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Rolling_Stone_Italia__Giugno_2017

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ELECTRO DA STADIO<br />

Incontro Dave Gahan a Berlino, metà<br />

marzo. Inizia da qui – con la fila di<br />

interviste in hotel accanto alla stazione<br />

Zoo e un miniconcerto per la tv alla<br />

Funkhaus – la promozione di Spirit e<br />

del tour mondiale “Global Spirit”. Più<br />

di un milione di biglietti già venduti,<br />

allestimento visivo firmato dal vecchio compagno<br />

di viaggio Anton Corbijn, 22 pezzi<br />

in scaletta (5 dal disco nuovo) e un doppio<br />

climax: Never Let Me Down Again alla fine<br />

della prima parte, Personal Jesus a chiudere<br />

i bis. Uno scherzetto che li terrà impegnati<br />

per qualcosa come un anno e mezzo. «Ci abbiamo<br />

messo parecchio tempo a fare il disco<br />

e sono curioso di sapere come sarà tornare<br />

a fare concerti, stare su un palco», mi dice<br />

Gahan. Sembra sincero. Aggiunge: «Di solito,<br />

verso la fine dei tour, hai voglia soltanto<br />

di tornare a casa. Io tornerò a casa alla fine<br />

della prossima estate. Poi ci sarà qualcosa di<br />

nuovo da fare e questa è la cosa bella della<br />

vita, no? Non sai mai cosa ti aspetta dopo».<br />

È piccolo di statura, gentile nei gesti. Ride<br />

spesso. La voce appena arrochita dal concerto<br />

della sera prima è più morbida e alta<br />

del registro di baritono dark che usa nei dischi.<br />

Fu una sera d’aprile del 1980 che ebbe<br />

il posto nei Depeche Mode. Cantava Heroes<br />

di David Bowie in una sala prove di Basildon<br />

e reggeva bene il salto di ottava che<br />

ti lancia nell’ultima melodrammatica strofa:<br />

“Standing by the Wall”, in piedi davanti al<br />

Muro. «Bowie ha avuto un’influenza enorme<br />

su di me, da ragazzo», ricorda ora. «Ho<br />

imparato a cantare, a essere un’artista, a<br />

scrivere canzoni nello stesso modo in cui lo<br />

faceva lui». Trentasette anni dopo, Heroes<br />

tornerà a sorpresa ogni sera verso la fine<br />

della scaletta dei concerti del “Global Spirit<br />

Tour”. In una versione rispettosissima<br />

dell’originale, intimidita quasi. La chitarra<br />

di Martin Gore si arrampica sull’intreccio<br />

inventato (una notte, proprio qui a Berlino)<br />

da Robert Fripp, mentre un’enorme bandiera<br />

sventola sul grande vidiwall, in bianco<br />

e nero. Nell’ultima strofa, quella difficile,<br />

la voce di Gahan è appena sostenuta dal<br />

pulsare di un sequencer.<br />

«Dopo aver finito il disco abbiamo fatto un<br />

piccolo concerto all’High Line Park di New<br />

York, una performance ripresa dalle telecamere<br />

senza pubblico, di fronte ai tecnici e a<br />

qualche amico. Lì ho fatto Heroes la prima<br />

volta. È venuta bene, molto bene. Ho sentito<br />

la registrazione, ma non ho ancora visto le<br />

immagini, prima o poi le faremo uscire»,<br />

racconta. Vivendo a New York, le strade di<br />

Gahan e quelle di Bowie si erano incrociate<br />

più di una volta. All’High Line Park, Bowie<br />

faceva il direttore artistico di un festival al<br />

quale i Depeche Mode avevano partecipato.<br />

Le figlie piccole di entrambi i musicisti<br />

frequentavano la stessa scuola. «Non sono<br />

mai riuscito a dirgli quanto aveva contato<br />

per me, e quanto contava ancora la sua<br />

musica», aggiunge ora Dave Gahan. E tace<br />

per pudore l’enorme emozione provata nel<br />

cantare di nuovo quella canzone. Accetta<br />

di spiegarcela così: «È una canzone piena di<br />

immagini. E di immaginario: il Muro, Berlino...<br />

Per me è una delle canzoni<br />

che dentro hanno più speranza.<br />

La metto nella stessa categoria<br />

di Imagine di John Lennon. È<br />

quasi la stessa canzone, quando<br />

descrive quest’idea: c’è alienazione,<br />

ci sono differenze, ma c’è<br />

la possibilità di essere eroi per<br />

un giorno solo. Cioè, forse possiamo<br />

farcela a stare assieme. Io<br />

la interpreto così, sempre allo<br />

stesso modo: è attuale e ha ancora la stessa<br />

forza di quando è uscita».<br />

Tra il 1983 e il 1986, all’inizio della loro<br />

lunghissima storia, i Depeche Mode mixarono<br />

tre album agli Hansa Studios. Proprio<br />

quelli dove Bowie cantò Heroes, nella grande<br />

Meistersaal dalla quale si vedeva il Muro che<br />

allora era ancora in piedi. «Tante canzoni<br />

di David Bowie hanno a che fare con l’alienazione,<br />

con il crearsi un altro personaggio<br />

per vivere attraverso di lui. Da quel che ho<br />

capito, Bowie è sempre stato un personaggio<br />

molto più che una rockstar. E anche il mio<br />

compito con i Depeche Mode è sempre stato<br />

quello di mettere un personaggio umano di<br />

fronte alla freddezza dello sfondo», spiega.<br />

Allora si trasferirono tutti per brevi periodi<br />

a Berlino Ovest. Appena 20enni, immersi<br />

nel tempo sospeso della città, tra la macerie<br />

della storia e una vita notturna scatenata,<br />

stavano alloggiati all’Intercontinental Hotel<br />

di fronte allo Zoo, a pochi passi da dove si<br />

svolge quest’intervista. Incrociavano Nick<br />

Cave e gli Einstürzende Neubauten. Avevano<br />

facce da bambini, dicevano di fare<br />

“pop sperimentale” (curioso ossimoro per i<br />

tempi), scrivevano testi di sinistra, usavano<br />

gli strumenti elettronici come apprendisti<br />

futuristi. Girarono il video di Stripped prendendo<br />

a martellate carcasse di macchine a<br />

due passi dal Muro e dagli Hansa Studios.<br />

Delle canzoni che furono mixate a Berlino e<br />

ritornano nella scaletta del “Global Spirit” c’è<br />

Everything Counts: “La mano che arraffa / arraffa<br />

quel può / tutto per lorsignori, dopotutto”.<br />

E c’è Stripped, con quella polarità naïf tra il<br />

fumo della metropoli e il verde dei prati. Un<br />

buffo slogan: “Prendi una decisione / senza televisione<br />

/ Voglio sentirti parlare / soltanto per<br />

me”. Qui traduco letteralmente<br />

IN GIRO<br />

i testi, ma erano tutte canzoni<br />

scritte usando le sole tinte primarie<br />

per usare una metafora da<br />

pittori. «L’elettronica può essere<br />

molto fredda», continua Dave<br />

Gahan. «Noi abbiamo dovuto<br />

affrontare parecchie critiche,<br />

perché non usavamo strumenti<br />

tradizionali. A dire il vero, per<br />

me gli strumenti non sono mai<br />

stati così importanti, forse lo sono stati per<br />

Martin, ma per me l’importante era l’energia<br />

che sapevamo mettere nelle registrazioni<br />

e nei concerti. Poi 20 anni fa, a partire da<br />

Violator, abbiamo cominciato a usare molti<br />

strumenti tradizionali come la chitarra elettrica.<br />

Da allora l’elettronica viene usata in<br />

ogni genere di registrazione, non c’è niente<br />

di strano. Ma prima era strano».<br />

Passando attraverso la techno di Detroit<br />

– Derrick May e Kevin Saunderson li adoravano<br />

–, i Depeche Mode (almeno quanto i<br />

Kraftwerk) sono stati i primi sperimentatori<br />

del suono nel quale la musica pop è immersa<br />

da almeno 30 anni. Chiedo a Gahan per<br />

curiosità cosa pensa di tutto l’autotune<br />

che si sente in giro oggi, se lui – o il suo<br />

“personaggio” lo userebbero: «Ah, se ce ne<br />

PER IL MONDO<br />

I Depeche Mode<br />

sono impegnati<br />

in un tour mondiale.<br />

In <strong>Italia</strong> arrivano<br />

il 25 giugno a Roma,<br />

il 27 a Milano<br />

e il 29 a Bologna.<br />

FOTO MICHAEL CAMPANELLA/REDFERNS<br />

68 ROLLING STONE_GIUGNO <strong>2017</strong>

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