia di portare ad una dilatazioneimprevedibile dei confini proprio di quei reati in cui, invece, il riferimentoalla qualifica formale sembra garantire un elevato tasso di precisione e dicertezza. A questo proposito, si pensi alle difficoltà che pone l’individuazionedei presupposti e degli indici di riconoscimento della controversa figuradell’amministratore di fatto, che ha dato vita ad applicazioni molto dilatatee spesso discutibili.In terzo luogo, va osservato come l’interpretazione in chiave funzionaledelle qualifiche soggettive, a ben vedere, non sembra capace di garantireun tasso di effettività delle norme penali maggiore rispetto all’interpretazioneformalistica. In particolare, si allude al fatto che l’interpretazione inchiave funzionale non consente di punire il comportamento del soggettoin possesso della qualifica formale che non eserciti di fatto i poteri tipici( 14 ) Sul ruolo della qualità soggettiva nel ‘‘tipo’’criminoso v. G. Bettiol, Sul reato,cit., p. 1 ss.; G. Maiani, In tema di reato proprio, cit., 1 ss.; A. Fiorella, Sui rapporti trail bene giuridico e le particolari condizioni personali, cit., p. 193 ss.; G. P. De Muro, Il benegiuridico proprio, cit., p. 945 ss.; Id., Tipicità ed offesa del bene giuridico, cit., p. 815 ss.; S.Fiore, I caratteri del rapporto tra tecnica legislativa, principi di garanzia ed esigenze di tutelanella tipizzazione delle qualifiche soggettive, inCritica dir. 2001, p. 73; A. Gullo, Il reato,cit., p. 19 ss.; M. Pelissero, Il concorso, cit., p. 137 ss.; F. Cingari, Sul concorso dell’extraneus,cit., p. 950 ss.( 15 ) Cfr. T. Padovani, Diritto <strong>penale</strong> del lavoro. Profili generali, IV ed., Milano, 1994,cit., p. 28 ss. e 72 ss.; D. Pulitanò, voce Inosservanza, cit., p. 68 ss.


282STUDI E RASSEGNEsottesi alla qualifica. In effetti, se ciò che rileva ai fini della legittimazione alreato proprio non è la titolarità della qualifica formale, ma l’esercizio effettivodei poteri ad essa sottesi, allora il soggetto che, pur essendo formalmentetitolare della qualifica di diritto, si astiene dall’esercizio dei poterinon potrebbe essere in nessun caso punibile. Così, ad esempio, con riferimentoai reati societari e fallimentari, l’interpretazione in chiave funzionaledelle qualifiche formali non consentirebbe di affermare la parallela responsabilità<strong>penale</strong> dell’amministratore di diritto e di fatto nell’ipotesi in cui ilprimo, munito dell’elemento soggettivo, si limiti ad astenersi dall’impedirela commissione dei reati da parte dell’amministratore di fatto. In effetti,l’obbligo di impedimento del reato da parte dell’amministratore di fattonon potrebbe essere individuato in capo a colui che, pur essendo titolaredella qualifica soggettiva formale, è stato ‘‘soppiantato’’ dall’amministratoredi fatto( 16 ).La giurisprudenza dal canto suo, proprio per evitare queste lacune ditutela, soprattutto nel settore dei reati propri del diritto <strong>penale</strong> dell’impresa,non si limita ad interpretare in chiave funzionale le qualifiche formali ead attribuire rilevanza esclusivamente all’esercizio effettivo dei poteri piuttostoche alla titolarità della qualifica formale, ma piuttosto estende la normaincriminatrice a chi, pur non essendo titolare della qualifica formale, difatto esercita i poteri ad essa corrispondenti. Più precisamente, la giurisprudenza,evidentemente consapevole dei vuoti di tutela ai quali condurrebbesia l’interpretazione in chiave rigorosamente formale sia quella rigorosamentefunzionale, equipara i ‘‘soggetti di diritto’’ a quelli ‘‘di fatto’’.Così, ad esempio, con riferimento ai reati societari e fallimentari, per unverso si sostiene che l’assunzione consapevole della carica di amministratoreè sufficiente, in termini oggettivi, a fondare la responsabilità <strong>penale</strong> ancheindipendentemente dall’effettivo esercizio delle funzioni e, per un altroverso, si afferma la responsabilità dell’amministratore di diritto in caricaper i reati commessi dall’amministratore di fatto non solo quando abbiaagito di comune accordo con quello ma anche, ai sensi dell’art. 40 cpv.c.p., per omesso impedimento dell’evento( 17 ).Orbene, l’equiparazione de iure condito tra qualità soggettive non corrispondenti,a nostro modo di vedere, se, da un lato, è indubbiamente ingrado di assicurare un elevato tasso di effettività delle norme penali; dall’altrolato, sembra contrastare con il nucleo essenziale del divieto di analogia( 16 ) Cfr. A. Alessandri, voce Impresa (responsabilità penali), cit., p. 208.( 17 ) Cfr. Cass. pen., sez. V, 27 aprile 2000, Ragogna, in Cass. pen. 2001, p. 1622; Cass.pen., sez. V, 2 giugno 1999, Murra, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2000, p. 482; Cass. pen., sez. V,6 maggio 1999, Grossi, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1999, p. 1198; Cass. pen., sez. V, 5 febbraio1998, Riccieri, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1999, p. 467; Cass. pen., sez. V, 27 maggio 1996,Perelli, in Cass. pen., 1997, p. 2232.


STUDI E RASSEGNE283in malam partem( 18 ), che non si limita a vietare di estendere le norme penalia fatti che non rientrano nei limiti del significato linguistico delle parole usatedal legislatore per descrivere il fatto tipico, ma che impone di non estenderela norma incriminatrice, e quindi la pena prevista, a fatti eterogeneiquanto a disvalore rispetto a quelli previsti dal legislatore( 19 ). In effetti,se, da un lato, è indubbio che la titolarità sia di fatto che di diritto della qualificasoggettiva è in grado di porre il soggetto che né ètitolare in una particolarerelazione con il bene giuridico tutelato al punto tale da manifestareanaloghe esigenze di tutela, dall’altro lato, è anche vero che la ‘‘posizione’’del soggetto titolare della qualifica formale consente a quest’ultimo di realizzarel’offesa secondo modalità diverse da quelle che potrebbe realizzarecolui che di fatto esercita alcuni dei poteri inerenti alla qualifica soggettiva.In particolare, si pensi ai reati propri a struttura omissiva in cui il riferimentoa soggetti determinati serve ad individuare come garanti della integrità dicerti beni giuridici soggetti che in base alla normativa extra<strong>penale</strong> si trovanonella posizione più adatta per garantire una efficace tutela al bene giuridico(20 ). Così, ad esempio, si pensi ai numerosi reati propri omissivi propriprevisti in materia di sicurezza del lavoro in cui il destinatario dell’obbligogiuridico di attivarsi è individuato nel datore di lavoro, in quanto è il soggettoa cui la normativa extra<strong>penale</strong> attribuisce la titolarità dei poteri necessaria garantire in modo effettivo la tutela dell’integrità dei lavoratori( 21 ). Epiù in generale, si pensi al reato omissivo improprio in cui l’obbligo giuridicodi impedimento dell’evento grava su coloro che sono titolari di autenticie preesistenti poteri giuridici di impedimento dell’evento (titolari dellac.d. posizione giuridica di garanzia)( 22 ). Ebbene, a differenza dei reati omis-( 18 ) Cfr. F. Giunta, Reati societari e qualifiche soggettive: questioni normative ed interpretative,inDir. prat. delle soc., 2004, n. 19, p. 33 secondo il quale l’equiparazione tra qualifichesoggettive tra loro non corrispondenti equivale ad una analogia in malam partem.( 19 ) Cfr. G. Contento, Principio di legalità e diritto <strong>penale</strong> giurisprudenziale, in Scritti1964-2000, G. Spagnolo (a cura di), Roma-Bari 2002, p. 230 (originariamente in Foro it.,1988, V, p. 484), p. 231 ss.; F. Palazzo, Regole e prassi dell’interpretazione penalistica nell’attualemomento storico, inDiritto privato 2001-2002. L’interpretazione e il giurista, VII-VIII, Padova, p. 522 ss.( 20 ) Cfr. A. Gullo, Il reato, cit., p. 122.( 21 ) Cfr. T. Padovani, Diritto <strong>penale</strong> del lavoro, cit., p. 61 ss.( 22 ) Sul reato omissivo improprio v. F. Sgubbi, La responsabilità <strong>penale</strong> per omesso impedimentodell’evento, Padova, 1975; G. Fiandaca, Il reato commissivo mediante omissione,Milano, 1979; Id., Diritto <strong>penale</strong>, cit., p. 546 ss.; G. Grasso, Il reato omissivo improprio,Milano, 1983; I. Leoncini, Obbligo di attivarsi, obbligo di garanzia e obbligo di sorveglianza,Torino, 1999; F. Giunta, La posizione di garanzia nel contesto della fattispecie omissiva impropria,inDir. pen. proc., 1999, p. 625 ss.; F. Mantovani, Diritto <strong>penale</strong>,cit., p. 166 ss.; Id.,L’obbligo di garanzia ricostruito alla luce dei principi di legalità, di solidarietà, di libertà ediresponsabilità personale, inRiv. it. dir. proc. pen., 2001, p. 337; Id., Causalità, obbligo di garanziae dolo nei reati omissivi,inRiv. it. dir. proc. pen., 2004, p. 984 ss.; F. Palazzo, Il fatto,cit., p. 73 ss.; Id., Corso di diritto <strong>penale</strong>, cit., p. 257 ss.; M. Romano, Commentario sistema-


284STUDI E RASSEGNEsivi comuni come l’omissione di soccorso, in cui il rapporto di protezionerispetto al bene giuridico non sussiste prima del verificarsi della situazionedi pericolo, nei reati propri omissivi la posizione di garanzia preesiste al verificarsidella situazione tipica e si concreta esclusivamente in capo ad alcunisoggetti che l’ordinamento ha posto in una particolare posizione giuridicanei confronti del bene giuridico tutelato. In questa prospettiva, quindi, ireati propri a struttura omissiva presentano un contenuto di disvalore diversoda quello dei reati omissivi comuni, consistente non solo nella violazionedel dovere di attivarsi ma anche nella violazione del particolare e predeterminatorapporto di garanzia (affidamento) del bene tutelato.Pertanto, nelle ipotesi in cui la norma incriminatrice individua il soggettoattivo del reato proprio facendo riferimento ad una qualifica formaledi origine extrapenalistica, l’estensione della norma incriminatrice anche aquei soggetti che, pur non essendo titolari della particolare qualifica formaledi fatto si trovano nella condizione di potere sfruttare una qualsiasi posizionedi vantaggio per l’aggressione al bene giuridico (nei reati propricommissivi) oppure che si trovano nella possibilità materiale di adempierel’obbligo di attivarsi (nei reati propri omissivi) equivarrebbe ad applicare lanorma <strong>penale</strong>, e quindi la pena, ad un fatto con un contenuto di disvalorediverso da quello previsto dalla legge.Dunque, l’equiparazione tra qualità soggettive tra loro non corrispondenti,nella misura in cui comporta l’equiparazione di fatti tra loro eterogeneidal punto di vista del disvalore, non può che essere riservata allacompetenza esclusiva del legislatore. Ebbene, in una prospettiva de iurecondendo, l’equiparazione tra soggetti di diritto e di fatto, come confermaanche l’esperienza comparatistica, può realizzarsi secondo una pluralità dimodelli.In primo luogo, viene in considerazione la possibilità di inserire nellaparte generale del codice una norma che equipari le qualifiche formali richiamatedalla fattispecie propria all’esercizio di fatto dei poteri ad essecorrispondenti. In questa prospettiva, ad esempio, si colloca lo Schemadi delega legislativa per un nuovo codice <strong>penale</strong> del 1992, elaborato dallacommissione presieduta dal Prof. Pagliaro, secondo il quale quando ‘‘lalegge <strong>penale</strong> indichi il soggetto attivo mediante una qualifica soggettiva,che implichi la titolarità di un dovere o di un potere giuridico, essa ha comedestinatario il formale titolare della stessa o chi, mediante l’esercizio di fattodi una attività, è divenuto titolare di tali doveri o poteri giuridici’’( 23 ).tico del codice <strong>penale</strong>, I, cit., p. 378; D. Pulitanò, Diritto <strong>penale</strong>, cit., p. 259 ss. Nella letteraturatedesca v. per tutti H. H. Jescheck, T.Weigend, Lehrbuch des Strafrechts, cit., p.605 ss.( 23 ) Cfr. Schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice <strong>penale</strong>, inDocumentiGiustizia, n. 3, 1992.


STUDI E RASSEGNE285In secondo luogo, sempre nella parte generale, il legislatore potrebbeinserire una clausola di equiparazione con riferimento però solamente a determinatequalità soggettive. E in questa prospettiva, ad esempio, si orientanoi codici penali tedesco, spagnolo e portoghese, che rispettivamenteagli artt. 14, 31, 12, attraverso la formula dell’agire per conto di altri, equiparanol’amministratore di diritto a quello di fatto( 24 ).Infine, viene in considerazione la possibilità di introdurre, al di fuoridella parte generale del codice <strong>penale</strong>, una clausola di equiparazione di determinatequalità soggettive formali ad efficacia limitata ad alcune fattispecieincriminatrici. In questa prospettiva, ad esempio, si colloca l’art. 2639c.c., di recente introdotto dal d.lg. n. 61 del 2002, che equipara ai soggettiformalmente titolari della funzione civilistica coloro che svolgono la stessafunzione diversamente qualificata o che esercitano in modo continuativo esignificativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione( 25 ).Ebbene, tra le possibili tecniche legislative di equiparazione, a ben vedere,sembrano preferibili quelle che forniscono una soluzione di ordinegenerale al problema delle qualifiche soggettive( 26 ). In effetti, la selezionedelle fattispecie oggetto della equiparazione, come dimostra anche la recenteesperienza dell’art. 2639 c.c., non essendo sempre in grado di risponderea criteri di ragionevolezza, rischia di indurre la giurisprudenza ad interpretazionianalogiche a scapito proprio dell’obbiettivo legalista che la tipizzazionedelle clausole di equiparazione persegue( 27 ).3. Il problema della delega di funzioni nelle organizzazioni complesse. –Il problema della individuazione del soggetto attivo del reato proprio, oltreche nell’ipotesi in cui il soggetto privo della qualifica formale richiesta dallanorma incriminatrice per la sussistenza del reato proprio esercita di fatto lefunzioni inerenti alla qualifica, si pone anche quando il soggetto titolaredella qualifica formale deleghi, con un atto di autonomia privata, ad unsoggetto non qualificato alcune delle funzioni inerenti alla qualifica sogget-( 24 ) Cfr. G. Marra, Legalità ed effettività, cit., p. 32 ss.; Id., La responsabilità <strong>penale</strong>dell’amministratore di fatto: un excursus critico sull’esperienza della RFT,inStudi Urb., n. 50-2, 1999-2000, p. 127 ss.; O. Di Giovine, «L’estensione delle qualifiche soggettive», inA.Giarda e S. Seminara (a cura di), I nuovi reati societari: diritto e processo, Padova, 2002,p. 27.( 25 ) Cfr. Sull’art. 2639 c.c. v. O. Di Giovine, «L’estensione delle qualifiche soggettive»,cit., p. 5; P. Veneziani, «Sub art. 2639», in A. Lanzi e A. Cadoppi (a cura di). I nuovi reatisocietari. Commentario al D.lgs. 11 aprile 2002, n. 61, Padova, 2002, p.186 ss.; A. Maccari,Commento ad art. 2639 c.c., inI nuovi illeciti penali ed amministrativi riguardanti le societàcommerciali, F.Giunta (a cura di), Torino 2002, p. 212 ss.; L. Foffani, voce Società, inCommentario breve alle leggi penali complementari, Palazzo-Paliero (a cura di), Padova,2003, p. 1917 ss.; F. Giunta, Reati societari e qualifiche soggettive, cit., p. 31 ss.( 26 ) Cfr. P. Veneziani, «Sub art. 2639», cit., p. 200.( 27 ) Cfr. F. Giunta, Reati societari e qualifiche soggettive, cit., p. 33.


286STUDI E RASSEGNEtiva. Infatti, in questa circostanza, ci si chiede, da un lato, se il trasferimentodi alcune funzioni inerenti alla qualifica soggettiva dal delegante al delegatocomporti anche il trasferimento della qualifica soggettiva e, dall’altrolato, se il soggetto delegato per effetto della delega possa essere consideratosoggetto attivo (c.d. intraneo) del reato proprio( 28 ).( 28 ) Nell’ampia letteratura sulla delega di funzioni v., tra gli altri, P. Aldrovandi,Orientamenti attuali e giurisprudenziali in materia di delega di compiti penalmente rilevanti,in Riv. trim. dir. pen. econ., 1995, p. 699; Id., Concorso nel reato colposo e diritto <strong>penale</strong> dell’impresa,Milano, 1999, p.125 ss.; Id., I profili evolutivi dell’illecito tributario, Padova, 2004,ed. provvisoria, p. 174 ss.; A. Alessandri, voce Impresa (responsabilità penali), cit., p. 209ss.; Id.; Delega di funzioni, in AA.VV., Manuale di diritto <strong>penale</strong> dell’impresa, Bologna, 1998,p. 54; F. Bellagamba, Sulla responsabilità <strong>penale</strong> nella delega di funzioni,inCass. pen. 1996,p. 1272 ss.; S. Bonini, Problemi e prospettive della responsabilità <strong>penale</strong> nell’impresa e delladelega di funzioni alla luce dei d.leg. 626/1994 e 242/1996 in materia di sicurezza del lavoro,inArch. giur., 1997, p. 575; S. Canestrari, La delega di funzioni e responsabilità a titolo diconcorso di persone nei reati tributari, in AA.VV., I reati in materia fiscale, a cura di Corsoe Stortoni - Giurisprudenza sistematica di diritto <strong>penale</strong>, diretta da Bricola e Zagrebelsky, Torino,1990, p. 135; F. Centonze, Ripartizione di attribuzioni aventi rilevanza penalistica eorganizzazione aziendale. Un nuovo orientamento della giurisprudenza di legittimità, inRiv.it. dir. proc. pen., 2000, p. 369 ss.; V. Fedele, Una pronuncia in tema di requisiti essenzialidella delega di funzioni in materia ambientale,inCass. pen. 2004, p. 4205 ss.; C. Fioravanti,Delega di funzioni, doveri di vigilanza e responsabilità <strong>penale</strong>, inGiur. it., p. 1993, II, p. 771;A. Fiorella, Il trasferimento di funzioni, cit., 1 ss.; Id., I principi generali del diritto <strong>penale</strong>dell’impresa, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, Dir. da F.Galgano, Vol. 25, L. Conti, Il diritto <strong>penale</strong> dell’impresa, Padova, 2001, 104 ss.; G. Flora, Isoggetti penalmente responsabili nell’impresa societaria, inStudi in onore di Nuvolone, II, Milano,1991, p. 543 ss.; Id., L’individuazione dei soggetti responsabili all’interno della societàcon particolare riguardo ai reati colposi, in AA.VV., Verso un nuovo codice <strong>penale</strong>, Milano,1993, p. 456; A. Gargani, Ubi culpa ibi omissio. La successione di garanti in attività inosservanti,inInd. pen., 2000, p. 590; Id., Sulla successione nella posizione giuridica di garanzia,in Studium Iuris 2004, p. 910 ss.; M. Giarrusso, Orientamenti dottrinali ed evoluzione giurisprudenzialesui problemi della responsabilità nell’esercizio dell’impresa e sull’efficacia delladelega di funzioni, inCass. pen., 1984, p. 2042; G. Grasso, Organizzazione aziendale e responsabilità<strong>penale</strong> per omesso impedimento dell’evento, inArch. pen., 1982, p. 744; Id., Ilreato omissivo improprio, cit., p. 419; A. Gullo, La delega di funzioni in diritto <strong>penale</strong>: brevinote a margine di un problema irrisolto, inRiv. it. dir. proc. pen., 1999, p. 1508; Id., Il reato,cit., p. 105 ss.; B. M. Gutierrez, Le deleghe di poteri, Milano, 2004; M. Mantovani, Ilprincipio di affidamento nella teoria del reato colposo, Milano, 1997, p. 245; T. Padovani,Il problema dei soggetti nel diritto <strong>penale</strong> del lavoro nel quadro della più recente giurisprudenza,inLeg. pen., 1981, p. 415; Id., Diritto <strong>penale</strong> del lavoro, cit., 61 ss.; Id., Il nuovo volto deldiritto <strong>penale</strong> del lavoro, inRiv. it. dir. pen. econ., 1996, p. 1157; Id., Reato proprio, cit., p.1183; A. Pagliaro, Problemi, cit., p. 26; E. Palombi, La delega di funzioni nel diritto <strong>penale</strong>dell’impresa,inGiust. pen., 1985, II, 679; M. A. Pasculli, Rilevanza della delega di funzioni:riflessioni in tema di responsabilità diretta delle persone giuridiche, inRiv. trim. dir. pen.ec., 2003, p. 293 ss.; C. Pedrazzi, Gestione d’impresa, cit., p. 220 ss.; Id., Profili problematicidel diritto <strong>penale</strong> dell’impresa, inRiv. it. dir. pen. econ., 1988, 125 ss.; A. Petrozzi, Colpevolezzao solvibilità: quale criterio per la responsabilità del delegante?, inRiv. it. dir. proc. pen.2001, 1052 ss.; D. Pulitanò, voce Igiene e sicurezza del lavoro (tutela <strong>penale</strong>), in Dig. disc.pen., VI, Torino, 1992, p. 102; Id., voce Igiene e sicurezza del lavoro (tutela <strong>penale</strong>), in Dig.


STUDI E RASSEGNE287Come è noto, nelle imprese di grandi, medie e anche piccole dimensioni,il moltiplicarsi degli obblighi connessi all’esercizio dell’attività imprenditorialeinducono il datore di lavoro a delegare taluni compiti di particolarecomplessità a propri dipendenti oppure a professionisti che svolgonosenza vincoli di subordinazione le attività delegate. Non è infatti immaginabileche l’amministratore di una s.p.a ma anche il titolare di una impresaindividuale si occupi personalmente dell’adempimento della moltitudine diobblighi penalmente rilevanti che sono imposti dalla legislazione previdenziale,commerciale e in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro.Sennonché, se, da un lato, l’esigenza che scaturisce dalla realtà socioeconomicadell’impresa suggerisce di attribuire rilevanza alla delega di funzionie di non ricondurre sempre e comunque la responsabilità <strong>penale</strong> alsoggetto in possesso della qualità soggettiva e titolare dell’obbligo penalmentesanzionato; dall’altro lato, si avverte l’esigenza di evitare che la delegadi funzioni possa divenire lo strumento attraverso il quale modificarei modelli di responsabilità precostituiti dal legislatore( 29 ) e portare a quellaSchünemann definisce ‘‘irresponsabilità organizzata’’( 30 ).4. Trasferimento della qualifica soggettiva e delega di obblighi. – Sulla naturaed efficacia della delega di funzioni, attualmente, a contendersi il camposono, come è noto, essenzialmente due indirizzi teorici: da un lato, quelloc.d. funzionale o oggettivo, e dall’altro, quello c.d. formale o soggettivo( 31 ).Secondo l’impostazione funzionale( 32 ), in presenza di particolari re-disc. pen., Aggiornamento, Torino, 2000, p. 388; Id., voce Inosservanza, cit., p. 64; Id., Posizionidi garanzia, cit., p. 178; I. Schincaglia, La rilevanza della delega di funzioni nel diritto<strong>penale</strong> d’impresa, inInd. pen., 2002, p. 152; F. Stella, Criminalità di impresa: nuovimodelli di intervento, inRiv. it. dir. proc. pen., 1999, p. 1262; A. Valenzano, Appunti intema di trasferimento di funzioni, inRiv. trim. dir. pen. econ., 2001, p. 990; P. Veneziani,Infortuni sul lavoro e responsabilità per omesso impedimento dell’evento: problemi attuali, inRiv.trim.dir.pen.ec. 1998, 493 ss.; T. Vitarelli, Profili penalistici della delega di funzioni.Sicurezza del lavoro e soggetti responsabili, Messina, 2002; K. Volk, Sistema <strong>penale</strong> e criminalitàeconomica, Napoli, 1998; M. Zalin, Efficacia della delega di funzioni nel diritto <strong>penale</strong>dell’ambiente, inRiv. trim. dir. pen. ec., 2002, p. 694 ss.( 29 ) Cfr. T. Padovani, Diritto <strong>penale</strong> del lavoro, cit., p. 63; F. Mantovani, Diritto<strong>penale</strong>, cit., p. 123; A. Gullo, Il reato, cit., p. 125.( 30 ) Cfr. B. Schünemann, Unternehmekriminalitat und Strafrecht, Berlin, 1979, p.30 ss.( 31 ) Cfr. F. Mantovani, Diritto <strong>penale</strong>, cit., p. 123 ss.; A. Gullo, Il reato, cit., p.129. In particolare, v. A. Pagliaro, Problemi, cit., p. 20 che parla della contrapposizionetra una teoria ‘‘formale civilistica’’ e una teoria ‘‘funzionalistica’’.( 32 ) Cfr. A. Fiorella, Il trasferimento di funzioni, cit., p. 13 ss. e 87 ss. che distinguetra incarico di funzioni ed incarico di esecuzioni, riconoscendo efficacia liberatoria per il delegantesolamente al primo; A. Pagliaro, Profili, cit., p. 21 ss.; L. Zavalloni, D.Bonaretti,Delegabilità della responsabilità <strong>penale</strong> ed amministrativa nell’ambito dell’impresa, Milano,1991; E. Palombi, La delega di funzioni, cit., p. 679 ss.


288STUDI E RASSEGNEquisiti messi a fuoco nel tempo dalla giurisprudenza ed oggetto di intensodibattito dottrinale( 33 ), con la delega di funzioni il delegante trasferisce aldelegato sia gli obblighi penalmente rilevanti sia la qualifica soggettiva dicui è titolare( 34 ). Si muove dall’idea che ai fini della titolarità degli obblighipenalmente rilevanti e della responsabilità per il loro inadempimento ciòche conta è l’esercizio effettivo della funzione cui l’obbligo inerisce. Dunque,nell’ipotesi in cui tali funzioni trapassano dal delegante al delegato pereffetto della c.d. delega, anche gli obblighi e le responsabilità si trasferisconodal primo al secondo( 35 ). Da questo punto di vista, la delega di funzioniproduce due effetti diversi: da un lato, privando il delegante della qualificasoggettiva che costituisce elemento costitutivo del reato proprio lo liberada una eventuale responsabilità <strong>penale</strong>; dall’altro lato, attribuendo all’incaricatola medesima qualifica del delegato svolge una efficacia costitutiva diresponsabilità ai sensi della fattispecie propria. Pertanto, in caso di inadempimentodegli obblighi trasferiti mentre il delegato, divenuto titolare dellaqualifica soggettiva, deve essere chiamato a rispondere come intraneo aisensi della norma incriminatrice che configura il reato proprio, il deleganteavendo perduto tale qualifica non può più essere chiamato a rispondere aibase alla fattispecie propria( 36 ). Da questo punto di vista, la delega di funzionisi dice che opera sul piano dell’elemento materiale del reato, in quantoper un verso fa venire meno nei confronti del delegante e per un latroverso costituisce in capo al delegato un elemento materiale del reato costituitodalla qualifica soggettiva.Questa impostazione che riconosce alla delega di funzioni efficacia sulpiano della tipicità suscita non poche perplessità( 37 ).In primo luogo, va detto che l’idea secondo la quale attraverso un attodi autonomia privata come la delega di funzioni, il soggetto qualificato titolaredi obblighi penalmente rilevanti si possa liberare della responsabilità<strong>penale</strong>, da un lato, sembra contrastare con il principio della inderogabilitàdelle posizioni di garanzia previste dall’ordinamento( 38 ). Dall’altro lato,sembra contrastare anche con la ratio dei reati propri in cui la tipizzazionedel soggetto attivo avviene attraverso il riferimento a qualifiche formali, cheè quella di costituire garanti di determinati beni bisognosi di tutela raffor-( 33 ) Sui requisiti di validità della delega di funzioni elaborati nel tempo dalla giurisprudenzav. infra §8.( 34 ) Cfr. A. Fiorella, Il trasferimento di funzioni, cit., p. 87 ss.( 35 ) Cfr. A. Fiorella, Il trasferimento di funzioni, cit., p. 113 ss.( 36 ) Cfr. A. Wiesener, Die strafrechtliche Verantwortlichkeit von Stellvertretern undOrganem, Frankfurt, 1971, p. 147 ss.; A. Fiorella, Il trasferimento di funzioni, cit., p.187 ss.( 37 ) Per una critica della tesi della rilevanza obiettiva della delega di funzioni, si vedaper tutti T. Padovani, Diritto <strong>penale</strong> del lavoro, cit., p. 63 ss.( 38 ) Cfr. D. Pulitanò, Posizioni di garanzia, cit., p. 180.


STUDI E RASSEGNE289zata quei soggetti che non solo hanno la possibilità materiale di tutelarli mache in virtù della propria posizione di ‘‘vertice’’ sono più di chiunque altrocapaci di garantirne l’integrità( 39 ).In secondo luogo, un altro limite della tesi della rilevanza oggettivadella delega, a ben vedere, sembra individuabile nella difficoltà di teneredistinto il fenomeno del trasferimento della qualifica da quello delle funzioniad essa collegate. Più precisamente, l’approccio oggettivista sembra sovrapporredue fenomeni che debbono rimanere distinti: il trasferimento (odelega) delle funzioni (poteri-obblighi) di garanzia e la successione nellaposizione di garanzia( 40 ).Il fenomeno del trasferimento (o delega) delle funzioni di garanzia ricorrequando il garante originario trasferisce alcuni dei suoi poteri-doveriad un nuovo soggetto che diventa un ulteriore garante dei beni affidati aquello originario. In questo caso, si ha un effetto cumulativo di funzionidi garanzia e non la liberazione del delegante dalla propria originaria posizionedi garanzia( 41 ). Infatti, il garante originario non trasferisce la propriaposizione di garanzia, ma solamente alcune funzioni di garanzia che inerisconoalla propria posizione di garanzia.Al contrario, il fenomeno della successione nella posizione di garanziaricorre quando il garante originario trasferisce l’intera posizione di garanziaad un nuovo garante. Così, ad esempio, si ha successione nella posizione digaranzia quando l’imprenditore trasferisce l’azienda ad un altro imprenditoreche diventa il nuovo e unico garante dei beni affidati dalla legge a chisi trova nella posizione di imprenditore( 42 ). In questo caso, l’imprenditore– garante originario – avendo ceduto la propria posizione ad un altro soggetto,dal momento che ha trasferito la fonte di pericolo e non ha più lapossibilità di intervenire direttamente né di accedere in concreto all’utilizzazionee alla gestione dei fattori di rischio, non può più essere consideratotitolare di alcun obbligo di garanzia( 43 ).Dunque, solamente la successione nella posizione di garanzia e non anchela mera delega di alcune funzioni inerenti alla qualifica (posizione), puòdeterminare il risultato radicale e definitivo della liberazione integrale delsoggetto cedente dalla funzione impeditiva, cioè dalla posizione giuridicadi garante( 44 ).( 39 ) Cfr. T. Padovani, Diritto <strong>penale</strong> del lavoro, cit., p. 63 ss.( 40 ) Per la differenza tra delega di funzioni e successione nella posizione di garanzia v.A. Gargani, Ubi culpa, cit., p. 592 ss.; Id., Sulla successione, cit., p. 909 ss.( 41 ) Cfr. A. Gargani, Sulla successione, cit., p. 911.( 42 ) Cfr. A. Gargani, Ubi culpa, cit., p. 592.( 43 ) G. Grasso, Organizzazione aziendale, cit., p. 752; A. Gargani, Ubi culpa, cit., p.592 ss.( 44 ) Cfr. A. Gargani, Ubi culpa, cit., p.593; Id., Sulla successione, cit., p. 911.


290STUDI E RASSEGNEIn terzo luogo, e sotto il profilo politico-criminale, va osservato comela tesi oggettivistica non sembra condurre a una soluzione appagante nelcaso in cui il delegante venga a conoscenza di eventuali inadempienzedel delegato( 45 ). Infatti, la coerente applicazione dei principi enunciatidai funzionalisti condurrebbe ad esonerare il delegante da ogni responsabilità,in quanto, non essendo più titolare della qualifica soggettiva, giàsul piano oggettivo, non sarebbe più il destinatario dell’obbligo penalmenterilevante rimasto inadempiuto. Né, peraltro, paiono convincenti le soluzioniprospettate dai funzionalisti che giungono a configurare la responsabilitàdel delegante che venga a conoscenze delle inadempienze del delegatoattraverso lo schema del concorso dell’extraneus nel reato proprio( 46 ).Infatti, in assenza di un contributo psicologico o materiale alla violazionedei doveri penalmente sanzionati di cui per effetto della delega è titolareil delegato, la configurabilità del concorso dell’estraneo-delegante nel reatoproprio del delegato potrebbe essere affermata solamente attraverso il riconoscimentodella permanenza in capo al delegante di un intrasferibile doveredi controllo sull’operato del delegato rilevante ai sensi dell’art. 40 cpv.c.p., riconoscimento che finirebbe però per mettere in crisi i postulati difondo della teoria oggettivistica che riconosce alla delega rilevanza propriosul piano della tipicità. Senza considerare poi il paradosso di far risponderea titolo di concorrente extraneus l’originario destinatario del reato proprio,ribaltando così la logica del reato proprio e con essa le scelte fatte dal legislatorein sede di selezione dei garanti, scelte compiute tenendo conto deiparticolari rapporti tra la qualifica e il bene giuridico tutelato( 47 ).Infine, e soprattutto, va detto che attribuendo alla delega di funzioniefficacia ‘‘costitutiva’’ di responsabilità per il delegato e ‘‘liberatoria’’ peril delegante si rischia di concentrare la responsabilità <strong>penale</strong> verso il ‘‘basso’’con la conseguenza, da un lato, di lasciare esenti da pena i soggetti chein virtù delle propria posizione di vertice, concorrendo a determinare lapolitica dell’impresa, sono i ‘‘veri’’ responsabili degli illeciti penali costruitiin forma propria( 48 ); e dall’altro lato, di affidare la tutela dei beni giuridicibisognosi di tutela rafforzata a soggetti, che proprio a causa della propriaposizione di subordinazione gerarchica all’interno delle aziende, non sonoin grado di garantirne una adeguata protezione.5. La delega di funzioni come modalità di adempimento di obblighi penalmenterilevanti. – Per evitare che attraverso la delega di funzioni si giun-( 45 ) Cfr. T. Padovani, Diritto <strong>penale</strong> del lavoro, cit., p. 74 ss.; G. Grasso, Il reatoomissivo improprio, cit., p. 434 ss.( 46 ) La soluzione è proposta da A. Pagliaro, Problemi, cit., p. 23.( 47 ) Cfr. A. Gullo, La delega di funzioni, cit., p. 1516.( 48 ) Cfr. T. Padovani, Diritto <strong>penale</strong> del lavoro, cit., p. 49 ss.


STUDI E RASSEGNE291ga a violare il principio di legalità e a deresponsabilizzare i soggetti che sonoresponsabili della politica d’impresa, una parte della dottrina suggerisceuna ricostruzione in chiave soggettivistica dell’istituto( 49 ). Più precisamente,si sostiene che la delega di funzioni non può assumere rilevanza sul pianooggettivo ma solamente su quello soggettivo. In particolare, si osservacome, nei reati propri a struttura omissiva, il fatto che l’obbligo di attivarsiè diretto in via esclusiva al soggetto in possesso della particolare qualitàsoggettiva non gli impedisce di ricorrere attraverso la delega di funzioni allacollaborazione di altri soggetti per l’adempimento dei propri obblighi penalmenterilevanti. In tal caso, la delega di funzioni, se, da un lato, non puòassumere rilevanza ai fini della esclusione della responsabilità per il fattoomissivo del soggetto qualificato, dall’altro lato, non può neppure considerarsiirrilevante. Più precisamente, una volta che il soggetto qualificato delegail compito di adempiere agli obblighi penalmente sanzionati di cui ètitolare esclusivo ad un altro soggetto, assumendo su di sè il rischio dell’inadempimentoaltrui, avrà l’onere di controllare che il delegato adempia aicompiti attribuiti. Pertanto, in caso di delega di funzioni affinché il soggettoqualificato possa essere chiamato a rispondere dell’omissione propria atitolo di colpa occorrerà che non abbia esercitato nei confronti del delegatoil controllo concretamente esigibile( 50 ). A questo proposito, si osserva comeai fini della valutazione della colpa del delegante assumeranno rilievo,da un lato, le dimensioni della struttura organizzativa nell’ambito della qualeè intervenuta la delega di funzioni, in quanto in una impresa di grandidimensioni non è possibile esigere dall’imprenditore lo stesso controllo sull’attivitàdel delegato, che invece è doveroso attendersi in imprese di piùpiccole dimensioni. Dall’altro lato, ai fini della valutazione della colpadel soggetto delegante assumerà rilievo anche la ragionevolezza dell’affidamentodegli obblighi, che a sua volta dipenderà dalla posizione e dalle caratteristichedel delegato( 51 ).Per quanto riguarda, poi, la posizione del delegato, si afferma che la suaresponsabilità <strong>penale</strong> potrà essere apprezzata unicamente sul piano del concorsodell’extraneus nel reato proprio. Più precisamente, si osserva che conl’accettazione della delega di funzioni il delegato si assume un obbligo direttoall’impedimento del reato del delegante-intraneo rilevante ai sensi dell’art. 40cpv. c.p. Pertanto, in caso di inadempimento il delegato potrebbe essere chiamatoa rispondere, ai sensi degli artt. 40 cpv. e 110 c.p., per concorso medianteomissione nel reato (proprio) omissivo del delegante( 52 ).( 49 ) Per questa impostazione v., per tutti, T. Padovani, Diritto <strong>penale</strong> del lavoro, cit.,p. 61 ss.( 50 ) Cfr. T. Padovani, Diritto <strong>penale</strong> del lavoro, cit., p. 84.( 51 ) Cfr. T. Padovani, Diritto <strong>penale</strong> del lavoro, cit., pp. 85-86.( 52 ) Cfr. T. Padovani, Diritto <strong>penale</strong> del lavoro, cit., pp. 93-94.


292STUDI E RASSEGNENei confronti di questa impostazione che attribuisce rilevanza sul pianomeramente soggettivo alla delega di funzioni, si è detto che corre il rischiodi configurare ipotesi di responsabilità da posizione, in violazione delprincipio costituzionale di personalità della responsabilità <strong>penale</strong> di cui all’art.27 Cost( 53 ). Più in particolare, si osserva come non attribuire efficaciascriminante alla delega di funzioni significherebbe chiamare a rispondere ildelegante per il mancato compimento di un’azione doverosa che non potevadi fatto realizzare per avere trasferito ad altri i poteri necessari all’adempimento(54 ).Sennonché, questa preoccupazione, peraltro ricorrente, non sembracogliere nel segno. Infatti, il delegante con la delega di funzioni non trasferiscela propria qualifica, la propria posizione, l’intera corona di poteri edoveri di cui è titolare, ma solamente alcune funzioni che consentono aldelegato di adempiere agli obblighi delegati. Pertanto, il delegante, nonostantela delega, rimanendo titolare della propria qualifica e della posizionedi ‘‘preminenza’’ all’interno dell’azienda, è comunque sempre in grado diadempiere agli obblighi che ha delegato.Ebbene, a ben vedere, questo rilievo critico nei confronti dell’impostazionesoggettivistica, sembra (ancora una volta) legato alla non chiara messaa fuoco della distinzione tra il fenomeno del trasferimento delle funzionidi garanzia e quello della successione nella posizione di garanzia( 55 ). Infatti,si potrebbe ipotizzare la configurazione di ipotesi di responsabilità perfatto altrui laddove la delega di funzioni fosse in grado di trasferire la posizionedi garanzia di cui il delegante è titolare. In questo caso, infatti, esigerel’adempimento dell’obbligo di garanzia da chi non si trova più nellaposizione di garanzia equivarrebbe a configurare una responsabilità per fattoaltrui. Al contrario, nel caso della delega di funzioni il delegante vienechiamato a rispondere dell’inadempimento degli obblighi delegati, in quantotitolare della posizione di garanzia originaria che la delega di funzioninon ha eliminato( 56 ). In effetti, nella prospettiva soggettivistica la compatibilitàcon il principio di personalità della responsabilità <strong>penale</strong> è assicuratadalla equilibrata applicazione dei normali criteri di imputazione soggettivadella responsabilità <strong>penale</strong>( 57 ). Da questo punto di vista, il rischio di( 53 ) Cfr. G. Fiandaca, Il reato commissivo, cit., p. 202 ss.( 54 ) Cfr. G. Fiandaca, Il reato commissivo, cit., p. 202; G. Grasso, Organizzazioneaziendale, cit., p. 745 ss.; E. Palombi, Delega, cit., p. 679.( 55 ) Cfr. A. Gargani, Ubi culpa, cit., p. 592; Id., Sulla successione, cit., p. 910 ss.( 56 ) Cfr. D. Pulitanò, voce Igiene e sicurezza, cit., p. 107; A. Gargani, Ubi culpa,cit., p. 592; Id., Sulla successione, cit., p. 910 ss.( 57 ) In questo senso sembrano orientate le motivazioni delle decisioni della Corte Costituzionaleche ha sempre teso a respingere le questioni di costituzionalità sollevate in relazionealle norme penali che collegano la responsabilità al ‘‘ruolo’’ ricoperto nell’ambito delleorganizzazioni complesse: v. Corte cost. 1982, n. 198, in Foro it., I, 1983, p. 570; Corte cost.


STUDI E RASSEGNE293incorrere in responsabilità da posizione non pare legato alla esclusione dellaefficacia liberatoria alla delega di funzioni, ma può essere rappresentatodall’utilizzo di criteri di valutazione della colpevolezza, sotto il profilo dellaculpa in vigilando ed in eligendo, eccessivamente rigorosi( 58 ).E neppure pare condivisibile il rilievo secondo il quale il ruolo delladelega di funzioni non può in nessun caso essere confinato esclusivamentesul piano della colpevolezza. Più precisamente, si osserva come anche nellaprospettiva soggettivistica il contenuto della posizione di garanzia del delegantemuta per effetto della delega, dal momento che si trasforma in unobbligo di sorveglianza la cui portata deve di volta in volta essere determinatain relazione a variabili come le dimensioni dell’impresa e la ragionevolezzadell’affidamento dell’incarico( 59 ).Sennonché, a ben vedere, per effetto della delega di funzioni non sembramutare tanto il contenuto dell’originario obbligo di garanzia di cui ètitolare il delegante, quanto piuttosto quello del dovere di diligenza (dellaregola cautelare) alla stregua del quale deve essere valutato l’adempimentodel delegante. È evidente come una volta che il garante originario decide diadempiere ai propri obblighi attraverso il ricorso alla delega di funzioni,cioè avvalendosi dell’opera di un incaricato, il dovere di diligenza muteràdi contenuto sostanziandosi nell’obbligo di vigilare sul comportamentodel delegato( 60 ).Piuttosto, ciò che non convince dell’impostazione soggettivistica è laricostruzione della efficacia della delega di funzioni nei confronti del delegato.Più precisamente, non persuade l’idea secondo la quale per effettodella delega di funzioni il delegato verrebbe ad acquistare un obbligo diimpedimento del reato del delegante integrato dalla violazione degli obblighidi cui quest’ultimo è titolare in via esclusiva( 61 ). In effetti, se, da un lato,non ci sono dubbi sul fatto che l’obbligo di garanzia finalizzato all’impedimentodel reato altrui può discendere anche da un atto di autonomiaprivata come è appunto la delega di funzioni( 62 ), dall’altro lato, l’impegno1976, n. 173, in Giur. pen. 1976, I, p. 297; Corte cost. 1959, n. 39, in Riv. it. dir. proc. pen.,1959, p. 915.( 58 ) Cfr. D. Pulitanò, voce Igiene e sicurezza, cit., p. 107.( 59 ) Cfr. G. Grasso, Il reato omissivo improprio, cit., p. 437; Id., Organizzazione aziendale,cit., p. 751; A. Fiorella, Il trasferimento di funzioni, cit., p. 177; M. Mantovani, Ilprincipio di affidamento, cit., p. 324; P. Aldrovandi, Orientamenti dottrinali, cit., p. 700;Id., Concorso nel reato colposo, cit., p. 131.( 60 ) Sui rapporti tra obbligo di diligenza e obbligo di garanzia v. G. Fiandaca, Il reatocommissivo, cit., p. 104; G. Grasso, Il reato omissivo improprio, cit., p. 372 ss; F. Giunta,Illiceità e colpevolezza nella responsabilità <strong>penale</strong>, Padova, 1993, p. 233 ss.( 61 ) Cfr. M. Mantovani, Il principio di affidamento, cit., p. 313 ss.( 62 ) Cfr. G. Grasso, Il reato omissivo improprio, cit., p. 263 ss.; F. Giunta, La posizionedi garanzia, cit., p. 621 ss.; I. Leoncini, Obbligo, cit., p. 223 ss.; F. Mantovani, Di-


294STUDI E RASSEGNEassunto dal delegato nei confronti del delegante di attivarsi per l’impedimentodei reati di quest’ultimo non sembra che si possa ricondurre nell’ambitodella categoria degli obblighi di garanzia rilevanti ex art. 40cpv. c.p., per mancanza di un correlativo potere giuridico di impedimentodel reato( 63 ). In sostanza, ai fini della insorgenza in capo al delegato di unobbligo di impedimento del reato rilevante ex art. 40 cpv. c.p., è di ostacolola mancanza di un autentico potere giuridico di impedimento del reatodel delegante, in quanto il delegato, pur essendosi assunto l’obbligo di attivarsial fine di impedire che il delegante commetta il reato omissivo, nonha alcun potere giuridico per indurre l’intraneus (anche contro la sua volontà)ad adempiere all’obbligo penalmente rilevante di cui è titolare invia esclusiva( 64 ).Al problema della responsabilità del delegato, a nostro avviso, sembrafornire una soluzione più appagante quella parte della dottrina che, pur negandoalla delega di funzioni efficacia liberatoria sul versante della responsabilitàdel delegante, riconosce a quest’ultimo la possibilità di costituirenuove e autonome posizioni di garanzia in capo al delegato( 65 ). In questaprospettiva, la delega di funzioni assumerebbe una duplice efficacia: soggettivaper quanto riguarda la responsabilità del delegante e oggettiva sulversante della responsabilità del delegato. In effetti, si afferma come eccezionfatta per i reati propri c.d. di mano propria, in cui a venire in rilievosono adempimenti necessariamente personali, come ad esempio i reati tributaria struttura omissiva( 66 ), esistono reati propri incentrati sull’inadempimentodi una ‘‘obbligazione di risultato’’, come ad esempio i reati dellalegislazione antinfortunistica, rispetto ai quali è possibile ipotizzare che iltitolare della qualifica soggettiva (intraneo) possa attraverso la delega difunzioni costituire in capo al delegato una nuova qualifica soggettiva euna nuova posizione di garanzia nei limiti delle attribuzioni delegate( 67 ).ritto <strong>penale</strong>, cit., p. 173 ss.; Id., L’obbligo di garanzia, cit., p. 345 ss.; F. Palazzo, Corso didiritto <strong>penale</strong>, cit., p. 261 ss.; Id., Il fatto, cit., p. 78.( 63 ) Sulla necessità che all’obbligo giuridico di impedire l’evento corrispondano effettivipoteri giuridici impeditivi v. I. Leoncini, Obbligo, cit., p. 70 ss.; F. Mantovani, L’obbligo,cit., p. 346; F. Palazzo, Corso di diritto <strong>penale</strong>, cit., p. 266 ss.; Id., Il fatto, cit., p. 78.( 64 ) In quest’ordine di idee si pone anche M. Mantovani, Il principio di affidamento,cit., p. 317-318.( 65 ) In questo senso, anche se con sfumature in parte diverse, v. G. Grasso, Il reatoomissivo improprio, cit., p. 438 ss.; D. Pulitanò, Posizioni di garanzia, cit., p. 180 ss.; Id.,voce Igiene e sicurezza del lavoro, cit., p. 107ss.; A. Alessandri, voce Impresa (responsabilitàpenali), cit., p. 212 ss.; P. Aldrovandi, Concorso nel reato colposo, cit. p. 158; Id., A. Gargani,Sulla successione, cit., p. 911; A. Gullo, Il reato, cit., 150 ss.; Id., La delega di funzioni,cit., p. 1517 ss.( 66 ) Ci si riferisce alle numerose fattispecie proprie di pura omissione che caratterizzavanola disciplina dei reati tributari nel vigore della Legge n. 516 del 1982.( 67 ) Cfr. C.Pedrazzi, Profili problematici, cit., p. 140 ss.


STUDI E RASSEGNE295Il riconoscimento della possibilità di costituire attraverso la delega di funzioninuove qualifiche soggettive e posizioni di garanzia, che si vanno adaggiungere a quella del delegante, comporta che la responsabilità del delegatopossa essere affermata direttamente ai sensi della fattispecie propria enon attraverso il ricorso allo schema del concorso mediante omissione dell’extraneusnel reato proprio omissivo del delegante( 68 ).6. Modelli di delega di funzioni e ruolo della qualifica soggettiva extrapenalisticanel ‘‘tipo’’ criminoso. – La contrapposizione tra questi due modellidi delega di funzioni proposti dalla dottrina, quello c.d. funzionale ooggettivo, e quello c.d. formale o soggettivo, può in qualche modo esserericomposta, almeno da un punto di vista teorico, nella prospettiva della c.d.‘‘teoria della doppia misura della colpa’’, che attribuisce rilevanza sul pianodella tipicità alla violazione della regola di diligenza obiettiva( 69 ). Infatti, sesi nega alla delega di funzioni, come ritengono i sostenitori della teoria soggettivistica,efficacia sul piano oggettivo, nel caso in cui il delegante abbiaadempiuto ai propri doveri di vigilanza sull’attività del delegato, il comportamentoinadempiente di quest’ultimo non gli è attribuibile oggettivamentecome fatto proprio a causa della mancanza della violazione della regolacautelare (c.d. misura oggettiva della colpa)( 70 ) e la sentenza di assoluzioneanche in questo caso dovrebbe recare la formula perché il ‘‘fatto non sussiste.’’Tuttavia, se, da un lato, non ci sono dubbi sul fatto che la contrapposizionetra i due principali modelli ricostruttivi di delega di funzioni nondeve essere enfatizzata, dall’altro lato, è di tutta evidenza come alla basedelle possibili diverse ricostruzioni vi siano due modelli molto diversi direato proprio( 71 ). Da un lato, i funzionalisti sembrano muovere da un modellodi reato proprio a qualifica, per così dire, ‘‘debole’’ in cui soggettoattivo è da considerare chiunque sia titolare di poteri che consentono l’esecuzionedella condotta tipica e in cui il riferimento alla qualifica extrapenalisticaserve a descrivere più che il soggetto attivo la condotta tipica. Inquesta prospettiva, la titolarità della qualifica soggettiva è unposterius ri-( 68 ) Cfr. C.Pedrazzi, Profili problematici, cit., p. 142 e nota 50.( 69 ) Cfr. G. Marinucci, Il reato come azione, Milano, 1971, p. 157 ss.; M. Romano,Commentario, I, cit., p. 457 ss.; S. Canestrari, L’illecito <strong>penale</strong> preterintenzionale, Padova,1089, p. 101 ss.; G. Fornasari, Il principio di inesigibilità nel diritto <strong>penale</strong>, Padova, 1990,p. p. 321 ss.; G. Forti, Colpa ed evento nel diritto <strong>penale</strong>, Milano, 1990, p. 138 ss.; M. Donini,Illecito e colpevolezza nell’imputazione del reato, Milano, 1991, p. 38 ss.; F. Palazzo, Ilfatto, cit., p. 123 ss.; Id., Corso di diritto <strong>penale</strong>, cit., pp. 308 ss. e 471 ss.( 70 ) Cfr. D. Pulitanò, voce Inosservanza, cit., p. 71; Id., voce Igiene e sicurezza, cit.,p. 107; P. Aldrovandi, Orientamenti, cit., p. 700; A. Gullo, La delega di funzioni, cit., p.1514.( 71 ) Cfr. A. Gullo, Il reato, cit., pp. 129 ss. e 145 ss.


296STUDI E RASSEGNEspetto al possesso dei poteri che consentono l’adempimento degli obblighipenalmente rilevanti, nel senso che la titolarità della qualifica e degli obblighiad essa collegati discende dalla titolarità dei poteri consentanei al loroadempimento( 72 ). Dall’altro lato, i formalisti muovono da un modello direato proprio, per così dire, a qualifica ‘‘forte’’ in cui il soggetto attivo ècolui che si trova in una particolare posizione nei confronti del bene giuridicoed in cui la qualifica soggettiva extrapenalistica serve a indicare nontanto e non solo la titolarità dei poteri necessari alla esecuzione della condottatipica, ma la titolarità di una particolare posizione che pone il soggettoin rapporto ‘‘privilegiato’’ con il bene giuridico e che denota una specialeattitudine alla sua offesa (nei reati propri commissivi) o difesa (nei reatipropri omissivi propri e impropri).In effetti, coloro che muovono dall’idea che nei reati propri il riferimentoalla qualifica formale serve ad individuare i soggetti che in virtùdei poteri di cui sono titolari sono in grado di realizzare la condotta descrittadalla norma incriminatrice sono portati a pensare, da un lato, che soggettoattivo del reato proprio sia chiunque, a prescindere dalla titolaritàdella qualifica formale, eserciti effettivamente i poteri consentanei all’adempimentodegli obblighi penalmente rilevanti; e dall’altro lato, che,quando in forza della c.d. delega, i poteri che consentono l’adempimentodegli obblighi penalmente rilevanti trapassano dal delegante al delegato,gli obblighi e le responsabilità che a tali poteri sono collegati gravano esclusivamentesu quest’ultimo( 73 ).Sennonché, a ben vedere, se si interpretano le qualifiche soggettive inchiave funzionalistica e si ritiene che ai fini della individuazione del soggettoattivo dei reati propri deve assumere rilevanza non già la titolarità dellaqualifica formale ma l’esercizio effettivo dei poteri ad essa corrispondenti, aessere coerenti, più che ritenere che la liberazione del delegante dalla responsabilità<strong>penale</strong> consegua al trasferimento della titolarità della funzionecui l’obbligo inerisce, si dovrebbe essere portati a superare del tutto il problemadella delega di funzioni( 74 ). In effetti, se ai fini della individuazionedel soggetto attivo dei reati propri assume rilevanza unicamente l’esercizio( 72 ) Cfr. A. Pagliaro, Il concorso dell’estraneo nei delitti contro la pubblica amministrazione,inDir. pen. proc., 1995, p. 975 che definisce questo modello di reato proprio «astruttura inversa».( 73 ) Cfr. A. Fiorella, Il trasferimento di funzioni, cit., p. 113 ss.( 74 ) In dottrina, in questo senso, v. A. Pagliaro, Problemi generali, cit., p. 22; F.Stella, Criminalità di impresa, cit., p. 1262 ss.; F. Centonze, Ripartizione di attribuzioneaventi rilevanza penalistica, cit., p. 369 ss.; V. Fedele, Una pronuncia in tema di requisiti essenzialidella delega di funzioni in materia ambientale, inCass. pen., 2004, p. 4214 ss. In giurisprudenzav. Cass. pen., sez. IV, 3 marzo 1998, Brambilla, in Riv. it. dir. proc. pen., 2000, p.364; Cass. pen., sez. III, 26 febbraio 1998, Caron, in Riv. it. dir. proc. pen., 2000, p. 364 ss.secondo le quali ai fini dell’individuazione dei soggetti responsabili all’interno dell’impresa


STUDI E RASSEGNE297effettivo dei poteri sottesi alla qualifica soggettiva a prescindere dalla titolaritàdella qualifica formale, allora l’obbligo di attivarsi penalmente rilevanteandrà considerato di titolarità di chiunque disponga effettivamentedei poteri consentanei all’adempimento. In questa prospettiva, a ben vedere,ai fini dell’individuazione dei soggetti responsabili all’interno dell’impresaciò che conta non è che certi poteri siano o non siano formalmentedelegati, ma l’effettiva e concreta ripartizione dei compiti all’interno dell’impresa(75 ).Al contrario, se si muove dall’idea che la ratio della tipizzazione delsoggetto attivo (attraverso il riferimento ad una qualifica extrapenalistica)nei reati (propri) omissivi propri e impropri risponde all’esigenza di attribuirerilevanza ad una posizione, ad un ruolo giuridicamente riconosciutoche rivela una specifica attitudine alla difesa di determinati beni giuridici,allora si sarà portati a pensare, da un lato, che legittimato al reato propriopuò essere solamente chi è titolare della qualifica formale extrapenalistica;e dall’altro lato, che l’incarico conferito dall’originario ed esclusivo titolaredell’obbligo ad un extraneus affinché questi presti l’attività necessaria perl’adempimento dell’obbligo non è suscettibile di sortire un effetto liberatorioper il primo. In effetti, se la ratio della costruzione in forma propria dellefattispecie incriminatrici va individuata nella particolare posizione di privilegionei confronti della tutela di determinati beni giuridici, la liberazionedel soggetto qualificato dagli obblighi connessi alla qualifica potrà avveniresolamente attraverso l’abbandono di quella posizione, di quel ruolo e nongià attribuendo, tramite la delega di funzioni, ad altri soggetti i poteri necessariper l’adempimento di tali obblighi.Ebbene, questo modello di reato proprio e di interpretazione dellequalifiche soggettive formali extrapenali, a nostro modo di vedere, è dapreferire in quanto pare più adeguato rispetto a quello delineato dall’approcciofunzionale a fronteggiare la criminalità d’ impresa. In questa prospettiva,infatti, la responsabilità per la violazione degli obblighi finalizzatialla tutela degli interessi (come la vita, l’integrità fisica e l’ambiente, ecc.)ciò che conta non è che certi poteri siano o non siano formalmente delegati, ma l’effettiva econcreta ripartizione dei compiti all’interno dell’impresa.( 75 ) Cfr. F. Centonze, Ripartizione di attribuzione aventi rilevanza penalistica, cit., p.369 ss.; F. Stella, Criminalità di impresa, cit., p. 1263 che osservano come il superamentodella problematica della delega di funzioni comporterebbe il vantaggio di liberare il soggettotitolare della qualifica formale (imprenditore, amministratore, ecc.) in caso di inadempimentodell’obbligo di attivarsi penalmente rilevante dall’onere di dovere dimostrare l’esistenzadella delega di funzioni e dei suoi requisiti per andare esente da responsabilità <strong>penale</strong>, gravandopiuttosto sulla Pubblica accusa l’onere di individuare colui che all’interno dell’impresaavendo di fatto i poteri necessari per l’adempimento dell’obbligo ne era il reale titolare. Ingiurisprudenza, v. Cass. pen., sez. IV, 3 marzo 1998, Brambilla, cit., p. 364; Cass. pen., sez.III, 26 febbraio 1998, Caron, cit., p. 364 ss.


298STUDI E RASSEGNEpotenzialmente in conflitto con l’esercizio dell’impresa( 76 ) rimane ancoratain capo a quei soggetti che all’interno delle imprese rivestono posizioni,ruoli di vertice e che in forza di questi sono in grado non solo di adempiereagli obblighi di attivarsi posti a tutela di tali interessi, ma soprattutto dicontribuire a determinare le condizioni per il corretto adempimento di taliobblighi.7. Spunti ricostruttivi su natura ed efficacia della delega di funzioni. –Nonostante che l’assenza di una precisa e vincolante indicazione normativaa favore di quest’ ultimo modello di reato proprio a qualifica ‘‘forte’’ contribuiscaa non rendere agevole la ricostruzione della natura ed efficaciadella delega di funzioni nelle organizzazioni complesse, alcuni punti fermisono non solo possibili ma anche necessari.Anzitutto, occorre tenere distinti gli effetti della delega di funzioni neiconfronti del delegante da quelli che produce sulla posizione del delegato(77 ).Per quanto riguarda la posizione del delegante, va detto che la delegadi funzioni non sembra possa operare sul piano oggettivo con efficaciaquindi liberatoria di responsabilità, quanto piuttosto sul piano soggettivocon efficacia scusante per il dante causa( 78 ).In primo luogo, e da un punto di vista sostanziale, infatti, la titolaritàdegli obblighi penalmente rilevanti non pare dipendere solamente dalla titolaritàdei poteri consentanei all’adempimento, ma anche, e soprattutto,dalla particolare ‘‘posizione’’ del delegante espressa dalla qualifica soggettivaextrapenalistica. Pertanto, solamente con la cessione di tale posizione ildelegante potrà integralmente essere liberato dai propri obblighi. E questolegame tra la titolarità degli obblighi aventi penalistico rilievo e il ‘‘ruolo’’che al delegante riconosce la legge extra<strong>penale</strong> nell’ambito dell’impresa apparetanto più inscindibile se si pensa che il sicuro (efficace) adempimentodegli obblighi posti a tutela di interessi potenzialmente confliggenti conquelli dell’impresa (come, ad esempio, la sicurezza dei lavoratori, l’ambiente,l’interesse dello Stato alla riscossione dei tributi, ecc.) difficilmente potràessere garantito senza la collaborazione dei vertici dell’impresa. In sostanza,non è pensabile che con la delega di funzioni il delegante si liberiintegralmente degli obblighi delegati fondamentalmente in quanto, dal momentoche le imprese sono strutture organizzative complesse in continuaevoluzione che operano in un contesto socio-normativo altrettanto mutevole,ai fini dell’adempimento degli obblighi delegati occorre, da un lato, uncontinuo adeguamento delle scelte di preposizione effettuate attraverso le( 76 ) Cfr. A. Alessandri, voce Impresa (responsabilità penali), cit., p. 197 ss.( 77 ) Cfr. D. Pulitanò, Igiene e sicurezza, cit., p. 106.( 78 ) Cfr. T. Padovani, Diritto <strong>penale</strong> del lavoro, cit., 61 ss.


STUDI E RASSEGNE299deleghe e, dall’altro lato, un costante controllo sull’attività dei soggetti delegati,che solamente coloro che si collocano al vertice della piramide aziendalegrazie alla propria posizione possono effettuare( 79 ).In secondo luogo, e da un punto di vista tecnico-formale, come si è giàavuto modo di accennare( 80 ), in presenza di una effettiva delega di funzioninon sembra mutare il contenuto dell’originario obbligo di garanzia di cuiè titolare il delegante, quanto piuttosto quello del dovere di diligenza allastregua del quale deve essere valutato l’adempimento del delegante.Questa ricostruzione sembra, peraltro, trovare conferma anche nell’atteggiamentodella giurisprudenza che è ben lungi dal riconosce efficaciapienamente liberatoria alla delega di funzioni( 81 ). In effetti, sia nel settoredella sicurezza del lavoro( 82 ) che in quello degli illeciti ambientali( 83 ) comein quello del diritto tributario (nel vigore della Legge 516/1982) ( 84 ) se, daun lato, in presenza di una serie di requisiti la giurisprudenza attribuiscerilevanza alla delega di funzioni, dall’altro lato, tende anche ad affermareche il delegante rimane comunque titolare non solo di un dovere di controlloo di vigilanza sull’attività o inattività del delegato ma anche di un doveredi intervento qualora sia venuto a conoscenza delle inadempienze deldelegato( 85 ).Peraltro, alla delega di funzioni si potrebbe essere portati ad attribuire( 79 ) Cfr. A. Alessandri, voce Impresa (responsabilità penali), cit., pp. 213-214.( 80 ) Vedi retro §5.( 81 ) In questo senso v. Cass. pen., sez. IV, 11 giugno 2003, Bevilacqua, in Giuda dir.,fasc. 37, p. 77; Cass. pen., 16 ottobre 2000, Colombo, in Dir. pen. proc., 2001, p. 335; Cass.pen., 29 settembre 2000, Bertani, in Guida dir., 2001, fas. 2, pp. 88-89; Cass. pen., sez. III, 3dicembre 1999, Natali, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2000, p. 449, nonché ivi, 2003, p. 293; Cass.pen., 26 novembre 1996, Perilli, in Cass. pen., 1997, p. 3549; Cass. pen., sez. III., 1 agosto1995, Bruno, in Dir. prat. lav., 1995, n. 37, p. 2439; Cass. pen., sez. III, 14 luglio 1991, T., inIl fisc. 1991, p. 648; Cass. pen., sez. III, 9 gennaio 1991, B.E., in Il fisc. 1991, p. 3898; Cass.pen., sez. III, 24 maggio 1991, L.P., in Il fisc. 1991, p. 5432; Cass. pen., 17 ottobre 1989,Velo, in Cass. pen., 1991, p. 1459; Cass. pen., sez. IV, 2 giugno 1989, Tedeschi, in Riv.pen., 1990, p. 679, nonché inCass. pen. 1990, p. 1795.( 82 ) Cfr. Cass. pen., sez. IV, 11 giugno 2003, Bevilacqua, in Giuda dir., fasc. 37, p. 77;Cass. pen., 16 ottobre 2000, Colombo, in Dir. pen. proc. 2001, p. 335; Cass. pen., 29 settembre2000, Bertani, in Guida dir., 2001, fasc. 2, p. 89; Cass. pen., 26 novembre 1996, Perilli, inCass. pen., 1997, p. 3549; Cass. pen., 1 agosto 1995, Bruno, in Dir.prat.lav. 1995, n. 37, p.2439; Cass. pen., sez. IV, 2 giugno 1989, Tedeschi, in Riv. pen., 1990, p. 679, nonché inCass. pen., 1990, p. 1795; Cass. pen., 17 ottobre 1989, Velo, in Cass. pen., 1991, p. 1459.( 83 ) Cfr. Cass. pen. sez. III, 3 dicembre 1999, Natali, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2000, p.449, nonché ivi, 2003, p. 293.( 84 ) Cfr. Cass. pen., sez. III, 14 luglio 1991, T., in Il fisc. 1991, p. 648; Cass. pen., sez.III, 9 gennaio 1991, B. E., in Il fisc. 1991, p. 3898; Cass. pen., sez. III, 24 maggio 1991, L.P.,in Il fisc. 1991, p. 5432.( 85 ) Cfr. D. Pulitanò, voce Igiene e sicurezza, cit., p. 107-108; P. Aldrovandi,Orientamenti dottrinali, cit., p. 707; M. Mantovani, Il principio di affidamento, cit., p.275 ss., che afferma come « ... la (ri)emersione di una responsabilità <strong>penale</strong> – a titolo con-


300STUDI E RASSEGNEefficacia liberatoria quantomeno in quei casi, che la dottrina francese definiscedi ‘‘designation primaire de responsable’’( 86 ), in cui la delega di funzioniavviene nei confronti di un soggetto non solo nominativamente individuatodal legislatore ma i cui poteri sono stati predefiniti analiticamente dalla legge.In questi casi, dal momento che il contenuto della posizione di garanzia deldelegato è predefinita dal legislatore, la delega potrebbe svolgere efficaciacostitutiva sul versante della responsabilità del delegante. Così, ad esempio,si pensi all’art. 19 del D.lgs. 626/1994 che fissa in modo espresso i poteri delresponsabile della sicurezza, e all’art. 6, comma 1, del D.lgs. 496/1996 cheesonera il committente dagli obblighi trasferiti al responsabile dei lavori inquanto i suoi poteri sono stati predeterminati dalla legge.Sennonché, a ben vedere, in casi come questi in cui i la ripartizione deipoteri e degli obblighi penalmente rilevanti non è effettuata dal deleganteattraverso la delega di funzioni ma dalla legge, poiché non ci sono poteri datrasferire non sembra si possa parlare di delega di funzioni in senso proprio,quanto piuttosto di atto di nomina idoneo ad individuare i soggettiresponsabili che l’ordinamento ha costituito garanti a titolo originario dell’adempimentodi obblighi penalmente rilevanti( 87 ).Orbene, se alla delega di funzioni propriamente intesa, non è possibilericonoscere rilevanza liberatoria di responsabilità occorre però attribuirlepiena efficacia sul piano della colpevolezza. In effetti, la compatibilitàcon il principio di personalità della responsabilità sancito dall’art. 27 dellaCostituzione dei reati propri che limitano il novero dei soggetti attivi delreato in funzione del ‘‘ruolo’’ ricoperto nell’ambito delle organizzazionicomplesse è assicurato, da un lato, dal riconoscimento ai soggetti costituitigaranti dell’adempimento degli obblighi penalmente sanzionati della possibilitàdi avvalersi della delega di funzioni per il loro adempimento; e dall’altrolato, dalla corretta applicazione dei criteri di imputazione soggettiva,in particolare sotto il profilo della colpa( 88 ).Dunque, in presenza di una delega di funzioni effettivamente rilasciatadal delegante, in caso di inadempimento degli obblighi delegati, la sua re-corsuale – del datore di lavoro in relazione alle violazioni poste in essere dal dirigente nell’espletamentodelle mansioni affidategli e delle quali il primo sia venuto a conoscenza, attesta,inequivocabilmente, come la distribuzione a tale categoria di obbligati di specifici compitiin materia di sicurezza del lavoro non importa, contro quanto viceversa sostenuto dall’indirizzofunzionalista, un’efficacia liberatoria tout court del dante incarico in ordineall’inosservanza degli obblighi connessi alle mansioni devolute al dirigente»; T. Vitarelli,Le responsabilità, inLe deleghe di poteri, cit., p. 43-44.( 86 ) Cfr. M. Catala, Notion de Délégation: formes, conditions, limites et cas, in La responsabilitédes chefs d’enterprise en matiere d’hygiene et de securité du travail, JCP, 1976, p.161.( 87 ) Cfr. G. Morgante, Le posizioni di garanzia, cit., p. 108.( 88 ) Cfr. D. Pulitanò, voce Igiene e sicurezza, cit., p. 107.


STUDI E RASSEGNE301sponsabilità colposa, sotto il profilo della culpa in eligendo e in vigilando,andrà accertata non solo avendo riguardo alle dimensioni dell’impresa e allaragionevolezza dell’affidamento degli obblighi ad un determinato delegato,ma anche agli oggettivi rapporti tra gli adempimenti richiesti al delegatoe la sua posizione all’interno dell’organizzazione complessa, e alle effettivepossibilità di rendersi conto degli inadempimenti del delegato.Da questo punto di vista, non sembra condivisibile l’orientamentodella giurisprudenza( 89 ) che, pur attribuendo in astratto alla delega difunzioni efficacia scusante, in concreto, ancorando la colpa a criteri spessoirrealistici ed eccessivamente rigidi tali da ingenerare vere e proprie presunzionidi colpa, finisce per dar luogo a ipotesi di responsabilità oggettiva(90 ). In particolare, l’affermazione della sussistenza della culpa in vigilandodel delegante sull’operato del delegato, da un lato, non si può fondaresul fatto che il delegante ‘‘non poteva non rendersi conto’’ della inidoneitàtecnica o delle omissioni del delegato, ma deve trovare riscontroin elementi probatori, dei quali è necessario dar conto nelle motivazionidelle sentenze, dai quali sia possibile desumere che il delegante non eralegittimato a fare affidamento sulle capacità e sul rispetto degli obblighiall’adempimento dei quali il delegato si è impegnato con l’accettazionedella delega( 91 ). Dall’altro lato, la sussistenza della colpa non si può fondaresul riconoscimento in capo al delegante di un dovere di vigilanza sullacondotta del delegato di una tale pregnanza da comportare ancheadempimenti di carattere tecnico( 92 ).Passando ad analizzare gli effetti della delega di funzioni nei confrontidel delegato, sembra possibile riconoscere alla delega di funzioni l’attitudinea costituire in capo al delegato un obbligo di attivarsi rilevante direttamenteai sensi della norma che configura il reato proprio che si va ad ag-( 89 ) Cfr. Cass. pen., sez. III, 14 luglio 1991, T., in Il fisc. 1991, p. 648; Cass. pen., sez.III, 9 gennaio 1991, B.E., in Il fisc. 1991, p. 3898 ; Cass. pen., sez. III, 31 gennaio 1984,Gurschler, in Riv. pen. 1984, p. 986; Cass.pen., sez. III, 17 ottobre 1984, Mannocci, in Cass.pen.1986, p. 581; Tribunale di Milano, sez. IV, 13 ottobre 1999, in Riv. it. dir. proc. pen.,2001, p. 1048 ss. (con nota critica di A. Petrozzi, Colpevolezza o solvibilità: quale criterioper la responsabilità del delegante?, inRiv. it. dir. proc. pen., 2001, p. 1052 ss.)( 90 ) Mette in evidenza questo aspetto, con riferimento al settore dei reati tributari (nelvigore della L. 516/1982), P. Aldrovandi, I profili evolutivi dell’illecito tributario, cit.,p.121; Id., Concorso nel reato colposo, cit., p. 140; Id., Orientamenti dottrinali, cit., pp.711-712.( 91 ) Cfr. M. Mantovani, Il principio di affidamento, cit., p.359 ss. che afferma comenella ripartizione delle responsabilità tra delegante e delegato a guidare deve essere il c.d.principio di affidamento, in base al quale il delegante può confidare nella condotta diligentedel delegato almeno fino a quando non acquisisce la effettiva conoscenza dell’inadempimentodel delegato oppure di situazioni dalle quali è dato desumere, con alta probabilità, l’esistenzadelle violazioni stesse.( 92 ) Cfr. Tribunale di Milano, sez. IV, 13 ottobre 1999, cit., p. 1048 ss.


302STUDI E RASSEGNEgiungere a quello di cui è titolare il delegante( 93 ). In effetti, con la delega difunzioni il titolare della qualifica soggettiva (intraneo) costituisce in capo aldelegato una nuova posizione di garanzia e una nuova qualifica soggettivache si vanno ad aggiungere a quelle di cui è titolare il delegante in via primaria(94 ). In sostanza, per effetto della delega di funzioni il delegato, nell’ambitoe nei limiti delle attribuzioni delegate, assume il ruolo di garantedegli interessi tutelati dalla norma che configura il reato proprio e quindianche la medesima qualifica soggettiva del delegate( 95 ).Dal punto di vista pratico-applicativo, come si è già avuto modo di accennare(96 ), il riconoscimento della possibilità di costituire attraverso la delegadi funzioni nuove qualifiche soggettive e posizioni di garanzia che sivanno ad aggiungere a quella del delegante comporta che la responsabilitàdel delegato possa essere affermata direttamente ai sensi della fattispeciemonosoggettiva propria e non attraverso il ricorso allo schema del concorsodell’extraneus nel reato proprio che pare difficilmente configurabile( 97 ).In effetti, in assenza di un contributo materiale alla realizzazione del reatoproprio omissivo del delegante la responsabilità concorsuale del delegatonon sembra si possa affermare in base allo schema del concorso medianteomissione( 98 ). Infatti, se, da un lato, non ci sono dubbi sul fatto che l’obbligodi garanzia finalizzato all’impedimento del reato altrui può discendereanche da un atto di autonomia privata come è appunto la delega di fun-( 93 ) In questo ordine di idee si pone, ad esempio, P. Aldrovandi, Concorso nel reatocolposo, cit., p. 137, che rileva come sia oltremodo difficile rinvenire nel settore della sicurezzadel lavoro pronunce giurisprudenziali in cui si è affermata la responsabilità del delegatofacendo riferimento allo schema del concorso dell’extraneus nel reato proprio. Nella generalitàdei casi l’affermazione della responsabilità del delegato avviene a titolo monosoggettivosulla base delle norme che configurano il reato proprio.( 94 ) Cfr. G. Morgante, Le posizioni di garanzia, cit., p. 107; A. Gargani, Ubi culpa,cit., p. 522; Id., Sulla successione, cit., p. 911.( 95 ) Cfr. C. Pedrazzi, Profili problematici, cit., pp. 141-142; A. Alessandri, voce Impresa(responsabilità penali), cit., p. 213 secondo il quale se non si attribuisse alla delega difunzioni l’idoneità a costituire una aggiuntiva posizione di garanzia e una ulteriore qualificasoggettiva in capo al delegato «...si verrebbe a negare la premessa normativa e fattuale delladelega, per farla rifluire in un mero incarico di esecuzione, disattendendo quella colorazionedi autonomia che rappresenta la ragione stessa del fenomeno, sia nel vivo dell’organizzazionesia sul fronte delle esigenze di tutela.».( 96 ) Vedi retro § 5.( 97 ) Cfr. C. Pedrazzi, Profili problematici, cit., p. 142 e nota 50.( 98 ) In senso contrario si è espressa, invece, una parte delle giurisprudenza che, nel settoredei reati tributari sotto la vigenza della legge n. 516 del 1982, con riferimento alle fattispecieproprie di pura omissione che caratterizzavano la disciplina degli illeciti tributari primadell’entrata in vigore del D.lgs. 74/2000, da un lato, escludeva che il delegato potessedivenire titolare dell’obbligo di attivarsi rilevante ai sensi della fattispecie (propria) omissivapropria, e dall’altro lato, individuava in capo allo stesso un obbligo di impedimento del reatodel delegante rilevante ai sensi dell’art. 40 cpv. c.p.: ad esempio, v. Cass.pen., sez. III, 9 gennaio1991, B.E., in Il fisc. 1991, p. 3898.


STUDI E RASSEGNE303zioni, dall’altro lato, l’impegno assunto dal delegato di attivarsi per l’impedimentodei reati del delegante non sembra che possa assumere rilevanza aisensi dell’art. 40 cpv. c.p. per la mancanza di un correlativo vero e propriopotere giuridico di impedimento del reato del delegante( 99 ).Sennonché, si potrebbe essere portati a pensare di limitare l’efficacia‘‘costitutiva’’ della delega di funzioni ai soli reati propri che sanzionanola violazione di un’‘‘obbligazione di risultato’’, e ad escluderla invece conriferimento a quelli che sanzionano la violazione di un obbligo di tipo eminentementepersonale che, essendo reati propri c.d. di mano propria( 100 ),non ammettono l’esecuzione per via mediata( 101 ).Tuttavia, a ben vedere, la natura personale degli obblighi di attivarsise, da un lato, costituisce un valido motivo per escludere alla delega efficacialiberatoria sul versante della responsabilità del delegante, dall’altrolato, non sembra possa essere di ostacolo al riconoscimento alla delegadi funzioni dell’attitudine a costituire nuove posizioni di obbligo che sivanno a cumulare con quelle del destinatario primario del dovere di attivarsi(102 ). Infatti, per effetto della delega di funzioni il delegato non soloacquista un obbligo di attivarsi che si va ad aggiungere a quello di cui ètitolare il delegante ma anche la titolarità della qualifica soggettiva e conquesta la legittimazione al reato proprio. Pertanto, non si verifica quellasfasatura tra titolarità della qualifica soggettiva e esecuzione della condottatipica che impedisce la realizzazione del disvalore dei reati propri di c.d.mano propria.8. Modelli, condizioni di efficacia e onere probatorio della delega di funzioni.– Il tema della c.d. delega di funzioni nelle organizzazioni complessenella prassi giurisprudenziale viene affrontato non tanto avendo riguardo alprofilo dogmatico della sua natura ed efficacia, quanto piuttosto attraversol’analisi dei c.d. ‘‘requisiti’’ di validità( 103 ). In effetti, la giurisprudenza al di( 99 ) Vedi retro § 5.( 100 ) Sui reati di mano propria o di attuazione personale cfr. R. A. Frosali, Il concorsodi persone, cit., p. 29 ss.; S. Seminara, Tecniche normative, cit., p. 381 ss.; M. Romano,Commentario sistematico del codice <strong>penale</strong>, I, cit., p. 348; M. Pelissero, Consapevolezza dellaqualifica dell’intraneus e dominio finalistico sul fatto nella disciplina del mutamento del titolodi reato,inRiv. it. dir. proc. pen., 1996, p. 347; G. P. De Muro, Il bene giuridico proprio,cit., p. 855 ss.; A. Gullo, Il reato, cit., p. 58 ss. Nella dottrina tedesca v. H.H. Jescheck,T.Weigend, Lehrbuch, cit., 266; C. Roxin, Autoría y dominio del hecho en derecho penal, Barcellona,2000, p. 434 ss.( 101 ) Cfr. C. Pedrazzi, Profili problematici, cit., p. 141 ss.( 102 ) In quest’ordine di idee si colloca anche P. Aldrovandi, Concorso nel reato colposo,cit., p. 158.( 103 ) Sulle condizioni di ‘‘validità’’ della delega di funzioni in giurisprudenza, tra le tante,v. Cass. pen., sez. VI, 13 ottobre 2000, Colombo, in Dir. pen. proc. 2001, p. 335; Cass.pen., sez. III, 3 dicembre 1999, Natali, cit., p. 293; Cass. pen., sez. III, 23 settembre


304STUDI E RASSEGNElà di apodittiche affermazioni circa la permanenza o meno della responsabilitàdel delegante, si limita ad individuare una serie di requisiti finalizzatiad evitare, da un lato, di ricondurre sempre e comunque la responsabilità<strong>penale</strong> al soggetto in possesso della qualità soggettiva e titolare dell’obbligopenalmente sanzionato e, dall’altro lato, di modificare i modelli di responsabilitàprefigurati dal legislatore.In particolare, tra i requisiti che la giurisprudenza, attraverso un processodi progressiva stratificazione, è giunta a porre a fondamento dellavalidità della delega di funzioni, viene, anzitutto, in considerazione la complessitàorganizzativa dell’impresa( 104 ). Più precisamente, si ritiene cheper potersi ricorrere alla delega di funzioni occorre che l’impresa abbiauna complessità organizzativa o comunque delle dimensioni tali da impedireo rendere troppo difficoltoso al garante originario l’adempimento degliobblighi penalmente rilevanti. In secondo luogo, affinché la delega possaessere considerata vera ed effettiva, si richiede che la divisione dellemansioni avvenga in base a precise norme interne all’organizzazione dell’impresa(105 ), che si cristallizzi in un atto avente forma scritta( 106 ), cheil delegante non si sia ingerito nella gestione delle competenze del delega-1997, Prato, in Foro it. 1998, II, p. 247 ss.; Cass. pen., sez. III, 27 luglio 1995, Gentili, Dir.prat. lav. 1995, p. 2439; Cass. pen., sez. IV, 4 ottobre 1989, Bolzoni, in Riv. pen., 1990, p.984; Cass. pen., Sez. III, 1 ottobre 1980, Fabbri, in Cass. pen. Mass. ann., 1982, p. 364; Cass.pen., Sez. IV, 6 aprile 1978, Bortoluzzi, in Cass. pen. Mass. ann. ,1980, p. 234; Cass. pen.,Sez. III, 22 maggio 1975, Campobasso, in Cass. pen. Mass. Ann., 1977, p. 238. In dottrina,tra gli altri, v. M. Giarrusso, Orientamenti dottrinali ed evoluzione giurisprudenziale sui problemidella responsabilità nell’esercizio dell’impresa e sull’efficacia della delega di funzioni, cit.,p. 2044.( 104 ) Cfr., ad es., Cass. pen., sez. III, 3 dicembre 1999, Natali, cit., p. 293; Cass.pen., sez. III, 23 aprile 1996, Zanoni, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1997, p. 1006; Cass.pen., sez. III, 31 agosto 1993, Robba, in Riv. trim dir. pen. ec., 1994, p. 315; Cass.pen., sez. III, 3 marzo 1992, Veronesi, in Riv. giur. ed., I, p. 700; Cass. pen., sez. VI,22 gennaio 1983, Zanelli, in Cass. pen. mass. ann., 1984, p. 531; Cass. pen., sez. IV,23 aprile 1981, Larcher, in Mass. giur. del lav. 1982, p. 851; Cass. pen., sez. III, 1 ottobre1980, Fabbri, in Cass. pen., 1982, p. 364; Cass. pen., sez. III, 22 maggio 1975, Campobasso,in Cass. pen. mass. ann. 1977, p. 238; Cass. pen., sez. II, 21 aprile 1975, Bergamaschi,in Cass. pen. mass. ann. 1976, p. 1019; Cass. pen., sez. III, 6 febbraio 1975, Gilardi,in Cass. pen. 1976, p. 625.( 105 ) Cfr., ad es., Cass.pen., sez. VI, 13 ottobre 2000, Colombo, in Dir. pen. proc. 2001,p. 335; Cass. pen., sez. VI, 20 febbraio 1980, Fabbri, cit.; Cass. pen., sez. IV, 25 giugno1979, Tini, in Cass. pen., 1980, p. 144; Cass. pen., sez. II, 2 febbraio 1976, Lebole, in Cass.pen., 1977, p.1025.( 106 ) Cfr., ad. es., Cass. pen., sez. III, 3 dicembre 1999, Natali, cit., 293; Cass. pen.,sez. IV, 27 gennaio 1994, Cassarà, in Cass. pen., 1996, p. 1270 (con nota di F. Bellagamba,Sulla responsabilità <strong>penale</strong> nella delega di funzioni, cit., p. 1272 ss.); Cass. pen., sez. IV, 23marzo 1987, Dechigi, in Mass. giur. del lav. 1988, p. 728 e in Zavalloni Bonaretti, Delegabilitàdella responsabilità <strong>penale</strong> ed amministrativa nell’ambito dell’impresa, Milano, 1991, p. 104ss.; Cass. pen., 14 febbraio 1986, Cancarini, in Mass. Giur. del lav. 1986, p. 672.


STUDI E RASSEGNE305to( 107 ), e che quest’ultimo sia dotato di una autonomia decisionale e dispesa( 108 ). Inoltre, la validità del trasferimento di funzioni viene subordinataal fatto che il delegato sia in possesso di una specifica idoneità tecnico-professionaleall’adempimento degli obblighi delegati( 109 ), e al fattoche il delegante non sia venuto a conoscenza delle inadempienze del delegato(110 ).Orbene, se, da un lato, è comprensibile che la giurisprudenza non abbiafornito una soluzione al problema dogmatico della natura della delegadi funzioni e si sia limitata a fissarne i requisiti di rilevanza; dall’altro lato, èaltrettanto evidente come solamente dopo avere risolto la questione dellanatura del trasferimento di funzioni può porsi la successiva questione relativaai requisiti di validità dello stesso( 111 ).In effetti, i c.d. requisiti di validità della delega di funzioni enucleatidalla giurisprudenza sembrano assumere rilevanza diversa a seconda delmodello di delega dal quale si muove. Ed infatti, se si muove dal modellodi delega di funzioni proposto dai funzionalisti, che riconosce alla delegaefficacia sul piano oggettivo, a ben vedere, solamente alcuni dei requisitienucleati dalla giurisprudenza sembrano assumere rilevanza. Infatti, inuna prospettiva oggettivistica ciò che conta è che il trasferimento di funzionisi sia realizzato effettivamente, e cioè che al delegato siano stati trasferitivalidamente i poteri giuridici consentanei all’adempimento degli obblighipenalmente rilevanti trasferiti. Da questo punto di vista, gli unici requisitidella delega di funzioni che possono assumere rilevanza sembrano esserequelli necessari al passaggio delle funzioni penalmente rilevanti (poteri edoveri giuridici) dal delegante al delegato. Così, ad esempio, mentre il requisitodella adeguatezza tecnico-professionale del delegato e quello dellaautonomia decisionale e di spesa sembrano necessari ai fini del passaggiodelle funzioni dal delegante al delegato, sia il requisito della complessità organizzativadell’impresa sia il fatto che il delegante sia venuto a conoscenza( 107 ) Cfr. Cass. pen., sez. II, 3 agosto 2000, Biadene, in Riv. trim. dir. pen. ec. 2001,p. 960.( 108 ) Cfr., ad es., Cass. pen., sez. III, 27 luglio 1995, Gentili, in Dir. prat. del lav. 1995,p. 2439; Cass. pen., sez. III, 15 luglio 1994, Galvagno, in Dir. prat. del lav. 1994, p. 2547.( 109 ) La giurisprudenza è costante nel richiedere l’idoneità tecnico-professionale deldelegato a svolgere le mansioni che gli vengono delegate v., ad es., Cass.pen., sez. III, 3 dicembre1999, Natali, cit., p. 293; Cass. pen., sez. III, 21 giugno 1985, Signorino, in Giust.pen., 1986, II, c. 704; Cass. pen., Sez. III., 1 ottobre 1980, Fabbri, cit., p. 364; Cass.pen., sez. IV, 30 settembre 1977, Sacchi, in Cass. pen., 1979, p. 969; Cass. pen., sez. IV,14 febbraio 1978, D’Andrea, in Cass. pen. mass. ann., 1979, p. 714.( 110 ) Cfr., ad es., Cass. pen., sez. IV, 2 giugno 1989, Tedeschi, in Riv. pen., 1990, p.679, nonché inCass. pen., 1990, p. 1795.( 111 ) Cfr. T. Padovani, Diritto <strong>penale</strong> del lavoro, cit., p. 63 ss.; A. Alessandri, voceImpresa (responsabilità penali), cit., p. 210.


306STUDI E RASSEGNEdelle inadempienze del delegato non sembrano in grado di assumere rilevanza(112 ).Al contrario, se ci si muove in una prospettiva rigorosamente soggettivistica,e si limita la rilevanza della delega di funzioni al piano della colpevolezza,quasi tutti i requisiti enucleati dalla giurisprudenza sembrano assumererilevanza: da quelli della adeguatezza tecnico-professionale del delegatoe della sua autonomia decisionale e di spesa, a quelli della mancataingerenza e della mancata conoscenza delle inadempienze del delegato. Maanche il requisito della complessità organizzativa dell’impresa è suscettibiledi assumere rilevanza ai fini del giudizio sulla colpevolezza del delegantealmeno sotto due diversi profili. Da un lato, il requisito in parola assumerilevanza per stabilire se la delega di funzioni è necessaria ai fini dell’adempimentodegli obblighi penalmente rilevanti di cui è titolare il delegante. Ineffetti, nella prospettiva soggettivistica, la delega di funzioni potrà assumererilevanza come causa di esclusione della colpevolezza nelle ipotesi in cuila complessità o le dimensioni dell’organizzazione dell’impresa rendonoimpossibile o particolarmente difficoltoso per il delegante l’adempimentopersonale dell’obbligo di agire. Più difficilmente, la delega di funzioni potràassumere rilevanza come causa di esclusione della colpevolezza del delegantenei casi in cui le dimensioni dell’azienda e la natura dell’organizzazionesono tali da consentire al delegante di adempiere agevolmente ai propriobblighi (si pensi, ad esempio, ad una impresa individuale con un solodipendente). Dall’altro lato, la complessità e le dimensioni dell’impresa assumonorilevanza ai fini della valutazione del grado di diligenza esigibilenel controllo sull’operato del delegato, in quanto in una impresa di grandidimensioni non è possibile esigere dall’imprenditore lo stesso controllo sull’attivitàdel delegato, che invece è doveroso attendersi in imprese di piùpiccole dimensioni( 113 ).Tuttavia, va osservato come alcuni dei requisiti della delega di funzioniindividuati dalla giurisprudenza sembrano difficilmente collocabili sia nellaprospettiva oggettivistica che in quella soggettivistica. In particolare, si alludead alcuni requisiti, comunemente considerati dalla giurisprudenza comeafferenti al piano della effettività della delega di funzioni, che tutt’ alpiù sembrano potere attenere al piano probatorio. Così, ad esempio, in alcunicasi la giurisprudenza ha ritenuto necessario ai fini della validità delladelega di funzioni non solo il fatto che essa debba trovare riscontro nellenorme interne dell’impresa ma anche il fatto che sia conferita in formascritta( 114 ). Ebbene, il requisito della forma scritta della delega di funzioni( 112 ) Cfr. A. Fiorella, I principi, cit., p. 104 ss.( 113 ) Cfr. T.Padovani, Diritto <strong>penale</strong> del lavoro, cit., p. 63.( 114 ) Cfr. Cass. pen., sez. IV, 27 gennaio 1994, Cassarà, in Cass. pen., 1996, p. 1270(con nota di F. Bellagamba, Sulla responsabilità <strong>penale</strong> nella delega di funzioni, cit., p.


STUDI E RASSEGNE307potrebbe assumere rilevanza ai fini della validità della delega solamente neicasi in cui da essa dipenda la costituzione in capo al delegato dei poteri edei doveri giuridici delegati( 115 ), in tutti gli altri casi l’unica rilevanza chepuò assumere sembra essere sul piano probatorio.A proposito del profilo probatorio, va osservato come la soluzionedella questione della natura ed efficacia della delega di funzioni sembrapregiudiziale anche rispetto a quella della ripartizione dell’onere probatoriodella delega di funzioni e dei suoi requisiti.Ed infatti, se si muove dall’impostazione funzionalista, dal momentoche con la delega di funzioni il delegante trasferisce al delegato la qualificasoggettiva che legittima al reato proprio, non spetterà al delegante l’oneredi provare l’esistenza della delega di funzioni e dei suoi presupposti di validitàbensì al P.M., sul quale grava l’onere della prova degli elementi costituitividel reato( 116 ).In una prospettiva soggettivistica, invece, dal momento che la delega difunzioni non assume rilevanza ai fini della cessione della qualifica soggettivadal delegante al delegato ma come modalità di adempimento degli obblighipenalmente rilevanti di cui il delegante è garante in modo originario, saràquest’ultimo a dovere dimostrare di avere adempiuto attraverso il conferimentodella delega di funzioni, la cui esistenza dovrà essere dimostrata inmodo rigoroso ma comunque utilizzando tutti i mezzi di prova ammessinel processo <strong>penale</strong>. Da questo punto di vista, non può essere condiviso l’orientamentogiurisprudenziale che richiede che la esistenza della delega difunzioni debba essere provata per iscritto( 117 ) o addirittura attraverso formedi pubblicizzazione del trasferimento di funzioni quali, ad esempio, leannotazioni nello statuto della società( 118 ), in quanto nel processo <strong>penale</strong>,ai sensi degli artt. 192, 193 c.p.p., fermo rimanendo l’obbligo di motivazione,il giudice è libero di attribuire a ciascun elemento di prova la rilevanzaprobatoria che, in relazione al caso concreto, reputa più adeguata( 119 ).Una volta dimostrata l’esistenza della delega di funzioni, spetterà poial P.M. nell’ambito dell’accertamento della colpevolezza fornire la provadella insussistenza dei c.d. requisiti di validità. In particolare, il P.M., ai finidell’accertamento della colpevolezza del delegante, dovrà dimostrare, al dilà di ogni ragionevole dubbio, che la delega di funzioni non era necessaria1272 ss.); Cass. pen., sez. IV, 23 marzo 1987, Dechigi, in Zavalloni Bonaretti, Delegabilitàdella responsabilità <strong>penale</strong> ed amministrativa nell’ambito dell’impresa, Milano, 1991, p.104 ss.; Cass. pen., sez. III, 14 febbraio 1986, Canarini, in Mass.Giur. del lav. 1986, p. 672.( 115 ) Cfr. A. Fiorella, I principi, cit., p. 115; M. Zalin, Efficacia della delega di funzioni,cit., p. 710.( 116 ) Cfr. A. Fiorella, I principi, cit., p. 124 ss.( 117 ) Cfr. nota n. 106.( 118 ) Cfr. Cass. pen., sez. III, 14 febbraio 1986, Canarini, cit. p. 672.( 119 ) Cfr. P. Tonini, Manuale di procedura <strong>penale</strong>, Milano, 2003, p. 194 ss.


308STUDI E RASSEGNEin rapporto all’assetto organizzativo e alle dimensioni dell’impresa, che ildelegato non era idoneo dal punto di vista tecnico-professionale all’adempimentodegli obblighi delegati o che non era in possesso della necessariaautonomia gestionale e di spesa, che il delegante non aveva controllato inmodo adeguato l’operato del delegato o che era consapevole delle sue violazioni.Francesco Cingari


STUDI E RASSEGNE309SCHIAVITÙ E SERVITÙ NEL DIRITTO PENALE (*)( 1 )Sommario: 1. L’art. 600 del codice <strong>penale</strong>: un testo nuovo e una vecchia questione. –2. Dottrina e giurisprudenza di fronte all’originario testo dell’art. 600 c.p. – 3. Il nuovoreato di ‘‘riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù’’. Struttura della norma. –4. La nozione di schiavitù. – 5. La nozione di servitù. – 6. Il bene giuridico protettocome criterio-guida dell’interpretazione. – 7. Considerazioni conclusive.1. L’art. 600 del codice <strong>penale</strong>: un testo nuovo e una vecchia questione.La legge 11 agosto 2003 n. 228 è intervenuta a riscrivere interamentel’art. 600 del codice <strong>penale</strong> quando la vecchia norma, dopo essere stata alungo confinata fra le tante ‘‘lettere morte’’ del Codice Rocco, conoscevauna stagione di feconda applicazione giurisprudenziale. Le poche, pesantiparole del vecchio testo punivano con la reclusione da cinque a quindicianni chiunque riducesse una persona in schiavitù o in condizione analogaalla schiavitù. La fattispecie astratta, e più specificamente la sub-fattispeciedella riduzione in ‘‘condizione analoga’’ alla schiavitù (di gran lunga la piùapplicata), sembrava qualificare in modo calzante, e punire con adeguataseverità, le più gravi fra le situazioni di sfruttamento lavorativo e sessualeprodotte, con crescente frequenza, dal caotico intensificarsi dei flussi migratorilegati alla ‘‘globalizzazione’’ e all’implosione dell’Impero sovietico.L’art. 600, d’altronde, aveva resistito alle censure di legittimità costituzionalecui era stato sottoposto( 1 ), motivate dalla genericità della fattispecie(*) L’articolo, che si compone del contributo di entrambi gli autori, è stato redatto daAlessandro Giuseppe Cannevale quanto ai paragrafi 2.2.; 4.2; 5; 6.1.; 6.3; 6.4; 7, e da ChiaraLazzari quanto ai paragrafi 1; 2.1.; 3; 4.1.; 6.2; 6.5.( 1 ) Da ultimo, con la sentenza Cass., Sez. V, 6 dicembre 2000, Bali, in CED Cass., rv.218464, la Corte di Cassazione aveva ritenuto manifestamente infondata la questione, sollevatain rapporto all’art. 25, secondo comma, della Costituzione, per asserita violazione delprincipio di tassatività delle fattispecie incriminatrici, e all’art. 3, per la disparità di trattamentoche si sarebbe prodotta a seguito della dichiarata illegittimità costituzionale dell’art.603 c.p. (Plagio). In precedenza, si consideri, Cass., Sez. V, 7 dicembre 1989, Iret Elmar,in Foro it., 1990, II, c. 369.


310STUDI E RASSEGNEe dal richiamo all’analogia, e sembrava essersi stabilmente insediata fra lecomponenti vitali del sistema <strong>penale</strong>.Difficile, peraltro, sottrarsi al timore che le applicazioni concrete dellanorma fossero guidate da un pericoloso empirismo, che poteva indurre l’interpretea sovrapporre l’analisi sociologica alla qualificazione giuridica, eperfino spingerlo verso ‘‘pregiudiziali etniche’’, tali da rendere più agevolee tranquillizzante ravvisare la ‘‘condizione analoga alla schiavitù’’ nelle situazionidi sfruttamento delle quali si fossero resi responsabili soggetti provenientidalle patrie delle ‘‘nuove mafie’’, e riservare contestazioni menopesanti – quali lo sfruttamento della prostituzione aggravato dalla violenza,i delitti previsti dal testo unico sull’immigrazione o il sequestro di persona –alle pratiche di sfruttamento attuate da protagonisti nostrani( 2 ).Il rischio nasceva dalla difficoltà di individuare la ‘‘soglia’’ oltre la qualesi producesse, per effetto di condotte di sfruttamento lavorativo o sessuale,quella particolare condizione della persona offesa che la norma incriminatricenon definiva, e quindi di tracciare il confine che separava i reatidi sfruttamento della prostituzione, così come i reati contro l’incolumità econtro la libertà della persona, dall’ipotesi di riduzione in schiavitù. La labilitàdi questo confine era il più vistoso riflesso concreto delle questioniteoriche sollevate da chi lamentava l’incostituzionalità dell’art. 600.In sede di presentazione del disegno di legge, il rappresentante delGoverno sottolineava in modo particolare l’esigenza di ridurre le ‘‘incertezzeinterpretative’’ cui aveva dato luogo la fattispecie di ‘‘riduzione in schiavitù’’prevista all’art. 600 c.p. e la ‘‘difficoltà di provare la sussistenza di unostato di assoggettamento analogo alla schiavitù quando alla persona residui( 2 ) L’humus delle ‘‘nuove schiavitù’’ è indubbiamente rappresentato da condizioni socio-economichee, in qualche caso, da tradizioni culturali estranee all’Italia (un’analisi aggiornatadelle cause e delle caratteristiche attuali dei fenomeni migratori all’origine dei fenomenidi tratta e riduzione in schiavitù è stata condotta da L. De Ficchy, Gli stranieri autori e vittimedel reato, inAtti dell’Incontro di Studi su tratta e fenomeni migratori organizzato dalC.S.M. a Roma, 9-10 ottobre 2003, inwww.cosmag.it, sito del Consiglio Superiore della Magistratura),ma è pur vero che la casistica impone un minimo di riflessione. Le sentenze dellaSuprema Corte che si sono espresse per la sussistenza del reato in concreto mostrano, quantoal nome degli imputati, un’impressionante sequenza di cognomi slavi e comunque cognomistranieri. In senso opposto, basti pensare alla decisione di un giudice di merito (GUP Trib.Nuoro, 20 gennaio 1994, Aprile, in Riv. giur. sarda, 1995, p. 178) che, pur accedendo allatesi della schiavitù come condizione di fatto, è pervenuto all’assoluzione di imputati che,avendo prelevato una ragazza tunisina dalla famiglia d’origine per farne la loro domestica,l’avevano – secondo quanto si legge nella ricostruzione del fatto – costantemente sottopostaa ogni genere di vessazione (gravi limitazioni alla libertà di movimento, privazione di ognioccasione di socializzazione e di qualsiasi contatto con la famiglia, ricorso a una serie continuae abituale di atti lesivi della sua integrità fisica e morale, della sua libertà e del suo decoro,sequenza di atti di disprezzo, di umiliazione e di asservimento), ripetutamente picchiatae costantemente lasciata scalza e indecorosamente vestita.


STUDI E RASSEGNE311un certo margine di autodeterminazione’’( 3 ). Si sottolineava in tal modo ilpericolo di un’eccessiva compressione della sfera di applicazione della norma,rispetto all’esigenza di reprimere gravi fenomeni criminali con le sanzioniproprie dei delitti contro la personalità individuale, ma è evidente chenell’interpretare un’espressione generica si può eccedere anche nella direzioneopposta.In effetti, l’attuale quadro normativo sembra totalmente diverso dalprecedente, anche se la condizione della persona offesa continua a caratterizzareil reato di cui al novellato art. 600 c.p. Tale condizione è oggi definita‘‘schiavitù o servitù’’, e alla condotta di ‘‘riduzione’’ in schiavitù o servitùsi è aggiunta quella di ‘‘mantenimento’’, ma la differenza fondamentaleè che il legislatore non ha lasciato all’interprete il compito di definire la nozionedi schiavitù o servitù, ma ha anzi prodotto un notevole sforzo di ‘‘tipizzazione’’delle condotte illecite, percepibile anche dal grossolano confronto‘‘quantitativo’’ fra il nuovo testo e la scarna norma abrogata.Nonostante queste differenze, e nonostante questo sforzo di sostenerel’opera dell’interprete attraverso cardini testuali meglio definiti, un’analisiappena approfondita delle nuove fattispecie mostra margini di indeterminatezzanon meno preoccupanti di quelli che affliggevano la norma preesistente.In questa poco confortante situazione, le indicazioni interpretativedesumibili dalla collocazione sistematica della norma e dalla considerazionedel bene giuridico protetto appaiono essenziali per definire un ubi consistamconcettuale, utile a valutare se le concrete situazioni di assoggettamentoche l’interprete si troverà a valutare siano qualificabili come ‘‘schiavitù’’o ‘‘servitù’’ e quindi punibili con le severe sanzioni previste dall’art. 600. Ilche è quanto dire che ancora oggi, così come accadeva prima della novelladel 2003, per le nozioni di ‘‘schiavitù’’ e di ‘‘condizione analoga alla schiavitù’’,le nozioni di ‘‘schiavitù’’ e ‘‘servitù’’ vanno ricostruite sulla base didati estranei al testo dell’art. 600.2. Dottrina e giurisprudenza di fronte all’originario testo dell’art. 600 c.p.2.1. Se, dunque, la nuova legge pone problemi vecchi, sarà utile ricordarequale fosse lo ‘‘stato dell’arte’’ ermeneutica all’atto dell’intervento innovatore.Il quale peraltro, almeno in parte, è modellato proprio sulla giurisprudenzaformatasi con riguardo al vecchio testo.Il precedente art. 600 c.p. sanzionava la condotta di chiunque ‘‘riducesse’’una persona ‘‘in schiavitù, o in una condizione analoga alla schiavitù’’.Poiché per istituire un’analogia occorre aver chiaro il termine di para-( 3 ) Camera dei deputati, 18 settembre 2001, n. 1584.


312STUDI E RASSEGNEgone, definire la ‘‘schiavitù’’ era essenziale per delimitare tanto la primaquanto la seconda ipotesi.Una prima questione era quella di scegliere a quale concetto fare riferimento(4 ). Escluso il diritto interno – che non conosceva la schiavitù –ed escluso il riferimento a una particolare disciplina positiva dell’istituto,tratta dal passato o magari dai residui, miseri ordinamenti schiavisti, perl’evidente arbitrarietà di una simile scelta( 5 ), non restava che scegliere serichiamarsi a una nozione socio-culturale di schiavitù, che individuasse ilnucleo essenziale e immutabile dell’istituto, o ricavare la nozione dal dirittointernazionale pattizio recepito dall’Italia, vale a dire dall’unico ramodell’ordinamento al quale era possibile fare rinvio per conferire allanozione un significato tecnico-giuridico di diritto positivo, così attribuendoalla nozione di schiavitù il carattere di elemento normativo della fattispecie(6 ).Il richiamo al diritto internazionale – e segnatamente alla Convenzionedi Ginevra del 1926( 7 ) – s’impose fin dall’inizio, almeno con riguardo alconcetto di schiavitù in senso stretto, non solo per la manifestata intenzionedel legislatore( 8 ), ma anche per la difficoltà di cristallizzare una definizionecerta e condivisa. Maggiori dissensi si registravano con riguardo alla nozionedi ‘‘condizione analoga’’ alla schiavitù, secondo alcuni ricavabile dallaConvenzione del 1956( 9 ), e che altri individuavano invece in una situazione( 4 ) Cfr. F. Lemme, voce Schiavitù, inEnc. giur. (Treccani), vol. XXVIII, 1992, Torino,p. 1 nel senso indicato nel testo. Per l’opinione minoritaria si veda, G. Spagnolo, voceSchiavitù (dir. pen.), inEnc. dir., vol. XLI, 1989, p. 633 ss. Sulla medesima questione, conuna rassegna delle diverse opinioni manifestatesi sull’argomento, si consideri, da ultimo,C. Negri, La tutela <strong>penale</strong> contro la tratta di persone, inG.Tinebra eA.Centoze (a curadi), Il traffico internazionale di persone, Milano, 2004, p. 222 ss.( 5 ) Per una rassegna delle differenze, anche notevoli, registratesi nella disciplina dell’istituto,v. G. Franciosi, voce Schiavitù (diritto romano), inEnc. dir., XLI, 1989, Torino, p.620 ss. e l’ampia biblografia ivi citata.( 6 ) Per l’applicazione di questo concetto all’art. 600, si confronti, C. Visconti, Riduzionein schiavitù: un passo avanti o due indietro delle Sezioni unite, inForo it., pt. II, c. 314ss. In giurisprudenza, si veda, Cass., Sez. V, 24 ottobre 1995, Senka, in CED Cass., rv.204369.( 7 ) La Convenzione di Ginevra sull’abolizione della schiavitù del 25 settembre 1926,resa esecutiva in Italia con R.D. 26 aprile 1928, n. 1723, all’art.1 qualifica la schiavitù comestato o condizione di un individuo sul quale si esercitano gli attributi della proprietà o taluni diessi.( 8 ) Relazione del Ministro guardasigilli sul progetto definitivo di un nuovo codice <strong>penale</strong>,in Lavori preparatori del codice <strong>penale</strong> e del codice di procedura <strong>penale</strong>, V, p. II, Roma, 1929,p. 409 ss.( 9 ) La Convenzione supplementare sulla schiavitù di Ginevra in data 7 settembre1956, ratificata e resa esecutiva in Italia con L. 20 dicembre 1957, n. 1304, parifica ad ognieffetto alla schiavitù talune condizioni tassativamente elencate: la servitù per debiti; il servaggioo servitù della gleba; le istituzioni e pratiche sociali che consentano: la vendita di una donnanubile come sposa anche in assenza del di lei consenso, la cessione di una donna a un terzo a


STUDI E RASSEGNE313socio-economica riconoscibile dal comune sentire, svincolata da definizionidi diritto positivo( 10 ).Distinto – anche se, talvolta, erroneamente confuso con il primo – ilproblema del carattere giuridico o fattuale della condizione definibile come‘‘schiavitù’’, foriera della sanzione <strong>penale</strong> per chi l’avesse provocata. Per iteorici della schiavitù come condizione ‘‘di diritto’’, lo status di schiavo doveva,per assumere rilevanza ai fini dell’integrazione della fattispecie, essereconsacrato e disciplinato in un ordinamento. In altri termini le limitazioni, idoveri e gli obblighi propri di quella condizione dovevano, secondo questaopinione, essere previsti in una norma giuridica e quindi conformi a un‘‘dover essere’’ di carattere giuridico. E si doveva trattare, a quanto sembra,di un ordinamento statale, poiché non risulta essere mai stata presa in considerazionel’ipotesi di una schiavitù ‘‘di diritto’’ in un ordinamento giuridicoprivo di base territoriale.Secondo l’opinione opposta, le compressioni subite dalla vittima nellasfera della propria libertà personale, tali da disegnare la condizione dischiavo, ben potevano essere imposte dal soggetto attivo in via di mero fatto,e di fatto essere conseguenza di una necessità materiale dettata dalla violenza,‘‘dover essere’’ in senso materiale.Si parla di un problema distinto dal primo, perché sarebbe stato inteoria possibile accedere alla tesi della schiavitù ‘‘di diritto’’ e misurare ilcarattere ‘‘schiavista’’ di un determinato ordinamento sulla base di una nozionesocio-culturale o giusnaturalistica di schiavitù, piuttosto che assumerecome parametro – fissato ‘‘in negativo’’ – i divieti posti dalla Convenzionedi Ginevra; così come era – ed effettivamente è stato – possibile praticarela tesi della schiavitù come condizione ‘‘di fatto’’, misurando la situazioneeffettivamente vissuta dalla persona offesa alla stregua delle previsionidelle Convenzioni del 1926 e del 1956( 11 ).Nell’intenzione del legislatore del 1930, resa palese dai Lavori Prepa-titolo oneroso da parte del marito, della famiglia o del clan, il trasferimento della donna persuccessione alla morte del marito, la vendita di un minore di anni diciotto da parte dei genitorio del tutore, in vista dello sfruttamento del suo lavoro o della sua persona.( 10 ) Per il primo orientamento si veda, Cass., Sez. V, 24 ottobre 1995, Senka, cit., rv.204369. Per il secondo, si veda più ampiamente Cass., Sez. Un., 20 novembre 1996, Ceric, inForo it., 1997, pt. II, c. 315 ss.( 11 ) Si veda, in giurisprudenza, la diversa impostazione seguita da un lato da Cass., Sez.Un., 20 novembre 1996, Ceric, in Dir. pen. proc., 1997, p. 713 ss. e in Foro it., 1997, II, c.315 ss., con nota di C. Visconti e da Cass., sez. III, 7 settembre 1999, Catalini, CED Cass.,rv. 214517, le quali negano alle previsioni dell’art. 1 della Convenzione del 1956 la valenza dielenco tassativo delle condizioni analoghe alla schiavitù, dall’altro da Cass., Sez. V, 24 ottobre1995, Senka, cit., rv. 204369, che, pur accedendo senza riserve alla tesi della schiavitù edella condizione analoga alla schiavitù come condizioni di mero fatto, trova nelle disposizionidi quella convenzione il parametro alla stregua del quale qualificare una determinata situazionepersonale ‘‘di fatto’’ come ‘‘condizione analoga alla schiavitù’’.


314STUDI E RASSEGNEratori e dalla Relazione preliminare, la schiavitù era nozione ‘‘di diritto’’, inquanto situazione giuridica che priva il soggetto della capacità giuridica edello status libertatis (servile caput, nullum jus habet)( 12 ). Le prime tre fattispeciedi delitti contro la personalità individuale riguardavano la ‘‘schiavitùdi diritto’’, mentre la ‘‘schiavitù di fatto’’ era contemplata all’art. 603(Plagio).Per molto tempo gli interpreti si adeguarono a questa indicazione, riguardantel’intero art. 600: quindi non la sola schiavitù in senso stretto, maanche le condizioni ad essa analoghe( 13 ). Per individuare le situazioni concretenelle quali si realizzava la ‘‘schiavitù di diritto’’, si operava un rinvioalle previsioni della Convenzione di Ginevra del 1926 e si riteneva punibilela costituzione o il mantenimento dell’istituto giuridico che quel trattatoqualificava come schiavitù( 14 ).Se il concetto di ‘‘schiavitù di diritto’’ era da intendersi riferito al ‘‘diritto’’di un ordinamento statale, era perfettamente coerente affermare chele condotte di riduzione in schiavitù non potessero concretamente realizzarsise non all’estero( 15 ), in un ordinamento cioè che – per essere rimastoestraneo alla Convenzione di Ginevra del 1926 o per avere violato gli obblighicon essa assunti – riconoscesse e disciplinasse la schiavitù. Sarebbestato assurdo, del resto, sostenere che la schiavitù si potesse configurare comeuna situazione ‘‘di diritto’’ in territorio italiano, nell’atto stesso di inter-( 12 ) Cfr., C. Saltelli -E.Romano Di Falco, Commentario del codice <strong>penale</strong>, pt. II,vol. II, 1931, Torino, p. 981. In giurisprudenza, si veda, Cass., Sez. V, 30 settembre 1971,Braibanti, in Cass. pen., 1972, p. 235 s.( 13 ) A. Usai, Ancora sulla schiavitù di fatto, inRiv. giur. sarda, 1995, p. 190 ss.( 14 ) Cfr. L. Sola, Il delitto di ‘‘riduzione in schiavitù’’: un caso di applicazione, inForoit., 1989, pt. II, c. 121 ss.; M.P., I bambini argati e la riduzione in schiavitù,inInd. pen., 1987,p. 113 ss.( 15 ) In tal senso, si consideri, subito dopo l’entrata in vigore del codice Rocco, già ilpensiero di V. Manzini, Diritto <strong>penale</strong>, vol. VIII, 1937, Torino, p. 53 ss. Sostiene l’A. ‘‘èevidente che questo delitto non può verificarsi mai nel territorio metropolitano, imperialeo coloniale italiano, né in altro Stato, nel quale non sia giuridicamente ammessa la schiavitùné altra condizione personale analoga. Ma può darsi che qualche Stato barbaro conservi ointroduca nel suo ordinamento giuridico l’istituto della schiavitù o altro istituto analogo, eperciò la disposizione dell’art. 600 c.p. giustificata, tanto più che essa adempie all’impegnointernazionale assunto dall’Italia con la Convenzione di Ginevra del 25 settembre 1926, approvatacon R.D. 26 aprile 1928 n. 1723’’. Secondo l’A., nell’ipotesi in cui uno straniero soggettoa schiavitù o ad altra condizione analoga in uno Stato schiavista sia trasportato in territorioitaliano, lo stato personale di schiavitù non avrebbe valore giuridico in Italia, ‘‘perchélo stato delle persone è regolato dalla legge dello Stato cui esse appartengono solo in quantonon sia contrario al nostro ordine pubblico o alle convenzioni internazionali divenute dirittointerno. Nel detto caso, pertanto, il fatto di mantenere in Italia la persona in quella condizione,costituisce il delitto preveduto nell’art. 603 c.p.’’. In senso conforme, anche, G. Maggiore,Principi di diritto <strong>penale</strong>, parte speciale, 1938, Bologna, p. 684 s., e U. Conti, Il codice<strong>penale</strong> illustrato, vol. II, 1936, Milano, p. 317 s.


STUDI E RASSEGNE315pretare la norma che sanzionava la schiavitù con pesante pena. La schiavitùnon può essere una situazione di diritto in un ordinamento che ripudia laschiavitù: che adotta convenzioni internazionali che la aboliscono, che laprevede come reato e che, prima ancora, non conosce distinzioni fra gli uominisul piano della personalità giuridica.È chiaro che con ciò si giungeva alla sostanziale abrogazione della fattispeciedi riduzione in schiavitù, essendo più che remota l’ipotesi del concretoassoggettamento a sanzione <strong>penale</strong> di condotte scaturite da ordinamenti‘‘barbari’’( 16 ) che, ignorando convenzioni internazionali del più ampiorespiro internazionale( 17 ), persistessero nel riconoscere e disciplinare laschiavitù. La totale assenza di una casistica reale dispensò opportunamentegli operatori del diritto dal confrontarsi con le questioni pratiche che la tesidella ‘‘schiavitù di diritto’’ avrebbe potuto sollevare ( 18 ).La sanzione della ‘‘schiavitù di fatto’’ era demandata, nelle intenzionidel legislatore, a una distinta fattispecie incriminatrice, intitolata al plagio(19 ) (art. 603), che contemplava la condotta di chi sottoponesse una personaal proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione. Il‘‘totale stato di soggezione’’ era assimilato alla schiavitù quoad poenam, etuttavia, dettando una previsione autonoma, il legislatore marcava una differenzaconcettuale, mostrando di considerare il ‘‘totale stato di soggezione’’come una condizione personale che non meritava di essere qualificata‘‘analoga alla schiavitù’’. Disancorata dal riferimento a una tangibile condizionedi assoggettamento materiale, l’applicazione corrente della norma rischiavadi avventurarsi negli infidi territori del condizionamento psichico,che era arduo definire concettualmente e ancor più arduo verificare scientificamente.Una più affidabile sanzione della ‘‘schiavitù di fatto’’ poteva essere individuatanella sub-fattispecie della ‘‘riduzione in condizione analoga allaschiavitù’’. Fu in questo varco, in effetti, che si introdusse il cuneo che portò,al termine di un percorso interpretativo segnato dalla pressione delle ‘‘nuoveschiavitù’’, al definitivo affermarsi della tesi della ‘‘schiavitù di fatto’’.Buona parte della dottrina includeva l’ipotesi di ‘‘riduzione in condizionianaloghe alla schiavitù’’ nella poco apprezzata categoria delle ‘‘fattispeciead analogia esplicita’’, e la additava come esempio di uso anticosti-( 16 ) V. Manzini, Diritto cit., p. 53 ss.( 17 ) Gli Stati membri della Società delle Nazioni avevano sottoscritto la Convenzionedi Ginevra del 1926. Altri strumenti internazionali di contrasto alla schiavitù erano stati introdotti,già nel 1930, in ambiti più ristretti. Vedi, più ampiamente, M. Saulle, voce Schiavitù(diritto internazionale), inEnc. dir., vol. XLI, 1989, Torino, p. 641 ss.( 18 ) Quali: il luogo e la data di consumazione del reato (si pensi alla persona nata schiava)e all’individuazione dei soggetti responsabili.( 19 ) Sull’origine storica del termine e sull’evoluzione dell’istituto si veda, Corte cost., 8giugno 1981, n. 96, in Giur. cost., 1982, pt. II, p. 748 ss.


316STUDI E RASSEGNEtuzionale della tecnica dell’analogia, atteso che, in assenza di qualsiasi indicazionelegislativa idonea ad inquadrare la schiavitù in un più ampio concettodi genere, l’individuazione delle condizioni analoghe alla schiavitù risultavaintegralmente rimessa al giudice( 20 ).Per evitare contrasti col dettato costituzionale, alcuni interpreti non viderorimedio migliore che estendere anche al concetto di ‘‘condizioni analoghealla schiavitù’’ la qualifica di nozione ‘‘di diritto’’. Soccorreva allo scopoun trattato internazionale sopravvenuto (al Codice e alla Costituzione):si sostenne che, con la ratifica della Convenzione supplementare di Ginevradel 17 novembre 1956 (legge 20 dicembre 1957 n. 1304), la nozione di‘‘condizione analoga alla schiavitù’’ era stata sottratta all’‘‘arbitrio giudiziario’’(21 ), poiché il trattato enumerava analiticamente le situazioni parificatealla schiavitù per il diritto internazionale (e quindi anche per il diritto <strong>penale</strong>,che al diritto internazionale doveva adeguarsi), includendo fra di esse‘‘tutte le istituzioni o pratiche in forza delle quali un fanciullo o un adolescenteminore di diciotto anni può essere ceduto dai genitori o da uno diessi o dal tutore ad un terzo, dietro pagamento o meno, in vista dello sfruttamentodella persona o del suo lavoro’’ (art. 1, lett. d).Alcune fra le prime, concrete applicazioni giurisprudenziali dell’art.600 si registrarono per l’appunto in casi di sfruttamento dei minori. In particolare,di minori destinati all’accattonaggio, di minori comprati e vendutiperché destinati all’accattonaggio e ai furti (c.d. minori argati). Quindi, in( 20 ) Zanotti, Il principio di determinatezza e tassatività, inInsolera -Mazzacuva -Pavarini -Zanotti (a cura di), Introduzione al sistema <strong>penale</strong>, vol. I, 1997, p. 146. L’A.distingue due situazioni, con esiti opposti. In taluni casi, osserva, il rinvio al procedimentoanalogico non lede il dettato costituzionale: ciò accade laddove il legislatore potrebbe utilizzareuna tecnica di normazione sintetica, ma, anziché indicare il genus (cioè un segno linguisticodi sintesi che indichi il parametro attraverso il quale compiere la valutazione di rilevanza),elenca taluni elementi del genus affiancando poi ad essi la formula di chiusura. Le contravvenzionidi cui agli art. 710 e 711 c.p. sono un esempio di questa tecnica: si prevede ilfatto di consegnare o vendere grimaldelli o altri strumenti atti ad aprire o sforzare serratureda parte di chi fabbrica chiavi o eserciti il mestiere di fabbro, chiavaiuolo od altro simile mestiere.La norma contiene certamente il parametro di riferimento univoco (l’oggetto dell’attività)alla cui stregua valutare se la situazione di fatto assuma rilievo <strong>penale</strong>. Tanto ciò èveroche la formula potrebbe convertirsi in una di questo tipo ‘‘chiunque fabbrica o vende oggettidiretti ad aprire o forzare serrature’’. Al contrario, fattispecie quali quella degli artt. 600 e601 c.p. non contengono un parametro valutativo univoco. Ravvisano nel vecchio testo dell’art.600 una violazione del principio costituzionale di determinatezza anche Bricola, Ladiscrezionalità nel diritto <strong>penale</strong>, 1965, p. 297 ss.; M. Gallo, Appunti di diritto <strong>penale</strong>,vol. I, La legge <strong>penale</strong>, 1999, p. 94 ss.; Zanotti, Il principio cit., p. 146 ss. e, nella manualistica,G. Marinucci -E.Dolcini, Corso di diritto <strong>penale</strong>, vol. I, 2001, Milano, p. 181 ss.( 21 ) Monaco, Sub art. 600 c.p., inCrespi -Stella -Zuccalà (a cura di), Commentariobreve al codice <strong>penale</strong>, 1999, ed. III, p. 1670. Nel senso del testo, anche, Cass., Sez.V, 9febbraio 1990, Seyfula, in Cass. pen., 1992, p. 1203.


STUDI E RASSEGNE317situazioni riconducibili alle previsioni della Convenzione supplementaredel 1956( 22 ).Si faceva però strada, nel contempo, un’applicazione dell’art. 600 a‘‘schiavitù di fatto’’ estranee alle previsioni della Convenzione del1956( 23 ). Una spinta autorevolissima – e alla prova dei fatti decisiva – versola definitiva affermazione della tesi della ‘‘schiavitù di fatto’’ si registrò con( 22 ) Si trattava di minori provenienti dalla Macedonia, ceduti dai loro genitori a nomadislavi, che li sottoponevano a percosse e a digiuni forzati in caso di insuccesso. Si veda: Ass.Milano, 27 ottobre, 1986, Ahmet Iskender, in Ind. pen., 1987, p. 113 ss.; Ass. Milano, 18maggio 1988, Salihi Andrija, in Foro it., 1989, pt. II, c. 121 ss.; Cass., Sez. V, 7 dicembre1989, Iret Elamr, ivi, 1990, c. 369 ss.; Cass., Sez. V, 9 febbraio 1990, Seyfula, cit., c.1203. In dottrina, per tutti, cfr., Spagnolo, voce Schiavitù cit., p. 636 ss.; F. Mantovani,Diritto <strong>penale</strong>, parte speciale, vol. I, Delitti contro la persona, 1995, Padova, p. 335 ss.( 23 ) Cass., Sez. V, 7 dicembre 1989, Emaz, in Dir. fam. pers., 1991, p. 60 ss., per ladottrina si consideri, in commento alla sentenza appena citata, M. Dogliotti, La schiavitùè ancora tra noi, ivi, p. 62 ss.; F. Dell’Ongaro, I minori argati, ovvero la moderna schiavitù,ivi, 1990, p. 1112 ss.; R. Pezzano, commento alla sentenza Cass., sez. V, 7 dicembre 1989,Emaz, in Foro it., 1990, pt. II, c. 369 ss. Secondo la S.C. ‘‘ritenuto che la schiavitù e la condizioneanaloga alla schiavitù, di cui agli artt. 600 e 602 c.p., non consistono necessariamentein situazioni di diritto, ma anche in situazioni di fatto, la posizione di condizione analoga allaschiavitù è oggi evincibile dalla Convenzione di Ginevra del 17 settembre 1956 (ratificatacon l. n. 1304/1957) che integra la Convenzione di Ginevra sulla schiavitù 25 settembre1926 (ratificata con r.d. n. 1723/1928). La Corte ritenne manifestatamene infondate, in riferimentoall’art. 3 Cost. (per presunta disparità di trattamento tra nomadi che sfruttavano perla perpetrazione sistematica di reati i propri figli e nomadi che allo stesso scopo sfruttavanominori da essi acquistati dai genitori o per il tramite di intermediari) ed all’art. 25, comma 2,Cost. (per presunta violazione del principio di tassatività della norma <strong>penale</strong> circa la previsionedel reato di riduzione in condizione analoga alla schiavitù) le questioni di legittimitàcostituzionale degli artt. 600 e 602 c.p. Chiunque riduca in condizione analoga alla schiavitùuna persona (specie se minore d’età) od acquisti una persona trovatesi nella condizione predetta,non può invocare la inevitabile ignoranza della legge <strong>penale</strong>: trattasi invero di normeconformi al principio di riconoscibilità, vale a dire tali da essere percepite anche come normeextra penali di civiltà, indubbiamente vigenti nell’ambiente socio-culturale in seno al quale lenorme stesse operano’’.Per la giurisprudenza di merito v. Ass. App. Firenze, 23 marzo 1993, Tapiri, in Foro it.,1994, pt. II, c. 298 ss., con nota di A. Di Martino, ‘‘Servi sunt, immo homines’’. Schiavitù econdizione analoga nell’interpretazione di una corte di merito, inForo it., 1994, pt. II, c. 298ss. La Corte di Assise, osserva che ‘‘il fatto di prendere in consegna, in cambio di somme didenaro, soggetti minori al fine di sfruttarli attraverso il costringimento sistematico al furto oall’accattonaggio integra il reato di cui all’art. 600 c.p., in quanto la situazione personale nellaquale i minori vengono a trovarsi in seguito all’acquisto costituisce condizione analoga allaschiavitù, contemplata dall’at. 1, lett. d) della Convenzione di Ginevra 7 settembre 1956, ratificatacon l. 20 dicembre 1957, n. 1304 (nella specie, si è in punto di diritto sostenuto che laschiavitù e la condizione analoga devono essere ritenuti elementi normativi della fattispecie,la cui valutazione può essere comunemente compiuta o alla stregua di una norma giuridicache qualifichi – positivamente o negativamente – una specifica situazione di fatto come schiavitùo condizione analoga, ovvero in applicazione di parametri storico-sociali, che consentanola repressione di fenomeni caratterizzati dai medesimi aspetti di offesa della personalitàindividuale connotanti le figure di schiavitù storicamente note’’.


318STUDI E RASSEGNEla sentenza 6 agosto 1981 n. 96 con la quale la Corte costituzionale dichiaròl’illegittimità costituzionale del reato di plagio di cui all’art. 603 c.p., nelpresupposto che le condotte di riduzione in ‘‘schiavitù di fatto’’ fosseropreviste e punite dall’art. 600 c.p.( 24 ).La parola fine fu messa dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione. IlS.C. non si attardò sulla definizione di ‘‘schiavitù’’, limitandosi ad ammettereche in essa fosse ‘‘insita una connotazione di diritto’’ e quasi depositandola prima parte dell’art. 600 nel triste limbo delle norme mai applicabiliin concreto( 25 ). Qualificò invece la ‘‘condizione analoga alla schiavitù’’, ritenendola‘‘situazione di fatto identica, quanto al peso che ne subisce chi nesia oggetto, alla condizione materiale dello schiavo, con la sola particolaritàche – a differenza di quest’ultimo – la vittima non può perdere lo stato giuridicodi uomo libero.’’ Una simile situazione di fatto non doveva necessariamentetradursi in una delle ‘‘pratiche sociali’’ della Convenzione supplementaredi Ginevra del 1956, le cui disposizioni ‘‘non esaurivano la virtualitàespansiva della nozione’’ (e non assumevano quindi la funzione di ‘‘elementonormativo’’ della fattispecie( 26 )). In tal modo, secondo la Corte, nonrisultava violato il principio costituzionale di determinatezza, perché, ‘‘es-( 24 ) Corte cost., 8 giugno 1981, cit., p. 748 ss. La Consulta rilevava come la pronunciad’illegittimità dell’art. 603 non generasse un vuoto di tutela <strong>penale</strong>, poiché le condizioni analoghealla schiavitù, richiamate rispettivamente dagli artt. 600 e 602 c.p., non potevano essereintese restrittivamente, sì da comprendere solo ‘‘situazioni di diritto’’. La contraria interpretazionenasceva secondo la Corte da un’errata lettura della Convenzione di Ginevra del1926, nonché della Convenzione supplementare del 1956: fra le ‘‘istituzioni e pratiche analoghealla schiavitù’’, alcune sono condizioni di fatto realizzabili senza alcun atto o fatto normativoche le autorizzi’’, consistendo in situazioni di asservimento della persona umana resesocialmente possibili ‘‘per prassi, tradizione e circostanze ambientali’’. Sul tema v. G. Porco,Schiavitù un fenomeno in trasformazione, inGiust. pen., 1998, c. 733 s.( 25 ) Per una disamina esaustiva e completa, in tema di schiavitù e tratta, nel diritto internazionale,si veda E. Rosi, La tratta di essere umani e il traffico di migranti. Strumenti internazionali,inCass. pen., 2001, p. 1986 ss.; V. Militello, Partecipazione all’organizzazionecriminale e standards internazionali d’incriminazione, inRiv. it. dir. proc. pen., 2003, p. 184ss.; E. Di Francesco, La Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionalee i protocolli aggiuntivi: contenuti e linee evolutive, inGli stranieri, 2000, p. 427ss.; G. Fera, Conferenza per la firma della Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimineorganizzato transnazionale e relativi protocolli, inRiv. pol., 2001, p. 133 ss. Più in generale, econ una impostazione attenta all’evoluzione giurisprudenziale, si veda, F. Spiezia, F.Frezza,N.M.Pace, Il traffico e lo sfruttamento di esseri umani. Primo commento alla legge dimodifica alla normativa in materia di immigrazione ed asilo, Milano, 2002, passim; D. Manzione,La lotta alla tratta degli esseri umani, inLeg. pen., 2004, fasc. 2, p. 327 s.( 26 ) C. Visconti, Riduzione, cit., c. 314 ss. L’A. dà atto dell’esistenza di un orientamentogiurisprudenziale secondo cui la locuzione ‘‘condizioni analoghe alla schiavitù’’ va intesaalla stregua di un elemento normativo di fattispecie che, in quanto tale, rinvia per la determinazionedel suo contenuto ad una fonte esterna alla norma incriminatrice, fonte individuabilenel caso specifico nell’art. 1 della Convenzione supplementare contro laschiavitù del 1956, che contempla una serie di fattispecie concrete rientranti nella nozione


STUDI E RASSEGNE319sendosi ormai tradotto il concetto di schiavitù in una nozione storica e culturale,il significato della locuzione ‘condizione analoga’ può essere determinativamenterecepito dai destinatari del precetto <strong>penale</strong>’’ come descrittivodella condizione di un individuo che – in conseguenza ‘‘dell’esercizioda parte di taluno di attributi del diritto di proprietà’’ – si trovi ‘‘(pur conservandonominativamente lo status di soggetto dell’ordinamento giuridico)nell’esclusiva signoria dell’agente, il quale materialmente ne usi, netragga frutto o profitto e ne disponga, similmente al modo in cui, secondole conoscenze storiche, confluite nell’attuale patrimonio socio-culturaledella collettività, il padrone un tempo esercitava la propria signoria sulloschiavo’’( 27 ).In dottrina non mancarono voci critiche, secondo le quali la Corteautorizzava esplicitamente il giudice di merito a fare ricorso, nella individuazionedel fatto penalmente rilevante, al procedimento analogico, in violazionedell’art. 25, comma 2, Cost.( 28 ). Non si sono invece registrate opinionidissenzienti né nella giurisprudenza di merito né in quella di legittimità( 29 ).di schiavitù, tra le quali si segnala, per la sua aderenza all’attuale realtà criminologia, quellaprevista dalla lett. d): ‘‘ogni istituzione o pratica in forza della quale un fanciullo o un adolescenteminore degli anni diciotto è consegnato sia dai suoi genitori o da uno di loro, sia daltutore, ad un terzo, contro pagamento o meno, in vista dello sfruttamento della persona o dellavoro di detto fanciullo o adolescente. E tuttavia, in seno a tale orientamento, non sonomancate pronunzie di merito che hanno ulteriormente sviluppato l’impostazione appena riportata,fino a rischiare, però, di pregiudicare il principale pregio e cioè quello di puntare adun equilibrato compromesso tra l’esigenza politico-criminale di praticare una interpretazioneaggiornata della fattispecie di riduzione in schiavitù adatta a punire qualsiasi pratica riconducibileal fenomeno dei bambini argati, e la non meno rilevante esigenza di mantenere lanorma <strong>penale</strong> entro limiti di elasticità applicativa compatibili con il principio costituzionaledi determinatezza e tassatività’’.( 27 ) Cass., Sez. Un., 20 novembre 1996, Ceric, cit., p. 713 ss. In dottrina, si veda, M.Solaroli, Il delitto di riduzione in schiavitù, come fattispecie a forma vincolata, inDir. pen.proc., 1997, p. 713; E. Amati, Sul concetto di ‘‘condizione analoga alla schiavitù’’,inCass.pen., 1998, p. 36 ss.( 28 ) Cfr. F. Viganò, Sub art. 600, inDolcini -Marinucci (a cura di), Codice <strong>penale</strong>commentato, pt. II, vol. II, 1999, Milano, p. 3118 s.; M. Solaroli, Il delitto cit., p. 713 ss.,quest’ultimo rileva che ‘‘la previsione di cui all’art. 1 della Convenzione di Ginevra, piuttostoche fornire un elenco tassativo di «condizioni analoghe» alla schiavitù, risponde piuttosto allaratio di estendere quanto più possibile la tutela della persona umana, specificando l’applicabilitàdella convenzione anche a situazioni di fatto e di diritto che la concisa definizione dell’esclavagein apparenza non era idonea a ricomprendere e che invece sono vere e proprie«forme di manifestazione» della schiavitù. Ma anche ammesso che l’elenco delle «condizionianaloghe» di cui all’art. 1 della Convenzione del 1956 debba considerarsi tassativo, l’opinioneriferita non risulterebbe del tutto convincente. Appare piuttosto evidente l’incongruenza insitanel ritenere, da un lato, che la condizione analoga sia ravvisabile anche in una situazionedi fatto, per poi escludere, dall’altro, che tali situazioni possano essere diverse da quelle previstedalle fonti normative da invocarsi in via esclusiva ad integrazione della norma <strong>penale</strong>’’.( 29 ) Per la giurisprudenza di legittimità, si veda, tra le altre, Cass., Sez. III, 7 luglio1998, Matarazzo, in CED Cass., rv. 211543, la pronuncia rileva come ‘‘la nozione di condi-


320STUDI E RASSEGNE2.2. È anche troppo evidente che, essendo intervenuta una legge nuova,è inutile attardarsi sull’interpretazione della vecchia. Dell’antico dibattitosull’art. 600 è però ancora oggi utile sottolineare da un lato le questioni realmentesollevate – che restavano inespresse, o espresse sotto la metafora della‘‘schiavitù di fatto’’ o delle ‘‘schiavitù di diritto’’ – dall’altro le questioni eluse,perché queste ultime si ripropongono tutte con la nuova disciplina.Dietro il sottilissimo velame di un dibattito che maneggiava definizionitecnico-giuridiche, si agitavano questioni legate al trattamento <strong>penale</strong> dellenuove forme di schiavitù. Più di tutte, si agitava la questione del trattamento<strong>penale</strong> della prostituzione forzata, specie quando condotta su base transnazionale.Non v’è dubbio che, all’origine, l’art. 600 non era ‘‘pensato’’ per sanzionarele condotte di prostituzione forzata. Se la Relazione Preliminare delcodice del 1930 rimandava alla Convenzione di Ginevra – espressione diuna trattatistica che separava la materia della schiavitù, sostanzialmente intesacome pratica del lavoro forzato, da quella dello sfruttamento sessuale edel trasporto di donne da avviare alla prostituzione( 30 ) – la scelta del legi-zione analoga alla schiavitù di cui agli artt. 600 e 602 c.p. non si esaurisce con le descrizionicontenute nelle Convenzioni di Ginevra del 1926 e del 1956, sussistendo tutte le volte in cuisia ricollegabile l’effetto del totale asservimento di una persona al soggetto responsabile dellacondotta stessa. Tale totale asservimento equivale alla condizione di un individuo che vengaa trovarsi (pur conservando nominalmente lo status di soggetto nell’ordinamento giuridico)ridotto nell’esclusiva signoria dell’agente, il quale materialmente ne usi, ne tragga profitto ene disponga’’. In senso conforme: Cass., Sez. V, 18 dicembre 2000, Gjini, ivi, rv., 217846;Cass., Sez. III, 21 maggio 2003, Marin, ivi, rv. 224978.( 30 ) Se unica è stata l’elaborazione culturale che ha condotto la Comunità internazionaleal ripudio della schiavitù (slavery) e della tratta (trafficking), è pur vero che, agli alboridell’abolizionismo, la normativa internazionale usava considerare separatamente, e differentementetrattare, da un lato la ‘‘schiavitù’’, intesa come soggezione per fini di sfruttamentodel lavoro, dall’altro il trasporto di persone a fini di prostituzione o di sfruttamento sessuale,fenomeno definito come ‘‘tratta’’. Di ‘‘tratta’’ si parlava con riguardo alle prostitute, e quindicon riguardo alle sole donne – anzi, inizialmente, alle sole ‘‘bianche’’ – in seguito anche conriguardo ai minori dei due sessi, e la repressione dello sfruttamento sessuale è stata per lungotempo meno condivisa e meno incisiva della repressione del lavoro forzato.L’Accordo internazionale per la soppressione della tratta delle bianche (firmato a Parigi il18.5.1904, reso esecutivo in Italia con R.D. 9.4.1905 n.171), concluso fra le principali potenzeeuropee dell’epoca ma aperto all’adesione di altri Stati, prevedeva misure di cooperazioneinternazionale ‘‘al fine di assicurare alle donne maggiorenni, ingannate o costrette, e alle donneminorenni, una protezione efficace contro la tratta delle bianche’’. L’accordo era complementarealla Convenzione internazionale relativa alla repressione della tratta delle bianche, chefu poi stipulata soltanto il 4 maggio 1910 (e resa esecutiva in Italia con R.D. 25 marzo 1923,n. 1207). L’accordo del 1904 definisce la tratta come la condotta di chi per soddisfare la passionealtrui, indirizza, trattiene o dirotta, senza il suo consenso, una donna o una ragazza minorennesulla via della deboscia. LaConvenzione internazionale per la soppressione della trattadelle donne e dei fanciulli, firmata a Ginevra il 30 settembre 1921 e resa esecutiva in Italiacon R.D. 31 ottobre 1923 n. 2749, elaborata nell’ambito della Società delle Nazioni – e quin-


STUDI E RASSEGNE321slatore sembrava ribadita con la legge 20 febbraio 1958, n. 75, che preve-di con applicazione territoriale più ampia rispetto alle precedenti – estende la repressionedella tratta a tutti i fanciulli, di entrambi i sessi, ed elimina qualsiasi riferimento testuale alledonne ‘‘bianche’’. Con la successiva Convenzione internazionale per la soppressione della trattadelle donne maggiorenni, sottoscritta a Ginevra l’11 ottobre 1933, sono incluse tra le personeoggetto della tratta le donne maggiorenni consenzienti. Come rileva M. C. Maffei,Tratta, prostituzione forzata e diritto internazionale – Il caso delle ‘‘donne di conforto’’, Milano,1998, passim, la vittima della ‘‘tratta delle bianche’’, in quanto non ridotta alla condizionedi bene patrimoniale propria dello schiavo, non si riteneva privata dello status libertatis, anchese era esclusa la rilevanza del consenso da essa prestato alla pratica illecita, per il prevaleredell’interesse pubblicistico al contenimento del fenomeno della prostituzione.Il movimento per l’abolizione della schiavitù trae origine dalle dichiarazioni dei dirittiindividuali delle rivoluzioni americana e francese. La solenne affermazione del divieto dellaschiavitù e della tratta è fatto proprio dalle potenze europee in una serie di accordi bilateralie multilaterali e in conferenze internazionali. Il Congresso di Vienna (1815) dichiara che ilcommercio degli schiavi è ‘‘contraria al diritto delle genti e alla morale internazionale’’; ilTrattato di Londra (1841), concluso fra Gran Bretagna, Russia, Prussia, Austria e Francia,pone fine al traffico degli schiavi in Africa il ripudio della schiavitù è ribadito in occasionedella Conferenza di Berlino del 1888 e della Conferenza di Bruxelles del 1880. Si veda funditusM.R. Saulle, op. cit, p. 641 ss..In materia di repressione della schiavitù, il primo strumento condiviso dagli Stati membridella Società delle Nazioni è la già citata Convenzione di Ginevra sull’abolizione dellaschiavitù del 25 settembre 1926, resa esecutiva in Italia con R.D. 26 aprile 1928, n. 1723.Con la Convenzione supplementare sulla schiavitù di Ginevra in data 7 settembre 1956, ratificatae resa esecutiva in Italia con L. 20 dicembre 1957 n. 1304, è resa esplicita l’estensionedella nozione di schiavitù a situazioni estranee allo sfruttamento del lavoro. Ancora dieci annidopo, peraltro, sarà palesemente orientata alla sola repressione del lavoro forzato la disposizionedell’art. 8 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 10 dicembre 1966,che vieta la schiavitù, la servitù e, più in generale, ogni forma di lavoro forzato, con le soleeccezioni tassativamente previste. In sede europea, sul tema della schiavitù e del lavoro forzatovanno menzionati l’art. 4 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950, laCarta sociale europea, adottata dal Consiglio d’Europa del 1961 e l’art. 5 della Carta dei dirittifondamentali dell’Unione Europea (Nizza, 7 dicembre 2000).Tratta di esseri umani e sfruttamento della prostituzione restano strettamente collegatinella Convenzione per la repressione dei due fenomeni adottata dall’O.N.U. con risoluzionedell’Assemblea Generale 2 dicembre 1949 n. 317 resa esecutiva con l. 23 novembre 1966, n.1173. Tradizionalmente, la normativa dell’Unione Europea accomuna traffico di esseri umanie sfruttamento dei minori (Azione Comune 24 febbraio 1997, art. K1 del Trattato di Amsterdam,Conclusioni del Consiglio europeo di Tampere).La Convenzione n. 182 relativa alla proibizione delle forme peggiori di lavoro minorilee all’azione immediata per la loro eliminazione, adottata dall’organizzazione internazionaledel lavoro il 17 giugno 1999, ratificata e resa esecutiva con legge n. 148 del 2000, comprendetra le ‘‘forme peggiori’’ tutte le forme di schiavitù nonché l’impiego, l’ingaggio e l’offerta delminore a fine di prostituzione, di produzione di materiale pornografico. Ad ogni forma ditratta di esseri umani, indipendentemente dal fine, può applicarsi il fondamentale strumentodi accertamento e repressione adottato dalla Comunità internazionale nei confronti dei criminicontro l’umanità (art. 7 dello Statuto della Corte <strong>penale</strong> internazionale – Roma, 17 luglio1998). Il secondo dei due Protocolli facoltativi alla Convenzione sui diritti del fanciullodel 20 novembre 1989, adottati dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la Risoluzionen. 54/263 del 25 maggio 2000, ratificata con l. 11 marzo 2002 n. 46, concernente la


322STUDI E RASSEGNEdeva le ipotesi di induzione al trasferimento nel territorio di un altro Statodi una persona destinata a esercitare la prostituzione (art. 3, n. 6) e di partecipazionead ‘‘associazioni e organizzazioni nazionali od estere’’ dedite alreclutamento di persone destinate alla prostituzione e allo sfruttamentodella prostituzione (art. 3, n. 7), nonché l’aggravante speciale dell’uso dellaviolenza per queste e per le altre ipotesi dell’art. 3 (art. 4, n. 1). Con questedisposizioni, il fenomeno dello sfruttamento della prostituzione sembravadestinato a restare interamente racchiuso nel recinto della legge speciale.Dopo la breccia aperta con la sentenza n. 96 del 1981 della Corte costituzionale,e dopo l’ulteriore apertura registrata con l’applicazione dell’art.600 a un’ipotesi – quella dei ‘‘bambini argati’’ – che, pur essendo sociologicamentelontana dalle tradizionali pratiche di schiavitù dell’epocacoloniale, presentava rispetto ad esse il denominatore comune della destinazionedelle vittime al lavoro forzato, intervennero – con un ‘‘peso’’ e unafrequenza incomparabilmente superiori, data la vasta incidenza del fenomeno– le applicazioni in tema di prostituzione forzata, frutto di un’interpretazioneancor più distante dalle ‘‘intenzioni’’ del legislatore, ma comunqueconsolidatasi nel tempo, almeno nella giurisprudenza.Il nuovo orientamento riceveva una sorta di successiva, indiretta ratificada parte del legislatore già con la legge 3 agosto 1998, n. 269, che includevala prostituzione minorile (art. 600 bis) fra i delitti contro la personalitàindividuale, e che esplicitamente qualificava nel titolo del reato (Normecontro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismosessuale in danno dei minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù) losfruttamento della prostituzione e lo sfruttamento sessuale come manifestazionidi riduzione in schiavitù( 31 ).La legge 228 del 2003 conferma il definitivo superamento della que-vendita dei fanciulli, la prostituzione e la pornografia minorili prevede fra l’altro (art. 3) l’obbligoper gli Stati contraenti di assoggettare a sanzione <strong>penale</strong> l’offerta, la consegna o l’accettazione,con qualsiasi mezzo, di un minore a scopo di sfruttamento sessuale, trasferimentolucrativo di organi o impiego in lavori forzati, e altri strumenti di tutela dei minori dallosfruttamento sia lavorativo che sessuale.Il primo dei due Protocolli addizionali alla Convenzione delle Nazioni Unite contro lacriminalità organizzata transnazionale del 12-15 dicembre 2000, Protocollo per prevenire, reprimeree sanzionare la tratta di persone, specialmente donne e fanciulli, che completa la Convenzionedelle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale, al quale la novelladel 2003 dichiaratamente s’ispira (si veda, fra gli altri, l’intervento dell’On. A. Finocchiaro,alla Commissione II, Giustizia, seduta del 10 ottobre 2001, e la relazione aldisegno di legge del Governo, Camera dei deputati, n. 1584, del 18 settembre 2001) e la Decisione-Quadrodel Consiglio dell’Unione Europea del 19 luglio 2002 sulla lotta alla trattadegli esseri umani, pubbl. in Gazz. Uff. Comunità europee del 1 agosto 2002, parificanoespressamente e compiutamente ogni forma di sfruttamento lavorativo e sessuale.( 31 ) Sul rapporto fra la legge 269 e l’evoluzione della nozione di schiavitù v. G. Porco,Schiavitù cit., p. 733 ss.


STUDI E RASSEGNE323stione. Nella formulazione introdotta dall’art. 1, l’art. 600 comma 1, parteseconda, c.p. si riferisce anche alle ‘‘prestazioni sessuali’’ e, fra le aggravantispeciali previste dal comma 3, è compreso il fine di sfruttamento della prostituzione.Per anni la questione è stata se l’art. 600 potesse applicarsi allo sfruttamentosessuale. Con l’affermare la nozione di schiavitù ‘‘di fatto’’ la giurisprudenzadava risposta positiva, e per tal modo intendeva mostrarsi sensibilealla gravità dei fenomeni di sfruttamento etichettati come ‘‘nuoveschiavitù’’ (in gran parte identificabili con il trasporto e l’avviamento forzatoalla prostituzione di giovani extracomunitarie).Più in ombra restava il problema del quando, ossia a quali condizioni,applicare l’art. 600 allo sfruttamento della prostituzione, così come alle altreforme di sfruttamento lavorativo e sessuale dell’essere umano.Se da parte degli uni si ‘‘cestinava’’ una norma giudicata incostituzionaleo virtualmente inapplicabile, in quanto destinata a sanzionare improbabiliriflessi interni di rigurgiti schiavistici registrati in lande remote, daparte degli altri si sottolineava la necessità di ‘‘attualizzare’’ le applicazionidella norma, ma non si producevano troppi sforzi per chiarire a quali condizionila violenza e la sopraffazione producessero una condizione di fattodefinibile come ‘‘analoga alla schiavitù’’, ritenuta riconoscibile dai destinataridel precetto in virtù di referenze storiche universalmente condivise edefinita come soggezione a unà‘signoria assoluta’’, come asservimento ‘‘totale’’o ‘‘completo’’, tale da ridurre l’uomo alla condizione di cosa. Peraltro,la realtà delle nuove ‘‘schiavitù’’ aveva indotto la giurisprudenza a ritenereravvisabile la fattispecie in situazioni nelle quali la condizione di asservimentopresentava spazi più o meno ampi di libertà( 32 ). Quali e quanti potesseroessere questi spazi, perché la soggezione potesse continuare a qualificarsicome ‘‘completa’’ o ‘‘totale’’, restava questione assai poco esplorata.3. Il nuovo reato di ‘‘riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù’’.Struttura della norma.In siffatto panorama interpretativo – sedato dall’intervento delle SezioniUnite, ma con esiti non esaltanti – si inserisce la novella del 2003, prodottodell’esame congiunto di due distinti elaborati, la proposta di legge n.1255 presentata il 9 luglio 2001 da 26 deputati e il disegno di legge n. 1584presentato dal governo il 18 settembre 2001, approvati in un testo unificatodalla Camera dei Deputati il 27 novembre 2001 e sottoposti a progressivemodifiche nell’arco di tre successivi passaggi parlamentari. Scopo dichiara-( 32 ) Per tutte, si veda, Cass., sez. V, 18 dicembre 2000, Gjini, cit., rv., 217846.


324STUDI E RASSEGNEto sia della proposta( 33 ) che del disegno( 34 )èstato quello di uniformarel’ordinamento italiano, con anticipo rispetto ai tempi fissati, agli impegnipresi con la stipula del primo dei due Protocolli addizionali alla Convenzionedelle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale del12-15 dicembre 2000( 35 ).La struttura della nuova legge ricalca fedelmente quella del Protocollo:a una parte ‘‘<strong>penale</strong> sostanziale’’ seguono, tanto nel Protocollo quanto nellaLegge, una parte ‘‘processuale’’ e una parte ‘‘amministrativa’’, con le differenzelegate alla diversa natura delle norme: alle definizioni e agli impegnipropri della norma internazionale (che definisce la tratta di persone e impegnagli Stati a perseguirla con la sanzione <strong>penale</strong>, a munirsi di adeguatistrumenti amministrativi di contrasto al fenomeno criminale, ad apprestareidonea tutela alle vittime) corrispondono ipotesi di reato, norme di procedura,misure amministrative.Il Protocollo ha per oggetto la ‘‘tratta’’( 36 ), intesa sia come trasportoforzato che come compravendita di esseri umani, fenomeno al quale – standoalla lettera – il codice <strong>penale</strong> dedicava e dedica ancora oggi i soli articoli601 e 602. I conditores nazionali hanno però inteso intervenire anche sul-( 33 ) Si veda, fra gli altri, l’intervento dell’On. A. Finocchiaro, alla Commissione II (giustizia),seduta del 10 ottobre 2001.( 34 ) Camera dei deputati, 18 settembre 2001, n. 1584.( 35 ) La Convenzione è stata aperta alla firma il 12 dicembre 2000 e firmata da 127 Statidopo negoziati durati due anni. È entrata in vigore con la ratifica da parte del quarantesimoStato. Il testo degli accordi è stato elaborato da un Comitato nominato dall’Assemblea generaledelle Nazioni Unite 53/111 del 9 dicembre 1998. L’altro Protocollo addizionale disciplinail contrasto al fenomeno dell’immigrazione clandestina (smuggling of migrants, o contrabbandodi migranti). In conseguenza del carattere ‘‘addizionale’’ dei Protocolli rispettoalla Convenzione, l’adesione ai Protocolli è consentita ai soli Stati che hanno sottoscrittola Convenzione e le disposizioni dei Protocolli devono essere interpretate secondo i principifissati dalla Convenzione (art. 37 Conv.).( 36 ) L’etimo tractare rimanda al trasporto e alla compravendita, ma la nozione di ‘‘tratta’’nel diritto internazionale comprende tutte le possibili condotte di sfruttamento degli esseriumani: l’art. 2 del Protocollo, nel definire la tratta, enumera tutte le possibili forme dicessione e di trasporto forzato, ma menziona anche comportamenti – quali il ‘‘reclutamento’’e il ‘‘dare alloggio e accoglienza’’ a persone destinate allo sfruttamento – estranei tanto al significatoetimologico di ‘‘tratta’’, quanto, soprattutto, al concetto di ‘‘tratta’’ accolto dal diritto<strong>penale</strong> italiano. In italiano, e nelle altre lingue di origine latina, il fenomeno denominatoin inglese trafficking of human beings si traduce con termini derivati dal latino tractare, mentreil termine ‘‘traffico’’, così come i corrispondenti termini delle altre lingue neolatine, è correntementeutilizzato nell’ambito dell’espressione ‘‘traffico di migranti’’ (Smuggling of migrants),e quindi per definire il fenomeno dell’immigrazione clandestina, strettamente connessoal fenomeno della tratta di esseri umani dal punto di vista socio-economico, ma daesso sempre distinto nella normativa internazionale. L’uso del termine ‘‘traffico’’ per tradurre‘‘smuggling’’ e del termine ‘‘tratta’’ per tradurre ‘‘trafficking’’ produce i piccoli inconvenientipropri dei false friends. Sull’argomento, si rinvia a M. C. Maffei, Tratta cit., passim.; E.Rosi,La tratta cit., p.1986, ss.


STUDI E RASSEGNE325l’art. 600, e quindi sull’insieme delle ‘‘tradizionali’’ fattispecie incriminatricipreviste al titolo XII, capo III, sezione I del codice <strong>penale</strong>, vale a dire suireati contro la personalità individuale, presenti già nell’impianto originariodel Codice del 1930 e rimasti da allora pressoché immutati( 37 ). Di più: ildibattito parlamentare che ha dato vita alla nuova legge si è in massimaparte focalizzato sulla modifica dell’art. 600 e il nuovo art. 600 rappresentail punto centrale della riforma, quanto meno sul versante del diritto <strong>penale</strong>sostanziale.Non stupisce che, per attuare un accordo internazionale sulla tratta diesseri umani, il legislatore nazionale abbia dovuto mettere mano in primoluogo alla fattispecie della riduzione in schiavitù: il nuovo art. 600 assume,esattamente come il vecchio, il ruolo essenziale di definire la condizionedella persona vittima dei reati di tratta di cui ai successivi articoli 601 e602( 38 ).Con l’entrata in vigore della legge 228 del 2003, il diritto <strong>penale</strong> conosce– per la prima volta – una nozione di schiavitù dettata direttamente dallegislatore, e ad essa si affianca quella di servitù. Secondo la nuova norma,( 37 ) Con la sola eccezione dell’introduzione del comma 2 dell’art. 601 c.p. – ipotesi aggravatadi tratta, avente per oggetto minori da destinare alla prostituzione – dovuta a quellastessa legge 3 luglio 1998, n. 269 che aveva introdotto le nuove fattispecie previste agli articoli600 bis, ter, quater, quinquies e sexiesi, c.p.( 38 ) Contrariamente a quanto ritengono alcuni fra i primi commentatori della norma(G. Amato, La condizione della vittima qualifica il reato, in Guida dir., 13 settembre2003, fasc. 35, p. 115 ss.; A. Peccioli, Giro di vite contro i trafficanti di esseri umani: le novitàdella legge sulla tratta di persone, inDir pen. proc., 2004, fasc. 1, p. 32 ss.) che ritengonoriferibile ai soggetti posti in condizione di schiavitù o servitù solo la generica ipotesi di ‘‘tratta’’formulata in apertura del primo comma ed estensibili a qualsiasi essere umano le ipotesidi costrizione o induzione al trasferimento delineate dopo la congiunzione ‘‘ovvero’’ – l’art.601 c.p. nel suo insieme si riferisce esclusivamente alle persone che si trovano ‘‘nelle condizionidi cui all’art. 600 c.p.’’, come risulta chiaramente dal testo. Il pronome ‘‘la’’, utilizzatodue volte nella seconda parte dell’art. 601, primo comma, a proposito della persona offesadel reato (ovvero... la induce... o la costringe...) non è grammaticalmente riferibile a unaqualsiasi persona, ma solo alla ‘‘persona che si trova nelle condizioni dell’art. 600 c.p.’’. Peraltro,se l’art. 601 primo comma c.p, formulasse davvero due ipotesi da distinguere in ragionedella diversa qualità della persona offesa (una persona ridotta in condizione di schiavitùo servitù nella prima ipotesi, una persona qualsiasi nella seconda), resterebbero imperscrutabilile ragioni per le quali il legislatore si sarebbe determinato a usare tecniche espositive tantodiverse nell’uno e nell’altro caso, confezionando una fattispecie estremamente generica per lepersone di cui all’art. 600 c.p. – in contrasto con lo sforzo di ‘‘tipizzazione’’ manifestato nellealtre disposizioni sostanziali della novella – e riservando precisione e dettaglio alla tratta dellepersone che non versano in condizione di schiavitù o servitù. L’unico dato testuale che deponeper l’intenzione del legislatore di estendere la nozione di tratta anche a persone che nonversino nelle condizioni di cui all’art. 600 c.p. resta il titolo dell’art. 601 c.p. (Tratta di persone),specie se raffrontato al titolo dell’art. 602 c.p., riferito ai soli schiavi. Ma si tratta, com’ènoto, di un dato che non può assumere influenza decisiva sull’interpretazione, posto cheil titolo di una norma è estraneo al contenuto precettivo della medesima.


326STUDI E RASSEGNE‘‘chiunque esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli del diritto diproprietà ovvero chiunque riduce o mantiene una persona in uno stato di soggezionecontinuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovveroall’accattonaggio o comunque a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento,è punito con la reclusione da otto a venti anni’’. La struttura del primo commadell’art. 600 – analoga, almeno all’apparenza, a quella del primo commadel successivo art. 601 – presenta la giustapposizione di due ipotesi distinte,la prima delle quali delineata in termini più generici rispetto alla seconda:ciò che sta dopo l’«ovvero» è un novero di ipotesi dettagliatamente descritte,che compongono quella che si suole definire una «tipizzazione».Al secondo comma dell’art. 600, il legislatore dettaglia ulteriormente laseconda ipotesi: ‘‘la riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione haluogo quando la condotta è attuata mediante violenza, minaccia, inganno,abuso di autorità o approfittamento di una situazione di inferiorità fisica opsichica o di una situazione di necessità, o mediante la dazione di sommedi denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona’’.La condotta del soggetto attivo è definita, nel titolo, in modo simmetricoper le due fattispecie: ‘‘riduzione e mantenimento’’. L’esplicita previsionedella condotta di ‘‘mantenimento’’ risponde all’esigenza di superareproblemi interpretativi del passato( 39 ).L’espressione riportata nella prima parte dell’art. 600 primo commanuovo testo corrisponde alla lettera alla nozione di ‘‘condizione analoga allaschiavitù’’ accolta dalle Sezioni Unite della Suprema Corte( 40 ), a sua voltadesunta direttamente dalla nozione di schiavitù fissata nel testo della Convenzionedi Ginevra del 1926. Si noti che, secondo la Corte, era la ‘‘condizioneanaloga’’ alla schiavitù, e non la schiavitù, a identificarsi nel riflesso‘‘effettuale’’ delle previsioni della Convenzione di Ginevra del 1926, e adessere definibile come ‘‘esercizio di attributi del diritto di proprietà’’, poichéla schiavitù era ‘‘stato’’ di diritto, e non ‘‘condizione’’ di fatto. Si assistedunque, per effetto dell’intervento del legislatore, a una peculiare traslazionesemantica: la condizione personale qualificabile, sulla base dell’insegnamentodella Suprema Corte, come ‘‘analoga alla schiavitù’’ è ora definitadal legislatore ‘‘schiavitù’’. Cancellato, con poco rimpianto, il reato di riduzionein stato di schiavitù di diritto (secondo la Corte: riduzione in schiavitù( 39 ) G. Amato, Un nuovo sistema cit., p. 40 ss. Nei Lavori Preparatori si veda l’interventodel Relatore della legge, On. Angela Finocchiaro, la quale, alla seduta del 19 novembre2001, affermava ‘‘questa è la ragione per cui abbiamo scritto nel testo ‘‘riduce o mantiene’’,perché ci riferiamo ad una condotta totalmente soppressiva della libertà personale, che non èsolo quella che si consuma nel momento in cui si riduce un soggetto in schiavitù, ma anchequando, soggetto altro, conoscendo la situazione di schiavitù o servitù, la mantenga a profittoproprio o di altri.( 40 ) Nella sentenza Cass., Sez. Un., 20 novembre 1996, Ceric, cit., p. 713 ss.


STUDI E RASSEGNE327in senso stretto, prima parte del vecchio art. 600), resta la riduzione (e ilmantenimento) in condizione di schiavitù di fatto( 41 ).Il quadro così disegnato presenta un’evidente singolarità: a due distintecondizioni di assoggettamento della persona offesa – la prima delle quali,secondo l’orientamento espresso dal legislatore, è ‘‘assoluta’’ e più difficileda provare, laddove l’altra tollera un ‘‘certo margine di autodeterminazione’’e appare più facilmente riscontrabile in concreto – è collegata la medesimapena per il soggetto attivo. Tanto basta a temere che il nuovo art. 600sia destinato a un destino di ‘‘parziale desuetudine’’ simile a quello toccatoal vecchio articolo. Così come, nel vigore della vecchia disciplina, le applicazionipratiche si rivolgevano all’ipotesi di riduzione in ‘‘condizione analoga’’alla schiavitù, piuttosto che a quella di riduzione in schiavitù in sensostretto, è prevedibile che la pubblica accusa preferirà ora misurarsi – nell’identitàdella sanzione – con la seconda delle due ipotesi delineate dallanorma, piuttosto che con la prima. Se la maggiore vitalità della secondaipotesi dell’art. 600 vecchio testo dipendeva dal possibile riferimento dellaprima ipotesi alla ‘‘schiavitù di diritto’’, condizione impalpabile e in ognisenso remota, la pratica potrebbe privilegiare la seconda ipotesi del nuovotesto (‘‘soggezione continuativa’’ in varie forme e con vari fini attuata) pernon confrontarsi con la prova della ‘‘soggezione assoluta’’ della persona offesa.Il timore di una scarsa vitalità della fattispecie di riduzione o mantenimentoin schiavitù è alimentato dalla diversa tecnica utilizzata nell’una enell’altra ipotesi. La condizione servile è disegnata assemblando un noverodi previsioni raffiguranti le varie forme nelle quali concretamente si atteggiail fenomeno dello sfruttamento, secondo una tecnica di ‘‘tipizzazione’’che ricorda quella utilizzata in sede internazionale nel Protocollo di Palermosulla tratta di esseri umani, laddove l’ipotesi della riduzione in schiavitùsi richiama alla solenne proclamazione di un trattato più antico, che ha distillatol’essenza concettuale della schiavitù, più che offrirne una descrizioneplastica. L’opera di raffronto fra la fattispecie astratta e il caso concretosembra dunque a tutta prima più facile con riguardo alla riduzione o almantenimento in servitù.Tuttavia anche la fattispecie della riduzione o mantenimento in schiavitùesiste, e converrà interrogarsi sul suo ambito di applicabilità, indivi-( 41 ) Con ciò non resteranno impuniti, se mai se ne troveranno in futuro, gli schiavisti‘‘di diritto’’ – gli ipotetici cittadini dello ‘‘Stato barbaro’’ che pongano in essere condotte punibilidalla legge <strong>penale</strong> italiana ex art. 10 c.p. – poiché simili soggetti saranno pur sempre, aloro volta, ‘‘schiavisti di fatto’’: se una persona è ridotta o mantenuta in stato di schiavitù, inapplicazione della legge di uno Stato che preveda l’istituto della schiavitù, si presume (a menoche lo status di schiavo sia una mera ‘‘formalità’’) che egli sia ridotto o mantenuto nellacorrispondente condizione di fatto.


328STUDI E RASSEGNEduando – possibilmente – un ambito concreto, piuttosto che una remotaarea di fantasiosi ‘‘casi di scuola’’, se non altro per tentare di scongiurareil rischio che la norma possa un giorno o l’altro svegliarsi dal sonno delladesuetudine, per essere piegata ad applicazioni ingiustificate o irragionevoli.4. La nozione di schiavitù.4.1. Il titolo dell’art. 600 (riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù)enuncia due condotte del soggetto attivo (riduzione o mantenimento),ciascuna delle quali riferita a due condizioni della persona offesa (schiavitùo servitù), ma alla simmetria del titolo non corrisponde la simmetria del testo.Le condotte della seconda parte sono definite con l’uso dei verbi corrispondentiai sostantivi del titolo (‘‘chiunque riduce o mantiene’’...), riferitialla condizione definita come ‘‘servitù’’. Da questo punto di vista, la tecnicalegislativa presenta qualche analogia con quella utilizzata dal legislatore del1930: anche qui l’evento (che la condotta del soggetto attivo deve cagionare)è rappresentato da una particolare condizione personale della vittima,anche se nella nuova fattispecie di ‘‘riduzione o mantenimento in servitù’’la condizione personale della persona offesa è descritta in dettaglio, e sonoindicati i comportamenti attraverso i quali il soggetto attivo deve produrreo mantenere quella condizione.La prima fattispecie sembra, invece, qualificabile come reato di meracondotta( 42 ). Secondo il testo, il reato è perfezionato quando si esercitinosulla persona offesa poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà, enon è quindi richiesto – almeno apparentemente – il prodursi di alcunevento( 43 ).L’espressione ‘‘esercizio di poteri corrispondenti’’ chiarisce, senza possibilitàdi equivoci, che la nozione penalistica di schiavitù è – stavolta anchenelle intenzioni del legislatore – una condizione di fatto: se nel testo approvatocon la legge 228, contrariamente a quanto previsto in precedenti progettidi riforma, non si specifica che la schiavitù può essere ‘‘anche di fatto’’( 42 ) In senso conforme, Cass., Sez. III, 20 dicembre 2004, Galiceanu, in Guida dir.,2005, fasc. 9, p. 93 ss. Si tratta, peraltro, di un’affermazione incidentale: la contestazioneè riferita promiscuamente alla riduzione in schiavitù e alla riduzione in servitù, ma le questionicon le quali la S.C. si misura concretamente riguardano la seconda ipotesi. È da escludere,di conseguenza, che la fattispecie della riduzione in schiavitù possa qualificarsi ‘‘a forma libera’’,come invece ritiene G. Amato, Un nuovo sistema cit., p. 40 ss. Del resto l’espressione‘‘esercitare poteri’’ non designa la mera produzione di un effetto, come invece avviene con leespressioni tipiche delle fattispecie di reato a forma libera.( 43 ) Peraltro, il titolo designa questa fattispecie come ‘‘riduzione o mantenimento inschiavitù’’, così delineando una sorta di ‘‘evento ope legis’’, da intendersi comunque prodottoper effetto della condotta descritta nel testo.


STUDI E RASSEGNE329è perché, nell’attuale formulazione, la nozione è solo di fatto( 44 ). Non èsanzionato ‘‘l’esercizio del diritto di proprietà’’, perché l’ordinamentonon conosce (né riconosce) la proprietà sull’individuo, ma una situazionedi fatto che riproduca l’esercizio del diritto di proprietà, il simulacro diun diritto inesistente come tale.Nulla dice la norma riguardo all’esercizio di poteri corrispondenti aidiritti reali parziali. Lungi dall’incorrere in un’irragionevole omissione( 45 ),il legislatore ha evitato un’aggiunta superflua. Non esistono ‘‘poteri corrispondenti’’all’usufrutto che non siano anche corrispondenti alla proprietà,mentre l’esercizio di poteri corrispondenti agli altri diritti reali su una personaumana non è neppure concepibile in rerum natura. In una Convenzioneinternazionale, che ha come destinatari gli Stati e come oggetto gli ordinamentigiuridici, ha un senso stigmatizzare (e imporre agli Stati di abrogare)norme che rendano gli esseri umani oggetto di diritti reali( 46 ), poiché,se si vietassero solo le norme che riconoscono la proprietà dell’uomo sull’uomo,potrebbero restar salve le norme che consentono di rendere l’essereumano oggetto di un diritto reale parziale. Laddove, invece, si debbanosanzionare comportamenti materiali, il divieto di esercitare i poteri corrispondential diritto di proprietà include il divieto di esercitare i poteri corrispondentiai diritti reali parziali.Dispensato dal compito di definire la ‘‘schiavitù’’ (in presenza di unadefinizione dettata dal legislatore), l’interprete deve oggi individuare i po-( 44 ) Nel corso della precedente legislatura erano stati presentati due progetti di modificadell’art. 600 c.p., C 5350 e C 5881, unificati in un testo base poi modificato dalla CommissioneGiustizia, che prevedevano un’esplicita menzione della connotazione ‘‘di fatto’’ dellaschiavitù: ‘‘Chiunque riduce una persona in uno stato di schiavitù o di servitù è punito conla reclusione da otto a venti anni. Agli effetti della legge <strong>penale</strong> si intende per schiavitù lacondizione di una persona sottoposta, anche solo di fatto, ai poteri corrispondenti a quellidell’esercizio del diritto di proprietà o di un altro diritto reale o vincolati al servizio diuna cosa. Agli effetti della legge <strong>penale</strong> si intende per servitù la condizione di soggezionedi una persona costretta o indotta a rendere prestazioni sessuali o di altra natura’’. Anchenel c.d. ‘‘Progetto Pagliaro’’, risalente al 1996, si proponeva di definire come schiava la personasottoposta, anche solo di fatto, a poteri corrispondenti al diritto di proprietà. Su questiprogetti si veda, più ampiamente, A. Peccioli, Giro di vite, cit., p. 37.( 45 ) Come invece ritengono, in dottrina, G. Amato, Un nuovo sistema cit., p. 42; A.Peccioli, Giro di vite, cit., p. 37. Del resto, noto è il dibattito sorto, a questo riguardo,in sede di Lavori Preparatori alla legge di modifica del codice <strong>penale</strong> in ordine ai reati diriduzione in schiavitù e tratta. In tale sede, si ebbe modo di rilevare che il solo riferimentoal ‘‘diritto di proprietà sull’individuo’’ fosse restrittivo e che si dovesse, invece, estendere laportata della norma fino a comprendere anche i diritti reali. Ciò nondimeno, simili intuizioninon confluirono nel testo di legge, poi approvato e, oggi vigente.( 46 ) Lemme, voce Schiavitù cit., p. 1 ss. L’Autore osserva che ‘‘nell’ordinamento internopotrebbero essere disciplinati con riguardo esclusivo agli esseri umani, come le c.d. servitudespersonnelles fiorite nell’alto feudalesimo come trasformazione del colonato nella servitùdella gleba’’.


330STUDI E RASSEGNEteri corrispondenti all’esercizio del diritto di proprietà dell’uomo sull’uomo.Non è detto che quest’ultimo compito sia più facile del primo. Unalettura squisitamente letterale dell’ipotesi descritta all’art. 600 primo comma,prima parte, unita a un semplicistico riferimento al classico novero degliattributi del diritto di proprietà (ius utendi, fruendi, abutendi...), conducea conseguenze inaccettabili. Si noti che la legge delinea un’ipotesi di reatosolo eventualmente permanente, che può essere perfezionato anche mediantecondotte istantanee identificabili in un solo atto di ‘‘esercizio del potere’’.Non può invero desumersi dall’uso del plurale (‘‘poteri’’) il requisitodell’iterazione della condotta con riguardo all’esercizio di almeno due poteridiversi, e men che meno una connotazione di abitualità della condottapunibile: il sostantivo al plurale dopo la preposizione ‘‘di’’ sottende indeterminazionenel numero e nella specie e quindi, sul piano grammaticale,equivale semplicemente – con il pregio di una maggiore sintesi – all’espressione:‘‘di uno qualsiasi dei poteri’’. Si noti ancora che la norma prescindedall’uso di violenza, minaccia o inganno( 47 ), e perfino dalla specifica esclusionedelle condotte ammesse e regolate dalle leggi civili (‘‘chiunque esercita’’e non ‘‘chiunque illecitamente esercita’’).Quando una norma <strong>penale</strong> contiene un elemento normativo etero-determinato,richiamato con una nozione giuridica il cui significato è ricavabileda una fonte extra-<strong>penale</strong>, il richiamo dovrebbe essere riferito al medesimosignificato che la nozione assume in ambito extra-<strong>penale</strong>, per ilprincipio di ‘‘unicità dell’ordinamento’’( 48 ). La legge <strong>penale</strong> si riferiscecon frequenza alla nozione di ‘‘proprietà’’ e ai poteri del proprietario: talvoltaai fini dell’applicazione della norma <strong>penale</strong> rileva la sussistenza del di-( 47 ) Cfr., V. Musacchio, La nuova normativa <strong>penale</strong> contro la riduzione in schiavitù ela tratta di persone (L. 11 agosto 2003, n. 228), in Giur. it., 2004, n. 12, p. 2447 s. L’A. rilevache ‘‘dalla formulazione della fattispecie incriminatrice si evince che la riduzione o il mantenimentonello stato di soggezione avviene quando la condotta è attuata non soltanto medianteviolenza, minaccia e inganno, ma anche abuso di autorità, o approfittamento di una situazionedi necessità. Sia la seconda delle fattispecie previste dal nuovo art. 600 (riduzione omantenimento in servitù) sia le previsioni del Protocollo addizionale di Palermo includono,fra le situazioni di ‘‘soggezione continuativa’’ e di sfruttamento, anche quelle prodotte approfittandodell’altrui stato di bisogno, e non si rinviene quindi alcuna ragione di carattere sistematicoper escludere dal novero delle condotte punibili le ipotesi nelle quali la proprietàsia esercitata senza trarre vantaggio da alcuno dei classici ‘‘vizi del consenso’’. In giurisprudenza,(Cass., Sez. III, 20 dicembre 2004, Galiceanu, cit., p. 93 ss.), si riconosce che, nell’ipotesidi riduzione in servitù, ‘‘l’evento, consistente nello stato di soggezione in cui la vittimaè costretta a svolgere determinate prestazioni, deve essere ottenuto dall’agente, alternativamente,mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità ovvero approfittamento diuna situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità.( 48 ) Cfr. M. Petrone, Il nuovo art. 5: L’efficacia scusante dell’ignorantia juris inevitabilee i suoi riflessi sulla teoria generale del reato, inCass. pen., 1990, p. 697 ss; F. Antolisei,Manuale di diritto <strong>penale</strong>, parte speciale, vol. I, Milano, 1992, p. 224.


STUDI E RASSEGNE331ritto di proprietà sulla cosa( 49 ), altre volte viene invece in considerazione ilpossesso uti dominus o la ‘‘disponibilità’’ della cosa( 50 ). Nel nostro caso, ilrichiamo all’esercizio dei poteri corrispondenti al diritto di proprietà evoca,con la massima chiarezza, una situazione possessoria: in ciò si sostanzial’opzione, definitivamente fatta propria dal legislatore del 2003, favorevolealla connotazione ‘‘di fatto’’ della nozione penalistica di schiavitù.4.2. Ora, non è impossibile concepire il possesso di una ‘‘cosa’’ dellaquale non si possa acquistare la proprietà: quel genere di possesso è presoin considerazione dall’art.1145 c.c.( 51 ), e che quella disposizione ne sanciscain via generale la giuridica irrilevanza agli effetti civilistici non vale aescludere – vale anzi a confermare – la configurabilità del fenomeno sulpiano naturalistico, e la conseguente possibilità di contemplarlo e regolarloin sede <strong>penale</strong>. Il ‘‘possesso’’ dell’uomo sull’uomo non può avere alcun rilievocivilistico (in primis: non potrà produrre usucapione), ma ben può assumererilievo <strong>penale</strong> e, più specificamente, porsi come elemento costitutivodi una fattispecie incriminatrice. Nulla impedisce, del resto, di qualifi-( 49 ) Cfr., Cass., Sez. IV, 12 febbraio 1981, San Pietro, in CED Cass., rv. 150517, il S.C.rileva che ‘‘l’ultimo comma dell’art. 428 c.p. prevede la non punibilità del naufragio o dellasommersione della imbarcazione di proprietà dell’agente, se dal fatto non sia derivato in concretopericolo per l’incolumità pubblica. La norma fa riferimento al concetto di proprietà nelsenso civilistico di rapporto reale tra soggetto e cosa; rapporto che sussiste non solo allorchéla cosa appartenga ad un solo soggetto, ma anche quando sia in comunione a più persone’’.Conformemente, si veda anche Cass., Sez. I, 4 aprile 1989, Wiseman, in CED Cass., rv.183421; Cass., Sez. VI, 28 settembre 1989, Renzi, ivi, rv. 182327; Cass., Sez. III, 27 febbraio1990, Toma, ivi, rv. 183964; Cass., Sez. I, 8 luglio 1991, Mendella, ivi, rv. 187903; Cass., Sez.III, 27 novembre 1997, Ciorba, ivi, rv. 210169; Cass., Sez. VI, 5 maggio 1998, Zufolo, ivi, rv.179241; Cass., Sez. VI, 29 novembre 2001, Zaccone, ivi, rv. 220936.( 50 ) In tal senso, in giurisprudenza, Cass., Sez. I, 10 febbraio 1993, Sepe, in CED Cass.,rv. 193334, a questo riguardo osserva la S.C. ‘‘ai fini della configurabilità del delitto di possessoingiustificato di valori previsto dall’art. 12 quinquies comma secondo d.l. 8 giugno1992, n. 306, convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356, deve escludersi che sia il dirittodi proprietà quello condizionante l’intervento sanzionatorio, intendendosi invece il rapportodi disponibilità come situazione di mero fatto per la quale, pur al di fuori di una giuridicatitolarità di diritti sulla cosa, il soggetto tuttavia realizzi pur sempre un’autonoma utilizzazionedella stessa. (Nella specie si è esclusa la disponibilità della cosa nella situazione del comodatario,in assenza di una prova della simulazione del rapporto di comodato’’. In questi termini,si veda anche, Cass., Sez. II, 22 ottobre 1985, Cecconello, ivi, rv. 172205; Cass., Sez. II,19 novembre 1985, Bruni, ivi, rv. 171928; Cass., Sez. II, 3 marzo 1989, Barbuto, ivi, rv.182001. E, più recentemente, si veda Cass., Sez. III, 24 marzo 1998, Galantino, in CEDCass., rv. 210749, Cass., Sez. V, 17 marzo 2000, Cannella, ivi, rv. 215834; Cass., Sez. Un.,24 maggio 2004, Focarelli, ivi, rv. 228164, Cass., Sez. Un., 24 maggio 2004, Romagnoli, inedita.( 51 ) Cfr. ancora la pronuncia delle Sezioni unite della Corte di cassazione (Cass., Sez.Un., 20 novembre 1996, Ceric, cit., p. 713 ss.) che richiama l’argomento proprio in rapportoall’esercizio sull’essere umano degli attributi del diritto di proprietà.


332STUDI E RASSEGNEcare l’essere umano come un ‘‘bene’’, o almeno, per così dire, come un ‘‘benedi fatto’’, non compreso nelle previsioni degli articoli 810 e 812 c.c. soloperché non può ‘‘formare oggetto di diritti’’, quindi solo per l’assenza diuna connotazione giuridica, non per differenze riscontrabili sul piano naturalistico.I veri problemi nascono quando si tenta di trasporre nelle applicazioniconcrete della norma i ‘‘poteri di fatto’’ dell’uomo che si comporti comeproprietario dell’uomo, ricavandoli dai ‘‘diritti’’ del proprietario: il dirittodi ‘‘godere’’ e il diritto di ‘‘disporre’’ del bene in modo ‘‘pieno ed esclusivo’’(art.832 c.c.). Quanto al potere di ‘‘godere’’ il problema è che, interpretandoalla lettera la norma, se ne estende l’ambito di applicazione in guisa taleda valicare ampiamente i limiti dell’assurdo. Quanto al potere di ‘‘disporre’’,la difficoltà consiste nell’individuare quando un determinato comportamentodel soggetto attivo possa essere qualificato come ‘‘corrispondente’’(possessorio o di fatto) di un atto di disposizione giuridica che per l’ordinamentostatale non esiste, perché l’essere umano non può essere comprato,né venduto, né ceduto.I requisiti di ‘‘pienezza’’ ed ‘‘esclusività’’ nel godimento di un benepossono essere propriamente riferiti alla configurazione giuridica del dirittodi proprietà, mentre, se l’esercizio del possesso si scompone nell’eserciziodei singoli ‘‘poteri’’ nel quale esso si sostanzia, ci si trova di fronte a singoleforme di ‘‘uso’’ che, prese singolarmente, non comportano ‘‘dominio’’e neppure ‘‘soggezione’’. Riferite all’essere umano, singole forme di ‘‘godimento’’e di ‘‘uso’’ sono proprie di alcune fra le più comuni e ‘‘fisiologiche’’relazioni sociali. Se ‘‘godere’’ del bene-essere umano significa usufruire dellasua persona, del suo lavoro, delle sue energie fisiche, delle sue potenzialitàintellettuali, è evidente che l’esercizio di uno o più ‘‘poteri corrispondenti’’al ‘‘diritto di godimento’’ teoricamente spettante all’ipotetico proprietariodel bene-essere umano in molti casi è, e non può che restare, pienamentelecito: a rigore, anche chi assume una persona alle proprie dipendenzeesercita sul dipendente lo ius utendi, e quindi ‘‘poteri corrispondentia quelli del diritto di proprietà’’, in quanto dispone del tempo e delle energiedel lavoratore subordinato( 52 ).( 52 ) In dottrina, si veda, V. Musacchio, La nuova normativa <strong>penale</strong>, cit., p. 2448, secondoquesto Autore l’art. 600 c.p. potrebbe applicarsi al datore di lavoro che ‘‘approfittidella situazione di necessità in cui si può trovare una persona che non può rivolgersi a nessunoper avere un aiuto (per esempio, un immigrato clandestino) e che, di fatto, è costrettaad accettare qualsiasi condizione di lavoro per sopravvivere, ottenendo in cambio di prestazionidi lavoro massacranti e precarie solo la promessa di un’inesistente possibilità di regolarizzazione,un modesto peculio per l’acquisto di cibo e la possibilità di dormire nel cantiere’’.La tesi è però riferita alla fattispecie della riduzione in servitù, che presenta come elementoessenziale lo sfruttamento continuativo della persona offesa. A rigore, invece, ildatore di lavoro esercita comunque un potere corrispondente al diritto di proprietà, e più


STUDI E RASSEGNE333Includere nella fattispecie il requisito dell’antigiuridicità – o dell’illiceità<strong>penale</strong>, o dell’uso di violenza o minaccia – porterebbe, a prescindere dallequestioni teoriche legate al fondamento dell’operazione, a ridurre, manon a eliminare gli eccessi irragionevoli: troverebbero posto nella fattispeciedell’art. 600 tutte le condotte oggi inquadrabili nell’art. 610 c.p. e le numerosissimeipotesi di delitto, previste dal codice e dalle leggi speciali,comprendenti la violenza privata come elemento costitutivo( 53 ).Per orientarsi entro confini definiti, l’interprete deve quindi ricorrere,per così dire, a un requisito di antigiuridicità ‘‘specifica’’, tale da giustificarela pesante sanzione prevista dalla norma. La prima delle due difficoltà interpretativecui si è fatto cenno consiste, per l’appunto, nell’individuare questorequisito, e con esso la peculiare connotazione che il ‘‘godimento’’ del beneessereumano deve assumere per essere sussumibile nella fattispecie.Tale connotazione non può ricavarsi dall’analisi del singolo atto di‘‘godimento’’ (per esempio: la fruizione di una determinata prestazione lavorativa),perché il testo dell’art. 600 non offre alcuna indicazione volta adelimitare, sulla base di particolari caratteristiche intrinseche, il novero delleprestazioni che comportano esercizio di poteri corrispondenti al dirittodi proprietà. L’analisi della fattispecie concreta dovrà allora estendersi alcomplesso dei rapporti correnti fra il (presunto o potenziale) soggetto attivodel reato e la (presunta o potenziale) persona offesa, per verificare che i‘‘diritti’’ e i ‘‘poteri’’ dell’uno, e gli ‘‘obblighi’’ e i ‘‘doveri’’ dell’altra, sianoquelli propri di una relazione fra schiavo e padrone( 54 ). E l’osservazionedeve essere condotta – ad onta della definitiva opzione legislativa per la nozionedi schiavitù ‘‘di fatto’’ – alla luce di categorie giuridiche: per stabilirese il ‘‘godimento’’ del bene-essere umano sia un godimento uti dominus(rectius: un esercizio di un potere corrispondente al diritto di proprietà),si dovrà stabilire se la potenziale persona offesa sia titolare degli ‘‘obblighidi fatto’’ e dei ‘‘doveri di fatto’’ propri dello schiavo, e se il potenziale soggettoattivo sia, sempre ‘‘di fatto’’, titolare dei ‘‘diritti’’ e dei ‘‘poteri’’ propridel padrone.esattamente un potere corrispondente al diritto di godimento, anche se non pratica condizioniretributive e normative particolarmente vessatorie.( 53 ) Non si ritiene che il ragionamento debba limitarsi ai casi di violenza privata consistentinella costrizione a fare qualcosa, poiché anche la costrizione a tollerare o ad ometterepotrebbe essere qualificata come ‘‘uso’’ della persona offesa.( 54 ) Più che nella più volte citata sentenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione,(Cass., Sez. Un., 20 novembre 1996, Ceric, cit., p. 713 ss.) un approfondimento della distinzionefra singoli atti di esercizio dei poteri o attributi corrispondenti al diritto di proprietà erapporto interpersonale concretamente configurato nel suo complesso in guisa corrispondenteall’esercizio di fatto della proprietà o di altri diritti reali minori può essere trovato in Ass.Roma, 23 febbraio 2001, Bilbilushi, in Cass. pen., 2001, p. 2212 s., con nota di L. Benanti,Il delitto di riduzione in schiavitù in una pronuncia della Corte di Assise di Roma.


334STUDI E RASSEGNEL’ipotesi di esercizio del potere (corrispondente al diritto) di ‘‘disporre’’della persona sembra ricorrere nei casi di compravendita di esseri umani.Se l’art. 601 è riferibile alle sole persone già ridotte in schiavitù o servitù,allora l’art. 600 può essere applicato alla cessione di persone (originariamente)libere, così colmando un vuoto lasciato dall’art. 601 sul pianodella ragionevolezza e dell’adeguamento agli impegni internazionali assuntidall’Italia( 55 ), perseguendo le attività di commercio di esseri umani non ridottiin condizione di schiavitù o servitù. Si tratta però di individuare aquali condizioni l’attività materiale di consegna della persona offesa, accompagnatada un passaggio di denaro, possa essere qualificata come eserciziodi un potere di disposizione. Il problema si presenta, con gli adattamentidel caso, anche nei meno probabili casi di contratti che trasferiscanodiritti reali parziali o diritti di godimento o di contratti unilaterali. È chiaroche di ‘‘compravendita’’ (così come di locazione o donazione o costituzionedi usufrutto) non si può propriamente parlare a proposito di esseri umani,o almeno non se ne può parlare utilizzando quelle qualificazioni giuridichecon i corrispondenti effetti previsti dal diritto civile, poiché tutti i contrattiaventi per oggetto esseri umani sono improduttivi di effetti civili per il nostroordinamento. In pratica ci si troverà di fronte ad attività materiali rispettoalle quali si dovrebbe istituire un giudizio di ‘‘somiglianza’’ o ‘‘analogia’’rispetto a situazioni qualificabili come atti di disposizione: un compitopericolosamente vicino a quello che toccava all’interprete nel vigoredel vecchio art. 600, a proposito delle ‘‘condizioni analoghe’’ alla schiavitù.Il problema può sembrare simile a quello che si presenta per le fattispeciedi ‘‘vendita’’ di stupefacente, perché – fuori dei casi di uso e cessionelecita – anche i contratti che hanno per oggetto sostanze stupefacenti nonsono suscettibili di produrre effetti sul piano civilistico( 56 ). Ma la somiglianzaè solo apparente: in quel caso, la consegna materiale esaurisce diper sé il problema della configurabilità della fattispecie, e qualche interrogativopuò sorgere solo nei casi (in pratica marginali) di pattuizioni non accompagnatedal trasferimento materiale della sostanza. Quando si tratta di( 55 ) Riservando al trasporto di persone già schiave le sanzioni previste dall’art. 601c.p., si lascerebbe ingiustificatamente impunito – o si lascerebbe soggetto alla più mite sanzioneprevista all’art. 605 c.p. per il sequestro di persona – chi si dedica al trasporto forzatodi persone originariamente libere (e che provoca, col proprio comportamento, un maggioredeterioramento della condizione personale dell’offeso, facendolo ‘‘precipitare’’ nel ruolo divittima della tratta a partire da uno stato di libertà). D’altronde con la stipula del Protocollodi Palermo, gli Stati si sono impegnati a tutelare – nelle peculiari, incisive forme dettate dall’accordo– non solo le persone già ridotte in schiavitù, ma ogni essere umano.( 56 ) Per una sintetica ma efficace riflessione sulle nozioni di ‘‘vendita’’ e ‘‘acquisto’’ distupefacenti, e per un’aggiornata rassegna giurisprudenziale sull’argomento, si veda, G. Leo,Sul momento consumativo delle fattispecie di acquisto e vendita di sostanze stupefacenti,inDir.pen. proc., 2005, n. 2, p. 169.


STUDI E RASSEGNE335un essere umano, però, le cose non sono così semplici: la traditio, in questocaso, può presentarsi con connotati concreti evanescenti (la manifestazioneconcreta della vendita può essere, per esempio, il semplice fatto che sia unnuovo sfruttatore a presentarsi a incassare i proventi della prostituzionedella persona offesa) e soprattutto non assume una così chiara e inequivocabilevalenza semantica, in rapporto alla situazione delineata dalla fattispecieastratta. La consegna materiale della persona offesa in cambio di unprezzo (per esempio la consegna della ragazza avviata alla prostituzioneda uno sfruttatore a un altro, con pagamento di un corrispettivo per i ‘‘diritti’’di sfruttamento), mai qualificabile come ‘‘vendita’’ agli effetti civilistici,non può essere qualificata come vendita agli effetti dell’applicazione dell’art.600 c.p. se non verificando che il cedente esercitasse (con l’atto stessodella vendita o anche in precedenza) un ‘‘potere di fatto corrispondente aldiritto di proprietà’’ sulla persona ceduta, e che questo potere si sia trasferitoall’acquirente: è in effetti possibile che i protagonisti del nostro esempiosi siano accordati perché l’uno ceda all’altro, in cambio di un corrispettivo,il potere di riscuotere periodicamente una somma fissa da una prostitutache eserciti l’attività in una casa, che a questo accordo si accompagni iltrasferimento della prostituta da una dimora nella disponibilità del cedentea una dimora nella disponibilità del cessionario, ma che la prostituta siapienamente e liberamente consenziente alla nuova situazione così come allaprecedente, e che la accetti per la semplice necessità di disporre di un appartamentointestato ad altri. Si registrerebbe in un caso del genere un contrattodalla causa illecita, ma non il trasferimento di un ‘‘potere corrispondenteall’esercizio del diritto di proprietà’’ su un essere umano.Si comprende, dunque, come la ‘‘lettura’’ dei comportamenti materialipotenzialmente qualificabili come ‘‘compravendita’’ si presenti, nel caso ditraditio avente per oggetto un essere umano, assai più complessa rispettoall’ipotesi di cessione di stupefacente, poiché il passaggio di denaro e la‘‘consegna’’ della persona potranno essere qualificati come compravenditasolo all’esito di un’analisi delle relazioni interpersonali che legano cedente,cessionario e ceduto.E si comprende anche come questa analisi (così come quella delle relazioniinterpersonali sottese al ‘‘godimento’’ del bene-essere umano), e laqualificazione che ne rappresenta il risultato, comportino l’utilizzo di categoriegiuridiche: per verificare se una persona è stata davvero ‘‘venduta’’agli effetti penali, non si può prescindere dal qualificare il concreto ed effettualeatteggiarsi dei suoi rapporti con il presunto cedente e con il presuntocessionario in termini di ‘‘obblighi’’, ‘‘diritti’’ e ogni altro termineche designi le situazioni soggettive che compongono uno status giuridico.Per delineare la nozione di schiavitù di fatto, e per individuare le corrispondenticondotte di ‘‘riduzione’’ o ‘‘mantenimento’’, è inevitabile fare riferimentoa uno status o condizione che, se può qualificarsi come ‘‘di merofatto’’ in rapporto all’ordinamento giuridico statale (che non conosce la


336STUDI E RASSEGNEcondizione di schiavo, né il diritto di proprietà dell’uomo sull’uomo) ha comunqueuna valenza giuridica, poiché il ‘‘metro’’ con il quale la situazione‘‘di mero fatto’’ deve essere misurata, è pur sempre una categoria giuridica.5. La nozione di servitù.L’ulteriore condizione personale delineata dall’art. 600, e qualificabilecome ‘‘servitù’’, è definita nella seconda parte del primo comma e nel secondocomma, come ‘‘stato di soggezione continuativa’’, che deve essereprovocato o mantenuto con una delle modalità indicate al secondo commae che si sostanzia nel costringere la persona offesa a prestazioni che ne comportinolo sfruttamento.Tra le prestazioni che comportano sfruttamento sono indicate le prestazionilavorative o sessuali e l’accattonaggio. L’elenco non è tassativo (...ocomunque a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento...), ed è comunquedifficile ipotizzare prestazioni diverse da quelle esplicitamente enumerate(57 ). È invece tassativo, ancorché massimamente ampio, l’elenco dellemodalità attraverso le quali deve essere ‘‘attuata la condotta’’: violenza, minaccia,inganno, abuso d’autorità, approfittamento di una situazione d’inferioritàfisica o psichica o di una situazione di necessità, promessa o dazionedi denaro o altra utilità a chi abbia autorità sulla persona.È ravvisabile un problema di coordinamento tra siffatta elencazione e l’espressione‘‘costringendola’’ utilizzata al primo comma, che appare assai piùriduttiva e suscettibile di escludere dal novero delle condotte punibili, ad ontadelle indicazioni del secondo comma, le situazioni nelle quali la vittima non sia‘‘costretta’’ ma ‘‘indotta’’ alla prestazione che ne comporti lo sfruttamento.La particolare tecnica espositiva prescelta dal legislatore – definizionidi schiavitù e servitù al primo comma, ulteriore specificazione riguardantela nozione di servitù al secondo comma – lascia desumere che al secondocomma si sia inteso designare una ‘‘nozione convenzionale’’ di stato di soggezione,tale da ampliare il significato letterale di ‘‘costrizione’’; all’opposto,si potrebbe sostenere che alla soggezione attuata in una qualsiasi delle formepreviste al secondo comma debba comunque seguire una fase di costrizionevera e propria (nella quale lo sfruttatore, gettata la maschera usataper l’inganno o rinunciando alle condizioni che consentivano l’abuso ol’approfittamento, si determini alla franca violenza)( 58 ), ma questa soluzio-( 57 ) Il prelievo di organi, finalità che integra una delle aggravanti speciali previste alterzo comma, non comporta, a rigore, uno stato di soggezione ‘‘continuativa’’, e può rientrarepiuttosto nelle previsioni della prima parte del primo comma, in quanto atto di disposizionedella persona.( 58 ) Propende per questa tesi A. Peccioli, Giro di vite cit., p. 38, l’A. rileva ‘‘pone


STUDI E RASSEGNE337ne sembra contraddetta dalla possibilità di attuare, mediante una delle condottedescritte al secondo comma, non la sola ‘‘riduzione’’ ma anche il‘‘mantenimento’’ in servitù (da altri provocata per la prima volta mediantecondotte di ‘‘riduzione’’)( 59 ).La norma chiarisce esplicitamente che lo stato di ‘‘soggezione continuativa’’può manifestarsi sia mediante prestazioni lavorative (compresol’accattonaggio) sia mediante prestazioni sessuali, ed è quindi pacificoche la prostituzione forzata possa rientrare nell’ambito di applicabilità dellanorma( 60 ). Rimane però aperto il problema di stabilire a quali condizioni lecondotte sussumibili in fattispecie di reato contro la libertà individuale (sequestrodi persona o violenza privata) o contro la moralità pubblica (sfruttamentodella prostituzione mediante violenza) possano qualificarsi come‘‘riduzione o mantenimento in servitù’’.La diligente ‘‘tipizzazione’’ delle condotte punibili non deve generareillusioni: i contorni di questa ipotesi di reato sono ben lontani dallo stagliarsicon luminoso nitore nel panorama delle fattispecie incriminatrici.La ‘‘tipizzazione’’ si attua nella duplice direzione delle modalità attraversole quali il soggetto attivo realizza la situazione di assoggettamento (violenza,minaccia, inganno, abuso di una situazione di necessità...) e della destinazioneriservata alla persona sfruttata (lavoro, prestazioni sessuali, accattonaggio).Nella prima ‘‘direzione’’, l’elenco comprende tutte le modalitàastrattamente ipotizzabili, con la sola eccezione, puramente teorica ecomunque priva di rilievo <strong>penale</strong>, dell’assoggettamento spontaneo dellapersona offesa, non solo libera da costrizioni e minacce, ma neppure pressatadal bisogno( 61 ). Nella seconda direzione, sono elencate tutte le piùqualche interrogativo la possibilità che lo stato di soggezione possa essere realizzato unicamenteattraverso l’impiego dello strumento ingannatorio, che presuppone un’immediatezzala cui efficacia è destinata ad esaurirsi. In realtà, una volta esaurita l’efficacia dell’ingannoperché, per esempio, il soggetto passivo ha acquistato la consapevolezza della falsità dellepromesse con cui era stato attirato nella sfera di dominio altrui, il soggetto attivo può continuarea mantenere in uno stato di schiavitù la vittima solo con l’impiego delle altre modalitàalternative (violenza/minaccia).’’( 59 ) Sembra già indirizzarsi in questo senso una delle prime applicazioni del nuovo art.600 c.p. in sede di legittimità, Cass, Sez. III, 20 dicembre 2004, Galiceanu, cit., p. 93, connota di G. Amato. Nel caso all’esame del S.C., il capo d’imputazione era formulato anchecon riferimento all’uso di violenza e minaccia, ma in motivazione la Corte rileva che la fattispecie‘‘richiede una condotta del soggetto attivo qualificata da minaccia, violenza, inganno,abuso di autorità, o approfittamento di situazioni di inferiorità o di necessità’’, così affermandoche può ricorrere anche una sola delle indicate connotazioni.( 60 ) In questi termini, si veda anche, V. Musacchio, La nuova normativa, cit., p. 2448.( 61 ) Che una simile ipotesi, e le fantasiose ipotesi di soggezione indotta da condizionamentopsichico e pratiche magiche, non siano sussumibili nelle previsioni della norma è tuttaviasufficiente a escludere che, per questa nuova fattispecie, si pongano questioni di costituzionalitàanaloghe a quelle che indussero la Corte costituzionale a dichiarare costituzionalmenteillegittimo l’art. 603.


338STUDI E RASSEGNEcomuni destinazioni delle persone oggetto di sfruttamento, forse tuttequelle astrattamente ipotizzabili, e si è comunque aggiunta, come si è visto,una ‘‘clausola di chiusura’’ (‘‘o comunque a prestazioni che ne comportinolo sfruttamento’’) tale da escludere che l’elenco sia da consideraretassativo.In sostanza, si tratta di due elenchi che assumono il senso dell’inclusione,e non mai dell’esclusione, di ipotesi di modalità e destinazione dellosfruttamento. La ‘‘tipizzazione’’ potrà assumere la funzione pratica di evitareche un caso concreto di sfruttamento sfugga alla severa sanzione <strong>penale</strong>prevista dalla norma, e non mai la funzione opposta.Ora, posto che uno stato di ‘‘soggezione continuativa’’ senza costrizioneo induzione del soggetto passivo a prestazioni che ne comportino losfruttamento sarebbe null’altro che una soggezione teorica o potenziale,l’essenza della fattispecie è null’altro che la riduzione o mantenimento diuna persona in stato di soggezione continuativa: se il legislatore si fosse fermatoa quel punto, se il primo comma dell’art. 600 si fosse chiuso con l’espressione‘‘soggezione continuativa’’ e se il secondo comma fosse stato totalmenteeliminato, il senso della norma sarebbe rimasto lo stesso.Il carattere continuativo della soggezione è un requisito meramentetemporale, e si traduce in un concetto di ‘‘durata apprezzabile’’ affidatoal senso della misura dell’interprete( 62 ). Poiché la ‘‘soggezione’’, intesain senso naturalistico, è propria dell’intero novero delle condotte inquadrabiliin numerose ipotesi di reato (si pensi, per restare alle più comuni,al sequestro di persona di cui all’art. 605 c.p., allo sfruttamento della prostituzionemediante violenza, minaccia o inganno di cui agli articoli 3 e 4n.1 l. 20 febbraio 1958 n. 75, allo sfruttamento degli immigrati clandestinidi cui all’art.12 commi 3 e seguenti d.l.vo 25 luglio 1998 n. 286), c’è dachiedersi se il carattere ‘‘continuativo’’ della soggezione sia elemento sufficientea trasmodare da una di queste fattispecie alla più grave ipotesi diriduzione o mantenimento in servitù. C’èda chiedersi, per esempio, se losfruttamento della prostituzione mediante violenza sia sempre inquadrabilenella fattispecie di riduzione o mantenimento in servitù, purchéprotrattaper un periodo di tempo tale da poter essere qualificata ‘‘continuativa’’(63 ).( 62 ) Il riferimento al carattere continuativo della soggezione è di per sé sufficiente ainquadrare la fattispecie di riduzione e mantenimento in servitù fra i reati a effetti permanenti.Si vedrà che la stessa qualificazione deve essere attribuita anche alla prima fattispecie dell’art.600 c.p., pur in assenza di esplicite indicazioni testuali, in base a considerazioni di caratteresistematico.( 63 ) Sul punto si veda, ancora, fra i Lavori Preparatori, l’intervento dell’On Finocchiaroche, alla seduta già citata del 10 ottobre 2001, osservava ‘‘lo sfruttamento della prostituzioneè secondo me, peraltro ed altrimenti, punibile con le altre norme appartenenti al nostroordinamento, ma siccome mi rendo conto che è una questione sulla quale si sta accendendo


STUDI E RASSEGNE339Gli sconvolgimenti che si produrrebbero nell’intero sistema <strong>penale</strong> inconseguenza di una risposta positiva inducono, già di per sé soli, a pretenderel’individuazione di un peculiare connotato di intensità, o di una peculiarequalità, che si aggiunga al connotato di durata per delimitare la nozionedi ‘‘soggezione’’ propria della condizione di servitù. La soggezione di cuiall’art. 600 deve necessariamente distinguersi da un qualsiasi stato di soggezione,nel senso letterale dell’espressione: è il sostantivo (soggezione) chedeve assumere un significato particolarmente ristretto, più ristretto del significatocomune, visto che l’unico aggettivo che lo accompagna (continuativa)si riferisce alla durata, e non all’intensità o alla qualità della condizionepersonale definita come ‘‘servitù’’.Come si vede, la seconda fattispecie prevista all’art. 600 pone un problemaperfettamente analogo a quello posto dalla prima: l’eccessiva ampiezzadel significato letterale delle espressioni usate dal legislatore rispettoall’esigenza di definire un ambito ragionevole di applicazione della norma.Lì era ‘‘l’esercizio di poteri corrispondenti al diritto di proprietà’’, qui la‘‘soggezione continuativa’’ a presentare un significato letterale talmente ampioda includere condotte che nessuno sarà mai disposto a vedere sussuntenelle previsioni dell’art. 600.Per focalizzare un ambito di applicazione altrimenti troppo vasto, èinevitabile indirizzarsi nella medesima direzione seguita con riguardo allanozione di schiavitù: estendere l’analisi al complesso delle relazioni interpersonalifra colui che attua e colui che subisce la soggezione, e condurlaalla luce di categorie giuridiche: gli obblighi, i doveri, i diritti, i poteri e lealtre situazioni giuridiche soggettive che possano definire la condizione di‘‘servo’’, e distinguerla da una qualsiasi ‘‘soggezione’’.6. Il bene giuridico protetto come criterio-guida dell’interpretazione.6.1. L’analisi testuale delle due fattispecie previste nel novellato art.600 ci sta portando ad attribuire al legislatore del 2003 una di quelle rivoluzionicare al Principe di Salina. Desiderosi di mostrarsi sensibili alla realtàdelle ‘‘nuove schiavitù’’ e agli impegni assunti con un trattato sottoscritto inun dibattito, direi che possiamo anche accantonarla, in maniera tale che la Commissione possariesaminarla magari in una sospensione della seduta’’. La questione è qui enunciata conriguardo allo sfruttamento della prostituzione che, di per sé, non comporta l’esercizio di violenzao minaccia.Quanto all’ipotesi di sequestro di persona, poiché questa fattispecie richiede a sua volta,secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, che la privazione della libertà siprotragga per una durata apprezzabile, c’è da chiedersi se il sequestro di persona comportisempre la riduzione o il mantenimento in servitù.


340STUDI E RASSEGNEterritorio italiano, i conditores si sono determinati a un cambiamento totalenella formulazione della norma. Si è visto, tuttavia, come la prima fattispecie(riduzione o mantenimento in schiavitù) recepisca in toto una definizionefissata – con riguardo all’ipotesi di ‘‘condizioni analoghe alla schiavitù’’ –dalla più autorevole pronuncia giurisprudenziale resa nel vigore della vecchiadisciplina. Nel formulare la seconda fattispecie (riduzione o mantenimentoin servitù), il legislatore del 2003 ha invece imitato la puntigliosa tecnicaespressiva del Protocollo addizionale di Palermo – per il vero acconcia,più che alle esigenze di una legge, a quelle di un trattato internazionale,che deve adattarsi il più possibile alle svariate tradizioni lessicali dei singoliordinamenti – ma ha in definitiva riproposto, nel nucleo essenziale dell’ipotesicriminosa, il concetto di ‘‘soggezione’’ che, secondo le elaborazioni dottrinalie giurisprudenziali consolidate negli ultimi anni di applicazione dellanorma abrogata, costituiva il connotato essenziale delle condizioni personalidisegnate dal vecchio art. 600 c.p.E allora, visto che il nuovo art. 600 non qualifica la ‘‘soggezione’’ senon mediante uno scontato connotato di continuità (difficile ipotizzare, eancor più difficile provare, una condizione di schiavitù momentanea), èutile tornare, con un minimo di approfondimento in più, airisultatiinterpretativiregistratisi con riguardo alla caratterizzazione dello stato disoggezione proprio della vecchia norma. Più di tutto ai risultati della giurisprudenza,ché la dottrina ha piuttosto rilevato la genericità della fattispecie,così rinunciando in partenza a contribuire a definirla. Quei risultatipotrebbero essere utili, visto che di ‘‘soggezione’’ si deve tuttora discutere,stavolta per indicazione espressa del legislatore, visto che il legislatoremedesimo non ha dettagliato la qualità o l’intensità della soggezione,e visto che l’individuazione di uno specifico connotato qualitativodella ‘‘soggezione’’ appare necessaria per non dilatare oltre ogni ragionevolelimite l’ambito di applicabilità delle ipotesi criminose poste nel nuovoart. 600.Peraltro va registrata fin d’ora, al fine di evitare confusioni, un’ulterioredifficoltà che è destinato a incontrare chiunque intenda distinguere ledue fattispecie del nuovo art. 600 (non rassegnandosi ad accantonare laprima): tanto la nozione di ‘‘esercizio di poteri, o attributi, corrispondential diritto di proprietà’’, quanto la nozione di ‘‘soggezione’’ erano riferiti,dalla giurisprudenza formatasi prima della novella, al concetto di ‘‘condizionianaloghe alla schiavitù’’. Se i risultati di quella elaborazione fosseroritenuti tuttora vitali, si dovrebbe chiarire se essi siano da riferire all’unao all’altra o a entrambe le nuove fattispecie.Nel vigore della vecchia norma, i tentativi di catturare l’essenza dellacondizione ‘‘di fatto’’ dello schiavo avevano raccolto prede poco sostanziose.Da un lato si ricorreva alla metafora della ‘‘reificazione’’, rilevando chelo schiavo – o colui che vive una condizione analoga alla schiavitù –è‘‘trattatocome una cosa’’ o ‘‘reificato’’. Dall’altro si sosteneva che la condizione


STUDI E RASSEGNE341di assoggettamento, per essere equiparabile alla schiavitù, dovesse essere‘‘totale’’ o ‘‘completa’’( 64 ).Si trattava, però, di indicazioni interpretative vaghe e insoddisfacenti.Sostenere che la ‘‘reificazione’’ del soggetto fosse l’elemento caratterizzantedella condizione di fatto dello schiavo (e quindi anche l’elemento che consentivadi qualificare ‘‘analoga alla schiavitù’’ la condizione personale di undeterminato soggetto) significava proporre una metafora espressiva ed efficace,ma non aggiungere nulla a una definizione giuridica, posto che, dalpunto di vista letterale o naturalistico, l’uomo non può ‘‘trasformarsi’’ in cosa,e che ciascuno è libero di fissare come vuole le condizioni alle quali ritenerespendibile la metafora della reificazione. Si può affermare, per esempio,che ogni violenza sessuale trasforma la vittima in oggetto: lo si può faresenza timore di essere contraddetti ma senza poter pretendere adesioni allapropria posizione, visto che si sta solo utilizzando un’immagine retorica.Anche l’identificazione della schiavitù nella soggezione ‘‘totale’’ o‘‘completa’’ si risolveva nel ricorso a un’immagine retorica, poiché una soggezionesiffatta non appare riscontrabile in natura, se non per periodi limitatissimidi tempo, e non è quindi idonea a disegnare uno status, ma solouna situazione momentanea di privazione della libertà. La giurisprudenzasi rendeva conto che i casi peggiori di sfruttamento si protraggono nel tempo(troppo a lungo per essere compatibili con una violenza fisica esercitatacontinuativamente), non implicano costrizione assoluta e neppure sorveglianzadiuturna, sono compatibili con margini più o meno ampi di autodeterminazionee perfino con certe forme di ‘‘collaborazione’’ non forzatada parte della vittima, che abbia interiorizzato la propria condizione e i doveria essa connessi. La realtà concreta dei fenomeni di sfruttamento insorgevacontro l’assolutezza della definizione, e induceva a contraddirla conavvertenze, limitazioni ed eccezioni. Così, quella stessa giurisprudenzache aveva accolto la tesi che identificava nella soggezione ‘‘totale’’ l’essenzadella condizione ‘‘analoga alla schiavitù’’ affermava che più o meno ampimargini di libertà di circolazione e di assenza di sorveglianza fossero compatibilicon la condizione di schiavo( 65 ) e, addirittura, che il reato di riduzionein schiavitù potesse ritenersi perfezionato in ipotesi nelle quali nonera integrata l’ipotesi del sequestro di persona( 66 ). Una volta escluso che( 64 ) Così Cass., Sez. III, 19 maggio 1998, Matarazzo, in CED Cass., rv. 211543; Cass.,Sez. III, 7 settembre 1999, Catalini, ivi, rv. 214517; Cass., Sez. I, 11 dicembre 2002, Ugbo,ivi, rv. 223026. Tanto la via della metafora dell’uomo come ‘‘cosa’’ quanto la via dell’identificazionedella condizione dello schiavo con la soggezione totale sono praticate, nel presuppostodella loro assoluta identità.( 65 ) Così esplicitamente Cass., Sez. V, 27 ottobre 2000, Gjini, in CED Cass., rv.217846.( 66 ) Cass., Sez. Un., 20 novembre 1996, Ceric, cit, p. 713 s.


342STUDI E RASSEGNE‘‘totalità’’ e ‘‘completezza’’ dell’assoggettamento fossero connotati da riscontrarealla lettera – una volta attribuito al requisito della ‘‘totalità’’ o della‘‘completezza’’ non un chiaro e concreto significato naturalistico, ma unimprecisato significato metaforico – ciascuno restava libero di fissare la sogliadella ‘‘totalità’’ o della ‘‘completezza’’ a un determinato livello di assoggettamentopiuttosto che a un altro, e sostenere che una determinata situazioneconcreta di soggezione fosse qualificabile come ‘‘totale’’ o ‘‘parziale’’,‘‘completa’’ o ‘‘incompleta’’.6.2. Le Sezioni Unite della Cassazione sembravano intraprendere unpercorso diverso, laddove ancoravano il concetto di ‘‘condizione analogaalla schiavitù’’ al concreto atteggiarsi delle manifestazioni storiche del fenomenodella schiavitù, identificando detta condizione in una ‘‘situazione difatto identica, quanto al peso che ne subisce chi ne sia oggetto, alla condizionemateriale dello schiavo’’( 67 ). Ci si riferiva così a situazioni sperimentatenella realtà, piuttosto che a un’immagine retorica o a un irrealisticoconcetto ‘‘assoluto’’ di soggezione. Questa strada era però appena accennatadal Supremo Collegio, e in definitiva abbandonata laddove – forse inconseguenza della difficoltà di cogliere le connotazioni ‘‘immutabili’’ diuna condizione regolata, nel diritto degli Stati schiavisti, nelle forme più varie– si scorgeva la ‘‘condizione analoga’’ alla schiavitù nel ‘‘riflesso effettuale’’delle previsioni della Convenzione di Ginevra del 1926.Secondo la Suprema Corte, se la schiavitù era, a mente della Convenzione,lo stato (di diritto) dell’individuo sul quale si esercitavano, in applicazionedelle norme di uno Stato schiavista, uno o più fra gli ‘‘attributi deldiritto di proprietà’’, era da qualificarsi ‘‘analoga alla schiavitù’’ la condizione(di fatto) dell’individuo sul quale quei medesimi attributi fossero esercitatiillegittimamente, all’interno di un ordinamento che aveva ripudiato laschiavitù. Si trasmigrava così da una referenza storica concreta a una referenzapuramente concettuale, desunta dalle previsioni di un trattato.Si rendeva necessario, a questo punto, determinare quando ‘‘l’uso o l’abuso’’di una persona configurasse riduzione in condizione analoga allaschiavitù: impossibile rispondere che questo avviene sempre, posto che l’abusoè caratteristico di tutti i reati contro la persona, e che l’uso si registrafinanche nel più lecito dei rapporti di lavoro subordinato. La Corte ritennedi risolvere la questione postulando l’equivalenza fra condizione di schiavitùe soggezione all’esercizio degli attributi della proprietà, così rinunciandoa storicizzare la nozione di schiavitù e ravvisando l’esercizio degli attributidella proprietà ‘‘le quante volte... sia dato verificare l’esplicazione di unacondotta cui sia ricollegabile l’effetto del totale asservimento d’una persona( 67 ) Nella medesima sentenza citata alla nota precedente.


STUDI E RASSEGNE343umana al soggetto responsabile della condotta stessa’’. Il totale asservimentoera a sua volta identificato, in altro passo della motivazione, nell’uso dellapersona ‘‘come di cosa propria’’. Con il che si tornava alla ricerca metafisicadella ‘‘assolutezza’’ o della ‘‘totalità’’, e all’immagine letteraria dell’uomotrasformato in cosa.La teoria della schiavitù come soggezione ‘‘assoluta’’ si radicava, più omeno consapevolmente, in una visione eminentemente ‘‘materiale’’ del benegiuridico protetto dalla norma( 68 ). Ai delitti contro la ‘‘personalità individuale’’era e resta tuttora dedicata la prima sezione del capo dedicato aidelitti contro la ‘‘libertà individuale’’. Sono i più gravi fra questi delitti, esono posti prima dei delitti contro la ‘‘libertà personale’’, contro la ‘‘libertàmorale’’, contro la ‘‘inviolabilità del domicilio’’ e contro la ‘‘inviolabilità deisegreti’’( 69 ). La collocazione ‘‘apicale’’, segnata tanto dalla priorità di posizionequanto dalla gravità della pena, poteva e può tuttora indurre a ravvisarenella ‘‘totalità’’ dell’aggressione al bene-libertà la caratteristica essenzialedei delitti contro la personalità individuale. In conseguenza di tale impostazione,una parte della dottrina ha sottolineato, con specifico riguardoall’art. 600, che ‘‘le incriminazioni previste’’ dalla norma sarebbero ‘‘volte aimpedire l’annientamento totale della personalità derivante dall’assoggettamentodell’uomo che cessa di essere persona per diventare res, al dominioaltrui’’( 70 ), ossia a stigmatizzare tutte quelle condotte consistenti ‘‘nello impadronirsidi un uomo per porlo in condizione di non potersi aiutare dasé’’( 71 ), o per dirlo con le parole del Carrara ‘‘nella violenta e fraudolentaabduzione di un uomo per farne lucro o per fine di vendetta’’( 72 ).Secondo questa impostazione, la ‘‘personalità individuale’’ si identificanel complesso delle manifestazioni nelle quali può esplicarsi la libertà individuale(73 ), e la lesione del bene giuridico protetto si traduce nella perdita( 68 ) In altri casi, status libertatis e libertà materiale sono accomunati indistintamente,senza particolari approfondimenti (anche perché l’approfondimento non è funzionale allaquestione concreta affrontata). Così Cass., Sez. III, 5 marzo 2003, Rubino, in Cass. pen.,2004, p. 2878, resa in tema di prostituzione minorile (art. 600 bis c.p.) ravvede il bene giuridicoprotetto nella ‘‘integrità e libertà fisica e psichica del minore’’. La questione concretaera la distinzione con i reati di cui alla l. n. 75 del 1958.( 69 ) Sul confronto fra i criteri sistematici seguiti in materia dal codice Zanardelli e dalcodice Rocco v. ampiamente G. M. Flick, voce Libertà individuale (delitti contro), inEnc.dir., vol. XXIV, 1974, Torino, p. 540.( 70 ) T. Brasiello, voce Personalità individuale (delitti contro), inN.ss. dig. it., vol.XII, 1965, Torino, p. 1092 s.( 71 ) L’espressione appartiene a E. Pessina, Diritto <strong>penale</strong> italiano, vol. VI, 1909, Fano,p. 483.( 72 ) ‘‘Hominis vel servi fraudolenta soppressio lucri faciendi causa facta’’. Carrara, Programmadel Corso didiritto criminale, parte speciale, vol. II, Firenze, 1902, § 1667.( 73 ) Cfr., Crivellari, Codice <strong>penale</strong>, vol. V, 1894, Torino, p. 469. Osserva l’Autore‘‘la nota essenziale che nell’associazione deve accompagnare l’opera dell’individuo è la liber-


344STUDI E RASSEGNEtotale della libertà personale e nella riduzione della persona offesa ‘‘in uncompleto stato di assoggettamento al potere del colpevole( 74 )’’.Non mancavano, peraltro, voci autorevoli che avvertissero l’improduttivitàdella ricerca di una ‘‘soggezione assoluta’’ in senso materiale. Primofra tutti il Manzini, che individuava l’essenza della condizione di schiavitùnella perdita dello status libertatis e nella conseguente ‘‘costituzione di unrapporto di padronanza’’, e che concepiva la lesione degli aspetti materialidella libertà personale come un mero riflesso di quel particolare rapporto.Conviene riportare il passo che riassume il pensiero dell’illustre Autore:‘‘la legge, insomma, vuole prevenire e reprimere la costituzione di rapportidi padronanza, per effetto dei quali un uomo possa venire a trovarsisotto l’altrui illegittima potestà, con perdita più o meno ampia della proprialibertà di movimento, di determinazione e di azione. Il delitto, pertanto,implica non solo una restrizione (che può spingersi fino alla privazione)della libertà personale del soggetto passivo, ma altresì e indispensabilmenteun più o meno ampio assoggettamento a servizio (gratuito o retribuito),senza del quale potrà immaginarsi prigionia o altro, ma non schiavitù o altracondizione analoga’’( 75 ).tà, la quale costituisce uno dei diritti ingeniti e primitivi della natura umana, come una diquelle condizioni senza cui l’uomo rimarrebbe svestito della qualità che lo distingue daglialtri esseri. La libertà dell’uomo individuo non è l’injuriae licentia, ma quell’autonoma riconosciutae protetta dalla legge, in virtù della quale l’uomo deve essere rispettato nel liberodeterminarsi ai vari atti della vita, finché non leda la libertà degli altri e i diritti della leggemedesima. La negazione di libertà èlo stato di violenza, al quale l’uomo soggiace è lavisdalla quale è sopraffatto. La libertà individuale è la costante facoltà dell’uomo di esercitarele attività proprie, così fisiche come morali, a servizio dei suoi bisogni. Senza questo sarebbeinutile l’esistenza e l’integrità personale, le quali non sono beni in loro stesse se non in quantoservono di strumento all’esercizio dell’attività personale. Perciò, in un senso più vasto e in unconcetto più puramente speculativo, la libertà èil diritto, poiché l’idea del diritto si compendianell’idea di libertà, nessuno potendo dire e sentire di essere libero senza al tempo stessoesercitare uno degli speciali diritti che gli competono, sia che usi delle sue facoltà interne odesterne. Però la parola: libertà dev’essere considerata in un senso più concreto, non merapotenza, ma come attuale estrinsecazione della potenza, la quale può essere in qualchesuo momento impedita senza essere tolta’’.( 74 ) Cfr., C. Saltelli -E.Romano Di Falco, Commentario del codice <strong>penale</strong>, cit., p.981 s. ‘‘Il diritto leso è qui la personalità individuale considerata, non come un aspetto o unadirezione determinata della libertà individuale, non come una o più delle singole manifestazioniin cui può esplicarsi la libertà individuale, ma come il complesso di tali manifestazioni,considerate, cioè, nella loro totalità, singolarmente prevedute nelle sezioni che seguono e chesi riassumono nello status libertatis. La personalità individuale, che è la suprema ed essenzialecaratteristica della personalità umana, è, insomma, qui tutelata come un bene inteso comestato di diritto e come stato di fatto. L’individuo cessa, per effetto del delitto contro la personalitàindividuale, di avere una propria personalità, o, se questa gli è conservata come statodi diritto, egli è ridotto, di fatto, in un completo stato di assoggettamento al potere del colpevole’’( 75 ) V. Manzini, Diritto <strong>penale</strong>, cit., p. 55 ss.


STUDI E RASSEGNE345La distinzione fra ‘‘prigionia’’ e ‘‘schiavitù’’ arriva al cuore del problema.Per trovare realizzata la condizione di schiavitù, non occorre muoverealla ricerca della mancanza totale di libertà di movimento, della sorveglianzadiuturna, della costrizione assoluta. Il punto essenziale non è l’annullamentocapillare della libertà nelle sue più minute manifestazioni, quantol’aggressione portata al nucleo essenziale di prerogative che definisconolo status di persona libera( 76 ).6.3. Questa indicazione è valida ancora oggi, perché èimmutata la collocazionesistematica della norma, e perché l’assenza, nel testo attuale dell’art.600, di connotati qualitativi idonei a definire compiutamente la schiavitùe la servitù mediante referenze interne, impone di involgere l’elementosistematico nell’operazione ermeneutica( 77 ). Che questi delitti si trovassero( 76 ) Cfr. G. Amato, La nuova formulazione della fattispecie cancella le vecchie incertezzeapplicative, cit., p. 96 ss.: ‘‘Il reato di cui all’art. 600 del c.p. tutela, pacificamente, lo statuslibertatis dell’individuo, con particolare riferimento alla dignità dello stesso, così da preveniree reprimere la costituzione e/o il mantenimento di rapporti di padronanza, per effetto deiquali questo, assoggettato all’illegittima potestà di altri, risulti privato delle capacità relativealla personalità individuale’’. Come ricordato dall’A., la stessa indicazione è ricavabile daCass., Sez. V, 1º luglio 2002, DimitriJevic Dragojub, in CED Cass., rv. 222621. Sia l’Autoreche la sentenza si limitano a indicare il bene protetto, senza ulteriormente specificare le caratteristichedel ‘‘rapporto di padronanza’’, poiché si occupano, in via principale, del rapportofra l’art. 600 e altre fattispecie incriminatrici. C. Saltelli -E.Romano Di Falco, Commentariocit., p. 979, rilevano che i delitti contro la ‘‘personalità’’ (capo I) si caratterizzanoperché compromettono lo status, la condizione personale dell’individuo quale soggetto di diritti.Secondo G. Mazzi, Sub Art. 600, inCodice <strong>penale</strong>, Rassegna di giurisprudenza e di dottrina,a cura di Lattanzi –Lupo, 2000, Milano, p. 496, attraverso le figure delittuose inparola, la legge <strong>penale</strong> mira a proteggere la personalità individuale come una sorta di specificazionedella libertà individuale, nella sua accezione di status libertatis. Per G. Spagnolo,voce Schiavitù cit., p. 620 s., la norma posta all’art. 600 c.p. ‘‘risponde all’esigenza di preveniree reprimere la costituzione o il mantenimento di padronanza, per effetto dei quali unuomo, trovandosi sotto l’illegittima potestà di altri, sia privato delle capacità relative alla personalitàindividuale’’.( 77 ) L’esigenza appare particolarmente pressante nelle ipotesi di riduzione in schiavitùmediante approfittamento di uno stato di necessità, Cass., Sez. III, 24 dicembre 2004, Galiceanu,cit., p. 93 ss. ha chiarito che ‘‘la nozione di necessità (di cui all’art. 600) non corrispondea quella precisata nell’art. 54 c.p., ma è piuttosto paragonabile con la nozione di bisognodi cui all’art. 1148 c.c., e va intesa come qualsiasi situazione di debolezza o di mancanzamateriale o morale, adatta a condizionare la volontà della persona. Infatti, come nelcaso di rescissione del contratto per lesione, nella ipotesi di riduzione in schiavitù, di cuisi tratta, si verifica una sproporzione fra la prestazione della vittima e quella del soggetto attivo,che deriva dallo stato di bisogno della prima di cui il secondo approfitti per trarne vantaggio.’’È evidente che, a fronte di un così ampio concetto di ‘‘stato di necessità’’, rischianodi cader preda dei rigori della norma anche semplici contratti di lavoro recanti condizionipiù o meno vessatorie per il lavoratore, se non si chiariscono a sufficienza le peculiari connotazioniche lo status personale del soggetto passivo deve presentare ai fini dell’integrazionedella fattispecie.


346STUDI E RASSEGNE– e si trovino tuttora – collocati al primo dei capi dedicati alla tutela dellalibertà sottolineava – e sottolinea tuttora – la gravità dell’aggressione: l’uomolibero cessa di essere tale, non è semplicemente ostacolato nell’eserciziodella libertà. La condizione della persona offesa è quella di chi si vede difatto negato l’esercizio dei diritti e delle altre situazioni giuridiche soggettivedi vantaggio connesse alla qualità di persona come soggetto giuridico,e che di fatto cessa di essere persona come soggetto dell’ordinamento giuridico.Il soggetto attivo del reato non nega – e, almeno in territorio italiano,non potrebbe negare – ‘‘in diritto’’ alla persona offesa le prerogativeche l’ordinamento gli riconosce, ma ‘‘di fatto’’ fa sì che essa non possa concretamenteusufruirne.La negazione della ‘‘personalità individuale’’ deve oggi attuarsi con lecondotte tipiche previste dall’art. 600 novellato, vale a dire con l’eserciziodi ‘‘poteri corrispondenti al diritto di proprietà’’ (primo comma prima parte),oppure realizzando o mantenendo una ‘‘soggezione continuativa’’ (primocomma seconda parte e secondo comma)( 78 ).Se è tutt’altro che una novità identificare nella privazione dei diritti dellapersonalità l’essenza degli status soggettivi previsti dall’art. 600 (ieri la schiavitùe le condizioni ad essa analoghe, oggi la schiavitù e la servitù), vale lapena sottolineare tre implicazioni qualificabili come corollari di questa impostazione:1) le condizioni soggettive previste dall’art. 600 postulano un potereillecito, al quale il soggetto passivo è sottoposto; 2) l’individuazione di unsiffatto potere alternativo, che pure è potere ‘‘di mero fatto’’ (non riconosciutodall’ordinamento statale e dal diritto internazionale) e anzi illecito, richiedel’utilizzo di categorie giuridiche; 3) la condizione di schiavitù o di servitùesiste se e in quanto le norme dettate dal potere illecito a disegnare la condizionedella persona offesa siano norme ‘‘efficaci’’ e ‘‘vigenti’’. Quest’ultimoè il punto cruciale sul piano delle applicazioni concrete della norma, perchéancorando la verifica della sussistenza di una condizione di schiavitù o servitùalla verifica dell’effettiva ‘‘vigenza’’ delle norme che disegnano quella condizionein un ordinamento illecito, contrapposto all’ordinamento statale, sisegue un criterio sufficientemente determinato, radicato su un’indicazionepositiva del legislatore (il bene giuridico protetto), produttivo di percorsi logiciverificabili in sede di controllo della motivazione. E si sfugge alle nebbieche avvolgono le metafore della ‘‘reificazione’’ e della soggezione ‘‘totale’’.Tanto la prima quanto la seconda ipotesi dettate dall’art. 600 rimandanoall’esercizio di un potere e a un corrispondente assoggettamento. Quindinon solo ‘‘sottrazione’’ della persona offesa al potere dello Stato, e ai dirittiche lo Stato le riconosce e che intende garantirle, ma anche assoggettamentoa un potere diverso e antagonista rispetto a quello dello Stato, che( 78 ) Conf. G. Amato, La nuova formulazione cit., p. 95.


STUDI E RASSEGNE347non solo conculca la libertà personale (ed eventualmente lede l’incolumità)dell’offeso, ma attribuisce di fatto all’offeso uno status personale caratterizzatodall’assenza di diritti. La condotta dell’agente provoca una sorta di‘‘eclissi dello Stato’’ – in specie: dei riflessi concreti che l’ordinamento giuridicostatale produce sulla condizione della persona con il riconoscimentodei diritti della personalità – e proietta l’ombra di un potere diverso, illecitoe antagonista, che di fatto destina la persona offesa allo status di individuoprivo della personalità giuridica e oggetto di diritti altrui.Che la presenza di un potere antagonista a quello dello Stato sia connaturalealla condizione di schiavitù è una realtà colta perfettamente dalManzini, che definisce lo schiavo come persona soggetta alla ‘‘altrui illegittimapotestà’’. Sarebbe un grave errore logico, d’altronde, ritenere che unasimile presenza caratterizzi lo stato di schiavitù ‘‘di diritto’’, e sia inveceestranea alla condizione di schiavitù (e servitù) ‘‘di fatto’’. Quel che caratterizzala schiavitù ‘‘di diritto’’ è che la potestà, e il correlato stato di soggezione,sono previsti e disciplinati dalle norme di uno Stato, ma il rapportopotestà-soggezione che rappresenta l’essenza del fenomeno-schiavitù èsempre e comunque una relazione giuridica, e quindi la schiavitù è sempree comunque un fenomeno giuridico, in quanto la ‘‘potestà’’ è potere di dettarenorme e garantirne l’applicazione in una determinata sfera di rapportiinterpersonali e in un numero di casi accettabilmente elevato: prevedereipotesi di illecito e applicare le relative sanzioni.La classica nozione di ‘‘schiavitù di diritto’’ dovrebbe essere più propriamentedesignata come ‘‘schiavitù di diritto statale’’, ma la schiavitù, inuna prospettiva formalista e relativistica, è sempre ‘‘di diritto’’, in quantoposizione giuridica soggettiva disegnata da un sistema di norme e garantitada un ‘‘ordinamento’’ che regola rapporti interpersonali. Che questo sistemadi norme sia il risultato dell’esercizio di un ‘‘potere di fatto’’ non è altroche l’espressione di un connotato essenziale di ogni fenomenologia giuridica,poiché il diritto esiste solo ove vi sia forza sufficiente a farlo applicare(79 ). Dal punto di vista dell’ordinamento statale questo sistema di normeè illecito (lo stesso poteva dirsi, peraltro, con riguardo all’antica ‘‘schiavitùdi diritto’’ in rapporto al nostro ordinamento statale), ma ciò nonostanteesiste e disegna uno status di soggezione( 80 ).( 79 ) Sul concetto di ordinamento giuridico come sistema di norme di fatto provviste diun accettabile grado di ‘‘vigenza’’ e, più in generale, sul rapporto fra ‘‘diritto’’ e ‘‘forza’’, siveda, H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, Einaudi, 1952, passim e, nello specifico,il capitolo V. A questo Autore si rimanda come alla migliore espressione del relativismogiuridico, senza neppure tentare approfondimenti bibliografici su temi fondamentali diteoria generale del diritto.( 80 ) Attribuire rilevanza in sede <strong>penale</strong> a una posizione giuridica soggettiva disegnatada un ordinamento antagonista non è bizzarro né eccezionale: basti pensare alla posizione di‘‘capo’’ di un’associazione per delinquere (art. 416 comma terzo c.p.) o di ‘‘dirigente’’ di


348STUDI E RASSEGNEQuesta impostazione non comporta una nozione di libertà misuratasulla rinuncia dello Stato all’esercizio della potestà, ed è anzi coerentecon la nozione, propria dello Stato liberale, di libertà come condizioneumana ‘‘preesistente al diritto’’ e dal diritto garantita (nozione rinvigorita,con la novella del 2003, dall’attuale configurazione della schiavitù comecondizione ‘‘di fatto’’): ciò che la norma <strong>penale</strong> tutela non è la potestà delloStato, ma lo stato di libertà della persona, aggredito nel suo nucleo essenzialedalla ‘‘illegittima potestà’’( 81 ).Il potere illecito, cui la persona offesa soggiace, non è necessariamenteil prodotto di una realtà criminale organizzata. Non si deve pensare che lacondizione di persona sulla quale si esercitano poteri corrispondenti al dirittodi proprietà (schiavo), o di persona in stato di soggezione continuativa(servo) debba essere affermata e perpetuata mediante una struttura radicatae complessa. Meno che mai è necessario che una simile struttura assumail c.d. ‘‘controllo del territorio’’ proprio delle organizzazioni di tipo mafioso.È indubbio che l’esigenza di far ‘‘rivivere’’ l’art. 600 – e le sue severesanzioni – sia storicamente legata anche alla percezione della valenza latosensu ‘‘eversiva’’ di un reato che sfidava l’ordinamento statale, riproducendoun istituto giuridico da esso ripudiato. La norma, però, non si spingefino a chiedere che il soggetto attivo sia ‘‘cittadino’’ di un ordinamento antagonistaassimilabile a uno ‘‘Stato nello Stato’’ o a uno ‘‘Stato in più Stati’’.un’associazione per delinquere di tipo mafioso (art. 416 bis comma secondo c.p.) e, più ingenerale, al concetto stesso di ‘‘vincolo’’ associativo. La posizione di capo di un’organizzazionecriminale è certamente ‘‘di fatto’’ nel senso che nessuno Stato la riconosce, ma esprimesinteticamente l’applicazione di categorie giuridiche (poteri-doveri, obblighi-diritti) a una relazioneinterpersonale. Le obbligazioni derivanti dal ‘‘vincolo’’ associativo, così come le prerogativedel ‘‘capo’’, non potranno essere fatte valere in giudizio dinanzi a un tribunale delloStato, ma sono comunque espressione di un ‘‘dover essere’’ di tipo giuridico (sollen sein), sitraducono in ‘‘norme’’ dettate da un potere e in ‘‘sanzioni’’ che quel potere è in grado di applicare.( 81 ) Cfr., G. Mazzi, Sub Art. 600, cit., p. 496. Questo Autore ritiene che ‘‘è stata generalmenterilevata la diversa impostazione ideologica del legislatore nella redazione del vigentecodice <strong>penale</strong>, rispetto al codice <strong>penale</strong> Zanardelli del 1889. Il mutamento di indirizzo– condusse al superamento della categoria unitaria dei delitti contro la libertà previsti nelcodice Zanardelli, con l’estrapolazione delle libertà politiche e la configurazione della tuteladella libertà in forma esclusivamente individualistica – è significativamente espresso nella Relazioneministeriale sul progetto del codice <strong>penale</strong> II, 364, secondo cui la libertà individuale èintesa non già come concezione astratta di un bene naturale preesistente alla costituzione dellasocietà giuridica, sebbene come il complesso delle condizioni necessarie allo svolgimentodelle attività consentite per la libera esplicazione della personalità umana. Si veda ancora C.Saltelli -E.Romano Di Falco, Commentario cit., p. 979, Gli Autori sostengono che‘‘poiché la libertà individuale è stata considerata, nel suo concreto contenuto, come un insiemedi particolari e concreti interessi appartenenti alla persona, ne è derivato, dal punto divista di un’esatta sistemazione legislativa, che i delitti contro la libertà individuale costituiscono,nel nuovo codice, una sottospecie dei delitti contro la persona.’’


STUDI E RASSEGNE349Lo status di schiavo o di servo sarà particolarmente evidente in realtà siffatte– per esempio, in situazioni nelle quali le persone che reclutano esfruttano donne costrette alla prostituzione, trasportandole da uno Statoall’altro, siano in grado di punire eventuali ribellioni mediante ritorsionisui familiari delle vittime rimasti in patria – ma anche in un gruppo ristretto,per esempio in una comunità, in una setta o in altra ‘‘istituzione totale’’,o addirittura in ambito familiare, possono prodursi situazioni nelle quali unsoggetto è di fatto privato della personalità individuale, e ridotto alla condizionedi oggetto dei diritti altrui( 82 ).L’esistenza di un simile ‘‘sistema di norme’’, per quanto elementare, ela sua ‘‘vigenza’’ in ambito più o meno ristretto, sono essenziali per definirei concetti giuridici che tuttora sono compresi nelle previsioni dell’art. 600,e i cui confini non sono ricavabili mediante diretti riferimenti al nostro ordinamento(83 ).6.4. Come si è visto, la prima fattispecie dell’art. 600 c.p. comprende il( 82 ) Contra: Cass., Sez. V, 1º luglio 2002, DimitriJevic Dragojub, cit., rv. 222621 Lamassima della sentenza distingue la ‘‘sottoposizione a vessazioni in ambito familiare’’ (chedi per sé non integra il reato) e ‘‘l’esercizio del diritto di proprietà’’.( 83 ) Nel valutare la configurabilità del reato di cui all’art. 600 c.p., la giurisprudenza hainevitabilmente continuato a riferirsi a categorie giuridiche, anche dopo la definitiva affermazionedella tesi della ‘‘schiavitù di fatto’’. A titolo di esempio, si consideri la massima di Cass.,Sez. V, 4 aprile 2002, Mike, in CED Cass., rv. 222631, stando a quest’ultima ‘‘è ammissibile ilconcorso formale tra i reati di riduzione in schiavitù (art. 600 c.p.) e di induzione, favoreggiamentoo sfruttamento della prostituzione (artt. 3 e 4 l. n. 75 del 1958), nel caso in cui unacittadina straniera sia costretta, dopo essere stata venduta, a riscattare la propria libertà con iproventi dell’attività di meretricio cui venga indotta con violenza e maltrattamenti, laddovel’obbligo di pagare un prezzo per riscattare la condizione nativa di libertà si configura come ilquid pluris caratterizzante il reato di riduzione in condizione analoga alla schiavitù’’. Come sivede, secondo il S.C., la situazione materiale di soggezione alla violenza è comune alle altrefattispecie sotto esame, mentre è la situazione giuridica (un’obbligazione che non può esserericonosciuta come tale dal nostro ordinamento, ma che può esistere solo in un ordinamentodiverso da quello statale) che caratterizza la condizione assimilabile alla schiavitù.Ancor più evidente, se possibile, il ricorso a categorie giuridiche in Cass., Sez. I, 11 dicembre2002, Ugbo, cit., rv. 223025, che ha ritenuto rilevante – per configurare il reato diacquisto di schiavi in concorso con il reato di riduzione in schiavitù – la mera variazione del‘‘titolo’’ del possesso, non accompagnata dalla consegna materiale del soggetto passivo dauna persona all’altra: ‘‘il soggetto che si sia reso responsabile della riduzione di taluno inschiavitù (art. 600 c.p.) può commettere anche il reato di cui all’art. 602 c.p., non solonel caso in cui alieni ad altri la persona resa schiava, ma anche in quello in cui ne acquistila ‘proprietà esclusiva’, avendo in precedenza contribuito a rendere schiava la medesima persona,senza tuttavia diventarne l’unico «proprietario»’’. La S.C. sente l’esigenza di virgolettarele nozioni giuridiche utilizzate nella motivazione, all’evidente fine di sottolineare che nonsi parla di «proprietà» riconosciuta dall’ordinamento giuridico statale. E tuttavia, in assenzadi un mutamento dello stato di fatto, è il mutamento di un «titolo giuridico» che integra lafattispecie criminosa, e deve pur postularsi un ordinamento che quel «titolo» riconosca.


350STUDI E RASSEGNEconcetto di ‘‘proprietà’’. La fattispecie dell’art. 602 involge, a sua volta, iconcetti di ‘‘alienazione’’ e ‘‘acquisto’’. È evidente che, perché a questi concettigiuridici corrispondano fenomeni materiali suscettibili di assumere rilevanzagiuridica per effetti tanto pesanti, non si può prescindere da un requisitodi ‘‘effettività’’, id est di ‘‘vigenza’’ dell’ordinamento o sistema dinorme che di fatto realizza la proprietà dell’uomo sull’uomo, l’acquisto ela vendita di esseri umani.Quando la norma <strong>penale</strong> si riferisce a un potere corrispondente al dirittodi proprietà su una persona, evoca le fattispecie concrete in cui talepotere si realizza, e cioè quello specifico rapporto di fatto esistente tra l’agentee la persona (resa schiava) che subisce l’altrui potere corrispondenteal diritto di proprietà. In altri termini, la norma <strong>penale</strong> incriminatrice richiamaquella situazione giuridica presente in quello specifico ordinamentoa cui appartengono l’agente e la vittima e che presenta le peculiarità di praticare– se non di definire in una norma cristallizzata e dettagliata – la proprietàdell’uomo sull’uomo.Lo stesso può dirsi per l’acquisto e la vendita: in effetti il legislatore,che all’art. 600 ha usato l’espressione ‘‘esercizio di poteri corrispondential diritto di proprietà’’, all’art. 601 avrebbe dovuto parlare di ‘‘comportamenticorrispondenti all’acquisto o alla vendita’’ della persona, perché, nell’uncaso come nell’altro, la nozione giuridica non può essere riferita all’ordinamentostatale (che, se non riconosce la proprietà sulla persona, inevitabilmentenon riconosce la vendita o l’acquisto della medesima). D’altronde‘‘proprietà’’ e ‘‘vendita’’ sono nozioni giuridiche, e la qualificazione giuridicadi un fatto materiale non è possibile se non riferendosi comunque aunordinamentogiuridico, inteso come sistema di norme provviste di un sufficientegrado di effettiva vigenza. La persona A trasporta una giovane ragazza,sottratta alla famiglia, fino all’appuntamento con la persona B; la personaB consegna del denaro alla persona A e porta via con sé la ragazza. Tuttociò non può essere qualificato come ‘‘alienazione’’ e ‘‘acquisto’’ della ragazzasecondo l’ordinamento statale, ma solo secondo l’ottica del ‘‘sistema di norme’’convenzionalmente accettato da A e B, che consente a B di ritenersi ilnuovo padrone della ragazza, ad A di ritenersi legittimo possessore del denaro.Entrambi sanno bene che non potranno ricorrere a tribunali dello Statose i soldi sono falsi o se la ragazza è gravemente ammalata e inidonea allavoro, ma confidano nel rispetto spontaneo di un ‘‘codice’’ criminale o inmeccanismi sanzionatori di autotutela o di tutela attuata da sodali. Se un similesistema di norme non esiste, e se non esistono di fatto meccanismi dissuasivie repressivi che garantiscano un apprezzabile grado di adeguamentodei soggetti interessati a quel sistema di norme, la consegna di A a B e ilpagamento del prezzo sono un gioco, non una compravendita.Che la condizione di schiavo o di servo, vale a dire di soggetto privatodi fatto dello status libertatis, si definisca mediante il ricorso a categoriegiuridiche, è affermazione gravida di conseguenze concrete. Il punto essen-


STUDI E RASSEGNE351ziale da tenere presente è che la personalità individuale è cancellata da unanorma o da un sistema di norme (dettate dalla ‘‘illegittima potestà’’), nondalla realtà materiale: sparisce dall’orizzonte del dover essere in senso giuridico(sollen sein), non da quello del dover essere in senso materiale (mussensein). La libertà individuale dello schiavo o del servo non può essereesercitata nel senso che c’è una norma che pone lo schiavo sotto il dominioaltrui, non nel senso che è sempre e comunque ostacolata da un impedimentomateriale. Una norma esiste ed è vigente non quando è osservatasempre (anzi: in quel caso diventa inutile), ma quando raggiunge un accettabilegrado di osservanza, ovvero quando l’ipotesi di illecito si realizzaconcretamente in un numero di casi non così alto da produrre la desuetudinee la ‘‘rottura’’ dell’ordinamento( 84 ).Le connotazione ‘‘giuridica’’ della condizione di schiavo o di servo siriverbera nel trattamento giuridico dei casi concreti di assoggettamentoche presentino spazi più o meno ampi di libertà materiale della vittima( 85 ).Simili spazi, evidentemente, possono essere il frutto di una graziosa concessionedello sfruttatore, e possono addirittura facilitare lo sfruttamento. Il‘‘padrone’’ può lasciare che siano dallo schiavo esercitate alcune manifestazioniesteriori dello status libertatis perché preferisce atteggiare in quellaforma una relazione interpersonale che comunque si muove interamentesul registro potestà-soggezione( 86 ). Ma non è solo questo il punto. Quel( 84 ) H. Kelsen, Lineamenti cit., p. 100 s. L’Autore ritiene che ‘‘deve esserci possibilitàdi una discrepanza fra l’ordinamento normativo e l’ambito degli eventi ad esso riferibili, perché,senza una tale possibilità, un ordinamento normativo non avrebbe assolutamente alcunsignificato. Se si trattasse di fondare un ordinamento sociale, a cui corrispondesse sempre ein tutte le circostanze l’effettivo comportamento degli uomini, la norma fondamentale dovrebbesuonare così: deve avvenire ciò che effettivamente avviene, oppure: tu devi ciò chetu vuoi. Un ordinamento di questo genere sarebbe privo di senso, così come lo sarebbeun altro ordinamento al quale non corrispondessero in nessun modo i fatti cui si riferisce.Un ordinamento normativo deve perdere la sua validità di fronte alla realtà che cessa di corrisponderglifino a un certo grado. La validità di un ordinamento giuridico, che regola ilcomportamento di determinati uomini, si trova pertanto in un sicuro rapporto di dipendenzacol fatto che il comportamento reale di questi uomini corrisponde all’ordinamento giuridicoo anche, come si suol dire, alla sua efficacia. Questo rapporto (che magari potrebbe essererappresentato come tensione fra dover essere ed essere) non può esser determinato in altromodo che con un limite superiore e uno inferiore. La possibilità della corrispondenza nonpuò superare un massimo stabilito né discendere sotto un minimo stabilito’’.( 85 ) Quelli che nella relazione al disegno di legge sono definiti ‘‘margini di autodeterminazione’’e ritenuti compatibili con le previsioni dell’art. 600 c.p.( 86 ) Cass., Sez. V, 18 dicembre 2000, Gjini, cit., rv. 217846. Nella pronuncia si osservache ‘‘ai fini della configurabilità del reato di riduzione in schiavitù previsto dall’art. 600 c.p.,la condizione di segregazione e assoggettamento all’altrui potere di disposizione non vienemeno allorquando essa temporaneamente si allenti, consentendo momenti di convivialità eapparente benevolenza, finalizzati allo scopo di meglio piegare la volontà della vittima e vincernela resistenza’’.


352STUDI E RASSEGNEche interessa sottolineare è che anche gli spazi di libertà che la vittima siprende contro la volontà dello sfruttatore possono essere compatibili conil rapporto potestà-soggezione caratterizzante la condizione di schiavitù oservitù, in quanto, dal punto di vista dell’ordinamento illecito che disegnae impone quella condizione, possono configurarsi come realizzazione concretadi un’ipotesi di illecito (ipotesi alla quale si collega una sanzione) epossono non inficiare la ‘‘vigenza’’ dell’ordinamento: purché la sanzionevenga applicata o purché, almeno, il numero di illeciti che sfuggono allasanzione sia contenuto entro limiti accettabili, tali da non comprometterela vitalità dell’ordinamento e il perseguimento dei suoi fini. Se la prostitutasfruttata sfugge una o più volte dal luogo di prostituzione, o se in una o piùoccasioni si rifiuta di lavorare, o se riesce a occultare una parte dei suoiguadagni, ciò non vuol dire necessariamente che ella conservi lo status libertatis,perché il suo comportamento può essere qualificato come una‘‘evasione’’ o come una ‘‘insubordinazione’’, quindi come un illecito perseguibilesecondo norme che restano efficaci e ‘‘vigenti’’ anche se il soggettoriesce a sfuggire all’applicazione della sanzione, purché (o finché) i fenomenidi ribellione non assumano frequenza e dimensioni tali da dissolvere ilpotere che ha dettato la norma.Per verificare la sussistenza dell’una o dell’altra fattispecie prevista all’art.600, è fuorviante focalizzare l’indagine sullo stato materiale di costrizionepiù o meno ‘‘completa’’. Ciò che conta non è tanto verificare se il soggettopassivo sia recluso in appartamento o possa uscire per strada, né selesue tasche siano perennemente vuote o all’inverso provviste di un più o menoconsistente peculio. Quel che conta è che i movimenti del soggetto, lesue espressioni di pensiero o il suo patrimonio siano il risultato non dell’eserciziodi una libertà ma della concessione del soggetto attivo, che scegliedi atteggiare la propria potestà in una forma piuttosto che un’altra, ovveroin atti di insubordinazione che espongono il soggetto al rischio concreto diuna sanzione.Il potere illegittimo si misura inevitabilmente con il potere statale: peresempio il soggetto attivo eviterà, di regola, di darsi ad atti di violenza neiconfronti della persona offesa in presenza di una pattuglia della ‘‘Volante’’e, se intende sfruttare la prostituzione di una minorenne, potrà avere curadi procurarsi un passaporto falso che la faccia apparire maggiorenne. Ma,anche se co-esistente con il potere statale, il potere illegittimo può ritenersicomunque esistente (o ‘‘efficace’’ o ‘‘vigente’’), laddove riesca di fatto adesplicarsi nella direzione dello sfruttamento della persona offesa: laddove,cioè, il potere statale non sia di fatto in condizione di spezzare – con l’effettodissuasivo o repressivo delle sanzioni previste dall’ordinamento – larelazione potestà-soggezione instauratasi fra lo sfruttatore e la sua vittima.La distinzione fra la condizione di ‘‘schiavitù’’ e quella di ‘‘servitù’’ –che non può in alcun modo essere ricercata, in assenza di dati positivi diconforto, sul terreno di una maggiore o minore ‘‘completezza’’, ‘‘totalità’’


STUDI E RASSEGNE353o ‘‘intensità’’ della soggezione – può ravvisarsi nella direzione nella quale ilrapporto potestà-soggezione riesce ad affermarsi. L’esercizio di un potere‘‘corrispondente al diritto di proprietà’’ (che connota la condizione dischiavitù) èla manifestazione concreta di un potere che si esplica in tuttele direzioni nelle quali si può ‘‘godere e disporre’’ dell’essere umano: ancheun solo potere può essere di fatto esercitato, ma la singola attività di eserciziodel potere può essere qualificata come ‘‘corrispondente al diritto diproprietà’’ quando tutti i poteri siano potenzialmente in condizione di essereesercitati.La condizione di servitù è invece disegnata dal legislatore con riguardoa singole destinazioni di sfruttamento della persona (lavoro, prostituzione,accattonaggio...). La potestà, e il correlativo sfruttamento, sono one-sided,indirizzati verso una specifica destinazione e uno specifico ‘‘uso’’ della personaoffesa, come si evince dalla subordinata con la quale il legislatore, nellaseconda parte del primo comma, delimita in un’area determinata di ‘‘usodella persona, la direzione dello sfruttamento (costringendola a prestazioni...etc.). È quindi compatibile con la condizione di servitù uno status libertatisdella persona offesa nelle sfere di attuazione della personalità estraneea quella oggetto della potestà e dello sfruttamento: così potranno essereconsiderati in condizione di servitù immigrati clandestini costretti a prestazionimassacranti in locali angusti, ma liberi di autodeterminarsi nelle relazionisessuali( 87 ).La direzione unilaterale dello sfruttamento distingue la particolare ipotesidi ‘‘compravendita’’ prevista nell’ultima parte dell’art. 600 secondocomma (riduzione o mantenimento in stato di servitù mediante la promessao la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sullapersona) e la vendita qualificabile come esercizio di potere corrispondenteal diritto di proprietà, inquadrabile nella prima ipotesi dell’art. 600 laddovela persona offesa non rivesta la qualità richiesta dal successivo art. 601.Resta certamente difficile il compito di ‘‘leggere’’ la relazione correntefra soggetto attivo e persona offesa, verificando se, ad onta di spazi di libertà,essa sia caratterizzata dal rapporto potestà-soggezione. Nessuna definizionedi ‘‘schiavitù’’ o ‘‘servitù’’ potrà tradursi nella ricetta per qualificareogni situazione con criteri automatici e mediante analisi semplici e super-( 87 ) A riguardo, si rinvia a Ass. App. Firenze, 23 marzo 1993, Tapiri, cit., c. 298 ss., lapronuncia fondava proprio sulla unilateralità dello sfruttamento la caratteristica delle ‘‘condizionianaloghe’’ alla schiavitù di cui al vecchio testo dell’art. 600 c.p. Osservava la Corteche ‘‘il concetto stesso di schiavitù è riconducibile ad una situazione di fatto, e si differenziada quello di «condizione analoga» solo dal punto di vista quantitativo, consistendo quest’ultimanella limitazione di aspetti specifici, ma particolarmente significativi, della libertà individuale,tali da comportare una complessiva menomazione dello status libertatis del soggetto,equiparabile, sul piano normativo, alla schiavitù stricto sensu’’.


354STUDI E RASSEGNEficiali, trattandosi pur sempre di interpretare una relazione interpersonalein relazione a categorie giuridiche. Verificare se alla persona offesa sia precluso,per effetto di una delle condotte tipiche indicate dalla norma, l’eserciziodelle situazioni giuridiche che compongono lo status libertatis, e se ilsoggetto attivo eserciti sulla persona offesa una potestà giuridicamente piena(nel caso della schiavitù), o limitata al particolare uso al quale è finalizzatolo sfruttamento (nel caso della servitù), è comunque un’analisi che puòessere condotta sulla base di dati obiettivi e di processi logici manifestabilinella motivazione di un provvedimento giudiziario.6.5. Individuato il nucleo essenziale della condizione di schiavitù e dellacondizione di servitù, i ‘‘fondamentali’’ delle due fattispecie sono ricavabilisenza particolari difficoltà. Si tratta in entrambi i casi di reato a effettipermanenti, poiché le condotte devono produrre uno status o condizionepersonale che, come ogni altro status, non può per sua natura essere istantaneo.Anche se, come si è visto, il dato testuale suggerirebbe di qualificarela fattispecie della riduzione o mantenimento in schiavitù come reato dimera condotta, l’esercizio di uno o più poteri corrispondenti al diritto diproprietà deve – per essere qualificato tale, e non identificarsi nella semplicefruizione di prestazioni personali – produrre o perpetuare la condizionepersonale propria dello schiavo. Il connotato di continuità èrichiesto in relazionealla condizione della persona offesa, e nulla autorizza a trasferireindebitamente quel requisito alla condotta del soggetto attivo: non è possibileescludere a priori, anche se è assai difficile ipotizzare in pratica,che una soggezione continuativa sia prodotta mediante una condotta istantanea,e non vi è quindi alcun dato testuale o sistematico che induca a includerefra gli elementi della fattispecie il requisito dell’abitualità della condotta.Entrambe le ipotesi criminose prevedono il dolo generico( 88 ), mentre( 88 ) In senso contrario sembra esprimersi Cass., Sez. fer., 10 settembre 2004, B.S., almenoper quanto può desumersi dalla sintesi esposta in Dir. pen. proc., 2004, n. 12, p. 1487 s.Il S.C. osserva che ‘‘nell’ambito dei delitti contro la libertà individuale ed in maniera più specificasotto il profilo della tutela della personalità individuale’’ il che indica ‘‘nella tutela dell’autodeterminazionee della affermazione della personalità individuale’’ deve ricondursi ilbene giuridico protetto in tale specifico ambito normativo. E pertanto il delitto è ipotizzabilesolo allorché la affermata ‘‘signoria’’ dell’uomo sull’uomo si traduca, o sia finalizzata a tradursi,nello sfruttamento della persona o del lavoro. Pertanto la cessione di un neonato, uti filii,verso il pagamento di una somma di denaro o altra utilità, proprio perché non implicante ilfine di lucro o di altra utilità, non può sussumersi nell’ambito della fattispecie di cui all’art.600 c.p.; né può valere l’argomento della «riserva mentale» di tale futura utilità perché contraria,tale esegesi, ai principi generali del diritto <strong>penale</strong>, che rifiutano la considerazione diqualsivoglia forma di tale riserva in futuro’’. La conclusione cui è giunto il S.C. nel caso concretoappare condivisibile, ma ad essa si poteva pervenire non già facendo leva sull’assenzadel ‘‘fine di lucro’’ in capo agli acquirenti del neonato, ma semplicemente rilevando che ilneonato inserito nella nuova famiglia non vive la condizione di assoggettamento propria del-


STUDI E RASSEGNE355il requisito del dolo specifico è posto solo per la configurabilità dell’aggravantedi cui al terzo comma: la fattispecie della riduzione o mantenimentoin servitù prevede, in particolare, una serie di destinazioni, ovvero di possibili‘‘usi’’ della persona offesa, ma queste indicazioni connotano le modalitàdi attuazione dello sfruttamento, e non il fine perseguito dal soggettoattivo. Anche se lo sfruttamento produce in rerum natura un profitto (patrimonialeo non patrimoniale), è lo sfruttamento che, perché sia integratol’elemento soggettivo del reato, deve essere oggetto diretto della percezionecosciente e della volontà dell’agente. Non vi è alcuna ragione per escluderela configurabilità del tentativo, come risultato dell’interruzione dell’azioneo della mancata produzione dell’evento: è piuttosto la prova dell’astrattaidoneità degli atti compiuti a produrre la condizione di schiavitù o servitùche si presenterà nei fatti difficile. Non è da escludere, però, che questaprova possa essere conseguita, specie laddove la condotta all’esame dell’interpreterisulti inserita in un quadro di ‘‘precedenti’’, realizzati – dal medesimosoggetto o da altri soggetti a lui collegati – con analoghe modalitàoperative e condotti a termine ‘‘con successo’’, vale a dire producendo lostato di schiavitù o di servitù di una o più persone offese.7. Considerazioni conclusive.Per confrontarsi sia con la prima che con la seconda delle fattispeciedelineate dal nuovo art. 600, l’interprete deve munirsi di una chiave di letturautile a trovare a quelle nozioni un significato diverso, e più limitato, daquello che assumono nel linguaggio comune. E l’opera di delimitazione delconcetto di ‘‘esercizio di poteri corrispondenti al diritto di proprietà’’ e di‘‘soggezione’’ non può che fondarsi sull’unico dato proveniente dal legislatoresuscettibile di assumere rilievo ermeneutico: la collocazione dell’art.600 e il bene giuridico protetto della norma. Di conseguenza, va ravvisatonella lesione del nucleo essenziale della personalità individuale il connotatoessenziale che la condotta tipica dovrà presentare per essere sussunta nell’unao nell’altra fattispecie.Se i diritti fondamentali – il diritto di circolare liberamente nel territorio,di disporre delle proprie risorse fisiche e intellettuali, di manifestare ilpensiero, di essere proprietario di beni, titolare di diritti reali e obbligatori– qualificano la personalità giuridica individuale, è la privazione di quei di-lo schiavo o del servo. Quindi, la compravendita del neonato – illecita in quanto comportacome minimo un’alterazione di stato civile – non segna quel passaggio del soggetto dalla soggezionealla ‘‘illegittima potestà’’ di taluno alla soggezione ad altra ‘‘illegittima potestà’’ che èinvece caratteristica essenziale della ‘‘compravendita’’ di esseri umani punibile ex art.600 c.p.


356STUDI E RASSEGNEritti a connotare la condizione di ‘‘schiavo’’ o di ‘‘servo’’. Chi si trovi in similecondizione, potrà pure usufruire di spazi di libertà materiale, ma solorestando nei limiti concessi dal ‘‘proprietario’’ o ‘‘padrone’’, oppure esponendosial rischio concreto delle sanzioni predisposte nel sistema di normeche disegna e impone il suo status di soggezione all’altrui ‘‘illecita potestà’’.Solo nell’ambito di un simile sistema assumono un senso, uno spessore euna concreta consistenza le espressioni – usate dal legislatore nel descriverecondotte punibili come reati contro la personalità individuale – che rimandanoa concetti giuridici e che non possono essere riferiti al diritto prodottodall’ordinamento statale, per il carattere di illiceità loro attribuito nonsolo dalla norma incrimatrice, ma dall’intero sistema: la ‘‘proprietà’’ diun soggetto (art. 600), ‘‘l’autorità’’ su di esso acquisita (art. 601) il suo ‘‘acquisto’’,la sua ‘‘alienazione’’, la sua ‘‘cessione’’ (art. 602).Non si torna, con ciò, alla nozione di ‘‘schiavitù di diritto’’ propria dellepiù antiche interpretazioni dell’art. 600: non è il diritto di un ordinamentostatale a riconoscere e regolare lo status di schiavo o servo penalmenterilevante, ma un sistema di norme che può di fatto instaurarsi in qualsiasirapporto interpersonale: dall’insieme dei soggetti che partecipano a un’associazionecriminale o che ne subiscono le vessazioni, alla ‘‘setta’’ o alla ‘‘comunità’’,fino a un qualsiasi setting familiare.D’altro lato non si torna alla tesi che ravvedeva nella ‘‘pienezza’’ o nella‘‘completezza’’ della soggezione il connotato essenziale della condizione difatto qualificabile, nel vigore della vecchia disciplina, come ‘‘analoga allaschiavitù’’ e oggi come ‘‘schiavitù’’ o ‘‘servitù’’ ai sensi e per gli effetti dicui all’art. 600 novellato. O almeno: vi si torna con l’avvertenza che la soggezionedel soggetto passivo di quelle fattispecie, e la correlativa potestà,sono ‘‘piene’’ solo in senso giuridico, e possono essere compatibili con spazidi libertà materiale frutto della graziosa concessione del soggetto agenteo della rischiosa ribellione della vittima.Il connotato della ‘‘pienezza’’, così intesa, va riferito al complesso dellesituazioni soggettive che compongono lo status del soggetto nell’ipotesi dischiavitù, e alla singola area nella quale si attua lo sfruttamento nell’ipotesidi servitù.Stabilire quando, di fatto, si producano sia la realizzazione della condottatipica sia la lesione del bene giuridico protetto è il compito essenzialedel giudice di merito. Trattandosi di provare una situazione di fatto definitamediante una qualificazione giuridica, è inevitabile anche che la valutazionesia fondata su ‘‘indici di riconoscibilità’’ di natura eminentementeindiziaria.Il novero di simili indici è stato largamente sperimentato ed esploratodalla giurisprudenza formatasi, sulla scia delle citate pronunce delle SezioniUnite della Corte di Cassazione, in tema di ‘‘riduzione in condizione analogaalla schiavitù’’ disciplinata dal vecchio testo dell’art. 600 c.p. Devonofra essi essere comprese, in primo luogo, le situazioni che distaccano la per-


STUDI E RASSEGNE357sona offesa dall’ordinamento statale, predisponendola alla soggezione a undiverso sistema di norme: lo sradicamento dalla comunità; il trasporto inluogo sconosciuto; la privazione dei documenti, gli ostacoli frapposti a ogniforma di socializzazione. In secondo luogo, i comportamenti mediante iquali si disegna la condizione della persona offesa come persona sostanzialmenteprivata dei diritti della personalità: l’imposizione di norme di comportamentopiù o meno dettagliate, la previsione e l’applicazione di sanzionipiù o meno gravi per le violazioni degli ordini; le limitazioni alle comunicazioni;la privazione di ogni apprezzabile risorsa economica; le sevizie egli abusi sessuali.Chiaro che non tutte queste situazioni dovranno realizzarsi in ciascunsingolo caso, ma se ne dovrà valutare ogni volta il peso e il significato concreto.Non per verificare se la soggezione sia ‘‘completa’’ o ‘‘totale’’, ma se ilsoggetto sia sottoposto a una ‘‘illegittima potestà’’ che gli attribuisce il ruolodi suddito privo di diritti. In questo quadro, sarà più facile attribuire acircostanze che testimonino un’apparente autonomia del soggetto passivouna valenza di conferma, più che di smentita, della configurabilità della fattispecie:è difficile conciliare una definizione di ‘‘soggezione completa’’ o‘‘totale’’ con l’assenza di vigilanza e controllo dell’agente sulla persona offesa,o con un temporaneo allontanamento di quest’ultima dai luoghi neiquali l’agente la obbliga a soggiornare, ma se il soggetto non controlla lavittima perché confida nella spontanea osservanza dei suoi ordini, e l’allontanamentoè vissuto e temuto come una fuga, allora queste situazioni manifestanoa loro volta l’esistenza e la vigenza del sistema di norme che opprimela persona offesa e ne annienta la personalità.Se è auspicabile che, per effetto di una riflessione sui criteri ermeneuticidesumibili dalla collocazione sistematica della norma, l’ambito di applicabilitàdelle nuove fattispecie dell’art. 600 risulti meglio determinato, potrebberestare sostanzialmente inalterato, rispetto alle applicazioni che hannocaratterizzato gli ultimi anni di vita della vecchia disciplina, il ‘‘repertorio’’degli elementi di valutazione di carattere sintomatico, rilevanti per verificarenel caso concreto la sussistenza delle condizioni personali previstedall’art. 600. Un risultato che non merita di essere considerato sconfortante,posto che sono sempre gli stessi, prima e dopo il 2003, i problemi che ifenomeni criminali interessati da questa norma pongono alla sensibilitàumana e professionale dell’interprete.Alessandro Giuseppe CannevaleChiara Lazzari


STUDI E RASSEGNE359ABUSO E IRREGOLARITÀ NELLA CONTRAFFAZIONEDELLA FIRMA SU <strong>DOC</strong>UMENTI RELATIVIAD OPERAZIONI DI INVESTIMENTO MOB<strong>IL</strong>IARESommario: 1. Il problema. – 2. La contraffazione della firma del cliente nella normativa disettore. – 3. La contraffazione della firma nella disciplina penalistica generale. – 4. Lostatuto del promotore e la disciplina penalistica (ed anche civilistica) generale.1. L’art. 98, 2º comma, lett. a, n. 3, reg. Consob approvato con deliberazionedel 1º giugno 1998 n. 11522 e successive modificazioni ed integrazioni,prevede la radiazione (fatta salva la facoltà della Consob di applicarela sospensione, ‘‘tenuto conto delle circostanze e di ogni elemento disponibile’’,art. 98, 3º comma) del promotore finanziario per la violazione normativadescritta in oggetto.La norma presenta un delicato nodo interpretativo, rappresentato dall’enucleazionedell’ambito della fattispecie sottostante, enucleazione finalizzataa verificare se essa consista nella contraffazione, da parte del promotore,di firme dell’investitore ‘‘tout court’’ – su moduli e documenti contrattuali,evidentemente – e quindi abbia rilevanza solo materiale e fattualeo se di converso, in un’ottica affatto opposta contraddistinta in termini digiuridicità, essa richieda altresì la sussistenza di un elemento ulteriore, rappresentatodall’abuso a carico del cliente.La domanda non è priva di rilievo sul piano pratico, in quanto non tuttele contraffazioni di firme del cliente da parte del promotore – a prescinderedal giudizio di disvalore intrinseco su di esse – costituiscono od anche solocomportano od implicano forme di abuso a danno del cliente: basti pensareal caso di firma non conforme apposta dal promotore solo perché il modulo oil documento su cui era stata originariamente apposta la firma autentica delcliente è stato smarrito ed il cliente non è reperibile per l’apposizione di firmasu modulo o documento dallo stesso contenuto; in via più generale, ci si riferiscea tutti i casi in cui l’apposizione della firma non conforme sia rispettosadelle istruzioni o comunque della volontà inequivoca del cliente( 1 ).( 1 ) Sulla problematica M. De Mari - L. Spada, Orientamenti in tema di intermediari epromotori finanziari, parte V, in Foro it., 2002, parte I, c. 2138 segg.


360STUDI E RASSEGNEIl chiaro disposto della norma, non facendo alcuna distinzione in relazioneall’abuso, sembra quindi propendere per la prima soluzione.2. A un esame più attento, la soluzione emergente dalla lettera dellanorma si rivela priva di solide basi, come appare indubitabile sol che sipensi all’intero impianto normativo di settore. La norma rilevante, inproposito, è infatti quella di cui all’art. 95, 1º comma, reg. Consob n.11522/98 – cui non a caso, a quanto consta, fa riferimento la Consobnei provvedimenti sanzionatori –, che fissa gli obblighi di diligenza, correttezzae trasparenza a carico dei promotori: ebbene, tale norma non costituiscenient’altro che la specificazione per il promotore, collaboratore qualificatodell’intermediario, degli stessi obblighi previsti proprio per l’intermediariodall’art. 21, 1º comma, d. lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 ‘‘Testo unicodelle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degliarticoli 8 e 21 della l. 6 febbraio 1996, n 52’’, e tale ultima norma fa riferimentoespresso all’interesse dei clienti come qualificazione di detti obblighi.L’interesse, che per antonomasia si caratterizza per l’impulso verso benie servizi in funzione di valori ed esigenze e pertanto per la considerazionedei menzionati beni e servizi in chiave strumentale e rappresenta la formamediata giuridicamente del bisogno, viene leso solo da abusi e non dacomportamenti (pur gravemente) irregolari, quali le falsificazioni di firmesenza danno per il cliente, che prescindono da ogni considerazione, anchestrumentale, dei beni e dei servizi.Conseguentemente, dal sistema normativo emerge inequivocabilmenteche la contraffazione viene (rigorosamente) sanzionata in quanto violazionedel precetto generale che impone al promotore di comportarsi con correttezzae, in tale ottica, di non ledere l’interesse dei clienti: ebbene, tale precettogenerale viene violato esclusivamente nelle forme di contraffazioneche comportino anche abusi a danno dei clienti, con la conseguenza indefettibileche la sola contraffazione di firme, nella sua materialità, non è sufficiente.Due obiezioni possono tuttavia essere mosse alle conclusioni raggiunteed occorre quindi esaminarle.Da un punto di vista estrinseco rispetto all’impostazione adottata, sipotrebbe sostenere che la vigente normativa, perfezionando quella precedente(quale introdotta dalla l. 2 gennaio 1991, n. 1, ‘‘Disciplina dell’intermediazionemobiliare e disposizioni sull’organizzazione dei valori mobiliari’’),ha inserito la disciplina degli intermediari in una più complessa regolamentazionedelle operazioni e dei mercati , con la conseguenza indefettibileche la correttezza, la diligenza e la trasparenza degli operatori a tuteladei clienti di cui all’art. 21, 1º comma, lett. a, d. lgs. n. 58/98 costituisconosolo alcuni dei valori – tutti posti in posizione paritaria tra di loro – e nonpiù, nel loro insieme, il valore principale: nella normativa, secondo tale im-


STUDI E RASSEGNE361postazione, non sussisterebbe più la ‘‘GrundNorm’’, quale chiave di letturadelle altre, ‘‘GrundNorm’’ che in altra sede ho identificato nell’obbligo degliintermediari e dei loro collaboratori di fare in modo che il cliente siasempre e costantemente posto in condizione di ‘‘effettuare consapevoli sceltedi investimento o disinvestimento’’ (art. 28, 3º comma, reg. Consob n.11522/98 e trattasi di precetto fondamentale che, ancorché espresso soloa livello di normazione secondaria, discende ‘‘de plano’’ dalle stesse normeprimarie, tra cui fondamentale per l’appunto l’art. 21, 1º comma, lett. a, d.lgs. n. 58/98).Tale impostazione, del tutto contraria a quella qui seguita, sembrerebbetrovare un punto di appoggio nello stesso art. 21, 1º comma, lett. a, d.lgs. n. 58/98, che non a caso fa riferimento non solo all’interesse dei clienti,ma anche all’integrità dei mercati.Secondo tale impostazione, l’interesse dei clienti non rappresenterebbepiù la chiave di lettura unica ed esaustiva dei criteri comportamentalidell’intermediario e la norma andrebbe posta in stretta correlazione all’art.5, 1º comma, d. lgs. n. 58/98, che pone quali obiettivi della vigilanza pubblicain materia, oltre alla trasparenza ed alla correttezza dei comportamentie – a monte – alla tutela dei clienti, la sana e prudente gestione degli intermediarie – a monte – la stabilità, competitività e buon funzionamentodel sistema finanziario.Non è questa la sede ovviamente per affrontare criticamente in via generalesuddetta impostazione: al momento, è sufficiente evidenziare che lastessa trascura la portata veramente innovativa della normativa di settorerispetto alla normativa bancaria ed in genere alla tradizionale normativaimperativa in materia economica, portata innovativa consistente nell’introduzionedi precetti e di disposizioni, imperativi, dalla rilevanza civilistica,tale da penetrare all’interno dei tradizionali strumenti civilistici, trasformandoliprofondamente, senza restare all’esterno in una consueta visionepubblicistica.In tale ottica, la tutela civilistica del cliente – tale da finalizzare il comportamentodell’intermediario alla salvaguardia delle esigenze fondamentalimedie del cliente stesso – resta il valore fondamentale della normativa,rispetto a cui gli altri si pongono in termini di presupposto o di completamento.Prescindendo dall’esame in via generale dell’impostazione in questione,è da osservare che la stabilità, la competitività ed il buon funzionamentodel sistema finanziario, quali valori diversi dalla tutela delle ragioni contrattuali,ruotano intorno all’efficienza sia delle imprese sia del mercato, ritenutapresupposto essenziale della stessa tutela delle ragioni contrattualidegli investitori.Il concetto di efficienza è di natura economica ed operativa e non puòessere inteso nel senso anche di regolarità di comportamenti, valori questipropri dei settori pubblici: anche in materia economica la regolarità – lesa


362STUDI E RASSEGNEper antonomasia dai falsi – è un valore importante per impedire arbitrii, manon è provvista di tutela autonoma, richiedendo norme specifiche e particolari.Ne esce confermato che l’art. 95, comma 1º reg. Consob n. 11522/98non può che essere riferito alla correttezza intesa quale tutela delle ragionicontrattuali dei risparmiatori, inibendo le sole contraffazioni che comportinoabusi.Da un punto di vista intrinseco rispetto all’impostazione adottata,sipotrebbe obiettare che il concetto di abuso corre il rischio di rivelarsi troppolato e privo di pregnanza, in quanto le istruzioni del cliente possono esserea loro volta oggetto di attività non corretta e di manipolazione del promotore:ebbene, la contraffazione inficia la riferibilità della disposizione alcliente, con la conseguenza inevitabile che la conformità del risultato dellastessa alle istruzioni del cliente assicura tale riferibilità e fa venir meno lanatura illecita della contraffazione. La mancanza di correttezza del promotorenell’acquisizione di tali istruzioni costituisce illecito in relazione ad altredisposizioni normative e pertanto non rileva in relazione allacontraffazioneIn definitiva, le sanzioni di cui alla disciplina di settore ed in particolarela radiazione non sono in nessun modo applicabili, pur in caso di apposizionedi firme non conformi, ove manchi qualsivoglia forma di abuso adanno del cliente( 2 ).3. Un’analisi ulteriore da effettuare riguarda il rapporto tra la disciplinadi settore e quella penalistica generale che, come è noto, sanziona autonomamentela contraffazione ‘‘tout court’’: tale ulteriore analisi, ultronearispetto al quesito posto ed alla sua soluzione, che come visto, emerge intermini autosufficienti dalla disciplina di settore, è peraltro preziosa al finedi verificare se, una volta accertato che l’ipotesi in questione non costituisceuna violazione della normativa di settore che comporta l’applicazione dellaradiazione dall’albo e comunque anche delle altre sanzioni minori, la sussistenzadi un grave reato non fornisca spazio all’Autorità di Vigilanza perun’applicazione analogica delle sanzioni, applicazione analogica certamentenon legittima in base ai principi generali, ma che potrebbe rinvenire considerazioni(quanto meno) di opportunità.In tale ottica, l’orientamento dominante ravvisa il reato in presenza delsolo aspetto fattuale della sussistenza di firme non conformi o comunque,più in generale, di documenti non autentici, di per sé idonei a ledere la( 2 ) Sui valori protetti dalla normativa G. Minervini, Il controllo del mercato finanziario,inGiur.comm., 1992, I, pag. 5 segg.; B. Bianchi, Commento all’art. 5, in AA.VV., Commentarioal testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, a cura diG. Alpa e F. Capriglione, t. I, Padova, 1998, pag. 63 segg.


STUDI E RASSEGNE363pubblica fede, tutelata dalla normativa penalistica in esame: peraltro, secondoautorevole orientamento, anche se minoritario, l’apposizione di firmenon conformi che non consista in una lesione di interessi dell’interessatonon configura addirittura gli estremi della contraffazione ‘‘tout court’’.Si è infatti evidenziato che i reati di falso sono sì lesivi della pubblicafede ma non si realizzano per il solo espletamento di falsi, occorrendo anchela lesione di valori ed interessi sostanziali rilevanti dell’ordinamento diversidalla pubblica fede e che sono specificatamente protetti dalle singolenorme incriminatici dei falsi: in altri termini, si è rilevato che i reati di falsosono reati plurioffensivi, offensivi di diversi valori, con la conseguenza che,perché si concretizzi il reato, è necessaria la lesione dei diversi valori. Si èquindi concluso, in termini di rigorosa consequenzalità ,‘‘che è giuridicamenteirrilevante (e perciò non punibile) non solo il falso che non è idoneoad ingannare (il falso grossolano) ma anche il falso che non può ledere e neppuremettere in pericolo gli interessi specifici che trovano una garanzia nellagenuità e veridicità dei mezzi probatori’’( 3 ).Da parte dello stesso orientamento si è quindi aggiunto che ‘‘la punibilitàdebba essere negata per difetto dell’elemento soggettivo, tra l’altro neiseguenti casi che sono stati spesso prospettati nelle diverse opinioni svoltesi indottrina: a) taluno falsifica un ordine dell’Autorità per giocare ad alcune personeun pesce d’aprile; b) un individuo imita la firma esclusivamente per dimostrarela sua abilità calligrafica; c) un incisore riproduce una moneta per( 3 ) Le parole citate nel testo sono di F. Antolisei, Manuale di diritto <strong>penale</strong>. Partespeciale,II, sesta edizione aggiornata a cura di L. Conti, Milano, 2002, pag. 517; Id. Sull’essenzadei reati contro la fede pubblica, inRiv. it. dir. pen., 1951, pag. 625. In giurisprudenza,nello stesso senso, Cass., 10 dicembre 1963, in Giust., pen. , 1964, II, pag. 848; Cass. 9 giugno1965, in Giust. pen., 1965, II, pag. 1176; Cass. 30 ottobre 1968, in Giur. it., 1969, II,pag. 328; Cass. 21 marzo 1969, in Giust. pen., 1970, II, pag. 647; Cass. 8 ottobre 1970,in Giust. pen., 1971, II, pag. 850; Cass. 13 maggio 1987, in Riv. pen., 1987, pag. 303; spuntiin tal senso in Cass. 2 giugno 1999, in Rep. Foro it, 2000, n. 3;contra, Cass., 13 gennaio 1978,in Cass. pen., 1980, pag. 62; Cass., 18 giugno 1980, in Riv. pen., 1982, pag. 92; Cass., 15luglio 1981, in Riv. pen., 1982, pag. 528; Cass., 9 dicembre 1981, in Giust. pen., 1982,II,pag. 578; Cass., 22 giugno 1982, in Giust. pen., 1983, II, pag. 359; Cass., 29 aprile 1985,in Giur. it., 1986,II, pag. 191; Cass., 3 maggio 1985, in Giust. pen., 1986, II, pag. 425; Cass.,30 gennaio 1986, in Riv. pen., 1987, pag. 360; Cass., 17 aprile 1986, in Riv. pen. 1987, pag.267; Cass., 4 ottobre 1986, in Giur. it., 1988,II, pag. 334; Cass., 10 marzo 1987, in Riv. pen,1988, pag. 77; Cass., 18 dicembre 1987, in Riv. pen. , 1989, pag. 853; Cass., 3 novembre1988, in, Giur. it., 1990, II, pag. 100; Cass., 14 novembre 1989, in Cass. pen, 1991, I,pag. 779; Cass., 5 luglio 1990, in Cass. pen., 1994, pag. 1522; Cass., 27 settembre 1990,in Riv. pen., 1991, pag. 484; Cass., 7 ottobre 1992, in Mass. Cass. pen., 1993, fasc. 3, pag.41; Cass., 19 ottobre 1992, in Riv. pen., 1992, pag. 923; Cass., 24 marzo 1993, in Mass. Cass.pen., 1993, fasc. 12, pag. 10; Cass., 22 maggio 1998, n. 1051, in Cass. pen., 2000, pag. 287;Cass., 2 ottobre 1998, n. 11774, in Giust. pen., 1999, II, pag. 715; Cass., 19 novembre 1998,in Giust. pen. , 1999, II, pag. 460; Cass., 25 gennaio 2000, in Ced Cass., rv. 215582; Cass. 27novembre 2001, n. 28608, in Dir. giust., 2001, pag. 67.


364STUDI E RASSEGNEpuro fine di studio artistico; d) un industriale fabbrica senza autorizzazioneun piccolo quantitativo di carta filigranata a scopo di esperimento’’, ma taleultimo spunto non ha avuto seguito a livello giurisprudenziale( 4 ).Tale orientamento si rivela sul primo punto particolarmente plausibile –anche se come detto minoritario – e trova espresse conferme normative, solche si pensi che alcuni reati di falso sono perseguibili di ufficio (i falsi in attopubblico ed i falsi in scritture ed atti privati ove consistenti in testamenti olografi)ed altri no (tutti i falsi negli altri atti e falsi privati): la differenza nonpuò che essere fornita dalla natura, a seconda dei casi disponibile o no, degliinteressi e valori coinvolti ed ulteriori rispetto alla pubblica fede, la cui consistenza,identica in tutti i casi, non si rivela quindi intrinsecamente in gradodi spiegare la differenza di tutela, che deve in via di stretta consequenzialitàlogica trovare spiegazione al di fuori di essa, di modo che la natura di reatiplurioffensivi dei reati di falso sembra trovare pacifica conferma.Ad ulteriore approfondimento, la conferma normativa è solo apparentee proprio tale aspetto rappresenta il punto debole della teoria in esame,pur fondamentale: se la differenza essenziale di tutela e di repressione discendedagli interessi esterni alla pubblica fede, la conclusione indefettibileè che quest’ultima viene ad essere priva di tutela intrinseca. La categoriadei reati di falso viene quindi a presentarsi, con tale costruzione, quale privadi caratterizzazione.La stessa qualificazione della categoria quali reati plurioffensivi finiscecon l’essere messa in discussione , in quanto la pubblica fede da bene lesosi viene a trasformare in un criterio riassuntivo privo di precettività.La teoria in questione ha il merito di aver ancorato i reati di falso aduna rigorosa concezione di offensività, senza attestarsi su un piano di meraregolarità e di mero rispetto delle forme e della sacralità degli atti: in taleottica, la rilevanza degli altri valori ed interessi viene a ricevere, come visto,sì un’espressa conferma normativa, che peraltro inficia l’unitarietà stessa equindi l’identità della figura( 5 ).( 4 ) Le parole citate nel testo sono sempre di F. Antolisei, Manuale di diritto <strong>penale</strong>.Parte speciale, II, cit., pag. 520; anche Id., Sull’essenza dei reati contro la fede pubblica, cit.,pag. 625 segg., secondo cui il reato richiede una causa fraudandi, la quale non sussiste perantonomasia se il reato non è preordinato ad a arrecare un danno ad alti ed un vantaggioasé; A. De Marsico, Falsità in atti, inEnc. dir., vol. XVI, Milano, 1967, pag. 560 segg.,secondo cui il consenso dell’avente diritto scrimina soltanto i falsi che non siano pubblicio ad essi equiparati; la non punibilità di detta condotta deriva non soltanto dalla naturadel documento , ma dalla consapevolezza che l’agente abbia di agire in esecuzione della volontàdell’avente diritto; nello stesso senso Trib. Bologna, 10 aprile 1970, in Giur. merito,1970, pag. 128; contra, Cass., 8 ottobre 1986, in Riv. pen., 1987, pag. 781; Cass., 10 ottobre1997, in Ced. Cass., rv. 209271.( 5 ) Nello stesso senso dell’autorevole insegnamento di Antolisei vi sono F. Bricola, lproblema del falso consentito, inArch., pen., 1959, I, pag. 273 segg.; Id., Teoria generale delreato, inNovissimo Digesto Italiano, vol. XIX, Torino, 1974, pag. 7 segg.; A. Malinverni,


STUDI E RASSEGNE365Un tentativo di soluzione può essere rinvenuto solo da un’enucleazione– che si snodi in senso opposto a quello dominante – del concetto dipubblica fede.La pubblica fede, quale base della convivenza civile, è un mezzo necessarioper un ordinato andamento della vita di ogni giorno: la pubblica fedeè pertanto non un valore di per sé, ma un valore strumentale a quei valorisottostanti all’ordinato andamento della convivenza, non è meramente riassuntivodi tanti diversi valori da tutelare, ma è un valore specifico presuppostodi tali ultimi valori.La pubblica fede è lesa solo ove sono lesi gli interessi ed i valori sottostanti:la pubblica fede da valore sostanziale in sé diventa uno schema proceduraleatto ad assicurare la genuinità degli atti in via strumentale rispettoal perseguimento di valori sostanziali pubblici o privati che siano; l’imperativitàdello schema è limitata alla sua funzione testé descritta.La categoria dei reati di falso ritrova la propria unitarietà attorno allapubblica fede , senza che questa abbia un valore ipostatico del tutto insufficientea spiegare la differenza di tutela tra i vari reati.Viene così recuperata la parte più vitale dell’autorevole orientamentominoritario sopra visto, rivolto a non svincolare la categoria da un rigorosoricorso al concetto di offensività, assolutamente irrilevante ove la tutela del-Teoria del falso documentale, Milano, 1958, passim, che si incentrano sui reati di falso, qualireati plurioffensivi e, conseguentemente , non riconoscono rilevanza al consenso della partequando la genuinità èposta a tutela ed a garanzia anche degli interessi di un numero a prioriindeterminato di terzi., a meno che non vi sia detto consenso di terzi; A. Nappi, I delitticontro la fede pubblica, in AA.VV., Giurisprudenza sistematica del diritto <strong>penale</strong>, diretta daF. Bricola e G. Zabrezelsky, Codice <strong>penale</strong>, parte speciale, vol. I, Torino, 1984, pag. 563segg.; C. Pedrazzi, Il fine dell’azione delittuosa, inRiv. it. dir. pen., 1950, pag. 26 segg., secondocui l’agente deve rivolgere la falsità verso un risultato vantaggioso per sé e lesivo deglialtri, in modo da trascendere il fatto tipico e determinare la lesione del bene giuridico protetto;A. Proto, Il problema dell’antigiuridicità nel falso documentale, Palermo, 1951, passim,il quale, richiamandosi alla dottrina tedesca della spiritualizzazione del documento, ritieneche una scrittura sia genuina anche quando non provenga dall’autore apparente, sicchéil falso autorizzato non sarebbe mai punibile; U. Dinacci, Profili sistematici del falso documentale,Napoli, 1969, passim; Id., Dell’invalidità dell’atto nella teoria del falso punibile, inGiust. pen., 1984, II, pag. 258 segg.; Id., Bene giuridico e dolo nelle falsità documentali, inAA.VV., Riflessioni ed esperienze sui profili oggettivi e soggettivi della falsità documentali,a cura di Id. - G. Latagliata - L. Mazzo, Padova, 1986, pag. 27 segg., G. Zuccalà, Breviconsiderazioni sui delitti contro la fede pubblica, ivi, pag. 47 segg.; I. Giacona, Appunti intema di falso c.d. consentito e atti invalidi, inForo it., 1993, pag. 436 segg.; Id., Appuntiin tema di falso c.d. grossolano, innocuo e inutile, ivi, 1993, pag. 491 segg.; C. Fiore, L’azionesocialmente adeguata nel diritto <strong>penale</strong>, Napoli, 1966, passim; Id., Il falso autorizzato nonpunibile, inArch. pen, 1960, pag. 276 segg., secondo cui il bene giuridico serve per la determinazionedei termini dei divieto della norma <strong>penale</strong> ed opera come tale nella ricostruzionedel fatto penalmente rilevante; dopo l’individuazione dell’oggetto della tutela occorre appuntoaccertare i limiti normativi della protezione <strong>penale</strong> del bene attraverso l’esame dei caratteridella condotta e del valore dell’azione.


366STUDI E RASSEGNEla veridicità fosse del tutto indipendente rispetto alla lesione degli altri interessie valori sostanziali( 6 ): rispetto a quest’ultimo si opera peraltro il recuperoin termini non estrinseci ma intrinseci rispetto alla pubblica fede.La differenza con tale orientamento non è meramente nominale. Latutela della veridicità dei documenti quale mezzo per la tutela degli altrivalori e quindi la tutela dello schema procedurale assicurano che la lesionedi tali valori sostanziali sia accertata in via univoca, senza difficoltà probatorie(dovendosi altrimenti ricorrere alla sola truffa). Conseguentemente, lapubblica fede quale comprensiva di tali valori ed interessi sostanziali, nell’ancorarequesti ultimi a determinate forme ed a determinate procedure, èpregiudicata solo se questi ultimi stessi sono lesi con determinate modalità,mentre la loro lesione con altre modalità può configurare gli estremi di altriilleciti dalla valenza più generale (come detto, essenzialmente truffa).In tale ottica, una concezione rigorosamente strumentale delle forme e( 6 ) Sull’offensività e sul bene giuridico, senza pretesa di esaustività alcuna, G. Bettiol,L’odierno problema del bene giuridico, inArch. pen., 1959, I, pag. 273, secondo cuiil bene giuridico è indispensabile alla nozione di reato, perché senza la lesione del bene giuridicodella vita sociale è impossibile qualsiasi giudizio di antigiuridicità; G. Dahm, Der Methodenstreitin der heutigen Strafrechtswissenschaft, inSStW, 1938, pag. 233 segg.; T. Gallas,Zur Kritik del Lehre wom Verbrechen als Rechtsgutverletzung, inGegenwartsfragen derStrfrecthswissenshaft,1936, pag. 49 segg.; A. Pagliaro, Bene giuridico e interpretazione dellalegge <strong>penale</strong>, in AA.VV., Studi in onore di F. Antolisei, vol. II, Milano, 1994, pag. 394 segg.;F. Schaffstein, Verbreche als Pflichhtsverletzung, 1935,inZStW, vol. 57, pag. 301; Id., DerStreit um das Rechtsgutverletzungsdogma, inDt. Strafr,1937, pag. 335, che negano la validitàgiuridica del concetto di bene giuridico e la sua funzione per la delimitazione del fatto tipico;l’interpretazione teologica implicherebbe un circolo vizioso in quanto il fine sul quale occorrerebbeaccertare il contenuto della norma non potrebbe che ricavarsi dalla stessa norma; D.Santamaria, La condotta punibile, Milano, 1990, pag. 52, secondo cui il bene giuridico nonpuò essere l’unico criterio in cui un sistema <strong>penale</strong> ancorato al principio nullum crimen sinelege, infatti se il modello legale non contiene l’espressa descrizione di bene protetto, non perquesto viene meno il dovere dell’interprete di ricercarlo con l’interpretazione, H. Welzel,Uber den substantielle Begriff des Strafgesttzes, in AA.VV., Festschirft fur Kohlrausch, 1944,pag. 105 segg.; che si schiera contro il tradizionale valore del bene giuridico e per una concezionepersonale dell’illecito: non è la legge ad attribuire un significato ai dati della realtà inquanto essa non fa che registrare valori impliciti delle strutture ontologiche dell’esperienza.In giurisprudenza, fanno ricorso all’offensività Corte Cost., 11 luglio 2000, n. 263, in Cass.pen., 2000, pag. 2951; Corte Cost., 21 novembre 2000, n. 519, in Cass. pen. , 2001, pag.2015; Cass., 8 aprile 1998, n. 7551, in Cass. pen., 1998, pag. 3219; Cass., 17 aprile 1998,n. 8612, in Cass. pen, 1999, pag. 2368; Cass., 18 giugno 1998, n. 1943, in Fisco, 1999,pag. 382; Cass., 22 ottobre 1998, n. 12936, in Riv. pen., 1999, pag. 274; Cass.,10 dicembre1998, n. 845, in Ced Cassazione, 2000; Cass., 26 novembre 1999, n. 2733, in Riv. pen., 2000,pag. 282; Cass., sez. un., 21 giugno 2000, n. 17, in Cass. pen., 2001, pag. 69; Cass., 6 luglio2000, n.9984, in Cass. pen., 2001, pag. 2529; Cass., 21 dicembre 2000, n. 6925, in CedCassazione,2001, rv 218282; Cass., 15 gennaio 2001, n. 35, in Dir. prat. trib., 2001, II, pag. 718;Cass., 5 marzo 2001, n. 16041, in Riv. pen., 2001, pag. 637; Cass.,12 novembre 2001, n. 564,in CedCassazione, 2002, rv220448; contra, Cass., 9 marzo 1999, n. 5044, in Giur. imp., 1999,pag. 718.


STUDI E RASSEGNE367delle procedure rispetto agli interessi sostanziali comporta che la veridicitàe l’autenticità degli atti costituiscono elementi di certezza per la tutela diquei valori sostanziali,intorno a cui ruota la categoria dei falsi: contrariamentea quanto sostenuto dall’autorevole orientamento minoritario di cuisopra, l’elemento soggettivo del reato sussiste, anche se relativo alla sola veridicitàed all’autenticità degli atti e non ai valori ed agli interessi sostanziali,sol che si verifichi – pur non voluta – la lesione di tali valori ed interessi –proprio per il collegamento indissolubile tra di loro sia pur nel senso distrumentalità dei primi ai secondi. In altri termini, la lesione degli interessie valori sostanziali rappresenta una condizione obiettiva di punibilità, conl’ulteriore corollario che la lesione della strumentalità dell’autenticità e dellaveridicità degli atti comporta un’inversione dei profili probatori.Quale ulteriore elemento di differenziazione, quello che rileva è rappresentato(secondo l’autorevole orientamento minoritario) dall’astrattaidoneità alla lesione o no degli interessi sostanziali, mentre secondo quantoqui evidenziato dalla concreta lesione o no degli interessi e dei valori sostanziali.La mancanza dell’abuso si realizza solo in presenza di concreta ed univocariferibilità dell’atto all’autore, dal che discende ulteriormente che laconsapevolezza effettiva del volere (dell’autore) è l’unico vero elementoche comporta, in presenza di un falso, il mancato ricorrere degli estremidel reato( 7 ).Per inciso, per completezza, i casi di falso innocuo non configurano gliestremi del reato per mancata lesione della pubblica fede in una concretaottica di offensività, immanente a reati di falso.Chiuso l’inciso, in virtù dei due elementi sopra esposti, l’abuso e la suamancanza trovano quindi una portata univoca e dalla caratterizzazioneesclusiva.La portata dell’autenticità e della veridicità degli atti e dei documentiquali elementi atti a comportare l’inversione della prova fa sì che i reati difalso si contraddistinguono per la tutela della certezza dei rapporti giuridiciche si rivela meramente strumentale rispetto ai valori sostanziali, mentre l’identificazionedell’elemento esclusivo del reato nell’effettività della riferibilitàdell’atto all’autore mostra i limiti della tutela <strong>penale</strong> della certezza, limitiche sembrano invero estremamente circoscritti viste le difficoltà di unaricostruzione effettiva di una situazione immateriale quale l’effettiva riferibilitàdi un atto falso o comunque dalla firma falsa.Nel sistema penalistico la mancanza di lesione della pubblica fede inpresenza di un falso materiale si rivela un’ipotesi non realistica ed eccezio-( 7 ) L’offensività richiede quindi una effettiva verifica della concretezza del bene giuridico:in senso critico, M. Romano, Commentario sistematico del codice <strong>penale</strong>, vol. I, Milano,1987, pag. 434 segg.


368STUDI E RASSEGNEnale. Ciò in quanto la riferibilità effettiva dell’atto all’autore incontra deilimiti probatori difficilmente superabili.A monte, la riferibilità effettiva dell’atto all’autore viene ad essere rimessa,nel sistema civilistico, alla dialettica processuale tra le parti.Il discorso si rovescia del tutto nella disciplina del mercato finanziario,in cui l’accertamento dell’effettività dei rapporti – qual riconducibili allaconsapevolezza delle scelte di investimento del cliente, sopra citato art.28, 2ºcomma, reg. Consob n. 11522/98 – è l’aspetto essenziale: di qui laresidualità della figura della lesione della pubblica fede in un ambito incui l’ordinamento è rivolto ad assicurare in altro modo tale effettività, residualitàconsistente nel rappresentare una valvola di chiusura, pronta ascattare in mancanza di accertamenti sostanziali, accertamenti sostanzialiche rappresentano il fulcro della disciplina( 8 ).Per trarre le fila del discorso, la lesione della pubblica fede rappresentaquindi l’ipotesi di lesione della riferibilità dell’atto alla volontà dell’interessatoche discende da un falso materiale: il rapporto che ne consegue tra irregolaritàed abuso è rilevante,consistente nella circostanza che il mancatorispetto delle forme e delle procedure comporta un’inversione della prova,ma non la violazione. La procedura trova il limite nella prova effettiva dellasussistenza degli estremi, mentre questa si rivela illimitata e quindi la certezzadovrebbe rivestire esclusivamente un valore residuale. Alla luce delleproblematiche di ordine probatorio, tale valore apparentemente residualesi trasforma in valore centrale, con l’esclusione della materia del mercatomobiliare( 9 ).In premessa, è d’interesse notare che i reati di falsi materiali in scrittureprivati, quali i casi oggetto delle presenti note, sono punibili a querela –anche gli assegni sono scritture private a tutti gli effetti tranne che per l’entitàdella pena, art. 491 c.p. – e quindi la tutela della riferibilità dell’attoall’interessato non è imperativa,mentre le conclusioni cambiano per la riferibilitàdell’operazione all’interessato, vista l’inderogabilità della disciplinadel mercato mobiliare – in via generale art. 23, 6º comma, d. lgs. n. 58/98 –: nel concreto, tale inderogabilità ruota intorno all’esigenza di assicurareche il risparmiatore sia posto, come visto, in condizione di effettuare‘‘consapevoli scelte di investimento o disinvestimento’’ (art. 28, 2º comma,reg. Consob n. 11522/98, già citato), con la presenza di controlli pubblicirigorosi.In tale ottica, i profili probatori vengono rimessi ad un procedimento( 8 ) Sul punto, in via generale, M. Salvatore, Servizi di investimento e responsabilitàcivile, Milano, 2004, passim.( 9 ) Sui profili probatori in materia penalistica, proprio nelle attività sui mercati mobiliari,F. Sgubbi, Il risparmio come oggetto di tutela <strong>penale</strong>, inGiur. comm., 2005, I, pag. 340ss.


STUDI E RASSEGNE369amministrativo caratterizzato da celerità e immediatezza idonei a ridurne laportata: la certezza esce confermata nel settore finanziario quale valore deltutto residuale.In definitiva, se nessun interesse apprezzabile dell’interessato – rappresentatonel caso di falsificazione di firme dal soggetto la cui firma vieneresa da altro soggetto – viene leso, il reato di falso in scrittura privata nonsussiste. Nel caso oggetto delle presenti note, tale ipotesi di mancata lesionedei interessi apprezzabili dell’interessato sussiste ogniqualvolta la falsificazionevenga posta in essere dal promotore per realizzare l’operazione neitermini disposti dal cliente o comunque l’operazione stessa si riveli conformealla volontà inequivoca proprio del cliente.Ad ulteriore approfondimento, tale volontà inequivoca del cliente puòanche non essere espressa e ci si riferisce alla mancanza di impugnativa dell’operazioneda parte del cliente: anche se non si è verificata prescrizione odecadenza dell’impugnativa dello stesso cliente – ed ogni previsione contrattualein tal senso non può non rivelarsi irrimediabilmente inefficace –, l’accettazione dell’operazione non può non essere univocamente ricavatadalla mancata impugnativa di operazioni ripetute dello stesso tipo, mancataimpugnativa che, proprio perché non casuale ma riferibile alla volontà consapevoledel cliente, nient’altro significa che conferma pacifica delle stesseoperazioni (ciò può avere riflessi anche sul piano civilistico, con conseguentevalidità degli atti e delle operazioni)( 10 ).4. Si possono riassumere le conclusioni di cui ai precedenti paragrafi,vale a dire che l’apposizione di firme non conformi a quelle del cliente, inmancanza di abuso a danno del cliente:a) non configura gli estremi della violazione della norma di settore;b) non configura gli estremi del falso ‘‘tout court’’ ed in particolare:manca la lesione degli interessi specifici protetti dalle singole normepenali od addirittura secondo l’opinione più radicale sopra espressa mancala lesione della pubblica fede; il mancato accoglimento che l’orientamentoqui condiviso incontra in giurisprudenza si presume possa essere superatomediante una enucleazione del concetto di pubblica fede conforme a criteririgorosamente ruotanti intorno al valore centrale dell’offensività;c) addirittura la mancanza di abuso non coincide in nessun modo conil consenso dell’avente diritto; il consenso dell’avente diritto – che purescluderebbe il reato in quanto i reati in questione suono punibili a querela– non ha rilievo in quanto nel settore finanziario la disciplina è inderogabile,con la conseguente imperatività della riferibilità dell’operazione alla( 10 ) In via generale si rimanda a M. Romano, Commentario sistematico del codice <strong>penale</strong>,vol. I, cit., pag. 434 segg.


370STUDI E RASSEGNEvolontà dell’interessato; il consenso dell’interessato in mancanza di riferibilitàdell’operazione all’interessato non ha rilievo proprio per la mancanza diderogabilità della nostra materia; per la mancanza di formalismi, la riferibilitàdell’operazione può peraltro emergere in maniera non solo espressama in termini anche impliciti (per esempio mancata impugnativa sistematicadi più operazioni dello stesso segno) e quindi viene meno anche la possibilitàper il cliente, una volta che le operazioni manifestino un segno economiconegativo, di rivalersi in via civilistica nei confronti del promotore (equindi anche dell’intermediario responsabile in via oggettiva per gli abusidel promotore, art. 31, 3º comma, d. lgs. n. 58/98).Il caso in questione presenta un interesse che trascende la sua portatapratica, pur ragguardevole, in quanto nella sempre più capillare e stringenteregolamentazione dell’economia si prescrivono precetti, tesi non solo a salvaguardarecorrettezza e diligenza, ma anche regolarità dei comportamenti,vale a dire rispondenza ad ordine e certezza secondo criteri predefiniti, ancheindipendentemente dal perseguimento di interessi e valori sostanziali: laregolarità viene correttamente ritenuta precondizione dei valori sostanzialitestè citati, questi ultimi solo espressamente citati, a differenza della stessaregolarità data per presupposta e quindi tutelata in termini non sempreesaustivi, vale a dire con sanzioni dettate solo per alcuni casi espressi di violazionima senza norme generali di chiusura proprio a causa di tale mancataespressa definizione e delle conseguenti difficoltà nella sua elaborazione ericostruzione; di qui la necessità di provvedere a tale elaborazione e ricostruzionedella portata della regolarità e delle sue violazioni( 11 ).La regolarità dei comportamenti è una precondizione essenziale dicorrettezza e diligenza, per antonomasia insussistenti in sua assenza inquanto solo comportamenti regolari forniscono certezza dei rapporti e predefinizionedi assenza e quindi elimina l’arbitrio dell’intermediario o comunquepone le condizioni per una riduzione di tale arbitrio entro limitiangusti: e non è un caso che la normativa fornisca sempre maggiore importanzaall’organizzazione, vale a dire non solo all’attività dell’impresa e piùin genere ai rapporti con i terzi, ma anche al momento interno della vitad’impresa, vale a dire a quella fase in cui si predispongono i mezzi e lestrutture e le procedure dell’impresa stressa. La regolarità èun valore fondamentaledell’attività d’impresa, ancorché privo di contenuto sostanziale.Comportamenti irregolari su aspetti essenziali dell’attività – e la falsità dei( 11 ) Che l’approvazione tacita prevista dai contratti bancari in caso di mancata impugnazionedelle operazioni riportate negli estratti conto sia efficace per l’annotazione sul contonella sua consistenza e realtà effettuale, ma non per la validità e l’efficacia giuridica degliatti e/o dei rapporti dai quali l’annotazione scaturisce, è pacifico in giurisprudenza, per tutte,v. Cass., 11 settembre 1998, n. 9897, in Arch. civ.,1997, pag. 1198.; Cass., 14 maggio 1998, n.1486, ined.


STUDI E RASSEGNE371documenti dei clienti è certamente un’irregolarità che attiene ad aspetti essenzialidell’attività – hanno in sé gli estremi, a livello potenziale, di graviviolazioni. Peraltro, la possibilità dell’arbitrio che deriva da siffatte irregolaritànon necessariamente si traduce in effettività di arbitrio: un disordineimprenditoriale può anche accompagnarsi ad una situazione di buona fede,senza lesione di interessi sostanziali. Pertanto, le irregolarità attinenti a profiliessenziali, in presenza di lesione di interessi sostanziali ed in nesso purpotenziale con questa, rendono le violazioni attinenti a tali ultimi lesioninon solo gravi ma anche prive di ogni esimente e comunque frutto di undisegno imprenditoriale illecito. Il disegno imprenditoriale non può esserecircoscritto alla fissazione delle strategie, venendo necessariamente a comprendereanche la predisposizione dei relativi mezzi: ed infatti l’impresa èun’organizzazione caratterizzata dalla necessità dell’efficienza economica,vale a dire dall’ottimizzazione dei mezzi in funzione dei fini.In assenza di lesione di interessi sostanziali, le irregolarità attinenti adaspetti essenziali non hanno realizzato la potenzialità di gravi violazioni cheesse in nuce indubitabilmente contengono – sia pur a livello solo astratto enon concreto –, con la conseguenza indefettibile che richiedono sì repressionema non <strong>penale</strong> e, in campo amministrativo, non interdittivo dell’eserciziodell’attività. Aperto e chiuso l’inciso, nella stessa ottica, le irregolaritàche non configurano gli estremi della lesione degli interessi sostanziali sonotali da non dover essere sanzionate nemmeno in sede civilistica( 12 ).Conseguentemente, nella normativa penalistica, nella quale sono ammissibilii reati di solo pericolo, i reati – con la pena della reclusione –per le sole irregolarità sono prospettabili esclusivamente dove l’ordine pregiudicatoè strumentale, anche in via potenziale ma secondo criteri di ragionevolezzae di rigorosa effettività, a valori costituzionali: occorre quindi,non solo che ad essere – anche potenzialmente – pregiudicato sia effettivamentel’ordine sociale e non un mero ordine materiale e comunque dallavalenza non essenziale per la società, ma anche che il pericolo ai valori costituzionaliprotetti dall’ordine sociale sia posto in termini di stretta dipendenzadalla violazione dei precetti; la falsità di documenti se non inficia la( 12 ) Sulla validità, da un punto civilistico, degli atti e delle operazioni, è pacifico che lanullità del contratto per la mancanza della forma scritta di cui all’art. 23 d. lgs. n. 58/98, valesolo per il contratto quadro iniziale e non per i contratti relativi ai singoli atti ed alle singoleoperazioni (Trib. Milano, 24 maggio 2005, ined., ha correttamente ritenuto che per i singoliatti e le singole operazioni la forma scritta abbia valenza probatoria e che in mancanza diforma scritta la forma possa essere raggiunta anche ‘‘aliunde’’; v. anche Trib. Milano, 20maggio 1995, ined.; Cass., 7 settembre 2001, n. 11495; Trib. Venezia, 22 novembre 2004;Id., 8 giugno 2005; Id., 7 luglio 2005; Trib. Monza, 7 marzo 2005; Trib. Milano, 24 maggio2005; Id., 25 luglio 2005; Trib. Genova, 2 agosto 2005; Consob, Comunicazione del 3 agosto2005, n. 5055217.


372STUDI E RASSEGNEconformità dell’operazione all’interesse del soggetto protetto non realizzauna di queste ipotesi( 13 ).D’altro canto, nella normativa di settore, le irregolarità sono reputabiligravi violazioni solo nel caso in cui il pericolo di violazione degli altri valorisostanziali sia effettivo e tale violazione possa essere esclusa solo da fattorieccezionali ed imprevedibili: in altri termini, occorre che l’irregolarità costituiscanel concreto un’anticamera della violazione dei valori sostanzialied anche in tale situazione la falsità di documenti conforme all’interessedel soggetto protetto non rientra.Conseguentemente, in un’ottica di politica del diritto tesa a salvaguardarela regolarità dei comportamenti degli operatori economici, al fine diuna valorizzazione dell’adeguatezza dell’organizzazione di impresa (in cuii promotori quali agenti – al contratto di agenzia si ricorre per lo più nellaprassi, anche se la norma prevede anche il contratto di lavoro dipendenteed il mandato, art. 31, 2º comma, d. lgs. n. 58/98 – e quindi lavoratori autonomima dalla prestazione continuativa e sottoposti a penetranti controlli,art. 21, 1º comma, lett. d, d. lgs. n. 58/98, svolgono un ruolo rilevante),emerge l’opportunità di introdurre nella normativa di settore una normache per le irregolarità non secondarie e che non rappresentino gravi violazioni,quale quella in esame, in via di proposta definibili ‘‘ipotesi di violazionidi altre norme che si rivelino oggettivamente idonee a ledere gravementel’ordinato andamento dell’attività’’, preveda l’afflizione di (anche molto)pesanti sanzioni pecuniarie, evitando altre sanzioni( 14 ).Francesco Bochicchio( 13 ) Sull’importanza dei profili organizzativi (ruotanti introno alla regolarità) qualemezzo indispensabile per la valorizzazione di quelli comportamentali (ruotanti intorno allacorrettezza, professionalità e trasparenza), F. Santi, La responsabilità delle società e degli enti,Milano,2004, passim (sulla responsabilità amministrativa delle imprese – per la c.d. ‘‘colpada organizzazione’’ – conseguente a responsabilità <strong>penale</strong> dei propri esponenti di cui al d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 ‘‘Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche,delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’art.11 ,legge 29 settembre 2000, n. 300’’), nonché, in via generale, M. Rabitti, Rischio organizzativoe responsabilità degli amministratori, Milano, 2004, passim.( 14 ) Sulla distinzione tra i due profili, contra, in via generale, F. Capriglione, L’impresabancaria tra controllo ed autonomia, Milano, 1983, passim.


STUDI E RASSEGNE373NOTITIAE CRIMINIS, BANCA D’ITALIAED AUTORITÀ GIUDIZIARIA§ 1. L’informazione nel mercato finanziario.‘‘L’intermediazione finanziaria è importante non solo perché maneggiadenaro, ma anche e soprattutto perché maneggia informazioni’’( 1 ).Nel volubile e tormentato panorama che offrono i mercati finanziarinon sono molti i punti di riferimento certi. Uno di questi, però,èil comunericonoscimento che riveste l’informazione per il corretto funzionamento ditali mercati.Il mercato finanziario prima di essere un luogo di scambio di valorieconomici è innanzitutto un luogo ove si scambiano informazioni poichégli operatori finanziari basano le proprie scelte di mercato sulle informazioniin proprio possesso; e condizioni in grado di garantire l’efficienzadel mercato, ovvero la capacità dell’ambiente operativo di riflettere rapidamentei prezzi e le informazioni riguardanti i titoli quotati in esso sono,dalla dottrina economica, individuati nella concorrenza perfetta tra gli operatori,nella diffusione immediata e gratuita delle informazioni, nel rapidoadeguamento dei prezzi in occasione di nuove informazioni( 2 ).Considerato il mercato finanziario come l’insieme di ‘‘tutte le negoziazioniaventi ad oggetto attività e passività finanziarie, indipendentementedalle caratteristiche di queste ultime, ricomprendendovi quindi anche lenegoziazioni degli strumenti monetari e riconducendo nell’ambito delleoperazioni dello stesso tutte le operazioni che sono poste in essere per tra-( 1 ) Flick, Criminalità economica e criminalità organizzata: profili giuridici, inNote amargine della Questione Europea, suppl. al nº 4 della Rassegna dell’Arma dei Carabinieri,1992, 43. Dello stesso Autore, sull’argomento: Informazione bancaria e giudice <strong>penale</strong>: presuppostidi disciplina. Problemi e prospettive, inBanca Borsa e Titoli di credito, 1988,I, 441 ss.( 2 ) ‘‘Il rilievo del tutto particolare che la nuova legislazione finanziaria, ed in particolarequella bancaria, assegna alla c.d. ‘‘trasparenza’’ non deve sorprendere. Tra le molte coseche servono per privatizzare l’economia in un Paese due sono indispensabili. Primo: ci vuoleuna borsa efficiente, trasparente, liquida. Secondo: ci vuole un sistema bancario con le stessecaratteristiche’’. Patalano, Reati e illeciti nel diritto bancario, Torino, 2003, 9.


374STUDI E RASSEGNEsferire e trasformare mezzi finanziari dai settori in avanzo ai settori in disavanzo’’(3 ), rileva ictu oculi il ruolo di rilievo rivestito dall’informazione, l’esigenzadi informazione per la competitività.Le regole sulle informazioni non sono prodotti spontanei del mercato.Nel mercato gli operatori forniscono solo le informazioni che ritengonoutili, mantenendo il segreto su ciò che stimano utile non comunicare eche spesso è indispensabile per la controparte. L’imposizione di obblighidi informare sono di derivazione pubblica, ‘‘la macchina pubblica partecipaal flusso di informazioni mediante la regolazione che può imporre asoggetti privati e a soggetti pubblici di fornire dati ed informazioni. Inquesto modo il mercato viene regolato dal potere pubblico in quanto la tutelae la regolazione dell’informazione gli vengono imposte in modi diversi,in relazione ai diversi mercati, diversamente segmentati e regolati’’( 4 ).Le diverse norme predisposte dal legislatore sono finalizzate a garantireforme di trasparenza, giustificate dalle peculiarità delle operazioni economicheche avvengono nell’ambito dello stesso mercato finanziario e riguardanosia i flussi informativi che debbono assicurare la trasparenza deglioperatori nei confronti degli organi di vigilanza preposti al settore( 5 ), sia ilflusso delle informazioni che gli operatori debbono fornire al pubblico conriferimento alla propria attività( 6 ), sia i flussi d’informazione che vanno dai( 3 ) Definizione fornita da: Costi, Informazione e mercato, inBanca Impresa e Società,1989, 206. Per Bessone (Mercato finanziario e regole di vigilanza – Le grandi linee del sistemae i problemi della net economy, inGiur. Merito, 2001, IV, 1467) ‘‘nel linguaggio del legislatoredella materia finanziaria, mercato è un assetto organizzativo che favorisce l’incontro tradomanda ed offerta di valori mobiliari, assicura efficienza ed osservanza di regole alle transazioniche ne determinano lo scambio, provvede ai servizi occorrenti per lo svolgimento delleattività di mercato e precostituisce garanzie di tutela dei diritti di quanti sul mercato operano.Garanzie di tutela che per gli investitori devono presentare tutta la consistenza stabilitadalla norma dell’art. 47 Cost., ove al «risparmio in tutte le sue forme» si assicura doverosaprotezione’’.( 4 ) Predieri, Lo Stato come riduttore di asimmetrie informative nella regolazione deimercati, in AA.VV., Mercato finanziario e disciplina <strong>penale</strong>, Milano, 1993, 69.( 5 ) La Banca d’Italia che ha il potere di conoscere qualunque dato relativo alle impresebancarie ed alle loro operazioni; l’Isvap che ha il potere di acquisire qualunque informazionedalle compagnie d’assicurazione, sia sulla loro attività, sia sulle loro operazioni ed infine laConsob che può chiedere notizie concernenti gli emittenti o gli intermediari operanti suimercati ufficiali o inseriti in operazioni di sollecitazione del pubblico risparmio. Questi poteridi conoscenza si espandono nelle ipotesi di vigilanza consolidata anche ad operatori istituzionalmentesottratti al potere di controllo dei diversi organi di vigilanza, ed è, altresì, legislativamenteprevisto che le diverse autorità debbano coordinarsi nello svolgimento dellaloro attività laddove questa presenti elementi in comune.( 6 ) Anche con riferimento alle informazioni destinate al pubblico gli ordinamenti delmercato finanziario prevedono l’obbligo di una trasparenza maggiore di quella impostadal diritto comune; non solo, normalmente si stabilisce il controllo da parte di un organopubblico, o comunque da parte di un organo esterno, sulla completezza e sulla veridicità dell’informazionerichiesta.


STUDI E RASSEGNE375soci verso la società, sia, infine, le forme di circolazione delle informazionitransnazionali che introducono forme di coordinamento tra gli organi divigilanza dei vari settori del mercato stesso, e le informazioni che debbonoessere comunicate all’autorità giudiziaria o che da questa debbono essereindirizzate agli organi di controllo del settore.Trasparenza rafforzata, dunque, la cui esigenza deve essere individuata,principalmente, nel carattere dei beni scambiati sul mercato finanziarioe nella rilevanza dello stesso per lo sviluppo delle economie di mercato(7 ).La ‘‘razionalità dell’operatore economico’’ richiamata come postulatoin molte teorie economiche e che presuppone il possesso di un bagaglio informativoidoneo a consentire scelte consapevoli, trova la sua necessaria valorizzazionein questo ambito: se è vero che la conoscenza dei beni che vengonotrattati su di un mercato è indispensabile per consentire comportamentirazionali e quindi per garantire l’allocazione ottimale delle risorse,nell’ambito del mercato finanziario la necessità di garantire la conoscenzadegli oggetti negoziati impone un grado di trasparenza che risulta superfluonei mercati nei quali i beni hanno una loro definizione fisica percepibileindipendentemente dalle informazioni fornite dal produttore o dal negoziatoredel bene stesso( 8 ). ‘‘In un mercato nel quale i prodotti in venditanon si pesano, non si toccano, non si assaggiano, non si apprezzano con losguardo, ma il cui valore è in larga misura dipendente da vicende e prospettivesottostanti, è chiaro che solo chi è correttamente informato è incondizione di perseguire e tutelare razionalmente i propri interessi’’( 9 ).‘‘Alcuni snodi della dinamica «risparmiatore – offerta – investimento»appaiono luoghi ideali per le «imboscate» alla disponibilità dei risparmiatori’’(10 ). In questa prospettiva, pertanto, si richiede un’adeguata protezionenon solo garantendo la stabilità e l’affidabilità patrimoniale del soggettoche riceve il risparmio da gestire, ma anche prestando maggiore tutelaed attenzione in due momenti fondamentali: il momento del formarsi delladecisione di investire ed il momento della gestione del risparmio investito.Un altro motivo che caratterizza i mercati finanziari per la necessità diunparticolare grado d’informazione è costituito dal fatto che sugli stessi siscambiano beni presenti con la promessa di beni futuri, la cui concreta esi-( 7 ) In questo senso: Costi, Informazione e mercato, cit., 208; ultra: Ragusa Maggiore,La trasparenza ed il mercato del credito, inDir. Fall., 1989, I, 145 ss.( 8 ) La negoziazione avente ad oggetto la compravendita di un’automobile, ad esempio,postula una individuazione abbastanza precisa dell’oggetto del contratto; la definizione dellostesso, comunque, non è rimessa al contenuto di un contratto.( 9 ) Rordorf, Importanza e limiti dell’informazione nei mercati finanziari, inGiur.Comm., 2002, I, 773.( 10 ) Alessandri, Offerta di investimenti finanziari e tutela del risparmiatore, inAA.VV., Mercato finanziario e disciplina <strong>penale</strong>, cit., 205.


376STUDI E RASSEGNEstenza può essere esposta a vicende non controllabili da colui che acquistail prodotto finanziario e che dipendono in larga misura da colui che prometteil bene futuro. Di qui l’importanza di conoscere, nella massima misurapossibile, le vicende soggettive dell’ente che ha emesso il prodotto finanziarioe più in generale le circostanze che possono incidere sull’esistenzae sulla consistenza del bene futuro oggetto di negoziazione.L’interesse all’esistenza di un mercato finanziario efficiente ma stabile,la circostanza che lo stesso sia un mercato del risparmio diffuso sul quale simuovono i grandi flussi di risparmio che dipartendosi dai settori di avanzoe procedendo verso i settori in disavanzo consentono il finanziamento dell’interosistema economico, la natura dei beni scambiati, rendono dunqueragione della peculiarità della trasparenza esistente sugli stessi sia verso ilpubblico, sia verso gli organi di controllo.‘‘La stessa esistenza di un libero mercato ha il suo presupposto nelleistituzioni in cui si consolida la libertà individuale nelle sue estrinsecazionieconomiche: non è pensabile senza una tutela del patrimonio individuale,nel duplice senso di protezione della libertà di godimento contro aggressioniesterne e di protezione della libertà di disposizione contro condizionamentiriferibili a violenza, a frode, ad abuso di situazioni di inferioritàpsichica o di bisogno. A livello di sistema – di mercato – lo statuto di libertànon equivale a vuoto di disciplina, anzi postula una difesa contro turbativecapaci di sconvolgere le regole del gioco’’( 11 ).Molto brevemente, per quanto concerne in particolare il sistema bancario,si può anticipare che le norme dedicate alla trasparenza sono organizzateessenzialmente attorno a quattro filoni( 12 ):( 11 ) Pedrazzi, voce Mercati finanziari (disciplina <strong>penale</strong>), inDig. Disc. Pen., vol. VII,Torino, 1993, 653.( 12 ) L’informazione è un concetto che attualmente ha superato i limiti della tradizionaledestinazione agli azionisti, per dirigersi al pubblico ed al mercato. Ma non tutta la tematicadell’informazione va iscritta nell’ambito della tutela del risparmiatore. Una parte consistentedel flusso informativo è diretta anche agli organi di controllo, oltre ad esservene unaparte che mira a realizzare una trasparenza finalizzata ad impedire la penetrazione della criminalitàorganizzata nel mercato finanziario. Infatti, gli obiettivi perseguiti dal legislatore mediantel’intervento, anche attraverso sanzione <strong>penale</strong>, nell’ambito dell’economia possono essereindividuati nella: trasparenza, efficienza, legalità. Tali obiettivi trovano una coincidenza eparziale sovrapposizione con quelli tipici della lotta alla criminalità organizzata ed al riciclaggio.Il perseguimento dell’obiettivo della trasparenza aumenta la probabilità per l’organizzazionecriminale di essere scoperta e si risolve, perciò, in una controspinta alla stessa spintacriminogena verso il profitto illecito, nella logica di un bilanciamento tra costi e beneficidi quest’ultimo in chiave di impunità. In una prospettiva economica (prima ancora che giuridica)l’obiettivo della trasparenza si risolve in una garanzia di par condicio per i diversi operatoridel settore, ancorando ad esso gli ulteriori e complementari obiettivi dell’efficienza edella concorrenzialità del mercato ed altresì della legalità: ciò dovrebbe valere, infatti, ad evitarela soccombenza dell’impresa ‘‘onesta’’ (con costi ovviamente più elevati) rispetto all’impresa‘‘mafiosa’’. In argomento, ultra: Castaldo, Tecniche di tutela e di intervento nel nuovo


STUDI E RASSEGNE377– trasparenza degli enti creditizi verso la Banca d’Italia;– trasparenza degli enti creditizi verso gli altri enti creditizi;– trasparenza dei prenditori di credito verso gli enti creditizi;– trasparenza degli enti creditizi verso prenditori di credito e depositanti.La maggiore disponibilità di informazioni pone, infatti, il mercato incondizione di esercitare un controllo sull’efficienza e sulla redditività degliintermediari, incentiva un corretto svolgimento dei processi concorrenziali,accentua l’esigenza di efficaci norme di autocontrollo aziendale nelle stessebanche.‘‘La definitiva affermazione della concorrenza quale regime di mercatoottimale per l’esercizio dell’attività imprenditoriale bancaria e le più ampiepossibilità di ricorso al mercato dei capitali che la nuova cornice regolamentareriserva alle banche hanno rafforzato la domanda di informazioniadeguate sulla situazione economica, patrimoniale e finanziaria degli intermediari’’(13 ).Mentre la trasparenza verso la Banca d’Italia è totale e mira a consentirel’esercizio delle funzioni di vigilanza sulla stabilità degli enti e di custodedella liquidità del sistema, la seconda forma di trasparenza si concretizzanel servizio della Centrale dei rischi e nella prassi delle informazioniinterbancarie; lo scopo perseguito da questo circuito interno è sempre lastabilità del sistema creditizio( 14 ).Il principio di correttezza è l’ispiratore degli obblighi di trasparenzadei prenditori di credito verso gli enti creditizi; tale principio, al quale debbonoin generale attenersi le parti, trova in questo campo un’attuazione rigorosa,ponendo al contraente l’obbligo, non previsto dal diritto comune,di svelare integralmente alla controparte le proprie condizioni economicopatrimoniali(15 ).diritto <strong>penale</strong> bancario,inRiv. Trim. Dir. Pen. Econ., 1994, 401 ss.; Bosco-Sanarighi, L’infiltrazionedel crimine organizzato nell’economia legale, inRiv. G. di F., 2000, 2353 ss.( 13 ) Trequattrini, Vigilanza informativa, in AA.VV., La nuova legge bancaria, vol. II,Milano, 1996, 777.( 14 ) La centrale dei rischi è diretta a consentire agli intermediari finanziari il possessodi tutte le informazioni necessarie relative ai singoli clienti per una corretta erogazione delcredito, essenziale al fine di assicurare la stabilità del sistema creditizio. I dati nominativi trattatidalla centrale dei rischi presso la Banca d’Italia hanno carattere riservato e sono sottrattiall’accesso dei privati in quanto la loro gestione è riconducibile all’attività di vigilanza dellastessa Banca d’Italia e, in quanto tale, rientrante nel disposto dell’art. 7 T.U. In argomento:Consiglio di Stato, sez. VI, 7 ottobre-10 novembre 2004 nº 7277, in Guida al Diritto, nº 48/2004, 96 ss.( 15 ) Le diverse forme di trasparenza, pur nella loro rapida rassegna, mostrano il comunescopo di presidiare la correttezza e completezza dell’informazione, sul presupposto chequesta sia idonea a consentire una compiuta valutazione della bontà dell’investimento proposto,dei livelli di rischio che presenta, ma anche offrire uno screening il più completo possibiledel mercato, degli operatori e degli utenti.


378STUDI E RASSEGNESoprattutto l’ultimo filone evidenzia come l’informazione nel mercatobancario non sia volta solo a favorire la stabilità degli enti creditizi, maanche destinata a porre il risparmiatore nella condizione di effettuare consapevolmentele proprie scelte finanziarie, ad essere un ‘‘operatore economicorazionale’’: ‘‘tutta l’attività di acquisizione delle informazioni sugli impieghiultimi del risparmio che il risparmiatore avrebbe dovuto effettuarein proprio è delegato all’ente creditizio, che si assume il relativo rischio, garantendoal depositante la restituzione delle somme depositate; e l’ordinamentosi fa, a sua volta, almeno in linea di principio, garante dell’impegnoassunto dall’ente creditizio nel momento in cui persegue la stabilità dell’entecreditizio’’( 16 ). L’operatore delega alla banca il compito di investireconsapevolmente il suo risparmio ricevendo da questa la garanzia controeventuali errori nel momento in cui questa si assume il rischio della restituzione(17 ). Anche in questo caso, in definitiva, la trasparenza a fini di sta-La trasparenza, pertanto, acquista diverse valenze: consiste in un complesso di regole,in un modus operandi, che consente alle autorità creditizie di esercitare i controlli previstidalla legge sugli operatori, essendo quello bancario un mercato regolamentato nel quale leattività di controllo e vigilanza assumono importanza fondamentale e la visibilità garantiscel’esercizio e l’effettività dei controlli; è adottata come trasparenza delle condizioni contrattualinei rapporti con la clientela, requisito fondamentale nei rapporti tra banca e cliente, nondovendo, a quest’ultimo, risultare nulla oscuro o ambiguo perché la natura fiduciaria dei rapportitra cliente e banca non risulti viziata o compromessa da comportamenti elusivi di unaesauriente e corretta informazione. Di contro, anche la posizione del cliente deve risultaretrasparente sia con riferimento alla completezza e veridicità delle informazioni che deve fornirealla banca sia in relazione agli obblighi di segnalazione che gravano sulla stessa in adempimento,ad esempio, della normativa antiriciclaggio ex L. 197/1991, e successive modifiche.‘‘Appare chiaro che l’ordinamento richiede agli operatori del mercato finanziario nonsolo di dare trasparenza, ma, prima ancora, di essere trasparenti, di risultare cioè conformi anormativa e quindi corretti, diligenti, preparati, informati. Il concetto di trasparenza si estendecosì a comprendere non solo le comunicazioni e le informazioni fornite alla clientela eprovenienti dalla clientela stessa, ma anche quelle provenienti dalle banche e dirette al mercatoe agli organismi di controllo’’. Patalano, Reati e illeciti del diritto bancario, cit., 28( 16 ) Costi, Informazione e mercato, cit., 212.( 17 ) Per Giani (voce Credito e risparmio, in AA.VV., Dizionario di diritto pubblico dell’economia,Rimini, 1998, 337) ‘‘nel mercato della borsa il risparmiatore che intende investireil proprio denaro opera sulla base di una scelta personale e nella consapevolezza di assumereper intero, in relazione alla quota di capitale investito, il rischio di impresa. Ove lo stessorisparmiatore decida, invece, di ricorrere al mercato creditizio, egli intende contenere l’aleatorietàdel proprio investimento ottenendo una remunerazione dal proprio risparmio unicamenteattraverso il sorgere di un rapporto contrattuale con una banca, la quale si impegna arestituire quanto depositato con la maggiorazione derivante dagli interessi. Poiché però essaprovvederà a sua volta a far affluire tale risparmio verso coloro che domandano denaro (inprimis gli imprenditori) i quali assumeranno l’obbligo di restituirlo, pare evidente come l’attivitàbancaria presenti caratteristiche tali da consentire la soddisfazione degli interessi deirisparmiatori soltanto a condizione che essa venga svolta in modo corretto, in modo cioèche risulti comunque garantita la stabilità patrimoniale e la solvibilità del soggetto che laesercita. Pertanto, costituendo l’attività bancaria un fattore indispensabile per il funziona-


STUDI E RASSEGNE379bilità persegue lo stesso fine ultimo della trasparenza a favore del risparmiatore:mira a garantire l’ottima allocazione del risparmio offrendo intal senso una precisa assicurazione al risparmiatore. Questa stessa esigenzagiustifica l’interesse all’informazione da parte dei prenditori di credito;un’informazione che consenta loro di scegliere tra le diverse forme di finanziamentobancario e fra i diversi enti creditizi.È opportuno qui richiamare la fondamentale funzione svolta dagli entioperanti sul mercato con riferimento alla gestione delle informazioni ed alfenomeno delle asimmetrie informative. I concetti di investimento – mercato– risparmio si collocano in un’area nella quale il rischio è connaturato;la conoscenza e l’informazione sono i primi e naturali antidoti al rischio.Sapere è la necessaria premessa per valutare il rischio e decidere se investireo no.Anche sul mercato mobiliare la trasparenza si articola in un flusso informativoche emittenti e negoziatori in valori mobiliari debbono far pervenirealla CONSOB ed in un flusso d’informazioni, solo in parte coincidentecon il primo, che gli stessi debbono far giungere alla categoria deirisparmiatori, previo controllo di un organo pubblico (CONSOB) il qualeha il compito di verificarne la completezza ed, entro certi limiti, la veridicità(18 ).mento del sistema economico capitalistico, e coinvolgendo essa molteplici interessi, in primoluogo quelli dei risparmiatori, ma anche dei soggetti produttivi, non può non sottostare comunquead un certo grado di controllo pubblico’’.( 18 ) Le società che emettono strumenti finanziari negoziati su mercati regolamentatisono tenute ad una serie di obblighi ben tipizzati di informazione periodica (bilanci e relazioniperiodiche) e di informazione in caso di determinati eventi straordinari (aumenti di capitale,fusioni, scissioni, sollecitazioni all’investimento, OPA). Accanto a questi, esiste un obbligodi informazione genericamente enunciato dall’articolo 114 dlg. 58/1998: l’obbligo perle società quotate e per chiunque le controlli di informare il pubblico dei fatti che accadononella sfera di attività di tale società (o di quelle da loro controllate) ogni qual volta questi fattisiano idonei, se resi pubblici, ad influenzare sensibilmente il prezzo degli strumenti finanziariemessi dalle società medesime. ‘‘Non si rischia di esagerare affermando che il menzionatoarticolo 114 T.U.I.F. è il pilastro intorno al quale è costruito gran parte dell’intero sistemadell’informazione dei mercati finanziari italiani’’ (Rordorf, Importanza e limiti dell’informazionenei mercati finanziari, cit., 776). ‘‘Tale prescrizione riveste un ruolo centrale ai fini delraccordo tra gli obiettivi della trasparenza societaria e della c.d. efficienza informativa delmercato finanziario. Essa invero sancisce a carico degli emittenti quotati il dovere di renderepubblici «senza indugio» tutti i fatti in grado di riflettersi sulla quotazione dei valori di riferimento,così garantendo un loro pronto assorbimento nei prezzi e, al contempo, una paritàconoscitiva da parte degli azionisti e degli investitori’’ (Seminara, La tutela <strong>penale</strong> del mercatofinanziario, in AA.VV., Manuale di diritto <strong>penale</strong> dell’impresa, Bologna, 2000, 557).Parallelamente l’art. 115 dlg. 58/1998 prevede che la CONSOB, al fine di vigilare sullacorrettezza delle informazioni fornite al pubblico, possa richiedere comunicazioni e notizie,assumere informazioni dagli amministratori ed effettuare ispezioni. Inoltre a sottolinearnel’importanza, in quanto disposizioni poste a presidio della veridicità delle informazioni rilasciateda emittenti quotate o aventi ad oggetto emittenti quotate ed il cui comune denomi-


380STUDI E RASSEGNELe principali funzioni del mercato mobiliare consistono nella soddisfazionedella domanda di mezzi finanziari da parte dei soggetti economici attraversol’offerta ai risparmiatori di valori mobiliari, sotto forma di titoli edi garantire una facile liquidità dei titoli quotati. Il mercato, inoltre, svolgeun’ulteriore funzione fondamentale per l’economia: esso è un indicatoreche permette alle autorità statali la conoscenza di dati, propensioni, tendenze,indici, in grado di fornire un supporto per le scelte di politica economica,ovvero per individuare gli interessi e le priorità d’intervento.La peculiarità del mercato mobiliare risiede nel fatto che non esiste unsistema di vigilanza pubblica diretto a garantire l’adempimento delle promesseeffettuate dagli enti emittenti di valori mobiliari o quanto meno ilsoddisfacimento delle aspettative che i risparmiatori avevano sui titoli acquistati.Di qui la necessità, per il risparmiatore, di conoscere, al di là diquanto sia necessario nel mercato del credito, le vicende dell’ente emittentee le modalità di impiego del proprio risparmio, per poter effettuare scelteche riflettano, nel limite del possibile, i valori reali dei titoli esistenti sulmercato e poter quindi consentire al mercato di assicurare un’allocazioneottima delle risorse. ‘‘In altri termini, nel mercato mobiliare s’impone anchela trasparenza su oggetti per i quali la stessa diventa inutile in presenza diun adeguato controllo di stabilità sugli emittenti. L’informazione nel mercatomobiliare assume, pertanto in questa prospettiva, un’importanza maggioredi quella che la stessa riveste nel mercato bancario, non trovandoalcun surrogato nella esistenza di un controllo di stabilità sugli enti emittenti’’(19 ).‘‘Il flusso di informazioni da parte dei soggetti controllati nei confrontidella CONSOB – costituente a sua volta un necessario presupposto per losvolgimento dei suoi compiti di vigilanza – è imposto anche dalla imperfezionedel mercato finanziario e dalla incapacità dei risparmiatori di avereaccesso a (ovvero di affrontare i costi necessari per la raccolta di) tutte leinformazioni rilevanti ai fini delle loro decisioni. La presenza dellaCONSOB si giustifica, dunque, già su un piano fisiologico (cioè senza necessitàdi pensare alla prevenzione di illeciti), in quanto essa ammortizza ladiseguale distribuzione di conoscenze nel mercato, assicurando una paritàdi accesso di tutti gli investitori ai fatti più significativi; inoltre, questa diffusionedelle informazioni si converte in una maggiore rappresentatività deinatore è rappresentato dalla loro particolare significatività per il destinatario, individuabilenella CONSOB (quale organo di vigilanza), nella società o nel pubblico, il legislatore delegatole aveva presidiate con sanzione <strong>penale</strong> portata dall’art. 174 dlg. 58/1998 (‘‘False comunicazionied ostacolo alla CONSOB’’), ora confluita nel generale disposto di cui all’art. 2638c.c. (novellato con L. 61/2002).( 19 ) Costi, Informazione e mercato, cit., 215.


STUDI E RASSEGNE381prezzi e così contribuisce all’efficienza del mercato, evitando una dispersionedelle risorse’’( 20 ).La trasparenza è uno strumento indispensabile per far sì che il risparmiosi avvii verso gli impieghi ritenuti capaci di maggiore redditivitàe trovi, pertanto, collocazione ottimale, garantendo il buon funzionamentodel mercato e valorizzando la sua funzione di luogo nel quale si assicurauna parte importante del finanziamento delle imprese da parte del risparmiodiffuso.Correttezza e trasparenza costituiscono elementi imprescindibili perpreservare la fiducia dei risparmiatori, soprattutto laddove si consideri,ai fini che qui interessano, che l’attività bancaria è espressamente definitacome raccolta di risparmio tra il pubblico ed esercizio del credito, aventicaratteri d’impresa, perseguendo la sana e prudente gestione, la stabilitàcomplessiva, l’efficienza e la competitività del sistema finanziario( 21 ).§ 2. L’informazione strumento primo per un’efficace attività di vigilanza.L’informazione gioca un ruolo cruciale nell’esercizio della funzione divigilanza bancaria. Questa, infatti, consiste in una attività di raccolta, elaborazionee produzione di informazioni sulla situazione tecnica e sull’andamentogestionale degli intermediari creditizi, finalizzata all’assunzione didecisioni e provvedimenti volti a garantire la stabilità del sistema finanziario.La stretta correlazione strumentale intercorrente tra le informazionie la vigilanza si è articolata e sviluppata in modo significativo soprattuttonegli ultimi anni.In un sistema economico-finanziario statico, chiuso e poco sviluppato,nel quale l’operatività degli intermediari è limitata, il mercato esprime unamodesta domanda d’informazioni e le fonti pubbliche sull’attività dellebanche sono scarne. Si instaura, così, un modello informativo asimmetrico,nel quale l’autorità di vigilanza ha un rilevante vantaggio nei confronti deglioperatori. L’attribuzione ad essa di un pieno potere di accesso all’informazionecostituisce un correttivo alla scarsa conoscibilità esterna del valore( 20 ) Seminara, La tutela <strong>penale</strong> del mercato finanziario, in AA.VV., Manuale di diritto<strong>penale</strong> dell’impresa, cit., 542.( 21 ) La sana e prudente gestione, finalità dell’attività di vigilanza della Banca d’Italia,presenta uno stretto collegamento con la tutela del risparmio di cui al portato costituzionaledell’art. 47 Cost., considerata la fondamentale funzione svolta dalle stesse banche nel sistemaeconomico e la necessità di preservarle da inquinamenti derivanti da attività illegali e la necessità,altresì, di mantenere fiducia nella correttezza del mercato e degli operatori anche inrelazione alla tipologia degli investimenti che vi si operano.


382STUDI E RASSEGNEdegli attivi e passivi bancari e compensa la mancanza di un efficace vagliodelle realtà aziendali da parte del mercato.In un sistema, invece, come quello attuale caratterizzato da dinamismo,competitività ed aperture a sempre nuove realtà economiche, si accresconole esigenze informative degli operatori e della stessa autorità divigilanza. Il sistema informativo vede accrescersi di elementi e notizieche sono utilizzate per valutare la capacità patrimoniale ed organizzativadegli intermediari a sopportare i rischi. La vigilanza, dunque, diventa unmomento essenziale dell’attività della banca centrale consistendo nel complessodi norme ed interventi che hanno come obiettivo la stabilità e l’efficienzadei sistemi bancari. Attualmente la sempre maggiore importanza attribuitaa questi obiettivi pone sempre più in risalto l’azione di vigilanzache deve, però, contemporaneamente lasciare margini operativi alle decisionidelle singole aziende( 22 ).Essa si articola in vari poteri di controllo che possono essere distinti in:– controlli strutturali, che mirano ad intervenire sulle caratteristiche fondamentalidi un sistema finanziario (norme in materia di specializzazione,controlli all’entrata, ontrolli sulla struttura di bilancio, ecc.) – structuralregulation;– controlli sul grado di rischio, cioè controlli sul grado di rischio di singoleoperazioni posti in essere da intermediari (liquidità e solvibilità dellebanche) e controlli per prevenire i dissesti bancari o attenuarne le conseguenze– prudential regulation;– controlli sulla correttezza e sulla trasparenza delle informazioni fornite allaclientela ed al pubblico in generale (fair play regulation).Nel sistema attuale il modello di vigilanza adottato è di tipo prudenziale,neutro rispetto alle decisioni organizzative ed operative delle impresebancarie. I controlli riguardano soprattutto i rischi assumibili e l’obiettivo èquello di assicurare un soddisfacente grado di equilibrio complessivo nellagestione degli intermediari, imponendo standard di comportamento ritenutiadeguati. Si è realizzato un intenso rafforzamento della vigilanza conl’estensione della sua disciplina, degli obblighi informativi e dell’arricchimentodel contenuto delle segnalazioni.La norma dell’art. 51 dlg. 385/1993 (T.U.L.B.) in materia di vigilanzainformativa conferma, a questo riguardo, che la Banca d’Italia è destinatariadi un flusso di informazioni che comprende bilanci, segnalazioni pe-( 22 ) ‘‘Dal punto di vista della vigilanza preoccupa soprattutto la relativa facilità con laquale gli intermediari possono trovarsi anche inconsapevolmente coinvolti in operazioni illecite,ciò che rappresenta un pericolo per la stabilità non solo del singolo soggetto, ma dell’interosistema, anche a motivo delle sempre più fitte connessioni tra i vari operatori deimercati monetari e finanziari e tra gli stessi mercati’’. Urbani, Supervisione bancaria e lottaal riciclaggio, inBanca Borsa Titoli di Credito, 2002, IV, 482.


STUDI E RASSEGNE383riodiche e ogni altro dato o documento richiesto. Alla stessa, inoltre, competela determinazione delle modalità e dei termini per la trasmissione diqueste informazioni da parte delle banche. Il complesso informativo cosìraccolto è di natura sia statistico-contabile sia amministrativa: segnalazionidi vigilanza, verbali di assemblea, bilanci d‘esercizio, dichiarazioni degli organiaziendali.I controlli di natura cartolare delineati dall’art. 51 T.U.L.B. mirano,dunque, a conseguire, sulla base dei flussi informativi periodici, una conoscenzacompleta ed adeguata della struttura, della solidità e della funzionalitàdegli intermediari creditizi per seguirne nel tempo l’evoluzione rapportataalle dinamiche di mercato, percepirne i mutamenti, proteggere il sistemada infiltrazioni criminali, condizione necessaria per un consapevolee tempestivo intervento che le diverse situazioni possono richiedere ai finie per gli obiettivi di cui all’art. 5 T.U.L.B.( 23 ).Le forme di controllo profilatesi in Europa sull’attività bancaria hannodeterminato un allentamento dei vincoli regolamentari a vantaggio dellaconcorrenzialità con la conseguenza di abbattere le barriere all’entrata diuna impresa nel settore bancario, facilitare l’apertura di nuove filiali, svilupparei servizi bancari. In quest’ottica nel settore del credito lo scopo ultimodei sistemi di regolamentazione e vigilanza è la sicurezza del sistemafinanziario nel suo complesso, ma, nell’applicazione ai singoli enti che operanosul mercato i controlli hanno per oggetto le gestioni aziendali e quindidevono adeguarsi all’evoluzione delle forme di attività imprenditoriale edalle innovazioni ad essa connesse. Sta alla base di una corretta gestione bancariala promozione di interventi correttivi, ove appaiono necessari, masenza sostituirsi all’autonomia delle decisioni aziendali. È un rapporto dialetticonel quale gli organi ispettivi, senza entrare nel merito di singoli rapportie di singole operazioni, devono tuttavia contribuire ad individuare,per prevenire, quelle operazioni che possono pregiudicare il perseguimentodelle finalità economiche: la tutela del risparmio e l’ordinato svolgimentodell’attività creditizia. Questa, infatti, è un’attività d’impresa ma è ancheun servizio svolto nell’interesse del pubblico e la protezione di questo passaattraverso elementi caratterizzanti l’attività d’impresa: in definitiva gli elementicon i quali l’imprenditore ‘‘prudente’’ (erede della tradizionale dili-( 23 ) ‘‘Non vi è alcun dubbio che il legislatore ha inteso fissare il principio della pienaconoscibilità da parte dell’organo di vigilanza di ogni circostanza relativa alla struttura e all’operativitàdegli enti vigilati; che la Banca d’Italia può chiedere ed ottenere dalle banche,con le modalità e nei termini più opportuni, tutti i dati e le informazioni di natura contabile,amministrativa, documentale o di altro genere, ritenuti utili; che in nessun caso le banchepossono opporre un diritto alla riservatezza, essendo sanzionata, sia in via amministrativache <strong>penale</strong> la violazione degli obblighi di corretta comunicazione alla Banca d’Italia’’. Berionne,Commento all’art. 51 T.U., inCapriglione, Commentario al testo unico delle leggiin materia bancaria e creditizia, vol. I, Padova, 2001, 383.


384STUDI E RASSEGNEgenza del bonus pater familias) valuta e vigila sul buon andamento della suaazienda, diventano gli elementi di un controllo ‘‘pubblico’’ per una ‘‘sana eprudente gestione’’ (art. 5 T.U.L.B.)( 24 ).L’articolo ha un contenuto programmatico; recepisce il principio comunitariodella libera concorrenza, affermando i valori dell’efficienza edella competitività, che si affiancano a quello tradizionale e fondamentaledella stabilità complessiva del sistema finanziario. La vigilanza, pertanto, sidefinisce come la funzione finalizzata al perseguimento delle finalità indicatenell’art. 5 T.U.L.B. e consiste in un complesso di poteri, tra loro integratisi,essenzialmente di amministrazione attiva e di controllo su attivitàeconomiche di privati finalizzati a soddisfare il principio costituzionaledella tutela del risparmio in tutte le sua forme ex art. 47 Cost.( 25 ).I controlli di bilancio ed un efficace sistema informativo sono gli elementiprincipi di questa vigilanza prudenziale.Pertanto il valore dell’attività di vigilanza dipende in misura determinantedalla qualità e dalla significatività delle informazioni acquisite. E ladisponibilità di dati è un presupposto necessario per l’esercizio di un’adeguatavigilanza informativa, ma non sufficiente. Ad essa deve essere affiancata,altresì, l’adozione di procedure informatiche di controllo e di rettificadegli errori ed una costante verifica dei dati acquisiti anche mediante ispezioni:nell’impianto del T.U. bancario la vigilanza informativa di cui all’ar-( 24 ) ‘‘Le autorità creditizie esercitano i poteri di vigilanza a esse attribuiti dal presentedecreto legislativo, avendo riguardo alla sana e prudente gestione dei soggetti vigilati, alla stabilitàcomplessiva, all’efficienza e alla competitività del sistema finanziario nonché all’osservanzadelle disposizioni in materia creditizia. La vigilanza si esercita nei confronti delle banche, deigruppi bancari e degli intermediari finanziari. Le autorità creditizie esercitano, altresì, gli altripoteri a esse attribuiti dalla legge’’.( 25 ) Il panorama degli interventi legislativi finora attuati mostra come il mercato finanziariosia attraversato principalmente da una duplice esigenza: da un lato, quella di tutelare,ad ampio raggio, il risparmiatore nelle sue scelte di allocazione del risparmio, dall’altro quelladi preservare il mercato stesso dagli inquinamenti che possono derivare dall’impiego in essodi risorse provenienti dall’attività della criminalità organizzata. L’informazione e la trasparenza,pertanto, divengono funzionali non solo alla protezione del risparmiatore-investitore, maanche alle ulteriori esigenze pertinenti non solo all’ordine pubblico, ma concernenti la stessatutela dell’ordine economico. L’art. 47 Cost. riguarda il risparmio nella sua complessità edoggettività, nella sua accezione dinamica, come componente del processo di sviluppo economicoe quindi identificatesi con l’interesse ad una migliore allocazione della ricchezza e conl’interesse ad una più robusta struttura economica. Prospettiva che non è in antitesi con latutela dell’interesse del singolo risparmiatore. Anzi.Le autorità di vigilanza, pertanto, assolvono una funzione conforme al dettato costituzionaledi cui all’art. 47 Cost. e la presenza di fattispecie penali a presidio del sistema è riconducibileall’interesse ad una ottimale allocazione delle risorse economiche ed alla trasparenzae correttezza dell’attività di quanti si rivolgono al risparmio collettivo o si offrono digestirlo, in una generale prospettiva di tutela del mercato e del patrimonio degli investitoriex art. 47 Cost.


STUDI E RASSEGNE385ticolo 51 è affiancata e correlata con quella regolamentare (art. 53) ed ispettiva(art. 54). I poteri attribuiti alla Banca d’Italia di richiedere l’invio disegnalazioni periodiche ed ogni altro dato e documento nonché la trasmissionedi bilanci e situazioni contabili sono alla base dei controlli cartolariche trovano il necessario completamento negli accertamenti ispettivi, strutturaportante dell’intero sistema di supervisione.L’accertamento ispettivo consente una visione più immediata e sicuradella situazione aziendale. Esso, infatti, mediante l’accesso in loco consenteuna verifica ‘‘sul campo’’ dell’effettivo rispetto dei vincoli prudenziali di cuiall’art. 53 T.U.L.B. e rappresenta un’indispensabile integrazione della vigilanzainformativa: a differenza del controllo cartolare che poggia la sua efficaciasulla veridicità delle informazioni e dei dati forniti, l’analisi ispettivasi basa su quanto analizzato e riscontrato dall’accertatore. È lo stesso organodi controllo che ‘‘entra in banca’’ e verifica l’andamento e la gestionedella stessa. Inoltre gli accertamenti ispettivi si configurano quale necessariopresupposto per l’esercizio dell’eventuale azione correttiva dell’organodi vigilanza, in quanto per loro natura finalizzati ad individuare, insinergia con le risultanze dell’analisi cartolare, le situazioni di inefficienza,irregolarità ed instabilità che richiedono interventi della stessa autorità divigilanza varianti dalle sanzioni amministrative, ai provvedimenti prudenzialiparticolari, al divieto di intraprendere nuove operazioni, all’amministrazionestraordinaria, alla liquidazione coatta ed infine alle sanzioni penalimediante inoltro all’autorità giudiziaria della notizia criminis: ‘‘l’efficaciadell’attività ispettiva, inoltre, è favorita dalla condizione di totale trasparenza,nei confronti della Banca d’Italia, da parte degli enti vigilati. Sui loroesponenti ricade, infatti, l’obbligo di collaborare, producendo, con adeguatasollecitudine, tutti i documenti richiesti e ogni altro elemento (informazioni,valutazioni, opinioni) che consenta il perseguimento dei fini istituzionalidel controllo sulle banche. Il legislatore ha inteso dare particolarerilievo a tale dovere, tutelando con il presidio <strong>penale</strong> l’attività di vigilanza(art. 134 T.U.L.B., ora art. 2638 c.c.), ove la condotta degli esponenti deglienti vigilati risulti di ostacolo all’esercizio di tale funzione’’( 26 ).‘‘L’ente creditizio è un gestore d’informazioni; la capacità del managementdi cogliere con immediatezza, fin dal loro primo manifestarsi, i segnalidel mercato e il contesto operativo costituisce un vantaggio competitivo. Lesegnalazioni statistiche trasmesse alla Banca d’Italia costituiscono la materiaprima dell’attività di vigilanza’’( 27 ).L’impresa ‘‘banca’’ deve essere in grado di produrre reddito al variare( 26 ) Barbagallo, Vigilanza ispettiva, in AA.VV., La nuova legge bancaria, vol. II, Milano,1996, 926.( 27 ) Gammaldi, I sistemi informativi direzionali nelle banche nell’ottica della vigilanza,in Banche e Banchieri, 1994, nº 3, 177.


386STUDI E RASSEGNEdelle condizioni di mercato; la raccolta e la gestione delle informazioni sipone come condizione essenziale al corretto ed efficiente esercizio dell’attivitàbancaria volta a raccogliere il risparmio onde erogare credito. Nonsolo. ‘‘All’impresa bancaria il legislatore ha attribuito una funzione di collaborazionenella lotta contro la criminalità organizzata, per il fatto che essacostituisce il centro di riferimento di un complesso qualificato di notizieche, opportunamente elaborate, possono in notevole misura facilitare l’accertamentodei reati. La banca tende così a diventare una banca-dati a disposizionedel giudice e della polizia giudiziaria e vede ampliati e trasformatii suoi compiti tipici’’( 28 ).Profonde sono le modifiche intervenute nell’evoluzione del sistemacreditizio italiano: da un iniziale ruolo centrale di pochi soggetti bancari,con limitate categorie di operatori che agivano in un ambiente scarsamentecompetitivo ed in mercati caratterizzati da un’elevata segmentazione perterritorio, comparti di attività e per prodotti offerti, si è passati alla rapidadiffusione dell’innovazione, alle diverse opportunità offerte dalla tecnologiae, non ultimi, gli stessi interventi delle autorità creditizie. Tutto ciòha determinato un arricchimento dei prodotti, un ampliamento del numerodi operatori, un diverso assetto organizzativo del sistema finanziario nel suocomplesso.Il penetrante mutamento che il sistema creditizio italiano ha subitodagli anni ottanta ad oggi, anche e soprattutto su sollecitazione della normativacomunitaria, ha dunque portato alla globalizzazione dell’attività,con conseguente necessità di approntare nuovi strumenti di vigilanza e tutelache, al contempo, non ponessero ‘‘catene e vincoli’’ al naturale sviluppodel mercato ed alla necessaria competitività dello stesso e degli operatori.La forte vocazione europeista della disciplina del credito ha determinatoil legislatore nazionale ha porre a fondamento dell’intera materiail ‘‘principio della concorrenza’’. La sua centralità determina che la vigilanzasia non solo circoscritta alla sana e prudente gestione dell’ente creditizio,ma anche all’efficienza e competitività dell’intero sistema finanziario.Ed uno dei presupposti perché il mercato possa funzionare è individuatodalla libertà dell’utente di accedervi sulla base della propria scelta autonoma,offrendo e ricevendo informazioni corrette e veritiere. La ‘‘razionalitàdell’operatore economico’’ è al centro dell’economia del benessere: ciascunsoggetto tende a massimizzare il proprio interesse personale, identificatocon l’utilità se si tratta di consumatori ovvero con il profitto se si trattadi imprese. Alla base di ciò èposta la capacità di elaborare le informazioniricevute per poter scegliere.In uno scenario in rapido mutamento, anche le modalità di condu-( 28 ) Mazzi, voce Reati bancari, inEnc. del Diritto, vol. XXXVIII, Milano, 1987, 924.


STUDI E RASSEGNE387zione dell’attività di vigilanza sono andate evolvendosi in risposta ai cambiamentidei mercati, dell’operatività e della regolamentazione. Ai maggiorigradi di libertà riconosciuti agli intermediari si sono accompagnatifattori di maggiore instabilità del contesto operativo; questi due elementiamplificano la necessità di percepire con immediatezza i possibili rischi siada parte delle autorità creditizie sia da parte degli stessi operatori. Il mutatopanorama conseguente all’integrazione dei sistemi economico-finanziariha, altresì, accentuato e moltiplicato i rischi dell’attività rendendonecessarioraccogliere, confrontare e rielaborare un quantitativo notevole didati: ‘’oltre che dal rischio di credito, le notti dei banchieri sono assillateda incubi quali il rischio di mercato, il rischio di tasso, il rischio di cambioe via seguitando. E se le preoccupazioni degli operatori bancari aumentano,quelle dell’autorità di vigilanza non diminuiscono. Si accrescono, infatti,anche i rischi di sistema e di contagio. Conseguentemente sono statiresi più incisivi alcuni strumenti di controllo’’( 29 ). La piena collaborazionedelle istituzioni creditizie è discesa anche dalla consapevolezza che ogniforma d’inquinamento dell’economia legale comporta un gravissimo rischioper la libertà del mercato ed, in prospettiva, per l’esistenza del mercatostesso.La disciplina dell’informazione imposta agli operatori del mercato finanziario,per le operazioni che nello stesso si effettuano, richiede pertantoun grado di trasparenza diverso, maggiore rispetto a quello previsto dal dirittocomune. ‘‘Tutto il settore è stato oggetto di una particolare disciplinache ha progressivamente portato l’impresa bancaria fuori dalla normativacivilistica dettata per l’imprenditore, sino alla sua sottoposizione a formedi vigilanza da parte dello Stato o comunque di soggetti pubblici’’( 30 ).L’interesse all’esistenza di un mercato finanziario efficiente e stabile ela natura dei beni scambiati sullo stesso rendono ragione della particolareattenzione all’informazione e della peculiarità della trasparenza esistente siaverso gli organi di controllo, sia verso il pubblico: ‘‘trasparenza e stabilitànon sono strumenti alternativi, ma complementari, utilizzati dagli ordinamentiper conseguire un solo obiettivo: l’allocazione ottima del risparmionei sistemi economici che attribuiscono al mercato finanziario un ruolo decisivoper il loro sviluppo’’( 31 ).L’accresciuta concorrenza e la complessità dell’attività finanziaria,accentuata dal generalizzato ampliamento della gamma dei prodotti offerti,unitamente alle nuove ‘‘frontiere’’ poste dalla globalizzazione dei( 29 ) Cerase, Il reato di falso interno bancario, inCass. Pen., 1995, 423.( 30 ) Giani, voce Credito e risparmio, in AA.VV. Dizionario di diritto pubblico dell’economia,cit., 335.( 31 ) Dini, I problemi dell’intermediazione finanziaria, inNote a margine della questioneeuropea, suppl. al nº 4 della Rassegna dell’Arma dei Carabinieri, 1992, 57.


388STUDI E RASSEGNEmercati e dalla new-economy e net-economy( 32 ), hanno generato un aumentodel grado di rischiosità. Di qui l’esigenza di un sistema di supervisioneche svolga un’azione efficace in quanto la maggiore autonomiariconosciuta alle istituzioni creditizie amplia le esigenze conoscitive dell’organodi vigilanza che deve poter disporre in modo tempestivo di informazionie dati, analitici ed attendibili, per il corretto svolgimentodelle sue funzioni. L’attività di controllo, che viene condotta in via amministrativaed ispettiva, si concentra sui principali aspetti tecnici dellagestione degli intermediari finanziari e trova nel bilancio la base di riferimentodell’attività di vigilanza.In questa prospettiva si collocano gli interventi della Banca d’Italianella messa a punto dei flussi informativi. Nel definire la struttura dei datida richiedere alle aziende di credito, la stessa Banca ha tenuto presenti lefinalità di politica monetaria, quelle di controllo prudenziale nonché quelledi autogoverno delle imprese. La fase successiva alla raccolta trasforma idati in informazioni disponibili per il pubblico, per i mercati, per lebanche.Nella sua attività di produttore di statistiche creditizie e finanziarieverso l’esterno, la Banca d’Italia, considerando i diversi obiettivi degli utilizzatorifinali, mette a disposizione di chi è chiamato ad assumere decisioniun articolato sistema informativo, che può contribuire a ridurre imargini d’incertezza nell’assunzione delle decisioni. Le informazioni e idati raccolti per l’esercizio dell’attività di vigilanza, una volta controllati,rielaborati e trasformati in un articolato sistema statistico costituisconoil c.d. ‘‘flusso di ritorno’’, consentendo agli operatori economici, e non,di disporre di informazioni obiettivizzate provenienti da un organo indipendentee con un riscontro effettuato sul mercato. Forse questo mostraal meglio l’importanza e l’utilità pragmatica della circolazione dell’informazionenel settore.( 32 ) Il concetto di ‘‘mercato globale’’ come possibilità di operare su tutti i mercati indistintamente,con sempre minori vincoli, e la ‘‘globalizzazione economica’’ intesa come ilfenomeno per cui vi sono operatori che agiscono in paesi diversi e che servono mercati mondialisenza che sia necessario un loro radicamento nazionale prevalente, assumono una valenzadiversa con l’evoluzione in atto del concetto stesso di mercato. Lo sviluppo della modernatelematica porta sempre più a dematerializzare il concetto di mercato e a sostituirlo con ilconcetto di informazione; il mercato non è più solo il luogo fisico di incontro della domandae dell’offerta di beni, il mercato è ora la rete network, la rete delle informazioni concernentiogni genere di attività, non solo economica, e presenta un aspetto che supera la concezioneterritoriale. In argomento: Capriglione, Information technology e attività finanziaria, inNuova Giur. Civ. Comm., 2001, II, 375 ss.; D’Alfonso, La globalizzazione dell’economiaed i suoi effetti, inRiv. G. di F., 1997, 1131 ss.; Di Nuzzo, New economy e mercato globale,in Riv. G. di F., 2000, 1961 ss.


STUDI E RASSEGNE389§ 3. Dalla cultura del segreto alla cultura dell’informazione.‘‘Il sistema bancario, intendendo con tale espressione l’insieme dellebanche che fanno parte di questo sistema, è il centro naturale in cui vengonoad accumularsi dati e notizie che interessano le aziende e i soggetticon i quali quel sistema si pone come interlocutore privilegiato ed, inuna certa misura per l’attività svolta, «obbligato»’’( 33 ).La banca diviene il luogo naturale di arrivo di notizie e ‘‘contenitore’’delle stesse. Notizie che l’azienda acquisisce nell’esercizio delle sue attivitàriguardanti dati ed informazioni ‘‘sensibili’’ ed essenziali del soggetto.Inoltre si tratta di notizie che la banca è tenuta, per la sua specifica attività,ad elaborare in maniera periodica e continuativa nell’ambito del mantenimentoe dell’amministrazione dei naturali rapporti con la clientela.La banca è dunque luogo di notizie, ma è anche il luogo del segretobancario inteso, in generale, quale vincolo di riservatezza per gli istitutidi credito in ordine agli affari dei clienti.Argomento controverso quello del segreto bancario ‘‘che dà luogo aduna problematica tanto attraente quanto sfuggente’’( 34 ), ‘‘tanto da potersisostenere, provocatoriamente, che esso è nato in segreto ed è morto in segreto’’(35 ).Non vi è dubbio che il fenomeno della globalizzazione dei mercatiabbia oggi accelerato i tempi per un ripensamento anch’esso globale delsegreto bancario. Ciò soprattutto con la consapevolezza della necessità diuno sforzo sinergico a livello internazionale per combattere il fenomenodella criminalità economica ed attuare un sistema globale ed integrato divigilanza e controlli sui mercati( 36 ).( 33 ) Buonomo, Attività bancaria e insider trading, cit., 138.( 34 ) Alibrandi, I reati bancari, Milano, 1976, 7.( 35 ) Flick, Informazione bancaria e giudice <strong>penale</strong>: presupposti di disciplina, problemi eprospettive, inBanca Borsa Titoli di Credito, 1988, I, 454.( 36 ) Da tempo la dottrina mette in guardia sullo strettissimo rapporto tra il riciclaggiodei profitti della criminalità organizzata ad opera di strutture finanziarie e la destabilizzazionedel mercato che consegue a questo inquinamento. È comunque da rilevare che questaconsapevolezza della capacità inquinante e destabilizzante del fenomeno de quo ha rappresentatolo stimolo più significativo per gli intermediari, soprattutto bancari, ad accettare unruolo attivo attraverso la disciplina dell’informazione ed altresì per le legislazioni nazionali ele autorità di controllo dei mercati per intensificare un’azione di contrasto. In argomento,oltre alla tradizionale manualistica, diffusamente: Flick, Intermediazione finanziaria, informazionee lotta al riciclaggio, inRiv. Soc., 1991, I, 434 ss.; Manna, Riciclaggio e reati connessiall’intermediazione mobiliare, Torino, 2000, 132 ss.; Carta-Altiero, I nuovi scenari del riciclaggioed i connessi effetti monetari, inRivista G. di F., 2000, 983 ss.; Di Nuzzo, Gli obblighiantiriciclaggio delle categorie economiche a rischio, inRivista G. di F., 2000, 741 ss.;Capriglione, L’antiriciclaggio tra prevenzione sociale e disinquinamento del settore finanziario,inBanca Borsa e Titoli di credito, 1998, I, 417 ss.


390STUDI E RASSEGNERiservatezza e trasparenza rappresentano gli storici poli antitetici attornoai quali ruotano gli interessi delle banche, dei risparmiatori, delleautorità di controllo e degli organi pubblici ed istituzionali in generale.Sono numerose le opinioni che individuano nella esistenza e nella tuteladel segreto bancario uno dei meccanismi fondamentali per l’efficienzaed il buon funzionamento del settore preposto alla gestione del risparmio:il segreto sarebbe posto a presidio non solo degli interessi privati deiclienti, ma di quelli più generali del sistema economico, in quanto fattoreprincipale che stimolerebbe ed incoraggerebbe la formazione del risparmiobancario, mediante l’accesso e l’affidamento al mercato stesso.Al contrario, viene evidenziato in altre posizioni il profilo della trasparenzaquale strumento imposto dai doveri inderogabili di solidarietà socialeal fine di raggiungere obiettivi pubblici primari non solo di natura <strong>penale</strong>(accertamento e repressione dei reati), ma anche di natura valutaria-tributariae più in generale di ordine politico-economico( 37 ).La stessa Corte Costituzionale (sentenza 03.02.1992 nº 51) ha ribaditoche il segreto bancario consiste in un dovere di riserbo cui sono tradizionalmentetenute le imprese bancarie in relazione alle operazioni, ai contie alle posizioni concernenti gli utenti dei servizi da esse erogate. A tale dovere,tuttavia, non corrisponde nei singoli clienti delle banche una posizionegiuridica soggettiva costituzionalmente protetta, né, meno che meno,un diritto della personalità, poiché la sfera di riservatezza con la quale vengonodi solito circondati i conti e le operazioni degli utenti dei servizi bancariè direttamente strumentale all’obiettivo della sicurezza e del buon andamentodei traffici commerciali( 38 ).( 37 ) Per una rassegna delle posizioni in merito, ed in generale sul segreto bancario, ci siriporta a quanto indicato in: Schiavolin, voce Segreto bancario, inDigesto Disc. Comm.,vol. XIII, Torino, 1996, 354 ss.; Di Amato, voce Segreto (Segreto Bancario), inEnc. Giur.Treccani, vol. XXVIII, Roma, 1992; Petragnani Gelosi, La tutela <strong>penale</strong> del segreto bancarioe l’insider trading, in AA.VV. (coordinati da Meyer-Stortoni), Diritto <strong>penale</strong> dellabanca, del mercato mobiliare e finanziario, Torino, 2002, 255 ss.; Di Gregorio-Mainolfi,Le indagini bancarie, Milano, 2002; Polo, Accertamenti bancari e tutela del diritto alla riservatezza,inRivista G. di F., 1999, 1601 ss.( 38 ) Dalla definizione data dalla Consulta si desume che il segreto bancario è da inquadrarsicome una vera e propria consuetudine e in quanto tale deve essere interpretato sullabase dei comportamenti degli istituti di credito e sulla convinzione psicologica di chi lo utilizza.Inoltre esso si identifica come un dovere incombente sull’impresa bancaria e non comeun diritto, costituzionalmente garantito per il cliente. Infine esso è diretto a garantire la sicurezzae il buon andamento del commercio. Valutato in questo modo il segreto bancario èriconosciuto e tutelato dalla Costituzione solo in base ai principi relativi ai rapporti economicie in particolare dagli articoli 41, commi 2 e 3, 42, comma 2, e 47, comma 1, della Costituzione.Questi articoli nella volontà di indirizzare e coordinare l’attività commerciale edeconomica in senso lato e allo scopo di favorire il risparmio e regolare il sistema creditizioconferiscono ampia delega al legislatore ordinario per fissare le regole specifiche che consentanoil raggiungimento dello scopo.


STUDI E RASSEGNE391Prevalentemente ammessa l’esistenza di tale segreto( 39 ), ne resta controversala fonte, ed il fondamento giuridico. Dottrina e giurisprudenza nelcorso degli anni hanno delineato diverse e contrapposte teorie, principalmentesuddivisibili in due grossi filoni a seconda che si rintracci il fondamentoin una fonte-atto (legge) o una fonte-fatto (consuetudine).Brevemente, e per quanto possibile sinteticamente, si passa da un primoorientamento che individua il fondamento del segreto bancario nell’art. 10della legge bancaria del 1936-38 che imponeva (come tuttora impone l’art.7 T.U.) l’obbligo del segreto d’ufficio anche nei confronti delle pubblicheamministrazioni sulle notizie o informazioni riguardanti le aziende di creditosottoposte al controllo della Banca d’Italia( 40 ), ad un altro che riporta il segretobancario nella cerchia dei diritti inviolabili dell’uomo ex art. 2 Cost. incombinato disposto con gli articoli 41 e 47 Cost. a seconda che il cliente siauna persona giuridica o un risparmiatore-persona fisica( 41 ).Vi è poi chi ha ritenuto di rinvenire la disciplina del segreto bancarioall’interno della parte speciale del codice <strong>penale</strong> e, segnatamente, nell’art.622 c.p. ‘‘Rivelazione di segreto professionale’’( 42 ). Infine non manca chi ripeteil fondamento della figura de qua dalla disposizione dell’art. 10 dellalegge bancaria 1936-38: la violazione di tale principio trova, quindi, la suaincriminazione nel reato di cui all’art. 622 c.p.( 43 ).Dall’altro lato, il fondamento del segreto viene ravvisato nella consuetudine,fatto universale che funziona come strumento di integrazione deicontratti bancari ex art. 1374 c.c., per cui la banca assume l’obbligo del segretoanche in assenza di un’apposita clausola contrattuale: l’obbligo delriserbo è a carico della banca in quanto comportamento costantemente osservatoda tempo immemorabile nella convinzione della sua assoluta obbligatorietà(44 ). È la posizione sostenuta dalla dottrina che più teneva alla im-( 39 ) ‘‘Nella legislazione sulle banche vi sono solo cenni al segreto: per ricordarlo incidentalmente,o rimuoverlo in certi casi. Il segreto di banca è spesso considerato nella legislazionefiscale ed in quella volta a reprimere la criminalità organizzata allo scopo di consentirneil superamento. Il travaglio delle posizioni dottrinarie in argomento sono molto diverse traloro tanto da riconoscere un’ampia estensione al segreto o giungerlo a disconoscerlo’’: Paterniti,Manuale dei reati, vol. II, Milano, 130.( 40 ) Ruta, Il sistema della legislazione bancaria, Roma, 1975; Nuvolone, Problemi didiritto <strong>penale</strong> bancario, inBanca Borsa e Titoli di credito, 1976, I, 176 ss.( 41 ) Bernardi, Segreto bancario, segreto della banca, segreto d’ufficio: fra indeterminatezzanormativa e inerzia legislativa, inRiv. It. Dir. Proc. Pen., 1984, 766 ss.; Mazzacuva,Riflessi penalistici del segreto bancario, inBanca Borsa e Titoli di credito, 1984, 315 ss.( 42 ) Antolisei, Manuale di diritto <strong>penale</strong> – Leggi complementari, vol. I, Milano, 1993,92 ss.( 43 ) Alibrandi, I reati bancari, cit., 77 ss. Ove, naturalmente, si rimanda per un approfondimentodelle varie posizioni dottrinali e giurisprudenziali.( 44 ) Mantovani, Sul diritto <strong>penale</strong> della informazione societaria e dell’impresa, inIndicePenale, 1987, 25 ss.; Gianfelici, Il segreto bancario, Milano, 1996.


392STUDI E RASSEGNEpenetrabilità degli istituti di credito: sarebbe un’abitudine antica, ed ormaiconsolidata, ad assicurare il riserbo sull’attività delle banche ed i rapportiche intercorrono con la clientela.La scelta interpretativa privatistica, che assegna al segreto bancario unfondamento consuetudinario e lo assimila al segreto professionale, ne determinal’oggetto in maniera ampia: allo stesso modo e con la medesimaportata del segreto professionale, al quale accedono, sostanzialmente, tuttele notizie che il professionista ha conosciuto nell’espletamento ed in ragionedella sua attività. Sicché il segreto bancario coprirebbe tutte le notizieche concernono i rapporti delle stessa con la clientela, apprese dagli istitutidi credito nel corso dei rapporti stessi. Pertanto il segreto non avrebbe adoggetto solo notizie a contenuto tecnico, ma anche tutte le altre apprese daifunzionari nell’espletamento della loro attività.La scelta interpretativa pubblicistica, che assimila il segreto bancario aquello d’ufficio, invece, perviene a conclusioni diverse sull’oggetto. In quest’otticail segreto assume un oggetto squisitamente tecnico, nel riferimentoa notizie e dati specifici dell’attività bancaria. Notizie e dati che non abbianotali requisiti non potrebbero esserne oggetto.Questa breve e sintetica rassegna ha subito messo in evidenza che nonesiste una norma ad hoc che fondi e sanzioni il segreto bancario, legittimandodubbi sulla vigenza stessa di un istituto non disciplinato espressamenteda alcuna norma di legge, ciononostante esistono numerosi provvedimentilegislativi che ne delimitano l’operatività, implicitamente confermandonel’esistenza.Un primo nucleo di casi che fa eccezione al tradizionale dovere di riserbodelle banche in ordine alle informazione sulla clientela, oltre aquanto previsto dall’ampia normativa in materia tributaria-fiscale( 45 ), riguardalo scambio di informazioni che intercorre tra gli stessi istituti bancari(c.d. informazioni iterbancarie) e tra questi e la Banca d’Italia (c.d. centraledei rischi)( 46 ).Altro caso è ravvisabile nel potere della Banca d’Italia di richiedereogni tipo di informazione agli istituti al fine di espletare i compiti di vigilanzaex art. 51 ss. T.U. In questo caso nessun tipo di segreto può essereopposto all’organo di vigilanza nell’esercizio delle sue funzioni.( 45 ) Le prime limitazioni del segreto bancario si sono avute in tema di accertamentifiscali con il D.P.R. 26/10/1972 nº 633 e con il D.P.R. 29/09/1973 nº 600 e poi via via nellesuccessive leggi in materia.( 46 ) Si realizza in merito una vera e propria circolazione di informazioni: le singole banchehanno il dovere di comunicare alla ‘‘centrale dei rischi’’ l’importo dei crediti concessi aiclienti ed il loro utilizzo e come ‘‘flusso di ritorno’’ la Banca d’Italia segnala periodicamentealle singole banche il globale importo degli affidamenti concessi agli stessi. Lo scopo è, evidentemente,quello di consentire al settore bancario di valutare l’effettiva posizione di rischiodei soggetti che usufruiscono dei finanziamenti.


STUDI E RASSEGNE393Il codice di procedura <strong>penale</strong> disciplina gli accertamenti presso bancheagli articoli 248-255-256, che, inseriti nel libro delle prove, prevedono, rispettivamente,perquisizioni, sequestri e dovere di consegna di documentiper gli impiegati di banca nell’ambito delle procedure giudiziarie volte adaccertare precise ipotesi di reato. Le istituzioni creditizie possono rappresentareil tramite attraverso cui passa, e talora si realizza, una variegatagamma di illeciti, che vanno dal riciclaggio del c.d. denaro sporco, ai reatifiscali, al finanziamento di imprese mafiose e terroristiche. In tutti questicasi la prove necessarie alla configurazione delle fattispecie delittuose sonodesumibili essenzialmente dall’esame delle operazioni bancarie: di fronteall’inquirente la banca può svolgere funzioni di archivio dato che le negoziazionilasciano sempre traccia( 47 ).L’erosione maggiore, forse, è dovuta alla normativa antiriciclaggio dicui alla L. 197/1991, e successive modifiche, che ha introdotto una seriedi obblighi di segnalazione delle operazioni e di identificazione degli autoridelle stesse( 48 ). L’esatto presupposto teorico che questa forma di criminalitàèmossa da interessi economici ha spinto il legislatore a prescrivere econsentire indagini aventi ad oggetto i movimenti di denaro connessi alleattività illecite; allo scopo sono stati consentiti, appunto, l’accesso e i conseguentiaccertamenti presso gli istituti di credito. ‘‘Il motivo di fondo diquesta normativa, nella parte in cui inquadra l’intreccio di attività delinquenzialied economiche, è quello di consentire, non solo a fine di repressionema anche di prevenzione, la disponibilità di notizie e dati patrimonialiin possesso di enti pubblici e privati e di consentire accertamentipresso banche anche al di fuori di un procedimento <strong>penale</strong> pendente’’( 49 ).Pertanto, tutta la normativa accennata rimuove di fatto il segreto bancario,consentendo la richiesta di informazioni, l’esame di documenti ed illoro eventuale sequestro. I soggetti autorizzati a tali condotte hanno un poteredi accertamento e accesso presso le banche, mentre queste debbonoconsentirlo. In tali condizioni l’ampiezza e la portata del segreto bancarioappare veramente ridotta, non potendo valere per situazioni che richiedanoaccertamenti anche determinati dal mero sospetto di illeciti o per i controllisulla stessa attività bancaria. Il segreto, quindi, ha ormai assunto una prevalentevalenza privatistica. Può avere un ruolo, cioè, nei rapporti tra pri-( 47 ) Capriglione, La responsabilità del banchiere: evoluzione giurisprudenziale e prospettivedi riforma, inBanca Borsa Titoli di credito, I, 1990, 348.( 48 ) In argomento, con riferimento anche alle istruzioni della Banca d’Italia e con indicazionedi bibliografia, mi permetto il rinvio al mio: La normativa antiriciclaggio dopo ildecalogo bis della Banca d’Italia,inStudi Parmensi, Padova, 1997, 27 ss.; Lo Monaco-Mengali,Dieci anni di attività del comitato antiriciclaggio, inIl Fisco, all. nº 21/2003 al nº 34 del22/09/2003.( 49 ) Paterniti, Manuale dei reati, vol. II, cit., 138.


394STUDI E RASSEGNEvati, restando a garanzia della normalità degli stessi, soprattutto nella contrapposizioneconcorrenziale. In tal senso il segreto può evitare l’illecitovantaggio derivante dalla piena conoscenza dei termini economici dell’altruiattività, e può svolgere un ruolo socialmente accettabile perché, conseguentemente,volto alla moralizzazione delle attività economiche private.L’area di rispetto di questo segreto è quella pertinente al singolo rapportointrattenuto dalla clientela con la banca. Nel rapporto contrattuale clientebancadovrà individuarsi la parte di notizie e dati indisponibili, e soprattuttoverso chi opera tale indisponibilità: visto che non è pensabile versola pubblica autorità.Il superamento, o il mancato rispetto, del limite contrattuale de quopuò dar causa a responsabilità civile. Quanto alla responsabilità <strong>penale</strong> sarànecessario valutare i singoli casi: sarà da valutare la singola situazione nellaquale il funzionario di banca non rispetta il segreto del cliente ed i motiviche lo hanno determinato a ciò. Sarà necessario vedere se le notizie e le informazioninon difesi attengano strettamente ad un’operazione bancaria,ovvero se più ampiamente attengano a situazioni personali del clienteche sono state confidenzialmente comunicate al funzionario in occasionedi operazioni bancarie, potendosi configurare, in quest’ultimo caso, un’ipotesidi tutela <strong>penale</strong> del segreto professionale.Quindi l’informazione e la trasparenza, originariamente concepite etutelate in funzione del solo risparmiatore, sono state ritenute, da un certomomento in poi, funzionali a preservare il mercato finanziario dagli inquinamentiche ne potevano derivare dall’impiego nello stesso di risorse provenientidall’attività della criminalità organizzata, ma soprattutto sono statefinalizzate e funzionalizzate alla sua tutela: al progressivo passaggio dallaqualificazione pubblicistica dell’attività bancaria a quella tipicamente imprenditorialee privatistica, è corrisposto un progressivo aumento dei doveridi informazione verso l’autorità investigativa e giudiziaria, spostandosida una cultura del segreto ad una cultura della trasparenza. Tutto ciò nellaconvinzione che la corretta circolazione delle informazione ed il porsi cometrasparente giovi al sistema nel suo complesso, rafforzandolo, prevenendoinfiltrazioni criminali e rafforzando la fiducia in esso, e richiamando a sé,pertanto, il risparmio( 50 ).Oggi appare interessante la disciplina dell’informazione, anzichéquella del segreto, rovesciando il tradizionale angolo di visuale. Da alcunianni, infatti, viene sanzionato penalmente l’obbligo di talune comunica-( 50 ) Lo stesso viene rilevato da Melchionda (Mercato dei valori mobiliari (tutela <strong>penale</strong>del), cit., 1) con riferimento al mercato mobiliare evidenziando come le disposizioni introdottedal legislatore segnino il radicale passaggio da un sistema c.d. di corporation law adun’area di securities law. Ove prende corpo la filosofia della trasparenza con un profondoripensamento dell’informazione e della disciplina societaria in generale.


STUDI E RASSEGNE395zioni, prescritte per far chiarezza sulla gestione delle banche. L’osservanzadelle regole del mercato c.d. strumentali, la cui osservanza è imposta aglioperatori finanziari allo scopo di assicurare la concreta e tempestiva possibilitàdi accertamento degli illeciti, consente il corretto ricorso al presidiopenalistico in materia: doveri di segnalazione e di collaborazione variamenteconnotata rappresentano il volano indispensabile per garantire l’effettivitàdella disciplina finale della protezione, efficienza e stabilità delmercato.‘‘Il sistema dei controlli interni ed esterni, la stessa collaborazione chele banche sono tenute a prestare per il perseguimento di interessi della collettività,i notevoli ridimensionamenti del segreto bancario, dimostranocome oggi innanzitutto la collettività, e quindi la legislazione, assegninouna particolare collocazione e funzione di garanzia all’impresa bancaria,e richiedano una visibilità tutta particolare e specifica dell’attività sua edei suoi esponenti’’( 51 ).Infine, l’opzione per la trasparenza dei rapporti economico-finanziarinon porta con sé solo un rilievo di carattere etico, ma anche un’importantevalutazione in ordine alla tanto evocata autoregolamentazione da partedelle banche. La richiesta di queste di non essere ‘‘costrette’’ in reticolicomportamentali e controlli ‘‘invadenti’’ passa necessariamente da una culturadella trasparenza e della fiducia nel loro operato sul mercato, nell’otticadel fondamentale principio dell’art. 47, I comma, Cost.§ 4. Informazione bancaria, organo di vigilanza ed autorità giudiziaria: ilreperimento delle notitiae criminis.Informazione e mercato finanziario, dunque. Cui prodest?A tutti:– agli investitori-risparmiatori, i quali saranno attratti da un mercatochiaro e trasparente, che sia in grado di fornire informazioni veritiereche consentano l’attuazione del principio della c.d. razionalità dell’operatoreeconomico;– agli intermediari, che agendo da canale di comunicazione tra le informazioniprodotte ed i bisogni informativi degli utenti contribuiscono a facilitarnel’accesso al mercato, incentivando l’investimento e l’afflusso delrisparmio;– al mercato, il quale attraverso una politica improntata alla circolazione diinformazioni chiare, precise e veritiere può improntarsi alla concorrenza,all’efficienza e stabilità;( 51 ) Patalano, Reati ed illeciti del diritto bancario, cit., 266.


396STUDI E RASSEGNE– all’autorità di controllo, la quale può attuare la sua peculiare funzione divigilanza e guida mediante uno screening informativo che consenta di esseregarante della legalità, del corretto funzionamento del mercato e dell’efficienteallocazione del risparmio e delle risorse economiche;– alla repressione dei fenomeni criminali, in quanto si può tranquillamenteaffermare che il primo motivo di impunità per un illecito è la mancataconoscenza che l’illecito sia stato compiuto.Le fattispecie penali poste a presidio del corretto funzionamento dell’attivitàbancaria e finanziaria, unitamente alla necessità di garantire l’effettivoed efficiente esercizio dei poteri di vigilanza conferiti dall’ordinamentoall’organo di controllo, e segnatamente alla Banca d’Italia, hanno determinatola coesistenza nel sistema di diverse incriminazioni specificamente delineate,oltre a quelle contenute nel codice <strong>penale</strong>.Ma ‘‘non esiste una ricca casistica giurisprudenziale di queste responsabilità.Le ragioni possono consistere tanto nella intrinseca «specificità»delle norme incriminatici, peraltro spesso modificate, e delle condotte sanzionate,quanto nella scarsa attenzione sino ad ora prestata al mondo bancarioda parte della magistratura inquirente. La quale, attivandosi di normasulla base di una notitia criminis, difficilmente indaga autonomamente inun terreno che non le è congeniale. E d’altro canto la complessa proceduracon la quale l’organo di vigilanza vaglia i presupposti per attivare le Procuredella Repubblica rende molto rare le segnalazioni di reato. Nondimeno,la progressiva sensibilizzazione della magistratura nei confronti deicrimini economici, il riconoscimento della loro incidenza sul corretto svolgimentodell’attività imprenditoriale pubblica e privata, l’allarme socialeevocato da eventi enfatizzati dai mezzi di comunicazione lasciano ragionevolmentesupporre che questo campo sarà, nel futuro, battuto con crescentetenacia e professionalità’’( 52 ).Problematica notoriamente esistente nei rapporti tra autorità giudiziariae settore creditizio per quanto attiene in senso ampio l’acquisizioned’informazioni da parte della prima nei confronti del secondo ed alla regolamentazionedelle relative procedure: ‘‘si deve constatare necessariamenteun elevato tasso di conflittualità, più o meno latente e talvolta conclamatoin modo clamoroso, o quanto meno d’incomprensione reciproca fra i dueinterlocutori del confronto’’( 53 ).L’impresa-banca, infatti, raccoglie, gestisce e conserva, in termini traloro logicamente e strettamente interdipendenti, denaro e informazioni:sia nella fase della raccolta del risparmio che in quella di esercizio del cre-( 52 ) Nordio, Commento all’art. 134 T.U., inEllero-Nordio, Reati societari e bancari,Padova, 1998, 273.( 53 ) Flick, Informazione bancaria e giudice <strong>penale</strong>: presupposti di disciplina. Problemi eprospettive, inBanca Borsa e Titoli Credito, 1988, I, 441.


STUDI E RASSEGNE397dito. La banca può dunque costituire l’interlocutore privilegiato dell’autoritàgiudiziaria sia nell’attività di prevenzione, sia in quella di repressione difatti illeciti con riferimento sia alla criminalità organizzata che a quella comune,sotto il duplice profilo della individuazione delle fonti di finanziamentoe dell’individuazione dei mezzi di riciclaggio e di trasferimentodei profitti; oltre a tutte le ipotesi in cui la ricostruzione dell’iter di trasferimentodi denaro e della acquisizione di disponibilità economiche da partedi taluno si risolve in un accertamento probatorio rilevante ai fini penali(54 ).‘‘Nel momento in cui il legislatore costituente ha previsto una normacome l’art. 41 Cost. ha dato per scontato, come possibile e come doveroso,un intervento del legislatore ordinario diretto ad assicurare il «non contrasto»tra attività economica privata e utilità sociale e a determinare i programmie i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privatapossa essere indirizzata e coordinata a fini sociali’’( 55 ).In quest’ambito si inseriscono gli interventi dello Stato nell’economianell’ottica di un processo di sviluppo e di protezione del sistema attraversola predisposizione di normative specifiche anche con l’utilizzo dello strumentopenalistico poiché ‘‘criminalità economica e criminalità organizzatasono sempre meno accezioni diverse: i mercati finanziari diventano terrenofertile e ideale, da un lato, e terreno «necessitato», dall’altro, per l’accumulazione,la trasformazione e l’investimento dei proventi illeciti. I mercati finanziarisono quindi luogo di commissione di reati e luogo dove i proventidi altri reati cercano legittimazione, rispettabilità, regolarizzazione’’( 56 ).L’obiettivo di prevenire e reprimere i modi di immissione della ricchezzadi provenienza illecita nel sistema dell’economia legale e l’utilizzazionedello stesso in maniera distorta o per scopi illegali, dovrà essere perseguitoin misura sempre crescente, anche all’interno di una strategia dicooperazione internazionale. Tale strategia non può prescindere da unasempre più fattiva collaborazione da parte degli intermediari finanziari, at-( 54 ) ‘‘Per la banca v’è la tentazione di accentuare la logica tradizionale di tipo privatisticoe imprenditoriale non tanto e non solo rivendicando esigenze e istanze tradizionali didifesa ad oltranza della riservatezza e del segreto bancario nell’interesse diretto e immediatodel cliente, nonché in quello mediato del settore; quanto e soprattutto rivendicando istanzedi eccessività e sproporzione – anche rispetto ai risultati conseguibili nel campo dell’indagine– dei costi economici e tecnici cui le richieste di informazione dell’autorità giudiziaria dannoluogo. (...) Per il giudice, per contro, v’è la tentazione di accentuare nei confronti della bancala logica di tipo pubblicistico e solidaristico’’. Flick, Informazione bancaria e giudice <strong>penale</strong>:presupposti di disciplina. Problemi e prospettive, cit., 444.( 55 ) Corso, Profili penali e processuali penali della disciplina del mercato finanziario, inRiv. Trim. Dir. Pen. Econ., 1995, 1077.( 56 ) Corso, Profili penali e processuali penali della disciplina del mercato finanziario,cit., 1079.


398STUDI E RASSEGNEtesa la posizione nevralgica che occupano nell’economia e nella finanza, laprofessionalità specifica di cui sono portatori e la presenza capillare nel territorio.Tale contributo è essenziale per un efficace svolgimento dell’azionedi contrasto all’inquinamento del sistema economico.Soprattutto attraverso una pronta acquisizione ed un’ampia utilizzazionedei dati provenienti dal sistema creditizio, gli effetti dirompenti dellapenetrazione nei circuiti dell’economia legale delle ricchezze di derivazioneillecita potranno essere, se non completamente neutralizzati, adeguatamentecontenuti. Ugualmente, le puntuali modalità di registrazione contabilee di acquisizione di informazioni e notizie adottate dagli istituti di creditoconsentono, almeno tendenzialmente, una precisa individuazione deisingoli flussi finanziari e dei collegamenti interpersonali tra i diversi soggettiinteressati, con risultati utilizzabili anche a fini probatori nell’ambitodel procedimento <strong>penale</strong>.L’importanza della trasparenza in materia economica è alla base ditutte le più recenti modifiche del diritto societario e bancario, compresoquello <strong>penale</strong>, e la trasparenza postula non solo permeabilità ai controlliesterni, ma, soprattutto, cooperazione con gli organi investigativi.Sempre più spesso per poter svolgere efficacemente le funzioni ad esseattribuite dall’ordinamento le autorità di vigilanza devono coordinare leproprie attribuzioni e condividere il patrimonio informativo di cui sono titolari.Il legislatore, però, ha assegnato ruoli diversi; se è vero che il patrimonioinformativo e d’esperienza di cui dispone la Banca d’Italia è strumentoessenziale per contrastare forme di criminalità che si avvalgonodel sistema, è altrettanto vero che le finalità essenzialmente repressive delfenomeno criminale cui si ispira la legislazione <strong>penale</strong> hanno indotto il legislatorea porre altri organi e non quello di vigilanza bancaria al centrodell’impianto organizzativo apprestato allo scopo.L’interesse della Banca d’Italia nel contrasto alle condotte illecite, al dilà della naturale sensibilità alle istanze collettive di pieno rispetto della legalità,è di tipo ‘‘riflesso’’, nel senso che l’impegno e la collaborazione conle altre pubbliche autorità nel contrasto del fenomeno sono funzionali allapreservazione della stabilità degli intermediari e dell’efficienza e competitivitàdel sistema finanziario, obiettivi ai quali, diversamente dalla repressionedei fenomeni criminali, l’organo di vigilanza deve invece attenderecon un ruolo di preminenza.I rapporti collaborativi tra autorità possono svilupparsi in modi diversie a vari livelli, partendo dal semplice scambio d’informazioni per arrivare avere e proprie forme di collaborazione. Il patrimonio informativo e di esperienzache deriva dallo svolgimento dell’attività di supervisione del mercatocreditizio e più in generale di quello finanziario nonché dalla collaborazionecon le altre autorità di settore, fa sì che l’organo di vigilanza possadare un contributo di fondamentale importanza nello svolgimento delle indaginiaventi ad oggetto fenomeni di criminalità economica o che per inte-


STUDI E RASSEGNE399grarsi si avvalgano del sistema economico. Però, ‘‘un tale coinvolgimentonon deve in alcun modo far perdere di vista le competenze proprie di ciascunaautorità, le quali escludono che alla Banca d’Italia, ma in pari modoqualsiasi altra autorità di vigilanza, siano affidati compiti investigativi: l’attivitàdi vigilanza tende a prevenire situazioni patologiche dei singoli intermediari,che potrebbero dar luogo a crisi sistemiche; la giustizia <strong>penale</strong> interviene,invece, al fine si reprimere attività illecite’’( 57 ).Ma un sistema <strong>penale</strong> non può conseguire le sue finalità sia preventivesia repressive se mancano gli input iniziali necessari per attivare i meccanismidi controllo e di repressione e questo è maggiormente avvertitocon riferimento al mercato finanziario la cui tradizionale impenetrabilitàe riservatezza preseleziona e riduce drasticamente le possibili fonti informative.In un sistema come il nostro guidato dal principio portato dall’art. 24Cost. per il quale la responsabilità <strong>penale</strong> è personale, la presunzione dinon colpevolezza sposta sul pubblico ministero l’onere della prova dell’esistenza,consistenza e attribuibilità dell’illecito <strong>penale</strong> e, pertanto, è immediatamenteintuitivo come l’effettività di tutti gli interventi penali nella disciplinadel mercato finanziario sia condizionata alla verifica processualedella tesi accusatoria e, innanzitutto, alla capacità degli inquirenti (pubblicoministero e polizia giudiziaria) di trovare elementi idonei a giustificare l’aperturae lo sviluppo di un’indagine preliminare e sufficienti a determinareil magistrato requirente all’esercizio dell’azione <strong>penale</strong>.Avendo il legislatore chiamato a collaborare – doverosamente ed inmodo qualificato – i soggetti che a vario titolo sono coinvolti nel mercatofinanziario, i flussi informativi sono stati incanalati normativamente in duedirezioni: dall’autorità giudiziaria alla Banca d’Italia e dall’organo di controlloall’autorità giudiziaria.Nel primo caso di deroga extra codicem all’art. 329 c.p.p., previsto soprattuttoin materia di normativa antiriciclaggio, il legislatore impone unflusso di notizie dal procedimento <strong>penale</strong> all’autorità bancaria al massimolivello, affinché il Governatore della Banca d’Italia possa assumere le iniziativeed adottare i provvedimenti di sua competenza, privilegiando, così,non solo il momento meramente repressivo, ma consentendo al sistemabancario stesso di rendersi consapevole di una modalità di proprio uso illecitoper consentirgli di impedirne o contrastarne in futuro ogni tentativodi reiterazione.In questo caso non solo vi è una comunicazione della pendenza di unprocedimento per un reato di criminalità economica, che sarebbe di per sécomunicazione interdetta ex art. 335 c.p.p., ma vi è un’informativa circa il( 57 ) Urbani, Supervisione bancaria e lotta al riciclaggio, cit., 501. In argomento, ultra:Mangione, Mercati finanziari e criminalità organizzata: spunti problematici sui recenti interventinormativi di contrasto al riciclaggio, inRiv. It. Dir. Proc. Pen., 2000, 1102 ss.


400STUDI E RASSEGNEcontenuto e le risultanze emergenti dalle indagini preliminari idonea aporre il Governatore della Banca d’Italia in grado di adottare gli atti disua competenza. ‘‘La peculiarità del caso in esame è che l’eccezione alla regoladi cui all’art. 329 c.p.p. non è dovuta a ragioni interne al procedimento<strong>penale</strong> («quando è necessario per la prosecuzione delle indagini»),ma a ragioni esterne riconosciute meritevoli di particolare attenzione ecura, quale può essere l’adozione di regole valide per il sistema bancarioidonee ad impedire il ripetersi di casi analoghi a quello sub judice’’( 58 ).Altra disposizione, in particolare, è inserita nel decimo comma dell’art.5 L. 197-1991 come modificato dal dlg. 153-1997, ove si stabilisceche qualora l’Ufficio Italiano Cambi (UIC), a seguito della sua attivitàdi verifica dell’osservanza da parte degli intermediari abilitati delle normein tema di trasferimento di valori e di analisi dei dati, ritenga che emerganoanomalie rilevanti per l’eventuale individuazione di fenomeni di riciclaggio,dopo aver effettuato i necessari approfondimenti di carattere finanziario,d’intesa con l’autorità di vigilanza di settore, ne informa gli organiinvestigativi. In questo caso, dunque, viene prevista una dupliceforma di collaborazione tra autorità. La prima (preliminare) riguardal’UIC e la Banca d’Italia e si propone di sollecitare l’acquisizione di elementivalutativi; la seconda coinvolge, invece, l’autorità giudiziaria cheraccoglie l’informativa dell’autorità amministrativa indipendente nellasua attività di vigilanza. Parallela disposizione è contenuta anche negli articoli185-186 dlg. 58-1998 (T.U. delle disposizioni in materia di intermediazionefinanziaria).Tale flusso di notizie non può essere a senso unico e pertanto all’obbligodi comunicazione da parte dell’autorità giudiziaria corrisponde unanalogo obbligo in capo al Governatore della Banca d’Italia di comunicarele iniziative assunte e i provvedimenti adottati sulla base dell’input ricevuto,anche se, sotto quest’ultimo aspetto, a questo flusso informativo in direzionedell’autorità giudiziaria non si trova un riscontro corrispondente nell’oppostadirezione dall’autorità giudiziaria a quella di vigilanza, nonostantela piena consapevolezza circa i notevoli vantaggi che possono derivarein materia da un’intensa e reciproca collaborazione tra i soggettipreposti alle indagini e le autorità settoriali di supervisione pubblica.Il legislatore, dunque, ha riaffermato l’obbligo di collaborare alla rilevazionedi irregolarità e operazioni sospette da parte degli organi investigativi,stante l’interesse pubblico a preservare l’attività economica e, in particolare,l’intermediazione creditizia e finanziaria dal coinvolgimento in illecitidi qualsiasi natura e stante l’interesse degli intermediari stessi ad una( 58 ) Corso, Profili penali e processuali penali della disciplina del mercato finanziario,cit., 1095.


STUDI E RASSEGNE401autotutela che porti all’esclusione di chi vìola le regole del mercato, dellaconcorrenza e del sistema <strong>penale</strong>.Nello specifico, il dlg. 385-1993 all’art. 7 occupandosi dell’attività divigilanza della Banca d’Italia ribadisce la configurabilità di un segreto d’ufficioopponibile alle pubbliche amministrazioni ma non alla magistratura<strong>penale</strong>: il segreto non copre i casi previsti dalla legge per le indagini su violazionisanzionate penalmente.L’aspetto maggiormente rilevante, però, non è tanto quello della rispostaalle richieste provenienti dal pubblico ministero, quanto quello diun eventuale obbligo di denunciare i fatti di rilievo <strong>penale</strong> emersi a seguitodell’attività di vigilanza: i dipendenti della Banca d’Italia, nell’esercizio dellefunzioni di vigilanza, sono pubblici ufficiali e hanno l’obbligo di riferire esclusivamenteal Governatore tutte le irregolarità constatate, anche quando assumonola veste di reati.La norma, dunque, vieta al singolo dipendente dell’organo di controllodi denunciare direttamente all’autorità giudiziaria fatti di rilievo <strong>penale</strong> edindica come destinatario esclusivo il Governatore (analoga disposizione siritrova anche nel dlg. 58-1998 all’art. 4, comma 11).Con riferimento al dettato legislativo, il Governatore ha il dovere didenuncia, come ogni altro pubblico ufficiale, allorché ravvisi nel fatto ilfumus di un reato: e reato significa un fatto che, per la contemporanea presenzadell’elemento oggettivo e di quello soggettivo, può corrispondere almodello astrattamente delineato dalla norma incriminatrice. Né le difficoltàinerenti la valutazione tecnica circa la configurazione del fatto come reato,difficoltà particolarmente accentuate in un settore quale quello dei reatibancari, sono sufficienti a trasformare la situazione soggettiva di obbligoper il Governatore in un potere discrezionale.È da escludere, dunque, che le norme vogliano consentire al Governatoredella Banca d’Italia (o al Presidente della CONSOB) di valutare seinoltrare o no la denuncia di un’irregolarità di rilievo <strong>penale</strong>, rendendofacoltativa una segnalazione che la loro veste pubblica rende invece obbligatoria.‘‘Questa canalizzazione delle notitiae criminis risponde allo scopodi consentire all’autorità l’immediata instaurazione del contraddittoriocon gli interessati e l’adozione di tutti i provvedimenti necessari a tuteladel mercato, rimanendo ovviamente esclusa ogni valutazione discrezionalesulla trasmissione dell’informativa alla Procura della Repubblica competente’’(59 ).In questo modo, senza escludere il diritto-dovere dell’autorità giudiziaria(ex artt. 112 Cost. e 50 c.p.p.) di avviare indagini sugli eventuali reati( 59 ) Seminara, La tutela <strong>penale</strong> del mercato finanziario, in AA.VV., Manuale di diritto<strong>penale</strong> dell’impresa, Bologna, 2000, 527.


402STUDI E RASSEGNEogniqualvolta ne venga a conoscenza, l’inoltro della notitia criminis all’unicoorgano costituzionalmente deputato all’accertamento ed alla repressionedelle condotte penalmente rilevanti avverrà tramite una funzione di‘‘filtro’’ effettuata dal Governatore che, rivestendo comunque la qualificadi pubblico ufficiale, dovrà ‘‘passare’’ la notizia di reato alle Procure dellaRepubblica.Tale procedura divide la dottrina sulla sua ragion d’essere.Per alcuni tale procedura nelle finalità del legislatore contempera il rispettodelle esigenze di vigilanza con la necessità che le notizie di reato venganotrasmesse al naturale destinatario, il P.M.: ‘‘la ragion d’essere dellenorme si rinviene in primo luogo nella necessità di ricondurre la responsabilitàdell’inoltro della denuncia all’organo posto al vertice dell’amministrazione;in secondo luogo e di conseguenza nella necessità che sia quest’ultimo,in base a tutti gli elementi in suo possesso, a valutare la sussistenza,sia in fatto sia in diritto, della notizia di reato; in terzo luogo nella necessitàche, qualora a tale notizia possano conseguire effetti destabilizzanti sull’eserciziodella funzione creditizia e di raccolta del risparmio, l’organo amministrativoche è preposto al controllo del settore sia in grado di agire efficacementee tempestivamente per evitare o limitare i danni che possonoderivare alla funzione o al mercato o a soggetti estranei dall’inoltro dellanotitia criminis’’( 60 ).Infatti, ‘‘se è vero che l’intervento della magistratura viene in tal modoad essere differito, è anche vero che ciò avviene al fine di poter disporre diuna notizia di reato più completa e già arricchita degli elementi di conforto(attività compiuta e relativa documentazione): si delinea il rischio di indaginipreliminari fatte da altri soggetti e meramente valutate dal pubblicoministero ai fini delle sue determinazioni, ma il legislatore ha preferitonon rinunciare alla professionalità e qualificazione del portatore della notiziadi reato, in ciò anticipando di oltre un anno quella riforma dell’art.347 c.p.p. che ha sostituito con un più elastico «senza ritardo» l’obbligodi riferire la notizia di reato originariamente previsto, per la polizia giudiziaria,in termini più perentori’’( 61 ). Inoltre, se è esatto che l’art. 7 T.U. siriferisce anche a reati non inerenti al sistema del credito, ma altresì a reatiche, consumati all’esterno dell’ordinamento sezionale, pervengono a conoscenzadi quest’ultimo, il meccanismo della denuncia (doverosa) da partedel Governatore finisce per agevolare l’accertamento, altrimenti delicato,di reati economici, diversi da quelli strettamente bancari.Il T.U. bancario qualificando i dipendenti della Banca d’Italia, nell’e-( 60 ) Alibrandi, Considerazioni in tema di procedibilità dei reati bancari,inBanca BorsaTitoli di Credito, 1981, I, 340.( 61 ) Corso, Profili penali e processuali penali della disciplina del mercato finanziario,cit., 1101.


STUDI E RASSEGNE403sercizio delle funzioni di vigilanza, come pubblici ufficiali e sottraendoli all’obbligodi denuncia ex art. 331 c.p.p. ed imponendo loro di riferire le irregolaritàriscontrate, ‘‘anche quando assumono la veste di reati’’, esclusivamenteal Governatore, conferma ‘‘la peculiarità e la delicatezza dell’attivitàdi vigilanza svolta dalla Banca d’Italia: gli effetti negativi sul sistemafinanziario, che potrebbero essere determinati dalla divulgazione di notizierelative a fatti che vedessero coinvolte banche o altri intermediari e per iquali si ravvisi un fumus di reato, hanno indotto il legislatore ad accentrarenel vertice dell’Istituto tale obbligo al fine di consentire l’adozione di queiprovvedimenti necessari a scongiurare il prodursi di tali effetti’’( 62 ).La ratio di tale eccezione al disposto dell’art. 331 c.p.p. deve essere individuatanella tipicità dell’attività bancaria, che rende necessario e opportunomediare tra l’esigenza di perseguire i reati e quella di evitare che tramitela divulgazione di tali notizie si possano determinare crisi di fiducianel pubblico dei risparmiatori sulla solvibilità di taluni intermediari conconseguente pericolo di ripercussioni negative sulla stabilità del singolo intermediariointeressato e, più in generale del sistema bancario nel suo complesso:‘‘una volta informato il Governatore dei fatti penalmente rilevanti,quest’ultimo non si deve ritenere esentato dall’obbligo di portarne a conoscenzal’autorità giudiziaria, ma deve provvedervi immediatamente. La disposizione,in realtà, consente al Governatore di non effettuare la denunciasemplicemente per il tempo necessario ad assumere quei provvedimenti divigilanza atti ad evitare che la diffusione della notizia criminis pregiudichil’attività di vigilanza stessa’’( 63 ).Altri autori, al contrario, non hanno mancato di rilevare che nonostanteil vantaggio di salvaguardare il sistema creditizio in generale, tali regolepongono ostacoli seri all’accertamento dei reati, anche se non tipicamentebancari, commessi nell’ambito delle aziende di credito( 64 ).In particolare, viene evidenziato non solo il fattore temporale con riferimentoal ‘‘ritardo’’ nella comunicazione della notizia di reato, ma anche ilfatto che questa subisce necessariamente un ‘‘condizionamento’’ dovuto all’impostazionesubita dall’organo di vigilanza. Il pubblico ministero nonsarà subito dominus delle indagini preliminari con potere-dovere di impostarlee strutturarle in modo autonomo. Egli, infatti, riceverà dall’organo di( 62 ) Urbani, Supervisione bancaria e lotta al riciclaggio, cit., 502.( 63 ) Codemi, Commento all’art. 7 T.U.L.B., in AA.VV., La nuova legge bancaria, cit.,138.( 64 ) In argomento: Cavallari, Spunti processuali penali in tema di attività bancaria, inBanca Borsa e Titoli di Credito, 1976, I, 390 ss.; D’Agostino, I reati bancari, in AA.VV.,Trattato di diritto <strong>penale</strong> dell’impresa (a cura di Di Amato), vol. III, Padova, 1992, 206ss.; Antolisei, Manuale di diritto <strong>penale</strong>-Leggi complementari, vol. I, Milano, 1993, 103ss.; Magistro, Banche ed altri intermediari finanziari: tecniche investigative, inRiv. G. diF., 1995, 471 ss.


404STUDI E RASSEGNEcontrollo un insieme di notizie ed un’istruttoria amministrativa che potrebberocondizionarlo o ritardarlo negli accertamenti ai fini dell’esercizio dell’azione<strong>penale</strong>.Per i sostenitori di tale orientamento, pertanto, una volta che si assumaviolato un precetto, il procedimento <strong>penale</strong> deve necessariamente avviarsi,svolgersi e pervenire ad una conclusione, e perché questo avvenga è necessarioche il naturale destinatario delle notitiae criminis possa fin da subitoattivarsi. Il titolare del procedimento per le indagini preliminari, infatti,fruisce, inevitabilmente, di un margine di discrezionalità quando disponele indagini stesse, organizza il lavoro investigativo, impiega la polizia giudiziaria,ed il limite all’uso del potere discrezionale viene individuato anchenella tempestività della comunicazione; presupposto, questo, per consentireall’organo dell’accusa di compiere solo indagini utili e conferenti, tralasciandoquelle superflue alla luce del combinato disposto degli articoli326 e 358 c.p.p.§ 5. Novità dal disegno di legge del 03.02.2004 – C. 4705: ‘‘Interventi perla tutela del risparmio’’, ora legge 28.12.2005 n. 262.Il disegno di legge di iniziativa governativa recante interventi per la tuteladel risparmio, ed attualmente nelle more dei tempi tecnici richiesti dallapubblicazione, approvato dal Parlamento e promulgato quale legge28.12.2005 n. 262 ‘‘Disposizioni per la tutela del rispamio e la disciplinadei mercati finanziari’’, intende configurare una competenza istituzionaleorganica sul bene del risparmio, tutelato dall’art. 47 Cost., mediante la trasformazionedella CONSOB in una nuova autorità che esercita i propri poteriper assicurare la tutela del risparmio e degli investitori, la fiducia delmercato, la trasparenza e la correttezza dei comportamenti dei soggetti vigilati,l’informazione del risparmiatore.Le norme recate dal provvedimento de quo non si limitano a riformareil sistema dei controlli, ma si estendono ad una serie di ulteriori ambiti d’intervento:la disciplina degli abusi di mercato, la trasparenza delle attivitàsvolte nei c.d. paradisi fiscali, i conflitti d’interessi fra banche ed imprese,la circolazione degli strumenti finanziari esteri, i conflitti d’interessi degliorganismi d’investimento collettivo del risparmio, i sistemi d’indennizzodei risparmiatori, il governo societario e l’apparato sanzionatorio.In particolare viene offerto un riassetto delle autorità di vigilanza sulmercato, attraverso il mantenimento di quelle attualmente esistenti, maconcentrando alcune competenze in capo alla CONSOB che è, altresì, destinataa perdere il proprio nome per assumere quello di Autorità per la tuteladel risparmio. La variazione proposta dalla legge vuole evidenziare ilpassaggio da un sistema incentrato su una burocratica e compartimentatavigilanza per soggetti e settori ad uno ispirato alla tutela dei risparmiatori e


STUDI E RASSEGNE405quindi orientato più dalla parte della domanda che da quella dell’offerta,come testimoniato dall’art. 21 della legge stessa.In quest’ottica si pone anche l’art. 22 L. 262/2005 il quale stabilisceche ‘‘Nell’esercizio dei poteri di vigilanza informativa ed ispettiva le Autoritàdi cui all’art. 20 possono avvalersi, in relazione alle specifiche finalitàdegli accertamenti, del corpo della Guardia di Finanza, che agisce con i poteriad esso attribuiti per l’accertamento dell’imposta sul valore aggiunto edelle imposte sui redditi utilizzando strutture e personale esistenti in mododa non determinare oneri aggiuntivi. Tutte le notizie, le informazioni e idati acquisiti dal corpo della Guardia di Finanza nell’assolvimento deicompiti previsti dal comma 1 sono coperti dal segreto di ufficio e vengonosenza indugio comunicati esclusivamente alle autorità competenti’’.Il Corpo della Guardia di Finanza tra i suoi compiti assolve le funzionidi polizia economica e finanziaria a tutela dei mercati finanziari e mobiliari,ivi compreso l’esercizio del credito e la sollecitazione del pubblico risparmio,ma contestualmente restano ferme sempre le sue competenze eprerogative di polizia giudiziaria. Pertanto, sintetizzando, la Guardia di Finanza,anche quando agisce su richiesta dell’autorità di vigilanza, è organodi polizia giudiziaria e come tale obbligato a riferire le notizie di reato alpubblico ministero ex art. 347 c.p.p., che, a sua volta, ricevuta la comunicazione,è obbligato a procedere ai sensi degli artt. 326 e 358 c.p.p.La conseguente sovrapposizione di indagini (amministrativa e giudiziaria),con tutti i rischi derivanti dalla possibilità di divergenti direttive eprescrizioni impartite dalle autorità di vigilanza e dal pubblico ministeroovvero di autonome iniziative della stessa Guardia di Finanza nonché dipossibili fughe di notizie destabilizzanti il mercato prima ancora che sia accertatala fondatezza dell’eventuale addebito, rappresenta una concretapossibilità consentita dall’attuale legge; inoltre ci si chiede in cosa consistal’avvalersi ossia se si riferisca al solo personale, o a tutti i mezzi a sua disposizionecome, ad esempio gli archivi informatici.Nel disegno di legge era inserito all’art. 32 una norma, non riprodottanel provvedimento finale, che si rifà a quanto già presente nel testo unicobancario (art. 7): tutte le notizie, le informazioni e i dati in possesso dell’Autoritàin ragione delle sue attività di vigilanza sono coperte dal segreto d’ufficioanche nei confronti delle pubbliche amministrazioni. Il segreto non puòessere opposto all’autorità giudiziaria quando le informazioni richieste sononecessarie per le indagini o i procedimenti relativi a violazioni sanzionate penalmente.I dipendenti dell’Autorità, nell’esercizio delle funzioni di vigilanza,sono pubblici ufficiali. Il presidente e i commissari dell’Autorità, i dipendenti,i consulenti e gli esperti dei quali essa si avvale sono vincolati dalsegreto d’ufficio e hanno l’obbligo di riferire esclusivamente alla commissionetutte le irregolarità constatate.Permangono, comunque, problemi interpretativi. Infatti anche attribuendola massima estensione al segreto d’ufficio per il presidente, i com-


406STUDI E RASSEGNEmissari, i dipendenti, i consulenti e gli esperti dell’Autorità per la tutela delrisparmio – fino al punto di ritenere che il loro obbligo di riferire esclusivamentealla commissione tutte le irregolarità constatate valga a sottrarli all’operativitàdell’art. 361 c.p. – in ogni caso nulla è previsto né in ordine aipresupposti in presenza dei quali l’Autorità ètenuta a trasmettere le informativedi reato al pubblico ministero, né relativamente ai rapporti tra laGuardia di Finanza e l’autorità giudiziaria.Non può essere sottaciuto che la stessa in quanto organo di polizia giudiziariasoggiace, tra l’altro, agli obblighi portati dall’art. 347 c.p.p. operandoin un ambito di diretta dipendenza dal pubblico ministero con unruolo di osservatorio avanzato dello stesso organo d’accusa e di agile strumentoinvestigativo, avendo le attribuzioni della polizia giudiziaria le stessefinalità di quelle del pubblico ministero e cioè la ricerca e l’acquisizionedelle fonti di prova oltre al compimento di un complesso di attività e accertamentivolti a permettere al magistrato requirente di stabilire la fondatezzadella notizia di reato e decidere quindi sulla sussistenza o meno deipresupposti per dare inizio al processo <strong>penale</strong>.In una siffatta situazione, dunque, la presenza e l’utilizzo della Guardiadi Finanza, così come previsto dalla legge, offre l’ingresso ‘‘tempestivo’’dell’autorità giudiziaria, con l’esercizio delle sue attribuzioni, nell’ambitodella procedura amministrativa di accertamento bancario attuata dalleautorità di vigilanza, ma rendendo forse ancora più opportuno potenziaree valorizzare la collaborazione reciproca tra autorità giudiziaria ed autoritàamministrativa al fine di garantire non solo celerità ed efficacia, ma soprattuttoriservatezza nell’ottica dell’effettiva protezione dei mercati.Giovanna Fanelli


STUDI E RASSEGNE407NUOVI PROF<strong>IL</strong>I DELL’AZIONE PENALENEL PROCEDIMENTO DAVANTI AL GIUDICE DI PACESommario: 1. Considerazioni introduttive. – 2. Promovimento dell’azione <strong>penale</strong> ex art.12, 15 comma 1 e 17 comma 4 d. lgs. n. 274 del 2000. – 3. Formulazione dell’imputazioneda parte del pubblico ministero ex art. 25 comma 2 d. lgs. n. 274 del 2000. – 4.Segue: parere contrario od omesso intervento dell’organo pubblico ex art. 25 d. lgs. n.274 del 2000. – 5. Conclusioni.1. Considerazioni introduttive. – A seguito dell’emanazione del d. l. 27luglio 2005 n. 144 conv. in l. 31 luglio 2005 n. 155 recante misure urgentiper il contrasto del terrorismo internazionale, il tema dell’esercizio dell’azione<strong>penale</strong> (e della connessa vocatio in iudicium dell’imputato) nel rito<strong>penale</strong> di pace pare assumere rinnovata attualità.In proposito, è opportuno premettere che la Costituzione all’art. 112sancisce che «il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione <strong>penale</strong>»,da intendersi in senso stretto( 1 ). Peraltro, sulla base di tale articoloè sostenibile soltanto che «il legislatore ordinario non possa sottrarre l’eserciziodell’azione <strong>penale</strong> al pubblico ministero: non che quest’ultimo neabbia l’esclusiva titolarità»( 2 ). Come rilevato anche dalla Consulta, «il di-( 1 ) ... così distinguendola dall’azione <strong>penale</strong> di tipo cautelare (cioè volte all’applicazionedi una misura contemplata dal libro IV del c.p.p.), esecutivo (in quanto la regiudicandainerisce all’attuazione di un precedente provvedimento giurisdizionale), complementare e diprevenzione criminale, come sottolinea G. Ubertis, Sistema di procedura <strong>penale</strong>, I, Principigenerali, Utet, Torino, 2004, p. 123.( 2 ) G. Ubertis, Sistema di procedura <strong>penale</strong>, I,Principi generali, cit., p. 124. Nello stessosenso, cfr. M. Chiavario, L’azione <strong>penale</strong> fra diritto e politica, Cedam, Padova, 1995, p.34 ss.; O. Dominioni, Azione <strong>penale</strong>, inD. disc. pen., I, Utet, Torino, 1989, p. 406 ss.; Id.,sub art. 50, inCommentario del nuovo codice di procedura <strong>penale</strong>, diretto da E. Amodio-O.Dominioni, I, Giuffrè, Milano, 1989, p. 294 ss.; E. Marzaduri, Azione: IV) diritto processuale<strong>penale</strong>, inEnc. giur. Treccani, IV, Roma, 1996, p. 3; M. Scaparone, Elementi di procedura<strong>penale</strong>. I principi costituzionali, Giuffrè, Milano, 1999, p. 85.Del resto, la tesi del monopolio dell’azione <strong>penale</strong> in capo all’organo dell’accusa sarebbesmentita allo stesso livello costituzionale, laddove, nelle ipotesi di alto tradimento e di attentatoalla Costituzione compiuti dal Presidente della Repubblica, l’art. 90 prevede la messa


408STUDI E RASSEGNEsposto costituzionale facendo obbligo al Pubblico Ministero di esercitarel’azione <strong>penale</strong> non vuole escludere, come risulta anche dai lavori preparatori,che ad altri soggetti possa essere conferito analogo potere. Ciò chela ratio dellanormaescludeèche al Pubblico Ministero possa essere sottrattala titolarità dell’azione <strong>penale</strong> in ordine a determinati reati (salvoche nelle ipotesi costituzionalmente previste), con la conseguenza che latitolarità dell’azione <strong>penale</strong> in tanto può essere legittimamente conferitaanche a soggetti diversi dal Pubblico Ministero in quanto con ciò nonsi venga a vanificare l’obbligo del Pubblico Ministero medesimo di esercitarla»(3 ).Pertanto, pare doversi ritenere con sufficiente certezza che non solonon sia sancito a livello costituzionale un monopolio del pubblico ministeroin ordine all’esercizio dell’azione <strong>penale</strong> ma anche che sia consentito al legislatore«prevedere azioni penali sussidiarie o concorrenti rispetto a quellaobbligatoriamente esercitata dal Pubblico Ministero»( 4 ).Tuttavia, il legislatore del 1988 con l’art. 231 norme coord. c.p.p.( 5 )haritenuto di espellere dall’ordinamento le ipotesi di esercizio dell’azione <strong>penale</strong>da parte di soggetti diversi dal pubblico ministero( 6 ): invero tale sceltatroverebbe giustificazione non nella scarsa sensibilità degli interessi soprain stato di accusa ad opera del «Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta deisuoi membri» che, inoltre, elegge «uno o più commissari» cui affidare l’esercizio delle «funzionidi pubblico ministero» davanti alla Corte costituzionale, ai sensi dell’art. 13 l. cost. 11marzo 1953 n. 1.( 3 ) Così C. cost., sent. 26 luglio 1979 n. 84, in Giur. cost., 1979, p. 640.( 4 ) Cfr. C. cost., sent. 26 luglio 1979 n. 84, cit., p. 640.Sotto quest’ultimo profilo, non può che essere condivisa la tesi di chi (G. Ubertis, Sistemadi procedura <strong>penale</strong>, I,Principi generali, cit., p. 125) sostiene che in questo modo sarebbeesteso l’ambito della partecipazione popolare all’amministrazione della giustizia – conformementea quanto stabilito dall’art. 102 comma 3 Cost. in applicazione del principio dellasovranità popolare di cui all’art. 1 comma 2 Cost. – «e più efficacemente tutelabili gli interessi– come quelli inerenti, per esempio, all’ambiente o alla salute – collettivi o diffusi, nonchépiù facilmente rimediabili le eventuali carenze dell’accusatore nella scelta (oggettivamentedipendente pure dal carico di lavoro dei singoli uffici in rapporto al loro organico) suquando, per che cosa e come procedere».( 5 ) In proposito, v. R. Collidà, sub art. 231, inCommento al nuovo codice di procedura<strong>penale</strong>, coordinato da M. Chiavario, La normativa complementare, II, Norme di coordinamentoe transitorie, Utet, Torino, 1992, p. 179 ss.; G.P. Voena, sub art. 231, inCommentariodel nuovo codice di procedura <strong>penale</strong>, diretto da E. Amodio-O. Dominioni, Appendice,a cura di G. Ubertis, Giuffrè, Milano, 1990, p. 183 ss.( 6 ) Ad esempio, l’azione del quivis de populo in materia di reati elettorali (art. 100d.p.r. 16 maggio 1960 n. 570 per la composizione e l’elezione degli organi delle amministrazionicomunali); l’azione del prefetto in materia di bonifica delle paludi e dei terreni paludosi(art. 153 ultimo comma r.d. 8 maggio 1904 n. 368); l’azione dell’intendente di finanza in materiadi contravvenzioni alle leggi sull’imposta degli zuccheri (art. 28 d.m. 8 luglio 1924) o,infine, l’azione ‘‘collettiva’’ in materia di frodi alimentari (art. 46 r.d.l. 15 ottobre 1925 n.2033 conv. in l. 10 marzo 1926 n. 562). Su tale ultima tipologia di azione, v. E. Amodio,


STUDI E RASSEGNE409indicati, ma nel contesto della difficoltà (anteriormente all’introduzione,avvenuta con l. 7 dicembre 2000 n. 397, delle norme in tema di indaginidifensive) «di regolare l’attività investigativa (comunque imprescindibileper poter attivare la giurisdizione sulla base di un fondamento probatorio)condotta da soggetti diversi dal pubblico ministero, nonché del riconoscimentodi un ruolo maggiormente significativo alla persona offesa dal reatoe agli enti esponenziali degli interessi lesi dal reato, secondo quanto risulta,tra l’altro, dagli art. 90 ss. c.p.p. se confrontati con il sistema a suo tempodelineato dal c.p.p. 1930»( 7 ).In particolare, con specifico riferimento all’esercizio dell’azione <strong>penale</strong>,nel codice di rito vigente, gli atti di inizio (costituenti numerusclausus( 8 )) corrispondono a quelli di «instaurazione del processo effettuatadefinendo l’oggetto particolare di esso con l’elevazione dell’imputazione(cfr. art. 405 comma 1, 409 comma 5 e 550 comma 1c.p.p. ...)»( 9 ).Parimenti ai medesimi atti si richiama sostanzialmente l’art. 60 c.p.p.,che elenca appunto quelli attributivi della qualità di imputato( 10 ). Quindi, iconcetti codicistici di ‘‘esercizio dell’azione <strong>penale</strong>’’, ‘‘formulazione dell’imputazione’’,‘‘imputato’’ si saldano tra loro( 11 ), tant’è che, in definitiva, ècorretto sostenere che si «ha assunzione della qualità di imputato nel momentoin cui il pubblico ministero dà inizio all’azione <strong>penale</strong>, procedendoL’azione <strong>penale</strong> delle associazioni dei consumatori per la repressione delle frodi alimentari, inRiv. it. proc. pen., 1974, p. 515).In generale sul tema, di recente, M. Caianiello, Poteri dei privati nell’esercizio dell’azione<strong>penale</strong>, Giappichelli, Torino, 2003, passim.Per un’articolata classificazione, poi, dei diversi tipi di azione <strong>penale</strong> esercitata da soggettidiversi dal pubblico ministero, v. G. Ubertis, Azione <strong>penale</strong> e sovranità popolare, inRiv. it. dir. proc. pen., 1975, p. 1206 ss.( 7 ) G. Ubertis, Sistema di procedura <strong>penale</strong>, I,Principi generali, cit., p. 125.( 8 ) In tal senso, v., per tutti, O. Dominioni, sub art. 50, cit., p. 289.( 9 ) Cfr. G. Ubertis, Sistema di procedura <strong>penale</strong>,I,Principi generali, cit., p. 124, il qualeprecisa che gli atti di inizio sono anche «quelli che, sebbene compiuti durante il suo svolgimento,immettono nel processo un nuovo oggetto sommantesi all’originario (attraverso lacontestazione di un reato connesso o di un fatto nuovo, come previsto, rispettivamente, dagliart. 423 comma 1 e 517 comma 1 c.p.p. e dagli art. 423 comma 2 e 518 comma 2 c.p.p.)».( 10 ) È appena il caso di osservare che non vi è corrispondenza assoluta tra l’art. 60comma 1 e l’art. 405 comma 1 c.p.p., perché il primo menziona anche il decreto di citazionediretta a giudizio previsto dall’art. 552 c.p.p. nel procedimento davanti al tribunale in composizionemonocratica. Nessuna delle due norme, invece, fa riferimento all’ipotesi contemplatadall’art. 409 comma 5 c.p.p. e relativa all’imputazione coatta a seguito di rigetto dellarichiesta di archiviazione.( 11 ) D. Grosso, L’udienza preliminare, Giuffrè, Milano, 1991, p. 28, rileva dal combinatodisposto degli art. 60 comma 1 e 405 comma 1 c.p.p. la «stretta concatenazione traesercizio dell’azione <strong>penale</strong>, formulazione dell’imputazione ed assunzione della qualità di imputato».


410STUDI E RASSEGNEalla formulazione di un addebito in uno di quegli atti tipici»( 12 ) o, in terminisimili, «imputato è la qualifica che una persona assume a seguito delpromovimento dell’azione <strong>penale</strong> nei suoi confronti»( 13 ).Tuttavia, l’unitarietà (e la stretta concatenazione cronologica) dei concettisopra ricordati, che caratterizza il procedimento ‘‘ordinario’’, sembravanon trovare conferma nel procedimento davanti al giudice di pace,prima delle modifiche introdotte dal d. l. 27 luglio 2005 n. 144 conv. inl. 31 luglio 2005 n. 155.Infatti, a norma dell’art. 3 d. lgs. n. 274 del 2000, la veste di imputatoveniva assunta «dalla persona alla quale il reato è attribuito nella citazione agiudizio disposta dalla polizia giudiziaria o nel decreto di convocazionedelle parti emesso dal giudice di pace», cioè in un atto comunque successivoa quello di formulazione dell’imputazione, effettuata dal pubblico ministerosecondo le modalità esaminate infra, § 2, 3 e 4.Ora tuttavia – come si analizzerà più dettagliatamente nel paragrafosuccessivo –, la disposizione in esame, laddove si riferisce all’assunzionedella qualità di imputato con la citazione a giudizio disposta dalla poliziagiudiziaria, pare possa essere letta in sintonia con gli art. 60 e 405 c.p.p.,grazie al suindicato intervento legislativo.Più precisamente, l’art. 17 comma 4 lett. a d. l. 27 luglio 2005 n. 144conv. in l. 31 luglio 2005 n. 155, pur modificando solo l’art. 20 (ma nonanche l’art. 3( 14 )) d. lgs. n. 274 del 2000, ha previsto che la citazione ingiudizio dell’imputato venga disposta non più dalla polizia giudiziaria madal pubblico ministero( 15 ), facendo coincidere, pertanto, l’assunzione dellaqualità di imputato con la citazione a giudizio (disposta dal pubblico ministero),in conformità agli art. 60 e 405 c.p.p. Coincidenza temporale chenon è dato riscontrare, invece – secondo quanto verrà rilevato infra, §3– nel procedimento attivato col ricorso della persona offesa, dove lo statusdi imputato è ricollegato all’emissione da parte del giudice del decreto diconvocazione delle parti, cioè a un atto successivo all’avvenuta formulazionedell’imputazione, ai sensi dell’art. 25 d. lgs. n. 274 del 2000, da partedel pubblico ministero.2. Promovimento dell’azione <strong>penale</strong> ex art. 12, 15 comma 1 e 17( 12 ) G. Tranchina, I soggetti, inD. Siracusano-A. Galati-G. Tranchina-E.Zappalà, Diritto processuale <strong>penale</strong>, I, Giuffrè, Milano, 2004, p. 162.( 13 ) O. Dominioni, sub art. 60, cit., p. 383.( 14 ) È indubbio, comunque, che esigenze di coordinamento avrebbero dovuto indurreil legislatore, come conseguenza della modifica dell’art. 20 d. lgs. n. 274 del 2000, a riformularepure l’art. 3 (oltre che gli art. 12 e 15) d. lgs. in esame.( 15 ) ... probabilmente nell’ottica di alleggerire il carico di incombenti che grava sullapolizia giudiziaria, perché la stessa possa contrastare, con maggiore efficacia e più forze, l’emergenzadel terrorismo internazionale.


STUDI E RASSEGNE411comma 4 d. lgs. n. 274 del 2000. – Nel procedimento davanti al giudicedi pace sono previste tre modalità alternative di esercizio dell’azione <strong>penale</strong>.La prima, dettata dagli art. 12( 16 ) e 15 comma 1( 17 ) d. lgs. n. 274 del2000, disponeva originariamente che il pubblico ministero esercitasse l’azione<strong>penale</strong>, formulando l’imputazione e autorizzando la citazione a giudiziodell’imputato. La seconda, contemplata dall’art. 17 comma 4 d. lgs.n. 274 del 2000, prevede la formulazione dell’imputazione su ordine delgiudice, qualora lo stesso non accolga la richiesta di archiviazione. La terza,infine, prevista dall’art. 25 comma 2 del medesimo d. lgs. (sulla quale ci sisoffermerà nei due paragrafi successivi), è inserita in un subprocedimento –avviato dal ricorso immediato della persona offesa – in cui il pubblico ministeropuò intervenire e «formula[re] l’imputazione confermando o modificandol’addebito contenuto nel ricorso».Sulla prima modalità di promovimento dell’azione <strong>penale</strong> ha inciso recentissimamente,come si accennava, l’emanazione del d. l. 27 luglio 2005n. 144 conv. in l. 31 luglio 2005 n. 155, il cui art. 17 comma 4 lett. a, hamodificato l’art. 20 d. lgs. n. 274 del 2000, disponendo che la citazionea giudizio dell’imputato, in origine disposta dalla polizia giudiziaria suautorizzazione del pubblico ministero, sia ora effettuata dal pubblico ministerostesso. Conseguentemente l’esercizio dell’azione <strong>penale</strong> – riservato invia esclusiva all’attore pubblico – dovrebbe ora identificarsi solo con l’elevazionedell’imputazione innestata nella citazione a giudizio, dovendosi ritenerecaducato (pur in assenza di uno specifico intervento di coordinamentonormativo – indubbiamente doveroso – da parte del legislatore) ilriferimento, contenuto negli art. 12 e 15 comma 1 d. lgs. n. 274 del2000, all’autorizzazione alla polizia giudiziaria per la citazione dell’imputato.Sotto questo specifico profilo, invero, anteriormente alla modifica inquestione, si discuteva in dottrina se l’esercizio dell’azione <strong>penale</strong> avvenisseper mezzo «di due momenti autonomi, ed ugualmente indispensabili»( 18 )oppure tramite un unico atto di natura propulsiva contenente l’imputa-( 16 ) ... ossia quando il pubblico ministero, presa direttamente notizia di un reato dicompetenza del giudice di pace (ovvero ricevuta da privati o da pubblici ufficiali o incaricatidi un pubblico servizio), non ritenga necessario procedere ad atti di indagine.( 17 ) ... ovvero a seguito della ricezione da parte dell’organo dell’accusa della relazioneconclusiva sulle indagini espletate di propria iniziativa dalla polizia giudiziaria.( 18 ) H. Belluta, sub art. 15, inCommento al d.lgs. 28/8/2004 (giudice di pace), inLeg. pen., 2001, p. 104, e A. Confalonieri, La citazione in giudizio disposta dalla poliziagiudiziaria, inIl giudice di pace. Un nuovo modello di giustizia <strong>penale</strong>, a cura di A. Scalfati,Cedam, Padova, 2001, p. 219 che parla, in proposito, di «due atti distinti, ma interdipendentifra loro».


412STUDI E RASSEGNEzione( 19 ), dibattendosi inoltre con riguardo al relativo regime di invalidità(20 ).Volgendo ora specificamente l’attenzione alla formulazione dell’addebito,va precisato che mentre sulla base dell’art. 12 d. lgs. n. 274 del 2000, ilpubblico ministero formula di persona l’imputazione, ai sensi dell’art. 15del medesimo d. lgs., lo stesso, – come chiarisce anche la relazione al d.lgs. in argomento( 21 )–, nel formulare l’imputazione, in caso di coincidenzatra la propria scelta e quella della polizia giudiziaria, potrà utilizzare l’ipotesidi imputazione( 22 ) predisposta dalla polizia stessa nella relazione conclusivatrasmessagli a norma dell’art. 11 comma 2 d. lgs. n. 274 del2000( 23 ), eventualmente correggendola o integrandola( 24 ). Ma pare eccessivosostenere, in proposito, che «la polizia giudiziaria partecipi in misurasignificativa all’esercizio dell’azione <strong>penale</strong>»( 25 ).Inoltre, posto che l’art. 20 comma 1 (come pure l’art. 15) d. lgs. n. 274del 2000 tace sul contenuto dell’addebito, «in virtù del rinvio alle disposizionidel codice di rito, operato dall’art. 2, il pubblico ministero è tenuto,comunque, ad osservare la regola desumibile dagli artt. 417 c. 1 lett. b, 429( 19 ) In tal senso, cfr. F. Caprioli, Esercizio dell’azione <strong>penale</strong>: soggetti, morfologia,controlli, inIl giudice di pace. Un nuovo modello di giustizia <strong>penale</strong>, cit., p. 167-168, nota14, secondo il quale, inoltre, «la struttura sintattica dell’art. 15 ... lascia chiaramente intendereche la fattispecie non si perfeziona se non nel momento in cui la formulazione dell’accusaviene innestata nel provvedimento di autorizzazione».( 20 ) Infatti, per una parte della dottrina (A. Scalfati, I moduli introduttivi del giudizio,inLa competenza <strong>penale</strong> del giudice di pace, Ipsoa, Milano, 2000, p. 100), l’assenza dell’autorizzazionenon avrebbe prodotto «conseguenze invalidanti, ipotizzandosi che la presenzadi una imputazione già formulata e di un’apposita richiesta avanzata in tal senso equivalgano,per via implicita, ad aver eliminato ogni ostacolo all’attività convocativa» ma, subitodopo, precisando, in un’ottica più rigorosa, che «l’assenza dell’atto autorizzativo del pubblicoministero [avrebbe precluso] alla polizia l’esercizio del susseguente potere, causando altrimentiun difetto genetico della citazione, con riflessi riconducibili all’art. 178 comma 1lett. c. e 179 c.p.p.». Secondo un altro orientamento (H. Belluta, sub art. 15, cit., p.104; A. Confalonieri, La citazione a giudizio disposta dalla polizia giudiziaria, inIl giudicedi pace. Un nuovo modello di giustizia <strong>penale</strong>, cit., p. 219) l’eventuale mancanza dell’autorizzazionea citare l’imputato sarebbe stata sanzionabile con una nullità di ordine generale assoluta.( 21 ) Relazione al d. lgs. 28 agosto 2000 n. 274, inDir. e giust., 2000, n. 31, p. 45.( 22 ) In proposito C. Pansini, La fase delle indagini preliminari,inIl giudice di pace. Unnuovo modello di giustizia <strong>penale</strong>, cit., p. 153, precisa come «il legislatore abbia, nella sostanza,investito gli organi di polizia del compito di formulare essi stessi una sorta di ‘imputazioneembrionale’».( 23 ) Relazione al d. lgs. 28 agosto 2000 n. 274, cit., p. 45.( 24 ) A. Ciavola, Chiusura delle indagini ed esercizio dell’azione <strong>penale</strong>, inIl giudice dipace nella giurisdizione <strong>penale</strong>, a cura di G. Giostra e G. Illuminati, Giappichelli, Torino,2001, p. 203-204, secondo la quale, inoltre, l’atto del pubblico ministero deve essere confezionatoper iscritto.( 25 ) A. Nappi, Guida al Codice di Procedura Penale, Giuffrè, Milano, 2004, p. 664.


STUDI E RASSEGNE413c. 1 lett. c e 552 c. 1 lett. c, c.p.p.: ‘l’enunciazione in forma chiara e precisadel fatto, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportarel’applicazione di misure di sicurezza, con l’indicazione dei relativi articoli dilegge’»( 26 ).Quanto all’acquisizione della veste di imputato, la modifica intervenuta,pur difettando – secondo quanto già sottolineato – di coordinamento,ha il pregio, perlomeno, di risolvere la sfasatura temporale, primaesistente, tra esercizio dell’azione <strong>penale</strong> e assunzione della qualità di imputato(27 ): ora, infatti, l’esercizio dell’azione <strong>penale</strong> con la formulazione del-( 26 ) Cfr. G. Varraso, sub art. 20 D. Lgs. n. 28 agosto 2000, n. 274, inCodice di procedura<strong>penale</strong> commentato, a cura di A. Giarda-G. Spangher, II, Ipsoa, Milano, 2001, p.2739. Nello stesso senso, cfr. A. De Francesco, L’erosione del principio della direzione delleindagini e del monopolio nell’azione <strong>penale</strong> del pubblico ministero nel procedimento <strong>penale</strong>avanti al giudice di pace, inInd. pen., 2003, p. 173; A. Giarda, Principi e regole del procedimento,inIl giudice di pace. Un nuovo modello di giustizia <strong>penale</strong>, cit., p. 80; R. Normando,L’esercizio dell’azione e la richiesta di giudizio nel processo <strong>penale</strong>, Giappichelli, Torino,2000, p. 229.Di parere contrario, v. E. Aghina – P. Picciali, Il Giudice di pace <strong>penale</strong>, EdizioniGiuridiche Simone, Napoli, 2001, p. 112, per i quali la formulazione dell’imputazionenon sarebbe «corredata dai criteri di ‘chiarezza’ e ‘precisione’ imposti dall’art. 552c.p.p.». Il rilievo non può essere condiviso, in quanto il pubblico ministero deve attenersinel formulare l’imputazione, ex art. 2 d. lgs. n. 274 del 2000, alle prescrizioni del codicedi rito applicabili per rinvio; del resto, una descrizione solo ‘‘sommaria’’ dell’imputazioneda parte del pubblico ministero risulterebbe lesiva del diritto di difesa.( 27 ) Per tentare, peraltro, di armonizzare tale scelta col combinato disposto degli art.60 e 405 c.p.p., si sarebbero potute avanzare due letture esegetiche alternative.Anzitutto, se la citazione a giudizio in esame presentava, come si legge anche nella relazionestessa al d. lgs., «una struttura a formazione complessa, nel senso che esso [era] compostadall’imputazione formulata dal pubblico ministero, inserita nella citazione a comparire,che [era] atto proprio della polizia giudiziaria» (Relazione al d. lgs. 28 agosto 2000 n. 274,cit., p. 48), non sarebbe stato inesatto ritenere che «l’atto del pubblico ministero [fosse]un atto interno che d[ava] inizio all’azione, la quale, però, p[oteva] dirsi compiutamenteesercitata solo quando sarebbe interv[enuto] il provvedimento di vocatio in iudicium dellapolizia giudiziaria» (così, sebbene criticamente, A. Ciavola, Chiusura delle indagini ed eserciziodell’azione <strong>penale</strong>, inIl giudice di pace nella giurisdizione <strong>penale</strong>, cit., p. 201): in conformità,pertanto, con la previsione dell’art. 3 d. lgs. n. 274 del 2000.Sulla base della seconda lettura, invece, l’assunzione della qualità di imputato sarebbepotuta coincidere con la citazione della polizia giudiziaria, in perfetta sintonia con l’art. 3 d.lgs. 274 del 2000, se si fosse ritenuto che con tale citazione veniva posta in essere una vera epropria azione <strong>penale</strong>.Tale argomentazione faceva leva sul duplice rilievo che, per un verso, sarebbe stata lacitazione della polizia giudiziaria a possedere «tutti gli elementi essenziali, che generalmentesi rinvengono nell’azione <strong>penale</strong>» e, per l’altro, che «la formulazione dell’imputazione operatadal pubblico ministero [avrebbe potuto] essere oggetto di accertamento giudiziale se esolo se [fosse stata] ‘riportata’ nella citazione» (per la presente citazione e quella immediatamenteprecedente, v. A. De Francesco, L’erosione del principio della direzione delle indaginie del monopolio nell’azione <strong>penale</strong> del pubblico ministero nel procedimento <strong>penale</strong> avantial giudice di pace, cit., p. 179).


414STUDI E RASSEGNEl’imputazione innestata nella citazione determina l’assunzione in capo allapersona sottoposta alle indagini della qualifica di imputato, conformementeagli art. 60 e 405 c.p.p.La sfasatura in questione (ora comunque superata)( 28 ), riconducibileforse a una svista del legislatore, non avrebbe dovuto tuttavia produrrealcun grave inconveniente, stante la ritenuta applicabilità anche al rito <strong>penale</strong>di pace dell’art. 61 c.p.p., che estende, come noto, i diritti, le garanziee ogni altra disposizione relativa all’imputato alla persona sottoposta alleindagini( 29 ).Per quanto, invece, concerne la seconda modalità di esercizio dell’azione<strong>penale</strong>, la stessa è costituita, anche nel procedimento <strong>penale</strong> davantial giudice di pace, dalla formulazione dell’imputazione su ordine del giudice(che non accolga la richiesta di archiviazione): la specifica previsioneè contenuta nell’art. 17 comma 4 d. lgs. n. 274 del 2000. In tale ipotesi,l’elevazione dell’imputazione, in assenza di un’apposita disciplina sul puntoo di una previsione contemplante la convocazione delle parti davanti a sé«con decreto analogo a quello previsto dall’art. 27 d. lgs. 274 del 2000 perl’ipotesi di ricorso immediato»( 30 ), dovrebbe coincidere con l’emissionedella citazione da parte del pubblico ministero ex art. 20 d. lgs. n. 274del 2000 (così come modificato), analogamente a quanto avviene nel pro-In realtà, la soluzione comunque preferibile (anche se implicante la rinuncia ad armonizzarel’art. 3 d. lgs. n. 274 del 2000 con gli art. 60 e 405 c.p.p.), confortata anche dal tenoreletterale dell’art. 15 d. lgs. n. 274 del 2000, pareva quella secondo cui era (ed è) il pubblicoministero e non la polizia giudiziaria a esercitare l’azione <strong>penale</strong>. Infatti, l’organo d’accusarisultava (e risulta) l’unico titolare dell’azione <strong>penale</strong> che si sarebbe dovuta ritenere esercitatacon l’atto contenente l’imputazione e l’autorizzazione alla citazione, dovendo consistere ilcompito della polizia giudiziaria unicamente nella formazione materiale della citazione (laquale, costituendo atto proprio della polizia stessa, doveva essere sottoscritta da un ufficialedi polizia giudiziaria ex art. 20 comma 4 d. lgs. n. 274 del 2000. Adesso, invece, costituendoatto del pubblico ministero, la citazione deve essere sottoscritta, ai sensi dell’art. 17 comma 4lett. b d. l. 27 luglio 2005 n. 144 conv. in l. 31 luglio 2005 n. 155, «a pena di nullità, dalpubblico ministero o dall’assistente giudiziario» e deve essere notificata non più a cura dellapolizia giudiziaria, ma dell’ufficiale giudiziario).( 28 ) ... sfasatura che non risultava «in alcun modo imposta dalla logica sistematica dell’art.60 c.p.p., dove non si presuppone un’assoluta corrispondenza tra le modalità di formulazionedell’imputazione e le ipotesi di vocatio in iudicium» (così E. Marzaduri, Le disposizionisulla competenza <strong>penale</strong> del giudice di pace, inCompendio di procedura <strong>penale</strong>, direttoda G. Conso-V. Grevi, Cedam, Padova, 2003, p. 1048) né, tanto meno, conforme alla letteradegli stessi art. 12 comma 1 e 15 comma 1 d. lgs. n. 274 del 2000, che, ancor prima dellavocatio disposta dalla polizia, si riferivano alla «citazione dell’imputato» (e non, come avrebberodovuto, della persona sottoposta alle indagini).( 29 ) G. Ichino, La fase delle indagini preliminari nei reati di competenza del giudice dipace, inLa competenza <strong>penale</strong> del giudice di pace, cit., p. 93; R. Orlandi, I soggetti, inIlgiudice di pace nella giurisdizione <strong>penale</strong>, cit., p. 89-90.( 30 ) In tal senso, invece, cfr. G. Ichino, La fase delle indagini preliminari nei reati dicompetenza del giudice di pace, inLa competenza <strong>penale</strong> del giudice di pace, cit., p. 95.


STUDI E RASSEGNE415cedimento davanti al tribunale monocratico per i casi di esercizio dell’azione<strong>penale</strong> mediante citazione diretta a giudizio. Proprio in riferimentoa tali casi, la Consulta ha rilevato infatti come «non [vi sia] dubbio che,in ipotesi di ‘imputazione coatta’ riguardante reati per i quali è previstala citazione diretta, il giudice per le indagini preliminari non debba far altroche invitare il pubblico ministero a formulare l’imputazione con la conseguenteemissione del decreto di citazione a giudizio»( 31 ). Inoltre, anchenella situazione in esame la qualità di imputato viene ora assunta ex art.3 d. lgs n. 274 del 2000 con la formulazione dell’imputazione inserita nellacitazione a giudizio, in perfetta sintonia con il disposto degli art. 60 e 405c.p.p.3. Formulazione dell’imputazione da parte del pubblico ministero ex art.25 comma 2 d. lgs. n. 274 del 2000. – La terza modalità di esercizio dell’azione<strong>penale</strong> si innesca in un iter procedimentale che, limitatamente ai reatiprocedibili a querela di parte, postula l’iniziativa della persona offesa, laquale può citare a giudizio il soggetto al quale il reato è attribuito, presentandoun ricorso nella cancelleria del giudice entro tre mesi dalla notizia direato (dopo averlo comunicato al pubblico ministero mediante deposito dicopia presso la sua segreteria). Entro il termine ordinatorio( 32 ) di diecigiorni dalla comunicazione di tale ricorso, il pubblico ministero, ai sensidell’art. 25 comma 2 d. lgs. n. 274 del 2000, se non esprime parere contrarioalla citazione, formula l’imputazione confermando o modificandol’addebito contenuto nel ricorso.Quanto a tale modalità d’esercizio dell’azione <strong>penale</strong> e alla consequenzialeassunzione della veste di imputato, è opportuno distinguere l’ipotesiin cui il pubblico ministero intervenga formulando l’imputazione da quella(alternativa) – esaminata infra, § 4 – nella quale esprima parere contrarioalla citazione o rimanga addirittura inerte.Qualora l’organo dell’accusa, presa visione del ricorso presentato dallapersona offesa, formuli l’imputazione( 33 ), può recepire l’addebito contenutonel ricorso oppure modificarlo.( 31 ) C. cost., ord. 27 marzo 2003 n. 77, in Giur. cost., 2003, p. 650; nello stesso senso,nella giurisprudenza di legittimità, cfr. Cass., sez. VI, 12 aprile 2002, Florestani, in Arch. n.proc. pen., 2002, p. 540-541; Cass., sez. VI, 21 marzo 2002, Costa, in Cass. pen., 2003, p.2247.( 32 ) Relazione al d. lgs. 28 agosto 2000 n. 274, cit., p. 52.( 33 ) ... «pur mancando una previsione analoga all’art. 15, che ricolleghi expressis verbisanche nel caso in esame l’esercizio dell’azione <strong>penale</strong> da parte del pubblico ministero allaformulazione dell’imputazione, non vi è alcun profilo di disciplina di questo modulo introduttivodel giudizio dal quale possa discendere l’inapplicabilità della soluzione codicistica suirapporti tra esercizio dell’azione <strong>penale</strong> e formulazione dell’imputazione» (così E. Marzaduri,sub art. 3,inCommento al d.lgs. 28/8/2004 (giudice di pace),inLeg. pen., 2001, p. 59).


416STUDI E RASSEGNEIn casi del genere, per un verso, non si può dubitare dell’esclusiva titolaritàdell’azione <strong>penale</strong> in capo all’organo dell’accusa( 34 ), tant’è vero chelo stesso, nel formulare l’imputazione, può anche modificare l’addebitodella persona offesa, ma non a tal punto, sottolinea la relazione al d.lgs.( 35 ) in esame, da «snaturare il thema decidendi circoscritto dall’originarioaddebito di derivazione privata, integrandolo magari con contestazioniche pur descritte nella narrativa del ricorso, non abbiano formato oggettodell’addebito in ordine al quale avviene la citazione». Pertanto, adesempio, pare corretto ritenere che «non possono ascriversi all’imputatodelitti procedibili a querela, pure riportati nel ricorso, in ordine ai qualiil privato non abbia esplicitato un’intenzione chiara e inequivoca di punizione,mentre sarà ammessa la diversa qualificazione del fatto»( 36 ) o la contestazionedi una circostanza aggravante (che non renda il reato procedibiled’ufficio)( 37 ), in attuazione peraltro del principio indicato dall’art. 17( 34 ) Secondo G. Varraso, sub art. 25 D. Lgs. n. 28 agosto 2000, n. 274, cit., p. 2764,«[l]a regola chiarisce, in modo definitivo, come il ricorso immediato della persona offesa rappresentiun semplice atto propulsivo. Se è vero che, in questo modo, si sottrae al pubblicoministero la prerogativa esclusiva della richiesta di giudizio, è altrettanto vero che, riservandoglila formulazione dell’addebito, si preserva in capo a quest’ultimo, la titolarità esclusivadell’azione <strong>penale</strong>».( 35 ) Relazione al d. lgs. 28 agosto 2000 n. 274, cit, p. 52.( 36 ) Cfr. F. Nuzzo, La vocatio in ius davanti al giudice di pace, inArch. n. proc. pen.,2001, p. 19, il quale prosegue ritenendo che qualora «reati ad azione officiosa emergano dallacitazione di parte, sarebbe assurdo lasciare impunite condotte lesive di interessi generali,ma il pubblico ministero dovrà agire a parte, determinandosi secondo la natura degli illeciti:se rientrano nella competenza del giudice di pace, trasmetterà lanotitia criminis alla poliziagiudiziaria, affinché proceda ai sensi dell’art. 11 D. L.vo, e impartirà le direttive necessarie;ove si tratti di fattispecie diverse, dovrà essere seguito il modello ordinario, attraverso le attivitàe i tempi stabiliti dal codice di procedura <strong>penale</strong>». Per D. Negri, sub art. 21, inCommentoal d.lgs. 28/8/2004 (giudice di pace),inLeg. pen., 2001, p. 147, il «divieto di accrescerel’accusa, attraverso la contestazione di un reato concorrente o di un fatto nuovo, deriva invecedalla equiparazione normativa del ricorso alla querela (art. 21 co. 5): il che significa inserireex lege, tra i contenuti tipici dell’atto, la manifestazione di volontà dell’offeso, diretta aconseguire una certa condotta criminosa».( 37 ) B. Lavarini, La tutela della vittima del reato nel procedimento di fronte al giudicedi pace, inGiust. pen., 2001, III, c. 614, per la quale il pubblico ministero in tale evenienzadovrà esprimere parere contrario alla citazione; così anche nel caso in cui emerga una circostanzaaggravante che renderebbe il reato di competenza di un giudice diverso dal giudice dipace (ibidem, nota 31); C. Pansini, Contributo dell’offeso e snodi procedimentali, Cedam,Padova, 2004, p. 160-161. Nello stesso senso, sembra anche G. Fidelbo, Ricorso immediatoal giudice, inIl giudice di pace nella giurisdizione <strong>penale</strong>, cit., p. 250.Di parere contrario, E. Marzaduri, Le disposizioni sulla competenza <strong>penale</strong> del giudicedi pace, cit., p. 1055, secondo cui le modifiche consentite sono «solo quelle che non determinanouna diversità del fatto rilevante ex art. 516 c.p.p. Così pure, il pubblico ministeronon potrà contestare circostanze aggravanti o fatti di reato non menzionati dalla persona offesanell’addebito anche se ricavabili dalla narrativa del ricorso». La tesi pare poco persuasivaperché rientra tra i requisiti essenziali dell’imputazione, la cui formulazione è riservata in


STUDI E RASSEGNE417comma 1 lett. e l. 468 del 1999 sulla previsione di «strumenti idonei a unapuntuale formulazione della imputazione».Quanto, per altro verso, all’assunzione della veste di imputato, anchenella forma di esercizio dell’azione <strong>penale</strong> in esame emergerebbe una sfasaturaanaloga a quella esaminata nel paragrafo precedente anteriormentealla modifica operata dal d.l. 27 luglio 2005 n. 144 conv. in l. 31 luglio 2005n. 155, unita però a una complicazione, consistente nel rilievo che, a differenzadel caso sopra esaminato, dal momento della presentazione del ricorsoalla decisione del giudice sullo stesso non varrebbe la regola dell’art.61 c.p.p., perché non sarebbe in senso stretto persona sottoposta alle indaginicolui nei cui confronti è diretto il ricorso della persona offesa( 38 ). Taleostacolo, tuttavia, sarebbe comunque superabile applicando l’art. 61 c.p.p.in via analogica alla persona citata in giudizio a seguito di ricorso della personaoffesa( 39 ).Altrimenti, in una prospettiva diversa (ma non persuasiva) volta acoordinare il principio dell’art. 60 e 405 c.p.p. con quello dell’art. 3 d.lgs. n. 274 del 2000, bisognerebbe ritenere che, inserendosi l’esercizio dell’azione<strong>penale</strong> in una fattispecie complessa e «a formazione progressiva, incui sono coinvolti anche pubblico ministero e giudice»( 40 ), la stessa deveconsiderarsi (compiutamente) esercitata solo con l’emissione da parte delgiudice di pace del decreto di convocazione delle parti, in cui viene trascrittal’imputazione formulata dal pubblico ministero( 41 ): si neutralizzerebbecosì la sfasatura in questione.via esclusiva al pubblico ministero, l’indicazione delle «circostanze aggravanti e di quelle chepossono comportare l’applicazione di misure di sicurezza».( 38 ) ... «non è soggetto processuale e non ha titolo per intervenire nel procedimentoche lo riguarda, anche se vi avesse interesse»: così R. Orlandi, I soggetti, inIl giudice dipace nella giurisdizione <strong>penale</strong>, cit., p. 90, sottolineando come il soggetto potrebbe comunque«essere interessato a intervenire nella discussione sulla competenza, prima che il giudiceadotti i provvedimenti previsti dall’art. 26 commi 3 e 4» (ibidem, nota 46). Ecco perché siritiene che dalla sfasatura in esame derivi una compressione del diritto di difesa del soggettoal quale il fatto di reato è addebitato nel ricorso (E. Aghina – P. Picciali, Il Giudice di pace<strong>penale</strong>, cit., p. 146).( 39 ) In tal senso, E. Marzaduri, sub art. 3, cit., p. 60, nota 9.( 40 ) A. Scalfati, I moduli introduttivi del giudizio,inLa competenza <strong>penale</strong> del giudicedi pace, cit., p. 107; nella medesima direzione v. G. Fidelbo, Ricorso immediato al giudice,inIl giudice di pace nella giurisdizione <strong>penale</strong>, cit., p. 255.( 41 ) In proposito, deve essere rilevato come all’esercizio dell’azione <strong>penale</strong> da parte delpubblico ministero consegua necessariamente la convocazione delle parti in udienza da partedel giudice. In tal senso, v. F. Caprioli, Esercizio dell’azione <strong>penale</strong>: soggetti, morfologia,controlli, inIl giudice di pace. Un nuovo modello di giustizia <strong>penale</strong>, cit., p. 175-176, e G.Lozzi, Lezioni di procedura <strong>penale</strong>, Giappichelli, Torino, 2004, p. 602, per il quale il giudicenon sarebbe legittimato «a restituire gli atti all’organo dell’accusa a norma dell’art. 26 comma2 neppure laddove ritenga inammissibile o manifestamente infondato il ricorso: essendo


418STUDI E RASSEGNE4. Segue: parere contrario od omesso intervento dell’organo pubblico exart. 25 d. lgs. n. 274 del 2000. – Risulta maggiormente problematica, invece,l’ipotesi in cui il pubblico ministero, a seguito del ricorso presentatodalla persona offesa, anziché formulare l’imputazione, esprima parere contrarioalla citazione oppure rimanga inerte( 42 ).Per tale eventualità invero le norme in esame tacciono e in dottrina lalacuna è stata colmata con opzioni interpretative diverse, anche in considerazionedel fatto che, mentre nel testo approvato dal Consiglio dei ministrie diffuso prima della pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale si stabiliva che ildecreto dovesse contenere «la trascrizione dell’imputazione formulata dalpubblico ministero», in sede di pubblicazione del d. lgs. n. 274 del2000, l’art. 27 comma 3 lett. d del medesimo d. lgs. fa riferimento semplicementealla «trascrizione dell’imputazione».Facendo leva su tale circostanza, una parte della dottrina ha ritenuto,pertanto, che l’imputazione non «deve essere per forza di cose quella ‘formulatadal pubblico ministero’ ... se quest’ultimo non si pronuncia, l’addebitoenunciato dalla persona offesa, una volta che il giudice non ha ritenutoil ricorso inammissibile o manifestamente infondato, diventa imputazione»(43 ). In altri termini, al giudice sarebbe consentito «surrogarsi alpubblico ministero nell’esercizio dell’azione <strong>penale</strong> allorché la parte pubblicaometta di presentare tempestivamente le proprie richieste, non foss’altroperché quest’ultima potrebbe, tacendo, determinare un’irrimediabilesituazione di stallo processuale, e sottrarsi a qualunque sindacato sullalegittimità della propria scelta abdicativa»( 44 ).stata ormai esercitata l’azione <strong>penale</strong>, una soluzione diversa dalla convocazione in giudiziodell’imputato contrasterebbe infatti con il principio di non regressione».Di parere contrario G. Fidelbo, Ricorso immediato al giudice,inIl giudice di pace nellagiurisdizione <strong>penale</strong>, cit., p. 255; C. Quaglierini, Le parti private diverse dall’imputato el’offeso dal reato, inTrattato di procedura <strong>penale</strong>, VIII, diretto da G. Ubertis e G.P. Voena,Giuffrè, Milano, 2004, p. 191; G. Varraso, sub art. 26 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, cit., p.2765 e 2769, secondo i quali le richieste avanzate dal pubblico ministero non sarebbero vincolantiper il giudice. Tale assunto, tuttavia, non pare condivisibile perché contrasta con ilprincipio di irretrattabilità dell’azione <strong>penale</strong>.( 42 ) ... possibilità non remota in considerazione dei sovraccarichi di lavoro di molteprocure.( 43 ) E. Marzaduri, Le disposizioni sulla competenza <strong>penale</strong> del giudice di pace, cit., p.1057.( 44 ) F. Caprioli, Esercizio dell’azione <strong>penale</strong>: soggetti, morfologia, controlli, inIl giudicedi pace. Un nuovo modello di giustizia <strong>penale</strong>, cit., p. 179. Nello stesso senso, F. Cordero,Procedura <strong>penale</strong>, Giuffrè, Milano, 2003, p. 1318, secondo il quale «ritroviamo il processoinstaurato ex officio, come in pretura temporibus illis, prima che vi nascesse un apparatorequirente: il g.d.p. provvede su ricorso», e E. Squarcia, Giudice di pace e ricorsoimmediato dell’offeso: un’eccezione al principio ne procedat iudex ex officio, in Riv. it. dir.proc. pen., 2002, p. 631.Secondo altra parte della dottrina la situazione di stallo, provocata dall’inerzia del pub-


STUDI E RASSEGNE419Aderendo a tale impostazione, per cui il giudice sarebbe legittimato asostituirsi al pubblico ministero nell’esercizio dell’azione <strong>penale</strong>, conseguirebbe,da una parte, che si avrà contemporaneità tra il momento dell’elevazionedell’imputazione e l’assunzione della qualità di imputato – che avviene,a norma dell’art. 3 d. lgs. n. 274 del 2000, con l’emissione del decretoconvocativo da parte del giudice –, dall’altra, che il ricorso nonpotrà essere qualificato come azione <strong>penale</strong> privata( 45 ).Tale soluzione interpretativa, per quanto coerente al disposto del citatoart. 3 d. lgs. n. 274 del 2000 e, soprattutto, funzionale all’economiadi forme e alla celerità che dovrebbero caratterizzare il microsistema <strong>penale</strong>in esame, risulta tuttavia contrastare con l’ineludibile principio del ne procedatiudex ex officio, cumulando in capo allo stesso giudice le funzioni diattore e di arbitro, con conseguente (ed evidente) pregiudizio per l’imparzialitàe la terzietà dello stesso – di recente ribadite a livello costituzionaledall’art. 111 comma 2 Cost.( 46 ) – ed emersione «di situazioni di potenzialeincompatibilità»( 47 ), che de iure condendo andrebbero eliminate.Ecco perché pare preferibile, in proposito, condividere la tesi, oraavallata anche dalla Corte costituzionale( 48 ), di chi reputa che, qualora ilblico ministero, potrebbe essere superata intendendo la condotta omissiva della pubblica accusacome silenzio-assenso volto a recepire l’addebito contenuto nel ricorso quale imputazione;ma, in ogni caso, tale teoria, oltre a richiamare istituti giuridici propri di altri rami dell’ordinamento(che non paiono compatibili con quello <strong>penale</strong>), non è sostenibile quando ilpubblico ministero, intervenendo, esprima parere contrario alla citazione (v. E. Aghina – P.Picciali, Il Giudice di pace <strong>penale</strong>, cit., p. 152-153; F. Nuzzo, La vocatio in ius davanti algiudice di pace, cit., p. 20; A. Scalfati, I moduli introduttivi del giudizio, inLa competenza<strong>penale</strong> del giudice di pace, cit., p. 121; G. Tranchina, I procedimenti per i reati di cognizionedel tribunale monocratico e del giudice di pace, inD. Siracusano-A. Galati-G. Tranchina-E.Zappalà, Diritto processuale <strong>penale</strong>, II, cit., p. 429).( 45 ) G. Diotallevi, Soggetti, giurisdizione e competenza, inDir. pen. proc., 2001, p.27; E. Marzaduri, Le disposizioni sulla competenza <strong>penale</strong> del giudice di pace, cit., p.1057. Per F. Cordero, Procedura <strong>penale</strong>, cit., p. 1319, «l’offeso ... sarebbe attore se alladomanda seguisse invariabilmente il processo, e abbiamo visto come non sia così».Su tale questione v. anche infra, § 5 e nota 63.( 46 ) Sottolinea tale profilo F. Cerqua, Protagonista e comprimari nell’esercizio dell’azione<strong>penale</strong> davanti al giudice di pace, inIl Giudice di pace, 2003, p. 8.( 47 ) Cfr. F. Caprioli, Esercizio dell’azione <strong>penale</strong>: soggetti, morfologia, controlli, inIlgiudice di pace. Un nuovo modello di giustizia <strong>penale</strong>, cit., p. 179-180; E. Marzaduri, Ledisposizioni sulla competenza <strong>penale</strong> del giudice di pace, cit., p. 1057; anche A. Scalfati,La fisionomia mutevole della persona offesa nel procedimento <strong>penale</strong> di pace,inDir. pen. proc.,2002, p. 1190, ritiene che «il rimedio più spedito e, al contempo, più funzionale all’economiadelle forme sottesa all’intero sistema ‘minore’, consiste nell’imputazione elevata direttamentedal giudice di pace che decide sul ricorso, ferma restando l’assoluta necessità di eliminare ilpericolo che quello stesso magistrato celebri il giudizio».( 48 ) C. cost., ord. 7 ottobre 2005 n. 381, in G.U., 1ª serie speciale, 2005, n. 41, p. 103-104 (v. altresì, anche se in termini meno espliciti, C. cost., ord. 4 ottobre 2005 n. 361, ivi, n.41, p. 25).


420STUDI E RASSEGNEpubblico ministero rimanga inerte o addirittura esprima parere contrarioalla citazione, il giudice possa soltanto rimettere gli atti alla pubblica accusa(49 ), perché proceda nelle forme ordinarie, chiedendo l’archiviazioneo esercitando l’azione <strong>penale</strong>, secondo le modalità illustrate nel paragrafoprecedente( 50 ). Solo a seguito di tale trasmissione, qualora il giudice ritengadi non condividere un’eventuale richiesta di archiviazione formulatadal pubblico ministero, secondo quanto indicato dalla Consulta( 51 ), potrebbetrovare applicazione, ex art. 17 comma 4 d.lgs. n. 274 del 2000,la disciplina della formulazione coatta dell’imputazione.Del resto, il tenore letterale del combinato disposto degli art. 26 e 27d. lgs. n. 274 del 2000, in base al quale solo i provvedimenti negativi previstidall’art. 26 d. lgs. n. 274 del 2000 (a differenza di quello alternativocontenuto nell’art. 27 del medesimo d. lgs.) sono adottabili dal giudice«anche se il pubblico ministero non ha presentato richieste», induce a ri-( 49 ) E. Aprile, sub art. 25, inCommento al d.lgs. 28/8/2004 (giudice di pace), inLeg.pen., 2001, p. 163, il quale sottolinea che «così si consentirà, al contrario, un – eventuale –promovimento dell’azione <strong>penale</strong> nelle forme previste dall’art. 20, cioè mediante citazione agiudizio disposta dalla polizia giudiziaria»; F. Cerqua, Protagonista e comprimari nell’eserciziodell’azione <strong>penale</strong> davanti al giudice di pace, cit., p. 8; B. Lavarini, La tutela della vittimadel reato nel procedimento di fronte al giudice di pace, cit., c. 613, precisando che la restituzioneavviene «‘come se’ [l’accusa] avesse espresso parere contrario alla citazione»; A.Scalfati, I moduli introduttivi del giudizio, inLa competenza <strong>penale</strong> del giudice di pace,cit., p. 121; G. Varraso, sub art. 26 D.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, cit., p. 2769.In senso conforme, in giurisprudenza, v. Cass., sez. IV, 27 maggio 2004, Gatto, in Riv.pen., 2005, p. 897.Contra, E. Squarcia, Giudice di pace e ricorso immediato dell’offeso: un’eccezione al principione procedat iudex ex officio, cit., p. 622-623, secondo il quale la tesi accolta nel testo cozzerebbe«con la rubrica dell’art. 21 dello stesso decreto, che si intitola ‘ricorso immediato al giudice’,così suggerendo una sorta di ricorso omisso medio, ossia omesso il passaggio per il pubblicoministero, a meno che esso, una volta notiziato dell’iniziativa presa dalla persona offesa dalreato, non eserciti le sue prerogative». L’assunto non può essere condiviso, in quanto si deveritenere che il ricorso sia denominato immediato perché, saltando le indagini preliminari, l’offesopuò rivolgersi direttamente al giudice (in tal senso, C. Pansini, Contributo dell’offeso e snodiprocedimentali, cit., p. 142, e L. Tricomi, La parte offesa ‘‘conquista’’ il potere di citazione, cit.,p. 106).( 50 ) Né, comunque, in tal caso sarebbe prospettabile un’imputazione coatta su ordinedel giudice analoga a quella disciplinata dagli art. 409 comma 5 c.p.p. e 17 comma 4 d. lgs. n.274 del 2000, perché così si determinerebbe «una variante della procedura che è incompatibilecon la necessità di rispettare, in ogni caso, le forme speciali del ricorso immediato rispettoa quelle ordinarie (art. 22 d.lg. n. 274 del 2000)» (in tal senso, v. Cass., sez. IV, 27maggio 2004, Gatto, cit., p. 897).Nella medesima direzione, in dottrina, v. anche C. Pansini, Contributo dell’offeso esnodi procedimentali, cit., p. 164; A. Scalfati, I moduli introduttivi del giudizio, inLa competenza<strong>penale</strong> del giudice di pace, cit., p. 121, nota 48; G. Varraso, sub art. 25 D.lgs. 28agosto 2000, n. 274, cit., p. 2769.( 51 ) C. cost., ord. 4 ottobre 2005 n. 361, cit., p. 25; analogamente, v. C. cost., ord. 7ottobre 2005 n. 381, cit., p. 103-104.


STUDI E RASSEGNE421tenere che il giudice non possa emettere (in mancanza di una formale imputazioneelevata dal pubblico ministero) il provvedimento di convocazionedelle parti in udienza ex art. 27 d. lgs. n. 274 del 2000.L’art. 27 comma 2 d. lgs. in esame, inoltre, testualmente prevede che ilgiudice trascriva (e non formuli) l’imputazione: l’inciso, interpretato ad litteram,porta a «sostenere che i contenuti della traslatio preesistano in untesto e siano riprodotti in un altro e che, trattandosi dell’imputazione, l’attooriginario lo abbia formulato l’unico soggetto al quale la legge ne attribuisceil potere»( 52 ), ossia al pubblico ministero, in conformità, del resto, a quantosostenuto nella relazione al d. lgs. n. 274 del 2000, che ribadisce «l’esclusivaprerogativa dell’organo pubblico sul tema dell’imputazione»( 53 ).Pertanto, il giudice di pace dovrà recepire, nel proprio decreto, l’imputazionecosì come formulata dal pubblico ministero, in mancanza dellaquale non sarà consentito allo stesso emettere il decreto di convocazioneper l’udienza.In quest’ottica, quindi, l’intervento della pubblica accusa, previsto dall’art.25 d. lgs. n. 274 del 2000, può essere considerato facoltativo( 54 ) unicamentein relazione alle decisioni reiettive che il giudice di pace può adottareai sensi dell’art. 26 d. lgs. n. 274 del 2000, mentre si configura comeobbligatorio nell’ipotesi in cui il giudice di pace ritenga di dover emettere ildecreto convocativo delle parti in udienza, che ha come requisito indefettibile– la cui assenza è sanzionata, peraltro, a pena di nullità ex art. 27comma 5 d. lgs. n. 274 del 2000 – la trascrizione dell’imputazione. E tale,in ogni caso, non può essere considerata l’ipotesi accusatoria formulatadalla persona offesa nel proprio ricorso: infatti, non solo l’uso del termine«descrizione» al posto di «enunciazione» pare riflettere «la natura provvisoriadell’addebito e il suo provenire da un soggetto privato, anziché dall’autoritàgiudiziaria»( 55 ), ma anche l’omessa menzione «delle circostanzeaggravanti e di quelle che possono comportare l’applicazione delle misuredi sicurezza» induce a ritenere che tale addebito non costituisca propriamenteun’imputazione( 56 ) ma, come conferma pure la relazione al d. lgs.( 52 ) A. Scalfati, I moduli introduttivi del giudizio,inLa competenza <strong>penale</strong> del giudicedi pace, cit., p. 121.( 53 ) Relazione al d. lgs. 28 agosto 2000 n. 274, cit., p. 51-52.( 54 ) Cfr. C. Quaglierini, Le parti private diverse dall’imputato e l’offeso dal reato, cit.,p. 191.( 55 ) D. Negri, sub art. 21, cit., p. 145.( 56 ) Secondo S. Ruggeri, Esercizio dell’azione <strong>penale</strong>, pubblico ministero e persona offesanella prospettiva del procedimento davanti al giudice di pace, inGiur. it., 2001, c. 655, «la‘descrizione’ non costituisce un’imputazione nel senso stretto del termine, in quanto le mancail crisma della forma che solo un organo pubblico può conferirle. Non essendo in grado difarcela con le proprie forze, l’offeso chiede così collaborazione al pubblico ministero per elevarea giudizio la propria ipotesi di reato».


422STUDI E RASSEGNEn. 274 del 2000( 57 ), una «mera descrizione fattuale della condotta»( 58 ), inlinea con il carattere «meramente propositivo e non dispositivo della contestazioneprivata rispetto all’intervento del pubblico ministero di cui all’art.25 contenuto»( 59 ).Né, in effetti, all’opzione esegetica accolta, implicante la restituzionedegli atti al pubblico ministero, può conseguire «alcun concreto sacrificio... alla persona offesa stante l’equiparazione del ricorso immediato alla querela... ed essendo previsto per il ricorso immediato ... lo stesso termine ditre mesi ... stabilito per la proponibilità della querela»( 60 ).Inoltre, tale soluzione, forse «non immediata alla luce di un dettatonormativo piuttosto farraginoso, è quella più conforme ai criteri seguiti nell’attuazionedella delega»( 61 ) e sembra confermare altresì che il ricorso dell’offesonon rappresenta un’azione <strong>penale</strong> privata, rimanendo riservata l’iniziativain materia, secondo la lettura più rigorosa dell’art. 112 Cost., incapo all’organo pubblico.5. Conclusioni. – L’analisi effettuata nei paragrafi precedenti sulleforme di esercizio dell’azione <strong>penale</strong> e sull’acquisizione della qualità di imputatonel microsistema processuale di pace impone alcune riflessioni conclusive.Anzitutto, pare che il legislatore abbia preservato in capo al pubblicoministero la titolarità esclusiva dell’azione <strong>penale</strong> sia nel caso di citazione agiudizio sia nel caso di ricorso dell’offeso. Con specifico riferimento al ricorso,lo stesso, pur rappresentando «una delle innovazioni più significative... introdotte dalla delega, in quanto il privato viene autorizzato, purcon alcuni temperamenti relativi all’informazione del pubblico ministero finalizzataad un suo eventuale intervento, a promuovere direttamente il giudizioin materia <strong>penale</strong>»( 62 ), si limita a evocare ma non, come s’è visto, acostituire un’azione <strong>penale</strong> privata( 63 ), che peraltro – è bene ribadire –( 57 ) Relazione al d. lgs. 28 agosto 2000 n. 274, cit., p. 50.( 58 ) C. Pansini, Contributo dell’offeso e snodi procedimentali, cit., p. 146.( 59 ) Relazione al d. lgs. 28 agosto 2000 n. 274, cit., p. 50.( 60 ) Cass., sez. IV, 27 maggio 2004, Gatto, cit., p. 897.( 61 ) G. Varraso, sub art. 26 D. Lgs. n. 28 agosto 2000, n. 274, cit., p. 2769.( 62 ) Relazione al d. lgs. 28 agosto 2000 n. 274, cit., p. 48.( 63 ) A. Giarda, Il giudice di pace, una sperimentazione per il momento in funzione ancillare,inLa competenza <strong>penale</strong> del giudice di pace, cit., p. 3; G. Lozzi, Lezioni di procedura<strong>penale</strong>, cit., p. 600; D. Negri, sub art. 21, cit., p. 139; R. Normando, L’esercizio dell’azionee la richiesta di giudizio nel processo <strong>penale</strong>, cit., p. 114; A. Presutti, Le modalità introduttivedel giudizio nel procedimento <strong>penale</strong> davanti al giudice di pace, inSt. iuris, 2001, p. 653;G. Varraso, sub art. 21 D.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, cit., p. 2748. Per M. Caianiello,Poteri dei privati nell’esercizio dell’azione <strong>penale</strong>, cit., p. 186, «è la verifica sulla manifesta infondatezza,in grado di sfociare, a seguito di una valutazione discrezionale, in una pronunciadi inammissibilità del ricorso – vale a dire in una decisione con la quale si stabilisce soltanto


STUDI E RASSEGNE423non sarebbe incompatibile, nei limiti delineati nel primo paragrafo, conl’art. 112 Cost.L’argomentazione è confortata dalla stessa relazione al d. lgs. n. 274del 2000 che chiarisce come la soluzione verso l’istituto dell’azione <strong>penale</strong>privata sia stata scartata per abbracciare «una impostazione meno radicalee assolutista, oltre che più coerente col sistema processuale italiano», per«contemperare i benefici di speditezza per l’interessato e di deflazionedel carico di lavoro dell’organo pubblico ... con insopprimibili esigenzedi controllo preventivo del pubblico ministero»( 64 ).Invero, non può negarsi che «un sistema improntato a modelli diazione <strong>penale</strong> ‘complementare’ (a cura del privato) deve essere esplicitatocon una chiarezza sufficiente ad esprimere precise scelte in tale direzione,aspetto che non può di certo rinvenirsi nel tessuto positivo in esame»( 65 ).Di qui, in sostanza, il corretto inquadramento dogmatico del ricorsoquale mero «atto propositivo, non idoneo, di per sé solo, ad approdareal giudizio»( 66 ) (perché sottoposto al controllo del pubblico ministero edel giudice), ma atto unicamente a incardinare, solo quando il pubblico ministeroformuli l’imputazione (diversamente, gli atti verrebbero restituitiallo stesso), un iter procedimentale più spedito di quello ordinario conseguentealla presentazione della querela.Inoltre, assume decisiva importanza il rilievo secondo il quale è pro-che la domanda non è idonea ad instaurare un giudizio – [a] impedi[re] di attribuire all’istitutoesaminato la natura di vera e propria azione».Contra, G. Fidelbo, Ricorso immediato al giudice, inIl giudice di pace nella giurisdizione<strong>penale</strong>, cit., p. 267-268; A. Nappi, Guida al Codice di Procura Penale, cit., p. 667; T. Padovani,Premesse introduttive alla giurisdizione <strong>penale</strong> di pace, inIl giudice di pace nella giurisdizione<strong>penale</strong>, cit., p. XV. In particolare, C. Pansini, Contributo dell’offeso e snodi procedimentali,cit., p. 167; C. Quaglierini, Le parti private diverse dall’imputato e l’offeso dalreato, cit., p. 196; P. Tonini, Manuale di procedura <strong>penale</strong>, Giuffrè, Milano, 2005, p. 697,parlano, in proposito, di azione <strong>penale</strong> privata sussidiaria, in quanto dipendente dall’inazionedel pubblico ministero; mentre M. Chiavario, Diritto processuale <strong>penale</strong>. Profilo istituzionale,Utet, Torino, 2005, p. 397, si riferisce a un’«azione meramente concorrente con quella,appunto, del pubblico ministero».( 64 ) Cfr. Relazione al d. lgs. 28 agosto 2000 n. 274, cit., p. 48-49.( 65 ) A. Scalfati, I moduli introduttivi del giudizio,inLa competenza <strong>penale</strong> del giudicedi pace, cit., p. 122; nello stesso senso, cfr. F. Cerqua, Protagonista e comprimari nell’eserciziodell’azione <strong>penale</strong> davanti al giudice di pace, cit., p. 8; A. Pagliano, La citazione direttadell’imputato dinanzi al giudice di pace, inGiust. pen., 2003, III, c. 636; A. Presutti, Le modalitàintroduttive del giudizio nel procedimento <strong>penale</strong> davanti al giudice di pace, cit., p. 655.( 66 ) A. Scalfati, I moduli introduttivi del giudizio,inLa competenza <strong>penale</strong> del giudicedi pace, cit., p. 107; v. anche A. Presutti, Le modalità introduttive del giudizio nel procedimento<strong>penale</strong> davanti al giudice di pace, cit., p. 654. Cfr. pure C. Quaglierini, Le parti privatediverse dall’imputato e l’offeso dal reato, cit., p. 191, che parla in proposito di «atto propositivoe non dispositivo, in quanto non idoneo ad attivare un contatto diretto con la personaaccusata».


424STUDI E RASSEGNEprio il meccanismo di controllo in questione che impedisce di parlare diazione <strong>penale</strong> esercitata con il ricorso. Diversamente, nel caso di inerzia ovverodi parere contrario alla citazione formulato dal pubblico ministero exart. 25 d. lgs. n. 274 del 2000, si potrebbe verificare la situazione per cui,all’azione (esercitata dall’offeso) conseguirebbe un’archiviazione dispostadal giudice su richiesta del medesimo accusatore pubblico (al quale il giudicestesso abbia restituito gli atti ex art. 26 comma 2 d. lgs. n. 274 del2000). E ciò in aperta antitesi con il condivisibile assunto secondo il qualeogni atto di imputazione, «irretrattabile, instaura un processo e ogni processoimplica una sentenza»( 67 ).La tesi trova, altresì, conferma sia nella terminologia utilizzata dal legislatoreche qualifica l’atto ‘‘ricorso’’ («ispirandosi per certi versi al ricorsonel processo del lavoro, per la sua tempistica, e alla costituzione di partecivile nel processo <strong>penale</strong>»( 68 )) e non – sulla falsariga, ad esempio, dell’art.550 c.p.p., ‘‘citazione diretta a giudizio’’ –, sia nella considerazione che lapersona offesa chiede al giudice di pace nel ricorso, ai sensi dell’art. 21comma 2 lett. i, «la fissazione dell’udienza per procedere nei confrontidelle persone citate in giudizio».Per quanto concerne, poi, l’acquisizione della veste di imputato, a seguitodell’emanazione del d. l. 27 luglio 2005 n. 144 conv. in l. 31 luglio2005 n. 155, è opportuno distinguere due ipotesi (sebbene l’art. 3 d. lgs.( 67 ) Cfr. F. Cordero, Procedura <strong>penale</strong>, cit., p. 1316.Né la situazione in esame potrebbe essere assimilata al caso in cui il giudice restituiscagli atti al pubblico ministero «perché non reputa applicabile la pena richiesta ... o mancano irequisiti del modus procedendi scelto dal pubblico ministero (giudizio direttissimo o immediatoovvero decreto <strong>penale</strong> ...)»: in tale eventualità, infatti, «[n]iente di abnorme: non è unaazione ritrattata; quel procedimento risultava male instaurato ... restituendo le carte all’attore,il giudice restaura l’alternativa ...; ri-agisca, nelle forme adatte, o (re melius perpensa, speciese sopravvenisse materiale nuovo) chieda l’archiviazione» (per la presente e l’immediatamenteprecedente citazione cfr. F. Cordero, Procedura <strong>penale</strong>, cit., p. 407).Sul punto, v., invece, le osservazioni di E. Marzaduri, Imputato e imputazione, inD.disc. pen., VI, Utet, Torino, 1992, p. 285, il quale, pur restando nella prospettiva che non sitratterebbe di azione ritrattata, afferma che «il giudice, nel restituire gli atti al pubblico ministero,si limit[a] a censurare l’opzione che quest’ultimo ha operato a favore di un determinatomodo di esercitare l’azione <strong>penale</strong>, per cui l’ipotizzata declaratoria di inammissibilitàdovrà esprimere i propri effetti solo con riferimento a questo specifico aspetto dell’iniziativadell’accusa, mentre non potrà far venir meno la rilevanza processuale della scelta di fondo,che è costituita dalla decisione di iniziare l’azione; scelta di fondo che, quale che siano le formee i modi di esercizio dell’azione, presuppone comunque l’individuazione di elementi talida escludere la richiesta di un provvedimento di archiviazione. Ne discende che la restituzionedegli atti al pubblico ministero è semplicemente volta a consentirgli di modificare lascelta del rito, senza che si riapra una fase investigativa e, quindi, anche l’alternativa dicui all’art. 405, 1º co., c.p.p. 1998».( 68 ) Cfr. Relazione al d. lgs. 28 agosto 2000 n. 274, cit., p. 49.


STUDI E RASSEGNE425in argomento, come già osservato, non sia stato modificato dal citato provvedimento).Qualora l’azione <strong>penale</strong> venga esercitata con l’elevazione dell’imputazioneinnestata nella citazione (ex art. 12, 15 comma 1 e 17 comma 4 d. lgsn. 274 del 2000), è in tale momento che si assume lo status di imputato, inperfetta sintonia pertanto con l’art. 60 c.p.p., mentre nell’ipotesi di eserciziodell’azione <strong>penale</strong> a seguito di intervento del pubblico ministero exart. 25 d. lgs. n. 274 del 2000 – cioè successivamente alla presentazionedel ricorso immediato della persona offesa –, la medesima qualifica postula,a differenza dell’art. 60 c.p.p., la vocatio in iudicium disposta dal giudice dipace, esigendo, quindi, un «atto che non è riconducibile, per lo meno intoto, al pubblico ministero»( 69 ).In tale ultima circostanza, è evidente che il legislatore si sia discostatodalla soluzione codicistica: infatti, nel codice di rito, anche quando l’assunzionedello status di imputato viene collegata alla vocatio in iudicium, lastessa costituisce – come adesso per la citazione dell’imputato davanti algiudice di pace (art. 20 d. lgs. n. 274 del 2000) o la citazione diretta a giudizionel procedimento davanti al tribunale monocratico (art. 550 c.p.p.) –un atto di esercizio dell’azione <strong>penale</strong> da parte dell’organo dell’accusa( 70 ).Al contrario, nel caso del subprocedimento avviato col ricorso ex art.21 d.lgs. n. 274 del 2000, sembra prevalere non il momento dell’eserciziodell’azione <strong>penale</strong> con la contestuale formulazione dell’imputazione (daparte del pubblico ministero) ma il momento in cui tale atto, assuntauna veste formale, venga portato a conoscenza della persona alla quale ilreato è attribuito( 71 ), quindi il «primo atto giudiziario che riproduce l’imputazione»(72 ).Peraltro, va rilevato come l’intenzione del legislatore in tal senso troviconforto anche nella relazione al d. lgs. n. 274 del 2000 dove, con riguardoall’art. 3 del medesimo d. lgs. e al ricorso immediato della persona offesa, sievidenzia che «la convocazione delle parti dinanzi al giudice rappresenta ilprimo momento in cui la persona interessata prende conoscenza del fattoche contro di lei è stata esercitata l’azione <strong>penale</strong>»( 73 ).( 69 ) E. Marzaduri, sub art. 3, cit., p. 58. In proposito, A. Confalonieri, La citazionea giudizio disposta dalla polizia giudiziaria, inIl giudice di pace. Un nuovo modello digiustizia <strong>penale</strong>, cit., 219, sottolinea che «nel conferire la possibilità di provvedere alla citazionea giudizio il legislatore ha attribuito alla polizia giudiziaria un compito sinora riservatoal giudice (art. 429) o, eccezionalmente, al pubblico ministero (art. 552)».( 70 ) E. Marzaduri, sub art. 3, cit., p. 59.( 71 ) A. Ciavola, Chiusura delle indagini ed esercizio dell’azione <strong>penale</strong>, inIl giudice dipace nella giurisdizione <strong>penale</strong>, cit., p. 201.( 72 ) R. Orlandi, I soggetti, inIl giudice di pace nella giurisdizione <strong>penale</strong>, cit., p. 90.( 73 ) ... «e ciò in un sistema che ha respinto l’opzione a favore di una vera e propriaazione <strong>penale</strong> privata, ed in luogo ha recepito una soluzione di ‘compromesso’, che non ri-


426STUDI E RASSEGNETuttavia, la ragione di tale opzione non pare comunque risiedere nelrilievo che «‘‘imputare’’ implic[hi] un atto recettizio»( 74 ), perché la formulazionedell’imputazione (negli atti tipici di esercizio dell’azione <strong>penale</strong>) assumerilevanza, anche ai fini dell’assunzione della qualifica di imputato, indipendentementedalla conoscenza che ne abbia il soggetto interessato( 75 ).La scelta in questione compiuta dal legislatore, pertanto, risulta siapoco coerente sotto il profilo sistematico sia, come sottolineato, foriera(anche se ora solo in relazione al subprocedimento attivato con ricorso immediato)di una sfasatura tra esercizio dell’azione <strong>penale</strong> e status di imputato,che, pur non implicando seri inconvenienti pratici, non pare giustificabile(76 ) neppure nell’ottica di evitare che l’offeso con il ricorso ex art. 20d. lgs. n. 274 del 2000 «po[ssa] ‘disporre’ di un simile potere ‘definitorio’... costitutivo di status processuale nei confronti dell’asserito offensore»(77 ). Infatti, lo status in questione si sarebbe dovuto comunque ricollegareal momento dell’elevazione dell’imputazione formulata dal pubblicoministero ai sensi dell’art. 25 comma 2 d. lgs. in esame.Andrea Paolo Casatinuncia al controllo sulla notitia da parte dell’organo pubblico d’accusa» (Relazione al d. lgs.28 agosto 2000 n. 274, cit., p. 49).( 74 ) P. Bronzo, sub art. 3 d.lgs. n. 28 agosto 2000, n. 274, inCodice di procedura <strong>penale</strong>commentato, a cura di A. Giarda-G. Spangher, II, cit., p. 2686.( 75 ) E. Marzaduri, Azione: IV) diritto processuale <strong>penale</strong>, cit., p. 2, e G. Ubertis,Azione: II) Azione <strong>penale</strong>, cit., p. 2. In giurisprudenza, cfr. Cass., sez. VI, 19 ottobre1990, Sica, in Foro it., 1991, II, c. 516 ss., secondo la quale l’esercizio dell’azione maturacon la formazione dell’atto relativo e non con il suo deposito o con la notificazione.( 76 ) Secondo E. Marzaduri, sub art. 3, cit., p. 61, quanto al contrasto col principioespresso negli art. 60 e 405 c.p.p., «l’indicazione della citazione a giudizio e del decreto diconvocazione delle parti come provvedimenti costitutivi dello status di imputato si giustificanella misura in cui la scelta recepita nel codice forniva una soluzione non sempre utilizzabilenel procedimento de quo o perché l’imputazione del pubblico ministero può assumere unarilevanza esterna in un atto della polizia giudiziaria o perché l’imputazione può essere formulatadal giudice». Tale soluzione interpretativa, laddove si riferisce alla possibilità di utilizzarela regola codicistica ‘‘ordinaria’’ per individuare il momento di assunzione della qualità diimputato, a seconda della rilevanza meramente interna o esterna (ossia, in un atto della poliziagiudiziaria) dell’imputazione formulata dal pubblico ministero, pare possa ritenersi oramaisuperata dal recente provvedimento legislativo esaminato, che ha eliminato la citazionedella polizia giudiziaria; in relazione, invece, al subprocedimento attivato col ricorso, la tesistessa non pare convincente perché ritiene che la regola di cui all’art. 60 e 405 c.p.p. varrebbe,se non si intende male, nei casi in cui sia il pubblico ministero e non il giudice a esercitarel’azione <strong>penale</strong>: in realtà, come si è argomentato nel testo, l’esercizio dell’azione <strong>penale</strong>, anchenel rito <strong>penale</strong> di pace, è riservata in via esclusiva all’attore pubblico.( 77 ) R. Orlandi, I soggetti, inIl giudice di pace nella giurisdizione <strong>penale</strong>, cit., p. 90;nello stesso senso E. Aghina – P. Picciali, Il Giudice di pace <strong>penale</strong>, cit., p. 39.


GIURISPRUDENZA COMMENTATA427Giurisprudenza: note, commenti, rassegneCorte europea dei diritti dell’uomo, sez. III, sent. 13 ottobre 2005Pres. Zupancic – Bracci c. ItaliaAi sensi dell’art. 6 commi 1 e 3 lett. d Conv. eur. dir. uomo, all’accusatova concessa un’occasione adeguata e sufficiente di contestare una testimonianzaa carico e di interrogarne l’autore, al momento della deposizione o successivamente.Il diritto di difesa è ristretto in modo incompatibile con le garanzieassicurate da tale norma, allorché una condanna si fondi, esclusivamenteo in misura determinante, sulle dichiarazioni rese da una personache l’accusato non ha potuto interrogare o far interrogare nel corso delle indaginipreliminari o durante il dibattimento. (Nella specie, i giudici nazionaliavevano condannato l’imputato per due episodi distinti di violenza sessuale,sulla base della lettura ex art. 512 c.p.p. delle sommarie informazioni rilasciatealla polizia giudiziaria dalle vittime, due donne straniere divenute irreperibilial momento del giudizio. In un caso, la Corte europea ha escluso laviolazione dell’art. 6 commi 1 e 3 lett. d Conv. eur. dir. uomo, perché le dichiarazionilette nel dibattimento non erano risultate determinanti ai finidella condanna. Nell’altro, viceversa, ha concluso per la violazione del dettatoconvenzionale, dato che la sentenza di condanna si era fondata esclusivamentesulle dichiarazioni assunte senza contraddittorio durante le indaginipreliminari) (1).(1) Lettura di atti assunti senza contraddittorio e giusto processo.Sommario: 1. Considerazioni preliminari. – 2. Ancora ‘‘falle’’ nel sistema delle letture.– 3. Caso Bracci e art. 6 commi 1 e 3 lett. d Conv.eur.dir.uomo.–4.Carenzestrutturali: l’art. 111 comma 5 Cost. – 5. Segue: gli art. 512 e 526 comma 1-bisc.p.p.–6.Esigenzediriforma.–7.Illegittimitàcostituzionale (non solo) dell’art.512 c.p.p.1. Considerazioni preliminari. – Letture e contestazioni costituiscono, da sempre,la cartina di tornasole per cogliere gli equilibri tra le diverse fasi procedimentali: loerano nel passato, dove mancavano rigorose regole di esclusione probatoria, tantoche l’intero processo poteva essere rappresentato come una linea continua che dall’in-


428GIURISPRUDENZA COMMENTATAchiesta preliminare andava al dibattimento( 1 ), «vuoto, coreografico e inutile rituale»( 2 );lo sono anche nel codice del 1988, come dimostra la svolta in senso inquisitorio realizzatada quelle riforme che, in nome del cosiddetto ‘‘principio’’ di non dispersione probatoria(3 ), avevano consentito l’impiego dibattimentale di gran parte delle informazioniraccolte dagli organi inquirenti nel corso delle indagini preliminari( 4 ); lo sono, a maggiorragione, attualmente, alla luce della modifica dell’art. 111 Cost. in tema di giustoprocesso, e degli art. 6 commi 1 e 3 lett. d Conv. eur. dir. uomo e 14 commi 1 e 3 lett. ePatto intern. dir. civ. pol.Riecheggiando tali norme( 5 ), l’art. 111 Cost. dispone che l’accusato ha il dirittod’«interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico»(comma 3); si aggiunge, quindi, che «il processo <strong>penale</strong> è regolato dal principio del contraddittorionella formazione della prova» e che, comunque, non è possibile provare lacolpevolezza dell’imputato «sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si èsempre volontariamente sottratto all’interrogatorio» da parte della difesa (comma 4);chiudono il cerchio le fattispecie del contraddittorio «implicito», «impossibile» e «inquinato»(comma 5)( 6 ).Dal canto loro, i precetti sovranazionali già rappresentavano il parametro a cui il( 1 ) Cfr. F. Carnelutti, Verso la riforma del processo <strong>penale</strong>, Napoli, Morano, 1963, p.18; F. Cordero, Scrittura e oralità, inId., Tre studi sulle prove penali, Milano, Giuffrè,1963, p. 203; G. Foschini, Il «dar per letto» (ficta lectio) (1968), in Id., Tornare alla giurisdizione.Saggi critici, Milano, Giuffrè, 1971, p. 384.( 2 ) G. Foschini, La giustizia sotto l’albero e i diritti dell’uomo (1963), in Id., Tornarealla giurisdizione. Saggi critici, cit., p. 46.( 3 ) Elaborato dal giudice delle leggi (cfr. C. cost., sent. 3 giugno n. 255, in Giur. cost.,1992, spec. p. 1967-1968; C. cost., sent. 3 giugno n. 254, ivi, 1992, spec. p. 1941; C. cost., 31gennaio 1992 n. 24, ivi, 1992, spec. p. 1249-1250), ma poi dallo stesso abbandonato (cfr., adesempio, C. cost., ord. 26 febbraio 2002 n. 36, ivi, 2002, p. 320 ss., con note di G. Spangher,I precedenti investigativi discordanti al primo vaglio del «giusto processo», ediS. Buzzelli,Contraddittorio e contestazioni nell’esame testimoniale: una sbrigativa ordinanza dellaCorte costituzionale; C. cost., sent. 25 ottobre 2000 n. 440, ivi, 2000, spec. p. 3307).( 4 ) Per un’analisi della giurisprudenza costituzionale, nonché delle interpolazioni delcodice che hanno profondamente inciso sui rapporti tra indagini preliminari e dibattimento,cfr. O. Dominioni, Oralità, contraddittorio e principio di non dispersione della prova, inIlgiusto processo, Milano, Giuffrè, 1998, p. 79 ss.; P. Ferrua, Declino del contraddittorio e garantismoreattivo: la difficile ricerca di nuovi equilibri processuali (1995), in Id., Studi sul processo<strong>penale</strong>, III, Declino del contraddittorio e garantismo reattivo, Torino, Giappichelli, 1997,p. 39 ss.; G.P. Voena, Investigazioni ed indagini preliminari, inDig. disc. pen., VII, Torino,Utet, 1993, p. 267 ss.( 5 ) Mediante una sorta di «costituzionalizzazione delle garanzie processuali» così comecontemplate dagli Atti internazionali sui diritti umani (al riguardo, cfr. M. Cecchetti, Giustoprocesso a) Diritto costituzionale, inEnc. dir., Agg., V, Milano, Giuffrè, 2002, p. 601; M.Chiavario, Il diritto al contraddittorio nell’art. 111 Cost. e nell’attuazione legislativa, inIlcontraddittorio tra Costituzione e legge ordinaria, Milano, Giuffrè, 2002, p. 28; E. Marzaduri,La riforma dell’art. 111 Cost., tra spinte contingenti e ricerca di un modello costituzionaledel processo <strong>penale</strong>, inLeg. pen., 2000, p. 759).( 6 ) Le espressioni sono impiegate da G. Ubertis, Sistema di procedura <strong>penale</strong>, I,Principigenerali, Torino, Utet, 2004, p. 153 ss., per descrivere rispettivamente le deroghe al contraddittorionella formazione della prova per «consenso dell’imputato ... per accertata im-


GIURISPRUDENZA COMMENTATA429legislatore del 1988 si sarebbe dovuto adeguare nell’elaborazione del codice di rito, aisensi dell’art. 2 comma 1 legge-delega c.p.p.( 7 ); oggi, inoltre, il loro rispetto andrebbegarantito anche in forza dell’art. 117 Cost.( 8 ). Né si può omettere di rammentare i numerosialtri impegni assunti a livello europeo dal nostro Stato con riferimento alle regoledel giusto processo. Basti pensare alla parte finale del Preambolo della Carta diNizza( 9 ) che chiede l’osservanza dei diritti fondamentali della Convenzione europeadei diritti dell’uomo, come riconosciuti dalla giurisprudenza dei giudici di Strasburgo;oppure alle risoluzioni del Consiglio dell’Unione europea dirette ad apprestare «sistemiprotettivi per l’audizione di testimoni e collaboratori in linea, non con un generico criteriodel contraddittorio, ma con il ‘principio ... quale interpretato dalla giurisprudenza’della Corte europea dei diritti dell’uomo»( 10 ).possibilità di natura oggettiva ... per effetto di provata condotta illecita» di cui al comma 5dell’art. 111 Cost.Secondo S. Buzzelli, Giusto processo, inDig. disc. pen., Agg., II, Torino, Utet, 2004,p. 355, «il costituente italiano, integrando l’art. 111 Cost., si è spinto oltre la difettosa replicadella norma pattizia; ha così allestito per il settore probatorio, un impianto disordinato ... dicerto prolisso: purtroppo, l’esuberanza dei giochi linguistici, quando non è ben controllata,si rivela controproducente. Regna lo scarso coordinamento, anche se all’apparenza la strutturaformale è abbastanza consueta e vicina allo schema del compromesso: a grandi linee,una volta enunciato il principio, seguono le evenienze in cui al medesimo principio l’ordinamentoconcede di deviare».( 7 ) Al riguardo, cfr., per tutti, M. Chiavario, La riforma del processo <strong>penale</strong>. Appuntisul nuovo codice, II ed. ampl. e agg., Torino, Utet, 1990, p. 24-26.( 8 ) Sul vivace dibattito suscitato dalla modifica dell’art. 117 Cost. (a opera della l. cost.18 ottobre 2001 n. 3) che, ora, sottopone la potestà legislativa statale non solo al rispettodella Costituzione, ma anche ai «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighiinternazionali», cfr. R. Bin, Le potestà legislative regionali, dalla Bassanini ad oggi, inReg., 2001, p. 620-621; G.F. Ferrari, Il primo comma dell’art. 117 della Costituzione e latutela internazionale dei diritti, inDir. pubbl. com. eur., 2002, p. 1849 ss.; M.A. Sandulli,Due aspetti della recente riforma del titolo V della Costituzione, inRass. parl., 2001, spec. p.950.Per il richiamo all’art. 117 Cost. proprio con riguardo agli Atti internazionali sui dirittidell’uomo, cfr. G. Ubertis, Sistema di procedura <strong>penale</strong>, I,Principi generali, cit., p. 31-32.( 9 ) Come ricorda M.G. Coppetta, Verso un processo <strong>penale</strong> europeo?, inProfili delprocesso <strong>penale</strong> nella Costituzione europea, a cura di M.G. Coppetta, Torino, Giappichelli,2005, p. 18, «la Carta ha carattere ricognitivo, è lo strumento di codificazione dei principigenerali appartenenti all’acquis comunitario».( 10 ) S. Buzzelli, Il mandato d’arresto europeo e le garanzie costituzionali sul piano processuale,inIl mandato d’arresto europeo, a cura di M. Bargis – E. Selvaggi, Torino, Giappichelli,2005, p. 83, la quale richiama la Risoluzione del Consiglio dell’Unione europea del 23novembre 1995 attinente alla protezione dei testimoni nella lotta contro la criminalità internazionalee la Risoluzione del 20 dicembre 1996 relativa ai collaboratori di giustizia nella lottacontro la criminalità organizzata internazionale (consultabili in S. Buzzelli – O. Mazza,Codice di procedura <strong>penale</strong> europea, Milano, Cortina, 2005, p. 860-863).Cfr. altresì la Raccomandazione (97) 13 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europasull’intimidazione dei testimoni e i diritti della difesa, nonché la Raccomandazione(2005) 9 sulla protezione dei testimoni e dei collaboratori di giustizia (reperibili entrambesempre in S. Buzzelli – O. Mazza, Codice di procedura <strong>penale</strong> europea, cit., p. 1084 e1093).


430GIURISPRUDENZA COMMENTATAIn proposito, ancora di recente, i giudici europei hanno ribadito che, normalmente,va assicurato all’accusato il diritto di «confrontarsi con i testimoni alla presenzadel giudice» investito della controversia: «siffatta regola è una garanzia poiché le osservazionidell’organo giudicante, per ciò che concerne il comportamento e la credibilitàd’un testimone, possono avere delle conseguenze per [lo stesso] imputato»( 11 ). Nondimeno,a determinate condizioni, è permesso il recupero nel dibattimento di quanto formatoin una fase precedente, purché «la procedura, esaminata nel suo insieme, ivi compresoil modo di presentare [i] mezzi di prova, rivest[a comunque] un carattereequo»( 12 ).2. Ancora ‘‘falle’’ nel sistema delle letture. – Dopo la riforma dell’art. 111 Cost. e laconseguente modifica del codice di rito a opera della l. 1º marzo 2001 n. 63, è maturatal’idea che, in tema di contraddittorio, il nostro Stato non solo si sia adeguato, ma addiritturasia andato oltre gli standard minimi richiesti dagli Atti internazionali sui dirittidell’uomo e processo <strong>penale</strong>.Invitato dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa a comunicare i rimediadottati dopo la condanna subita nel caso Craxi( 13 ), il Governo ha affermato che l’interpolatoart. 111 Cost. e la successiva l. n. 63 del 2001 sono misure idonee a impedireulteriori violazioni del contraddittorio da parte dell’Italia ( 14 ). La dottrina, a sua volta,ha scritto che il nostro Paese dispone ora d’«un regime ... più rigido di quello che sisarebbe potuto desumere da una semplice trasposizione dell’insieme di massime chela Corte europea dei diritti dell’uomo è giunta a elaborare sulla base del combinato disposto»dei commi 1 e 3 lett. d dell’art. 6 Conv. eur. dir. uomo( 15 ).( 11 ) Così, C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 10 maggio 2005, Graviano c. Italia, § 38(traduzione nostra), la quale sembra rimarcare che il metodo dialettico, oltre a essere unagaranzia per la difesa, è funzionale all’esercizio della stessa giurisdizione (questa e le altre sentenzecitate nel presente lavoro sono reperibili anche sul sito www.echr.coe.int).( 12 ) C. eur. dir. uomo, sent. 26 aprile 1991, Asch c. Austria, in Riv. inter. dir. uomo,1991, p. 803-804; v., inoltre, C. eur. dir. uomo, sent. 23 aprile 1997, Van Mechelen e altric. Paesi Bassi, in Recueil des arrêts et decisions, 1997, p. 711; C. eur. dir. uomo, sent. 26 marzo1996, Doorson c. Paesi Bassi, ivi, 1996, p. 470.( 13 ) Cfr. C. eur. dir. uomo, sent. 5 dicembre 2002, Craxi c. Italia, in Riv. it. dir. proc.pen., 2003, spec. p. 1442-1444.( 14 ) Cfr. l’appendice alla Risoluzione ResDH (2005) 28, adottata il 5 marzo 2003 (econsultabile sul sito www.coe.int), nella quale il nostro Stato si è difeso di fronte al Comitatodei ministri, asserendo che «[a]s a result of these measures, it is no longer possible that aperson is convicted exclusively on the basis of statements that he/she could non examineor have examined».( 15 ) M. Chiavario, Giusto processo II) processo <strong>penale</strong>, inEnc. giur. Treccani, XV,Agg., Roma, 2001, p. 18, il quale osserva che i giudici di Strasburgo «abitualmente» si accollano«il compito di verificare se e in qual misura la prova assunta senza contraddittorio» abbia«dispiegato un’influenza sulla decisione finale ... ‘principalmente o esclusivamente’» (cfr.altresì infra, § 3), mentre con «la riforma costituzionale del 1999 – e con la sua trasposizionenella normativa ordinaria – si è voluto andare più in là, in quanto alla sua stregua non sembralegittimarsi alcun bilanciamento di ‘peso’ della dichiarazione resa senza contraddittorio,escludendone tout court ogni possibile rilevanza tra i fondamenti di una condanna». V., inoltre,A. Tamietti, Il diritto dell’imputato ad esaminare o far esaminare i testimoni a carico traConvenzione europea e diritto interno, inCass. pen., 2003, p. 1091, per il quale «a seguito


GIURISPRUDENZA COMMENTATA431Tali opinioni appaiono condivisibili se riferite alla rinnovata disciplina delle contestazioni(16 ), o a quelle situazioni in cui risulta interdetto il recupero dibattimentaledelle dichiarazioni rese nelle indagini preliminari da chi abbia esercitato legittimamenteil diritto d’astenersi dal deporre (impossibilità soggettiva)( 17 ). Sono, invece, meno persuasiveallorché l’impossibilità d’ottenere l’escussione dibattimentale della fonte diprova dipenda da motivi esterni alla volontà del dichiarante (impossibilità oggettiva).In linea apparente( 18 ) con l’art. 111 comma 5 Cost., l’art. 512 c.p.p. continua aconsentire la lettura delle dichiarazioni, formate dalle parti prima e al di fuori del dibattimentoche, per eventi accidentali, non siano ripetibili( 19 ). Eppure, se si considerano leragioni di fondo che hanno condotto alle modifiche legislative costituzionali e ordinarie,della modifica dell’art. 111 della Costituzione ... non potrebbe presumibilmente più verificarsioggigiorno» una condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomoper violazione del contraddittorio.( 16 ) Per C. eur. dir. uomo, sez. II, dec. 16 marzo 2000, Camilleri c. Malta (una cui parzialetraduzione è leggibile in Cass. pen., 2000, p. 3168-3169), non viola l’art. 6 commi 1 e 3lett. d Conv. eur. dir. uomo la circostanza che l’autorità giudiziaria impieghi in sentenza unadichiarazione resa nella fase precedente al giudizio difforme da quella rilasciata nel dibattimento:a suo avviso, lo svolgimento del controesame dinanzi all’organo giudicante costituisce,di per sé, un’occasione adeguata affinché la difesa possa mettere in discussione la credibilitàdella fonte di prova. Più rigorosamente, la l. n. 63 del 2001 ha, invece, rinserratole maglie d’esclusione probatoria di cui all’art. 500 c.p.p., con il risultato che, ora, le contestazioninon si traducono più in un «meccanismo di acquisizione illimitato e incondizionato»(C. cost., ord. 26 febbraio 2002 n. 36, cit., p. 325) di quanto formato senza contraddittorio,ma sono funzionali, in linea di principio, a vagliare la sola affidabilità della fonte e/o del mezzodi prova sottoposto all’attenzione del giudice (da ultimo, in argomento, cfr. P. Ferrua, Il‘giusto processo’, Bologna, Zanichelli, 2005, p. 106 ss.).( 17 ) Come si verifica per i prossimi congiunti o per gli imputati di reato connesso exart. 210 c.p.p.Per i primi, facendo leva sull’impossibilità di natura oggettiva ex art. 111 comma 5Cost., C. cost., sent. 25 ottobre 2000 n. 440, cit., spec. p. 3307-3308, ha escluso la letturadelle loro dichiarazioni, qualora nel dibattimento si siano avvalsi della facoltà di non deporre:è stato così ribaltato quanto deciso precedentemente da C. cost., sent. 16 maggio 1994 n.179, in Giur. cost., 1994, p. 1593-1594 (nell’ottica della Convenzione europea, cfr., per tutte,C. eur. dir. uomo, sent. 24 novembre 1986, Unterpertinger c. Austria, § 30 ss.).In ordine ai secondi, la l. n. 63 del 2001 ha ritoccato l’art. 513 c.p.p. – in un contesto dicomplessiva rivisitazione della materia, realizzata con l’introduzione dell’inedita figura dell’imputato-testimone(cfr., al riguardo, G. Di Chiara, Dichiarazioni erga alios e letture acquisitive:i meccanismi di recupero del sapere preacquisito dall’imputato in procedimento connesso,inIl giusto processo tra contraddittorio e diritto al silenzio, a cura di R.E. Kostoris, Torino,Giappichelli, 2002, p. 25 ss.) –, rimediando, in parte (cfr. infra, § 6 e nota 54), alleviolazioni del contraddittorio ravvisate da C. eur. dir. uomo, sent. 5 dicembre 2002, Craxic. Italia, cit., p. 1444, quanto al mancato esame di correi che si erano avvalsi della facoltàdi non rispondere nel corso del giudizio.( 18 ) Cfr., infatti, infra, §7.( 19 ) E lo stesso vale, da un lato, per le letture ex art. 512-bis e 513 comma 2 secondoperiodo c.p.p.; dall’altro, per l’impiego dei verbali di prova formati aliunde, ai sensi dell’art.238 comma 3 c.p.p., risultando inutile richiamare in proposito l’art. 511-bis primo periodoc.p.p., considerata la superfluità di tale norma ai fini dell’utilizzabilità nel processo ad quemdi atti raccolti in altra sede: l’art. 511-bis primo periodo c.p.p., infatti, disciplina la lettura di


432GIURISPRUDENZA COMMENTATAla mancata revisione del precetto in questione lascia francamente sorpresi( 20 ). Non solola norma de qua, grazie a prassi devianti, assicura al processo di tutto, senza alcun distinguo,secondo schemi che dovrebbero ormai essere desueti( 21 ). V’è di più: finchésarà «la legge stessa» ad attribuire un’«efficacia giuridica alle pagine della scritta procedura,come ... nel caso di testimoni morti od irreperibili», il materiale formato in difettodi contraddittorio graverà sempre sul «definitivo giudizio» e l’indagine non saràmai una «semplice informativa» ( 22 ). Maggiore, inoltre, sarà il rischio d’inottemperanzadello Stato agli obblighi provenienti dalle fonti internazionalistiche: i principi elaboratidella Corte europea dei diritti dell’uomo sull’art. 6 commi 1 e 3 lett. d Conv. eur. dir.uomo e il caso Bracci in commento lo confermano.3. Caso Bracci e art. 6 commi 1 e 3 lett. d Conv. eur. dir. uomo. – Per ‘‘consolidata’’giurisprudenza, è risaputo che, ad avviso dei giudici europei, gli «elementi di prova devononormalmente essere prodotti davanti all’imputato» in un’«udienza pubblica» e in«contraddittorio» ( 23 ). La suddetta regola, però, non va esente da eccezioni( 24 ). La let-quanto già acquisito al giudizio come prova documentale (cfr., al riguardo, C. Squassoni,sub art. 238, inCommento al nuovo codice di procedura <strong>penale</strong>, coordinato da M. Chiavario,II, Torino, Utet, 1990, spec. p. 660, per la quale l’applicazione dell’art. 238 comma 3 c.p.p.«consente, senza meccanismi alternativi, l’utilizzo pleno iure nel processo ad quem» dell’attoformato in altro procedimento; va rilevato tuttavia che è emerso in dottrina l’orientamentosecondo cui l’acquisizione dei verbali in questione sarebbe subordinata alla loro lettura exart. 511-bis c.p.p., in quanto tali atti «pur costituendo materiale extra-costituito provengonoda un contesto processuale»: così, N. Rombi, La circolazione delle prove penali, Padova, Cedam,2003, p. 107; v., inoltre, M. Bargis, Le dichiarazioni di persone imputate in un procedimentoconnesso. Ipotesi tipiche e modi di utilizzabilità, Milano, Giuffrè, 1994, p. 172; G.Illuminati, Ammissione e acquisizione della prova nell’istruzione dibattimentale,inLa provanel dibattimento <strong>penale</strong>, Torino, Giappichelli, 1999, p. 113).( 20 ) Forse, una spiegazione può consistere nel fatto che, tradizionalmente, il tema delrecupero dibattimentale dei risultati dell’indagine preliminare viene affrontato più nella prospettivadell’oralità (cfr., ad esempio, M. Vogliotti, Al di là delle dicotomie: ibridismo eflessibilità del metodo di ricostruzione del fatto nella giustizia <strong>penale</strong> internazionale, inRiv.it. dir. proc. pen., 2003, p. 318 ss.) che alla luce di ciò che «favorisce in maggior misura lacoesione del metodo dialettico: il contraddittorio» (S. Buzzelli, Le letture dibattimentali,in Trattato di procedura <strong>penale</strong>, diretto da G. Ubertis e G.P. Voena, XXXIII.2, Milano, Giuffrè,2000, p. 61).( 21 ) Sull’interpretazione elastica del concetto d’irripetibilità da parte della giurisprudenza,nonché in ordine alle novelle che hanno dilatato la classe degli atti leggibili a normadell’art. 512 c.p.p., v., tra gli altri, S. Buzzelli, Le letture dibattimentali, cit., p. 89 ss.; C.Cesari, L’irripetibilità sopravvenuta degli atti di indagine, Milano, Giuffrè, 1999, p. 215 ss.( 22 ) Per questa e per le precedenti citazioni, cfr. F. Carrara, Il diritto <strong>penale</strong> e la procedura<strong>penale</strong> (1873-1874), in Opuscoli, V, Firenze, Casa editrice libraria ‘‘Fratelli Cammelli’’,1903, p. 40.( 23 ) C. eur. dir. uomo, sent. 26 aprile 1991, Asch c. Austria, cit., p. 804; v. anche, tra lealtre, C. eur. dir. uomo, sent. 14 dicembre 1999, A.M. c. Italia, in Cass. pen., 2000, p. 2484;C. eur. dir. uomo, sent. 19 febbraio 1991, Isgrò c. Italia, in Riv. inter. dir. uomo, 1991, p.516.( 24 ) Per una rassegna delle ipotesi in cui la Corte europea ha bilanciato il principio delcontraddittorio con altri valori potenzialmente in conflitto (quali, ad esempio, il diritto al silenzio,la tutela dei testimoni minorenni, ecc.), cfr. S. Buzzelli, Le letture dibattimentali,


GIURISPRUDENZA COMMENTATA433tura di deposizioni risalenti alle fasi preliminari del processo è compatibile con la Convenzioneeuropea, qualora si riveli «impossibile» l’esame del teste «in aula e in pubblico»,purché nei limiti del rispetto del diritto di difesa( 25 ). Più specificamente, l’art.6 commi 1 e 3 lett. d Conv. eur. dir. uomo impone un nucleo intangibile di garanziedifensive, che, nel linguaggio della Corte, si traduce nella concessione all’accusato d’una«occasione adeguata e sufficiente [per] contestare una testimonianza a carico e [per]interrogarne l’autore, al momento della deposizione o successivamente» ( 26 ). Ne segueche il diritto di difesa sarebbe violato se una condanna si fondasse, unicamente o in misuradeterminante, su dichiarazioni rese da soggetti che l’imputato non ha potuto interrogareo far interrogare durante le indagini preliminari o nel dibattimento( 27 ).Nella vicenda Bracci, il ricorrente era stato condannato dal Tribunale di Roma perdue episodi distinti di violenza sessuale, commessi nei confronti di due prostitute straniere,X e Y, che la difesa non aveva mai esaminato, perché irreperibili, e le cui dichiarazionierano state lette, a norma dell’art. 512 c.p.p. In un caso, la sentenza del giudicenazionale si basava, oltre che sulle sommarie informazioni rese da X, anche su altreprove, quali la corrispondenza fra l’automobile condotta dall’aggressore e quella descrittadalla vittima, la testimonianza d’un poliziotto che aveva soccorso la donna,nonché il sequestro d’un coltello all’interno della vettura. Di qui, non risultando determinantela deposizione di X, la Corte europea ha escluso che la violazione del contraddittorioda parte del Tribunale di Roma comportasse una lesione del dettato convenzionale.In merito al secondo episodio, viceversa, il giudice europeo ha reputato violatol’art. 6 commi 1 e 3 lett. d Conv. eur. dir. uomo: dato che la condanna si fondava esclusivamentesulle dichiarazioni rilasciate da Y prima del processo, il ricorrente non avevabeneficiato d’un momento adeguato per ribattere alle affermazioni a carico.Anche nella presente occasione, dunque, i giudici di Strasburgo hanno ribaditoche, affinché un processo nel suo complesso possa avere carattere equo, è indispensabileassicurare al prevenuto che, prima d’essere giudicato, «possa guardare negli occhi»chi rende dichiarazioni a suo carico poi impiegate in modo determinante per decidere, epossa contestargli le affermazioni rilasciate prima del processo. La Corte europea «nonarriva a pretendere che dal contraddittorio emerga l’elemento di prova impiegato dalgiudice nel suo provvedimento, ma esige come requisito minimo che la fonte di provadeterminante utilizzata in sentenza sia comunque inserita nel circuito del contraddittorio:esige, cioè, un contraddittorio almeno differito sulla fonte di prova»( 28 ).cit., p. 99 ss.; C. Cesari, Prova irripetibile e contraddittorio nella Convenzione europea deidiritti dell’uomo, inRiv. it. dir. proc. pen., 2003, p. 1448 ss.; G. Ubertis, Principi di procedura<strong>penale</strong> europea. Le regole del giusto processo, Milano, Cortina, 2000, p. 57 ss.( 25 ) C. eur. dir. uomo, sent. 26 aprile 1991, Asch c. Austria, cit., p. 804.( 26 ) C. eur. dir. uomo, sent. 20 novembre 1989, Kostovski c. Paesi Bassi, in Riv. inter.dir. uomo, 1990, p. 112; v., ancora, C. eur. dir. uomo, sez. IV, dec. 18 ottobre 2001, N.F.B. c.Germania, in Recueil des arrêts et decisions, 2001, p. 315; C. eur. dir. uomo, sent. 6 dicembre1988, Barberá, Messegué e Jabardo c. Spagna, in Riv. inter. dir. uomo, 1989, p. 120.( 27 ) Cfr., fra le molte, C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 27 febbraio 2001, Lucà c. Italia, inRecueil des arrêts et decisions, 2001, p. 156-157; C. eur. dir. uomo, sent. 7 agosto 1996, Ferrantellie Santangelo c. Italia, ivi, 1996, p. 950-951; C. eur. dir. uomo, sent. 28 agosto 1992,Artner c. Austria, in Riv. inter. dir. uomo, 1992, p. 1047-1048.( 28 ) Per questa e la precedente citazione, cfr. G. Ubertis, Principi di procedura <strong>penale</strong>europea. Le regole del giusto processo, cit., p. 59.


434GIURISPRUDENZA COMMENTATA4. Carenze strutturali: l’art. 111 comma 5 Cost. – A questo punto, occorre chiedersise l’ennesima condanna subita dall’Italia costituisca un episodio isolato, dovutoal modo in cui si è sviluppata la vicenda in concreto ( 29 ), oppure se sia la conseguenzad’un assetto normativo che, nonostante le riforme in materia di contraddittorio, sia aldi sotto dei requisiti minimi richiesti dall’art. 6 commi 1 e 3 lett. d Conv. eur. dir.uomo ( 30 ).In proposito, va osservato che l’«accertata impossibilità» di derogare al contraddittorioper la prova di cui all’art. 111 comma 5 Cost., almeno a prima vista( 31 ), pareconfermare la seconda impressione. Come è avvenuto per i procedimenti speciali e peril contraddittorio implicito( 32 ), anche in tale situazione il precetto costituzionale sembraaver fotografato la disciplina codicistica esistente in tema letture. Anzi, diversamentedall’art. 512 c.p.p., il comma 5 dell’art. 111 Cost. neppure menziona il requisito dell’imprevedibilità(33 ), limitandosi a offrire una copertura costituzionale ai casi in cui «risultiin concreto impossibile realizzare» forme di contraddittorio forte «per cause indipendentidalla volontà delle parti ... o dei soggetti fonti di prova (si pensi alle classiche ipotesidella morte, della infermità o della irreperibilità degli stessi)»( 34 ).Così, il legislatore costituzionale pare aver scelto il «male minore», per «ragionevoliesigenze di stretta necessità»( 35 ), perché un «processo fondato sul contraddittoriopuò ammettere che, quando divenga impossibile assumere la testimonianza nel giu-( 29 ) Come rammenta M. Chiavario, Giusto processo II) processo <strong>penale</strong>, cit., p. 4, nelle«fonti internazionali si configura» a favore dell’accusato «il diritto a ‘un’ ... processo caratterizzatoin modo da risultare ‘giusto’ ... dove specialmente la versione inglese del testo... lascia chiaramente intendere che non si ha affatto in mente una restrizione di portata dellanorma ... ma piuttosto ci si apre a una possibile varietà di schemi e di modelli processuali,tutti da valutare comunque, sempre, nella loro realizzazione concreta in rapporto alla singolavicenda processuale».( 30 ) Per M. Vogliotti, La logica floue della Corte europea dei diritti dell’uomo tra tuteladel testimone e salvaguardia del contraddittorio: il caso delle «testimonianze anonime», inGiur. it., 1998, c. 859, dalla giurisprudenza della Corte europea emerge «un filo rosso chelega ... tutte [le] decisioni» su un certo principio, così che i criteri da essa enucleati, «oltrea rappresentare l’impalcatura logico-argomentativa dei casi già decisi, offrono una base sucui costruire le future sentenze».( 31 ) Cfr. infra, §7.( 32 ) Cfr., per tutti, E. Marzaduri, La riforma dell’art. 111 Cost., tra spinte contingentie ricerca di un modello costituzionale del processo <strong>penale</strong>, cit., p. 799.( 33 ) Cfr., tra gli altri, C. Cesari, ‘‘Giusto processo’’, contraddittorio ed irripetibilità degliatti di indagine, inRiv. it. dir. proc. pen., 2001, p. 62 ss.; G. Giostra, Contraddittorio(principio del) II) diritto processuale <strong>penale</strong>, inEnc. giur. Treccani, VIII, Agg., Roma, 2001,p. 8; D. Siracusano, Prova III) nel nuovo codice di procedura <strong>penale</strong>, ivi, XXV, Agg., Roma,2003, p. 8.( 34 ) Nei presenti termini, V. Grevi, Dichiarazioni dell’imputato sul fatto altrui, dirittoal silenzio e garanzia del contraddittorio (1999), in Id., Alla ricerca di un processo <strong>penale</strong> «giusto».Itinerari e prospettive, Milano, Giuffrè, 2000, p. 272.( 35 ) P. Ferrua, Il ‘giusto processo’, cit., p. 149, per il quale non c’è alcun «dubbio chesi tratti di una scelta ‘sofferta’, non priva di rischi, perché il fatto in sé della sopravvenutairripetibilità rappresenta un evento accidentale, epistemologicamente neutro e, quindi, deltutto inidoneo a convalidare retrospettivamente l’atto formato fuori del contraddittorio;ma proprio di questo dovrà tenere conto il giudice nella sua prudente valutazione».


GIURISPRUDENZA COMMENTATA435dizio, si utilizzino le dichiarazioni rilasciate in precedenza» ( 36 ). In tal modo, però, laCostituzione va ampiamente al di sotto della soglia di garanzie tracciata dalla giurisprudenzadella Corte europea dei diritti dell’uomo con riguardo all’art. 6 commi 1e3lett.d Conv. eur. dir. uomo ( 37 ): di fronte all’impossibilità materiale di rinnovarel’atto compiuto nelle indagini preliminari, il comma 5 dell’art. 111 Cost. si accontenta,infatti, solo d’un contraddittorio sull’elemento di prova. Riaffiora qui la difficoltà dellanostra cultura giuridica ad affrancarsi da concezioni del passato( 38 ), secondo cui indipendentementedalla «premessa di politica legislativa» in forza della quale si regolano irapporti tra procedimento preliminare e dibattimento, le «deposizioni raccolte nelprimo, allorché non poss[ano] essere riassunte nel secondo, rappresentano pursempre un segno del reato ... ignorarle ... significherebbe impoverire il processo diuna risultanza probatoria, con intuibili conseguenze rispetto al rischio d’una sentenzaingiusta» ( 39 ).5. Segue: gli art. 512 e 526 comma 1-bis c.p.p. – Similmente, risulta insufficiente ladisciplina dell’art. 512 c.p.p.( 40 ). Dal punto di vista strutturale, questa norma è statacostruita sull’imprevedibilità dell’evento che ha reso impossibile la ripetizione dell’attod’indagine, con l’obiettivo d’evitare che le parti s’astenessero «deliberatamente dal proporreincidente probatorio, sapendo di potere poi utilizzare come prova ... l’atto unilateralmenteformato»( 41 ). Mediante l’art. 512 c.p.p., invero, il legislatore ha voluto sollecitarele parti a tenere una condotta diligente, spingendole a chiedere il contraddittorioanticipato, nelle ipotesi d’un pericolo prevedibile di dispersione della prova, esanzionandole con l’inutilizzabilità in caso contrario( 42 ).( 36 ) P. Ferrua, Il ‘giusto processo’, cit., p. 8. Cfr. altresì S. Beltrami, Irreperibilità delteste incompatibile con il diritto al contraddittorio?, inDir. Giust., 2005, n. 47, p. IV, per ilquale, con l’art. 111 comma 5 Cost., «si è logicamente dovuto prendere atto che in date situazioni,per accertata impossibilità di natura oggettiva, l’assunzione delle prove dichiarativein contraddittorio non può aver luogo: ad impossibilia nemo tenetur».( 37 ) Cfr. supra, §3.( 38 ) Sia sufficiente rammentare C. cost., sent. 21 novembre 1973 n. 154, in Giur. cost.,1973, p. 1723-1725, per la quale non ledeva l’art. 24 comma 2 Cost. la circostanza che, acausa di «ostacoli obiettivi ed eccezionali postumi», l’art. 462 n. 3 c.p.p. 1930 permettessela lettura, nel dibattimento, delle dichiarazioni pregresse rese dal teste deceduto, assentedal territorio dello Stato, irreperibile o inabile a deporre, a prescindere dal consenso delleparti. A parere della Consulta, in particolare, era «dovere del giudice dibattimentale che,in genere, le risultanze processuali, acquisite regolarmente agli atti, non res[tassero] celatee sottratte al pubblico esame per una complessiva valutazione di tutte le emergenze dicausa».( 39 ) F. Cordero, Scrittura e oralità, cit., p. 215.( 40 ) Così come degli art. 238 comma 3, 512-bis (cfr., al riguardo, S. Buzzelli, Le letturedibattimentali, cit., p. 105 ss.) e 513 comma 2 secondo periodo c.p.p.( 41 ) P. Ferrua, La formazione delle prove nel nuovo dibattimento: limiti all’oralità ealcontraddittorio, inId., Studi sul processo <strong>penale</strong>, Torino, Giappichelli, 1990, p. 95.( 42 ) Sul punto, cfr. S. Buzzelli, Le letture dibattimentali, cit., p. 84 ss.; C. Cesari,‘‘Giusto processo’’, contraddittorio ed irripetibilità degli atti di indagine, cit., p. 63-64; G.Ichino, Gli atti irripetibili e la loro utilizzabilità dibattimentale, inLa conoscenza del fattonel processo <strong>penale</strong>, a cura di G. Ubertis, Milano, Giuffrè, 1992, p. 156 ss.


436GIURISPRUDENZA COMMENTATALa logica sottesa a tale scelta è comunque ben «distante da quella che ispira il bilanciamentodi valori elaborato in sede europea»( 43 ).La Corte europea tollera la lettura alla condizione che l’imputato abbia godutod’un momento adeguato di confronto con il teste a carico, sia o meno responsabile dell’irripetibilitàdell’atto l’autorità che ha proceduto alla raccolta delle dichiarazioni nellefasi precedenti al giudizio( 44 ). L’acquisizione di quanto divenuto irripetibile ex art. 512c.p.p., al contrario, implica che le parti, «incolpevoli, poss[ano] far leggere l’atto checircostanze ‘fatali’ abbiano compromesso», mancando i presupposti per «accedere all’occasionedi confronto diretto che l’ordinamento ha predisposto» a norma dell’art.392 c.p.p.( 45 ).Piuttosto, nel futuro, potrebbe contribuire a evitare ulteriori violazioni dell’art. 6commi 1 e 3 lett. d Conv. eur. dir. uomo l’art. 526 comma 1-bis c.p.p., traduzione codicisticadell’art. 111 comma 4 secondo periodo Cost. ( 46 ). Al di là della sua controversanatura di regola di valutazione o d’esclusione probatoria( 47 ), è indubbio che il comma1-bis dell’art. 526 c.p.p. sia norma di chiusura del sistema( 48 ), finalizzata a impedire cheuna condanna possa essere motivata sulla base di dichiarazioni rese da chi si sia sottrattovolontariamente al contraddittorio( 49 ). Da qui, ad esempio, si è arguito che, sel’impossibilità di ripetere l’atto nel giudizio dipende da morte, irreperibilità o inabilitàa deporre provocate dal dichiarante, la prova ‘‘preliminare’’ potrebbe essere letta ex art.512 c.p.p., ma non sarebbe comunque idonea a provare la colpevolezza dell’accusato(50 ).Va notato, tuttavia, che le corti nazionali si sono orientate prevalentemente insenso opposto, asserendo che l’art. 512 c.p.p. è applicabile anche «in caso di mortedel dichiarante dovuta a suicidio»( 51 ) o «in caso di irreperibilità del dichiarante, con-( 43 ) C. Cesari, Prova irripetibile e contraddittorio nella Convenzione europea dei dirittidell’uomo, cit., p. 1456.( 44 ) Cfr. C. eur. dir. uomo, sent. 28 agosto 1992, Artner c. Austria, cit., p. 1048, la qualeosserva che, nel caso di specie, «le autorità» austriache non avevano dimostrato «alcunanegligenza nella ricerca degli interessati. Non potendo ottenere la presenza della signorinaL. in aula, il tribunale era, quindi, padronissimo, sotto riserva dei diritti della difesa, di tenerein considerazione le deposizioni raccolte dalla polizia e dal giudice istruttore» (corsivo nostro);v., inoltre, C. eur. dir. uomo, sent. 19 febbraio 1991, Isgrò c. Italia, cit., p. 515; C.eur. dir. uomo, sent. 6 dicembre 1988, Barberá, Messegué e Jabardo c. Spagna, cit., p. 122.( 45 ) Cfr. C. Cesari, Prova irripetibile e contraddittorio nella Convenzione europea deidiritti dell’uomo, cit., p. 1456-1457.( 46 ) Sulla correlazione tra le due norme, cfr., per tutti, P.P. Paulesu, Volontaria sottrazioneal contraddittorio e inutilizzabilità della prova per la colpevolezza, inIl giusto processotra contraddittorio e diritto al silenzio, cit., p. 117.( 47 ) V., con diverse sfumature, P. Ferrua, Il ‘giusto processo’, cit., p. 154-155; D. Negri,sub art. 19 l. 1º marzo 2001 n. 63 (attuazione dell’art. 111 Cost.), inLeg. pen., 2002, p.319; M. Panzavolta, Le letture di atti irripetibili al bivio tra «impossibilità oggettiva» e «liberascelta», inCass. pen., 2003, p. 3985 ss.( 48 ) Cfr. C. Valentini, Impossibilità dell’esame dibattimentale del teste: divieto di acquisizioneo semplice divieto di valutazione contra reum delle precedenti dichiarazioni?,inDir.pen. proc., 2002, p. 1127-1128.( 49 ) Cfr., altresì, F. Cordero, Procedura <strong>penale</strong>, Milano, Giuffrè, 2003, p. 745.( 50 ) V., per tutti, P. Ferrua, Il ‘giusto processo’, cit., p. 155 e 165 ss.( 51 ) Cass., sez. I, 22 novembre 2002, Chivasso, in Cass. pen., 2004, p. 1665.


GIURISPRUDENZA COMMENTATA437siderato che tal[i] situazion[i] ... configura[no] ... ipotesi di oggettiva impossibilità diformazione della prova in contraddittorio e non p[ossono] essere equiparat[e] alla volontariascelta di sottrarsi all’esame di cui all’art. 526 comma 1-bis c.p.p.»( 52 ).Né va dimenticato che, nell’ottica della Convenzione europea, è indifferente che lamancata escussione dibattimentale del teste dipenda da una sua volontaria sottrazioneal controesame. I giudici di Strasburgo valutano la vicenda sottoposta al loro scrutinio a«partire dall’idea che non [sia] possibile ottenere la presenza»( 53 ) della fonte di prova,a prescindere da un’indagine sulle cause che l’hanno determinata. Il loro sindacato, insostanza, si estende fino a considerare vicende in cui l’impossibilità di sentire il dichiarantesia originata da fattori meramente accidentali, comunque non coperti dall’art. 526comma 1-bis c.p.p. Dinnanzi a un teste deceduto( 54 ) o irreperibile( 55 ), alla Corte importache all’accusato sia stata concessa un’occasione adeguata di confronto con l’accusatore,senza che assumano rilievo eventuali comportamenti elusivi del contraddittorioimputabili alla volontà del dichiarante.6. Esigenze di riforma. – Ai sensi degli art. 512 e 526 comma 1-bis c.p.p., dunque,sono pienamente utilizzabili ai fini della decisione elementi di prova divenuti irripetibilia causa di «ostacoli obiettivi ed eccezionali»( 56 ), non riconducibili a una volontaria sottrazionedella fonte di prova al contraddittorio. A tali condizioni, però, l’interesse statualeal recupero dei ‘‘segni’’ del reato prevale su ogni altra esigenza difensiva dell’accusatoe, nella prospettiva europea, è iniquo che il rischio della mancata rinnovazionecoram partibus della prova ‘‘preliminare’’ gravi in toto sull’imputato( 57 ). Ne deriva unosfasamento – è un paradosso, se si considera il clima in cui è maturata la riforma dell’art.111 Cost. – tra il nostro sistema processuale e i principi elaborati dalla giurisprudenzaeuropea che impone, al più presto, un intervento correttivo sulla disciplina in discussione.In proposito, il legislatore avrebbe a disposizione una serie di soluzioni che vanno( 52 ) Cass., sez. un., 28 maggio 2003, Torcasio, in Cass. pen., 2004, p. 33; v., inoltre,Cass., sez. III, 18 giugno 2003, Nasolini, in Riv. it. dir. proc. pen., 2004, p. 642-643, con motivazionee con nota di F. Varone, Lettura di atti dichiarativi irripetibili e libera scelta deldichiarante di sottrarsi all’esame: un tentativo di «restaurazione» da parte della Suprema Corte?;Cass., sez. I, 9 ottobre 2002, Nuredini Bujar, in Cass. pen., 2004, p. 1666. In senso parzialmentedifforme, v. Cass., sez. VI, 8 gennaio 2003, Pantini, ivi, 2003, p. 3865, con motivazionee con nota di M. Panzavolta, Il testimone irreperibile alla luce dei principi costituzionali.Contra, nella giurisprudenza di merito, Ass. Torino, ord. 10 maggio 2002, DragosDan Liviu, ivi, 2003, spec. p. 3972-3973; Ass. Genova, ord. 17 gennaio 2002, Mango, inDir. pen. proc., 2002, spec. p. 1123 (con riguardo alla lettura ex art. 512-bis c.p.p. di dichiarazionirese da un testimone residente all’estero sottrattosi al contraddittorio).( 53 ) C. eur. dir. uomo, 19 febbraio 1991, Isgrò c. Italia, cit., p. 515.( 54 ) C. eur. dir. uomo, sent. 5 dicembre 2002, Craxi c. Italia, cit., p. 1443-1444; C. eur.dir. uomo, sent. 7 agosto 1996, Ferrantelli e Santangelo c. Italia, cit., p. 950-951.( 55 ) C. eur. dir. uomo, sent. 6 dicembre 1988, Barberá, Messegué, Jalabardo c. Spagna,cit., p. 122.( 56 ) Mutuando l’espressione da C. cost., sent. 21 novembre 1973 n. 154, cit., p. 1723.( 57 ) La suddetta situazione, ovviamente, non si verifica allorché la lettura riguardi attiformati dal giudice dell’udienza preliminare alla presenza del difensore dell’imputato (cfr. G.Ichino, Gli atti irripetibili e la loro utilizzabilità dibattimentale, cit., p. 160).


438GIURISPRUDENZA COMMENTATAdall’impiego dell’atto irripetibile quale elemento «di conferma o di falsificazione dellaprova in senso proprio»( 58 ) all’esclusione di qualunque forma d’uso della prova unilateralmenteformata( 59 ).Qualora si condivida la premessa secondo cui il «contraddittorio nella formazionedelle prove è una misura utile tecnicamente e moralmente necessaria»( 60 ), il migliorstrumento pensato «dagli uomini per stabilire la verità di enunciati fattuali»( 61 ), a nostroavviso una scelta equilibrata potrebbe consistere nel divieto d’impiegare direttamentein sentenza ex art. 512 c.p.p.( 62 ) le informazioni acquisite in carenza di dialetticità(63 ), salvo il consenso di chi non ha assistito all’attività di reperimento del dato conoscitivo(64 ). In mancanza di tale consenso, poi, l’atto d’indagine potrebbe servire,( 58 ) G. Giostra, Contraddittorio (principio del) II) diritto processuale <strong>penale</strong>, cit., p.12, a cui parere, a ogni modo, la dichiarazione acquisita in difetto di contraddittorio «nonpotrebbe mai fondare – comunque riscontrata – alcuna decisione, ma potrebbe, corroborandoo screditando prove, orientare il convincimento giudiziale».( 59 ) In tal senso, sarebbe opportuno ampliare i presupposti e snellire le procedured’instaurazione dell’incidente probatorio, come segnalato recentemente da C. Cesari, Provairripetibile e contraddittorio nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, cit., p. 1457 (allaquale si rinvia anche per la bibliografia in argomento). Va inoltre rilevato che la lettura neldibattimento di atti formati nell’incidente probatorio dal giudice per le indagini preliminarinon porrebbe problemi in una prospettiva europea: benché con riguardo a un caso di mancatarinnovazione dell’escussione di testimoni le cui dichiarazioni erano state lette dal giudicesostituto (ai sensi degli art. 511 e 525 comma 2 c.p.p.), C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 10maggio 2005, Graviano c. Italia, § 39, ha asserito che, nella specie, «le changement de l’undes huit juges composant la chambre de la cour d’assises n’a pas privé le requérant de sondroit d’interroger les témoins en question, ceux-ci ayant été entendus lors des débats publicsen présence du requérant et de son avocat, qui ont eu l’occasion de leur poser les questionsqu’ils estimaient utiles pour la défense». Di qui, infatti, si potrebbe desumere che non implicaviolazioni dell’art. 6 commi 1 e 3 lett. d Conv. eur dir. uomo la lettura in dibattimentodei verbali degli atti acquisiti nell’incidente probatorio.( 60 ) F. Cordero, Diatribe sul processo accusatorio, inId., Ideologie del processo <strong>penale</strong>,Milano, Giuffrè, 1966, p. 221.( 61 ) G. Ubertis, Ricostruzione del sistema, giusto processo, elementi di prova (1992) inId., Sisifo e Penelope. Il nuovo codice di procedura <strong>penale</strong> dal progetto preliminare alla ricostruzionedel sistema, Torino, 1993, p. 268; v., inoltre, G. Giostra, Valori ideali e prospettivemetodologiche del contraddittorio in sede <strong>penale</strong>, inPol. dir., 1986, p. 17 ss.; R.E. Kostoris,Giudizio (dir. proc. pen.), inEnc. giur. Treccani, XV, Agg., Roma, 1997, p. 4; B. Pastore,Giudizio, prova, ragion pratica. Un approccio ermeneutico, Milano, Giuffrè, 1996, p. 226 ss.( 62 ) E le stesse considerazioni valgono per l’acquisizione dei verbali di altro procedimentoa norma dell’art. 238 comma 3 c.p.p. e per le ipotesi di lettura ex art. 512-bis e513 comma 2 secondo periodo c.p.p.( 63 ) Per una modifica, invece, dell’art. 526 comma 1-bis c.p.p., cfr. C. Cesari, Provairripetibile e contraddittorio nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, cit., p. 1466.( 64 ) In tale maniera, come si ricava anche dall’art. 111 comma 5 Cost., l’interessato èposto nelle condizioni di riconoscere che «l’esito di un esperimento gnoseologico eventualmentecondotto unicamente dalla controparte corrisponde a ciò che sarebbe ottenibile con lapropria partecipazione all’attività» di formazione dell’elemento di prova (G. Ubertis, Sistemadi procedura <strong>penale</strong>, I,Principi generali, cit., p. 154). E ciò non contrasterebbe nemmenocon la giurisprudenza della Corte europea, a cui avviso «né la lettera né laratio» dell’art. 6commi 1 e 3 lett. d Conv. eur. dir. uomo «impediscono ad una persona di rinunciare di pro-


GIURISPRUDENZA COMMENTATA439quale supporto del contraddittorio ( 65 ), a vagliare «l’attendibilità di elementi, fonti e/omezzi di prova concernenti altri esperimenti probatori»( 66 ). Un siffatto assetto, delresto, sarebbe coerente con le opzioni di politica legislativa sottese alla l. n. 63 del2001: se il giudice normalmente non può impiegare in sentenza le dichiarazioni pregressecontestate al testimone, perché inaffidabili( 67 ), lo stesso dovrebbe valere a maggiorragione, quando la difesa o l’accusa, oltre a non aver partecipato alla formazionedell’atto, non hanno neppure avuto modo di ‘‘vedere negli occhi’’ il dichiarante a caricoo a discarico( 68 ).7. Illegittimità costituzionale (non solo) dell’art. 512 c.p.p. – Il caso Sejdovich, tuttavia,insegna che non bisogna farsi troppe illusioni circa un repentino intervento dellegislatore( 69 ).Una soluzione volta a ricalibrare i rapporti tra indagini e dibattimento, allora, potrebbeessere fondata su un riferimento (diretto o indiretto) alla stessa Carta costituzionale,così da consentire un intervento del giudice delle leggi.Nell’ipotesi in cui s’intendesse la locuzione «accertata impossibilità di natura oggettiva»ex art. 111 comma 5 Cost. come riferita «alla natura ‘dell’oggetto’» e, quindi,«legittimante una disciplina che consentisse l’impiego processuale di strumenti gnoseologicidei quali fosse ‘accertata’ ... l’inconciliabilità con il contraddittorio perché intrinsecamenteincompatibili con quest’ultimo ... oppure perché recanti elementi di provacontenutisticamente o strutturalmente diversi da quelli che sarebbero generabili daesso», ne seguirebbe l’«illegittimità costituzionale» dell’art. 512 c.p.p., «almeno inquanto attinente all’uso decisorio contra reum di elementi di prova dichiarativi precedentementeacquisiti» in assenza della controparte( 70 ).pria spontanea volontà, in modo espresso o tacito, alle garanzie che vi sono consacrate», purché«tale rinuncia [sia] inequivoca e non ... urt[i] ... alcun interesse significativo» (C. eur. dir.uomo, sent. 5 dicembre 2002, Craxi c. Italia, cit., p. 1444).( 65 ) Sebbene con specifico riguardo alle contestazioni, mette in evidenza l’importanzadell’«uso indiretto dell’elemento di prova» formato unilateralmente per la sopravvivenza delmetodo dialettico S. Buzzelli, Contraddittorio e contestazioni nell’esame testimoniale: unasbrigativa ordinanza della Corte costituzionale, inGiur. cost., 2002, p. 334-335.( 66 ) G. Ubertis, Prova e contraddittorio (2001), in Id., Argomenti di procedura <strong>penale</strong>,Milano, 2002, p. 194.( 67 ) Riprendendo F. Cordero, Procedura <strong>penale</strong>, cit., p. 701, «[s]uperfluo spiegareperché ... La testimonianza è un prodotto verbale delicato: v’influisce l’ambiente; sono tantii modi d’estrarla, inclusi suggestione e forcipe».( 68 ) Osserva G. Giostra, Contraddittorio (principio del) II) diritto processuale <strong>penale</strong>,cit., p. 11, che «[c]onferire al contraddittorio effettiva centralità nel processo <strong>penale</strong> non significasoltanto farne un rigoroso strumento di ‘dialisi probatoria’ per separare cognizioni diprovenienza spuria dai risultati di prova, ma anche restituire al sistema linearità e coerenza,talvolta semplificandolo».( 69 ) V. la sentenza ‘‘monito’’ di C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 10 novembre 2004, Sejdovicc. Italia, in Cass. pen., 2005, spec. p. 987, con la quale – a seguito dell’ennesima condannaper violazione dell’art. 6 comma 1 Conv. eur. dir. uomo – i giudici di Strasburgo hannoinvitato expressis verbis il nostro Paese ad adottare delle «misure di carattere generale»volte a rimuovere i difetti «di carattere strutturale» in materia di contumacia.( 70 ) Per questa e le citazioni precedenti, cfr. G. Ubertis, Sistema di procedura <strong>penale</strong>,


440GIURISPRUDENZA COMMENTATAQualora, viceversa, si volesse insistere nel ritenere (in analogia con l’impostazionecodicistica) che il precetto de quo riguardi anche un’impossibilità per «‘causa oggettiva’esterna all’esperimento conoscitivo»( 71 ), il medesimo risultato potrebbe essere assicuratodal doveroso rispetto dell’art. 76 Cost. Come anticipato( 72 ), già il preambolo dell’art.2 legge-delega c.p.p. avrebbe imposto, e tuttora impone, d’adattare la normativadelle letture a forme di contraddittorio almeno differito sulla fonte di prova, in lineacon la giurisprudenza della Corte europea sull’art. 6 Conv. eur. dir. uomo( 73 ). E ciòdovrebbe valere anche per «quanto emanato al di fuori del meccanismo della delegao successivamente all’esaurirsi del relativo potere conferito al Governo»( 74 ), ossia perquanto riguarda l’estensione dell’area degli atti leggibili a quelli formati dalla poliziagiudiziaria e dalla difesa, ai sensi dell’art. 8 comma 2 d.l. 8 giugno 1992 n. 306 conv.in l. 7 agosto 1992 n. 356 e dell’art. 18 l. 7 dicembre 2000 n. 397( 75 ). D’altronde, varibadito che, oggi, pure l’art. 117 comma 1 Cost. potrebbe essere usato quale criterio(76 ) per vagliare la conformità della disciplina processuale predisposta dal legislatorealle garanzie provenienti dalle Carte internazionali vincolanti per il nostro Stato.Francesco ZacchèI, Principi generali, cit., p. 155-156, a cui parere, così, risulterebbero costituzionalmente eccepibilipure gli art. 238 comma 3, 512-bis e 513 comma 2 secondo periodo c.p.p.( 71 ) G. Ubertis, Sistema di procedura <strong>penale</strong>, I,Principi generali, cit., 156.( 72 ) Cfr. supra, §1.( 73 ) Peraltro, sulle incertezze della Corte costituzionale a impiegare la Convenzione europeadei diritti dell’uomo «come parametro nel controllo delle leggi», cfr., da ultimo, V.Monetti, Il cortocircuito fra Corti costituzionali, i diritti della persona, il processo <strong>penale</strong>,in Quest. giust., 2005, p. 1314.( 74 ) G. Ubertis, Sistema di procedura <strong>penale</strong>, I,Principi generali, cit., p. 32.( 75 ) E analoghi rilievi d’illegittimità costituzionale sarebbero relativi agli art. 238 comma3, 512-bis e 513 comma 2 secondo periodo c.p.p.( 76 ) Cfr. supra, § 1, nota 8.


GIURISPRUDENZA COMMENTATA441Tribunale di Urbino, 23 settembre 2003, n. 328Giudice Spaziani – M.G.P. e M.D.Non è imperito, imprudente, negligente, il medico che omette di richiederein un caso di politraumatizzato della strada l’ecografia addominale, sebbenetale esame fosse prescritto nel protocollo di emergenza in casi del genere,qualora, alla luce delle condizioni oggetive in cui versava, all’epoca, la strutturasanitaria, l’esame medesimo non poteva essere effettuato (1).(1) Protocolli, linee guida e colpa specifica.Sommario: 1. Premessa. – 2. Natura giuridica. – 3. Applicazione in diritto societario, inmateria di sicurezza nei luoghi di lavoro, in diritto sportivo... – 4. e in medicina.1. Premessa.Sempre più di frequente, nel contesto della moderna società del rischio( 1 ), si as-( 1 ) F. Stella, Giustizia e modernità, Milano, 2003; La costruzione giuridica della scienza:sicurezza e salute negli ambienti di lavoro, R.I.D.P.P. 2003, pp. 55 ss.: ‘‘la sicurezza e lasalute negli ambienti di lavoro costituiscono due dei grandi temi con i quali deve misurarsila nuova razionalità richiesta dall’avvento della moderna società del rischio. L’impetuoso sviluppodelle tecnologie ... ha determinato dei cambiamenti nel sistema produttivo che hannosubito accelerazioni... che hanno costituito la sorgente di nuovi pericoli, legati all’attività lavorativa,che impongono un ripensamento degli schemi tradizionali di sicurezza... pietra agolaredi questo ripensamento è una politica della sicurezza e della salute capace di fronteggiarei nuovi pericoli; e lo strumento che rende possibili i nuovi programmi di sicurezza e protezione(della salute) è la valutazione del rischio... Chi deve provvedere alla valutazione del rischio?Gli studiosi non hanno dubbi di sorta: la valutazione sul livello di esposizione al rischioaccettabile, una valutazione carica di valori, spetta ai responsabili delle decisioni politiche,il processo di gestione del rischio spetta a chi è preposto a stabilire norme e leggi’’;Scienza e norma nella pratica dell’igiene industriale, D.P.P., 1999, pp. 383: ‘‘sono note le controversiesulla razionalità della scienza... che si riflettono inevitabilmente nella controversiasulla valutazione e sul controllo del rischio.... il quesito cruciale è se esistano delle norme metodologicheche garantiscono la razionalità della valutazione. Una valutazione veramente ra-


442GIURISPRUDENZA COMMENTATAsiste ad un processo di produzione normativa particolare: nei più svariati settori dellavita di relazione si stanno sviluppando fonti normative destinate a guidare il comportamentoumano al fine di tenerlo indenne da eventuali conseguenze giuridiche. Ci si riferisceai protocolli di comportamento, ai codici di comportamento, alle linee guida elaborateper i sindaci delle società, per gli amministratori, per i medici e il personale sanitarioin generale( 2 ).2. Natura giuridica.Dal punto di vista sistematico, il ricorso a tali strumenti si colloca nel contesto diuna più ampia tendenza alla ‘‘ formalizzazione’’ ed alla ‘‘procedimentalizzazione‘‘ delleregole cautelari: la condotta osservante, nei vari settori di attività, è sempre più spessoquella che si traduce nella realizzazione di un complesso procedimento, le cui regole,zionale dovrebbe tener conto dei valori etici e della percezione sociale del rischio... gli operatoridei settori in cui si esplicano attività pericolose, debbono impegnarsi in un costante ecompleto aggiornamento scientifico e debbono essere pronti a mutare opinione sui criteri divalutazione e di controllo del rischio, in coerenza con i risultati della ricerca scientifica chedimostrino la falsità di una ipotesi prima accettata o la conferma di una prima respinta... inconclusione, qualunque esercente un’attività che implichi dei rischi per gli utenti deve considerarsiun tecnico-scienziato sempre al corrente dell’evoluzione della ricerca’’. In questa situazionediventa di capitale importanza capire se il giudice abbia a disposizione dei criteri diaccettata credibilità delle ipotesi scientifiche che vengono prospettate nel processo. Un validoaiuto può venire dal Diritto delle prove che autonomamente definisce, in funzione degliscopi del processo, i criteri di affidabilità degli enunciati scientifici. Al riguardo si veda F.Stella: Verità, scienza e giustizia: le frequenze medio-basse nella successione degli eventi,in Riv. It. Dir. Pen. Proc. 2002, pp. 1225 ss.: ‘‘il giudice deve giudicare affidabili solo le provescientifiche che, oltre a godere di un alto grado di conferma, siano state sottoposte ed abbianosuperato test di falsificazione ed, in più, abbiano ricevuto il consenso della comunitàscientifica’’.( 2 ) C. Piergallini, Attività produttive e imputazione per colpa: prove tecniche di diritto<strong>penale</strong> del rischio, R.I.D.P.P. 1997, pp. 1473 ss.: ‘‘mentre la colpa generica si fonda sulricorso a norme esperenziali alle quali è sottesa una dimensione sociologica, e che tendonoad orientare il comportamento secondo criteri di normalità, le norme scritte puntano, viceversa,a selezionare classi di rischi, a fornire cioè una più puntuale descrizione del rischio insitoinuna data situazione di fatto. Ci si affida, perciò, alle regole positive per disciplinare areedi rischio sostanzialmente omogeneo, in cui la ripetitività dei comportamenti, la rilevanza deibeni in gioco e l’affinarsi delle conoscenze consentono una miglioreselezione dei rischi da preveniree contenere’’. Beck, La società del rischio, Roma, 2000: ‘‘Sta emergendo una nuovaforma ascrittività del rischi, di fronte a cui i margini di decisione individuale non esistonoqausi più... l’esperienza di questa esposizione al rischio, senza spazi di decisione, rende comprensibilegran parte dello shock, della rabbia impotente e del senso di perdita di un orizzontefuturo’’; Jonas, Il principio di responsabilità, Torino, 1990: ‘‘nessuno può più esserereso responsabile individualmente... la situazione reale è peggiorata... chi non è minacciatopersonalmente non si sforza di fare una revisione del èrorpio modo di vivere’’; Douglas,Risk acceptability eaccording ti the social sciences, Berkeley, 1985, trad. It. Come percepiamoil pericolo, Milano, 1991: ‘‘Quanto ai rischi ci si appella alla fiducia nella scienza, la cui razionalitàfinora ha trovato soluzioni per tutti i problemi, mentre i timori per il futuro vengonostigmatizzati come forme di irrazionalism, vera causa di tutti i mali’’.


GIURISPRUDENZA COMMENTATA443assai dettagliate, mirano all’individuazione del rischio, in funzione dell’adozione dellemisure necessarie a fronteggiarlo efficacemente( 3 ).Queste linee guida altro non sono che regole cautelari prodotte seguendo il principiodell’evidenza scientifica, per cui una cosa, un prodotto, un’attività sono pericolosesolo quando la scienza più accreditata lo afferma( 4 ).3. Applicazione in campo medico, in diritto societario, in materia di sicurezza nei luoghi dilavoro, in diritto sportivo...La medicina, in particolar modo e più di ogni altro settore , non è la scienza dell’esatto,ma del possibile: questo spiega perché negli ultimi anni il campo medico abbiaprodotto una grande quantità di strumenti di informazione e di aiuto alla pratica clinicacome le linee guida, l’utilizzo delle quali costituisce garanzia di osservanza di buona praticaclinica ed è considerata sinonimo di osservanza delle ‘‘regole dell’arte’’, con l’obiettivodi ‘‘guidare’’ il medico nello svolgimento del suo lavoro( 5 ).( 3 ) F. Stella, La costruzione giuridica della scienza, R.I.D.P.P. 2003, pp. 55 ss.: ‘‘Lavalutazione del rischio costituisce una procedura nella quale sono distinguibili tre fasi, la fasedell’identificazionedel rischio, la fase della sua stima e la fase delle decisioni: al primo stadioviene identificatauna minaccia..., al secondo, scienziati stimano il rischio collegato a determinatilivelli di esposizione a quel pericolo, al terzo stadio, scienziati, economisti, medici, sociologie responsabili di decisioni politiche valutano quale livello di esposizione al rischio, se neesiste uno, è accettabile per la società. Quando questa analisi è conclusa, chi è preposto astabilre norme e leggi dà il via al processo di gestione del rischio, assicurandosi che la realeesposizione al rischio sia conforme ai livelli di accettabilità giaà fissati dagli esperti’’; P. Veneziani,I delitti contro la vita e l’incolumità individuale, inTrattato di diritto <strong>penale</strong>, PtS, acura di Marinucci-Dolcini, Padova 2003, pp. 183 ss.: ‘‘la crescente popolarità delle linee-guidain campo medico sta gradatamente evidenziando il desiderio di regolamentare i comportamentiprofessionali allo scopo di ridurre i rischi derivanti dall’adozione di procedure dinon comprovata efficacia’’.( 4 ) P. Veneziani, op. ult. cit. ‘‘Ecco allora spiegato come i vari settori in cui si esplical’attività umana siano presidiati da regole cautelari... caratterizzate da un diverso grado diefficacia. In particolare, si riscontrano ipotesi in cui la salvaguardia di interessi fondamentali,su tutti la vita umana, è affidata a regole cautelati, la cui osservanza non assicura un ‘‘azzeramento’’del rischio, ma soltanto un suo contenimento. Vedi anche F. Sgubbi, Il diritto <strong>penale</strong>incerto ed inefficace, inRiv. It. Dir. Proc. Pen., 2001, pp. 1193 ss.: ‘‘Oggi, nel contestodella società del rischio, muta la prospettiva di valutazione della condotta umana penalmenterilevante... oggi rilevano i rischi anche non conosciuti o non identificati con sicurezza scientifica’’;F. Stella, Giustizia e modernità, pp. 4: ‘‘La sfida di fronte alla quale vieni a trovarsila scienza giuridica non è di poco conto, giacché essa non può sottrarsi alla domanda se e inquale modo possa contribuire alla soluzione di quei problemi, affrontando, con gli strumentisuoi propri, i grandi rischi che minacciano l’umanità. È una sfida che tocca anche il diritto<strong>penale</strong>... se si debba restare ancorati al modello di diritto <strong>penale</strong> classico, imperniato sul danno,o se non si debba invece dar vita ad un nuovo modello, il modello del diritto <strong>penale</strong> delpericolo per il futuro, cioè del diritto <strong>penale</strong> del comportamento... puramente funzionalistico,orientato all’obiettivo di una difesa, il più efficace possibile, contro i rischi che minacciano ilfuturo’’.( 5 ) A. Fiori, Medicina legale della responsabilità medica, Giuffrè Ed., Milano, 1999:


444GIURISPRUDENZA COMMENTATAAnche in campo societario sono state elaborate linee guida, in modo particolareper la costruzione dei modelli di organizzazione gestione e controllo ex art. 6 d.lgs.231/01( 6 ).Si tratti di documenti variamente denominate, elaborati dalle associazioni di categoria,che essendo stati adeguatamente pubblicizzati, costituiscono importanti punti diriferimento per le imprese, specie per quelle di piccole dimensioni. Vengono a delinearsiin tal modo tutti i possibili contenuti precettivi, quanto meno le procedure fondamentalidi formazione del modello, sì da poter giungere a un solido schema operativoche solo la prassi potrà progressivamente definire e convalidare.In questa prospettiva vengono a collocarsi gli importanti documenti di Confindustria(7 ) e dell’Associazione Nazionale Bancaria, che convergono sugli anzidetti profilimetodologici, consentendo di affermare che, almeno sotto questo profilo, l’ente puòvantare un significativo e oggettivo margine di esenzione da responsabilità, nella misurain cui non gli si potrà addebitare l’adozione di un modus procedendi diverso da quellosuggerito.Le linee guida approvate da Confindustria contengono una serie di indicazioni emisure, essenzialmente tratte dalla pratica aziendale, ritenute in astratto idonee a risponderealle esigenze delineate dal d.lgs. 231/2001.Sotto il profilo del contenuto, il modello organizzativo costituisce un vero e propriocodice di comportamento cui gli appartenenti all’ente dovranno uniformare il propriocomportamento e che codifica una serie di regole cautelari la cui violazione si tradurràin colpa specifica dell’ente.La previsione di modelli di tal fatta, di larga applicazione nell’esperienza giuridicaamericana, non è una novità assoluta nel il nostro ordinamento giuridico, essendo possibilerinvenire un precedente in tal senso, nel d.lgs. 626/94, in materia di sicurezza neiluoghi di lavoro( 8 ).Al datore di lavoro è ex lege imposto l’obbligo di adottare tutte quelle cautele indicatedal legislatore e da questi, a monte, destinate a specifici fini di tutela. La violazionedi queste regole di condotta codificate si traduce in imputazione per colpa specifica:precipuo elemento della colpa specifica è l’‘‘inosservanza di leggi, regolamenti,ordini o discipline’’, occorre cioè la violazione di una disposizione scritta che positivizzaregole di condotta prudenziali aventi la loro matrice in criteri di prudenza e di avvedutezza,la cui idoneità preventiva a prevenire il rischio è già stata vagliata dal legislatore.‘‘esse costituiscono un ulteriore aiuto, una guida appunto, per il medico nello svolgimentodel suo lavoro di assistenza, ma al tempo stesso possono essere utilizzate quale strumentodi giudizio nelle mani di coloro che sono chiamati a giudicarne la condotta’’.( 6 ) Si tratta anche in questo caso di modelli di prevenzione del rischio rappresentatodalla commissione dei reati, strutturati sulla falsa riga dei Compliance Programms anglosassoni,di cui il nostro legislatore ha onerato gli enti, nell’introdurre la responsabilità cc.dd.amministrativa da reato con il d.lgs. 231/2001. anhe questo settore, invero, si presta all applicazionedegli schemi logici fondati sul binomio ‘‘risk management’’ e ‘‘risk assessment’’ cheè alla base della emersione e della ‘‘messa per iscritto’’ delle regole cautelari non più attraversofonti di produzione nazionale, ma ad opera degli stessi ‘‘protagonisti’’ dell’attività pericolosa.( 7 ) Le linee guida di Confindustria sono reperibili sul sito www.confindustria.it.( 8 ) F. Stella, Il decreto legislative 626 e la Costituzione, Milano, 2000.


GIURISPRUDENZA COMMENTATA445Ogni qualvolta l’esercizio di una determinata attività èdisciplinato da regole cautelarimodali scritte , siano esse di contenuto rigido o flessibile, la prevenzione del rischioè legata alla loro osservanza.Identica finalità cautelare è riscontrabile nelle Linee Guida previste all’allegato 1del D.P.C.M. 31 Marzo 1989 (oggi d.lgs. 334/99), in materia di sicurezza negli stabilimentia rischio di incidente rilevante: l’inosservanza delle prescrizioni in esse contenuteben potrebbe costituire un addebito per colpa specifica( 9 ).Proprio in materia di sicurezza nei posti di lavoro, anche la giurisprudenza, oramaiconsolidata, riconosce un ruolo centrale all’osservanza delle indicazioni provenientidalle Linee-Guida, quali sintesi ragionata delle informazioni scientifiche.A tali principi è improntato il procedimento <strong>penale</strong> pendente a carico del Petrolchimicodi Marghera in persona dei responsabili dei controlli per la sicurezza nei luoghidi lavoro: costante è il riferimento ai risultati della ricerca scientifica sulle potenzialitàaltamente nocive del CVM-PVC e sui suoi effetti cancerogeni. Non si trattava di‘‘vox clamans in deserto’’, ma di una certezza della comunità scientifica supportata dastudi compiuti non solo nel nostro paese ma anche nel resto del mondo, specie negliStati Uniti d’America: un patrimonio solido che si era tradotto in innumerevoli documentiscientifici contenenti regole precauzionali modali scritte atte ad evitare determinateconseguenze nefaste.4. ...in particolare, in medicina.Ma è soprattutto in campo medico, come rilevato all’inizio, che il fenomeno lineeguida si avverte maggiormente.Esse possono essere intese come supporto alle decisioni cliniche, come si ricavadalla definizione data dall’Insitute of Medicine, secondo la quale esse sono da intendersi‘‘sistematically developed statements to assist the practioner and patient decisionsabout appropriate health care for specific clinical circumstances’’( 10 ), il cui corrispettivoitaliano è ‘‘raccomandazioni di comportamento clinico prodotte attraverso un processosistematico allo scopo di assistere medico e paziente nel decidere quali siano lemodalità di assistenza più appropriate in specifiche circostanze cliniche’’.Le linee guida nascono per rispondere ad un obiettivo fondamentale:assicurare ilmassimo grado di appropriatezza degli interventi, riducendo al minimo quella parte divariabilità nelle scelte cliniche legata alla carenza di conoscenze e alla soggettività deicriteri di scelta delle strategie assistenziali( 11 ).Loro scopo principale sarebbe, dunque, quello di indirizzare i comportamenti dei( 9 ) A ben vedere, l’integrazione della fattispecie colposa, in queste ipotesi, non dipenderàdirettamente dagli ordini o dalle discipline, ma dalla fonte di produzione della regolacautelare, che il soggetto competente ad emanare l’ordine o la disciplina ha trasmesso, perloro tramite, ai suoi sottoposti.( 10 ) M.J. Field, K.N. Lohr; eds.: Guidelines for Clinical Practice: from developmentto use, Washington D. C., Institute of Medicine, National Academy Press, 1992.( 11 ) Gruppo di studio Fondazione Smith Kline, Manuale per la redazione, valutazioneed implementazione delle linee guida in medicina, Tendenze Nuove, 2001.


446GIURISPRUDENZA COMMENTATAsingoli operatori in modo appropriato e razionale, offrendo una sintesi ragionata ditutte le informazioni scientifiche disponibili.Questo risulta evidente dalla presentazione delle Linee Guida SIMTI per l’applicazionedei Decreti Ministeriali 25 e 26 gennaio 2001 sulla donazione di sangue, venutialla luce a più di dieci anni di distanza dai Decreti che precedentemente regolavano lamateria. Dieci anni che hanno visto una forte integrazione con la normativa europea,ma che soprattutto hanno visto sviluppi tumultuosi sia nel campo della raccolta – lavorazione– qualificazione biologica del sangue, sia nel campo della terapia trasfusionale;inevitabile dunque, che in questo contesto e per questi motivi, i decreti siano diventatimolto articolati, difficili da interpretare, per alcuni aspetti addirittura ostici. Ecco allorala necessità di dare un riferimento autorevole, un’interpretazione scientificamente corretta,eticamente ineccepibile, solida da un punto di vista medico legale. La SIMTI si èfatta carico di questo compito: il Collegio Medico-Legale, assieme al Consiglio Direttivo,ha preparato una bozza di documento, che ha doverosamente posto all’attenzionedelle Associazioni di Volontariato del Sangue, che con i loro Comitati Scientifici delSangue, hanno valutato, studiato, fatto proposte.Il testo definitivo, lavoro intelligente, tenace e condiviso da tutto il Sistema TrasfusionaleItaliano, è un testo agile, che non vuole risolvere tutti i problemi, ma chesi pone come obiettivo proprio quello di essere un punto di riferimento autorevoleed uniforme per tutto il territorio nazionale e per tutti i medici, che devono e dovrannooperare scelte in ambito trasfusionale; e assicura, valendosi di tutte le possibilità che ilprogresso scientifico e la tecnologia forniscono, dei livelli più sicuri e uniformi di emoterapia.È opportuno sottolineare che le Linee Guida non costituiscono proposte di modificadei decreti, ma semplicemente indicazioni per una loro corretta interpretazione eapplicazione( 12 ). Analogamente, si legge nella presentazione delle ‘‘Linee Guida per laselezione del donatore di sangue e di emocomponenti( 13 )’’ che esse non vogliono essereun’altra e diversa ‘‘normativa’’, ma vogliono presentarsi come comune criterio di interpretazionee applicazione, il più possibile univoca, delle diverse Leggi, Raccomandazioni,Criteri di Buona Pratica Clinica e Buona Pratica di Lavorazione, e con l’obiettivosi semplificare, dove possibile, gli indirizzi operativi.( 14 )Dal punto di vista medico-legale bisogna sottolineare che già sotto la vigenza dellaprecedente disciplina normativa in materia, l’orientamento giurisprudenziale( 15 ) preva-( 12 ) ‘‘Linee Guida SIMTI per l’applicazione dei Decreti Ministreriali 25 e 26 gennaio2001’’ Milano: Edizioni SIMTI, 2000. Per il testo integrale delle Linee Guida Si può ancheconsultare il sito www. SIMTI.it; i Decreti Ministeriali sono pubblicati nella Gazzetta Ufficialen. 78 del 3 aprile 2001.( 13 ) ‘‘Linee guida per la selezione del donatore di sangue ed emocomponenti’’. Milano:Edizioni SIMTI, 2000 oppure sul sito www.Simti.it.( 14 ) F. Stella, La costruzione giuridica della scienza, op. cit.: ‘‘le regole tecniche noncostituiscono di per sé precetti giuridici. Lo diventano, a patto che siano richiamate dauna fonte del diritto: una legge o un regolamento dello stato individua le regole tecniche,ne dà una valutazione nell’interesse della collettività e le indica come punti di riferimenti cogentiper il privato.( 15 ) E. Marinelli, S. Zaami, A. Premate, ‘‘Problemi medico-legali dell’attività trasfusionalealla luce della recente legislazione, Zacchia, 65: 31-56, 1992; U. Rossi, ‘‘Responsa-


GIURISPRUDENZA COMMENTATA447lente riteneva che la colpa del medico nella terapia emotrasfusionale potesse essere ditipo generico, cioè dovuta a negligenza, imprudenza, imperizia, sebbene con l’introduzionedi linee codificate di condotta si sia andata modificando la metodologia di approccioai problemi della responsabilità professionale in questo campo, oppure che sipotesse parlare di colpa specifica per inosservanza di quelle leggi e regolamenti che prevedonoe richiedono sistemi di monitoraggio, metodi di conservazione, protocolli ufficialie linee guida cui il medico deve attenersi.Si parla, pertanto, di una colpa prevalentemente specifica del medico trasfusionista,legata cioè alla inosservanza delle norme, mentre il medico trasfusore sarebbeper lo più responsabile del controllo delle indicazioni alla trasfusione, l’acquisizionedel consenso del ricevente, l’esecuzione corretta della trasfusione e l’intervento immediatoper combattere l’incidente trasfusionale( 16 ).Imperativo per il medico, che presta la propria opera in una struttura trasfusionaleè l’osservanza delle norme che regolano in maniera tassativa le prestazioni di medicinatrasfusionale.Inoltre, in questo settore esiste e opera un organismo che non è presente in altrebranche della medicina e cioè il Comitato trasfusionale, che è una struttura vincolanteed obbligatoria per un ente ospedaliero e che, tra i diversi compiti, ha anche quello diverificare l’audit medico, per cui se il Comitato adotta o definisce linee guida, anche se sitratta di raccomandazioni prescrittive, il medico che opera in quella struttura non puòeluderle, se non con delle valide motivazioni e in casi eccezionali( 17 ).Anche l’attività medico-sportiva è assoggettata al rispetto di numerose procedurein materia di accertamento dell’idoneità alla pratica dello sport, procedure che possiedonovalore tassativo e la cui violazione costituisce colpa specifica. Un complesso diLeggi e Decreti di attuazione, completato da numerose leggi regionali, regolamenti delleFederazioni sportive, protocolli, linee guida, regolamenti, infatti, la tutela sanitaria dellapratica sportiva nel nostro Paese ed il cui rispetto ha carattere vincolante.Ancora, nell’ambito dell’attività infermieristica è previsto l’uso di strumenti operativi,quali linee guida, protocolli e raccomandazioni, con lo scopo di uniformare icomportamenti e standardizzare le procedure allo scopo di ridurre la discrezionalitàdegli operatori in situazioni complesse e ad elevato grado di criticità.La legge 42/99 sottolinea l’importanza di individuare i processi e definire i profilidi cura in base a linee guida predefinite, cioè di raccomandazioni fondate sull’evidenzascientifica, che formano la base per prendere decisioni nel lavoro quotidiano, in gradodi rendere quanto più corretti, appropriati e sicuri gli interventi di assistenza sanitariacomplesse e ad elevato grado di criticità.Ex art. 2 di tale legge, infatti, il campo di attività e di intervento degli ‘‘operatorisocio-sanitari’’ è determinato dai contenuti dei Decreti Ministeriali, dagli OrdinamentiDidattici o dalle altre Codificazioni professionali condivise ed accettate dalla profes-bilità medico-legali nella programmazione e gestione dell’attività trasfusionale (Considerazionisulla Legge 4 maggio 1990, n. 107)’’, Jura Medica 1990, 1/3: 55-68.( 16 ) E. Venturini, G. Boccardelli, ‘‘Riflessioni medico-legali in tema di epatite posttrasfusionale’’ sul sito www.Eurom.it.( 17 ) Istituto Superiore di Sanità: Convegno Nazionale ‘‘Buon uso del sangue’’, Roma25-26 febbraio 2003, Rapporto ISTISAN 04/10, Atti a cura di A. Gianpaolo, A. Barca, L.Catalano, H. J. Hassan.


448GIURISPRUDENZA COMMENTATAsione infermieristica, come linee guida, raccomandazioni, protocolli, ect. L’inosservanzadi una norma di comportamento professionale prefissata dalle fonti suesposte è sufficientea documentare la cc.dd. colpa specifica ex art. 43, comma 3, c.p.( 18 ).Sempre presente in sede di accertamento medico-legale della sussistenza della responsabilitàdel medico è il riferimento alle indicazioni contenute nelle Linee-Guida:spetta al consulente medico-legale l’arduo compito di interpretare il dato scientifico allaluce di tali indicazioni, così fornendo al giudice un valido supporto per la sua decisione(19 ).In conclusione, la tendenza odierna alla procedimentalizzazione e formalizzazionedelle linee guida potrebbe comportare lo spostamento progressivo del baricentro dellaresponsabilità del professionista e dei suoi ausiliari dal campo della colpa generica aquello della colpa specifica.Ma occorre una precisazione: solo in situazioni particolari, solo quelle in cui èstato provato che le linee guida in questione fossero veramente indispensabili e nonfosse possibile operare altre scelte, ed inoltre avessero raggiunto un valore consolidatonel tempo dalla loro immutabilità e salvo che il progresso scientifico e tecnologico, nelperiodo successivo alla loro emanazione non le avesse rese palesemente inadeguate, unsimile discorso di imputazione per colpa specifica per il professionista che non le haosservate potrebbe sussistere.Angela Maria Bonanno( 18 ) Salcuni, Aporie e contraddizioni in tema di colpa professionale. Nota alla sentenza10 maggio 2000, n. 837, Tr. Foggia, inRiv. It. Dir. Proc. Pen.: ‘‘...non comporterebbero l’esclusionedella colpa generica, la quale manterrebbe il compito di integratrice della diligenzanei casi in cui non sia possibile racchiudere tutto il suo contenuto nella norma scritta. Unaserie di norme scritte, (colpa specifica), può consentire un grado di certezza maggiore e dicontrollo, mai di ingerenza, sull’operato dei medici, portando ad un innalzamento della diligenzae della preparazione dei sanitari. L’enucleazione di regole obiettive di condotte nonpuò far altro che spingere i destinatari ad uniformarsi a queste ultime, le quali saranno larisultante dell’incontro tra regole del corpo sociale di apparetenenza e tecniche, accorgimentied esperienze dei migliori esperimenti della medicina’’ contra C. Piergallini, Attività produttivee imputazione per colpa, op. cit.: ‘‘se si concorda sul fatto che le norme cautelari scrittedisciplinano una determinata classe di rischi, pare davvero difficile, e tutto sommato contraddittorio,sostenere che una volta esclusa la trasgressione della regola possa residuareuno spazio di operatività della colpa generica. In realtà, l’asserita convergenza della colpagenerica sembra tradurre l’esigenza di rendere più ampia la sfera della responsabilità colposaper taluni soggetti qualificati, in funzione di una capillare e accentuata tutela del bene giuridicocoinvolto’’.( 19 ) Ex multis, sentenza Corte d’Assise Milano, 6 giugno 2003: ‘‘la consulenza medicolegalerichiesta dall’accusa ha evidenziato un difetto di somministrazione della terapia a base dieparina, segnalando, in particolare, che le attuali Linee-Guida della Società Italiana... indicano...’’.


GIURISPRUDENZA COMMENTATA449Tribunale di Bergamo, 16 novembre 2004Giud. Gerosa – PercassiNel caso di delitto comune commesso dal cittadino all’estero in danno diuno straniero, la richiesta ministeriale costituisce, in ogni caso, una necessariacondizione di procedibilità (1).(1) Alcune riflessioni in materia di punibilità per il delitto comune commesso dal cittadinoall’estero.1. L’annotata decisione fornisce significativi parametri interpretativi da applicarsiin sede di esegesi del testo normativo dell’art. 9, ergo in tema di delitto comune commessodal cittadino all’estero.Il Tribunale di Bergamo ha infatti ribadito l’assoluta necessarietà della richiestadel Ministro della Giustizia ai fini della valida instaurazione di un procedimento <strong>penale</strong>,nel caso di delitto commesso da un cittadino italiano all’estero in danno di uno straniero.Viene così ulteriormente confermato e specificato un precedente ed analogoorientamento( 1 ) secondo il quale, per la perseguibilità del delitto comune commessodal cittadino all’estero in danno di uno straniero, procedibile d’ufficio o a querela diparte, occorre sempre la richiesta ministeriale. Nel caso di specie, la querela presentatanon è stata considerata sufficiente quale condizione di procedibilità ai fini dell’instaurazionedel relativo procedimento <strong>penale</strong>, atteso l’accertato difetto della richiesta ministeriale,necessaria in quanto il reato ipotizzato era stato commesso in territorio esteroda un cittadino italiano in danno di una cittadina straniera. Tanto più, come ha sottolineatoil Tribunale, che il reato descritto nel decreto di citazione a giudizio risultavaperseguibile d’ufficio in ragione delle circostanze aggravanti contestate, cosa che ha impedito,a maggior ragione, di ritenere la querela proposta sostitutiva rispetto alla richiestaministeriale mancante. Di conseguenza, il Tribunale ha correttamente proscioltol’imputato per difetto di una necessaria condizione di procedibilità.2. Un primo profilo di riflessione sul dato normativo di riferimento (art. 9 c.p.) vieneofferto dall’analisi dell’inciso di chiusura del primo comma della norma medesima.In dottrina e giurisprudenza si è infatti a lungo dibattuto se, per la procedibilità( 1 ) Cfr., ex plurimis, Corte d’Appello di Trento, 28 novembre 1980, Tauber, in Giur.mer., 1982, p. 963, con ampia nota di Cerqua.


450GIURISPRUDENZA COMMENTATAnei confronti del cittadino che ha commesso un delitto comune all’estero nei confrontidi uno straniero, sia necessario che questi sia venuto a trovarsi nel territorio delloStato( 2 ): ciò potrebbe affermarsi sulla base di un’interpretazione logica e sistematicadelle varie proposizioni nelle quali si articola la norma, che andrebbe, pertanto, considerataunitariamente, come un complesso di disposizioni integrantesi fra loro. Bisognerebbequindi considerare che la presenza del reo nel territorio dello Stato, nonostantene sia fatta menzione solo nel comma 1, sia necessaria in tutte le ipotesi formulate neitre commi dell’art. 9 c.p. Se tale condizione, infatti, è prevista dal primo comma dell’art.9 per i reati più gravi, a maggior ragione dovrebbe ritenersi necessaria per i casi menogravi previsti dai capoversi della norma stessa, che non sono in contrasto con la primaparte, né risultano in se stessi completi e autonomi, ma dipendono, come necessariaconseguenza, dalle premesse poste nel comma 1. Un ulteriore sostegno di tale interpretazioneparrebbe essere offerto dal comma 3 del medesimo articolo: si può infatti parlaredi ‘‘estradizione’’ o di ‘‘mancata estradizione’’, solamente in quanto si abbia la disponibilitàdel reo o del presunto reo.Si ritiene inoltre che, per il verificarsi della condizione richiesta, sia sufficiente lamateriale presenza del soggetto per almeno un giorno, qualunque ne sia stata la causa;non ha rilievo dunque, né il motivo della presenza del soggetto nel territorio, né la duratadella presenza stessa.Il verificarsi della presenza del reo, infatti, è da riferirsi al momento di eserciziodell’azione <strong>penale</strong>, non rilevando che la stessa sia poi venuta meno( 3 ).Ritiene lo scrivente che la presenza del reo debba in ogni caso considerarsi unacondizione di procedibilità, nonostante non sia uniforme il pensiero sulla sua qualificazionegiuridica, se debba essere considerata cioè una condizione di procedibilità odipunibilità( 4 ). Per la prima tesi propendono parte della giurisprudenza di legittimità ( 5 )e della dottrina( 6 ) secondo cui, analogamente alla richiesta, all’istanza e alla querela,anche la presenza del reo nel territorio dello Stato è condizione che non attiene allastruttura del fatto-reato o alla sua punibilità, bensì alla procedibilità dell’azione <strong>penale</strong>,soggiacendo quindi alle regole proprie delle condizioni di procedibilità, con la conseguenzache l’inizio di tale presenza costituisce il dies a quo di decorrenza del termineper l’esercizio dell’azione <strong>penale</strong> ( 7 ).A sostegno della natura processuale della presenza del reo nel territorio delloStato, è stata osservata l’irragionevole conseguenza derivante dall’applicazione, al c.d.( 2 ) Tale interpretazione trova riscontro anche nella relazione ministeriale al progettodel codice <strong>penale</strong>. Per ulteriori approfondimenti, cfr. Lavori prep., vol. V, t. 1, p. 42: ‘‘Cosìnell’una ipotesi come nell’altra si richiede che il colpevole si trovi nel territorio dello Stato’’.( 3 ) Così Cass. pen., 19 aprile 1971, in Giust. pen., 1972, III, 19, 24; secondo un altroorientamento (Cass. pen., 13 giugno 1991, n. 188032), è necessario, invece, che la presenzavi sia alla definizione del giudizio di merito.( 4 ) Bricola, Punibilità (condizioni obiettive di), inNsD, XIV, 1967, p. 601; Antolisei,Diritto <strong>penale</strong>. Parte generale, Milano, 1989, p. 754.( 5 ) Cass. pen., 10 maggio 1991, in Cass. pen., 1992, p. 3041.( 6 ) Cfr. Mantovani, Diritto <strong>penale</strong>, Padova, 1992, p. 816; in senso conforme, Manzini,Trattato di diritto <strong>penale</strong> italiano, Torino, 1986, I, p. 474; Pannain, Manuale di diritto<strong>penale</strong>, Torino, 1967, p. 188; Antolisei, Manuale di diritto <strong>penale</strong>, cit., p. 661; Fiandaca-Musco, Diritto <strong>penale</strong>. Parte generale, Bologna, 2001, p. 752.( 7 ) Cass. pen., 29 gennaio 1993, Shoukry Tarek, in Mass. Uff., n. 193321.


GIURISPRUDENZA COMMENTATA451‘‘reato esterno’’, del disposto dell’art. 158 in tema di prescrizione del reato: opinandonel senso della natura sostanziale della condizione, la prescrizione del delitto commessoall’estero sarebbe incomparabilmente più lunga (e forse anche irrangiungibile nel casoin cui il reo non rientri mai in Italia) rispetto a quella del delitto interno, con evidentidisparità di trattamento riguardo al cittadino che commette lo stesso delitto in Italia( 8 ).Ulteriore spunto di riflessione è quello relativo ai termini per la richiesta ministerialee il suo successivo ottenimento.In tal senso, l’intero art. 128 c.p. fa riferimento a due differenti termini. In base alprimo comma, il termine è di tre mesi dal giorno in cui l’Autorità ha avuto notizia delfatto che costituisce reato, mentre in base al secondo comma il termine è di tre anni dalgiorno in cui il reo si trova nel territorio dello Stato.L’interpretazione di tale articolo risulta controversa: la giurisprudenza prevalentee parte della dottrina ritengono che i due termini abbiano campi d’applicazione distinti:in tal senso, il primo – di tre mesi dalla conoscenza del fatto-reato – andrebbe riferito aireati commessi nel nostro territorio, mentre il secondo – tre anni dalla presenza del colpevolenel territorio dello Stato – si riferirebbe ai reati commessi all’estero per i quali laprocedibilità sia subordinata alla presenza dell’autore nel territorio italiano.I due termini appena indicati non si sovrapporrebbero, neppure parzialmente, riferendosia due diverse categorie di reati( 9 ).Secondo autorevole dottrina, peraltro, tale interpretazione non sarebbe da condividere:in tal senso si prospetta una diversa soluzione secondo la quale l’art. 128 comma1, si riferirebbe ai reati per il cui perseguimento sia necessaria la richiesta, mentre pertutti gli altri casi in cui sia prevista l’ulteriore condizione di procedibilità della presenzadell’autore nel territorio dello Stato, la richiesta dovrà comunque aversi al più tardientro tre anni dal momento in cui è integrata tale condizione( 10 ); tale tesi non ha tuttaviaavuto oggi alcun riscontro giurisprudenziale.In ogni caso, il più breve termine di tre mesi si ritiene debba iniziare a decorreredal giorno in cui l’Autorità (in tal caso il Ministro di Giustizia) ha avuto notizia delfatto-reato.3. Se il delitto comune commesso dal cittadino italiano all’estero è punibile, anorma della legge italiana, con l’ergastolo o con la reclusione non inferiore nel minimoa tre anni, si procede in Italia senza che occorra la presenza di altre condizioni, al difuori della presenza del reo, salvo che non si tratti di delitto punibile a querela dellapersona offesa. In tal caso, oltre alla presenza del cittadino nel territorio dello Stato,è necessaria, infatti, anche la querela. Con tale previsione, si intende evitare, quindi,la prassi elusiva di rendere procedibile d’ufficio, in quanto commesso all’estero, unreato che, se commesso in Italia, sarebbe perseguibile a querela della persona offesa.Nel caso in cui, invece, si tratti di delitto punibile con una pena restrittiva dellalibertà personale inferiore a quella prevista nel primo comma, è necessario, ai fini dellaprocedibilità, che, oltre alla presenza del cittadino nello Stato, vi siano alternativamente( 8 ) Aprile, sub art. 9, in Codice <strong>penale</strong> commentato, a cura di Marinucci-Dolcini,1999, pp. 130 ss., cit., p. 131 e, per ulteriori approfondimenti, cfr. Dean, Norme penali eterritorio, cit., p. 332. Norme penali e territorio, Milano, 1963, p. 332.( 9 ) Cfr. Cass. pen., 19 ottobre 1992, Tarek, in Foro it., 1993, I, p. 280.( 10 ) Per tutti, cfr. Romano, Commentario sistematico al codice <strong>penale</strong>, vol. I, Milano,1995, p. 128.


452GIURISPRUDENZA COMMENTATAla richiesta del Ministro di grazia e giustizia o l’istanza della persona offesa o la querela,se si tratta di delitto perseguibile a querela.Il dato normativo di cui all’art. 9 comma 2 c.p. non pare lasciare spazio a diverseinterpretazioni.È evidente, infatti, che se il legislatore avesse voluto anche nell’art. 9 affiancare allarichiesta, ritenuta necessaria, l’istanza o la querela, a seconda dei casi, lo avrebbe dichiaratoespressamente.Si può quindi concludere sostenendo che, nel caso in cui il reato offenda un interessedello Stato, inteso come una persona giuridica che esplica, come tale, al pari diogni altro soggetto, attività determinate, quali quelle inerenti alla pubblica amministrazione,all’amministrazione della giustizia e così via( 11 ), condizione di procedibilità saràla richiesta del Ministro della Giustizia che, quale organo pubblico, sarà il più idoneo avalutare l’opportunità di procedere. Se il reato offende, invece, un interesse del quale èportatore un singolo, condizione di procedibilità sarà quella che tiene conto della rilevanzache l’ordinamento attribuisce al potere di disposizione del privato, e cioè, a secondadei casi, la querela o l’istanza.4. Abbiamo già sottolineato come l’art. 9 vada interpretato in senso unitario;anche l’ultima parte di esso che riporta l’espressione ‘‘nei casi previsti dalle disposizioniprecedenti’’, lascia intendere che la fattispecie in essa prevista è contenuta nell’ambitodi quelle contemplate dai commi precedenti e che queste, quindi, si trovano rispettoall’ultima in un rapporto di genere a specie( 12 ). Di conseguenza, i commi 1 e 2 dell’art.9 hanno per oggetto tutti i delitti, ad eccezione di quelli tra essi che abbiano come soggettopassivo specifico un cittadino straniero o uno Stato estero, come richiesto, invece,esplicitamente dal comma 3.Tale disposizione mutua, infatti, dalle precedenti i suoi caratteri essenziali sia perquanto riguarda il requisito della presenza dell’autore nel territorio italiano, sia perquanto riguarda le restanti condizioni di procedibilità. In tal caso, però, la richiesta ministerialeassume il carattere di assoluta necessarietà, considerata l’opportunità politicasottesa alla punizione di un delitto commesso all’estero da un cittadino italiano ai dannidi uno Stato estero o di uno straniero.Il Tribunale di Bergamo ha giustamente statuito in conformità all’orientamentounanimemente accolto sia in dottrina che in giurisprudenza, secondo il quale, l’incisonormativo in questione va interpretato nel senso che oltre alla querela sia necessariala richiesta di procedimento del Ministro della Giustizia ritualmente presentata alP.M. ex art. 342 c.p.p.; sarebbe vano e palesemente contrario alla ratio legis, infatti, sostenereche ‘‘in virtù del richiamo effettuato dal terzo comma dell’art. 9 c.p. alle disposizionidi cui ai commi 1 e 2 dello stesso articolo, ove si tratti di delitto perseguibile aquerela la sussistenza di tale condizione di procedibilità sarebbe sufficiente pur in assenzadella richiesta del Ministro della Giustizia’’( 13 ).Nella sentenza in commento, era stata presentata dalla parte lesa, straniera, solamentela querela, senza che fosse presente la richiesta ministeriale che il Giudice ha correttamenteritenuto propedeutica alla procedibilità dell’azione <strong>penale</strong>.( 11 ) Così, testualmente, Cass. pen., 19 febbraio 1979, Buscetta, in Foro it., 1980, II, p. 68.( 12 ) Ibidem.( 13 ) Sono le parole usate dal Tribunale di Bergamo nella sentenza in commento.


GIURISPRUDENZA COMMENTATA453Ad avviso dello scrivente, non si può che condividere pienamente la decisione delGiudice di Bergamo, in quanto non si potrebbe permettere che il delitto comune nonperseguibile d’ufficio( 14 ), commesso all’estero a danno di uno Stato estero o di unostraniero, da cittadino italiano, sia punibile a seguito della sola presentazione della querela,senza alcuna richiesta ministeriale, posto che quest’ultima assume carattere di assolutanecessarietà, in considerazione dell’opportunità politica sottesa alla punizione delcolpevole di un delitto commesso ai danni di Stato estero o di straniero( 15 ).La corretta interpretazione del giudice di Bergamo, trova conferma anche nel raffrontodell’art. 9 comma 3 con l’art. 8, il quale, come specificato prima, dispone che,per poter procedere nei confronti di un cittadino o di uno straniero che abbia commessoall’estero un delitto politico non compreso tra quelli indicati nel n. 1 dell’art.7, è necessaria la richiesta del Ministro di Grazia e Giustizia. Nel caso in cui si trattidi delitto procedibile a querela della persona offesa, quest’ultima dovrà sempre essereaccompagnata dalla relativa richiesta.Gli artt. 8 e 9 comma 3 devono essere necessariamente collegati tra loro, per lastretta correlazione che esiste tra le varie disposizioni che li compongono, e il criterioguida fornito all’interprete per cogliere il vero significato e le esatte statuizioni dellenorme deve fondarsi sulla uguale intensità dell’interesse dello Stato nel perseguire i responsabilidei delitti da tali norme previsti. Alla luce di tali considerazioni, un’interpretazionefondata su tale criterio porta ad escludere categoricamente che la procedibilitàin Italia per un delitto comune commesso all’estero in danno di uno straniero, procedibilea querela della persona offesa secondo la legge italiana, incontri minori limitazionirispetto alla procedibilità per un delitto politico commesso all’estero e punibileugualmente a querela. Non si potrebbe sostenere, infatti, che per procedere in Italianei confronti dell’autore di un delitto comune perseguibile a querela, commesso indanno di uno straniero, sarebbe sufficiente la sola querela, mentre per procedere neiconfronti dell’autore di un delitto politico perseguibile a querela, sia necessaria anchela richiesta ministeriale, in quanto in entrambe è evidente la rilevanza dell’interessedello Stato a perseguire il colpevole. La ratio sottesa agli artt. 8 e 9 comma 3, è simile.Il primo disciplina, infatti, il caso di offesa ad ‘‘un interesse politico dello Stato’’, ovveroad ‘‘un diritto politico del cittadino’’, il secondo, invece, ha un’accezione più ampia, riferendosial ‘‘delitto comune commesso a danno di uno Stato estero o di uno straniero’’,senza alcun riferimento esplicito alla natura dell’interesse leso, ma, in entrambi i casi, sitratta di illeciti che offendono interessi o diritti stranieri.Il legislatore, pertanto, ben consapevole dell’identica ratio di tali norme, ha ritenuto,quindi, di disciplinarle nello stesso modo, ritenendo necessaria la richiesta ministerialein entrambe.A contrario, se si ritenesse sufficiente la sola richiesta ministeriale, senza la querela, sicreerebbero prassi elusive dei principi dell’ordinamento <strong>penale</strong>; a tale proposito è d’uopofare alcune considerazioni. È facile osservare, infatti, che talune conseguenze di un taleorientamento sarebbero fortemente inopportune (per es. i delitti contro la libertà sessualepotrebbero essere tutti perseguiti nonostante la contraria volontà della parte lesa).( 14 ) Nella sentenza in commento, tra l’altro, in virtù delle circostanze aggravanti contestate,il reato sarebbe stato comunque procedibile d’ufficio.( 15 ) Così, cfr. Cass. pen., 19 febbraio 1979, Buscetta, cit.


454GIURISPRUDENZA COMMENTATAL’ultimo comma del citato art. 9 c.p. si limita, infatti, a stabilire che nel caso didelitto commesso in territorio estero, in danno di uno Stato estero o di uno straniero,il colpevole, qualora sussistano le condizioni di procedibilità riguardanti la presenza nelterritorio dello Stato e l’estradizione, è punito a richiesta del Ministro della Giustizia.Tale atto amministrativo, come prima specificato, dovrà essere sempre accompagnatodalla querela della persona offesa, quando è prevista per la procedibilità di determinatireati. In caso contrario ci si porrebbe in evidente antitesi con i principi generali del nostrodiritto <strong>penale</strong> che non prevedono la procedibilità per determinati reati se non inseguito alla manifestazione di volontà in tal senso della parte offesa. Non potrebbe, pertanto,ammettersi una deroga a tale principio senza un’espressa disposizione del legislatoree, come si è visto, l’art. 9 non prevede alcuna eccezione al riguardo. L’art. 120 c.p.,d’altra parte, statuendo che ‘‘ogni persona offesa da un reato per cui non debba procedersid’ufficio o dietro richiesta o istanza ha diritto di querela’’, introduce il principiodella facoltatività di tale atto, rimesso quindi a una mera valutazione personalistica dellapersona offesa.Inoltre, tale interpretazione trova conferma nel coordinamento delle norme dell’articolocitato con quelle del precedente art. 8 c.p.A una prima lettura, si potrebbe concludere nel senso che le differenti dizioni deidue articoli indichino una diversa volontà del legislatore, che ‘‘ubi voluti, dixit, ubi noluit,tacuit’’.Ma ben si comprende l’infondatezza di tale orientamento, se si analizzano i duearticoli in coordinamento tra di loro e se si tiene conto del vario grado di interesse delloStato a perseguire i colpevoli dei delitti ivi previsti. Se dunque per i reati politici perseguibilia querela, non è sufficiente la mera richiesta ministeriale, a maggior ragionesarà indispensabile la volontà della persona offesa nel caso di reati comuni.5. Dalla lettera dell’art. 9 ultimo comma, risultano formulati in modo espresso duerequisiti di procedibilità: una condizione positiva (richiesta ministeriale), come dettagliatamenteanalizzato sopra, e la mancata concessione dell’estradizione (nella terminologiadel codice: ‘‘mancata concessione dell’estradizione’’ o ‘‘offerta dell’estradizionenon accettata’’ dallo Stato estero interessato), intesa come condizione di procedibilità,negativamente costruita.Nel codice di rito attuale, unica ipotesi di estradizione passiva formulata dal legislatoreè ormai quella della ‘‘estradizione su richiesta’’ dello Stato estero. Secondo ladottrina più attendibile, si ha ‘‘mancata concessione’’ dell’estradizione non solo nei casiin cui questa è stata rifiutata, ma anche quando, più semplicemente, essa non sia stataconcessa, qualunque sia la ragione: rifiuto, atteggiamento di non interesse da parte delloStato estero, mancata attivazione del procedimento di estradizione.Si può dunque affermare, con riferimento all’art. 9 comma 3 c.p., che, ai fini dellaprocedibilità, non occorre che prima della richiesta ministeriale sia stata esperita conesito negativo la procedura di estradizione, essendo sufficiente che a quest’ultimanon si sia fatto luogo( 16 ). Ciò non implica pertanto la necessità di una previa domanda;significa soltanto che quando vi sia stata la concessione non è consentito procedere. Insomma:il rifiuto della concessione (e quindi la previa domanda dello Stato estero) non( 16 ) Ex plurimis, cfr. Cass. pen., 12 giugno 1987, Ceravolo, in Cass. pen., 1989, p. 1471.


GIURISPRUDENZA COMMENTATA455è condizione della procedibilità, mentre è esatto affermare che l’avvenuta concessioneimpedisce la procedibilità stessa.Peraltro, il richiamo alle norme in tema di estradizione per la procedibilità deldelitto commesso dal cittadino all’estero ai danni di Stato estero o di straniero, inducead una riflessione finale: è necessaria la c.d. doppia incriminazione del fatto secondole leggi dello Stato estero e dell’Italia? Questo è un principio cardine delleregole estradizionali, il mancato rispetto del quale rende assolutamente improponibilela domanda di estradizione e determina serie conseguenze in tema di punibilitàin concreto.Il legislatore, riguardo ai casi di reato comune di cui all’art. 9 c.p. comma 3, non siè espresso in alcun modo, ma la dottrina penalistica è generalmente incline a ritenereche la doppia incriminazione sia clausola implicita in queste disposizioni( 17 ).A sostegno di tale tesi, si può fare riferimento all’art. 13 c.p. che disciplina l’istitutodell’estradizione e, al secondo comma, statuisce espressamente che se il fatto cheforma oggetto della domanda di estradizione, non è preveduto come reato dalla leggeitaliana e dalla legge straniera, l’estradizione non è ammessa. Partendo da questa disposizione,si è dedotto che se il legislatore ha richiesto la clausola della doppia incriminazione,in una norma cardine del diritto <strong>penale</strong> internazionale, tale clausola deve essereritenuta implicita nella disciplina di tutti i reati commessi all’estero. Tale ragionamentospiegherebbe agevolmente la necessità della doppia incriminazione anche per la fattispeciedi cui al comma 3 dell’art. 9 c.p., in quanto il testuale richiamo all’estradizioneconcessa ne impone il rispetto, ma più difficilmente per le altre ipotesi previste in talearticolo in cui non si rinviene alcun riferimento specifico all’estradizione. La condizionedella mancata estradizione si esige, infatti, solo nel caso di delitto commesso a danno diuno Stato estero o di uno straniero.Nella Relazione Ministeriale sul progetto definitivo del codice <strong>penale</strong>, pur senzache si dia all’affermazione adeguata motivazione così statuiva: ‘‘occorre che il fatto costituiscareato anche secondo la legge del luogo in cui fu commesso’’( 18 ).La circostanza che il requisito della doppia incriminazione sia espressamente contenutonelle conclusioni del ministro relatore, e la sua mancata menzione, invece, nell’art.9, sarebbe dunque prospettabile come elemento a favore della soluzione negativa.Tale argomento letterale, alquanto risalente nel passato, non può essere di per sé deltutto probante, potendo, infatti, la volontà normativa risultare dal coordinamento dellenorme in questione con le altre, oppure dall’efficacia dei principi generali, come analizzeremomeglio di seguito.L’art. 9, disciplinando in via generica il caso di delitto del cittadino commesso all’estero,ci induce a dedurre che il principio di stretta legalità, cui è informato il nostrodiritto <strong>penale</strong>, sia rispettato sia formalmente che sostanzialmente, purché il fatto sia previstocome reato dall’ordinamento giuridico italiano. La conseguenza principale di taleprincipio è costituita dalla richiesta di accessibilità, quanto meno formale ed astrattamenteaccertabile, del destinatario dell’obbligo penalmente sanzionato alla fonte da( 17 ) Levi, Diritto <strong>penale</strong> internazionale, Milano, 1949, pp. 146 ss., e del Caraccioli,L’incriminazione da parte dello straniero dei delitti commessi all’estero e il principio di strettalegalità, inRiv. it. dir. proc. pen., 1962, pp. 1006.( 18 ) InLavori preparatori del codice <strong>penale</strong> e del codice di procedura <strong>penale</strong>, vol. V, parteI, 1929, p. 36.


456GIURISPRUDENZA COMMENTATAcui esso deriva( 19 ). Il profilo caratteristico e rilevante ai nostri fini di tale principio, previstodall’art. 1 c.p. e ribadito dall’art. 25 Cost., ad avviso della opinione dottrinale inesame, è quello garantistico. In tal caso si deve, quindi, introdurre la clausola delladoppia incriminazione per tutte le ipotesi dell’art. 9 c.p. per rispettare la ratio del principiodi legalità, che è quella di fornire una regola di comportamento ( 20 ). L’estensionedella doppia incriminazione anche all’art. 9 impedisce una sostanziale sperequazioneproprio ai danni del cittadino ( 21 ).Si deve aggiungere che, perché la clausola sia rispettata, è sufficiente che il fatto siaprevisto genericamente come reato; non si esige, cioè, né identità di titolo giuridico, néidentità di conseguenze penali. Sarebbe infatti difficilmente concepibile, stante le diversitànon solo terminologiche, ma anche di tecnica legislativa tra i vari ordinamenti penali,la previsione di pene identiche sia per qualità che per quantità. Inoltre, il raffrontotra le norme incriminatici italiana e straniera non va fatto in astratto, bensì in concreto,per vedere se il fatto concreto ricada nelle previsioni normative di ambedue, anche se lefattispecie astrattamente previste dai due legislatori contengono qualche elemento noncoincidente.Da ciò si deduce anche l’impossibilità di poter perseguire in Italia un reato per ilquale non sia rispettato il principio di doppia incriminazione di cui sopra.Guido Camera( 19 ) Caraccioli, L’incriminazione, cit., p. 1029; Gallo, La legge <strong>penale</strong>, Torino,1999, p. 90.( 20 ) Altri autori hanno ritenuto di individuare, nella interpretazione costituzionalmenteorientata dell’art. 5, operata dalla Corte Costituzionale con sentenza 364/1988, un ulterioreelemento a favore dell’applicazione del principio di doppia incriminazione per il fatto commessodallo straniero all’estero; secondo tale impostazione sarebbe contraddittorio ammettereche lo straniero che commette il fatto all’estero possa beneficiare dell’incolpevole conoscenzadel diritto <strong>penale</strong> italiano, a differenza del cittadino che, commettendo il fatto all’estero,non potrebbe giovarsi di tale ignoranza derivante dalla incolpevole conoscenza deldiritto <strong>penale</strong> italiano (sul punto, cfr. Picotti, Giur. sist., I, p. 194).( 21 ) Così Cass. pen., 24 gennaio 1940, in Giur. it., 1941; II, p. 65.


DIRITTO PENALE STRANIERO, COMPARATO, COMUNITARIO457Diritto <strong>penale</strong> straniero, comparato, comunitarioZBORNIK PRAVNOG FAKULTETA SVEUČ<strong>IL</strong>IŠTA U RIJECIRijeka, 2005, v. 26, br. 2, str. XII+627-1126Nel presente numero si segnalano numerosi articoli di interesse penalistico.Il primo è un lavoro di indagine empirica in sociologia <strong>penale</strong> (VelinkaGrozdanić, Karlavaris Bremer, Incarcerazione per le tossicodipendenti– Repressione e/o prevenzione?), nel quale le Autrici dichiaranoche la consapevolezza della significativa presenza delle droghe nella vitadelle donne in generale, e in particolare nelle carceri per donne, ha operatocome incentivo per questa ricerca diretta a rispondere alla questione se l’incarcerazionedi tossicodipendenti rappresenta repressione, prevenzione oentrambe. La ricerca ha riguardato un totale di 44 donne condannate allapena della carcerazione, 9 delle quali collocate nell’Istituto <strong>penale</strong> di Požega(Croazia), e 35 nell’Istituto <strong>penale</strong> di Schwäbisch Gmünd (Germania).I questionari sono stati riempiti nei centri penali, la partecipazione è statavolontaria e anonima. I dati raccolti sono stati analizzati secondo le procedurestatistiche fondamentali, mentre i risultati sono stati presentati graficamentee analizzati descrittivamente. I risultati di questa ricerca corrispondonoin grande misura alle altre ricerche relative alle donne incarcerate,ma anche suggeriscono alcune conclusioni inaspettate.Il secondo è un altro contributo di ricerca empirica di sociologia criminale(Ljiljana Mikšaj Todorović, Ksenija Butorac, Ricerca delledifferenze nella struttura della famiglia di minori delinquenti nella Repubblicadi Croazia prima e dopo la guerra), con il quale le Autrici si propongonodi individuare le possibili differenze nelle caratteristiche della strutturafamiliare di minori delinquenti prima e dopo la guerra. La ricerca èstata condotta su due gruppi di soggetti – minori delinquenti che sono staticondannati da tribunali per i minori della Repubblica di Croazia per differentifatti penali: il primo campione consiste di 4056 minori condannati nelperiodo tra il 1987 e il 1991, descritto come periodo pre-bellico, mentre ilsecondo consiste di 2870 minori condannati tra il 1995 e il 2001, cioè nelperiodo descritto come post-bellico. Le differenze sono state stabilite sullabase del testo x-quadrato e i risultati dimostrano differenze statistiche significativetra i due gruppi in nove delle dieci variabili monitorate della


458DIRITTO PENALE STRANIERO, COMPARATO, COMUNITARIOstruttura familiare, evidenziando che la generazione post-bellica di minoridelinquenti raramente viveva con entrambi i genitori, mentre solo nell’etàpiù precoce nella casa familiare. Questo gruppo aveva raramente entrambii genitori vivi, i padri essendo deceduti relativamente più spesso che lemadri. Inoltre in questa generazione i genitori raramente vivevano insieme,spesso erano divorziati e i soggetti erano più spesso figli extra-coniugali chequelli del primo gruppo. I cambiamenti distruttivi nella struttura familiaresono intervenuti generalmente nella popolazione croata durante la guerra,quindi appaiono logicamente pure nelle famiglie di minori delinquenti condannatidopo la guerra. In alcuni casi la guerra ha causato direttamente larottura della struttura familiare, in altri ha avuto un effetto catalizzatore suprocessi che erano già in corso nelle famiglie prima che la guerra fosse cominciata.Lo sviluppo di programmi di prevenzione della criminalità dibambini e giovani, che necessariamente include risorse umane e finanziarieper il trattamento delle famiglie, affronta grandi sfide. Ci sono già numerosiprogrammi di intervento e trattamento a livello individuale e familiare, cosìcome a livello di comunità e società, i cui principali promotori sono organizzazioninon-governative. A parte questi programmi predisposti per l’insiemedella popolazione, c’è ancora un compito non adempiuto di rimediareai traumi sofferti in molti modi dai bambini, come la perdita o la sparizionefisica di un membro della famiglia, l’aver assistito alla violenza, idanni alla casa o la continuazione della vita con una persona sofferentedi sindrome da stress post-traumatico.Il terzo è una nota di analisi giurisprudenziale sul diritto umanitariointernazionale (Douwe Korff, Caso ‘‘Gibilterra’’. Un’analisi della sentenzadella Corte europea dei diritti umani nel caso McCann e altri controRegno Unito), con il quale l’Autore commenta il fatto accaduto in Gibilterrail 6 marzo 1988, dove soldati del Reggimento britannico ‘‘ServiziAerei Speciali’’ colpirono a morte tre sospetti terroristi dell’IRA, DanielMcCann, Sean Savage e Mairead Farrell. La commissione di indagine dichiaròverdetti di ‘‘uccisione legittima’’ e i soldati non furono perseguiti.I procedimenti civili, presentati in Irlanda del Nord dai parenti dei deceduti,furono efficacemente bloccati dal Governo, attraverso l’uso di un documentoche impediva alla Corte di accertare la responsabilità del Governoper le uccisioni. Il 27 settembre 1995 la Corte europea dei diritti umani inStrasburgo emise sentenza nel caso McCann e altri contro Regno Unito,giudicando con uno stretto margine di 10 a 9 che l’Art. 2 era stato violato.Fu la prima volta che qualunque Governo europeo veniva trovato colpevoledalla Corte dell’uso illegittimo di forza letale da parte di funzionaridi polizia. Il caso ‘‘Gibilterra’’, mentre è debole in alcuni aspetti, sottolineache i governi democratici non sono liberi di affrontare la violenza politica eil terrorismo con la stessa indifferenza per la vita umana che è mostrata daigruppi armati che si oppongono allo stato. È lo scopo di questo articoloanalizzare (criticamente) la sentenza, e in particolare identificare le que-


DIRITTO PENALE STRANIERO, COMPARATO, COMUNITARIO459stioni di maggiore implicazione per tutti gli Stati membri del Consiglio diEuropa.Il quarto è un elaborato su sistema e pratica di diritto <strong>penale</strong> internazionale(Marissabell Skorić, Tribunali penali internazionali misti), nel qualel’Autrice discute le caratteristiche basilari dei tribunali penali internazionalimisti insediati in Timor Est, Kosovo, Sierra Leone, Cambogia e Bosnia ed Erzegovina,illustrando i loro vantaggi e svantaggi. La combinazione dei migliorielementi del sisterna giudiziario sia domestico che internazionale è statouno degli obiettivi essenziali dei tribunali penali internazionali misti. Tuttaviai tribunali penali internazionali misti affrontano le stesse difficoltà che abbisognanodi essere risolte negli altri per consentire un efficiente perseguimentodei crimini di guerra. Queste difficoltà riguardano primariamente laquestione dell’applicazione retroattiva delle leggi, l’insufficiente esperienzanel processare crimini di guerra, dei giudici tanto nazionali quanto internazionali,i problemi connessi ai mezzi finanziari, e altre questioni discussenel lavoro. Per sfruttare appieno i loro potenziali, i tribunali penali internazionaliibridi esistenti dovrebbero fare maggiore utilizzo degli esperti giuridicidomestici, essere maggiormente legati alla popolazione locale e aiutarela costruzione dei sistemi legali dei paesi in cui operano. Se i tribunali penaliinternazionali misti dovevano divenire una parte dei sistemi legali domestici edovevano dirigere una parte del loro potenziale verso la riforma dei sistemilegali nazionali, essi potrebbero in futuro avere un ruolo significativo nellarealizzazione della giustizia e porre fine alla cultura dell’impunità ancora dominantenei paesi dove sono stati commessi i crimini più orribili.Il quinto è un saggio complesso di teoria e prassi di diritto <strong>penale</strong>croato, comparato e internazionale (Dalida Rittossa, Dispute sul dirittodi aborto nella Repubblica di Croazia), per il quale non esiste comune intesasull’accettazione del diritto di aborto, le basi legali, i confini della tutela el’onere di questo diritto nella letteratura accademica e nell’opinione pubblica.Perciò il diritto di aborto è presentato in questo articolo come unaquestione giuridica costituzionale e <strong>penale</strong>. È analizzata la Legge sulle misuresanitarie per l’esercizio del diritto alla libera decisione sulla generazionedi figli, così come le soluzioni proposte dai Progetti sull’aborto del1995 e 1996. Secondo le disposizioni della Convenzione CEDAW e le disposizionisui diritti umani fondamentali della Costituzione della Repubblicadi Croazia, il diritto all’aborto costituisce uno dei diritti umani fondamentali,cosiddetti diritti di procreazione, originati dal diritto alla riservatezza,dal diritto all’autodeterminazione e dalla libertà di coscienza e dicredo religioso. Comparando le prassi dei maggiori organi giudiziali nellaRepubblica Federale di Germania e negli Stati Uniti d’America, sono definitii confini di questo diritto umano fondamentale. In questo articolo sonopresentati altresì i dati statistici sull’interruzione di gravidanza nella Repubblicadi Croazia e i risultati di indagini sugli atteggiamenti del pubblico neiconfronti dell’aborto.


460DIRITTO PENALE STRANIERO, COMPARATO, COMUNITARIOIl sesto è uno scritto descrittivo-valutativo di normative e prassi umanitariee penali internazionali (Ivana Radačić, Posizione delle donne etrattamento della violenza di genere nel diritto umanitario internazionale e<strong>penale</strong> internazionale), con il quale l’Autrice analizza la posizione delledonne e la regolazione della violenza bellica di genere, in particolare la violenzasessuale come la più frequente manifestazione di violenza di genere,attraverso la storia nel diritto <strong>penale</strong> e umanitario internazionale. L’articoloinizia con la breve descrizione del diritto regolativo della violenza sessualebellica prima della costituzione dei due tribunali ad hoc – il Tribunale <strong>penale</strong>internazionale per la ex Jugoslavia e il Tribunale <strong>penale</strong> internazionaleper il Rwanda. Dopo ciò l’articolo analizza le norme e la giurisprudenzasensibile al genere dei due tribunali ad hoc per i contributi al miglioramentodel trattamento delle donne nel diritto <strong>penale</strong> internazionale. L’articoloanalizza infine i nuovi lineamenti della Corte <strong>penale</strong> internazionalepermanente nella prospettiva di genere, valutando in che misura le suenorme rappresentano la riconcettualizzazione dei confini del diritto <strong>penale</strong>internazionale. L’articolo chiude con la valutazione della posizione delledonne all’interno dei confini attuali del diritto <strong>penale</strong> internazionale.Davide Bertaccini


INVIATO SPECIALE461Inviato specialePER UNA GIUSTIZIA PENALE PIÙ SOLLECITA:OSTACOLI E RIMEDI RAGIONEVOLI.<strong>IL</strong> PROBLEMA NELLE FASI DI GRAVAME(Lecce, 14-15 ottobre 2005)1. Presso il Palazzo di Giustizia di Lecce il 14 e 15 ottobre 2005, si ètenuta la sessione finale del XXIV Convegno di studio Enrico de Nicola sultema ‘‘Per una giustizia <strong>penale</strong> più sollecita: ostacoli e rimedi ragionevoli. Ilproblema nelle fasi di gravame’’.Organizzato dal Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale, incollaborazione con il Centro Studi Giuridici ‘‘Michele De Pietro’’, l’incontrodi studio è stato dedicato al ricordo di Girolamo Minervini e GirolamoTartaglione.La prima delle due sessioni si era svolta a Milano, il 18 marzo 2005, incollaborazione con il Dipartimento dei Sistemi Giuridici ed Economici dell’Universitàdegli Studi di Milano-Bicocca, e, dedicata al rimpianto Maestroprof. Gian Domenico Pisapia a dieci anni dalla scomparsa, ha trattatole premesse generali e le tematiche dell’abuso del processo e della prescrizione,con particolare riguardo al procedimento di primo grado.Entrambe le sessioni di studio hanno posto in discussione un tema dipregnante attualità: l’esigenza, oramai avvertita da tutti – addetti ai lavori eopinione pubblica –, di una giustizia più celere ed effettiva. Si ha, infatti,oggi l’impressione che la risposta dello Stato alla domanda di giustizia,che è in costante crescita, sia sempre più tardiva e lenta, pregiudicandola posizione non solo dell’imputato ma anche della persona offesa dal reato.In proposito, non vanno trascurati i moniti provenienti dalla Corte di Strasburgoe dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa verso il nostroStato, affinché venga rispettato il principio della durata ragionevole delprocesso, requisito indispensabile perché lo stesso possa definirsi equo.La seconda sessione del XXIV Convegno de Nicola ha offerto l’occasioneper proporre un meditato contributo al difficile ma irrinunciabilesforzo d’assicurare una giustizia certa ed effettiva in tempi ragionevoli,con particolare attenzione al problema nelle fasi di gravame.I relatori, sotto la presidenza, nella prima fase dei lavori, del prof. GiovanniConso e, nella seconda, dell’avv. Vittorio Aymone, presidente del


462INVIATO SPECIALECentro Studi Giuridici ‘‘Michele de Pietro’’, hanno assunto il compito dianalizzare le cause che dilatano la durata dei giudizi di impugnazione, alfine di individuare i rimedi che, de iure condendo, potrebbero essere adottatiper rendere tale durata ragionevole, senza omettere l’esame (a volteanche critico), dei progetti di riforma attualmente pendenti in Parlamento.Il prof. Delfino Siracusano, nella relazione introduttiva, ha evidenziatol’importanza della sessione finale del XXIV Convegno in quanto finalizzataa completare le iniziali indicazioni circa la durata del procedimento diprimo grado e, in particolare, delle indagini preliminari, con le notazionicirca i tempi delle impugnazioni, nelle differenti prospettive dell’impugnazioneintesa come garanzia soggettiva e dell’impugnazione intesa come caratteredella giurisdizione: prospettive che, seppur apparentemente distanti,dovrebbero interagire fra loro.Peraltro l’esigenza di una sinergia e di un coordinamento tra garanziesoggettive e oggettive è avvertita come improrogabile non solo dalla dottrinama anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.In effetti, secondo il relatore, si assiste oggi, da una parte, a spinte riformistichevolte a circoscrivere i tempi delle impugnazioni, al fine di rendereragionevole la durata del processo, attraverso anche la semplificazionedelle forme, dall’altra a spinte – emergenti soprattutto dalla prassi – orientatein senso contrario, cioè volte a introdurre nuove e ulteriori garanzie,nell’ottica di rafforzare anziché comprimere i giudizi di appello e di cassazione.Ecco perché in questo scenario, quando si esaminano i problemi dellaragionevole durata del processo, si è sottolineato che non vanno trascuratele due diverse dimensioni prospettate, vale a dire l’aspirazione teorica, propensaa circoscrivere i tempi dell’impugnazione, e l’esigenza della pratica,tendente invece alla conservazione (e alla dilatazione) dei giudizi di impugnazione.Con specifico riferimento all’appello, l’esigenza di semplificazione e diriduzione dei tempi diventa una esigenza non solo vagliata sul piano normativoma anche confortata dall’atteggiamento pratico: emergono, infatti,situazioni in cui sembrano convergere l’esigenza di semplificazione e l’esigenzadi rispetto per le garanzie soggettive.Ad esempio, l’ipotesi dell’impugnazione congiunta dell’ordinanza conla sentenza: in tal caso, si raggiunge l’effetto di circoscrivere i tempi dell’eserciziodella giurisdizione ma nel pieno rispetto del contraddittorio,perché residua la possibilità di una valutazione critica sulla base della sentenzache avallerà o disapproverà le decisioni adottate durante la pendenzadel processo in ordine a situazioni da risolvere in modo interlocutorio.Altra ipotesi in cui convergono le due prospettive è costituita dal giudizioin camera di consiglio conseguente al cosiddetto concordato sui motividi appello.Infine, la medesima convergenza può essere riscontrata nell’ultima in-


INVIATO SPECIALE463novazione intervenuta in relazione alla redazione parcellizzata della sentenzaper reati plurisoggettivi.Quanto al ricorso per cassazione (e, a tal proposito, non va dimenticatoche in origine il giudizio di cassazione era ancorato prevalentementealla difesa dello ius constitutionis che poteva anche prevalere sullo ius litigatoris)sièassistito a una lenta trasformazione dello stesso da strumentoeccezionale a rimedio normale: ciò èavvenuto per effetto della progressivadilatazione delle categorie dei legittimati a impugnare, dei provvedimentiimpugnabili e dei motivi di ricorso deducibili.Da ultimo, il relatore ha sottolineato che la giurisdizione deve essereaffermata come valore: a tal proposito, non va dimenticato che le normesull’obbligatorietà dell’azione <strong>penale</strong>, sul contraddittorio per la prova esul ricorso per cassazione sono inserite (nella Costituzione) tra le normesulla giurisdizione: ciò significa che nella giurisdizione confluiscono ius constitutionise ius litigatoris che rappresentano, pertanto, non due diverserealtà ma la medesima.2. Riguardo all’appellabilità, secondo quanto sostenuto dal prof. MarioPisani, non è risultato dall’analisi delle norme costituzionali – in linea del restocon le indicazioni della Consulta – che lo stesso sia un tema costituzionalmentevincolato. Esso non sembrerebbe, inoltre, neppure condizionato dalle fontisovranazionali (ad esempio, l’art. 14, § 5 del Patto sui diritti civili e politici dell’ONUe l’art. 2 del Protocollo n. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo),rimanendo pertanto solo una scelta affidata al legislatore ordinario.Alla luce di tale considerazione, il contributo del relatore, volto a rivisitare lamateria in esame alla luce del canone della ‘‘durata ragionevole del processo’’,si è sviluppato attraverso la prospettazione di un triplice ordine di profili.Quanto ai profili di carattere oggettivo, il relatore ha ritenuto opportuno,per ragioni di natura sistematica, mantenere il giudizio d’appello, conriferimento anche ai giudizi in assise, alle sentenze dei giudici monocratici ealle sentenze emesse in contumacia. È stata, inoltre, ribadita l’importanzadi mantenere anche l’impugnazione della sentenza di non luogo a procedere.Si è esclusa, peraltro, l’opportunità che il legislatore delinei un catalogotassativo di motivi formalmente predeterminati. Sempre in tema dimotivi, e di spazi di appellabilità, si è auspicato un intervento legislativopossibilmente chiarificatore sul tema dei motivi nuovi di impugnazioneprevisti nell’art. 585 comma 4 c.p.p.Riguardo ai profili di carattere soggettivo dell’appellabilità, sono statiesaminati due problemi. Il primo concernente il tema, di spiccata attualità,relativo all’appello del pubblico ministero avverso le sentenze di proscioglimento:tale argomento è stato affrontato sia sotto il profilo dell’inadeguatezzadelle argomentazioni dottrinali orientate alla sua abolizione sia sottoquello dei riflessi sistematici e ordinamentali che siffatta proposta di abrogazionecomporterebbe.


464INVIATO SPECIALEIl secondo attinente alla disciplina – meritevole di abrogazione – contenutanell’art. 577 c.p.p. che consente l’impugnazione anche a fini penaliavverso decisioni concernenti i reati di ingiuria e diffamazione.Infine, e in prospettiva dinamica, si è sottolineata la necessità di porredei freni all’utilizzo abusivo da parte dell’imputato dell’istituto dell’appello.In tale ottica, si è auspicato il ritorno al sistema previgente delineato negliart. 207 e 209 c.p.p. 1930 quanto all’opportunità di affidare anche al giudicedi primo grado il controllo sull’ammissibilità formale dell’appello e,inoltre, l’istituzione di appositi ‘‘uffici spoglio’’ presso il giudice di secondogrado. Nella prospettiva poi volta al contenimento degli abusi degli appelli,non poteva certamente essere trascurata né la tematica (e l’opzione) dellariformabilità in peius né quella di una nuova disciplina della prescrizione,in relazione alla quale tempi meno brevi di prescrizione, interpolati da unaloro sospensione in pendenza dell’appello proposto dall’imputato, rappresenterebberoun concreto e efficace disincentivo di appelli pretestuosi.Per quanto attiene più specificamente al procedimento in appello, ildott. Luigi Lanza, presidente della II corte d’assise d’appello di Venezia,sulla base dei dati giudiziari disponibili, ha elaborato una serie di dati disintesi tali da consentire una valutazione circa la capacità o incapacità globaledel sistema <strong>penale</strong> italiano a far fronte, in tempi ragionevoli, alla domandadi giustizia in sede di appello.In tale quadro sono stati evidenziati sostanzialmente quattro elementi:a) negli ultimi dodici anni, il 54% degli imputati di delitto è stato prosciolto;b) nello stesso periodo solo il 4,57% dei condannati a pena detentivaper delitto ha subito una sanzione superiore ai tre anni di reclusione; c)il beneficio della sospensione condizionale della pena è risultato in continuacrescita; d) le pronunce di estinzione di reati per intervenuta prescrizionesono progrediti con ritmo crescente: a ogni 100 pronunce di prescrizionenel 2001 hanno corrisposto ben 170 alla fine del 2004.Da siffatto scenario è emerso, inoltre, che la durata media per la celebrazione-definizionedi un procedimento <strong>penale</strong> davanti alle corti di appelloè risultato di un anno, otto mesi, otto giorni, che è diventato di seimesi e ventitré giorni davanti alle corti di assise di appello, mentre la duratamedia dell’intervallo di tempo tra la data del commesso delitto e la sentenzain grado di appello è risultato di cinque anni e quattro mesi.Al riguardo, per focalizzare le cause ricorrenti della mancata definizionedel processo nella prima udienza di appello, è stata illustrata la ricerca-campionesu tutti i processi (vale a dire 860) portati in udienza incorte di appello a Venezia nei mesi di febbraio-marzo-aprile del 2005.Gli esiti dell’indagine effettuata sono stati così sintetizzati: a) il 18,5%dei processi chiamati all’udienza non si sono definiti in quello stessogiorno; b) nell’ambito dei processi rinviati, il 54% ha avuto come giustificazioneuna causa interna al processo; c) i difetti e le invalidità della notificahanno rappresentato il 14,4% dei casi; d) la rinnovazione dell’istruttoria di-


INVIATO SPECIALE465battimentale o altre ragioni d’ufficio hanno raggiunto il 39,6% del campione;e) i rinvii per dedotto e comprovato impedimento dell’imputato odel suo difensore insieme hanno totalizzato il restante 46% delle evenienzedi rinvio (33,5% l’impedimento dell’imputato appellante; 12,5% l’impedimentodel suo difensore).Escluso un aumento dell’organico dei consiglieri in appello (valutataanche la correttezza dei criteri seguiti nella determinazione delle piante organiche),si è proposto – al fine di rendere giustizia in tempi ragionevoli –la riduzione del collegio decisorio a due soli componenti (un relatore e unPresidente oppure un relatore-presidente e un consigliere a latere) per tuttele condanne a pene inferiori ai tre anni (o che comunque – se confermate –rientrino in favorevoli regimi di trattamento penitenziario) e appellate dalsolo imputato o dal suo difensore, in assenza di gravame del pubblico ministeroo del Procuratore Generale.Il tendenziale recupero di un magistrato ogni tre potrebbe rappresentare,infatti, una prima e seria praticabile risposta al quadro di non-giustizia,sotto il profilo della durata ragionevole del processo in appello, offertaoggi dal nostro sistema.3. In relazione al tema della ricorribilità in cassazione, il prof. GilbertoLozzi ha puntualizzato che, al fine di realizzare una durata ragionevole delprocesso, non è proprio vero che il codice di rito vigente non abbia fattonulla: in verità, non ha fatto nulla sotto il profilo dell’appellabilità delle sentenze(anzi, il numero delle sentenze suscettibili di appello è aumentato),mentre, proprio al fine di evitare la trasformazione della Corte di cassazionein un giudice di merito e, soprattutto, al fine di ridurre il numerodei ricorsi per cassazione, il codice vigente ha contemplato un appositomotivo di ricorso per vizio di motivazione, proponibile solo nelle ipotesiin cui il vizio medesimo risulti dal testo del provvedimento impugnato.Al contrario, il codice abrogato non prevedeva nell’art. 524 c.p.p. unapposito motivo di ricorso per vizio di motivazione. Infatti, la possibilità diricorso per cassazione nel caso di carenza o contraddittorietà della motivazionediscendeva dal combinato disposto dell’art. 524 n. 2 c.p.p. 1930 (cheprevedeva il ricorso per cassazione per inosservanza delle norme processualipenali stabilite a pena di nullità) e dell’art. 475 n. 4 c.p.p. 1930(che prevedeva la nullità della sentenza per carenza o contraddittorietàdella motivazione): la possibilità di ravvisare una nullità della motivazionee, quindi, di ricorrere per cassazione era ampia.Sulla base del vigente codice di rito, invece, la possibilità di ricorrereper cassazione per vizio di motivazione risulta subire forti limitazioni, ritenuteperaltro irragionevoli.In particolare, con riferimento a una motivazione di una sentenza dicondanna sintonica col dispositivo ma smentita dagli atti processuali, sisono prospettate tre ipotesi: nel caso di una condanna conseguente a


466INVIATO SPECIALEuna prova non risultante dagli atti del processo, si potrebbe esperire il ricorsoper violazione di una norma processuale stabilita a pena di inutilizzabilità,ai sensi del combinato disposto degli art. 191 c.p.p. e 526c.p.p.; nel caso, invece, di una condanna conseguente a un travisamentodella prova oppure a una mancata valutazione di una prova a favore dell’imputato,sembrerebbe preclusa la possibilità di ricorrere per cassazione.Ciò comporta sicuramente dubbi di legittimità costituzionale sotto ilprofilo del diritto di difesa garantito dall’art. 24 Cost. (in rapporto ancheal principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost.), del diritto alla provagarantito dall’art. 111 comma 3 Cost. e dell’obbligo di motivazione deiprovvedimenti giurisdizionali sancito dall’art. 111 comma 6 Cost., tantopiù se si considera che numerose altre norme processuali – come l’art.129 c.p.p., l’art. 619 comma 3 c.p.p., l’art. 620 lett. a e l c.p.p., lo stessoart. 606 lett. c e d c.p.p.– richiedono alla Corte di cassazione, per essereapplicate, una cognitio facti ex actis, ossia una cognizione del fatto basatasull’esame degli atti processuali.Il vizio di legittimità costituzionale prospettato appare ancor più graveallorché concerna una sentenza inappellabile o una sentenza di condannaemanata per la prima volta in appello su impugnazione del pubblico ministerocontro sentenza di assoluzione oppure allorché la prova a difesa, lacui valutazione risulti omessa, sia stata assunta nel giudizio di appello a seguitodi rinnovazione dell’istruzione dibattimentale. In queste ipotesi, mancandosia un riesame nel merito sulle ragioni della condanna sia la sindacabilitàda parte della Corte di cassazione dell’omessa valutazione della provaa difesa o il travisamento della stessa, non risultante dal testo del provvedimentoimpugnato, non verrebbe consentita alcuna doglianza per violazionedel diritto alla prova.Inoltre, tale vizio appare ancor più evidente se si confronta l’art. 606lett. e c.p.p. con l’art. 606 lett. d c.p.p., secondo cui il ricorso per cassazioneè proponibile nel caso di mancata assunzione di una prova decisiva,quando la parte ne ha fatto richiesta a norma dell’art. 495 comma 2 c.p.p.:sembra, infatti, illogico ammettere il ricorso per cassazione quando la controprovanon è stata assunta e non ammetterlo quando la prova è stata assuntama poi non è stata minimamente considerata dal giudice.Dalle precedenti considerazioni si è dedotto che l’intenzione del legislatoredi ridurre la ricorribilità per cassazione delle sentenze è parsa senzadubbio apprezzabile; ma la via seguita dallo stesso di rendere insindacabiligravi violazioni del diritto alla prova e, conseguentemente, di sacrificare ildiritto di difesa, parebbe censurabile.Pertanto, per cercare di ridurre il numero di ricorsi in cassazione,senza eliminare il caso di ricorso concernente il vizio di motivazione, sarebbenecessario modificare l’art. 111 Cost., riducendo il numero delle sentenzericorribili in cassazione. Inoltre, si è sottolineata pure l’opportunitàche i collegi giudicanti siano costituiti da tre magistrati anziché cinque, così


INVIATO SPECIALE467da recuperare altre quattro sezioni. Dubbi sono stati avanzati inoltre sull’utilitàdella presenza (e della discussione) in udienza degli avvocati dal momentoche gli stessi si limiterebbero a parafrasare i motivi già depositati eche i giudici, considerato che solamente il giudice-relatore conosce la causatrattata, simulerebbero nei loro confronti una cortese attenzione.In definitiva, il relatore ha ribadito che la soluzione volta a ridurre icasi di ricorso in cassazione, al fine di contribuire a realizzare la durata ragionevoledel processo, risiede nella modifica dell’art. 111 Cost., prevedendoche non tutti i provvedimenti giurisdizionali siano suscettibili di ricorso.Con riferimento, invece, al procedimento in cassazione, il dott. GiorgioLattanzi, consigliere della Corte di cassazione, ha sottolineato che la duratamedia di tale giudizio non sarebbe da considerarsi eccessiva: si calcola, infatti,in tre mesi per la declaratoria d’inammissibilità e in dieci mesi per glialtri giudizi.Piuttosto, è stato rilevato che il procedimento stesso non può esserevalutato solamente in termini di durata ma soprattutto in termini di qualitàdel prodotto della Corte (sotto il profilo del rapporto tra scopo del ricorsoin cassazione e risultato del medesimo).In tale prospettiva, pertanto, sarebbe necessario raggiungere un compromessotra l’esigenza posta dall’art. 111 Cost. e l’esigenza, egualmenteavvertita, indicata dall’art. 65 ord. giud. (anch’essa di rango costituzionaleperché si ricollega all’art. 3 Cost.), secondo cui la Corte di cassazione, qualeorgano supremo di giustizia, deve assicurare «l’esatta osservanza e l’uniformeinterpretazione della legge», ossia assolvere alla funzione di nomofilachia.Siffatto compromesso potrebbe essere ottenuto cercando di distinguerele sentenze che devono svolgere la funzione di ‘‘precedente’’ daquelle che hanno essenzialmente la funzione di decidere il terzo grado digiudizio nel caso concreto: si dovrebbe, dunque, chiarire meglio quandola Cassazione intende avvalorare un’affermazione di principio che deverappresentare un ‘‘precedente’’ dagli altri casi (che rappresentano la maggioranza)in cui il compito della Corte consiste nel decidere, in terzaistanza, la singola fattispecie. Nell’ottica poi volta ad assicurare che la Cassazioneassolva alla funzione nomofilattica assegnatale dall’ordinamentogiudiziario, bisognerebbe cercare di ridurre i gravi e frequenti contrastitra le singole sezioni della Cassazione.Dopo aver ribadito, pertanto, che la crisi della Cassazione, a differenzadi quella della giustizia <strong>penale</strong> in generale, non è di tempi o di durata ma diruolo o di cultura, si è puntualizzato che la Cassazione non è in grado disvolgere le proprie funzioni, il proprio ruolo e, ovviamente, una delle ragionidi tale crisi è l’elevato numero di ricorsi che pervengono alla Corte.Solo nell’anno 2004 sarebbero giunti, infatti, in cassazione 47.867 ricorsi,di cui solo il 15% è stato accolto, mentre tutti gli altri sono stati dichiarati


468INVIATO SPECIALEinammissibili o rigettati, con la conseguenza che, nei casi in cui il ricorso èstato dichiarato inammissibile, non si è assistito tanto all’esercizio di un dirittoex art. 111 Cost. quanto al suo abuso, perché il ricorso è stato presentatoal solo fine di ‘‘perdere tempo’’.Sulla base delle indicazioni contenute nel primo disegno di legge (cosiddettoPecorella) di riforma delle impugnazioni, e nella prospettiva di ridurreil numero dei ricorsi (nonché, nel contempo, di attribuire maggiordignità agli stessi), è stato ritenuto opportuno, de iure condendo, eliminarela previsione contemplante la possibilità per la parte di proporre ricorsopersonalmente. Infatti, la circostanza che la redazione del ricorso richiedaper sua natura una indubbia dose di tecnicismo giustificherebbe la regolache alla stessa debba provvedere un avvocato, considerato inoltre che lamaggior parte dei ricorsi presentati personalmente dalla parte – che ammontanoal 19% circa – è stata dichiarata inammissibile.Nella medesima direzione è volta pure l’ulteriore (e condivisa) indicazionedi prevedere un meccanismo di inammissibilità de plano per una seriedeterminata di ipotesi (ad esempio, nel caso di ricorso proposto fuori termine,o da chi non abbia diritto all’impugnazione, o quando il provvedimentonon è impugnabile): forse si potrebbe addirittura tornare a una regolacome quella contenuta nel codice del 1930, per cui l’inammissibilitàera dichiarata dal giudice a quo, corretta da un meccanismo di eventualedichiarazione de plano in cassazione nel caso di impugnazione avversodetta inammissibilità.4. Con specifico riferimento poi alle altre legislazioni, sono stati presentatitre interventi. La prof.ssa Novella Galantini ha rilevato che il principiodella durata ragionevole del processo è stato recepito nell’ordinamentofrancese, nell’article preliminaire del code de procédure pénale doveespressamente si stabilisce che la pronuncia definitiva sull’imputazionedeve essere emessa ‘‘dans un délai raisonnable’’.Per l’attuazione di tale principio il legislatore francese ha operato supiani diversi: sul piano ordinamentale, con l’istituzione del juge de proximitée con l’ampliamento della competenza del juge inique; sul piano processualefavorendo riti alternativi all’azione <strong>penale</strong> quali la mediazione e lacomposizione <strong>penale</strong>, riconducibili alla cosiddetta troisième voie: istitutiche evitano al pubblico ministero di esercitare l’azione <strong>penale</strong> e che lo portanoa emettere un provvedimento di archiviazione condizionato all’adempimentoda parte del soggetto che si sottopone alla mediazione o alla composizione<strong>penale</strong> di obblighi risarcitori e/o riparatori.Recentemente, con la legge Perben II del 9 marzo 2004, è stato inseritonel sistema francese il rito del plaider coupable che comporta unasorta di patteggiamento sulla base del riconoscimento di responsabilità.Lo stesso, a differenza della mediazione e della composizione <strong>penale</strong>,comporta l’esercizio dell’azione <strong>penale</strong> da parte del pubblico ministero


INVIATO SPECIALE469ed è volto funzionalmente alla deflazione del carico giudiziario dei tribunali.La riduzione dei tempi processuali non sembrerebbe perseguita sulpiano dei mezzi di impugnazione che, anziché essere ridotti, vengono potenziati.Tale ampliamento è giustificato dal fatto che il sistema francesenon teme le impugnazioni dilatorie perché ha un meccanismo di cause interruttivedella prescrizione particolare. Infatti i termini di prescrizionedell’azione <strong>penale</strong> pubblica sono relativamente brevi e possono essere interrotticon qualsiasi possibile strumento: in merito vi sono previsioni legislative,ma soprattutto vi è una tendenza netta della giurisprudenza adampliare il novero delle cause interruttive. Tra queste ultime è inseritapure la presentazione di un appello, che pertanto scoraggia sicuramentele impugnazioni dilatorie dell’imputato. Per questo motivo il legislatorefrancese amplia invece di ridurre i mezzi di impugnazione: in tempi recenti,infatti, ha introdotto un istituto nuovo, l’appello delle sentenzeemesse dalla corte di assise, tradizionalmente escluse da tale mezzo impugnativo.Sempre nell’ottica di ampliamento dei mezzi di impugnazione, è statointrodotto, nel sistema francese, il riesame di una decisione <strong>penale</strong> a seguitodi una sentenza resa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo: si tratta diuna impugnazione di sentenze irrevocabili di condanna emesse dal giudicefrancese in violazione delle disposizioni della Convenzione o dei suoi protocolliaddizionali, quando si sia verificato un pregiudizio a carico del condannatoche non sia rimediabile attraverso l’equo indennizzo previsto dallastessa Convenzione.Non nuovo ma inserito tradizionalmente nel sistema impugnativofrancese è pure lo strumento dell’opposizione, mezzo d’impugnazionecontro le sentenze rese in assenza incolpevole dell’imputato. Dall’esamecomplessivo dei mezzi impugnativi del sistema francesi si è potuto desumereuna tendenza generale a garantire i diritti dell’imputato o del condannato;parallelamente, si è notato un potenziamento dell’efficacia della risposta<strong>penale</strong>, ricercata anche attraverso l’introduzione di nuovi mezzi diimpugnazione.Le indicazioni che provengono dall’analisi della legislazione francese sifondano, in sostanza, sulla ragionevolezza della durata del procedimento esull’equilibrio nella predisposizione dei mezzi impugnativi.La prof.ssa Francesca Ruggieri, successivamente, ha tracciato una panoramicadell’ordinamento tedesco, esaminato nell’ottica del principiodella durata ragionevole del processo. In tale contesto, ha sinteticamentedelineato i caratteri procedimentali e ordinamentali del sistema, con peculiareattenzione all’iter del processo misto e all’organizzazione delle cortinel rispetto dello ‘‘scabinato’’ e della specializzazione degli organi giudicanti.In particolare, ha analizzato la struttura delle impugnazioni, la cui riforma,da tempo discussa in dottrina, non è mai stata attuata secondo un


470INVIATO SPECIALEdisegno organico complessivo: la ragione parrebbe risiedere nella soddisfazionedei tedeschi per il loro attuale sistema delle impugnazioni.Peraltro, il fondamentale principio della durata ragionevole del processoè utilizzato nel sistema tedesco per mitigare la pena: in questa prospettiva,infatti, il giudice sarebbe autorizzato a infliggere una pena minoreo a disporre addirittura il proscioglimento se la durata del processo, consideratoil reato per cui si procede, è parsa eccessiva. Ulteriore peculiaritàdel sistema in esame è che l’appello – peraltro poco utilizzato – è consentitounicamente per i reati meno gravi (vale a dire quelli di competenza del giudicemonocratico), in considerazione del fatto che in tali casi il processo diprimo grado è sommario e, pertanto, meno garantito. Questa spiegazione,quindi, giustificherebbe l’omessa previsione dell’appello per i processi inerentiai reati più gravi. Tali processi, infatti, essendo assistiti da maggiorigaranzie, non necessitano di un secondo giudizio di merito pieno (comel’appello): per gli stessi, pertanto, sarebbe sufficiente la previsione di uncontrollo di legittimità.Anche con riferimento al processo inglese, infine, il prof. Luca Marafiotiha sottolineato la ridotta dimensione quantitativa che assume in concretola fenomenologia delle impugnazioni, se comparata con il nostro sistema.Essa è conseguenza di fattori normativi e di costume, nel cui ambitoil ruolo della giuria e i limiti frapposti alla proponibilità delle impugnazionioperano come decisivi fattori frenanti. Da un lato, infatti, la corte d’appellopuò autorizzare un appello solo se ritiene la condanna unsafe, requisitoassai elastico. Dall’altro, è stato segnalato il rilievo che assume, nella dinamicadei mezzi d’impugnazione, l’istituto del leave, che funge da ‘‘tappo’’procedimentale, operando come lasciapassare di ogni controllo in materiaed escludendo dal gioco dei controlli un largo numero di potenziali appellanti.In questo scenario, è apparso difficile ricavare utili indicazioni operativecirca gli scenari prefigurabili in prospettiva nell’esperienza italiana, attesala peculiarità degli snodi del diritto all’impugnazione nel sistema inglese.Tuttavia, anche in tale sistema si è aperta la strada al dibattito in prospettivadi riforma, traducendosi in proposte rivolte a realizzare unamaggiore flessibilità del sistema delle impugnazioni anche sulla spinta dellarecezione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo attraversol’Human Rights Act 1998, nell’ottica di assicurare tutela a un vero e propriodiritto all’impugnazione. Nella medesima prospettiva di riforma, è stataconsiderata pure la creazione, mediante il Constitutional Reform Act2005, della Corte Suprema per il Regno Unito, destinata a soppiantarenel 2008 la House of Lord in materia <strong>penale</strong>.Insomma, la tipologia processuale inglese costituirebbe un sistema a séstante rispetto alla nostra impostazione culturale: la componente consuetudinariae discrezionale insita nell’attività giurisdizionale assume una valenzadecisiva. I delicati equilibri in materia sarebbero garantiti dal tradizionale


INVIATO SPECIALE471culto del precedente e dal ruolo in concreto assunto dagli organi giurisdizionali.5. La Tavola Rotonda del Convegno, sotto la presidenza del prof.Giorgio Marinucci, infine, ha toccato, anche criticamente, i passaggi e leargomentazione più significative dei lavori congressuali.Anzitutto, il prof. Ennio Amodio ha sostenuto che nella politica delleriforme emergono almeno tre visuali distorte, che ha denominato fallacie.Per evitare la prima, ossia la fallacia della segmentazione, occorre nonesaminare isolatamente i problemi dell’appello o della cassazione, ma tenerepresente l’intero procedimento <strong>penale</strong>; bisogna, in sostanza, considerareil necessario rapporto di complementarietà tra appello e cassazione: sesi restringe, ad esempio, l’ambito dell’appello (in termini soggettivi od oggettivi)necessariamente si va ad aggravare il successivo grado rappresentatodalla cassazione.La seconda fallacia, quella delle garanzie ubiquitarie, può essere aggiratariconoscendo che le garanzie e le tecniche di accertamento che connotanoil primo grado di giudizio non debbono necessariamente riproporsinei successivi gradi di impugnazione.Il terzo vizio logico concerne, infine, le prospettive di riforma dell’appello,vale a dire l’ipotesi di trasformazione del giudice di appello in unaforma di mini-cassazione. Più precisamente, sulla base del presuppostoche, siccome nel nuovo processo il principio del contraddittorio che caratterizzail primo grado di giudizio non potrà mai attuarsi nel secondo grado,allora al giudice d’appello si vorrebbe attribuire il compito ‘‘rescindente’’,cioè il compito di annullare e rinviare in primo grado il processo per acquisirele prove: è parso ovvio, tuttavia, che questa prospettiva di riforma rischierebbedi produrre tempi irragionevoli dal punto di vista della duratadei processi.Il prof. Mario Chiavario ha ribadito, inoltre, che l’impugnazione, inlinea con l’insegnamento della Corte europea dei diritti dell’uomo, deve essereconsiderata una garanzia finalizzata esclusivamente a cercare di ottenereragione quando si è avuto torto e non deve costituire uno strumentovolto a cercare di lucrare dei benefici o dei vantaggi che non si sarebberoottenuti ‘‘accettando’’ la sentenza emessa in primo grado.Al riguardo, ha precisato che le cause di estinzione del reato o dell’azionepossono sì costituire oggetto di diritto ma non possono essere consideratecomunque alla stessa stregua dei diritti fondamentali e, quindi, possonosubire una disciplina diversa, ossia una disciplina finalizzata a disincentivarecomportamenti che mirino a lucrare benefici a scapito di altridiritti o valori ritenuti fondamentali.Con specifico riferimento al problema della prescrizione, un sostegnoalla soluzione dello stesso sembra offerto dall’atteggiamento ormai cristallizzatonella giurisprudenza delle sezioni unite della cassazione a proposito


472INVIATO SPECIALEdel rapporto tra declaratoria di inammissibilità anche per manifesta infondatezzadel ricorso e declaratoria di prescrizione: pur trattandosi purtropposoltanto di un orientamento giurisprudenziale (anche se ormai consolidato),il medesimo meriterebbe di essere incoraggiato e cristallizzatonormativamente. Inoltre, è apparso opportuno rimeditare i meccanismiche incidono sui termini di sospensione e/o interruzione della prescrizione.Sempre sul tema, il prof. Renzo Orlandi ha quindi affermato che vasdrammatizzato l’asserito uso pretestuoso (in funzione dilatoria) delle impugnazioniper guadagnare la prescrizione: infatti, dall’esame delle statistichefornite dal ministero dal 1996 al 2004 non vi è dubbio che si assistaad una crescita spaventosa delle prescrizioni (nel 1996 erano 66.500 circa;nel 2004 erano quasi 222.000). Tuttavia, analizzando in quali fasi del procedimento<strong>penale</strong> vengono dichiarate le prescrizioni, è singolare notarecome, nel 1996, il 70% avveniva nella fase preliminare, il 22% nel giudiziodi primo grado, l’8% nel secondo grado (la Corte di cassazione non vienepresa in considerazione perché, in sostanza, la relativa percentuale è inferioreall’1%); nel 2000, si nota, invece, un picco elevato delle dichiarazionidi prescrizione in appello; nel 2004, infine, si assiste ad una tendenza al ribasso:infatti, l’85% viene dichiarata nella fase preliminare (indagini preliminarie udienza preliminare), l’11% nel primo grado di giudizio e solo il4% in appello.Si è sottolineato, altresì, che l’appello non è solo una scelta d’opportunitàpolitica ma anche una scelta imposta dalle convenzioni internazionali:ecco perché bisognerebbe riflettere su eventuali proposte di eliminazionedell’appello. Peraltro, al fine di risolvere il vero punto problematico delgiudizio in appello, che consiste nel dare attuazione pure in tale fase al‘‘giusto processo’’, la soluzione preferibile, se il problema è quello di risolverela questione del pericolo di una condanna emanata per la prima voltain secondo grado, consiste nel riformare l’art. 603 c.p.p. ampliando l’istruttoriadibattimentale in appello, magari consentendo all’imputato di impugnarecon l’appello incidentale pure le sentenze che sarebbero inappellabili,superando così quell’orientamento della cassazione che non riconoscea chi non è appellante in via principale la possibilità di appellare incidentalmente.Il prof. Alfonso Stile ha poi rilevato che il problema della ragionevolezzadella durata dei processi è di carattere relativo e non assoluto: infattipuò dipendere, ad esempio, dalla struttura del nostro processo (ovvero laragionevole durata è diversa se parliamo di giudizio ordinario o di rito abbreviato)o dalla natura della fattispecie concreta (i casi più complessi richiedono– di norma – un accertamento più lungo).È risultato altresì ovvio che sulla durata ragionevole del processo potesseincidere il problema del doppio grado di merito, tuttavia la necessitàdell’appello è stata dimostrata dai suoi risultati: infatti, dall’analisi di statistichesufficientemente precise emergerebbe che, in grado di appello, nel


INVIATO SPECIALE47310% dei casi si è assistito a una riforma dell’affermazione di colpevolezzamentre in oltre il 30% a una modifica della sanzione.Piuttosto, per rendere ragionevole la durata dell’appello (estremamentevariabile nei vari distretti), bisognerebbe eliminare i tempi morti, determinatida diversi fattori, quali il ritardo nella trasmissioni degli atti algiudice ad quem, i tempi di fissazione del Presidente o della Corte o dellasezione o delle sezioni penali, a seconda dello organizzazione; i criteri difissazione delle udienze e, infine, i rinvii per difetti di notifica. A questo riguardo,potrebbe essere presa a modello la cassazione, la cui organizzazione,pur considerando l’elevato numero di ricorsi che alla stessa pervengono,è parsa efficiente anche sotto il profilo dell’utilizzazione dei tempi.Il prof. Enzo Zappalà ha messo in luce, infine, che le prospettive diriforma devono necessariamente combinare due criteri fondamentali: lapresunzione di non colpevolezza e la durata ragionevole del processo, intesanon solo come connotato della giurisdizione ma anche come dirittodell’imputato a una durata ragionevole, senza trascurare la considerazioneche l’inosservanza della ragionevole durata del processo giova al colpevolema nuoce moltissimo all’innocente.Pertanto, una riforma delle impugnazioni dovrebbe, anzitutto, disconoscerei diritti contro il processo, vale a dire l’uso strumentale di atti processualiper effetti che non sono tipici dell’atto stesso.Quanto al problema della prescrizione, si è ribadito la sussistenza deldiritto alla prescrizione del reato già realizzata (ossia se il reato è prescritto,la persona ha diritto di non essere punita per quel reato appunto perchéestinto per prescrizione). Diversa da quella appena esaminata è, invece, risultatal’ipotesi in cui si è assistito a un uso strumentale delle impugnazioniper tendere alla prescrizione del reato (non ancora realizzata). Invero, perrisolvere questo problema, sarebbe sufficiente cambiare i connotati dellaprescrizione, qualificandola non come causa estintiva del reato ma dell’azione.Andrea Paolo Casati


RECENSIONI E SCHEDE475Recensioni e schedeGabriele Fornasari-Antonia Menghini, Percorsi europei di diritto<strong>penale</strong>, Padova 2005, pp. 223.Mossi dall’esigenza di fornire agli studenti un supporto per il corso didiritto <strong>penale</strong> comparato, Fornasari e Menghini realizzano uno studio comparatisticodei fondamenti di diritto <strong>penale</strong>: senza alcuna pretesa di esaustività,gli autori svolgono una comparazione degli elementi costitutividel reato e dei sistemi sanzionatori.Lo studio ha come principali ordinamenti di raffronto la Francia, laSpagna, la Germania, l’Inghilterra e il Portogallo; spazia, a seconda degliistituti che vengono trattati, dal diritto <strong>penale</strong> turco, croato, sloveno, russo,polacco, austriaco, svizzero a quello danese, belga, olandese, norvegese,svedese, irlandese, scozzese, con uno sguardo per quanto concerne la responsabilitàdelle persone giuridiche al sistema statunitense che rappresentaindubbiamente il modello in questo settore.Il metodo espositivo consiste in una presentazione essenziale dell’istituto,così come disciplinato dall’ordinamento italiano, evidenziandone leproblematicità rilevate dalla nostra dottrina e giurisprudenza. Questa introduzionefornisce di regola i criteri di analisi alla luce dei quali viene condottala comparazione. La scelta degli ordinamenti di comparazione è funzionalea mettere in risalto le peculiarità di ciascun istituto. L’ordinamentostraniero viene considerato solo sotto la precisa angolazione strumentale alconfronto; viene omessa qualsiasi introduzione di carattere storico-giuridicoche esorbita le finalità della comparazione ed appesantirebbe lostudio.Il libro si apre con la trattazione, a cura del prof. Fornasari, del principiodi legalità, quale principio fondante comune ai sistemi penali europei.Esso viene considerato nelle sue articolazioni di riserva di legge, di tassativitàe divieto di analogia, di irretroattività della legge <strong>penale</strong> (pag. 2).Dalla comparazione emerge che il diritto <strong>penale</strong> spagnolo vanta la formulazionepiù severa del principio di riserva di legge: esso esclude infatti lefonti secondarie da qualsiasi competenza normativa, riservando invece alla‘‘legge organica’’, per la quale è richiesta una maggioranza rafforzata, ilcompito di prevedere sanzioni detentive.Minor rigore trova l’applicazione del principio nell’ordinamento fran-


476RECENSIONI E SCHEDEcese, dove è prevista dal codice <strong>penale</strong> un’espressa competenza dei regolamentinell’ambito delle contravvenzioni.L’ordinamento tedesco invece offre un esempio di sistema federale incui è riconosciuta una certa autonomia normativa in materia <strong>penale</strong> aiLänder. Tuttavia tale potestà non deve essere sopravvalutata, mette inguardia l’autore, perché comporta effetti pratici limitati ed è comunquesubalterna alla competenza federale, costituendo un potere concorrente(pag. 8).L’analisi del principio di legalità consente di delineare in modo chiaronon solo le differenze tra ordinamenti di civil law, ma anche i punti di maggiordistacco tra sistemi di common law e civil law.Proprio sul terreno della riserva di legge, l’autore rileva nei sistemi dicommon law la centralità del ‘‘precedente giurisprudenziale’’, l’importanzadella stabilità degli orientamenti giurisprudenziali e il ruolo secondariosvolto dagli statutes.Le differenze si accentuano laddove viene considerato il divieto di analogia.Se da un lato si osserva come i sistemi di common law ricorrano all’analogiaquale fonte normativa per i casi non ancora sottoposti al giudice,dall’altro occorre prendere atto della difficoltà degli ordinamenti continentalia rispettare tale divieto.Un caso emblematico è offerto dal diritto <strong>penale</strong> tedesco che, prevedendo‘‘esempi di regola’’ – Regelbeispiele – ai quali ispirarsi nelle ipotesidi reato circostanziato, crea premesse inevitabili per la violazione del divieto(pag. 18).Infine la comparazione del principio di legalità tra gli Stati europei inducea considerare il ruolo dell’interprete nella formazione del diritto <strong>penale</strong>.Di particolare interesse risultano, allora, il codice polacco, sloveno ecroato, che codificano il principio d’offensività, nella duplice dimensionedi soglia del penalmente rilevante, quale elemento costitutivo del reato, edi ciò che è punibile, quale causa di esclusione della pena. È chiaro chela codificazione di tale principio assegna all’interprete un ruolo decisivonel tracciare i confini della competenza del diritto <strong>penale</strong>.Anche nel disciplinare la legge <strong>penale</strong> nel tempo, la differenza tra i sistemidi civil law e common law emerge in modo piuttosto evidente. Il sistemainglese infatti consente l’overruling, ossia l’inversione dell’orientamentogiurisprudenziale, anche in malam partem con effetti direttamenteapplicabili al caso di specie da cui scaturisce. Ciò in virtù del principio fondantedella common law, secondo cui il giudice con la propria pronunciadà voce ad un valore condiviso e sedimentato nel sentire sociale, pertantoegli non introduce alcuna novità normativa. Esso rappresenta tuttavia unesempio unico anche nella common law: non si ravvisa infatti la stessa regolanegli Stati Uniti (pag. 21).


RECENSIONI E SCHEDE477Prima di passare all’analisi di singoli istituti, vengono illustrati i principiregolatori dell’applicazione della legge <strong>penale</strong> nello spazio. È tendenzialmentecondivisa dagli ordinamenti europei la regola del locus commissidelicti. Slovenia, Germania e Francia prevedono inoltre alcune utili precisazioniin ordine al criterio dell’ubiquità, nel definire quando un fattopossa considerarsi avvenuto nel territorio di uno Stato. Tale regola vieneintegrata dai principi della personalità passiva, particolarmente sentito daquegli Stati dove è presente la Corona, e della personalità attiva. Degna dinota è la previsione in numerosi ordinamenti del principio di giustizia universale,alla stregua del quale punire secondo la legge interna, reati, anchese commessi all’estero, contro l’umanità, come genocidio, terrorismo, pirateriaaerea, traffico illecito di esseri umani e sostanze stupefacenti (pag.36).Maggiore spazio nella trattazione viene dato alla disciplina francese,dove una regolamentazione alquanto dettagliata dei principi di personalitàattiva e passiva induce l’autore a ‘‘dubitare che la regola generale restiquella della territorialità’’ (pag. 37).La prima parte prosegue quindi con la comparazione degli istituti diteoria generale, scelti in base agli spunti che il raffronto può offrire perla soluzione dei loro aspetti più problematici nell’ordinamento italiano.L’autore prende le mosse da una constatazione oggettiva: l’Italia è ilpaese europeo che dedica alla disciplina generale del reato il numeromaggiore di disposizioni nel codice <strong>penale</strong>. Questo dato rivela l’attitudinedel legislatore italiano a definire gli aspetti più importanti del diritto<strong>penale</strong>, diversamente da quanto accade negli altri ordinamenti, doveil numero di disposizioni è piùesiguo. In generale, i paesi stranieri preferisconolasciare alla dottrina e alla giurisprudenza il compito di elaborarei concetti sottesi alle fattispecie criminali; talvolta invece il silenziodel legislatore straniero è frutto di una scelta ponderata di politica criminale.Così accade, ad esempio, in Francia, Belgio ed Inghilterra per ilreato omissivo improprio, dove non è prevista alcuna disciplina positivadello stesso. L’ordinamento francese e quello belga basano la loro sceltasull’esigenza di salvaguardare la tassatività delle fattispecie criminali, cheverrebbe minata dalla previsione di una clausola di equivalenza analogaa quella contenuta nel nostro codice all’art. 40 co. 2 c.p., nel codicespagnolo, tedesco e portoghese. Con la precisazione che in questi dueultimi sistemi, il reato omissivo improprio comporta, a differenza diquanto avviene nel sistema italiano, un’attenuazione facoltativa dellapena. L’ordinamento inglese, invece, è tradizionalmente contrario allaconfigurazioni di obblighi di agire sanzionati penalmente, pertanto richiedeche per i casi più gravi la relativa fattispecie sia contenuta inuno statute (pag. 48).Per quanto concerne le cause di giustificazione, la comparazione non


478RECENSIONI E SCHEDEsolo conforta le critiche relative alla natura ibrida dello stato di necessitàprevisto dall’art. 54 c.p. italiano, ma offre altresì utili spunti de iure condendo.Il modello al riguardo è dato dall’ordinamento tedesco, che prevedeuno stato di necessità scriminante – rechfertigender Notstand – e uno scusante– entschuldigender Notstand –. La disciplina tedesca contempla il bilanciamentotra il bene sacrificato ed il bene salvato, consentendo l’applicazionedella scriminante a qualsiasi bene giuridico, e prevede il soccorsodi necessità scriminante a favore di un terzo. Al contrario seleziona soltantoi beni strettamente personali per i quali opera lo stato di necessità comescusante e ammette il soccorso di necessità scusante solo a favore dei congiuntio persone vicine. Alla luce dell’esempio tedesco, i limiti della normaitaliana risultano ancora più evidenti: ‘‘solo per citare un aspetto, che sensoha, una volta che si chiede il rispetto del criterio di proporzione, selezionarecome beni difendibili solo quelli personali?’’ (pag. 59).Di particolare interesse è la previsione portoghese del ‘‘consenso dell’aventediritto’’: oltre a disciplinarne l’oggetto ed i limiti, definisce il consensopresunto e regola il caso del trattamento medico – chirurgico, affermandoche, se l’intervento è avvenuto conformemente alle leges artis, non èintegrato alcun reato e il fatto deve ritenersi perciò stesso lecito. In ordinealla presente causa di giustificazione, l’autore rileva l’assenza nella maggiorparte degli ordinamenti di una previsione generale, potendosi desumere dasingole fattispecie criminali ed estendere in via analogica, trattandosi dinorma non <strong>penale</strong>. La stessa osservazione è svolta per la scriminante dell’‘‘eserciziodi un diritto’’, mentre l’assenza in tutti gli ordinamenti consultatidella causa di giustificazione dell’‘‘uso legittimo delle armi’’ confermal’idea che essa rappresenti un retaggio di una concezione autoritaria deirapporti cittadino-autorità. Viene posta in risalto ancora una volta la disciplinaportoghese relativa all’‘‘adempimento di un dovere’’, in quanto riconosceefficacia scusante all’esecuzione di un ordine illegittimo, ma vincolante.La legittima difesa rappresenta invece la causa di giustificazione ‘‘universalmentericonosciuta’’. Rimane un caso isolato la disciplina italiana dell’imputazionedelle cause di giustificazione: negli altri ordinamenti si tendeinfatti a richiedere anche per queste i medesimi presupposti psicologiciprevisti per il reato, senza riconoscere ipotesi di imputazione oggettiva oputativa (pag. 61).Gli spunti più innovativi sembrano scaturire dalla comparazione relativaall’elemento soggettivo. Viene considerata l’imputabilità, istituto collocatoda alcuni ordinamenti stranieri nelle forme di manifestazione del reatoe non già nella parte relativa al reo, come avviene in Italia.L’autore rileva come negli ordinamenti irlandese e scozzese la soglia dipresunzione della capacità di intendere e volere sia eccezionalmente bassa:rispettivamente sette e otto anni. Trattasi in realtà di una presunzione relativafino ai quattordici anni per l’Irlanda e sedici anni per la Scozia.


RECENSIONI E SCHEDE479Mentre un trattamento di favore è previsto dal codice svedese per ic.d. giovani adulti, di età compresa tra i diciotto ed i ventuno anni(pag. 64).Tra le cause idonee ad escludere l’imputabilità si registra da partedegli ordinamenti di common law e di Stati come Germania, Austria, Svizzera,Croazia, Polonia e Russia un’apertura verso anomalie psichiche e disturbidella personalità che non devono necessariamente assurgere a malattieclinicamente accertabili. Si tratta di un’indicazione comparatisticache non può lasciare indifferente il giurista italiano alla luce della recenteposizione assunta dalla Corte di Cassazione (Cass. SS.UU. 25 gennaio2005, n. 9163, imp. Raso).Infine si rileva la mancanza in alcuni ordinamenti di una disciplina adhoc per le ipotesi di ubriachezza e tossicodipendenza, in quanto si ritieneche essa possa essere desunta dalla regola generale sulla colpevolezza. Altriordinamenti, come Russia e Turchia, adottano discipline assai severe escludendoche possa essere esentato da pena chi abbia commesso un reatosotto l’effetto di sostanze alcoliche o stupefacenti (pag. 71).Per quanto riguarda le forme di imputazione psicologica del fatto direato all’agente, manca nella maggior parte degli ordinamenti una definizioneunitaria del dolo, della colpa e della preterintenzione: il dolo è perlopiùenunciato nelle diverse manifestazioni di dolo intenzionale, diretto,eventuale; così la colpa nelle sue articolazioni di colpa incosciente e cosciente.Estremamente interessanti si rivelano le esperienze inglese e francese,in quanto contemplano una forma d’imputazione psicologica intermediatra il dolo eventuale e la colpa cosciente. La recklessness per l’ordinamentoinglese e la mise en danger per l’ordinamento francese: questimodelli suggeriscono al legislatore italiano la necessità di una categoria intermediatra dolo e colpa, che, sulla scorta degli esempi citati, costituirebbeuna ‘‘responsabilità da (assunzione consapevole di) rischio illecito’’. Questarappresenterebbe una soluzione per quelle ipotesi in cui la scelta per unaresponsabilità dolosa o colposa si gioca su elementi difficilmente indagabili,come l’animo umano, eppure comporta un trattamento sanzionatorio nettamentedifferenziato.Un’espressa disciplina del tentativo è presente in tutti gli Stati. Lescelte normative rivelano l’inclinazione ‘‘oggettivistica’’ o ‘‘soggettivistica’’di ciascun paese, a seconda che esse considerino il responsabile di un reatotentato con minor severità, posto che la sua condotta non ha effettivamenteperfezionato il reato voluto, oppure con la stessa severità dell’autore delreato consumato, dal momento che il mancato perfezionamento dell’illecitoè dipeso da cause esterne alla condotta del reo.Esse possono divedersi tra ordinamenti che richiedono l’idoneità degliatti (Italia e Turchia), quelli che fanno leva sull’inizio dell’esecuzione dell’azionetipica o che esigono un rapporto di immediatezza tra condotta e


480RECENSIONI E SCHEDErealizzazione della fattispecie (Germania, Austria, Svizzera, Spagna Inghilterrae Francia).Solo il codice turco esclude espressamente il tentativo inidoneo,mentre il codice portoghese distingue tra tentativo relativamente e assolutamenteinidoneo.Per quanto concerne invece il trattamento sanzionatorio, si individuanotre orientamenti. Alcuni paesi prevedono una diminuzione di pena(Italia, Portogallo, Spagna, Belgio e Turchia); altri applicano la stessa penaprevista per il reato consumato (Austria, Francia ed Inghilterra); altri, infine,distinguono il tentativo idoneo da quello inidoneo e prevedono peril primo a seconda dei casi la medesima sanzione del reato consumato,una sua riduzione o l’esenzione dalla stessa (pag. 93).L’ultimo istituto considerato è il concorso di persone. Nel contesto europeosi rilevano sostanzialmente due modelli di disciplina: quello unitario,presente in Italia ed Austria, e quello differenziato, adottato nella maggiorparte degli Stati europei. Quest’ultimo ha il pregio di consentire teoricamenteuna tipizzazione delle condotte; di fatto ciò non è sempre vero. Siregistrano infatti definizioni dai contorni incerti delle figure dei concorrenti;la disciplina belga configura addirittura un’ipotesi di complicitàche da noi integra il reato di favoreggiamento. Degno di nota è il dirittorusso che prevede espressamente la figura dell’organizzatore, superandole difficoltà di inquadramento della condotta di colui che non esegue materialmenteil reato, ma ricopre comunque un ruolo fondamentale inquanto rappresenta la ‘‘mente’’ del fatto (pag. 103). Difficoltà che in alcuniordinamenti portano a delle forzature interpretative od a diminuzioni dipena ingiustificate. La scelta del modello differenziato comporta la previsionedi pene modulate sulle varie figure di autore, coautore, istigatore ecomplice.L’assenza, poi, negli ordinamenti stranieri di una disciplina analoga all’art.116 c.p. italiano, per le ipotesi di concorso atipico, rafforza le perplessitàdella dottrina secondo la quale la disposizione prevede un’ipotesi di responsabilitàoggettiva. Infine viene indicata la rilevanza in Germania e inPolonia dell’istigazione e della complicità meramente tentate mentre danoi è irrilevante il semplice accordo criminoso, al quale non sia dato esecuzione,salvo la possibilità di irrogare misure di sicurezza (pag. 108). Vieneda ultimo affrontata la questione della desistenza del concorrente: molti codiciprendono posizione sul punto, taluni richiedendo che il concorrenteabbia volontariamente impedito la commissione del reato, altri si appaganodella serietà e volontarietà del suo comportamento volto a neutralizzare,pur senza riuscirci, la realizzazione della fattispecie criminale.La seconda parte del libro, a cura della dott.ssa Menghini, è dedicataalla comparazione dei sistemi sanzionatori. Il tema viene introdotto da unexcursus storico-filosofico che prende le mosse dal pensiero di Cesare Beccaria,che concepisce la pena come ‘‘essenzialmente pubblica, pronta, ne-


RECENSIONI E SCHEDE481cessaria, proporzionata ai delitti e dettata dalle leggi’’, al quale è seguito l’illuminismoche ha elaborato le teorie che rappresentano tutt’oggi il puntodi riferimento nella disciplina della pena e che sono state alternativamentevalorizzate dalla scuola classica e positiva, la teoria retributiva, general-preventivae special-preventiva. La panoramica si conclude con uno sguardoalla nostra Costituzione, che, anche se non espressamente, prevede una gerarchiatra le finalità tradizionalmente assegnate al sistema punitivo: prediligendola rieducazione del reo, orienta il legislatore verso una funzionespecial-preventiva della pena (pag. 115).L’analisi si articola quindi nel raffronto tra le discipline degli Stati europeiin ordine alle pene principali, accessorie, sostitutive, alternative alladetenzione, ai criteri di commisurazione della pena, alla disciplina del concorsodi reati e alle cause estintive della pena. In chiusura viene tracciato unquadro comparatistico della disciplina relativa alla responsabilità delle personegiuridiche. La scelta di trattare questa materia nell’ambito della pena è<strong>indice</strong> della controversa natura di tale disciplina: a cavallo tra il diritto <strong>penale</strong>ed amministrativo, essa prevede una gamma composita di sanzioni checoncorrono a delineare il sistema punitivo dello Stato.Le pene principali comuni a tutti gli Stati europei sono la pena detentivae quella pecuniaria. La pena di morte risulta oramai abolita in tutti isistemi: il codice <strong>penale</strong> toscano aveva provveduto a cancellarla già nel1786, da ultimo, l’Inghilterra ne ha formalizzato l’abrogazione nel 1998.La pena detentiva risulta la ‘‘pena regina’’ in ogni ordinamento, tuttaviadall’analisi comparatistica emerge una forte tendenza a ridimensionarnele ipotesi applicative (pag. 120).È questa la chiave di lettura della seconda parte del libro: l’analisidella pena in tutte le sue manifestazioni viene condotta alla luce dell’esigenza,comune a tutti gli ordinamenti europei, di evitare il carcere nelcaso di condanne a pene detentive di breve durata. Ciò in ragione deicomprovati effetti desocializzanti dell’esperienza carceraria. Non solo.La comparazione consente altresì di registrare le diverse soluzioni adottatedagli Stati europei nell’ottica di congegnare una sanzione alternativaal carcere che contribuisca in modo concreto alla rieducazione del reoverso i valori della convivenza civile, cercando di neutralizzare la sua propensionea delinquere.Perciò si traggono spunti in tal senso sia dalla disciplina russa che prevedeun minimo edittale di sei mesi per la comminazione di pene detentive,sia dalla disciplina francese che omette l’individuazione di un minimo edittale,dando spazio alle ‘‘sanzioni complementari’’ e ‘‘rimodulate’’ che possonoessere irrogate, entro certi limiti, anche a titolo di pena principale inmateria di delitti e contravvenzioni.L’esperienza francese e quella spagnola costituiscono un modello perla varietà di sanzioni che contempla. Si tratta di pene interdittive o inabilitative,sospensive, nonché di pene eseguite attraverso lavori di pubblica


482RECENSIONI E SCHEDEutilità. Esse ricalcano, parzialmente, in ordine ai contenuti, la categoria italianadelle pene accessorie, ma il loro carattere innovativo sta proprio inquesto: nella possibilità di essere comminate a titolo di pena principale.Il giudice di cognizione deve decidere se la sanzione diversa dalla pena detentivasia sufficiente a coprire il disvalore del fatto e quindi se possa essereinflitta in via esclusiva. Con ciò gli ordinamenti francese e spagnolo assegnanoal giudice un ampia discrezionalità, – a fronte della ‘‘tendenzialeautomaticità’’ con cui le pene accessorie seguono quelle principali in Italia–, ma vincolano tale potere alla verifica di presupposti determinati: la gravitàdel fatto di reato e il collegamento tra la sanzione ed il fatto. Se, cioè,l’illecito è stato commesso con abuso della potestà genitoriale o dei poteriinerenti un incarico o durante la guida di un automezzo, allora la pena saràmirata a neutralizzare la condotta del responsabile ed a svolgere nei suoiconfronti un ruolo rieducativo, evitando che egli si ponga nuovamentenelle condizioni in cui aveva commesso il reato. Così il reo verrà rispettivamentesospeso dalla potestà genitoriale, dall’esercizio dei poteri inerentil’incarico, dal cui abuso è scaturito il reato, dall’uso della patente (pag.133).In Inghilterra, invece, la discrezionalità riconosciuta al giudice nellascelta del tipo e del quantum di pena è massima: la detenzione è obbligatoriasolo per l’omicidio doloso e, solo in quest’ipotesi, è prevista in misurafissa (life imprisonment), altrimenti il Powers of Criminal Court SentencingAct del 2000 ne riconosce un ruolo residuale. Va tuttavia rilevato che qualorail giudice decida di irrogare una sanzione detentiva, egli deve tenereconto delle ragioni di deterrence, oltre che della gravità del reato, manifestandoin tal modo una tendenza a pronunce esemplari (exemplary sentence).L’Inghilterra prevede altresì una serie di sanzioni accessorie, alcunedelle quali possono essere comminate a titolo di sanzione principale. Traqueste, l’autrice dà particolare rilievo al community punishment, lavoro abeneficio della comunità, in quanto esso ha rappresentato il modello peril sistema spagnolo. Tale sanzione ha finalità prettamente rieducative enon può mai essere cumulata con la sanzione detentiva, ragion per cui essaviene inquadrata tra le pena alternative al carcere di breve durata (pag.128).Per quanto concerne la pena pecuniaria, di particolare interesse risultala disciplina tedesca dei tassi giornalieri – Tagessatzsystem –, la quale consentedi adeguare l’ammontare della multa al duplice parametro della gravitàdel fatto e della capacità economica del reo, rappresentando in talmodo una vera e propria sanzione anche per coloro che godano di ingentipossibilità patrimoniali.Spagna, Francia, Slovenia, Croazia, Portogallo e Polonia hanno adottatosistemi sulla falsariga di quello tedesco. In Italia la sanzione pecuniaria


RECENSIONI E SCHEDE483prevista per la responsabilità delle persone giuridiche è strutturata secondoil sistema dei tassi giornalieri.L’autrice rileva altresì come la sanzione pecuniaria sia contemplata dallegislatore tedesco tendenzialmente in via esclusiva e solo raramente accompagnala pena detentiva. Essa deve in ogni caso essere preferita alla privazionedella libertà personale, che va inflitta solo se indispensabile per glieffetti sull’autore e per la difesa della collettività. È inoltre interessante ilrimedio previsto in Germania per il caso d’inadempimento al pagamentodella multa. A fronte della previsione in via astratta della conversione dellapena pecuniaria in detentiva, viene per lo più praticata l’alternativa concessaa ciascun Länder di sostituire la detenzione con un lavoro svolto inlibertà e non retribuito (pag. 126).La comparazione fornisce informazioni utili anche a sostegno di proposteavanzate dalla dottrina per eliminare le incongruenze relative alla disciplinaitaliana delle sanzioni alternative alla detenzione. Le proposte, peraltrogià fatte proprie dal progetto Grosso di riforma del codice <strong>penale</strong>,riguardano la competenza ad irrogare tali sanzioni. La possibilità, riconosciutadagli ultimi interventi legislativi, di concedere direttamente l’affidamentoin prova, senza che il condannato abbia almeno dato inizio all’esecuzionedella pena, svuota di senso l’attribuzione della competenza ad irrogaretale sanzione ad un giudice diverso da quello di cognizione, qualeappunto il Tribunale di sorveglianza (pag. 150).Al riguardo, l’ordinamento francese costituisce un vero e proprio modello,prevedendo che sia il giudice di cognizione deputato ad irrogare talesanzione, che viene perciò concepita come pena autonoma e non già qualemodalità di esecuzione come nel nostro ordinamento.In modo analogo opera in Inghilterra il community rehabilitationorder, che consiste in un periodo di prova sotto il controllo di un pubblicofunzionario. Il sistema inglese prevede un ulteriore istituto, con finalità deltutto analoghe – Curfew order – ossia l’ordine di stare in un determinatoluogo sotto la sorveglianza di persona a ciò deputata.In questo capitolo, l’autrice ricorda gli esempi spagnolo e francese, giàillustrati all’inizio della seconda parte dell’opera, che contemplano unagamma notevole di sanzioni diverse e alternative alla pena detentiva, comelimitazioni all’elettorato passivo e attivo, al porto d’armi, all’uso della patentedi guida; nonché sanzioni interdittive o inabilitative di funzioni e incarichipubblici, relative alla potestà genitoriale, alla possibilità di frequentaredeterminati luoghi o persone, e infine l’esecuzione di lavori a vantaggiodella comunità sulla scorta del modello inglese. Viene segnalata la disciplinapolacca che prevede, oltre all’obbligo risarcitorio, quello di presentarele proprie scuse alla parte offesa (pag. 154).Nel paragrafo dedicato ai criteri di commisurazione della pena l’autricesottolinea ancora una volta l’estrema discrezionalità riconosciuta algiudice inglese seppur sotto una diversa visuale. L’ordinamento inglese,


484RECENSIONI E SCHEDEin linea di massima, non prevede limiti edittali alle pene pecuniarie; questisono indicati invece per le pene detentive e possono essere superati solonell’ipotesi di extenced sentence. È questo un istituto pensato per chi sisia reso responsabile di reati sessuali e di violenza e comporta un’‘‘estensione’’della pena, individuata espressamente nel quantum dalla legge inmodo che il giudice non pervenga mai all’ergastolo, e persegue il precipuoscopo di prevenire la recidiva in soggetti che abbiano dimostrato una elevatapericolosità sociale. In determinati casi di recidiva di reati più gravi,l’‘‘extenced sentence’’ è obbligatoria e comporta ex lege la sanzione detentivaa vita (pag. 166).Germania e Portogallo, invece, contemplano disposizioni analoghe aquella italiana dell’art. 133 c.p..Si segnala in particolare la presenza nell’ordinamento tedesco, come inquello italiano, del principio, di matrice giurisprudenziale, del ne bis inidem sostanziale, in base al quale la medesima circostanza non può essereconsiderata due volte nella commisurazione della pena; viceversa mancauna disciplina analoga a quella italiana delle circostanze di reato, ma rientranonel processo di individuazione della pena istituti che nella topografiadel codice <strong>penale</strong> italiano sono collocati perlopiù tra le forme di manifestazionedel reato o di valutazione dell’elemento soggettivo. Questi sono iltentativo, il reato omissivo improprio, la partecipazione piuttosto che l’autoria,l’errore evitabile sul fatto e sul divieto, nonché il tentativo inidoneo.Per ciascuno di essi il legislatore tedesco indica la facoltatività o meno delladiminuzione e la misura. Altre circostanze entrano nella valutazione delgiudice se suscettibili di essere ricondotte agli ‘‘esempi di regola’’, nei casidi particolare gravità o tenuità (Regelbeispiele; besonders schwere Fälle eminder schwere Fälle).Difficilmente potrà superare i limiti edittali il giudice spagnolo inquanto la presenza di circostanze attenuanti o aggravanti determina soltantouno spostamento rispettivamente verso il basso o verso l’alto nellospazio discrezionale tracciato dal quadro edittale. Solo ipotesi previste dallalegge permettono il superamento di tali limiti.L’autrice rileva la mancanza in Francia e in Russia di un obbligo generaledi motivazione della decisione in relazione alla commisurazione dellapena, fanno eccezioni per la Francia le condanne a pene detentive per minorie le ipotesi in cui viene negata la sospensione condizionale della pena(pag. 159).Viene affrontato infine il tema del concorso di reati quale istituto ingrado di influire in modo rilevante sulla quantificazione della pena. La disciplinaapprontata dai paesi europei è varia: è regolato in ciascun ordinamentoil concorso formale e materiale, pure nella forma di reato continuato.Anche se non coincidono perfettamente i termini della questione,– Spagna e Croazia ad esempio definiscono il reato continuato con sfumaturedifferenti –, le relative discipline convergono nella previsione del cu-


RECENSIONI E SCHEDE485mulo giuridico e materiale, individuando limiti massimi lievemente differentida Stato a Stato. In particolare per quanto concerne la disciplinadel cumulo giuridico, nel caso concorrano pene di specie diversa, talunipaesi adottano il principio della combinazione tra pene, altri quello dell’assorbimentoo dell’assimilazione nella pena più grave. Da segnalare la disciplinafrancese che lega le sorti del concorso di reati alla vicenda processualeche ne consegue: se le contestazioni sono plurime nel medesimo processo siavrà tendenzialmente un’unica pena.Non si riscontrano, invece, in Inghilterra istituti analoghi: se sono contestatipiù reati la giurisprudenza è solita ricorrere ad una single transaction,che sfocerà nella condanna ad un’unica pena (concurrent sentence). L’alternativa,rappresentata da più condanne ad una serie di pene ridotte, vienepraticata solo se ragioni di politica criminale lo consigliano (consecutive sentence)(pag. 176).Dopo aver trattato delle varie tipologie di pene e delle loro modalità d’esecuzione,vengono in rilievo le cause di estinzione della pena. Viene datospeciale rilievo all’istituto della sospensione condizionale della pena, che ricopresenz’altro un ruolo di primo piano in diversi ordinamenti europei inquanto influisce sull’effettività e sulla certezza della pena. L’autrice concentraimmediatamente l’attenzione sul punto dolente dell’istituto: concepitoin origine per favorire il reinserimento dei soggetti più allo sbando, essoè divenuto un meccanismo di automatica applicazione a prevalente beneficiodei c.d. colletti bianchi. In generale, si deve rilevare come, per questo tipo dicausa estintiva della pena, assumano importanza le prescrizioni che l’accompagnanoe la cui inosservanza può determinare la revoca del beneficio. Taleimportanza è senz’altro giustificata dalla loro particolare idoneità ad assolverealla funzione risocializzante e rieducativi del condannato.Il panorama europeo mostra un’ampia gamma di cause estintive dellapena: anche queste vanno lette nell’ottica di soluzioni alternative al carceredi breve durata. Così troviamo l’‘‘ammonimento’’ in Germania, Croazia eSlovenia, che consiste in un accertamento della colpevolezza al quale nonviene fatta seguire l’esecuzione della pena, perché ritenuta inopportuna.In Portogallo, Inghilterra e Francia ‘‘la dispensa da pena’’ o discharge, aiquali corrisponde l’istituto tedesco della ‘‘rinuncia alla pena’’. Altrimenti,se è necessario un periodo di osservazione o di tempo per consentire il risarcimentodel danno, è previsto da Francia e Portogallo ‘‘il differimento odilazione della pronuncia di condanna’’, proprio nell’ottica di non giungerea tale pronuncia. Infine viene posto l’accento sul release o rilascio, causaestintiva del diritto inglese caratterizzata da una marcata discrezionalitàdell’Home Secretary per le ipotesi relativamente gravi (pag. 192).Il lavoro si chiude con l’esposizione della disciplina della responsabilitàdelle persone giuridiche. L’approccio comparatistico all’argomento risultaalquanto illuminante, trattandosi di una materia che ha ricevuto unaregolamentazione solo negli ultimi anni, proprio dietro le spinte dell’evolu-


486RECENSIONI E SCHEDEzione del contesto giuridico europeo verso un mercato unico. L’aspetto piùproblematico del tema è rappresentato dal superamento del principio dellapersonalità della responsabilità <strong>penale</strong>, che consacrava l’intangibilità deldogma societas delinquere non potest (pag. 200).Il panorama europeo delle soluzioni adottate rispecchia i modelli possibili:il modello italiano di una responsabilità autonoma e diretta dell’ente,il modello francese, secondo l’interpretazione giurisprudenziale, di una responsabilitàindiretta e dipendente dall’individuazione di una persona fisicaautrice dell’illecito; il modello tedesco di una responsabilità amministrativa.La comparazione viene estesa all’ordinamento statunitense, cherappresenta l’archetipo per la disciplina italiana, soprattutto per la soluzioneofferta ai problemi d’imputazione del fatto all’ente.Il D.lgs. 231/2001 s’ispira al sistema delle compliance governamentsche rappresentano modelli organizzativi e di controllo atti a prevenire lacommissione di reati per mezzo dell’ente: laddove questo ne risulti carente,ed il reato è commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente, l’illecito saràperciò ad esso imputabile (pag. 214).L’altro aspetto di rilevante interesse della disciplina è la varietà delle sanzioniche risultano applicabili all’ente: oltre alla previsione di sanzioni pecuniarieda irrogare secondo il sistema delle quote di matrice tedesca, sono contemplatediverse sanzioni interdittive, che ricalcano nei contenuti le pene accessorie,ma appartengono in questo settore alla gamma delle sanzioniprincipali. L’autrice non manca di evidenziare le incongruenze della disciplinaitaliana, che ha escluso i reati societari dalle ipotesi sanzionabili mediantepene interdittive e ne ha altresì limitato l’ambito applicativo ai reatimeno importanti: sono rimasti lettera morta nella legge delega i reati ambientalie relativi alle violazioni della normativa sugli infortuni sul lavoro.Maddalena GrassiEnrico Mario Ambrosetti, Abolitio criminis e modifica della fattispecie,Padova 2004, pp. X-265.Il complesso e dibattuto tema della successione della legge <strong>penale</strong> neltempo (art. 2 c.p., soprattutto nei commi 2 e 3), di recente – in particolarea seguito di rilevanti modifiche di parte speciale – è stato oggetto di unagrande attenzione da parte della dottrina, che si è tradotta in una copiosaproduzione scientifica, con differenti impostazioni e conclusioni. Profondicontrasti interpretativi non mancano tuttavia anche in giurisprudenza,tant’è che le stesse Sezioni Unite di Cassazione, chiamate a pronunciarsi


RECENSIONI E SCHEDE487su questioni diverse, hanno seguito di volta in volta, e anche in un lasso ditempo relativamente breve indirizzi diversi.Senza dubbio il carattere peculiare della letteratura in materia consistenella definizione dei criteri utili per risolvere i delicati e molteplici problemidi diritto intertemporale, con tentativi di elaborare formule universalmentevalide. Si può infatti assumere che, in linea di massima, la dottrina apparedivisa tra chi segue il metodo del ‘‘giudizio in concreto’’ e chi il diverso metododel ‘‘giudizio in astratto’’, a seconda che muovano dalla sussunzionedel fatto concreto sotto le fattispecie astratte ‘‘in successione’’ ovvero dalconfronto ‘‘in astratto’’, in sé e per sé preso, di queste ultime, senza la mediazionedel fatto concreto. La giurisprudenza invece, almeno apparentemente,mostra di propendere per il metodo del giudizio in astratto.La generale distinzione tra i metodi considerati tuttavia non semprecostituisce un riferimento esaustivo nel chiarire l’effettivo significato deisingoli e numerosi contributi rinvenibili in dottrina. Sentita è l’esigenzadi approcci sistematici che consentano una completa e approfondita ricognizionedella materia. Non poche volte il lettore rischia di smarrirsi in unvero e proprio dedalo di criteri, sottocriteri e relative definizioni, con difficoltàdi orientarsi adeguatamente e di rinvenire una univoca e convincentesoluzione dei casi pratici.Alla monografia di Ambrosetti va riconosciuto il grande merito di esaminarecompiutamente lo spinoso tema, con una linearità di sviluppo che siaccompagna ad una rigorosa e chiara sequenza logico-ricostruttiva. Il lavoroprende le mosse da una analisi sistematica e consapevole del panorama dottrinario,giacché, come precisa lo stesso Autore, la comprensione delle numerosetesi elaborate dalla dottrina in materia è essenziale per verificare la concretaattuazione che la giurisprudenza ha fatto delle tesi medesime e quindianche la loro validità pratica. Il lavoro non manca altresì di una attenta edapprofondita analisi della letteratura tedesca, anche la più recente. Dapprimal’Autore esamina il metodo del ‘‘giudizio in concreto’’, seguito daautorevole dottrina, e pur tuttavia oggetto di critiche vivaci da parte di moltiautori che preferiscono il diverso metodo del giudizio in astratto e che, comeAmbrosetti, ritengono che il ‘‘giudizio in concreto’’ finirebbe con il violare ilprincipio di irretroattività della norma incriminatrice. L’Autore approfondiscepoi il significato del ‘‘giudizio in astratto’’, sempre con attenzione alladottrina tedesca; metodo che, ancorché largamente seguito da dottrina e giurisprudenza,ha comunque dato luogo a infiniti contrasti interpretativi tra glistessi suoi sostenitori. Il denominatore del ‘‘giudizio in astratto’’ è stato infattidiversamente concepito a seconda che il confronto tra le norme sia stato intesoin una prospettiva meramente sostanzialistica (teoria della ‘‘continuitàdel tipo d’illecito’’) ovvero in una prospettiva formalistica (teoria della pienacontinenza e teoria del confronto strutturale), o infine in una prospettivavolta ad integrare i detti criteri. In particolare la teoria della ‘‘continuitàdel tipo d’illecito’’, di provenienza tedesca, ravvisa un rapporto di continuità


488RECENSIONI E SCHEDEtra le norme qualora mantengano una identità di bene giuridico, e, secondoalcuni autori tedeschi, anche di modalità di aggressione. L’impostazione, diversamenteche in Germania, ove può considerarsi prevalente perlomeno inambito dottrinario, non ha avuto largo seguito tra gli esponenti della dottrinaitaliana, e ciò soprattutto in ragione della incertezza applicativa che deriverebbedalla sua adozione. La teoria della ‘‘piena continenza’’ supera le obiezionimosse al criterio della continuità del tipo d’illecito basando il confrontotra le norme sul piano strutturale e in particolare ravvisando una ‘‘continuitànormativa’’ tra le medesime nell’ipotesi in cui la nuova norma risulti pienamentecontenuta nella precedente. Ambrosetti esamina le critiche mossedalla dottrina a quest’ultima impostazione, in particolare richiamandosi a Padovani,il quale ha criticato il metodo della ‘‘piena continenza’’ per il suo carattereriduttivo, giacché anche l’ipotesi inversa, in cui la successiva normasia generale rispetto alla precedente, sarebbe comunque sussumibile sottoil comma 3 dell’art. 2 c.p. In linea di principio dunque là dove risulti un rapportodi specialità tra le norme in successione dovrà ravvisarsi una ‘‘continuità’’normativa tra le medesime, che consente di applicare il comma 3 dell’art.2 c.p. Da ultimo la giurisprudenza si è orientata nel senso di un confrontostrutturale tra le norme di carattere prettamente formale, anche senon mancano voci sia in dottrina che in giurisprudenza che assumono il confrontotra norme nella duplice prospettiva formale e sostanziale.I contrasti interpretativi sorti tra i fautori del ‘‘giudizio in astratto’’ siripetono in giurisprudenza, con le relative e notevoli incertezze applicative.Ambrosetti, nell’analizzare le più importanti pronunce giurisprudenziali,mira appunto a raggiungere l’obiettivo propostosi di verificare la validitàconcreta dei metodi elaborati, nonché l’uso specifico che di essi viene fatto.Perciò l’Autore dedica una particolare attenzione alle fondamentali sentenzedelle Sezioni Unite del 1990, sull’interesse privato in atti d’ufficio,del 2000, in materia tributaria, del 2003, relativa alle questioni sollevatedal d.lgs. 61/2002 (false comunicazioni sociali e bancarotta impropria),le quali rappresenterebbero le ‘‘pietre miliari’’ di un percorso interpretativoche ha come esito la valorizzazione della prospettiva del confronto strutturaletra norme. Secondo l’Autore, la pronuncia del 1990 solo parzialmenteaccoglierebbe il criterio della c.d. ‘‘continuità del tipo d’illecito’’, facendoappunto riferimento all’identità di bene giuridico e delle modalità dell’offesa.La pronuncia relativa ai reati tributari seguirebbe, almeno in via programmatica,il criterio del confronto strutturale delle norme sia di caratteresia formale, che sostanziale. Diversamente la sentenza del 2003 relativa allefalse comunicazioni sociali concepirebbe il confronto strutturale in una accezionec.d. ‘‘pura’’, di carattere esclusivamente formale, senza alcun riferimentoai contenuti valutativi delle norme. Da ultimo l’Autore si soffermasulla vicenda successoria relativa alla fattispecie di oltraggio, diversa dalleprecedenti in quanto riguarderebbe – per utilizzare la terminologia dell’Autoremedesimo – una ipotesi di c.d. ‘‘abrogazione secca’’, fenomeno


RECENSIONI E SCHEDE489successorio che almeno formalmente divergerebbe da quello della mera‘‘sostituzione’’ di una fattispecie ad altra precedente.Nel suo attento vaglio critico l’Autore riconosce come spesso la SupremaCorte, pur proclamandosi fautrice del metodo del ‘‘giudizio inastratto’’, in definitiva finisca con l’adottare l’avverso metodo del ‘‘giudizioin concreto’’.Dopo l’analisi giurisprudenziale l’Autore si preoccupa di ricostruire itermini del problema in particolare tracciando i confini, differenti a secondadei canoni interpretativi forniti dalle diverse teorie esaminate, tra i fenomenisuccessori inquadrabili nella c.d. abolitio criminis e quelli riconducili invecead una abrogazione parziale. Ambrosetti si sofferma in particolare sul metodo– preferito – del ‘‘giudizio in astratto’’ inteso quale confronto strutturale‘‘puro’’ tra le norme, anche in adesione all’approccio seguito dalla sentenzadelle Sezioni Unite del 2003, sulle false comunicazioni sociali. L’Autore fa lasua scelta dopo aver escluso non solo il giudizio in concreto, ma anche, nell’ambitodello stesso giudizio in astratto, il criterio basato sulla c.d. ‘‘continuitàdel tipo d’illecito’’, e quello c.d. ‘‘misto’’ del confronto strutturale e valutativodelle norme in successione, in ragione della incertezza applicativache deriverebbe dalla adozione di tali metodi. L’indagine di Ambrosetti inmerito all’inadeguatezza del metodo della ‘‘continuità del tipo d’illecito’’tiene altresì conto dell’esperienza giurisprudenziale tedesca. Infine l’Autoreapproda al criterio della sentenza delle Sezione Unite del 2003 del confrontostrutturale ‘‘puro’’ tra le norme, in cui il mutamento dell’oggettivà giuridica,sempre secondo la Suprema Corte, assume rilievo solo in quanto <strong>indice</strong> univocodi una volontà legislativa totalmente abolitrice. Secondo Ambrosettil’alternativa tra confronto strutturale e ‘‘giudizi di valore’’ sarebbe solo apparente,in quanto ‘‘il mutamento dell’oggettività giuridica si trasfonde inevitabilmentenegli elementi strutturali connotanti la nuova figura criminis’’; diconseguenza l’interprete che abbia compiuto il confronto strutturale tra lefattispecie non dovrà procedere ad altri controlli di carattere valutativo,dal momento che questi non possono ‘‘portare a risultati ermeneutici diversida quelli già raggiunti’’. Secondo l’Autore il metodo del confronto strutturale‘‘puro’’ sarebbe dunque l’unico che consente di difendere le istanze di oggettivitàe legalità connaturate alla materia in questione.Al di là della prospettiva assunta e del metodo che si voglia seguire nell’applicazionedell’art. 2 co. 2 e 3 c.p. [una mia personale indagine (La fattispecie‘in divenire’ nella disciplina della legge <strong>penale</strong> nel tempo) giungeappunto a conclusioni differenti] emerge in piena luce che la monografiadi Ambrosetti costituisce l’esito di una approfondita e pregevole analisidel problema, che non manca di fornire molteplici e importanti ragionidi riflessione e sviluppo verso un compiuto avanzamento dello studio dellacomplessa materia.Silvia Massi


490RECENSIONI E SCHEDEVittorio Manes, Il principio di offensività nel diritto <strong>penale</strong>. Canone dipolitica criminale, criterio ermeneutico, parametro di ragionevolezza, Torino,Giappichelli Editore, 2005, pp. XVI-329.Il volume si inserisce nella collana ‘‘Itinerari di Diritto Penale’’ direttada Giovanni Fiandaca, Enzo Musco, Tullio Padovani e Francesco Palazzo.L’Autore, con tale lavoro, offre un’approfondita analisi del ruolosvolto dal cosiddetto ‘‘principio di offensività’’ nel nostro sistema giuridico.Per fare ciò, nei primi due capitoli, viene presentato al lettore un attentostudio della genesi del principio stesso, con puntuale riferimento alleteorie che hanno nel tempo modellato il concetto di bene giuridico –nonché alle relative critiche – ed, in particolare, alla ‘‘teoria costituzionalmenteorientata del bene giuridico’’ di Franco Bricola.L’esito di tale analisi è la constatazione di un evidente indebolimentonel tempo, ed in particolare in relazione a recenti vicende della politica criminale,del principio di offensività.Il terzo capitolo presenta quindi un’accurata analisi della crisi che haprogressivamente investito il principio in esame, per tornare ad evidenziarela necessità di un ancoraggio costituzionale dei beni giuridici, sulla scorta diuna Costituzione aperta, che accolga la necessaria ‘‘contestualizzazione delbene giuridico nella coscienza collettiva’’, con la conseguente concretizzazioneed attualizzazione del medesimo testo costituzionale.Nella seconda parte del volume, nel primo capitolo, viene analizzata laposizione della Corte Costituzionale in relazione alla suddetta teoria costituzionalmenteorientata del bene giuridico ed, in generale, al principio dioffensività, e viene sottolineato come, in realtà, tale principio non sia maistato usato dalla Consulta come parametro diretto ed autonomo per dichiararel’illegittimità di una fattispecie incriminatrice, ed abbia ceduto soventeil passo ad un canone di ragionevolezza, divenuto principale paradigma digiudizio della Corte Costituzionale.Contestualmente, però, viene anche segnalata una recente e importantetendenza della Corte stessa verso nuove aperture nei confronti diun ‘‘controllo di costituzionalità orientato ad una revisione aggiornata deglioggetti di tutela’’.Gli ultimi due capitoli offrono quindi un’ulteriore analisi del principioin esame, in un’interessante ottica di valorizzazione dell’offensività comeprincipio interpretativo e come parametro di valutazione della ragionevolezza.L. B.


VECCHIE PAGINE491Vecchie pagineREALTÀ MATERIALE E REALTÀ GIURIDICA NEL PROCESSOSECONDO <strong>IL</strong> PENSIERO DI FRANCESCO CARRARAFrancesco Carrara (1805-1888), allievo di Francesco Carmignani (iuriscriminalis elementa, Teoria delle leggi della sicurezza sociale), fu – alla metàdel XIX secolo – il fondatore della cosiddetta ‘‘Scuola classica’’ del diritto<strong>penale</strong>.Il lucchese, con la Sua monumentale opera (Programma di diritto criminale),contribuì, come è noto, all’affermarsi di una visione etico-retributivadella pena.Egli appartiene ai padri fondatori del diritto <strong>penale</strong> moderno in Italia,unitamente a Gaetano Filangieri (Scienza della legislazione), a Mario Pagano(Sul processo criminale), a Pellegrino Rossi (traité du droit. criminel)ed a Giandomenico Romagnosi (Genesi del diritto <strong>penale</strong>) il quale ultimo,con il Principe di Satriano, probabilmente tutti li sorpassa per profonditàdi pensiero e per spessore dogmatico.Pur se a quei tempi l’insegnamento del diritto <strong>penale</strong> era unitario, nelsenso che non esisteva la separazione, anche a livello di cattedre, fra dirittosostanziale e diritto processuale, l’attenzione al profilo processuale era intensa.Ciò può essere intuitivamente compreso, considerato che il processo,come d’altronde qualsiasi atto contenzioso, tende in definitiva a ripristinareil diritto, attraverso l’accertamento della verità. È questo un passaggio necessario,salvo, forse, il solo caso del procedimento <strong>penale</strong> contro un reoconfesso; anche se pure in questo caso è necessario, quantomeno, verificareche la confessione risponda a verità.La verità rimane il punto di arrivo, e, nello stesso tempo la necessariapiattaforma di partenza di qualsiasi pronunzia giudiziale.Ma sia l’esperienza empirica, sia il dettato dei filosofi ci hanno, ormai,convinto che la verità non è (sempre) un quid assoluto, cartesiano e monolitico.Gli psicologi hanno dimostrato che la realtà stessa si deforma nella memoriae diviene la ‘‘realtà del soggetto’’ e, che, col trascorrere del tempo, siallontana sempre più da quella oggettiva.Non solo i tecnici del diritto, ma, anche, i letterati e gli scrittori ci


492VECCHIE PAGINEhanno messo in guardia dal riporre una fiducia cieca non solo nelle risultanzeprocessuali, ma, perfino, nei mezzi canonici usati per acquisire leprove ed in definitiva, quindi, nelle prove stesse.Francesco Carrara – uno dei padri del moderno diritto <strong>penale</strong> italiano– nutriva evidentemente qualche riserva sul grado di assimilazione che igiudici e i giurati presentano di fronte alle testimonianza rese in dibattimento.Infatti, durante una lezione, affermò che i magistrati devono prestarela massima attenzione a quanto dicono i testimoni e pesare attentamentele loro parole. A convalida della sua tesi portò questo esempio:‘‘Sulla riva di uno stagno vi sono tre rane. Ad un certo punto una di questedecide di buttarsi in acqua. Quante ne restano sulla sponda?’’ ‘‘Due’’, risposel’uditorio. ‘‘È perché? Io ho detto che decide di buttarsi in acqua,non che ci si è buttata effettivamente’’.Il criminologo francese Edmond Locard ha scritto ‘‘se in assoluto nonesistono falsi testimoni, non esistono, nemmeno, testimoni assolutamentesinceri’’. A ciò, lo scrittore francese, Jean Bruce aggiunge: ‘‘Tre quarti dellagente non sa vedere, non sa dire. Interpreta male per effetto di uno stimoloemotivo, per turbe della memoria; l’immaginazione fa il resto’’.Altrove Locard ha affermato dell’indizio che ‘‘se non dice tutta la verità,dice soltanto la verità’’.È stato anche detto che un alibi è inoppugnabile in tribunale, ma, giudicandocon senso pratico, è la difesa meno degna di fede di tutte, poichébastano due soli bugiardi a convalidarla.Edgar Allan Poe scrive: ‘‘Moltissimo di ciò che è stato respinto comeprova da un tribunale è la prova migliore per l’intelletto. Le Corti di giustizia,infatti, lasciandosi guidare dai principi generali della prova, principiriconosciuti e sanciti nei libri, sono aliene dal deviare di fronte a casi particolari.E questa fedele aderenza al principio, accompagnata dal più rigorosodisprezzo per l’eccezione ribelle, è un mezzo sicuro per raggiungere ilmaximum di verità raggiungibile in ogni lunga successione di tempo. Laprassi, in massima, è pertanto filosofica ma non è, per questo, meno certoche essa non sia causa di grandi errori in casi speciali’’.Ed a ciò fa riscontro quanto affermato da Walter Savage Landor (citatodal medesimo E. A. Poe): ‘‘Una teoria che si basi sulla qualità diunoggetto impedirà che essa sia spiegata secondo gli oggetti ai quali si addica;e colui che classifica dei fatti in riferimento alle loro cause cesserà di valutarlisecondo il loro significato. Così la giurisprudenza (n.d.r. sta evidentementeper ‘‘legislazione’’) di ogni nazione dimostra che quando il dirittodiviene scienza e sistema esso cessa di identificarsi con la giustizia. Gli erroriin cui un attaccamento cieco ai principi di classificazione ha fatto incorrereil diritto comune, si osserveranno notando come spesso la legislatura(n.d.r. intende ‘‘il legislatore’’) è stata costretta ad intervenire onde rimetterein onore l’equità che i suoi architettamenti avevano calpestata’’.Tutti questi avvisi e moniti hanno messo in evidenza il dato che la spe-


VECCHIE PAGINE493ranza di ottenere da un procedimento <strong>penale</strong> la verità assoluta e quindi – indefinitiva – l’affermazione della giustizia non sempre si può avverare. Ed èproprio per l’inconoscibilità oggettiva della verità che il diritto non puòcoincidere (necessariamente) con la giustizia.Questo aspetto della questione lo si coglie molto bene con unesempio paradigmatico. Tempo fa si celebrò avanti una Corte d’assise ilprocesso per omicidio volontario contro due coniugi, accusati di aver uccisoun uomo. L’accusa riuscì a provare che uno dei due era il reo, manon quale dei due lo fosse effettivamente. La sentenza fu, ovviamente, liberatoriaper tutti e due. È chiaro che, assolvendo entrambi, giustizia nonè stata fatta. Ma se i giurati avessero tirato a testa o croce, i casi sarebberostati due. O avrebbero condannato un innocente – e giustizia non sarebbestata fatta – oppure, cogliendo la verità, avrebbero condannato l’effettivocolpevole; ma in questo caso la giustizia avrebbe trionfato a scapito deldiritto.È, quindi, necessario rassegnarsi: non potendo avere sempre la giustizia,è pur meglio salvaguardare costantemente il diritto, perché questonon esclude quella, mentre l’insistenza nella ricerca della prima distruggeinevitabilmente il secondo.E quanto di meglio si può fare in tal senso è di attenersi rigidamente,sostenendola, alla validità del principio della cosa giudicata.Nessuno, infatti, può in realtà sapere con certezza se un giudicato corrispondaalla verità oggettiva o meno. E allora è necessario sostituire la veritàlegale all’inconoscibile realtà materiale, cosicché la prima assorbe (tenendoluogo della) la seconda.E questa antinomia fra diritto e giustizia è risolubile in un solo modo:attraverso la certezza del diritto. Poiché, infatti, la verità materiale – checorrisponderebbe alla giustizia – alle volte non è conoscibile, è necessariosostituirla con la verità giuridica. L’unica soluzione rimane, dunque, lacompleta adesione al principio della res iudicata. ‘‘Certezza’’ deriva infattida ‘‘certamen’’, come ci rammenta l’Addamiano. La contesa giudiziariasfocia necessariamente in una certezza: il giudicato. Questo è il supportotecnico-logico del principio della res iudicata. Edèproprio perché la realtàgiuridica si può dissociare dalla realtà materiale che il giudicato assume caratteredi assolutezza e di intangibilità, tenendo luogo della verità effettiva.La genesi stessa del principio della cosa giudicata ci chiarisce la sua funzione.Il concetto trae, infatti, giustificazione dalla necessità – sentita giàin epoca romana – di non dovere continuamente giudicare de eadem re,ossia su una stessa vicenda (divieto di rem acta agere; res acta est; actumest; bis de eadem re ne sit actio; exceptio rei iudicatae), e, ciò per il duplicemotivo del discredito che l’infinita ripetizione dei giudizi sulla medesimamateria avrebbe portato all’amministrazione della giustizia, e, quindi, in definitivaallo Stato (interest rei pubblicae ut sit finis litium), e per le ragionipratiche che stanno a fondamento della certezza del diritto, la cui messa in


494VECCHIE PAGINEcrisi si risolverebbe in definitiva in un endemico malessere sociale, comeosserva Cordero.Ovviamente i giuristi si posero il problema del ‘‘ giudicato ingiusto’’,ma anch’esso venne risolto nel senso che il giudicato prevale sulla verità.Rufino affermò che ‘‘res iudicata praejudicat veritati’’ e per i glossatori(quaestiones de iuris subtilitatibus) il giudicato non era equiparato a unaprova, ma era ritenuto qualcosa che rendeva superflua la prova o la impediva.Che, peraltro, il concetto di giudicato, espresso nel ditterio ‘‘res iudicatapro veritate habetur oppure accipitur’’, sia una fictio è evidente, e lo sidesume, oltrettutto, dall’affermazione della dottrina ‘‘In ambiguitatibus,quae ex lege proficiscuntur rerum judicatarum auctoritas vim legis obtinet’’.Il risultato di un processo è un’astrazione, se proprio non vogliamo definirlouna finzione. Ciò, peraltro, trae giustificazione da varie cause. Innanzitutto,come già osservato, dalla necessità (per scopi pratici e ‘‘politici’’)di non dovere giudicare all’infinito (Maupoil rileva che si giudicaper non dover più giudicare); ed inoltre dall’esigenza della certezza del diritto.È qui, appunto, che si salda il contrasto fra l’aspirazione ad assicurare(il più possibile o comunque per quanto umanamente possibile) la conformitàdelle sentenze a giustizia e l’esigenza della certezza del diritto. Ciò èespresso, in maniera assai chiara, dal Carnelutti quando afferma che la certezzadel diritto deve avere il sopravvento anche sulla sostanziale conformitàal vero di una decisione e aggiunge:‘‘Vi sono liti le quali tolleranomeglio la soluzione ingiusta, perché esigono più intensamente la soluzionerapida e viceversa... normalmente il problema si risolve mediante l’ammissionedi una possibilità di rimedi limitata’’.Ma vi è un altro motivo a sostegno. Ed è che, poiché scopo istituzionaledel giudice è la ricerca della verità, non sarebbe concettualmente ammissibileche la sua definitiva pronunzia non fosse la verità; essa non puòessere altro che la verità, altrimenti cadrebbe la credibilità nella funzionegiudiziaria e, con essa, il concetto stesso di diritto.D’altronde l’attributo di ‘‘fictio veritatis’’ non è peculiare alla (sola)cosa giudicata, essendo connesso anche con la figura delle presunzioni legaliassolute (iuris et de iure). Esse, infatti, non ammettendo ex lege la provacontraria, fanno si che un determinato fatto sia considerato come vero aglieffetti della realtà giuridica, prescindendo dalla sua concreta rispondenzaalla verità effettiva.Il giudicato viene, quindi, considerato come un punto fermo, assume ilsignificato di colonna portante nel sistema processuale, e ciò è logico edevidente. Già il giurista romano Ulpiano, d’altronde, ammoniva che bisognaattenersi ai giudicati: ‘‘Rebus enim iudicatis standum est’’. L’ossequio,quindi, ed il rispetto per il valore del giudicato deve essere assoluto perchéogni dubbio in proposito significherebbe un cedimento nell’intero sistemagiustpositivo. E non è questo un punto tanto dogmatico quanto pragmatico.Il diritto è uno strumento, l’intera costruzione giuridica un artefatto:


VECCHIE PAGINE495si può, quindi, se lo si decide o se lo si ritiene, farne a meno. Ma se lo si usabisogna dargli credibilità e concedergli affidamento: il contrario sarebbe illogico,come sarebbe assurdo manomettere l’auto della quale ci si è, comunque,decisi di servirsi.Qualsiasi critica, quindi, alla costruzione giuridica o a suoi settori ècontroproducente anche se fattibile, peraltro con la limitazione puntualizzatadal Kelsen, secondo la quale il giurista che si pone in posizione criticanei confronti di una norma giuridica cessa di essere tale, trasformandosi inpolitico. (D’altronde, già Beccaria aveva asserito che al giudice spetta applicarela legge e non tentare di modificarla secondo il proprio criterio). Ciòvale, evidentemente e, diremmo, in modo particolarmente intenso, perl’autorità del giudicato e si riverbera di conseguenza su tutta la sequenzadi atti, fatti, strumenti e mezzi che lo hanno prodotto. Così, ad esempio,si insiste spesso sull’espressione ‘‘una fra le possibili interpretazioni’’. Maperché ‘‘una fra le possibili’’? Poiché dall’interpretazione utilizzata per decidereuna particolare controversia è scaturita una sentenza, passata che siaquesta in giudicato, la qualifica di verità che caratterizza la sentenza, siestenderà all’interpretazione, rendendola non ‘‘una delle’’ ma la sola possibilenel caso di specie. E la ragione dell’importanza annessa all’autoritàdella cosa giudicata sta nel fatto che essa è l’unico ponte di collegamentofra esigenza di giustizia e necessità della certezza del diritto.In particolare, in ambito <strong>penale</strong>, va anche rilevato che, in ragione dellacaratteristica intrinseca di questa branca del diritto (l’esplicazione dello iuspuniendi) l’ossequio alla autorità del giudicato deve essere tanto più forte inquanto più profondi sono i suoi effetti sul piano umano, e, soprattutto, peril fatto che esso non conosce (né lo potrebbe) vie mediane: o assolve o condanna.Da questo punto di vista è evidente la differenza col diritto civile, ilcui scopo ultimo, in definitiva, non è tanto il raggiungimento della veritàquanto il ripristino dei diritti lesi.Naturalmente qualunque prodotto ha significato in funzione del valoredegli elementi da cui deriva. Se quindi si deve (e si è visto che non si puòfare altrimenti) annettere rispetto al giudicato, è ovvio che esso deve ripeterela sua credibilità dalla serietà del procedimento che lo ha generato. Dalche discende quanto auspicato in altra sede, e, cioè che il processo sia strutturatoin termini di rigore giuridico, così da garantire il valore della sentenzache lo compendia.Federico Bellini


NOTIZIARIO497NotiziarioIN LIBRERIAJ. Sallantin, J.-J. Szczeciniarz (a cura di), Il concetto di prova alla lucedell’intelligenza artificiale, Giuffré, Milano, 2005, XXVI-416.M. Papa (a cura di), La riforma della parte speciale del diritto <strong>penale</strong>. Versola costruzione di modelli comuni a livello europeo, Giappichelli, Torino,2005, VIII-238.M.A. Pasculli, La responsabilità da reato degli enti collettivi nell’ordinamentoitaliano, Cacucci, Bari, 2005, 385.T. Padovani, L. Stortoni, Diritto <strong>penale</strong> e fattispecie criminose – Introduzionealla parte speciale del diritto <strong>penale</strong>, Il Mulino, Bologna, 2006,132.P. Pisa, Giurisprudenza commentata di diritto <strong>penale</strong>, Vol. I, Delitti controla persona e contro il patrimonio, IV Ed., Cedam, Padova, 2006, 1225.CONVEGNI, SEMINARI, INCONTRIPisa, Incontro sul Corso di diritto <strong>penale</strong>, parte generale, ‘‘L’insegnamentodel Diritto Penale, Aula Magna Storica del Palazzo della Sapienza, 17marzo 2006, h. 16.30.Trento, Convegno: ‘‘Delitto politico e diritto <strong>penale</strong> del nemico’’, in memoriadi Mario Sbriccoli, Centro Congressi Panorama Sardagna, 10-11 marzo 2006.Milano, Presentazione del volume: ‘‘Viva Vox Constitutionis’’, Sala Crociera,Via Festa del Perdono 7, 24 marzo 2006.Verona, Incontro di Studi: ‘‘Lo stato attuale dei rapporti fra diritto <strong>penale</strong> ediritto comunitario nella prospettiva del trattato che istituisce una Costituzioneper l’Europa’’, Aula Bartolomeo Cipolla, Facoltà di Giurisprudenza,24-25 marzo 2006.Urbino, Convegno: ‘‘Terrorismo internazionale e tutela dei diritti individuali,Aula Magna Facoltà di Giurisprudenza, 5-6 maggio 2006.Parma, Convegno: ‘‘Il Progetto sostituito’’ di G. D. Romagnosi (1806), Facoltàdi Giurisprudenza, Aula dei Filosofi, 20 maggio 2006.Milano, ‘‘Le nuove impugnazioni penali tra Costituzione e diritto vivente’’,Palazzo Greppi, Sala Napoleonica, 22 maggio 2006.


498NOTIZIARIOHanno collaborato nelle rubriche di questo fascicolo:Luigi Stortoni, Professore ordinario di diritto <strong>penale</strong> nell’Università diBolognaDavide Tassinari, Dottore di ricerca in diritto e processo <strong>penale</strong> – Universitàdi BolognaAndrea Mereu, Cultore di diritto <strong>penale</strong> nell’Università di CagliariLoredana Garlati, Professore associato di storia del diritto medievale emoderno nell’Università di Milano BicoccaFederica Resta, Dottorando di ricerca in diritto <strong>penale</strong> – Università diFoggiaFrancesco Callari, Cultore di diritto processuale <strong>penale</strong> nell’Universitàdi PalermoMarco Mantovani, Professore associato di diritto <strong>penale</strong> nell’Universitàdi MacerataFrancesco Cingari, Assegnista di ricerca in diritto <strong>penale</strong> nell’Universitàdi FirenzeAlessandro Giuseppe Cannevale, Sostituto Procuratore della Repubblicapresso il Tribunale di PerugiaChiara Lazzari, Dottorando di ricerca in diritto pennale dell’economia edell’ambiente - Università di TeramoFrancesco Bochicchio, Avvocato in MilanoGiovanna Fanelli, Dottore di ricerca in diritto <strong>penale</strong> – Università diParmaAndrea Paolo Casati, Assegnista di ricerca in procedura <strong>penale</strong> nell’Universitàdi Milano BicoccaFrancesco Zacchè, Ricercatore di procedura <strong>penale</strong> nell’Università diMilano BicoccaAngela Maria Bonanno, Cultore di diritto <strong>penale</strong> nell’Università diBolognaGuido Camera, Avvocato in BolognaDavide Bertaccini, Dottore di ricerca in criminologia – Università diTrentoMaddalena Grassi, Dottorando di ricerca in diritto <strong>penale</strong> – Universitàdi ParmaSilvia Massi, Cultore di diritto <strong>penale</strong> nell’Università di PadovaFederico Bellini, Commercialista in Milano

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