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La Toscana nuova Marzo + POLA

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La Toscana nuova - Anno 4 - Numero 3 - Marzo 2021 - Registrazione Tribunale di Firenze n. 6072 del 12-01-2018 - Iscriz. Roc. 30907. Euro 2. Poste Italiane SpA Spedizione in Abbonamento Postale D.L. 353/2003 (conv.in L 27/02/2004 n°46) art.1 comma 1 C1/FI/0074


Emozioni visive

a cura di Marco Gabbuggiani

Yin e Yang: gli opposti complementari

Testo e foto di Marco Gabbuggiani

Dal punto di vista fotografico, ho sempre amato giocare

con i contrasti. E quando ho scelto di farlo in maniera marcata,

ho sempre utilizzato il bianco e nero. Sono dell’opinione

che la foto in bianco e nero non rappresenti la realtà, la

quale di fatto è a colori. È anche vero, però, che osservare

una foto monocromatica consente ai tanti “colori” della

fantasia di scatenarsi. Come nel caso della foto Yin &

Yang qui pubblicata dove il nero è nettamente distinto dal

bianco anche se ciascuno può miscelarli a suo gradimento.

Un po’ come il giorno che si trasforma in notte o il positivo

che diventa negativo. Quando ho scattato questa foto,

mi ero da poco documentato sulla filosofia cinese dello Yin

e dello Yang, rimanendone colpito. Ecco perché quando ho

visto il volto della mia amica Ilaria Rusignuolo illuminato

soltanto in parte dalla luce che entrava dalla finestra mi si

è accesa una lampadina in testa come ad Archimede Pitagorico.

In un baleno ho creato il set giusto per realizzare

questo Yin & Yang, sicuramente diverso dal simbolo che

viene usato per rappresentarlo. Ne è uscita una foto che mi

ha portato a riconoscimenti e pubblicazioni in tante riviste

del settore e ad affermarmi anche in concorsi internazionali.

Ma cosa sono lo Yin e lo Yang? Si tratta delle due metà

complementari di cui è formata qualsiasi cosa e su cui si

fonda la nostra stessa esistenza. L’equilibrio tra questi due

fattori crea il benessere interiore. Da questa semplice teoria

si sono sviluppate molte discipline in tutto il mondo

con il fine di aiutare le persone a ritrovare questo equilibrio

ideale. Esempi sono le discipline shiatsu, l’agopuntura,

la kinesiologia, la riflessologia plantare, il reiki e tante altre

pratiche. Siamo esseri completi e felici nella misura in

cui riusciamo a far crescere entrambe le parti: il lato destro

che corrisponde al maschile e il lato sinistro che corrisponde

al femminile. Ossia, la parte che ci offre protezione, che

ci aiuta a manifestare i nostri bisogni, e quella che ci fa

riconoscere ed accettare le nostre esigenze. Quella ritratta

nella foto è una situazione dove questo equilibrio è perfettamente

bilanciato e rappresenta la situazione ideale

per raggiungere il benessere. Nessun elemento dell’universo

può essere solo completamente Yin o completamente

Yang. Ognuno dei due elementi contiene il seme del proprio

opposto, come ogni donna porta dentro di sé una parte maschile

e ogni uomo una parte femminile. Così come la notte

non potrebbe esistere senza il giorno e non ameremmo

così tanto la vita se non pensassimo alla morte.

marco.gabbuggiani@gmail.com

Da oltre trent'anni una

realtà per l'auto in Toscana

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MARZO 2021

I QUADRI del mese

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Arte e natura nel Giardino di Daniel Spoerri a Seggiano

Intervista al direttore delle Gallerie degli Uffizi Eike Schmidt

Le fotografie di Paolo Roversi in mostra al MAR di Ravenna

L’Italia cattolica e contadina negli scatti di Pepi Merisio

Sand-up, il gruppo che aiuta a motivare chi lavora in azienda

Karin Monschauer, artista da record nel 2021

Curiosità storiche fiorentine: l’antica numerazione civica

La burrascosa vita sentimentale di Enrico Caruso

Concerto in salotto: Caruso, re dei tenori e caricaturista

Firenze, città di fantasmi nel libro di Elena Giannarelli

La passione per la pittura nell’intervista ad Enzo Mauri

Il viaggio metafisico delle vite nel libro di Esther Diana

Nel cuore della natura con Kinga Lopot Dzierwa

L’arte di scrivere per il teatro spiegata da Alessandro Riccio

A Grosseto la mostra omaggio allo scultore Sauro Cavallini

L’avvocato risponde: dall’altare al tribunale, la separazione dei coniugi

Dimensione salute: l’ossessione per il controllo del peso corporeo

Psicologia oggi: sovrappeso e bulimia, quando il piacere avvelena

I consigli dell’osteopata: il dolore alla spalla, cause e rimedi

I consigli del nutrizionista: come rinforzare le difese immunitarie

Firenze e la Toscana ripartono con Life Beyond Tourism

Alessandro Ciantelli: la persistenza della memoria

Vivere, il primo libro di racconti di Franca Giangeri

L’emozione della natura nelle opere di Claudio Bontà

Allegorie e simboli del magico mondo di Odara

La voce dei poeti: le liriche di Antonietta Gioscia

Miracoli, il viaggio indietro nel tempo di Lilly Brogi

MAE: dalla Sardegna a Firenze, l’eleganza del fatto a mano

Stephanie Holznecht alla conquista del mercato dell’arte

Davide Berti, paesaggista toscano fra tradizione e modernità

La tutela dell’ingegno: licenza obbligatoria sul brevetto anti Covid

Tokyo Godfathers, il romanzo sociale di Satoshi Kon

Di-segni astrologici: empatia ed altruismo dei Pesci

La Fiorentina secondo il super tifoso viola Giancarlo De Sisti

Toscana a tavola: lonza di maiale alla medievale

Storia delle religioni: commento all’Enciclica di Papa Francesco

Haiku, la nuova raccolta poetica di KristiPo

Le origini radiofoniche del Festival di Sanremo

Da Livorno alla Cina con la società di logistica F.lli Colò

Il presente post pandemia della rosticceria La Nuova Luna

B&B Hotels Italia: l’apertura di un nuovo albergo a Cortina

Arte del gusto: vitigni toscani per i vini della terra dei nuraghi

Benessere della persona: curare la pelle al cambio di stagione

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Periodico di attualità, arte e cultura

La Nuova Toscana Edizioni

di Fabrizio Borghini

Via San Zanobi 45 rosso 50126 Firenze

Tel. 333 3196324

lanuovatoscanaedizioni@gmail.com

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Anno 4 - Numero 3 - Marzo 2021

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Testi:

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Luciano Artusi

Ricciardo Artusi

Ugo Barlozzetti

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Giancarlo Bianchi

Margherita Blonska Ciardi

Erika Bresci

Doretta Boretti

Fabrizio Borghini

Lorenzo Borghini

Alessandro Calonaci

Lorenzo Canuti

Viktorija Carkina

Jacopo Chiostri

Silvia Ciani

Alessandra Cirri

Nicola Crisci

Maria Grazia Dainelli

Marco Gabbuggiani

Antonietta Gioscia

Stefano Grifoni

Aldo Fittante

Giuseppe Fricelli

Chiara Mariani

Stefano Masini

Elisabetta Mereu

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Daniela Parisi

Lucia Petraroli

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Antonio Pieri

Daniela Pronestì

Roberto Rampone

Barbara Santoro

Gianni Spulcioni

Michele Taccetti

Franco Tozzi

Alberto Venturini

Foto:

Luciano Artusi

Ricciardo Artusi

Marco Borrelli

Luca Brunetti

Lorenzo Canuti

Giuseppe D’Ambrosio

Giuseppe Fulghesu

Marco Gabbuggiani

Simone Lapini (ADVphoto)

Stefano Masini

Elisabetta Mereu

Pepi Merisio

Carlo Midollini

Paolo Roversi

Silvano Silvia

Gianni Spulcioni

Alberto Venturini

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All’interno di di questo numero:

Quarta puntata

di di

“Giuliacarla Cecchi.

Firenze e e la la moda.

Un affresco del del Novecento”.


Urna Semper

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distanziamento ed è dotato di adeguati presidi di prevenzione anticovid.


A cura di

Ugo Barlozzetti

Percorsi d’arte

in Toscana

Il Giardino di Daniel Spoerri a Seggiano

Un parco dove l’arte contemporanea incontra la natura

di Ugo Barlozzetti / foto courtesy www.danielspoerri.org

Daniel Spoerri, nato Feinstein nel 1930 a Galati in

Romania, è una personalità importante nell’arte europea

e statunitense dagli anni Cinquanta. Il cognome

che ha adottato è quello della madre e dello zio, figure

importanti dopo la tragica morte del padre. Figura eclettica

nel panorama artistico contemporaneo, è stato ballerino,

coreografo, mimo, poeta, scrittore e gastronomo. Ha fondato

la “eat art” ed è diventato famoso per i suoi “tableaux

pièges”. Dopo un periodo passato a New York, è stato a lungo

nell’isola greca di Simi, a Düsseldorf, a Parigi e in molte

altre località, operando, appunto, nelle iniziative ed esperienze

più diverse. Nella seconda metà degli anni Novanta

si stabilisce in provincia di Grosseto, a Seggiano, organizzando

il progetto di un parco di sculture e installazioni. Nel

1997 creò la fondazione “Hic terminus haeret”, ossia “Qui

aderiscono i confini”, in relazione alle convinzioni di uno

spazio particolarmente suggestivo. La fondazione ha promosso

non solo la conservazione delle quarantasei opere

presenti del maestro, ma ha anche favorito la presenza di

altre centootto opere legate a molto importanti personalità

che ha avuto modo di conoscere e che sono diventate suoi

amici personali. Quindi il percorso in un parco di circa sedici

ettari, dove le opere sono collocate fra ampi spazi ricchi

anche di importanti essenze, è particolarmente significativo

non solo per la fruizione dell’arte ma anche per il rapporto

con il paesaggio e la natura. È questo uno degli esempi più

significativi di quell’eccellenza toscana che sono i parchi

d’arte contemporanea. Tra i cinquanta artisti amici di Spoerri

ricordiamo: Eva Aeppli, Arman, Till Augustin, Ay-o, Roberto

Bagni, Giampaolo Di Cocco, Erik Dietman, Katharina

Duwen, Karl Gerstner, Luciano Ghersi, Alfonso Hüppi, Juliane

Kühn, Zoltan Ludwig Kruse, Bernhard Luginbühl, Ursi Luginbühl,

Birgit Neumann, Luigi Mainolfi, Meret Oppenheim,

Dieter Roth, Susanne Runge, Uwe Schloen, Kimitake Sato,

Sentiero murato labirintiforme (1996 - 1998), pietra peperino, cemento, erba, h cm

50x m 60x40

Forno Trullo - teste fumanti (1995 - 2000), bronzo e pietre, cm 200x h cm 350

Pavel Schmidt, Esther Seidel, Mauro Staccioli, Patrick Steiner,

Jesus Rafael Soto, Paul Talman, André Thomkins, Jean

Tinguely, Roland Topor, Paul Wiedmer.

www.danielspoerri.org

Il Giardino di Daniel Spoerri

Guerrieri della notte (1982), installazione di 13 elementi, bronzo, cm 136x90

I manichini (1992), installazione di 7 elementi, bronzo, cm 180x35

DANIEL SPOERRI

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Incontri con

l’arte

A cura di

Viktorija Carkina

Intervista al direttore delle Gallerie

degli Uffizi Eike Schmidt

Dal progetto “Uffizi diffusi” all’ingresso nelle collezioni di un’opera di street

art, passando attraverso il tema dell’innovazione digitale del museo

di Viktorija Carkina / foto courtesy www.uffizi.it

Grande novità degli ultimi giorni, la

collezione degli Uffizi sarà ampliata

da un dipinto dell’artista britannico

Endless. È la prima volta per un’opera

di street art all’interno del museo fiorentino.

Cosa ha favorito la scelta dell’artista

inglese e la commissione di quest’opera in

particolare?

Gli Uffizi hanno la collezione più grande e

più antica di autoritratti e di ritratti di artisti.

È una parte della collezione del museo

che è sempre stata in espansione visto che

non c’è mai stata un’interruzione del collezionismo.

I Medici furono sempre attenti

alle novità artistiche e alle opere contemporanee.

Noi abbiamo già raccolto oltre

cento ritratti di artisti importanti del nostro

tempo da Antony Gormley a Yayoi Kusama

e tanti altri. Ci mancava ancora uno street

artist, che non potevamo non inserire visto

che si tratta di una corrente artistica veramente importante.

Ovviamente, la street art non viene creata per i musei;

infatti, è forse l’unica tipologia d’arte che per definizione

si oppone al concetto del museo. Perciò, nel caso di Endless,

è importante sottolineare sempre che lui è uno street

artist, ma la sua opera in questo caso è stata creata su

commissione appositamente in uno studio. Sinceramente

mi sorprende che molti musei specializzati nell’arte contemporanea

non si siano ancora aperti a questo tipo di

arte, non andrebbe trascurata. Anche se, ovviamente, bisogna

trovare modi giusti per esporla sui muri di un museo,

visto che si estrae dal suo concetto originario.

Ci può parlare del progetto “Uffizi diffusi”?

Il progetto è nato nella primavera scorsa con il primo lockdown,

quando ci siamo chiesti come portare le opere d’arte

Il direttore Eike Schmidt con lo street artist Endless durante la consegna dell'opera entrata a far

parte delle collezioni delle Gallerie

più vicino alle persone, anche se l’idea di un museo diffuso

c’era già quasi da un secolo. Le prime iniziative prese per

spostare le opere dai depositi nel territorio risalgono ai primi

del Novecento con l’idea di avere musei non soltanto nelle

grandi città, ma su tutto il territorio toscano. Ora vorremmo

andare oltre a quello che è stato fatto in passato perché abbiamo

migliaia di opere nei depositi degli Uffizi e, a mio avviso,

non è eticamente giusto tenerle lì senza che nessuno le

possa vedere. In questo momento siamo in contatto con i primi

trenta musei che ospiteranno le nostre opere, ci saranno

luoghi piccoli, medi e addirittura grandi. Tutti i giorni ci stiamo

preparando per l’apertura dei confini e il ritorno del turismo,

che secondo me sarà ancora più intenso di prima. Ora è

il momento per creare le infrastrutture intellettuali e culturali

per poter assorbire e riflettere i flussi di visitatori.

A causa del Covid il mondo artistico si è spostato sempre

di più online dove ormai è consolidato. Anche i musei dovrebbero

essere sempre più attivi sulle piattaforme virtuali?

www.florenceartgallery.com

Assolutamente sì. Infatti, quasi tutte le piattaforme digitali

degli Uffizi sono leader in Italia e fra le più seguite

al mondo. Nonostante sia uno strumento di comunicazione

importante, bisogna comunque essere coscienti che il

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EIKE SCHMIDT


Un momento dell'intervista di Viktorija Carkina al direttore

Sala della Venere di Botticelli

mondo digitale non è un’alternativa alla visita vera al museo

e alla percezione reale delle opere d’arte. Le piattaforme

digitali sono molto utili quando utilizzate nella

maniera corretta e produttiva, ma non potranno mai sostituire

le emozioni che si vivono davanti ad un’opera d’arte.

Ha lavorato nei più prestigiosi musei europei e statunitensi;

quali sono, secondo lei, le principali differenze nella

direzione e nell’organizzazione museale che separano i

due continenti?

Partiamo da una premessa che le differenze sono varie

fra tutti i paesi del mondo, anche fra quelli che sono all’interno

dell’Europa, ma anche all’interno dello stesso paese.

Nonostante ciò ci sono alcuni punti che distinguono

i musei americani da quelli europei. Per quanto riguarda

le collezioni, le grandi raccolte europee nascono dalle case

principesche quindi spesso hanno una storia molto più

lunga. Le collezioni di Boston, Philadelphia e New York nascono

nell’Ottocento e per gli Stati Uniti d’America sono

considerati musei antichi. Nel contesto europeo, invece,

sarebbero molto recenti, visto che qui abbiamo raccolte

che risalgono anche al Medioevo,

abbiamo una storia collezionistica

veramente molto più lunga. È diverso

anche l’intreccio tra il collezionismo

e la committenza, visto

che nel caso europeo si tratta di

opere commissionate agli artisti,

mentre negli Stati Uniti la grande

maggioranza delle opere d’arte è

stata acquistata sul mercato d’arte

quindi saltando la fase del dialogo

fra l’artista e il committente.

Oltre alle differenze che riguardano

la consistenza della collezione,

anche l’interazione del museo

con il pubblico è diversa fra i due

continenti. Negli Stati Uniti i musei

devono adottare una serie di

operazioni per attirare i visitatori,

altrimenti rimangono vuoti. Loro

costruiscono il proprio pubblico e

convincono le persone a venire al

museo mentre in Europa, spesso,

non c’è un rapporto con i visitatori

perché i musei non si impegnano

per attirarli. Questo élitarismo

non c’è negli Stati Uniti perché con

questo atteggiamento i loro musei

chiuderebbero entro un anno

dall’apertura.

Potremo ammirare il Corridoio

Vasariano a partire dal 2022, come

previsto?

Speriamo proprio di sì, per ora il lavoro

sta procedendo com’era stato pianificato. Speriamo che

non subentrino impedimenti, come anche nel caso del progetto

"Nuovi Uffizi" che dovrebbe essere finito entro il 2024. Ci auguriamo

che la pandemia rallenti, grazie ai vaccini ma anche

alla bella stagione che sta arrivando. Con la combinazione di

tutti i fattori positivi speriamo di uscire presto da questa situazione

ancora oggi molto preoccupante e, per certi versi, tragica.

È importante andare avanti con i nostri progetti edilizi,

impiantistici e di restauro, ma rimane comunque secondario rispetto

alle vite umane ancora oggi a grande rischio.

Cornici Ristori Firenze

www.francoristori.com

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EIKE SCHMIDT

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I grandi della

Fotografia

A cura di

Maria Grazia Dainelli

Paolo Roversi

Prorogata fino al 2 maggio al MAR di Ravenna la mostra

dedicata al celebre fotografo di moda

di Maria Grazia Dainelli / foto Paolo Roversi

Abbiamo incontrato il maestro Paolo Roversi MAR - Museo

d’Arte della città di Ravenna in occasione della

grande mostra antologica Studio Luce che ne omaggia

la carriera con una selezione di scatti esposti al pubblico dal

10 ottobre 2020 al 2 maggio (proroga dal 10 gennaio) 2021.

Com’è nata l’idea di questa mostra?

Mi ha contattato il Comune offrendomi la possibilità di esporre

270 scatti, un’occasione unica per far conoscere a fondo

il mio lavoro attraverso anche la pubblicazione di un imponente

catalogo. Riuscire a trovare un fil rouge che tenesse

insieme tutta la mia opera è stato molto impegnativo, soprattutto

per la curatrice Chiara Bardelli Nonino, che l’ha ritenuta

essere una sfida oltre che una bellissima avventura. C’è una

frase emblematica che amo citare per descrivere il lavoro necessario

a scegliere le foto all’interno del mio archivio: «Da

soli si può andare anche più veloci ma insieme andiamo più

lontano». Tutto lo staff del MAR ha lavorato con grande passione

alla realizzazione di questo evento espositivo che testimonia

tutto il mio percorso artistico sospeso tra passato

e presente.

A cosa si è ispirato per la scelta del titolo?

Ho preso spunto dal nome dell’atelier parigino in Rue Paul

Fort dove mi sono trasferito nel 1973 e dove tuttora lavoro.

Questo luogo è stato un punto di partenza e di arrivo della

mia poetica, un luogo fisico ma anche uno spazio della mente

dove nascono i miei scatti. Fra quelli in mostra non mancano

rimandi alla mia città natale, Ravenna, con la sua bellezza

serena, silenziosa, avvolta dalla nebbia. Un’atmosfera che ha

notevolmente influenzato il mio immaginario e la scelta poetica

di rendere visibile anche ciò che rimane nascosto nel

cuore dell’immagine.

Cosa l’ha spinta a dedicarsi alla fotografia quando era ancora

molto giovane?

Lo Studio Luce a Parigi

La mia prima macchina fotografica è stata una Ferraniaflex

ricevuta in regalo per la prima comunione. Da bambino avevo

paura del buio

e la fotografia mi

serviva per vincere

questa paura

immortalando le

FOTOGRAFIA PASSIONE PROFESSIONE IN NETWORK

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ombre nella mia

Via Ponte all'Asse 2/4 - 50019 Sesto F.no (Fi) - tel 0553454164

stanza. Era un modo

per inventarmi storie ed avventure che mi tenevano compagnia

e che nel tempo mi hanno insegnato ad amare la

fotografia. È stato però all’età di diciassette anni, durante una

vacanza in Spagna, che questa passione ha iniziato a manifestarsi

con più forza, spingendomi a fissare l’esperienza di

quel viaggio nelle foto scattate con una Leica. Sono stato il

primo fotografo nel 1980 ad usare la Polaroid formato 20x25,

facendone un tratto distintivo del mio stile: un procedimento

lento e costoso che, grazie alla ricetta chimica dei reagenti,

mi consentiva di ottenere stampe con una grana spettacolare

e risultati di grande efficacia espressiva.

Quali sono stati i suoi maestri di riferimento agli esordi della

professione di fotografo?

Nei primi anni trascorsi a Parigi lavoravo come fotoreporter

per la Huppert Agency. Nello stesso periodo iniziai a conoscere

il mondo della moda e a scoprire i lavori di Richard Avedon,

Irving Penn, Helmut Newton, Guy Bourdin e diversi altri

grandi maestri. Dopo un periodo come assistente di Laurence

Sackman, iniziai a realizzare servizi di moda e campagne

pubblicitarie per Dior, Cerruti, Yves Saint Laurent, Valentino e

molti altri. Tante delle mie fotografie sono state protagoniste

di numerose pubblicazioni e mostre monografiche.

Perché il suo stile è definito il più personale e riconoscibile

tra i fotografi di moda?

Il mio intento è da sempre esplorare nuovi orizzonti espressivi,

dando vita ad una ricerca estetica e ad uno sguardo

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PAOLO ROVERSI


Che valore ha la luce nel suo lavoro?

È un’alleata fedele, un’amica, un grande amore; è ciò di cui non

possiamo fare a meno, di cui abbiamo bisogno per vivere. È

un’emozione continua che mi spinge a mettere il cuore in ogni

mio scatto. La luce è una divinità capricciosa, si nasconde e

talvolta si sottrae, bisogna sapere come comunicarci.

personale sul mondo, senza orpelli o effetti speciali. Per

me la fotografia non è mai stata riproduzione ma rivelazione,

un rapporto di empatia che si crea con il soggetto immortalato

sia che si tratti di una persona che di una cosa.

Composizioni difficili da trovare in un fotografo di moda,

ricche di sogni e fantasie ma soprattutto di una bellezza

ricercata, lontana dai cliché e mai banale. E ovviamente

per fare questo è fondamentale il contributo degli stilisti,

dei make up artist e delle persone che lavorano sul set fotografico.

Perché ha definito questa mostra la più bella che abbia mai

realizzato?

L’amore per Ravenna ha in me radici profonde e indissolubili.

Ho esposto le mie foto nei più grandi musei del mondo,

ma vederle qui, in questo contesto a me caro, mi dà una

soddisfazione mai provata. In più devo a questa mostra l’avermi

fatto capire quanto i ravennati si ricordino di me ed

apprezzino il mio lavoro. È stata davvero una bella scoperta,

un ritorno più che gradito alle mie origini. Mi vengono

in mente a questo proposito alcuni versi di Ungaretti nella

poesia Casa mia: «Sorpresa dopo tanto d’un amore, pensavo

di averlo sparpagliato per il mondo invece è tutto qua».

Il mio amore per Ravenna è ancora qui, intatto, a dispetto

del tempo.

Come riesce ad entrare in sintonia con le modelle che posano

per lei?

Cerco di fotografare non solo il loro viso, il loro corpo ma anche

qualcosa di più profondo, arrivando direttamente al cuore, all’anima

per svelarne il mistero. Le mie modelle incarnano ciascuna

bellezze diverse e molteplici individualità, ma ciò che a me interessa

è catturare ciò che di loro non si vede, l’energia del momento

in cui lo sguardo del fotografo riesce a spingersi oltre l’apparenza

per fermare nello scatto il mistero della bellezza. Il risultato sono

immagini senza tempo realizzate con tempi lunghi, effetti di mosso

o di sfocato e tutto ciò che lascia spazio alla creatività. Le mie

foto non forniscono certezze ma pongono domande.

Che differenza c’è tra ritrarre una persona ed immortalare

invece un oggetto inanimato?

Non c’è grande differenza, perché il mio obiettivo è declinare

il linguaggio universale della bellezza, che vale sempre, sia

quando fotografo una modella che quando mi occupo invece

di still life. Anche gli oggetti hanno “un’anima” che mi interessa

tirare fuori, una storia da raccontare trovando un modo

sempre nuovo ed originale per farlo.

Cosa rappresenta per lei il nudo?

Il nudo è la forma più pura di ritratto

perché permette al soggetto

fotografato di mostrarsi senza maschere

e senza sovrastrutture. Ogni

immagine è un dialogo, una relazione,

uno sguardo che non s’impone

e che aiuta a rivelare quello che il

soggetto nasconde dentro.

Qual è stata la sua esperienza

come fotografo del calendario

Pirelli?

Sono il primo fotografo italiano

ad averlo realizzarlo, un traguardo

non da poco. Anche la scelta del

titolo Looking for Juliet è stata significativa.

E dove cercare Giulietta

se non a Verona? Per questo ho

realizzato un libro e un film, ho intervistato

donne che ho reputato

essere delle possibili Giuliette,

cercando la bellezza ovunque, anche

fuori dai canoni classici.

PAOLO ROVERSI

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Spunti di critica

Fotografica

A cura di

Nicola Crisci e Maria Grazia Dainelli

Pepi Merisio

Scomparso lo scorso

febbraio a novant’anni,

ha immortalato l’Italia

cattolica e contadina

di Nicola Crisci / foto

Pepi Merisio

Nato a Caravaggio nel 1931 e morto

a Bergamo lo scorso 3 febbraio,

Pepi Merisio inizia ad occuparsi di

fotografia come autodidatta nel 1947 e diventa

un protagonista del mondo amatoriale

degli anni Cinquanta. Nel 1956 inizia a

collaborare con il Touring Club Italiano e con le riviste Camera,

Réalité, Photo, Maxima, Pirelli Look, Famiglia Cristiana, Stern e

Paris Match. Nel 1962 diventa fotografo professionista e poco

dopo realizza il suo primo racconto per immagini intitolato In

morte dello zio Angelo. Questo servizio rappresenta una svolta

nella carriera del fotografo bergamasco che documenta il funerale

dello zio come in un “photo essay” (saggio fotografico)

all’americana. Intanto, inizia a collaborare con la rivista Epoca

e nel 1964 pubblica Una giornata col Papa al quale seguiranno

poi più di cento altri libri fotografici. Ottiene prestigiosi riconoscimenti

in Italia e all’estero, tra i quali il New talent of Popular

photography a New York nel 1963, ed espone con mostre personali

presso i principali musei e in molte gallerie del mondo.

Nel 1979 esegue per la Polaroid un servizio in bianco e nero attualmente

conservato a Boston presso la Collection Polaroid International.

Nel 1980, la rivista Progresso Fotografico gli dedica

un numero monografico, mentre l’Editoriale Fabbri lo inserisce

nella collana I grandi fotografi. Nel suo lavoro l’urgenza di documentare

gli aspetti effimeri della realtà si unisce ad una pro-

Nella Valle di Cogne (1959)

Maternità, Val di Mello, Bergamo (anni Cinquanta)

fonda nota malinconica, come si evince dalle sue parole: «Ho

sempre pensato, anzi sentito, che la fotografia debba essere un

colloquio; se non ci si guarda negli occhi è molto difficile capirsi.

Rappresento l’uomo nei suoi attimi di vita quotidiana, che

comprendono anche, ma non solo, le feste religiose, il lavoro, il

ritrovo. La fotografia è documentare quello che succede, senza

attendere fatti spettacolari, perché lo spettacolo è la vita stessa.

Il lavoro, in particolare la tradizione contadina, è sempre stato

il mio tema prediletto. Mi piace fotografare la gente normale

che si alza la mattina e deve andare a lavorare tutto il giorno.

Fotografo allo stesso modo il contadino come il Papa. La spiritualità

l’ho vissuta fin da piccolo nel santuario di Caravaggio;

vedere i pellegrini che arrivavano con i carri di notte e dormivano

sotto i portici mi ha sempre affascinato». Di lui scrive il critico

Denis Curti: «Nel cuore della cultura contadina il fotografo

trova le radici della propria ispirazione e ne fa poetica distintiva

del suo sguardo. Nei fatti, Merisio riesce a dare forma a una

nuova architettura dell’estetica del quotidiano. Questa è la sua

peculiarità, questa la sua forza propulsiva».

In attesa dell'udienza papale (1964)

Immagine dal reportage Una giornata con il Papa (1964)

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PEPI MERISIO


Servizi per

le aziende

La motivazione di chi lavora in azienda e nelle organizzazioni:

Sand-Up aiuta a rilevarla e a svilupparla

Testo e foto di Lorenzo Canuti, Gianni Spulcioni e Alberto Venturini

Chi non si è mai trovato di fronte a collaboratori che

non vedono l’ora di spegnere il computer per andarsene

a casa? Oppure che in modo costante “scaricano

il barile” delle proprie responsabilità? O che “sbuffano”

dalla mattina alla sera, parlando male di tutti? Ci siamo imbattuti

spesso in queste situazioni, in tantissimi anni di

consulenza alle organizzazioni. E allora ci siamo detti che

era tempo di spingerle davvero al cambiamento aiutandole

a gestire queste criticità in modo diverso. Ci sono imprese

che considerano il benessere dei collaboratori non rilevante

per il loro funzionamento e successo, ponendo prioritariamente

attenzione ad altri aspetti come la tecnologia, le

strutture, la capacità di produrre. Tutto importante, nessuno

può dubitarne, ma non basta. Il culto della razionalità

e dell’efficienza ad ogni costo spesso considera una debolezza

occuparsi di relazioni interpersonali, di emozioni, di

sentimenti, degli aspetti insomma più immateriali che muovono

l’organizzazione. Purtroppo è una visione riduttiva.

Non curando anche questi fattori, si genera un clima “freddo”,

scarsamente collaborativo o addirittura conflittuale.

Siamo convintissimi di quanto ricerche e studi scientifici di

tutto il mondo hanno ampiamente dimostrato: in qualunque

organizzazione, in ogni impresa, tutto questo induce non

solo demotivazione ma anche vero e proprio malessere in

chiunque vi operi. Stress veri o presunti, scarso impegno

nelle attività, poca o nessuna disponibilità a mettere anche

Un esempio del metodo Sand-Up: i dipendenti dell’organizzazione utilizzano sabbia ed oggetti per rappresentare il proprio

grado di motivazione

un pezzetto di anima e di cuore in quello che si fa, e a collaborare

con i colleghi quando c’è da fare squadra. Un malcontento

che induce a parlar male dell’organizzazione, con

conseguenze negative sulla sua immagine e generando il

malfunzionamento dell’azienda. Curare invece motivazione

e benessere genera, tra gli altri effetti, un’utilità economica.

Come poter essere, allora, agenti veri del cambiamento nella

motivazione delle persone? Prima di tutto verificandone

il reale livello dentro l’organizzazione. Forniamo la risposta

ad una semplice domanda: le persone dentro l’organizzazione

o l’impresa quanto si sentono motivate? Per accertarlo,

Sand-Up mette assieme e usa più strumenti di indagine in

un percorso prestabilito. Un elemento qualificante e assolutamente

innovativo di questo percorso è far rappresentare

alle persone la propria motivazione materializzandola: coinvolgendole

nella costruzione concreta di una metafora, loro

stesse danno espressione al proprio pensiero creativo, utilizzando

le mani e la sabbia come strumento di innovazione

della mente. Sand-Up si sviluppa

dall’intreccio del costruttivismo alle

teorie della Sand Therapy di Dora

Kalff. Il metodo Sand-Up utilizza

come materiale un’ampia cassetta

in legno contenente sabbia e vari

oggetti. In questo spazio le persone,

in gruppo, costruiscono con

gli oggetti quello che con le parole

non saprebbero o non vorrebbero

esprimere: la rappresentazione

concreta di come sentono e vivono

l’organizzazione alla quale appartengono.

Creano un mondo che

corrisponde al loro stato interiore

attraverso il gioco libero e creativo.

Combinando la metafora con

gli altri approfondimenti, Sand-Up

“misura la febbre” all’organizzazione

e le indica quindi cosa fare per

migliorare la motivazione delle sue

persone. Ne aiuta il successo.

SAND-UP

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Nuove proposte dell’arte

contemporanea

A cura di

Margherita Blonska Ciardi

Karin Monschauer

Dalla mostra virtuale Artidotum all’Expo di Abu Dhabi:

un 2021 da record per l’artista lussemburghese

di Margherita Blonska Ciardi

Senza titolo (2020), arte digitale, stampa su tela, cm 90x90

Fino al prossimo 13 aprile, l’artista lussemburghese

Karin Monschauer espone alcuni suoi recenti lavori

nella mostra d’arte contemporanea internazionale

Artidotum 3 D. Nata come risposta artistica al dramma

globale della pandemia, questa mostra si sarebbe dovuta

svolgere in una prestigiosa galleria di Roma, ma a causa

del peggioramento della situazione sanitaria si è deciso di

creare una versione virtuale dell’evento. I lavori presentati

da Karin Monschauer ci trascinano nel regno di una bellezza

che nasce dalla fusione tra matematica e arte di ricamo.

La scelta della digital art come mezzo di espressione ha dato

a quest’artista l’opportunità di conoscere il mondo fondato

sulle leggi della logica. Da sempre, infatti, matematica e

geometria suscitano il suo interesse e la ricerca nell’ambito

dell’arte digitale le ha consentito di sperimentare moltepli-

Zickzack (2016), arte digitale, stampa su

tela, cm 22x110

ci soluzioni compositive a riguardo. Il suo stile si fonda sul

neoplasticismo di Mondrian, al quale si ispira per la scelta

dei colori e l’ortogonalità delle trame tonali, e sull’optical

art di Anuszkiewicz. Karin Monschauer cerca sempre di trovare

un equilibrio logico tra gli elementi cromatico-geometrici

che s’incastrano tra loro come tessere di un mosaico.

Spesso le geometrie create dalle trame di colore sono costruite

con una suddivisione aurea; all’orditura delle tonalità

calde vengono contrapposte quelle fredde, comunicando

una piacevole sensazione di armonia. Le tessiture cromatiche

ricordano la struttura di un patchwork oppure quella

del ricamo raqm caratteristico della tappezzeria orientale.

In queste opere si avverte l’eco delle avanguardie futuriste

e dadaiste, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti legati

al dinamismo e alle forme degli ingranaggi meccanici. Pur

14

KARIN MONSCHAUER


essendo lavori bidimensionali creano nell’osservatore l’illusione

ottica della tridimensionalità. Ricamando le superfici

con la digital art, Karin Monschauer ottiene trame coloristiche

che uniscono alla fantasia ornamentale un’impronta razionale

e logica. Come in un caleidoscopio, queste opere

presentano una grande varietà cromatica, con spazi geometrici

che proiettano lo spettatore in mondi fantastici e pieni

di armonia. Il suo stile unico e riconoscibile è stato molto

apprezzato durante la Biennale d’Arte Contemporanea svoltasi

a Firenze nel 2017, in occasione della quale l’artista

ha ricevuto il secondo Premio Lorenzo il Magnifico per la

sezione Computer art. Dell’opera di Karin Monschauer si è

parlato più volte su La Toscana Nuova, su altre riviste come

Arte Mondadori e Art Now, sul Catalogo dell’Arte Moderna

Mondadori e sull’Atlante dell’Arte De Agostini. I quadri

da lei proposti nella mostra virtuale Artidotum colpiscono

per la straordinaria brillantezza dei colori ottenuta grazie

alla sua tecnica innovativa. Realizzati in Svizzera dentro un

laboratorio, sono stampati con la tecnica Dbond su di una

carta speciale che permette di potenziare la pigmentazione

dei colori. L’effetto finale è sorprendente e la luminosità

dei colori ricorda quella dei rosoni delle chiese illuminate

dal sole. Presente in molte aste di arte contemporanea, Karin

Monschauer ha ormai conquistato una popolarità internazionale.

Il prossimo 10 marzo si terrà l’asta online della

storica Galleria Colasanti di Roma, dove verrà messa in vendita

la sua opera Zickzack. Uno dei suoi lavori presenti nella

mostra virtuale Artidotum verrà scelto per la vendita presso

la nuova casa d’aste milanese Wondike. Nel 2021, l’artista

parteciperà inoltre ad altre due importanti esposizioni:

l’Expo di Abu Dhabi e, a settembre, la terza edizione a Venezia

della mostra Aqvart, collegata quest’anno ad altri significativi

eventi come la Regata Storica di Venezia, la Biennale

d’Arte e il Festival del Cinema.

Senza titolo (2020), arte digitale, stampa su carta fine art e applicazione su vetro, cm 88x84

KARIN MONSCHAUER

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Margaret Karapetian d’Errico

La sottile arte dell’incisione

La bufera nel profondo, tecnica mista, cm 35x50

Le farfalle, tecnica mista, cm 80x55

www.margaretkarapetian.it

derrico.margaret1@gmail.com


A cura di

Luciano e Ricciardo Artusi

Curiosità storiche

fiorentine

L’antica numerazione civica

Testo e foto di Luciano e Ricciardo Artusi

La numerazione civica degli edifici

com’è oggi in uso risale al 1865

(anno di Firenze capitale d’Italia)

ed è molto diversa da quella di un tempo.

Oggi tale numerazione è apposta per

ogni strada procedendo con il numero 1,

dal lato sinistro e dal numero 2 da quello

destro, contrassegnando così progressivamente

tutti gli ingressi ai fabbricati.

I numeri rossi riguardano le attività commerciali.

Le due numerazioni, quindi, non

procedono di pari passo e talvolta sono

anche molto distanti. Per un rapido e sicuro

riconoscimento, l’inizio della numerazione

è “affidato” al corso del nostro

fiume, l’Arno, dalla cui direzione di scorrimento

deriva tale convenzione, contraddistinguendo

così le strade cittadine, quelle periferiche e dei

sobborghi. Tale prassi è anche precisata dall’art. 12 del vigente

Regolamento Comunale per la Toponomastica. Nelle piazze,

invece, la numerazione ha inizio dalla prima casa all’angolo

di sinistra facendo ingresso dalla via principale, procedendo

progressivamente per tutte le case circostanti, per finire

all’angolo opposto. In passato non esisteva una denominazione

delle strade e tanto meno la numerazione: l’individuazione

del luogo avveniva attraverso i “canti”, cioè le cantonate dei

palazzi e delle case di note famiglie, oppure in base ad attività

svolte, personaggi tipici o insegne pubblicitarie esistenti in

quel luogo. Il nome dei “canti” ha rappresentato la toponomastica

più antica, ancor prima che le strade assumessero una

specifica denominazione e poi la numerazione. Va detto che,

fino all’anno 1826, le targhe stradali, fatte di semplice vernice

sull’intonaco, erano soggette ad inevitabili deterioramenti

e quindi a continui ripristini. Soltanto alla fine di quell’anno la

municipalità decise di sanare l’inconveniente, stabilendo che

l’apposizione dei nuovi cartelli stradali avvenisse su lastre di

marmo. Sino al XVII secolo, le case ebbero una “numerazione

parrocchiale” e cioè il numero dello stabile corrispondeva a

quello del “Registro degli Stati d’Anime” redatto dai parroci secondo

quanto disposto nel Concilio di Trento. Questo sistema

Luciano Artusi, a sinistra, con il figlio Ricciardo

Il numero 5 di Piazza Strozzi già 1012 Via de' Cerretani 10 già 4659

restò in vigore fino al 1808, ma al termine di quell’anno, sotto

la dominazione francese, il 24 ottobre, per facilitare il servizio

postale, di polizia e degli alloggi militari venne imposta

per tutti gli edifici la numerazione progressiva. L’innovativo sistema

iniziò a gennaio 1809 e terminò a novembre dello stesso

anno. Palazzo Vecchio, ritenuta la “prima casa” della città,

ebbe naturalmente il numero 1 dall’accesso in Via dei Leoni

e da qui, continuando a girare in modo avvolgente intorno alle

strade comprese entro le mura trecentesche, giungendo al

Ponte Vecchio con il numero 1288. In Oltrarno, nel quartiere

di Santo Spirito, iniziava con il numero 1289 terminando nel

Lungarno Soderini con il 3345. Ritornando sulla destra del fiume,

dal Ponte alla Carraia in Borgo Ognissanti, nel quartiere

di Santa Maria Novella, poi in quello di San Giovanni dove al

Palazzo Medici Riccardi fu assegnato il 6038, oggi numero 1,

per poi finire in Santa Croce, precisamente in Via Mozza, con

l’8025 che corrisponde all’attuale numero 2 di questa breve

strada che, proprio per la sua esigua estensione, era detta Via

Mozzina. Curioso particolare è quello di Palazzo Pitti che fu

dichiarato esente dalla numerazione in quanto “reggia” e quindi

conosciuta e superiore a tutti gli altri edifici. Nella piazza,

però, la numerazione “a chiocciola” scorreva regolare come lo

dimostra ancora, nella sua vetusta presenza, il numero 1702

sopra l’ingresso della casa contrassegnata dal 7. Ma in Oltrarno

non è rimasta solo questa attestazione: in Via dei Serragli

99, all’angolo con Via Santa Maria, sull’immobile di quello

che fu lo studio dello scultore Pio Fedi, è ancora ben visibile il

numero 2538, in Via Maggio al civico 13, altro numero napoleonico

1876 con il nome dell’allora proprietario F. Briganti. Altre

testimonianze di questa numerazione francese: al lato del

portone del civico 12 in Via Porta Rossa, dove esiste ancora

il 1026 con nome “Sanguineti”, un’altra in Piazza Strozzi al

numero 5 già 1012, nonché quella lapidea in Via dei Cerretani

10 già 4659, numero scolpito fra graziosi ornamenti floreali.

NUMERAZIONE CIVICA

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Personaggi

Il ciclone Caruso

Un archivio di lettere in asta da Christie’s getta nuova luce

sulla burrascosa vita sentimentale del re dei tenori

di Fabrizio Borghini

Èdi questi giorni la notizia che Christie’s ha messo

all’asta 283 lettere e telegrammi spediti da Enrico Caruso

e 425 a lui indirizzati che contribuiranno a definire

ulteriormente il già conosciutissimo profilo artistico e

umano del grande tenore. Una di queste lettere, durissima nei

confronti del cantante napoletano, gli fu inviata da Teresa Da

Vela, sua “suocera” nonostante avesse nove anni meno di lui.

«Abbiamo sentito cose terribili e vergognose. È impossibile

per un uomo onesto comportarsi così. Che mi dici di questa

famiglia che volevi crearti? E questa donna che da sette anni

attende fedelmente l’adempimento delle tue promesse? Come

ti giudicherà il mondo? Non hai già creato abbastanza

scandalo?» scriveva da Villa Bellosguardo di Lastra a Signa a

New York nell’estate 1918. Chi era la donna che da sette anni

aspettava di convolare a nozze con Caruso e che ora si sentiva

beffata dalla notizia dell’imminente matrimonio americano

del re dei tenori? Per capire questa complessa vicenda familiare,

bisogna tornare indietro di una ventina d’anni, al 18 agosto

1897, quando il ciclone Caruso si abbatté sulla Toscana

approdando a Livorno per interpretare Traviata e Bohème, da

giovane tenore pressoché sconosciuto. Come protagonista

femminile nel ruolo di Mimì, lo affiancò la già affermata soprano

fiorentina Ada Giachetti, nata nel 1874. Figlia di Guido

Giachetti, Intendente di Finanza, e di Giuseppina Guidalotti,

era sorella maggiore di Rina, nata a Firenze nel 1880, anch’essa

affermata soprano. Durante la fatale estate 1897, Caruso

fu ospite della casa dei Giachetti in viale Regina Margherita a

Livorno e corteggiò contemporaneamente le due sorelle, in

Con la moglie Dorothy Park Benjamin e la figlia Gloria a Sorrento al Vittoria Hotel nel 1921

Enrico Caruso

maniera esplicita Rina, che era nubile, in maniera clandestina

Ada già maritata con il ricco commerciante Gino Botti e madre

del piccolo Lelio di due anni. Quando scoppiò la travolgente

passione fra Ada e Enrico che li indusse a scappare a

Milano, lei era già in attesa di un loro figlio che nacque nel luglio

1898 nel capoluogo lombardo; fu chiamato Rodolfo, come

il protagonista della galeotta Bohème che li aveva fatti

innamorare. Nel frattempo, la folgorante carriera artistica di

Caruso stava decollando tanto che nel 1903 fu ingaggiato per

una tournée negli Stati Uniti, intrapresa con Ada al seguito,

che lo consacrò celebrità internazionale. Nel 1904, carico di

gloria e con 1000 dollari di compensi ricevuti, decise di investire

l’ingente somma di denaro nell’acquisto della storica Villa

I Pini alle Panche con l’attigua fattoria di Belvedere in

Cercina nei pressi di Firenze. Fu qui, nei luoghi della sua infanzia,

che Ada, il 7 settembre 1904, partorì il loro secondogenito

Enrico Junior detto Mimmi, versione maschile di Mimì.

Sebbene con un’ottima carriera artistica alle spalle, Ada decise

di abbandonare le scene per dedicarsi ai figli e alla gestione

della impegnativa proprietà pur continuando a seguire e

consigliare Enrico nei sempre più pressanti impegni artistici.

Nell’estate del 1905, rientrato dall’ennesimo tour americano,

il tenore investì i suoi ormai favolosi guadagni ancora in To-

18

IL CICLONE CARUSO


Con i figli Rodolfo e Mimmi a Villa Bellosguardo

scana acquistando un’altra storica dimora nobiliare, la cinquecentesca

Villa Campi a Lastra a Signa che ristrutturò

chiamandola Bellosguardo. Il susseguirsi ininterrotto dei successi

e la fama, ormai planetaria, però, lo stavano allontanando

sempre più dalla famiglia e dalla sua terra d’adozione.

Nell’estate del 1908 Ada, sempre più sola, si innamorò dell’autista

e fuggì con lui a Nizza; nonostante l’appianamento degli

inevitabili strascichi legali che ne conseguirono, il legame fra

Ada e Enrico non si ricompose a causa della fuga di lei in Argentina

con un nuovo amante dopo la sua ultima esibizione a

Montecarlo nel dicembre 1909. Rina, che nel frattempo aveva

proseguito una brillante carriera internazionale, in seguito a

questa traumatica separazione, decise di abbandonare la lirica

per fare da madre ai nipoti Rodolfo e Mimmi. Dal gennaio

1910, dopo aver cantato al Costanzi di Roma nel Mefistofele,

si dedicò totalmente ai ragazzi e a Caruso con il quale nel

frattempo aveva instaurato un rapporto sentimentale destinato

a protrarsi per sette anni. Nell’estate del 1912, dopo l’ultimazione

dei lavori di restauro, Mimmi fu il regista di una festa

altisonante organizzata a Bellosguardo per celebrare ufficialmente

il fidanzamento tra il padre e la zia, e la nuova famiglia

trascorse le estati 1913 e 1914 nella villa sul lungomare Carducci

di Livorno di proprietà di Rina. Fra i documenti ora all’asta,

ci sono 20 lettere e 18 telegrammi di Caruso a Rina e ben

135 lettere e 21 telegrammi inviati da lei a lui fra il 1913 e il

1917. Sono gli anni della loro intensa storia d’amore dalla

quale nacque anche un figlio prematuramente scomparso

che fu sepolto, con una piccola cerimonia funebre, nel cimitero

di Rifredi e, per evitare le minacciate ritorsioni da parte di

Ada, sulla pietra tombale fu incisa la scritta Racuso, anagramma

di Caruso. L’ultima estate che li vide insieme fu quella

del 1916 perché, a causa della guerra, il tenore non fece più

ritorno in Italia. Anche la corrispondenza fra loro si diradò

sempre di più tanto che fra le lettere oggi venute alla luce ce

n’è una del 7 gennaio 1918 in cui Rina lo accusa di non essersi

fatto più vivo da cinque mesi. Quando poco tempo dopo dagli

Stati Uniti arrivò la notizia delle imminenti nozze del

cantante con la giovane ereditiera Dorothy Park Benjamin, Teresa

Da Vela, per difendere Rina, prese carta e penna per scrivere

a Caruso la lettera in cui bacchettava sonoramente uno

degli uomini più famosi e potenti del mondo rischiando di

compromettere irrimediabilmente i rapporti col “genero”. E la

risposta non si fece aspettare: Caruso intimò all’amministratore

Vecchiettini di mettere i sigilli alle ville e fece affidare

Mimmi a una governante mentre Rodolfo era militare sulle Alpi.

L’intrepida Teresa, nata a Certaldo nel 1882, era stata assunta

come dama di compagnia dalla famiglia Giachetti e

quando Guido rimase vedovo di Giuseppina, lui e Teresa, che

nel 1900 avevano avuto un figlio, Umberto, decisero di sposarsi

a Livorno: era il 1905. Teresa stabilì un legame affettivo

profondo con Rina e con i due figli di Ada che crebbe insieme

a Umberto, che ne era lo zio, come fratelli. Nonostante la reprimenda,

Caruso sposò ugualmente Dorothy nell’agosto

1918 a New York gettando nello sconforto Rina, Guido e Teresa

che poco dopo il matrimonio dovettero abbandonare le

due dimore. Nell’estate del 1919, il tenore decise di attraversare

l’Atlantico per portare a Bellosguardo Dorothy e farla incontrare

con i numerosi parenti fatti giungere appositamente

da Napoli. Dopo l’aggravarsi della pleurite che lo aveva colpito,

nel giugno 1920 Enrico, con Dorothy e la piccola Gloria, nata

a New York nel dicembre 1919, affrontò una nuova

traversata oceanica per raggiungere Bellosguardo sperando

di trovare giovamento dall’aria salubre che vi si respirava. Dopo

un lungo soggiorno a Sorrento, si diresse verso Firenze ma

si dovette fermare a Napoli perché le sue condizioni stavano

peggiorando. Spirò all’Hotel Vesuvio con lo sguardo rivolto

verso il golfo che l’aveva visto esordire nei locali come interprete

del tradizionale repertorio canoro partenopeo. Il profondo

radicamento toscano non si è disperso nel tempo perché

a 100 anni dalla sua scomparsa qui vivono ancora figli e nipoti

di quelli che furono travolti dal ciclone Caruso. Rina si dedicò

all’insegnamento e nel dicembre 1919 sposò il professor

IL CICLONE CARUSO

19


Con Ada Giachetti

Rina Giachetti, sorella di Ada e promessa sposa di Caruso

Comparini ed ebbe un figlio, Roberto

nato a Firenze nel 1923 e morto nel

1986. Sua moglie Marisa e la figlia

Gloria hanno vissuto per molti anni a

Firenze nelle vicinanze di piazza Puccini.

Mimmi, morto nel 1987, aveva

sposato alle Panche nel 1922 Elena

Canessa della famosa famiglia di antiquari

napoletani. Nel 1923 nacque il

loro primo figlio, Enrico Cesare morto

nel 1989, che sposò Fanny Fornelli; i

loro due figli, Federico e Riccardo, tenore,

vivono a Viareggio. L’altro figlio,

Vladimiro, nato a Cercina nel 1925, ha

vissuto come rilegatore di libri nel capoluogo

toscano dove è deceduto nel

1988. Teresa Da Vela, scomparsa a Firenze

nel 1966, è stata sepolta nella

cappella della famiglia Pierallini a dimostrazione

dell’indissolubile affetto

che l’aveva legata per tutta la vita a Rina.

Accanto a lei è sepolto il figlio Umberto,

Pierallini, pneumologo di Careggi, senza avere figli; dopo aver

perso tutti i suoi beni con la crisi del 1929, fu ospite della famiglia

Fontanella Servadio prima a Crespina e poi a Stabbia

di Cerreto Guidi dove morì nel 1959 fra le braccia di Teresa.

Fu sepolta nella cappella della famiglia Pierallini a Antella.

Ada morì nel 1946 a Rio De Janeiro in ristrettezze economiche

seppur aiutata da Caruso, come dimostra un documento

datato 1920 all’asta da Christie’s. Rodolfo sposò Armanda

che dopo aver lavorato all’ufficio del Presto di San

Martino della Cassa di Risparmio, è morto nel 1971 a Firenze

dove è nata nel 1932 la figlia Paola, che vi abita ancora nei

pressi del Ponte alla Vittoria. Dorothy è morta a Baltimora nel

1955 all’età di 62 anni, mentre Gloria ha cessato di vivere nel

1999. Enrico Caruso, intorno al quale questo walzer di incroci

umani si sono dipanati, era nato il 25 febbraio 1873 a Napoli

e il destino ha voluto che lì morisse il 2 agosto 1921.

Una cartolina inviata dal tenore a Ada Giachetti da Buenos Aires a Milano

20 IL CICLONE CARUSO


A cura di

Giuseppe Fricelli

Concerto in

salotto

Caruso caricaturista

di Giuseppe Fricelli

Non tutti sanno che il mitico tenore Enrico Caruso

fu un bravissimo caricaturista. Nei suoi numerosi

ritratti rivela una naturale padronanza del segno.

Il maestro denota una perizia ed una acutezza umoristica

eccezionale. Moltissimi sono i personaggi da lui raffigurati.

Si passa da Puccini a Boito, da Tosti a Mahler, da

Lina Cavalieri ad Anna Pavlova, da Tito Ricordi a Roberto

Bracco, da Ermete Novelli a Leopoldo II: una carrellata

di divertenti ed ottime caricature che ho avuto modo

di apprezzare ed ammirare in un libro acquistato a Verona

negli anni Settanta. Sono bellissime anche le scene di

opere che Caruso si dilettava a disegnare come quelle de

La fanciulla del West, Madama Butterfly e Cavalleria Rusticana.

Se vi capita di ascoltare Enrico Caruso nelle sue

incisioni vi renderete conto della ricchezza vocale irraggiungibile,

del timbro caldo e profondo della sua mirabile

voce, della sua generosità nel fraseggio. Un vero miracolo

della natura!

Enrico Caruso in un autoritratto del 1906

Nato nel 1948, Giuseppe Fricelli si è formato al Conservatorio “Luigi Cherubini” di Firenze diplomandosi

in Pianoforte con il massimo dei voti. Ha tenuto 2000 concerti come solista e

camerista in Italia, Europa, Giappone, Australia, Africa e Medio Oriente. Ha composto musiche

di scena per varie commedie e recital di prosa.È stato docente di pianoforte per 44 anni presso

i conservatori di Bolzano, Verona, Bologna e Firenze.

CARUSO CARICATURISTA

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Umberto Muti in occasione della mostra nel 2019 al Rifugio Gualdo (Sesto Fiorentino)

Umberto Muti

La materia viva del legno

+ 39 338 9502842

Ninfa, fronte e retro (2016), legno dipinto, h cm 160 Figli di Niobe (2011), legno, h cm 170


I libri del

Mese

Elena Giannarelli

Arguti, ironici e bonari: sono i

fantasmi fiorentini protagonisti

del libro Non è vero… ma ci credo

di Fabrizio Borghini

Èuscito in questi giorni un libro che tratta un argomento

del tutto inedito e sorprendente. Non è vero… ma ci

credo, è il titolo che non lascia trapelare alcunché sui

contenuti mentre è senz’altro più esplicito il sottotitolo: Spettri

a Firenze. Lo ha scritto la professoressa Elena Giannarelli,

per anni docente all’ateneo fiorentino, che, dopo il pensionamento,

si è voluta regalare, ed ha regalato a noi lettori, questo

piacevolissimo lavoro mirabilmente in bilico fra la rigorosa

ricostruzione di eventi storici della città e la collocazione

all’interno di questi di personaggi realmente vissuti che, a distanza

di secoli, continuano indisturbati ad aggirarsi fra palazzi,

strade, piazze e, ovviamente, cimiteri.

Perché questo titolo?

Mi sono rifatta a una commedia di Peppino De Filippo che

parlava di superstizione la cui morale era: anche se sei scettico,

meglio evitare di passare sotto una scala o attraversare

la strada dopo il passaggio di un gatto nero...non si sa mai...

lo stesso vale per i fantasmi.

Lei racconta storie che sicuramente susciteranno perplessità…

L’ho messo in conto e per questo ringrazio il coraggioso editore

Massimo Ciani.

Sono decine e decine le storie delle presenze fantasmatiche;

a quali fonti ha attinto?

La pubblicazione l’ho firmata io, ma sarebbe più giusto considerarla

un’opera corale perché tanti sono stati i fiorentini che

nei secoli hanno tramandato oralmente le vicende di fantasmi

di concittadini assolutamente non celebri. Per quelli più

famosi, come Ginevra degli Almieri, Beatrice Portinari, Monna

Tessa, le fonti sono letterarie e storiche. Alla tradizione

popolare appartengono le sporadiche apparizioni di Dante.

Invece Alighiero Alighieri e l’amata Beatrice sono, diciamo

così, più presenti…

È vero. Il padre del sommo poeta è stato più volte visto aggirarsi

sul Ponte Vecchio, con una scarsella in una mano e

una corda con un nodo nell’altra, dato che è morto in odore

di usura. Così l’ha raffigurato in copertina il bravissimo illustratore

Lido Contemori. Beatrice è stata vista, o ne è stata

percepita la presenza, verso il 1918/19 da un famoso profumiere

con bottega in piazza della Signoria; si chiamava Maurice

Bancalari e giurava che gli era apparsa in abito rosso,

con un mantello verde, proprio come descritta da Dante. Anche

negli anni Duemila, persone attendibili sostengono di

averla incrociata vicino agli Uffizi.

I luoghi più frequentati sembrerebbero essere l’antico

ospedale di Santa Maria Nuova e cimiteri storici come

quello degli Inglesi e quello dei Pinti.

Monna Tessa, che con Folco Portinari fondò il nosocomio nel

cui chiostro fu sepolta, sembra che vigili ancora sulle vicende

della struttura dove aleggiano anche le presenze di due oblate,

suor Olimpia e suor Domitilla, quest’ultima uccisa misteriosamente

negli anni Sessanta nell’ospedale. Una bella storia narra

di un elegante nobiluomo che nella notte fra il primo e il due

novembre lascia il cimitero dei Pinti per dirigersi nel vicino cimitero

degli Inglesi dove ad attenderlo c’è una signora vestita

di bianco e con un gran cappello di paglia. I due si incamminano,

arrivano all’Arno e poi, prima dell’alba, rientrano nelle rispettive

“residenze” dopo un romantico congedo.

Ma lei, professoressa, ci crede o no ai fantasmi?

Qualche dubbio ce l’ho. Non credo all’iconografia tradizionale

che parla di catene, stridore di porte, cigolii....questi sono

fantasmi fiorentini, arguti, ironici e sostanzialmente bonari

che mi consentono, con le loro vicende, di scrivere la storia

di Firenze da un punto di vista particolare.

ELENA GIANNARELLI

23


Occhio

critico

A cura di

Daniela Pronestì

Enzo Mauri

La pittura, una passione lunga una vita

Intervista all’artista lombardo nella sua casa studio a pochi passi da Piazza di Spagna

di Daniela Pronestì

Incontriamo Enzo Mauri nella sua casa studio di Roma, a pochi

passi da Piazza di Spagna. È una giornata di pieno sole,

di quelle che esaltano i particolari delle facciate e dei monumenti,

facendo sentire ancora di più l’eco di una bellezza millenaria

come quella del centro storico romano. Nato a Monza nel

1946, dopo oltre cinquant’anni trascorsi a Milano, città dove ha

studiato e svolto la professione di ingegnere, Mauri si è trasferito

nel cuore della capitale, segnando così l’inizio di un nuovo periodo

della sua esistenza interamente dedito allo studio e alla

pratica della pittura. Dopo aver attraversato un elegante androne

e salito i gradini di una scala a chiocciola, si arriva all’appartamento

in cui l’artista abita con la moglie Maria Immacolata.

Questa casa è lo specchio fedele delle due passioni che da sempre

lo accompagnano: quella per l’arte, con opere sue alle pareti

ed altre di artisti suoi amici oppure acquistate negli anni per

collezionismo, e quella per la lettura, con montagne di libri di

ogni tipo a riempiere i pochi spazi lasciati liberi dalle tele e dagli

altri attrezzi per dipingere. Completa l’appartamento un grande

terrazzo affacciato sui tetti e sullo splendore artistico di Roma

dove Mauri ha ricavato lo studio interamente a vetri in cui dipin-

Enzo Mauri nello studio a vetri ricavato sul terrazzo del suo appartamento romano

ge. Roba da fare invidia a molti pittori per il contesto mozzafiato

intorno ma anche, e soprattutto, per la luce che invade questo

spazio da ogni parte. È qui che ha luogo l’intervista, tra pennelli,

colori, tele bianche ed altre già abbozzate: un disordine ordinato

nel quale ogni cosa parla di un presente costruito sulle basi di

un antico amore per la pittura.

Quando ha iniziato ad interessarsi all’arte? Qual è stata

la molla?

Non saprei dire con precisione quando, posso dire piuttosto

che l’interesse per l’arte mi accompagna da sempre. Potrei definirla

un’inclinazione naturale assecondata forse anche dal

fatto di avere avuto in famiglia uno zio che disegnava e realizzava

piccole sculture ed elementi decorativi in legno. Ne conservo

ancora qualcuno, e guardandoli oggi, a distanza di molto

tempo da quando bambino vedevo mio zio lavorare il legno,

riesco ad apprezzarne la qualità artistica. In generale, credo

che l’amore per l’arte sia il risultato di più fattori: l’ambiente familiare

certamente aiuta, così come l’innata sensibilità per il

bello, non solo quello artistico ma anche quello della natura.

Eppure, tutto questo non basta, perché l’arte è un codice che

va studiato e conosciuto a fondo per poterne veramente comprendere

i meccanismi. Ed è quello che io cerco di fare da sempre,

anche da prima di dedicarmi alla pittura.

Nella sua vita professionale, però, ha scelto un’altra

strada, quella dell’ingegneria civile. Come ha conciliato

le due cose?

Omaggio a Giorgio Morandi

Sì, è vero, ho scelto di fare l’ingegnere, una professione che

24

ENZO MAURI


impone rigore scientifico, diciamo, ma che sottende anche

un lato creativo. Del resto, il mio lavoro non mi ha impedito

di interessarmi all’arte anche mentre studiavo per diventare

ingegnere. Ricordo i pomeriggi trascorsi a Milano con

due cari amici, Giorgio Tedioli ed Enzo Contini, che come

me amavano l’arte e all’arte hanno dedicato gran parte della

loro vita, il primo come designer, l’altro come scultore. Ci

eravamo conosciuti, ancora giovanissimi, alla scuola d’arte

di Sesto San Giovanni. Insieme andavamo per gallerie e

musei, visitavamo gli studi di artisti allora famosi. Eravamo

poco più che ragazzi ma avevamo già le idee molto chiare

sul fatto che l’arte sarebbe stata una presenza certa nelle

nostre vite.

Cosa ricorda della Milano di allora? Com’era l’ambiente

culturale e artistico?

Era il periodo a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, e

Milano era già una città che offriva molto dal punto di vista

culturale. Con i miei amici Giorgio ed Enzo frequentavamo

le migliori gallerie di allora: Toninelli, Blu, Bergamini,

il Naviglio e la galleria Delle Ore. Era, per così dire, il nostro

passatempo preferito andare per mostre, un’occasione

per conoscere più da vicino questo mondo. Si respirava

un’atmosfera vivace in città, soprattutto nel quartiere di

Brera, dove c’erano caffè artistici e letterari molto interessanti

da frequentare, come il famoso Caffè Jamaica, ritrovo

dei maggiori artisti ed intellettuali della Milano di

quegli anni. È stato un periodo importante per me, la mia

prima formazione artistica è avvenuta allora, grazie anche

ad alcune mostre, come quella di Francis Bacon alla galleria

Toninelli, che mi ha davvero aperto un mondo e fatto

conoscere da vicino le opere di un artista tra i più significativi

del nostro tempo.

Metropolitana (2020), olio su tela

Tra gli inizi della sua carriera professionale e la scelta

di dedicarsi totalmente alla pittura corrono quasi cinquant’anni.

In che modo l’arte è stata sua compagna in

questo ampio lasso di tempo?

Come dicevo prima, aver lavorato come ingegnere mi ha

permesso di sviluppare la mia vena creativa, per quanto

applicata ad aspetti tecnico – costruttivi e non propriamente

artistici. Ma è stato comunque un bell’esercizio, e

posso dire di aver amato tanto la mia professione. Per il

resto, mi sono sempre dilettato a disegnare, ad allenare

l’occhio e la mano nella pratica assai difficile del disegno.

E non avendo allora ancora iniziato a dipingere, collezionavo

le opere degli altri, degli amici Giorgio ed Enzo, ma

non solo. Ricordo che una volta fui sul punto di acquistare

un’opera di Filippo de Pisis, artista che ho sempre trovato

affascinante come l’altro grande emiliano Giorgio Morandi

e il lombardo Ennio Morlotti. Di Morandi ho anche dipinto

un ritratto perché mi incuriosiva il suo personaggio, la

scelta, da un certo punto in poi, di vivere come un eremita

e di occuparsi soltanto dei problemi della pittura. La mia

non è stata una scelta così radicale, ma a modo mio ho deciso

di dare un taglio netto con quella che era stata la mia

vita per quasi sessant’anni e consacrare finalmente ogni

mio sforzo alla pittura.

Veniamo, appunto, a questa scelta: una brillante carriera

come ingegnere e poi, dopo la pensione, il trasferimento

a Roma e l’inizio di una nuova vita…

Sì, lo definirei esattamente così: l’inizio di una nuova vita.

La scelta di Roma non è stata casuale. Mia moglie è

romana ed è nata proprio nella casa dove abitiamo adesso.

Trasferirsi qui ha significato per lei tornare nella sua

città dopo diversi anni trascorsi

a Milano, mentre per me ha rappresentato

un’occasione per fare

quello che avevo sempre sognato:

studiare pittura e dipingere.

Dicevo prima che la pittura va

conosciuta a fondo prima di poter

anche solo impugnare un pennello.

È una questione di rispetto

verso quest’arte tanto straordinaria

quanto complessa. Per questo,

inizialmente ho deciso di

iscrivermi alla Scuola delle Arti

Ornamentali conosciuta a Roma

come “la San Giacomo” perché

si trova vicino all’omonima chiesa

di via del Corso. È una delle

scuole d’arte più antiche e celebri

della capitale, oggi gestista

dal Comune e fondata nel lontano

1885. Da qui sono passate intere

generazioni di artisti che hanno

dato un’impronta importante

ENZO MAURI

25


alla cultura italiana e romana in

particolare, come Pericle Fazzini

e Mario Mafai, quest’ultimo

tra i massimi esponenti della cosiddetta

“Scuola romana”, insieme

ad altri nomi altrettanto

conosciuti come quelli di Scipione,

Renato Marino Mazzacurati

e Antonietta Raphaël. Esaurita

questa prima esperienza, mi sono

iscritto all’Accademia di Belle

Arti per completare con basi ancora

più solide la mia formazione.

Ho studiato disegno, pittura,

affresco, restauro e tutto quello

che poteva servirmi a maturare

una conoscenza profonda delle

varie tecniche artistiche.

Gli esordi da pittore la vedono

impegnato tanto nella rappresentazione

del paesaggio quanto della figura umana:

qual è, tra i due, il genere che più preferisce?

Frammenti urbani (2020), olio su tela

Non mi sento di esprimere una preferenza, nel senso che,

prima ancora del soggetto, a me interessa la pittura, il modo

di combinare i colori, di farli “vivere” sulla tela, di risolvere

il rapporto tra la forma disegnata e quella dipinta.

Rappresentare la natura mi è servito per affinare il senso

del colore, esercitare l’occhio a riconoscere e riprodurre

sulla tela i rapporti chiaroscurali, modulare i diversi piani

della visione, conciliando il vicino e il lontano, il primo piano

e l’orizzonte. Ritrarre le figure mi consente invece di alimentare

la mia curiosità verso l’essere umano, verso ciò

che il corpo racconta dell’individuo, del suo modo di essere,

di vivere, di muoversi nel contesto caotico delle grandi

città. Nella natura mi perdo, mi rispecchio, ritrovo soprattutto

l’armonia impossibile nel tran tran delle azioni quotidiane;

alla figura umana, invece, guardo come farebbe un

antropologo, e cioè con il bisogno di capire cos’è che davvero

ci muove e ci spinge ad essere come siamo.

In effetti, osservando i suoi dipinti ambientati in metropolitana

o per le strade romane invase da turisti si

ha l’impressione che le persone sciamino in qua e in là

senza sapere dove stiano andando. È il disorientamento

dell’uomo contemporaneo ciò che le interessa raccontare?

Sì, è questo che voglio raccontare, ma ci sono arrivato per

gradi. Inizialmente mi interessava soprattutto il rapporto

tra figura e sfondo, il modo in cui le due cose sembrano

fondersi e diventare un tutt’uno nella finzione pittorica.

Sono partito da qui per poi concentrarmi maggiormente

sulle persone, non sui loro volti però, quelli non mi interessano,

ma sulla miriade di azioni e gesti attraverso i quali ci

esprimiamo. Questo vale soprattutto per i soggetti che mi

capita d’incontrare in metropolitana: la gran parte di loro,

giovani e meno giovani, ha la testa piegata sul telefonino.

Non si guardano l’un l’altro, non comunicano, sembrano

totalmente estraniati da tutto ciò che accade intorno. Per

carità, a me va bene, perché così posso fotografarli senza

che se ne accorgano e poi servirmi di questi scatti come

modelli per i miei quadri. Ma, al netto di questo, mette

tristezza vedere come sempre di più l’uomo di oggi stia

delegando la propria vita e i rapporti con gli altri a questi

che sono e dovrebbero restare solo e soltanto oggetti utili

ad uno scopo pratico. Purtroppo, è una deriva inarrestabile

che allontana le persone anziché facilitarne le relazioni,

ma soprattutto le rende sempre più sole, chiuse in loro

stesse, diffidenti verso l’altro. È di questo che voglio parlare

nella mia pittura.

Il suo stile è incentrato sull’intensità del colore, ma altrettanto

importante è lo spazio bianco intorno alle figure:

perché questo contrasto?

Il colore mi affascina più di ogni altra cosa: per me la realtà

è un prisma colorato che cerco di trasporre sulla tela

alternando armonie a contrasti, tinte forti ad altre più fredde

come i neri e i grigi. Ma è il bianco l’origine di tutto, dei

singoli colori così come della luce che rende visibili le cose.

Il bianco nei miei quadri serve proprio a questo, a far

vivere le figure in uno spazio che non è vuoto, ma contiene

in sé tutto ciò che serve alla pittura, cioè disegno, colore

e forma e il modo in cui questi elementi entrano in relazione

per generare l’illusione della realtà dipinta. Per questo

motivo, mi piace concentrare su di una stessa tela tutte le

variabili possibili: la figura finita e quella appena abbozzata,

la forma colorata e quella soltanto disegnata, il colore

mescolato e steso con il pennello e quello applicato puro

e in rilievo. Insomma, è la pittura la vera protagonista dei

miei quadri; a lei devo le gioie e le fatiche di questa seconda

parte della mia vita, e di questo non posso che esserle

infinitamente grato.

26 ENZO MAURI


I libri del

Mese

Esther Diana

Il viaggio metafisico delle vite che tornano

di Erika Bresci

Il romanzo d’ambientazione storica è racchiuso

nella cornice straniante e magica di

un’avventura insolita e paranormale, che ha

per protagonisti tre gatti da appartamento e gioca

con una delle caratteristiche universalmente

riconosciute dalla tradizione al mondo felino: l’avere

nove vite. A bordo del lettone padronale Basileia,

Olaf e Trixy si trovano a raccontare – e a

rivivere – una delle loro vite precedenti, vissuta

in forma umana, archiviata con l’amaro in bocca

degli irrisolti con cui molte esistenze sono solite

concludersi. Il viaggio metafisico è quindi

occasione propizia per “mettere a posto”, ma soprattutto

vedere con occhi nuovi (fino a coglierne

l’armonia non compresa durante il percorso

terreno) gli episodi di una storia tutta incardinata

nella prima metà del secolo scorso e, per questo,

condizionata e intrisa dei sentimenti e delle

difficoltà prodotte dai due conflitti mondiali. Al

centro, la figura di Anita (Basileia), figlia costretta

a crescere troppo in fretta, indurita dalla vita

e da una sete di affetto inappagata che la porta

a trascorrere le giornate in una corsa quotidiana,

un fare parossistico e frenetico – «pareva

una farfalla impazzita: sempre intenta a svolazzare

qua e là per mettere a posto e per pulire» –,

illudendosi di potersi realizzare in quel suo moto

perpetuo. Convinta che «la casa l’avrebbe rappresentata

agli occhi del mondo», sorvola sulla

profondità delle relazioni, le vive anch’esse come

oggetti materiali da spolverare ogni tanto e

da proteggere da tutti quei manigoldi che potrebbero

entrare di nascosto nelle sue linde stanze e

portare via. Ladri insospettabili, come potrebbe

essere una nuora, per esempio. Tanto che l’ansia

di possesso sconvolge anche la vita del figlio Ruggero (Olaf),

così diverso da lei; un’anima leggera, meditativa, delicata

nell’esprimersi nella pittura, innamorato proustianamente

della mite, pastosa Linetta (Trixy), candida e solo apparentemente

remissiva. Ruggero, prigioniero di guerra per otto lunghi

anni, che altrettanti (o quasi) passerà intrappolato nella

casa materna insieme alla sposa, incapace di sottrarsi a un

ricatto di affetti che affetto non è. Il racconto della storia familiare

si interrompe con il trasloco (conquista) di Ruggero e

Linetta, sposi e a loro volta genitori, in una casa propria, tolti

gli ormeggi e le zavorre da quella della madre. La cornice

risolve nelle ultime battute le mancanze e i rancori rimasti a

ribollire, smussa gli angoli, addolcisce lo stridio del tempo e

lascia ai lettori l’immagine serena di tre persone intente a innalzarsi

verso l’infinito con il sorriso, mano nella mano. La

leggerezza della favola esopica di Basileia (“la regalità”), Olaf

(“il figlio”) e Trixy (diminutivo di Beatrix, ovvero “colei che rende

beato”) è invenzione narrativa intelligente, capace da un

lato di fare da antidoto alla gravità della storia narrata, dall’altro

di rendere evidente come tutto nella vita sia un gioco di

opposti (favola e storia, silenzio e ciarlare, impegno e inettitudine,

possesso e dedizione). L’Italia tra e delle due guerre

dipinge una quinta cupa e coerente con lo snodarsi delle vicende

familiari – fatte di silenzi, di colpe, di segreti indicibili

– di uomini e donne che forse davvero solo la catarsi della

morte e la possibilità di rigenerarsi dopo aver compreso possono

salvare. Ma il messaggio resta comunque di speranza.

Perché quella scala (di vaga rimembranza platonica) che porta

in alto esiste e ognuno di noi ha, ad attenderlo, un baffo

amico che gli farà da guida verso una versione migliore di sé.

ESTHER DIANA

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Nuove proposte dell’arte

contemporanea

A cura di

Margherita Blonska Ciardi

Kinga Lopot Dzierwa

Un invito ad entrare nel cuore della natura tra misteri e ricordi

di Margherita Blonska Ciardi

Artista e professoressa d’Arti visive e Pedagogia all’Università

di Cracovia, Kinga Lopot Dzierwa ha scoperto l’amore

per l’arte grazie a due fortunati incontri avvenuti

uno tra i banchi di scuola e l’altro in un circolo culturale. Nata a

Włoszczow, piccolo paese in Polonia, è qui che da ragazza ha

seguito un corso di disegno organizzato presso la Casa della

Cultura (in polacco “Dom Kultury”) sotto la guida della giovane

insegnante Maria Dudkiewicz. Questo corso, che sembrava essere

soltanto un intrattenimento per bambini, si è rivelato invece

fondamentale per la sua crescita. Successivamente, mentre

frequentava le scuole dell’obbligo nella città di Kielce, un insegnante

d’arte pieno di entusiasmo le ha permesso di scoprire

e valorizzare le sue doti artistiche. Negli anni, alla passione per

l’arte si è affiancato anche l’interesse per l’insegnamento e per la

pedagogia che sono diventate la sua ragione di vita e l’hanno vista

intraprendere una brillante carriera didattica. «L’essere umano

– afferma Kinga Lopot Dzierwa – può diventare artista solo

se la sua ricchezza interiore viene scolpita dall’ambiente esterno».

Dopo la maturità si è trasferita a Cracovia dove ha terminato

gli studi universitari, frequentato alcuni master e conseguito

l’abilitazione all’insegnamento universitario. Parallelamente ad

una strepitosa carriera didattica ha sempre portato avanti l’attività

artistica. Le sue opere destano attenzione per la particolare

tecnica e il velo di mistero che le avvolge. Non usa grandi formati

e preferisce lavorare in serie, tipo patchwork, oppure creare

trittici per organizzare al meglio lo spazio del suo atelier. Tecniche

come olio su tela, collage e acquarello sono le sue preferite

e se ne serve per catturare le bellezze naturalistiche di luoghi

legati alla sua infanzia. I quadri ad olio spesso si sviluppano in

serie dedicate a paesaggi in verticale e in orizzontale. I primi sono

realizzati a spatola con sfumature prese dai colori della terra

e stratificazioni che ricordano la corteccia degli alberi. Si avverte

il riferimento alla vita delle piante, alla linfa che le alimenta e

al loro forte legame con l’ambiente circostante e con il terreno.

I paesaggi orizzontali, ispirati sempre dagli alberi, alludono invece

all’effimera bellezza delle vedute panoramiche, delle colline

brune e spesso innevate. In queste opere sembra di sentire il

respiro della terra e del vento che percorre spaziosi campi trac-

Paesaggio monocromatico (2020), olio su tela e carta

Paesaggio monocromatico 0211 (2020), olio su tela e carta di riso, cm 80x80

di riso, cm 80x40

28

KINGA LOPOT DZIERWA


Paesaggio monocromatico 015 (2020), tecnica mista su cartone,

carta di riso e acrilico, cm 40x30

Paesaggio monocromatico 016 (2020), olio su tela e carta di riso, cm 40x40

Acquerello lirico (2017), acquerello su carta, cm 40x40

ciati con colori tenui: la connessione con Madre Natura è tangibile.

Le tonalità usate nei quadri ad olio variano dal bianco (della

neve) al beige, passando attraverso gli ocra e sfumature di marrone

tendenti gradualmente al bruno. Queste composizioni sono

una sublime reinterpretazione del paesaggio reale che viene

scomposto in superfici geometrizzate, secondo una tecnica che

l’artista ha acquisito dopo anni di studio e guardano le opere di

maestri come Klimt, Klee, Kandinskij e Mondrian. Gli acquerelli

colpiscono invece per le insolite e sgargianti scelte cromatiche,

attraverso le quali il riferimento alla natura viene espresso

in maniera diversa. L’artista usa spesso la tecnica del frottage

per dettagli come le venature delle foglie e le impronte floreali.

In queste opere la rappresentazione della natura, e e soprattutto

della flora, si concentra maggiormente sui particolari, sull’osservazione

ravvicinata dei frutti selvatici e del sottobosco con

i fiori e le variopinte foglie autunnali raffigurate come misteriosi

tesori. I colori forti, vitali ed energici servono

a rappresentare bellezza, gioia ed abbondanza

del creato. In queste opere si avverte il riferimento

alla scuola dei coloristi polacchi come

Potworowski. Dipingendo i suoi quadri in piena

libertà e imbrattando spesso i suoi vestiti di

colore perché trascinata dal momento di euforia

e di felicità, Kinga Lopot Dzierwa conferma

lo slogan dei coloristi: «Pittura per la pittura». Il

mondo esterno viene svincolato dalla realtà ed

elaborato durante il processo artistico per offrirne

un’interpretazione del tutto libera e personale.

Per questo motivo, preferisce non dare

titoli ai suoi quadri, ma solo il nome iniziale della

serie, sperando così di lasciare spazio alla

fantasia dell’osservatore. «Avrai la vita dello

stesso colore del quale sono i tuoi pensieri» diceva

Marco Aurelio. Un motto nel quale Kinga

Lopot Dzierwa si identifica e per questo cerca

di trasmettere una parte della propria energia

creativa a chi guarda i suoi quadri. Il prossimo

mese di maggio le sue opere saranno in mostra

a Roma, per poi partecipare a settembre alla

terza edizione di AqvArt a Venezia.

KINGA LOPOT DZIERWA

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Dal teatro al

sipario

A cura di

Doretta Boretti

L’arte di scrivere un testo teatrale

Ne parliamo con l’attore, autore e regista Alessandro Riccio

di Doretta Boretti / foto courtesy Alessandro Riccio

Dopo le interviste, nei precedenti articoli,

ad alcune figure professionali

della “fabbrica teatro”, grazie alle

quali abbiamo capito quale ruolo importante

ciascuna di loro rivesta, è doveroso considerare

l’elemento senza il quale una rappresentazione

teatrale non si potrebbe definire tale:

il testo. Ne parliamo con Alessandro Riccio,

una delle “maschere” più originali e interessanti

di questo terzo millennio: regista, attore,

cantante ed autore di testi teatrali.

Come nasce in te l’idea di scrivere un testo

teatrale?

Io sono un uomo curiosissimo, adoro leggere

stranezze. Il mondo è spesso più ricco

di spunti di quanto non s’immagini. Tantissime

idee le ho trovate leggendo saggi (lo

spettacolo su Eusapia Palladino, la prima

spiritista italiana, è nato leggendo la biografia

di Cesare Lombroso), articoli di giornali,

oppure guardando film (La meccanica

dell’amore nasce da Io e Caterina di Alberto

Sordi) o manifesti (lo spettacolo Reine

de joie mi è stato ispirato dall’omonima affiche

di Toulouse -Lautrec). Poi ovviamente

anche dalle esperienze private, da ciò che

senti l’esigenza di raccontare, da una tua

urgenza.

Quanto è difficile? Occorre molto studio?

Ci sono dei canoni da rispettare?

Per me è un inferno. La drammaturgia è una

vera e propria arte. Necessita di molto studio.

Le regole sono davvero tante e fondamentali,

ma poi serve il talento e l’applicazione. Tutti

gli scrittori consigliano di scrivere ogni giorno

almeno una pagina. Io non nasco come drammaturgo e

per me scrivere è sempre a servizio della messa in scena.

Credo che i miei testi siano meno ricchi dei miei spettacoli:

attraverso la regia racconto di più che con le sole parole. Ma

lo ripeto: non sono un drammaturgo e mi va bene così.

Hai scritto un numero incredibile di commedie: ce n'è qualcuna

a cui sei più affezionato e perché?

Alessandro Riccio (ph. Luca Brunetti)

È come chiedere ad una madre: quale figlio preferisci? Ogni

spettacolo ha il suo perché nella vita di un regista ed è importante,

a mio avviso, osservare il lavoro completo di un

artista, non la singola opera. Comunque Sotto spirito, la storia

di Eusapia Palladino, Archibusati e In viso veritas credo

siano tra i miei lavori preferiti, scritti proprio con il cuore.

Spesso i tuoi testi passano dal comico al drammatico

con estrema ironia. Ti riconosci in questa affermazione e

quanto è importante l’ironia?

Il cambio di registro improvviso è davvero una mia cifra

stilistica. Mi piace passare dalla risata grassa alla frase

30

ALESSANDRO RICCIO


struggente e viceversa. Perché nella vita è così: nei momenti

più drammatici si cerca sempre di sorridere. E quando

si ride, spesso capita di pensare alle cose tristi. La

risata è senza dubbio un salvavita, la leggerezza necessaria

per sostenere i nostri drammi personali.

Di solito interpreti personaggi di tua invenzione ma ti

cimenti anche in personaggi scritti da altri. In questo

secondo caso, è necessario mettere mano al testo? E

l’autore, se vivo, come reagisce?

Io non credo al “Dio drammaturgo”: sono fermamente convinto

che una collaborazione paritaria fra scrittore, regista

e attore possa portare a risultati estremamente più stratificati

e interessanti. Sei occhi vedono meglio di due. Io

metto sempre mano al testo, perché se devo dire una battuta,

mi deve essere comoda in bocca. E cerco di spiegare

il perché: chi la vince poi è un’altra storia...

Gaia Nanni e Alessandro Riccio interpretano la cameriera meccanica Amapola e il signor Orlando ne La meccanica dell'amore (ph. Giuseppe D'Ambrosio)

ALESSANDRO RICCIO

31


Riccio in abito settecentesco per lo spettacolo Ti racconto Don Giovanni con l'Orchestra della Toscana (ph. Marco Borrelli)

Sei sempre un vulcano di idee, neppure la pandemia ti ha impedito

di continuare a lavorare. Cosa hai in programma per i

prossimi mesi?

Ho in mente più di dieci spettacoli diversi da scrivere: un

processo alle streghe, una vicenda in una prigione della rivoluzione

francese, un cantastorie démodé, un’eredità in

mano ad un folle e naturalmente Il carrozzone di Făgărăş,

lo spettacolo che stiamo provando in questo periodo, nato

durante la reclusione. E molte altre storie ancora che di

sicuro non parleranno di pandemia né di virus. Il teatro è

la nostra ora d’aria, un mezzo che, per me, deve allontanarsi

dall’asfissiante quotidianità per indagare il vero protagonista

del mondo: l’essere umano. Non di ricordarci le

nostre piccolezze di tutti i giorni. È un arte per volare alto,

il teatro.

Alessandro Riccio è Giacomo Puccini nello spettacolo I fiati dell'opera in collaborazione con l'Orchestra della Toscana (ph. Marco Borrelli)

32 ALESSANDRO RICCIO


Eventi in

Toscana

Grosseto rende omaggio allo scultore

Sauro Cavallini con una mostra a cielo

aperto nel centro storico della città

di Barbara Santoro / Foto courtesy Centro Studi Sauro Cavallini

Tra gli eventi promossi dal Comune di Grosseto e dalla

Fondazione Grosseto Cultura e inseriti nel calendario

2021 del Polo culturale Le Clarisse prenderà il via

il prossimo 21 marzo (e fino al mese di settembre), nel centro

storico della città, in piazza Dante, la grande mostra intitolata

Dinamica – La scultura monumentale di Sauro Cavallini.

Realizzata in collaborazione con il Centro Studi Sauro Cavallini

di Fiesole, vedrà la presenza di alcune grandi sculture in

bronzo realizzate dall’artista spezzino, naturalizzato fiorentino,

scomparso nel 2016. «Una delle nostre priorità – ha detto Anton

Francesco Vivarelli Colonna, sindaco di Grosseto – è rendere

l’arte accessibile all’intera comunità, portando le opere nelle

vie, in mezzo alla gente, per trasformare Grosseto in una sorta

di museo permanente. Penso che con la mostra di Sauro Cavallini,

di cui siamo molto fieri, il nostro obiettivo si stia concretizzando

nel modo migliore». Giovanni Tombari, presidente della

Fondazione Grosseto Cultura, con Mauro Papa, direttore del

Polo culturale Le Clarisse, si sono mostrati da subito interessati

a promuovere questo evento che racconta Cavallini come

un talento multiforme che ha saputo dialogare con la materia in

maniera eccelsa. Per l’occasione saranno esposte sculture monumentali

in bronzo realizzate dall’artista tra il 1967 e il 1984,

ovvero: Amore Universo, dove i corpi si muovono nello spazio

in un legame universale indissolubile; Balletto Multiplo, un vi-

Titani (1968), bronzo, cm 60x310 e cm 50x210

Balletto Multiplo (1984), bronzo, cm 260x280x250

vace balletto di gruppo in cui tre sinuose silhouette si muovono

armoniosamente con una coreografia che si articola intorno

alla figura centrale sollevata in un agile slancio; Centauro, creatura

mitologica metà uomo e metà cavallo raffigurata fremente

e scalpitante con le zampe anteriori per indicare lo scontro

ideale tra l’uomo e il centauro, tra la saggezza e l’aggressività;

Icaro, figura imponente e straordinariamente plastica rappresentata

con le braccia aperte che ricordano ali spiegate, il

corpo ricurvo in avanti e la testa china, la gamba sinistra piegata

sul basamento (unico punto di appoggio dell’opera) e la

destra slanciata lateralmente a riprendere il movimento delle

braccia e ad indicare la capacità dell’uomo di superare i propri

limiti; Titani, dotati di una forza straordinaria, sono presentati

in tutta la loro grandiosità, alti, snelli, con le braccia lungo

il corpo o sollevate al cielo, carichi di un’energia interiore trattenuta,

ma pronta ad esplodere. Le storie mitologiche, e in particolare

i miti greci, sono state punto di riferimento costante

per Cavallini che, ispirandosi ai protagonisti di favolose leggende,

ha realizzato opere cariche di significati simbolici che

spesso gli hanno consentito di esprimere i suoi profondi ideali.

Attivo per oltre mezzo secolo, Cavallini ha sempre mostrato

una personalità eclettica, confrontandosi con diverse forme

di espressione (disegno, pittura e soprattutto scultura) e riuscendo

a ottenere commissioni prestigiose, così come il privilegio

di essere presente con le sue opere

in collezioni di elevato spessore come

quelle della Città del Vaticano, del Principato

di Monaco, del Parlamento Europeo

di Strasburgo, nonché amministrazioni

pubbliche e importanti istituti bancari.

Moltissimi i riconoscimenti ricevuti

in vita e, dalla sua scomparsa avvenuta

nel 2016, si è registrato un sempre maggiore

riconoscimento e apprezzamento

del suo lavoro da parte della critica,

anche grazie ad una serie di eventi che

hanno dato l’opportunità ad un pubblico

sempre più vasto di conoscerne l’opera.

Con questa mostra prosegue quindi il

successo di un artista che ha dedicato

la propria vita alla realizzazione di opere

di grande impatto emotivo e di notevole

attualità, raggiungendo livelli altissimi

di approfondimento e di conoscenza

dell’arte scultorea e non solo.

SAURO CAVALLINI

33


L’avvocato

Risponde

A cura di

Alessandra Cirri

Dall’altare al tribunale: la separazione dei coniugi

di Alessandra Cirri

Il matrimonio è un istituto giuridico solenne con cui i nubendi-coniugi

si scambiano il reciproco consenso a condividere

la vita ed assumono reciproci obblighi. Per la

Costituzione è il fondamento della famiglia. Al momento della

celebrazione delle nozze, sia dinanzi all’Ufficiale di Stato Civile,

sia con matrimonio religioso, vengono letti tre articoli del

codice civile. Nell’emozione del momento, molti non vi prestano

attenzione, ma sono di fondamentale importanza: si parla

di “obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale,

alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla

coabitazione…”, “obbligo imposto ad ambedue i coniugi di

mantenere, istruire, educare, assistere moralmente i figli”. Poche

parole dense di significato. In Italia, nel 2019 sono stati

celebrati 184.088 matrimoni, 11.690 in meno rispetto all’anno

precedente. Il trend evidenzia un progressivo calo, sempre più

in aumento, di matrimoni. I costumi sono mutati notevolmente

negli ultimi trent’anni e il matrimonio non rappresenta più

una mèta a cui aspirare. Di pari passo aumentano le convivenze,

le famiglie dei single, come si evince dalla recente disciplina

normativa delle Unioni Civili e delle Convivenze di Fatto.

Venendo al momento della “crisi familiare”, i clienti che si rivolgono

al mio studio si sentono insicuri e impauriti perché il

passo è grande. Dopo trent’anni di attività capisco subito quali

siano stati i problemi: è fondamentale che il cliente si senta

compreso. A volte mi chiedo se sono un bravo avvocato, stante

la mia propensione alla comprensione, mi dico che dovrei

essere più distaccata, ma non ci riesco. Forse ciò è dovuto anche

alle mie esperienze, figlia di genitori separati e poi divor-

ziati, e io stessa divorziata. La prima cosa che premetto è che

non ci sono né vinti né vincitori, perché si sta parlando di pezzi

di vita, di figli, e il tentativo quindi è di dissuaderli dall’intraprendere

lunghe e costose battaglie giudiziarie. Per questo mi

adopero per instaurare trattative con la controparte, per giungere

ad un accordo bonario, conscia del fatto che una diatriba

giuridica non farebbe che aggravare ferite e dolori, oltre che allungare

notevolmente i tempi. La separazione è consensuale o

giudiziale; la prima è basata sul consenso di entrambi i coniugi,

che siglano una sorta di accordo che verrà trascritto nel ricorso

introduttivo. Alla seconda si ricorre in caso di mancato

accordo o impossibilità di raggiungerlo. In tal caso, si redige

un ricorso introduttivo al fine di giungere all’udienza presidenziale

ed ottenere i migliori provvedimenti provvisori ed urgenti

che dovranno essere adottati dal giudice e che permarranno fino

al termine della causa. Il processo di separazione giudiziale

è bi-fasico. La prima fase, introdotta con ricorso, termina

con l’udienza presidenziale ove i coniugi separatamente vengono

ascoltati dal presidente e poi successivamente lo stesso

adotta dei provvedimenti provvisori ed urgenti che riguardano:

l’affidamento dei figli e le modalità di visita degli stessi, l’assegno

mensile, quale contributo al mantenimento della prole,

considerando le risorse economico e patrimoniali di ciascun

genitore, il rimborso delle spese straordinarie attinenti ai figli,

l’assegnazione della casa familiare, a quale genitore il collocamento

dei figli. Il presidente, infine, assegna la causa ad un

giudice istruttore. Questa è la seconda fase della separazione

giudiziale, che ha lo svolgimento di qualsiasi altra causa, ovvero

con trattazione scritta ed orale, escussione di testi, assunzione

di mezzi di prova, eccetera. La separazione giudiziale,

tuttavia, può essere trasformata in consensuale in qualsiasi

momento, laddove i coniugi abbiano, nel frattempo, raggiunto

un accordo. La consensuale si basa sull’accordo raggiunto e

poi trascritto nel ricorso introduttivo. Il contenuto dell’accordo

può essere molto più ampio della separazione giudiziale, ovvero

oltre a disciplinare i quattro punti fondamentali della separazione

– affidamento dei minori, assegnazione della casa

coniugale, assegno per i figli, eventuale assegno per coniuge

beneficiario – si può estendere anche a tutti i rapporti patrimoniali

dei coniugi, come divisione di beni mobili o immobili, conti

correnti, altre posizioni patrimoniali, eccetera. I coniugi che

prevedano il trasferimento di parte o di un intero bene immobile

a favore di un coniuge o dei figli godono dell’esenzione fiscale,

laddove ciò sia rappresentato come elemento

funzionale alla risoluzione della crisi coniugale. La separazione

consensuale termina con l’omologa, una sorta di timbro

con il quale i coniugi vengono autorizzati a essere separati alle

condizioni dai medesimi indicate nel ricorso, previo vaglio

del pubblico ministero che svolge funzioni di controllo dell’interesse

pubblico. La separazione giudiziale, invece, termina

con sentenza. La separazione con negoziazione assistita ha

lo stesso identico valore della separazione consensuale svol-

34

LA SEPARAZIONE


ta in tribunale. In questa procedura le

parti siglano una Convenzione preliminare

che altro non è che sancire delle regole

di condotta per tutto il periodo

necessario per il raggiungimento di un

accordo che deve avvenire entro novanta

giorni dalla sottoscrizione della Convenzione.

In questo periodo le parti

trovano l’accordo con l’assistenza degli

avvocati, che poi trascrivono in un atto

“accordo di negoziazione assistita per la

separazione personale”. Tale atto viene

depositato presso la Procura delle Repubblica

del tribunale. Emesso il provvedimento,

gli avvocati dovranno trasmetterlo

all’Ufficio di Stato Civile del Comune dove

sono state celebrate le nozze. Il vantaggio

della negoziazione assistita è la celerità:

mentre per una separazione consensuale

depositata in tribunale ci vogliono dai 3 ai 6 mesi di tempo per

avere l’udienza presidenziale e poi avere l’omologa, con la negoziazione

si può fare tutto nell’arco di un mese. Il tema centrale

nelle separazioni riguarda i figli. La legge ha notevolmente

modificato l’istituto dell’affidamento dei figli, prevedendo come

regola generale l’affidamento congiunto dei figli ad entrambi

i genitori. Gli articoli del codice civile sono stati modificati,

per cui dall’affidamento esclusivo siamo passati all’affidamento

condiviso nel 98% dei casi. L’affidamento esclusivo può essere

disposto dal giudice solo laddove l’affidamento condiviso

sia pregiudizievole per il minore, ovvero in casi eclatanti di violenze.

Il minore, inoltre, può essere ascoltato dal giudice quando

abbia compiuto 12 anni. L’Italia era stata più volte

sanzionata dalla Corte di Strasburgo per avere ignorato questo

principio, definito della “bigenitorialità”, con esclusione di

una figura genitoriale dai rapporti con i figli. I figli dovrebbero

essere le figure centrali, mentre spesso accade che diventino

merce di scambio o di ritorsione di un genitore contro l’altro,

causando enormi danni agli stessi, nell’illusione che, mettendo

in cattiva luce l’altro genitore, vengano ripagati dai torti subiti.

In realtà, invece, viene perpetuato un gravissimo danno ai

figli, che successivamente si ritorcerà contro lo stesso genitore.

La mia esperienza professionale mi ha insegnato che i figli

sono i giudici più severi. La regolamentazione tra genitori e figli

sta diventando sempre più paritaria, ormai i tribunali non

accettano più la frequentazione tra un genitore e figlio relegata

al solo week-end, indipendentemente dall’età del minore,

salvo che sia un neonato. È molto importante rispettare regole

di divisione paritaria per i giorni della settimana, per le feste

natalizie e pasquali, per le vacanze estive. Ai figli deve essere

garantito l’habitat familiare, ovvero la casa dove sono cresciuti

va preservata per tutelare le loro abitudini e le relazioni sociali,

e per tale motivo viene assegnata al genitore che risulterà

essere collocatario dei figli, quasi sempre individuato nella

madre. Non importa se l’abitazione familiare sia di proprietà

esclusiva di uno o dell’altro genitore, se sia in comproprietà tra

entrambi i genitori, se sia gravata da un mutuo, questa viene

assegnata in ogni caso al genitore collocatario fino a quando

i figli non avranno raggiunto la loro autonomia economica.

Uno dei pochi casi di limitazione del diritto di proprietà. Il genitore

“spogliato” dalla casa familiare anche se di sua proprietà

esclusiva, dovrà attendere molti anni prima di ritornarne

in possesso e magari continuare a pagare le rate di mutuo. Per

quanto concerne l’assegno per il mantenimento dei figli, se vi

è una ripartizione equiparata di tempo di permanenza con entrambi

i genitori e se gli stessi hanno redditi simili, si può arrivare

ad una forma di mantenimento diretto, ovvero ogni

genitore provvederà al mantenimento dei figli quando li ha

con sé. Diversamente, il giudice può stabilire un assegno a

carico di un genitore e a favore dell’altro, per garantire il più

possibile lo stesso tenore di vita ai figli, in relazione alle capacità

patrimoniali di ciascun genitore e al tempo dagli stessi

impiegato per la loro cura. Altra cosa sono le spese

straordinarie, che riguardano tutte quelle spese che hanno il

carattere dell’imprevedibilità come le spese mediche, scolastiche

e extra-scolastiche o di svago. La ripartizione avviene,

di solito, al 50% tra i genitori, a meno che non ci sia una sproporzione

di redditi. In Italia non esistono parametri precisi

per determinare l’ammontare dell’assegno per i figli o per il

coniuge debole; l’indagine condotta dal giudice si basa essenzialmente

sulle dichiarazioni dei redditi che spesso non

corrispondono a realtà.

Laureata nel 1979 in Giurisprudenza presso l’Università

di Firenze, Alessandra Cirri svolge la professione

di avvocato da trent’anni. È specializzata in diritto

di famiglia e minori, con competenze in diritto civile. Cassazionista

dal 2006.

Studio legale Alessandra Cirri

Via Masaccio, 19 / 50136 Firenze

+ 39 055 0164466

avvalecirri@gmail.com

alessandra.cirri@firenze.pecavvocati.it

LA SEPARAZIONE

35


Dimensione

Salute

A cura di

Stefano Grifoni

Quando il controllo del peso diventa

un’ossessione

di Stefano Grifoni / foto Carlo Midollini

L’Italia è la nazione dove le persone si dedicano di

più al controllo del peso corporeo. Gli italiani hanno

l’ossessione della bilancia e la usano circa 112

volte l’anno, uno su cinque ogni giorno. Le donne ancora

di più 115 volte l’anno. Complessivamente il 78% delle persone

si preoccupa del proprio stato di benessere fisico e

psichico attraverso il controllo del peso due volte al giorno

con una media di 218 volte l’anno. Nonostante questo

metodo non si hanno risultati soddisfacenti sul peso e sul-

la salute a causa principalmente della difficoltà di abbinare

dieta e attività fisica in maniera regolare per gli orari di

lavoro e gli impegni familiari. In sostanza la maggioranza

delle persone vuole mantenersi in forma ma non sa come

farlo e salire su una bilancia non è sufficiente. Per esempio

i muscoli sono più pesanti del grasso e quindi la sola

misurazione del peso non ci dice se si sta perdendo grasso

o aumentando il muscolo. La bilancia non serve per conoscere

il peso dell’anima.

Stefano Grifoni è direttore del reparto di Medicina e Chirurgia di Urgenza del pronto soccorso

dell’Ospedale di Careggi e direttore del Centro di riferimento regionale toscano per la diagnosi

e la terapia d’urgenza della malattia tromboembolica venosa. Membro del consiglio nazionale

della Società Italiana di Medicina di Emergenza-Urgenza, è vicepresidente dell’associazione

per il soccorso di bambini con malattie oncologiche cerebrali Tutti per Guglielmo e membro tecnico

dell’associazione Amici del Pronto Soccorso con sede a Firenze.

36

PESO CORPOREO


A cura di

Emanuela Muriana

Psicologia

oggi

Il piacere che avvelena: sovrappeso e bulimia

di Emanuela Muriana / foto Carlo Midollini

Tanti e complessi sono i disordini

e i disturbi alimentari. Ormai in

crescita esponenziale negli ultimi

decenni, si sono evoluti seguendo i modelli

culturali che hanno messo l’immagine

di sé come uno dei primi ingredienti

della propria identità e autostima. L’identità

ce l’abbiamo, non perché siamo nati ma

perché gli altri ce la riconoscono. Non siamo

altro che il risultato del riconoscimento

delle persone che abbiamo incontrato.

L’autostima invece è la considerazione che

la persona ha di se stesso. In questo clima

la nostra immagine diventa per alcuni il parametro

della propria persona, generando

spesso comportamenti inefficaci nel tentativo

di correggersi. Il piacere e il controllo

mal riuscito dell’alimentazione si traducono

invece in sovrappeso e bulimia, cioè

alimentazione incontrollata. Già Epicuro

nelle sue Massime ricorda: «I piaceri più

intensi sono quelli provenienti dal ventre».

Un esperto, lui, di gestione del piacere, visto

che pare alternasse giornate di digiuno

a giornate di grande abbuffate. Insomma il

binge eating (disturbo da alimentazione incontrollata)

è un problema diffuso che si

basa sull’illusione di tenere sotto controllo

il peso. Restringere per strafogarsi è un

modo per incrementare il piacere di man-

giare, un contrasto che amplifica il senso di gusto e sazietà.

Un meccanismo rischioso perché anche il più raffinato binge

eater finisce per abbuffarsi senza tregua. Come si mantiene

il disturbo? La restrizione crea l’abbuffate, a cui segue un

periodo di restrizione a cui seguiranno abbuffate incontrollate.

Un meccanismo ormai patologico sul quale possiamo

intervenire senza pensare di fare leva solo sulla volontà. La

bulimia invece è una patologia alimentare basata su una sfrenata

tendenza a mangiare, connotata da un piacere incontrollabile

e da una conseguente e continua paura di perdere

il controllo. Qui non abbiamo fasi di restrizione o astinenza.

Come si mantiene il disturbo? Con il tentativo di controllare

il desiderio di consumare, cadendo nel paradosso di in-

crementare il desiderio di abbuffarsi. Sono di solito persone

sensibili che imparano ad essere sfrenate con il cibo come

una sorta di adattamento funzionale ad una realtà a loro ingestibile.

Spesso sono inconsapevoli di questo aspetto del

disturbo e vivono il cibo come una sorta di demone che si è

impossessato di loro. Tra loro troviamo persone che alternano

periodi di dieta, in cui possono raggiungere anche il peso

forma, e recupero del peso spesso con interessi. È la casistica

più numerosa che si rivolge prevalentemente a dietologi e

medici, ma non agli psicoterapeuti. Tutte le diete funzionano,

basta essere capaci di seguirle. Se non si riesce siamo in uno

dei tanti problemi o disturbi psicologici che rimarranno tali se

non sono adeguatamente trattati.

Emanuela Muriana è responsabile dello Studio di Psicoterapia Breve

Strategica di Firenze, dove svolge attività clinica e di consulenza.

È stata professore alla Facoltà di Medicina e Chirurgia presso

le Università di Siena (2007-2012) e Firenze (2004-2015). Ha pubblicato

tre libri e numerosi articoli consultabili sul sito www.terapiastrategica.fi.it.

È docente alla Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Breve Strategica.

Studio di Terapia Breve Strategica

Viale Mazzini 16, Firenze

+ 39 055 242642 - 574344

emanuela.muriana@virgilio.it

SOVRAPPESO E BULIMIA

37


I consigli

dell’osteopata

A cura di

Stefano Masini

Il dolore alla spalla

Problema muscolare o spia di altri disturbi

Testo e foto di Stefano Masini

Èfrequente riscontrare una sintomatologia dolorosa

della spalla nella pratica osteopatica. Il “complesso”

della spalla è l’insieme di cinque articolazioni. Soddisfa

due necessità contraddittorie: mobilità e stabilità. Per

tali scopi, superfici articolari, muscoli con relativi tendini, legamenti,

capsule e borse sierose svolgono un’azione coordinata.

La perdita di “salute” di uno di questi elementi causerà una

sofferenza di tutto il sistema. Inoltre una rete di muscoli, fasce

e nervi correlano la spalla con gomito, colonna vertebrale,

articolazione temporo-mandibolare, diaframma, fegato, vescica

biliare, stomaco e pancreas. Tali rapporti suggeriscono che

un dolore nella regione della spalla non sia esclusivamente riconducibile

ad un problema locale. Le cause possono spesso

essere rintracciate a distanza. Non appena il paziente entra in

studio inizia la raccolta delle informazioni osservando come

è costretto a posizionare la spalla ed a limitarne i movimenti,

conoscendo sinteticamente la sua storia clinica passata ed

attuale, facendosi raccontare quali attività lavorative e sportive

svolge, definendo le caratteristiche del dolore ed, infine,

effettuando alcuni test specifici. Tutto questo permetterà di

stabilire se sia corretto l’approccio osteopatico o se altrimenti

sia necessaria una valutazione medico-specialistica. Nella

mia esperienza riscontro con frequenza due diverse condizioni.

Nella prima, il dolore è causa-effetto di un deficit di mobilità

e forza per gli esiti di un trauma diretto o indiretto, per microtraumi

ripetuti nel tempo, per posture disfunzionali, per scarso

esercizio, fattori tutti che possono provocare una sofferenza

dei tendini (in particolare quelli dei muscoli sovraspinoso e capo

lungo del bicipite brachiale) e della borsa sottoacromiale

(specializzata nel ridurre l’attrito fra alcune strutture durante

il movimento). L’obiettivo terapeutico, in questo caso, consiste

nel ripristinare il movimento ed incrementare la forza: si utilizzano,

secondo le necessità individuali, tecniche di decoattazione

articolare, mobilizzazione scapolare rispetto al torace

ed esercizi con elastici. Nell’altra condizione, invece, il dolore

della spalla è riferito, ossia il problema ha origine altrove: il

muscolo diaframma ed i visceri addominali sono spesso i principali

responsabili. Durante il ciclo inspirazione-espirazione, il

diaframma esercita un’azione di spinta-richiamo sui visceri addominali

sottostanti. Una tensione delle strutture che collegano

diaframma e visceri o i visceri fra loro potrà, attraverso il

torace, influenzare l’articolazione della spalla. In questo caso

Tecnica di inibizione-facilitazione sul diaframma

Tecnica di decoattazione articolare: mobilizzazione scapolare rispetto al torace

le tecniche di inibizione-facilitazione sul diaframma, le manipolazioni

viscerali ed alcuni semplici esercizi di respirazione

permetteranno di eliminare la sintomatologia dolorosa. In sintesi,

“salute” è libertà di movimento: con l’approccio osteopatico

si recupera il movimento e quindi lo stato di salute.

Diplomato in Educazione Fisica nel 1989 ed in

Fisioterapia nel 1995, Stefano Masini si specializza

in Osteopatia nel 2008. Esercita la professione

dal 1995, prima in centri di riabilitazione e dal

2001 come libero professionista.

Studio Medico San Jacopino

Via Ponte all’Asse 3 A , Firenze

Orario: lun-ven 9.00-12.30 / 15.00-19.00

+ 39 055.354792

masinistefano@hotmail.it

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DOLORE ALLA SPALLA


A cura di

Silvia Ciani

I consigli del

nutrizionista

Rinforzare il sistema immunitario

con l’alimentazione

di Silvia Ciani

Per contrastare l’infezione da Coronavirus non esiste

una dieta specifica, sono utili, piuttosto, una serie di

comportamenti che riguardano il nostro stile di vita

oltre che una corretta alimentazione. Dobbiamo inoltre abituarci

a mantenere questi comportamenti per diverso tempo,

almeno finché il numero di persone che hanno già contratto

il virus e il numero di vaccinati sarà talmente elevato che

le probabilità di diffonderlo ad altre sarà molto bassa. Occorre,

soprattutto, continuare ad usare le mascherine (in modo

corretto), mantenere il distanziamento (anche all’aperto),

igienizzare le mani. Poi, per rafforzare il nostro organismo,

anche in vista della prossima primavera, occorre avere uno

stile alimentare equilibrato e riuscire a mantenere un peso

stabile. Per farlo è importante rispettare queste regole: fare

pasti regolari con porzioni adeguate; utilizzare alimenti freschi

e preferire quelli di stagione perché mantengono al meglio

le loro caratteristiche nutrizionali; essere aderenti il più

possibile alla dieta mediterranea; bere almeno 2 litri di acqua;

combattere la sedentarietà muovendosi il più possibile. Per

aiutare ulteriormente il nostro sistema immunitario possiamo

anche porre più attenzione agli alimenti ricchi di nutrienti

funzionali, cioè quei nutrienti (particolari vitamine, polifenoli

e minerali) di cui sono dimostrate le proprietà antiossidanti

e immuno-regolatorie. In particolare, ricche di vitamine A e

C in questa stagione sono la verdura di colore verde e rosso

come broccoli, spinaci, carciofi, radicchio, carote, barbabietole,

e la frutta come arance, mandarini, pompelmi, mele, pere,

kiwi e uva. I polifenoli li troviamo soprattutto negli alimenti

freschi di colore viola-rosso scuro come il radicchio e i frutti

di bosco. Ma li possiamo trovare anche nel te, nel vino, nel

cioccolato fondente e nell’olio extravergine di oliva. Quest’ultimo,

insieme alla frutta secca – come noci, mandorle, arachidi

e pinoli – è anche ricco di vitamina E. Le vitamine A e

D le troviamo nel pesce, che tra l’altro è anche ricco di grassi

omega-3, anch’essi indispensabili per il processo antinfiammatorio.

Fra i minerali, lo zinco, essenziale per lo sviluppo

delle cellule deputate alla risposta immunitaria, si trova principalmente

nella carne, nel pesce, nelle uova, nei formaggi,

ma anche, insieme al selenio (altro antiossidante indispensabile),

nei prodotti integrali, nei legumi, oltre che nella frutta

secca. Se l’alimentazione è varia e moderata, insieme ad una

adeguata idratazione e all’attività fisica costante, si conserva

anche un buon equilibrio della flora batterica intestinale: essa

consente di mantenere integra la barriera intestinale, impedendo

agli agenti patogeni di proliferare e consentendo la

produzione di ulteriori sostanze immuno-stimolatorie essenziali

per la regolazione e il corretto funzionamento del sistema

immunitario.

Biologa Nutrizionista e specialista in

Scienza dell’alimentazione, si occupa

di prevenzione e cura del sovrappeso

e dell’obesità in adulti e bambini attraverso

l’educazione al corretto comportamento alimentare,

la Dieta Mediterranea, l’attuazione di

percorsi terapeutici in team con psicologo, endocrinologo

e personal trainer.

Studi e contatti:

artEnutrizione - Via Leopoldo Pellas

14 d - Firenze / + 39 339 7183595

Blue Clinic - Via Guglielmo Giusiani 4 -

Bagno a Ripoli (FI) / + 39 055 6510678

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Barsanti 24 - Prato / + 39 0574 548911

www.nutrizionistafirenze.com

silvia_ciani@hotmail.com

SISTEMA IMMUNITARIO

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Movimento

Life Beyond Tourism

Travel To Dialogue

Firenze e la Toscana protagoniste della

ripartenza con Life Beyond Tourism

Una mostra internazionale e il progetto degli Infopoint quali

simboli di rinascita dei territori

Lo scorso 11 febbraio grazie alla mostra internazionale

e interattiva Florence in the World, the World

in Florence il Movimento Life Beyond Tourism

Travel to Dialogue e la Fondazione Romualdo Del Bianco

hanno lanciato, da Firenze nel mondo, un messaggio di ripartenza.

Il progetto della mostra era pronto per essere

realizzato proprio un anno fa, quando la pandemia da Covid-19

ha fermato tutto. Florence in the World, the World

in Florence è una mostra fotografica con gli scatti di

Corinna Del Bianco, promossa dalla Fondazione Romualdo

Del Bianco e organizzata dal Movimento Life Beyond

Tourism Travel To Dialogue, è stata pensata per essere un

esercizio di narrazione della nostra città, Firenze, in ottica

Life Beyond Tourism da portare in giro per il mondo. È

anche la proposta di un meccanismo innovativo grazie alla

tecnologia NFC del nostro partner Europromo per offrire

al visitatore spunti sul patrimonio materiale e immateriale

della città. È la speranza di costruire assieme alla nostra

rete internazionale una seconda mostra The world in Florence

con le fotografie delle espressioni culturali dei territori

che già la stanno ospitando nel mondo. È il nostro

modo di guardare avanti per il dialogo interculturale e il

viaggio dei valori.

Il fatto che il progetto della mostra sia internazionale è un

elemento strategico per la città di Firenze nel mondo, oltre

che per la Toscana. Rappresenta l’opportunità di ripartire

da Firenze con Life Beyond Tourism e lancia un messaggio

importante per la comunità internazionale, come ha sottolineato

il presidente della Regione Toscana Eugenio Giani

intervenuto nella prima giornata della mostra: «Il messaggio

di un turismo che è qualità – afferma Giani – nell’entrare

nei contenuti, nei significati, nella storia, nel futuro

di quello che può significare il dialogo nelle varie parti del

mondo». In questo contesto rientra il lavoro che negli anni

è stato portato avanti da Life Beyond Tourism grazie alle

relazioni internazionali della Fondazione Romualdo Del

Bianco costruite in oltre trent’anni di impegno per il dialogo

interculturale, come sottolineato ancora dal presidente

della Regione: «La Fondazione ha fatto strada con iniziative

che vanno nel senso della qualità dell’incontro e delle

relazioni che si creano in un pianeta che impara ad apprez-

40

MOVIMENTO LIFE BEYOND TOURISM TRAVEL TO DIALOGUE


zare il bello e in questa mostra il

bello di Firenze e della Toscana viene

fuori con grande evidenza».

La mostra e il messaggio di positività

in una ripresa del viaggio a

partire dalla Toscana nel mondo

sono stati accolti con entusiasmo

anche dalla città di Firenze, con le

parole della vice sindaca Cecilia del

Re che saluta la mostra auspicando

che sia il mezzo attraverso cui

«portare il cuore di Firenze, le emozioni

di Firenze nel mondo e riuscire

ad accompagnare una ripresa

che tutti noi auspichiamo». E ancora

l’assessore Tommaso Sacchi,

intervenuto per salutare le università

presenti in video collegamento:

«Sono molto felice di spendere

qualche breve parola per salutare

questa straordinaria occasione

che cade in un anno così difficile e

particolare e anche doloroso che è

l’anno colpito dalla pandemia. A distanza

di quasi un anno siamo con

voi per presentare questa straordinaria

occasione di racconto della

nostra città per immagini».

La mostra si inserisce in un percorso

di relazioni internazionali

avviato grazie agli oltre trent’anni

di attività della Fondazione ed è

già esposta a Ivanovo (Russia), Riga

(Lettonia), Durham (Regno Unito),

Tambov (Russia) e Baku (Azerbaijan) e arriverà presto

anche in Marocco e Mozambico. Il risultato di un lavoro

che non si ferma e che è riuscito a creare nell’ultimo anno

la rete degli Infopoint Life Beyond Tourism all’interno di:

Ivanovo State University (Russia), Riga Technical University

(Lettonia), Durham University (Regno Unito), la Tambov

State University (Russia), Azerbaijan Architecture and

Construction University di Baku, Azerbaijan Tourism Management

University (Azerbaijan), UCLGA-United Cities

and Local Governments of Africa (Marocco) e Maputo University

(Mozambico). In queste istituzioni infatti sono stati

creati dei punti informativi su Life Beyond Tourism che

rappresentano una presenza istituzionale del Movimento,

della Fondazione e di Firenze stessa nel territorio. Un luogo

dove conoscere le numerose attività e i programmi di

Life Beyond Tourism a disposizione di studenti e docenti

(fasi di mobilità Erasmus a Firenze nei nostri uffici, opportunità

di lavoro, concorsi internazionali). Un punto di riferimento

per la comunità accademica per tenere informati i

membri su iniziative presenti e future, anche grazie ai materiali

in consultazione e agli aggiornamenti online.

Da Firenze nel mondo e dal mondo a Firenze con la convinzione

che non ci siamo mai fermati!

Il Movimento Life Beyond Tourism Travel to Dialogue srl è una società

benefit. Nasce e si sviluppa seguendo i princìpi di Life Beyond Tourism®,

ideati dalla Fondazione Romualdo Del Bianco al fine di promuovere

e comunicare il patrimonio naturale e culturale dei vari territori

insieme alle espressioni culturali, il loro saper fare e le conoscenze tradizionali

che custodiscono. Offre proposte di consulenza per lo sviluppo di

progetti di marketing territoriale e turistico, formazione, eventi, comunicazione,

relazioni internazionali.

Per info:

+ 39 055 290730

info@lifebeyondtourism.org

www.lifebeyondtourism.org

MOVIMENTO LIFE BEYOND TOURISM TRAVEL TO DIALOGUE

41










Occhio

critico

A cura di

Daniela Pronestì

Alessandro Ciantelli

La persistenza della memoria

di Daniela Pronestì

Èuna pittura della memoria quella di Alessandro

Ciantelli, memoria che se da un lato “congela” sul

supporto emozioni ed immagini affiorate dal passato,

dall’altro lato esprime l’urgenza di tramandare una storia

che rischia altrimenti di essere dimenticata. Più precisamente,

nell’opera di Ciantelli, la memoria incarna sia l’immobilità

di ricordi che sono pietre miliari nella vita dell’artista,

sia la necessità di perpetuare nel tempo esperienze che

legano la memoria del singolo a quella collettiva. La dimensione

privata del ricordo gli offre quindi lo spunto per

parlare di una vicenda che non riguarda se stesso soltanto,

ma che abbraccia il destino di intere generazioni di uomini

e di donne che come suo padre e sua madre hanno speso la

loro esistenza nel lavoro dei campi e nella cura del focolare

domestico. L’intersecarsi di amore filiale e riflessione sociale

spiega perché dei propri genitori Ciantelli non offra un

ritratto tradizionale, con volti riconoscibili e nomi di persona,

ma preferisca invece soffermarsi su quegli aspetti che

trasformano ambedue le figure nei simboli di uno stile di vita

votato al sacrificio, alla fatica operosa, alla cura della terra

con la stessa devozione con cui si curano i figli. Proprio

perché incarnano una dimensione quasi mitica del vivere rispetto

ai costumi odierni, entrambe le figure non compaiono

nei dipinti come presenze esplicite, ma vengono invece

raccontate attraverso ambientazioni investite, a loro volta,

di precisi significati simbolici: la campagna di Giaccherino,

dove Ciantelli è nato e suo padre ha coltivato la terra,

un’anonima casa colonica in località le Caselle, luogo natale

della madre a cui l’artista è tornato più volte in cerca delle

proprie radici, e più in generale scorci rurali che riportano

alla memoria saperi antichi e gesti rituali del vivere contadino.

Di quest’ultimo restano, a testimoniarlo, cascine, mu-

Colori della memoria (2007), tecnica mista su tavola, cm 80x100

retti, attrezzi da lavoro; e ancora, paesaggi coltivati, sentieri

di campagna, mulattiere. Nient’altro, quindi, che “terra e cose”,

frammenti di un’unità perduta che l’artista recupera e

concentra in un linguaggio nel quale un logoro sacco di juta

del padre diventa un elemento cromatico, l’intonaco staccato

dalla casa della madre una superficie da dipingere, la

tela a righe di un vecchio materasso di campagna il perno

della composizione. Scampoli di materia integrati nel corpo

dell’opera con una cifra espressiva soltanto in parte riferibile

alla poetica informale, rispetto alla quale, in questo caso,

non è l’atto creativo a nobilitare la materia, ma è il porsi

di quest’ultima come reliquia ad elevare il dipinto alla dignità

di un’icona sacra. Se la memoria è immateriale, sembra

dire Ciantelli, la materia permette allora di renderla visibile,

Memorie in verticale (2016), tecnica mista su cartone telato, cm 40x50

Autunno (2012), tecnica mista su tavola, cm 90x110

42

ALESSANDRO CIANTELLI


e dunque di evocare una dimensione che appartiene al regno

astratto della mente e non a quello concreto del mondo

reale. È questa, infatti, la funzione della foglia oro presente

in gran parte dei suoi dipinti: materializzare la preziosità

di valori umani e culturali che il tempo non può cancellare.

Così come il ritmo delle stagioni, vero e proprio leitmotiv

della pittura di Ciantelli, assurge, invece, a metafora di memorie

che sempre si rinnovano nel cuore di chi le conserva.

Sulla superficie scabra e rilevata del supporto, tra segni

graffiti e figure incise nel colore, si aprono “finestre” spalancate

su spazialità sospese, scorci di natura e forme astratte,

con una struttura a comparti che, come la predella di un

polittico, richiede una lettura delle singole unità visive da sinistra

a destra in senso orizzontale. Un espediente narrativo

che replica, sul piano simbolico, lo sviluppo lineare del

tempo, con spazi vuoti tra una finestra di colore e l’altra, come

a voler indicare un percorso spesso accidentato. Vuoti

che soltanto la memoria può colmare, procedendo dal basso

all’alto, dalla terra al cielo, lungo una direttrice verticale

che riscatta, elevandoli, gli anonimi protagonisti di una civiltà

ormai quasi del tutto perduta.

Le opere di Alessandro Ciantelli sono in vendita presso la galleria

Artistikamente di Pistoia - www.artistikamente.net

Frammenti in verticale (2009), tecnica mista su tavola, cm 100x80

Frammenti di casa colonica (2016), tecnica mista su tavola, cm 70x100

ALESSANDRO CIANTELLI

43



I libri del

Mese

Vivere

Omeopata con la passione per la scrittura, Franca Giangeri ha da poco

pubblicato il suo primo libro di racconti e ha già in cantiere un romanzo

Testo e foto di Elisabetta Mereu

Franca Giangeri nella sua casa di Scandicci

In questo anno appena trascorso i libri sono stati un prezioso

alleato per uscire da una realtà insolita e inquietante

che peraltro ancora ci avvolge. Tantissimi hanno

letto ma altrettanti hanno scritto e finalmente portato a termine

un progetto rimasto sospeso per troppo tempo. Come

è successo a Franca Giangeri, medico omeopata, autrice di

Vivere (Le Parche Edizioni), che a questo proposito afferma:

«Avevo iniziato a scrivere già nel 2011, ma poi per una

serie di eventi luttuosi mi sono bloccata. Però l’anno scorso

ho sentito proprio il bisogno forte di far riemergere la miriade

di sensazioni che ho dentro, perché scrivere è davvero

terapeutico». E queste emozioni contrastanti traspaiono già

dalla copertina dominata dal rosso, dal nero e dal giallo,

colori che indicano la passione di chi, nel bene e nel male,

ha vissuto tutto appieno, l’oscurità che attraversa inevitabilmente

l’animo umano e, infine, la luce del sole che, nonostante

tutto e tutti, torna sempre a splendere con un nuovo

giorno. «Vivere è gustare l’alba e il tramonto», si legge nei

versi che aprono la narrazione e che, insieme alla lunga poesia

finale dedicata a Laurina, un’amica d’infanzia, contribuiscono

a caratterizzare questo libro. Dalla penna della

dottoressa Giangeri (che sta già lavorando ad un romanzo

di prossima uscita ndr.), emergono storie profondamente

intrise dei suoi ricordi di bambina prima e di donna poi,

che però possono rappresentare ognuno di noi, come sottolinea

l’editore Marco Bartiromo nella prefazione: «I dieci

racconti di Franca Giangeri sono pagine di vita da cui scaturiscono

immagini fatte di malesseri e disagi che l’autrice

sapientemente indirizza in una sola direzione: verso la

ricerca del senso della vita. Tra le righe delle ottanta pagine

c’è la gioia, raccontata come segno di forza e di cambiamento.

E la gioia, per chi la prova, è un dovere nei confronti

degli altri. Bisogna tentare di renderli partecipi, perché la

vita è cadere e rialzarsi, soffrire ma anche ridere e soprattutto

andare avanti tutti i giorni». Una peculiarità che appartiene

soprattutto a noi donne, uniche creature/creatrici e,

come l’Araba Fenice, sempre capaci di rinascere a nuova vita,

seppur lacerate dall’imponente cumulo di macerie di un

passato che non si dimentica, ma al quale non vogliamo più

appartenere.

Per i lettori de La Toscana nuova l’autrice in accordo con l’editore

ha deciso di proporre un’agevolazione sul prezzo di copertina

del libro.

Per informazioni: + 39 3477138949

leparchedizioni@gmail.com

www.leparchedizioni.shop/product-page/vivere

Franca Giangeri

info@francagiangieri.it

VIVERE

45


Il fuoco di Prometeo, olio su tela, cm 100x110

Prometeo, olio su tela, cm 70x50

Andrea Simoncini

L’eternità del mito

www.andreasimonciniarte.it / www.centrostudigentilini.it / andreasimoncini1@yahoo.it

Andrea Simoncini andreasimoncini1

Lo studio del pittore, olio su cartone telato, cm 50x40

Venere preclassica, olio su cartone telato, cm 60x40


A cura di

Laura Belli

Speciale

Pistoia

Claudio Bontà

L’emozione della natura in un quadro

di Laura Belli

La stradina dell'amore, acrilico su tavola, cm 60x70

Claudio Bontà è un artista che, seguendo

un innato amore per la natura, ha raggiunto

risultati pittorici che destano ammirazione.

L’ambiente naturale è il soggetto prediletto

delle sue opere e nello specifico i paesaggi toscani

e i fiori, dei quali riesce a cogliere e a rappresentare,

in lussureggianti composizioni, la

bellezza delle forme e il fulgore dei colori. Si avvale

con perizia del colore in tutte le sue varianti

cromatiche, rendendolo elemento fondante del

suo linguaggio figurativo; predilige per questo i

colori acrilici che, per la loro velocità di essiccazione,

consentono una stesura rapida di velature

sovrapposte e garantiscono brillantezza e luminosità

alla composizione. Parlando della propria

arte, Bontà afferma: «Mi definisco un “cacciatore

d’ombre”, vago spesso nei campi in fiore, lungo

gli argini dei fiumi, lungo il mare, nei boschi,

nei paduli, in una solitaria e appassionata ricerca

espressiva di un momento che sarà unico e irripetibile,

atto a creare quell’emozione che mi ab-

braccia armonicamente, nella ricerca continua della “luce”,

linfa vitale sulla mia tela». Erede del grande filone pittorico

del paesaggismo toscano, se ne distacca perché non introduce

mai, nelle sue composizioni, la figura umana, ma predilige

la rappresentazione della natura nell’avvicendarsi delle

stagioni e nel variare delle luci: lo splendore del giorno, la

rossa malinconia del tramonto sull’immoto padule. Pur non

essendo una pittura minuziosa, nulla viene trascurato di tutto

ciò che può contribuire ad evocare nell’intimo dell’osservatore

emozioni e sensazioni persino fisiche. Di fronte ad un

suo quadro raffigurante campi appena mietuti non si può non

percepire l’odore del grano, il calore soffocante e polveroso,

il frinire delle cicale o il richiamo di un boschetto che offre un

po’ di ombra. Quella di Bontà è una pittura decisamente coinvolgente

che riflette la sua sensibilità e risveglia

quella dello spettatore; è uno stimolo per la fantasia

ad andare oltre il quadro e a liberare le proprie

emozioni fino a sentirsi, come l’autore, parte

del paesaggio. L’artista mostra notevole abilità

anche nella raffigurazione dei fiori, sia quando sono

parte di un paesaggio sia quando sono invece

il soggetto principale del quadro. È molto difficile

catalogarli nel genere della natura morta, tale è

la vitalità che sprigionano e la gioia che donano

all’osservatore tramite i colori declinati in infinite

sfumature e gli attenti giochi di forme e di volumi.

La natura è un soggetto congeniale a Claudio

Bontà, che la ritrae con uno stile davvero originale

e riconoscibile .

Ombre e luci sul Pescia, acrilico su tavola, cm 60x70

Claudio Bontà

Via Emilia Romagna 72

Santa Lucia, Uzzano (Pistoia)

claudiobonta@gmail.com

+ 39 3334160305

CLAUDIO BONTÀ

47


Ritratti

d’artista

Odara

Allegorie e simboli di un mondo magico

di Jacopo Chiostri

La pittura di Odara, nome d’arte di Claudia Macchiaroli,

è l’esito di un percorso cognitivo di ricerca, ascolto

di se stessa e di studi, il cui risultato è una rappresentazione

che invita alla riflessione e che si colloca tra metafisica

e surrealismo. La Macchiaroli è approdata a Firenze

dopo aver lasciato, all’ultimo anno, la Facoltà di Architettura

a San Paolo in Brasile; a Firenze ha studiato all’Accademia

italiana di arte, moda e design; per la pittura ha imparato la

tecnica della tempera all’uovo con Patrizia Zingaretti, che insegnava

a utilizzare la mano come terminale della trasmissione

diretta di un’idea. Gli stimoli maggiori, tradotti in una

pittura che è sintesi tra lo spazio-tempo della metafisica di

de Chirico e l’ermetismo enigmatico di Magritte, nacquero

per lei dallo studio di libri a carattere religioso ed esoterico,

argomenti che catturavano la sua attenzione e saturavano

la necessità di conoscenza. «C’è stato un periodo in

cui non capivo molto bene in quale realtà vivessi, la lettura

di quei libri fu un passaggio necessario» dichiara la pittrice.

«Ho letto la Torah, il libro della Scala (una versione del viaggio

notturno di Maometto nell’Aldilà ndr.), e altri, perfino la

Blavatsky e il suo libro dello Dzyan, dalla cui lettura difficilmente

si esce sani (considerato esempio di libro maledetto,

al confine fra horror e fantasy ndr.). Intanto continuavo a disegnare

e a dipingere ad olio anticipando eventi che si sarebbero

verificati dopo poco, per esempio la morte di mia

madre». La svolta decisiva, sul piano artistico, avvenne però

con la conoscenza più approfondita di artisti come il surrealista

belga Paul Delvaux, come Salvator Dalì, William Blake,

inglese, pittore, poeta e incisore, Amos Nattini, illustratore

della Divina Commedia, quel grande, inquietante fotografo

che è stato il lettone Misha Gordin, e Zdzisław Beksińsk, pittore

e incisore polacco. Conoscere le loro opere ha signi-

Passaggio perdonabile delle scelte mediocri

La resa dei conti

48

ODARA


Casa della cornice

www.casadellacornice.com

ficato per Odara non sentirsi più sola. E da quel momento

ha dipinto con intensità espressiva, dando forma a composizioni

popolate da figure allegoriche e misteriose, lune e

alberi. «Queste creature – spiega – mi accompagnano da

sempre, sono entità magiche o spirituali, proteggono, rassicurano,

anche se a volte possono sembrare ingenue. Gli alberi

sono serbatoi di acqua, uno dei principi del cosmo. La

conoscenza delle acque è il primo passo per l’alta magia.

Ne abbiamo bisogno per purificarci e far crescere il nostro

albero sempre più alto, saggio e luminoso. Le lune rappresentano

l’inconscio, la sensibilità, l’intuizione, la fantasia e

gli istinti, se sono a terra significa che siamo poco coscienti

della vita e che siamo collegati solo allo strato superficiale

della nostra esistenza». I suoi sono dipinti con una forte

componente onirica e si rivolgono, per stimolarlo, all’inconscio

dell’osservatore. «La vita è fatta anche di sogni, d’intuizione,

di ascolto e di consapevolezza, vorrei vedere più

persone accordate con l’universo e con il proprio albero, nella

speranza che possa esserci più serenità, amore e tolleranza

verso gli altri» dice. Fondamentale nella suo linguaggio

espressivo è poi la presenza di quel mistero che è la sincronicità,

principio di junghiana memoria che consiste nel legame

tra due eventi anche non contemporanei, connessi tra

loro non in maniera causale, ma in modo tale che l’uno influisca

materialmente sull’altro; questo elemento appare evidente,

anche ingombrante, in queste opere nelle quali ogni

elemento ha un valore simbolico sicuramente non casuale.

Le influenze sono tante, dal neonaturalismo primitivista al

post impressionismo; è rappresentazione surreale, simbolica,

e, anche nella sua apparente quiete, il messaggio contro

l’alienazione e il conformismo è molto forte. Nei progetti futuri

di Odara c’è la Divina Commedia. «Vorrei creare delle tavole

illustrate» afferma. Per questo, pensiamo, le verrà utile

il Libro della Scala, giacché si è ipotizzato che costituisca

una delle fonti islamiche cui ha attinto Dante.

Vita-morte-vita di un amore

Unità di terapia cosmica

ODARA

49


La voce

dei poeti

Le liriche di Antonietta Gioscia

Paese

Là, fermo inerte tu stai

sulla collina dei ricordi

inseparabile dal vento d’Africa

tra papaveri e odor di ginestre.

Lunghe fredde e interminabili

le guide parallele ferroviarie

la distanza amara segnano

di arditi cuori infranti.

Lontana è la notte che fuggiì

la notte che mi aprì la via

le tue grinfie nel letto stringesti

e con le briglie al vento mi lasciasti andare

Fili di vivi pensieri

la triste mente attraversano

giochi di ricordi s’aggrovigliano

e di risvegli infantili, mi accarezzo.

(2° posto Concorso Vivaldiano 2019, Pomarico – Matera)

Viareggio

Sei terra d’estate

colorate finestre dischiuse al mare

di caldo vento l’aria che respiri

e di salmastro la tua faccia si copre.

Ti ride negli occhi

l’inverno oscuro arrabbiato

quando l’uragano impazzito ti sbatte

sei città vinta dal mare

e dal mare ti sovrastano le carezze

con il tuo cielo arlecchino

ed il chiasso estivo

che ti penetrano, si perdono

e al silenzio della tua luce

tra parole nate sulla sabbia

e pensieri ignoti tra le maree

irrequieta e sovrana, ritorni.

(1° premio Concorso sul Carnevale - Viareggio 2004)

La danza del tempo e della vita

Si apre l’aspro cammino

ed il viaggio forzatamente debutta

e quando ti nevica sui capelli

la strada comincia a sfollarsi

si disperdono gli amici

ed il canto delle tue risa

non è più sereno.

Va il calcolo del tempo

s’allontana con il suo ritmo uguale

e tu ripassi la tua memoria

intanto l’amarezza si ferma

dentro al tuo petto inquieto

e mentre tutto corre insieme al vento

il tuo giardino si prepara d’antico.

Come l’acqua dei fiumi inarrestabile

il tempo ingannevole si unisce ai tuoi dolori

con solitudini sforzi trascini la tua carcassa

mentre si snodano gli anni fuggevoli

è già sera e con parole morte insegui la via

tutt’intorno c’è aria di polvere

e nella terra che attende riprendi il tuo posto.

Lo splendore di Ornella

Bella come un campo di grano maturo in piena estate

sei un tappeto carminio di papaveri sbocciati

il sonno mite che nella notte prende

e il giorno rilucente che il buio cancella.

Bella come elevate onde tra le azzurre maree

incontaminati verdi prati da calpestare

ed il tuo viso diffonde luce e sorrisi

anche quando il sole tace.

Ti somiglia il giardino rigoglioso

sei freschezza di acacia e lillà

il respiro senza te non respira

e tu sei tutte le parole del mondo.

Un sogno la tua immagine bruna

incanto soave di rosso orizzonte

e nelle tenere sere primaverili

come un veliero che giunge dal mare, sei tu.

Antonietta Gioscia

Nata a Pomarico (MT) nel

1952, Antonietta Gioscia vive

a Sesto Fiorentino da

molti anni. Svolge l’attività di decoratrice

su vetro e nel tempo libero le

piace dedicarsi alla scrittura. Nell’ottobre

2001, ad un concorso tenutosi

a Luco dei Marsi (AQ) e con premiazione

avvenuta a Roma, ha ottenuto il

5º posto con la poesia Ricordi e solitudine. Nel 2002, a Fucecchio,

paese natale di Indro Montanelli, è stata premiata con un

secondo posto ex aequo con la lirica Ti penso amore. Nel 2004,

a Viareggio, con concorso a tema sul Carnevale, le è stato conferito

il 1° premio per la lirica Viareggio. Nel marzo 2007 è stata

selezionata quale finalista del 4° concorso internazionale

Autori per l’Europa (Ibiskos Ulivieri). Le sue composizioni sono

stata pubblicate in alcune antologie poetiche tra cui Voci dell’anima,

L’amore in versi, Firenze capitale d’Europa.

50

ANTONIETTA GIOSCIA


La voce

dei poeti

Lilly Brogi

Miracoli: un viaggio indietro nel tempo, lungo i sentieri della memoria

di Giancarlo Bianchi

Credo nell’entità superiore e nell’insolito inspiegabile

evento che definisce la parola miracolo. «La stessa

vita è un miracolo di creazione circondato di interventi

divini», scrive Lilly Brogi in apertura del volume Miracoli

pubblicato a gennaio 2020 da Gangemi editore. Squarci

di vita, un percorso che Lilly fa in compagnia della sua anima,

un luogo illuminato dalla sua saggezza. Il volume, raffinatissimo,

contiene disegni e pitture della stessa Brogi e foto

della sua famiglia: lo zio Enzo, la madre Tina, bellissima, dal

volto simile ad un angelo, una foto giovanile della stessa Lilly.

Insomma, un viaggio indietro nel tempo. Fu l’artista pisana

Francesca Montecchi Poggi a presentarmi Lilly e da quel

giorno le nostre strade si sono unite. La Brogi ha fondato l’associazione

La Pergola Arte, a cui corrisponde anche un premio

artistico internazionale, di cui faccio parte in qualità di

accademico. Ho parlato diffusamente della sua opera sulla

rivista Pegaso del dicembre 2002 e sul settimanale Metropoli

del novembre 2002. Ricordo alcuni titoli delle sue opere:

Toscana... Cave Canem; Entro l’arco del mio giorno; Alfredo

Alfredo, un anno di poesia; Bonjour Ameriga Ameriga; Toscana...

Italia... Cave Canem; Un soffio di vita; Fior da fiore; Nella

morsa del silenzio. Insieme abbiamo condiviso l’esperienza

della realizzazione delle raccolte poetiche Poeti in bici e Pianeta

donna e i volumi della collana L’Altana di Pianeta Poesia

Il dono dell’anima, Da Firenze alle stelle e Uno sguardo dall’alto

(Edizioni Benedetti Pescia) a cura di Franco Manescalchi.

Credo fermamente che questa sua ultima fatica Miracoli sia

un punto di arrivo e di nuova partenza, e a mio avviso anche

un omaggio al “miracolo” dell’amicizia. Concludo con alcuni

suoi versi dedicati alla nostra comune amica Francesca Montecchi

Poggi recentemente scomparsa: Un’onda anomala ci

assale, / è l’affetto che ci unisce / i nostri destini, desiderio /

di pace, amore ancora, / pacato, diverso, amore sempre / per

la vita, la gioia, / la fratellanza, il sogno, / la poesia.

La tamerice sugli scogli, uno dei disegni di Lilly Brogi all’interno del libro

LILLY BROGI

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Mauro Maris

La forza “selvaggia” del colore

www.mauromaris.it

mauromaris@yahoo.it

+ 39 320 1750001


Arte e

Libri

MAE - handmade clothing

Dalla Sardegna a Firenze, l’eleganza e la comodità del fatto a mano

Di Daniela Parisi e Roberto Rampone / foto courtesy MAE

Come vestirsi per stare comode ma rendersi presentabili

nelle video riunioni e nella nuova realtà dello smartworking?

Questa la domanda che Serena Tibaldi pone alle

sue lettrici in un articolo apparso il 30 marzo sul magazine D - la

Repubblica. L’articolo cerca di dare una soluzione a come passare

velocemente dal lavoro alla pausa pranzo, con lezione di fitness

via Zoom ecc., in un momento storico in cui ciascuno di noi

si deve destreggiare tra alternanza casa-ufficio, telelavoro e didattica

a distanza, e trovare equilibrio e serenità nella propria vita

affettiva e professionale. Eccoci qua. Oggi abbiamo la risposta a

queste richieste e tanto altro. Partiamo dal principio, intervistando

Franca Lilliu, fondatrice, insieme alle sorelle, dell’azienda MAE.

Cos’è MAE?

MAE è innanzitutto un luogo, fisico e mentale, dove cose belle

sono pensate, sviluppate e create. Ci occupiamo di abbigliamento

femminile, ma più in generale ci occupiamo di far

sentire le persone che indossano i nostri capi, confortevoli, a

proprio agio nella propria pelle. Gli abiti e accessori MAE sono

fatti a mano, in Sardegna, da una grande famiglia di donne,

per altre donne che hanno bisogno di sentirsi comode nei

propri panni, ma allo stesso tempo eleganti e sempre in ordine.

Ogni pezzo racchiude in sé la qualità dei prodotti artigianali,

realizzati con cura e dedizione. MAE è uno stile non

convenzionale, etico e sostenibile. È la consapevolezza, la

volontà e soprattutto il piacere di poter costruire il proprio

spazio, pezzo per pezzo. Il nostro pensiero è che non sono i

corpi a doversi adattare agli abiti che costringono e deformano,

ma sono piuttosto gli abiti a doversi modellare sul corpo,

valorizzandone le forme ed esaltandone il carattere. Perché

ogni corpo è unico e speciale a modo suo e solo con amore

e coccole riesce ad esprimersi al meglio. Per questo pensiamo

a modelli morbidi e flessibili, come forme di donna, che

avvolgono i corpi in un morbido abbraccio e si prestano, nelle

loro mille combinazioni, ad essere reinventati ogni giorno.

Per quali taglie vengono creati i vostri vestiti?

Non ci sono taglie preconfezionate, ma una taglia media che

grazie alla fluidità dei tessuti si adatta facilmente a corpi differenti,

il che rende i nostri abiti sempre adatti a tutte le occasioni.

La scelta dei tessuti punta alla morbidezza, per questo

usiamo prevalentemente il jersey di cotone, e portiamo attenzione

all’ecosostenibilità, nell’uso di lane, cotoni, lini e fibre

naturali preferibilmente prodotte localmente. Il taglio è a mano

libera e le imperfezioni vengono valorizzate come elemento

distintivo di ogni capo. Puntiamo ai colori: forti e decisi ma

pieni di mille sfumature, che ci piace sovrapporre creando degli

eleganti “tono su tono”.

Con cosa consigliereste di abbinare i vestiti MAE?

A noi, solitamente, piace sperimentare con gli accessori,

usando materiali di scarto industriale, come pelli e cuoio, che

amiamo accostare a tessuti particolari e di pregio: da qui nasce

per esempio la collezione in wax print africano di sabot,

borse e cinture.

Come riassumeresti l’idea racchiusa in MAE?

MAE è piacere per gli occhi e rifugio per il corpo, è allegria e

sperimentazione senza mai perdere lo stile e l’eleganza. Ci rispecchia

e ci rappresenta e porta un po’ di noi fuori dall’isola

generosa di ispirazione, dove siamo nate e continuiamo a

crescere ogni giorno.

Se vi abbiamo incuriosito, sappiate che, oltretutto, MAE espone

i suoi vestiti, in esclusiva, presso Kùthà – Arte & Libri, visibili

anche sui www.kutha-artelibri.com e www.maehandmade.it

maehandmadeclothing

mae_clothing

Le sorelle Lilliu dell'azienda MAE

MAE

53


Nuove proposte dell’arte

contemporanea

A cura di

Margherita Blonska Ciardi

Stephanie Holznecht

Le opere della pittrice americana alla conquista del mercato

dell’arte contemporanea

di Margherita Blonska Ciardi

Da diversi anni, l’astrattista americana

Stephanie Holznecht partecipa

con le sue opere ad importanti mostre

in Italia, come l’evento AqvArt a Venezia,

al quale ha preso parte per ben due volte, ricevendo

lo scorso anno un premio per il suo

stile che unisce action painting e minimalismo

in una ricerca pittorica davvero unica.

Di origine inglese, laureata in Arte, Grafica e

Design alla Fine Art University di Wisconsin,

Stephanie Holznecht ha sviluppato uno stile

inconfondibile nel campo dell’astrattismo.

Pur esperimentando diversi media, preferisce

l’uso di colori acrilici e lacche. La sensazione

dinamica del colore caratterizza tutta

la sua produzione, che colpisce per l’eleganza

e l’essenzialità del segno che ben rispecchiano

lo charme inglese dell’artista. Le sue

composizioni coloristiche spaziano dal mondo

bidimensionale a quello tridimensionale e

sembrano procedere anche oltre, fino alla ricerca

della quarta dimensione. Lo spazio racchiuso

dalle colorate curve create sulla tela

con movimenti concentrici permette di percepire

la velocità e il fattore tempo. Queste tele

testimoniano la spontaneità del gesto pittorico,

mentre le linee trasmettono la sensazione

di movimento di misteriosi “spazi-tempo”

che raccontano l’essenza del mondo e l’emotività

dell’artista. Stephanie Holznecht, che ha

esposto diverse volte in Toscana, ha partecipato

al concorso internazionale Vinart Award

a Montecarlo di Lucca nel 2013 dove è stata

insignita del primo premio. Nel 2018 ha esposto

a Firenze nel Salone Donatello della Basilica

di San Lorenzo; ha partecipato, inoltre,

alla mostra Contemporary Art Meeting presso

la storica casa d’aste Galleria Flori di Montecatini

Terme e successivamente le sue opere

sono state battute nelle aste di Fabiani Arte

e Colasanti a Roma. Attualmente diversi suoi

lavori partecipano alla mostra d’arte internazionale

Artidotum 3D che è anche un meeting

virtuale interattivo. L’esposizione è collegata

al network Wondike, piattaforma milanese di beni di lusso

che ha aperto da poco una sezione dedicata all’arte contemporanea.

L’evento artistico terminerà con un’asta online

che radunerà collezionisti provenienti da ogni parte del

Solar System

April showers bring May flowers

mondo. In questa mostra virtuale Stephanie Holznecht ha

presentato sei opere di cui due sono state scelte per l’asta.

Nella prima, intitolata Solar System, l’artista riesce a catturare

l’eterna bellezza e l’equilibrio degli elementi celesti;

54

STEPHANIE HOLZNECHT


In questa e nelle foto sotto la mostra virtuale Artidotum con le opere di Stephanie Holznecht

gli astri e i pianeti del sistema solare diventano un macrocosmo,

la nostra casa allargata. Le recenti ricerche spaziali

e l’attuale esplorazione di Marte hanno reso chiaro che il

futuro dell’umanità dipenderà dalla capacita di conquistare

nuovi mondi. Viviamo momenti cruciali per la sopravvivenza

della Terra e della nostra specie; la sanità e l’economia

globale sono state messe in ginocchio dalla pandemia. La

risposta di Stephanie Holznecht a questi tragici momenti

possiamo trovarla nella seconda opera April showers bring

May flowers. Il titolo allude ad un antico detto americano

e porta una nota d’ottimismo di cui tutti ora abbiamo tanto

bisogno. Il proverbio recita che “le piogge abbondanti di

aprile portano i fiori di maggio”, una metafora per dire che

dopo ogni periodo di crisi arriva il tempo della rinascita. La

mostra Artidotum è nata per rispondere con l’arte alla difficile

situazione che stiamo vivendo. Gli artisti, provenienti

da tutto il mondo, offrono, con le loro opere, un contributo

alla riflessione su quanto sta accadendo e su quanto l’arte

sia come un “mandala” che aiuta a stare meglio. L’esposizione,

che doveva inizialmente svolgersi a Roma, a causa

della situazione sanitaria è stata convertita in una mostra

virtuale, mantenendo però vivo il contatto tra i partecipanti

che ogni settimana si incontrano online per condividere

progetti e scambiare opinioni. Appena la situazione sanitaria

lo permetterà e si potrà riprendere a viaggiare, la mostra

Artidotum si terrà in presenza a Roma, come inizialmente

stabilito. Le opere di Stephanie Holznecht sono state più

volte pubblicate, anche in copertina, su La Toscana Nuova

e su altre riviste come Art Now, Arte Mondadori, Atlante

d’Arte de Agostini 2019; saranno inoltre presenti sul CAM

Mondadori 2021. La sua attività artistica è stata presentata

in diversi video televisivi con emittenti come Toscana

TV, nell’ambito della rubrica Incontri con l’arte, e Televenezia

in occasione della mostra AqvArt. Recentemente un filmato

a lei dedicato è stato caricato sul canale YouTube di

Studio Artemisia.

STEPHANIE HOLZNECHT

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Isabella Rombolà

Il volto delle donne

isabella@tavellaantonio.191.it


Ritratti

d’artista

Davide Berti

La tradizione del paesaggismo toscano riletta con una cifra stilistica moderna

di Jacopo Chiostri

Con buona pace di un noto storico dell’arte che di recente

li ha definiti “movimento artistico fiorentino di metà

Ottocento sconosciuto ai più”, la strada, indelebile, tracciata

dai Macchiaioli continua ad essere un punto di riferimento

per tanti pittori che guardano alla “macchia” come ad una solida

tradizione in cui la tecnica produce una potente originalità

espressiva. È questo il caso di Davide Berti, pisano di nascita,

lucchese di adozione, un solido pittore innamorato dei paesaggi

toscani che sono il soggetto dei suoi lavori, lavori ricchi di suggestioni

visive. Berti si è diplomato all’Istituto d’arte di Cascina

(Pisa), nel 1979, nella Sezione legno, ma ha lavorato come

ottico, continuando una tradizione di famiglia. Dipinge da tempo,

anche se è soprattutto nel decennio più recente che ha dato

continuità alla sua vena e passione artistica, tant’è che le tante

partecipazioni a mostre e concorsi sono concentrate nell’ultimo

quinquennio. Dicevamo pittore solido, questo dato importante si

evidenzia in talune delle opere dove si avverte come la maturità

raggiunta si manifesti in una rappresentazione autorevole, scevra

da quell’accattivante artificiosità romantica che spesso s’incontra

in questo tipo di soggetti. C’è in questi suoi quadri una

felice sintesi tra kronos e kairos: da una parte la meditata e riposante

pennellata che accompagna lo spettatore in paesaggi incomparabili

in cui immergersi; dall’altra la capacità dell’artista

di fermare l’attimo, di cogliere e fissare sulla tela una suggestione,

quel momento irripetibile che definisce e aggettiva ogni singola

interpretazione sia pure di argomenti similari. Berti dipinge

prevalentemente ad olio, utilizzando sia la tela che il supporto ligneo;

non ha avuto maestri nel suo percorso, ma ricorda volentieri

un pittore, Aldo Vannini, artista troppo presto dimenticato,

La via dei cipressi (luce del tramonto), olio su tela, cm 30x30

Casolare senese, olio su tela, cm 30x40

cui si deve, tra l’altro, un mirabile Cristo in una chiesa di Uliveto

Terme. «La sua era una pittura magari un po’ cupa, con un manto

di tristezza, la mia è più vivace ricca di colore» dice Berti. E in

effetti è così, anche se un argomento mai risolto rimane la forse

inevitabile malinconia che si accompagna alla paesaggistica

toscana, sì rasserenante, ma in fondo, come tutte le cose che

avvicinano allo spirito, velata di malinconia. E non è allora contradditorio

che Berti ci dica che con i suoi quadri vuole trasmettere

serenità, quella che, assieme all’armonia estetica, è la cifra

peculiare della solennità vedutista toscana; poi ama i cipressi,

un albero nobile, esteticamente importante, l’albero simbolo della

vita eterna, solidamente “conficcato” nella nuda terra, come si

vede in quella Val d’Orcia che è uno dei soggetti prediletti. Nelle

opere di Berti ci aspettiamo di vedere la luce variare davanti ai

nostri occhi, i colori sono quanto di più naturale si possa immaginare

e danno vita a forme plastiche di grande forza, lo sguardo

va oltre, e viene condotto lontano, verso l’orizzonte, verso spazi

che sembrano infiniti. Sono composizioni raffinatamente armoniche,

studiate nel dettaglio, e l’uso sapiente dei punti cardine

della composizione trasmette senso di pace e di eufonia con

il creato. In certe sue opere, Berti sembra traghettare la pittura

dei macchiaioli verso quella visione successiva che fu la grande

stagione impressionista, il tutto rivisto in chiave moderna e personale.

L’elenco delle mostre e dei riconoscimenti ottenuti è particolarmente

lunga; ricordiamo gli eventi più recenti: I colori del

mare (2016), La vela e il mare (2017), Pisa tra terra e mare (2017),

Sillico: il paese, i dintorni, i personaggi, le cose (2017), 1° Premio

Pittura Inferarte (2017), Poseidone tra le mura (2017), VII Premio

d’arte La Sorgente (2018), L’Arno dipinto (2018), La sorgente

(2018), I colori di Castiglioncello (2019). In ultimo, all’orizzonte

della storia artistica di Berti si è ora affacciato, interrompendosi

momentaneamente per i motivi che sappiamo, il ritratto; lo studia

a Pisa col maestro Bruno Pollacci.

rambodeviz@gmail.com

DAVIDE BERTI

57


Kunst Grenzen

• Arte di frontiera •

A Roveré della Luna, in provincia di Trento, nasce un’associazione

culturale e galleria d’arte per azzerare i confini

nel segno del dialogo e dello scambio culturale

La galleria e associazione Kunst Grenzen – Arte di frontiera nasce

nel 2020, in piena pandemia, dall’iniziativa privata dell’artista

e maestro decoratore Gentile Polo nel centro storico di

Roveré della Luna, in provincia di Trento e al confine con la provincia

di Bolzano. Proprio il fatto che si tratti di un paese al confine

tra due culture e lingue diverse – quella italiana e quella

tedesca – giustifica la scelta del termine “Grenzen” che in tedesco

significa “confine/frontiera” sia culturale che sociale e

mentale. Ma non solo: dividendo la parola in due parti, gren e

zen, vengono fuori altri due significati, e quindi “ramo” (gren, in

danese) che nell’arte medievale è simbolo della logica e del-

la rinascita, e “zen” con riferimento alla cultura orientale e a

tutto ciò che invita a meditare e a riflettere. Tutti questi valori

convivono nella mission dell’associazione Kunst Grenzen, il cui

obiettivo è appunto invitare a superare l’idea del confine come

barriera che allontana e separa per intenderlo invece come uno

spazio di dialogo e di confronto tra culture e linguaggi, anche

artistici, diversi; un punto di partenza indispensabile per la rinascita

dell’individuo, della società e della cultura. Fondamentale

per sostenere un obiettivo così ambizioso il contributo degli

artisti “di confine” coinvolti da Gentile Polo nell’associazione,

e quindi Claudio Cavalieri di Trento, Andrea Pozza di Bolzano,


Sandro Ramani di Trieste, e insieme a loro anche Sarah Mutinelli,

Paolo Ober e Renata di Palma, l’ingegnere Damiano Martorelli

per le mostre virtuali ed infine la grafica e blogger Lucia

Martorelli per la gestione delle pagine web. A questi si sono aggiunti

in seguito i poeti Angelo Magro e Alberto Sighele. L’associazione

si propone di far dialogare vari ambiti della creatività

artistica, offrendo uno spazio a tutti gli interlocutori che ne faranno

richiesta sia a livello locale che nazionale ed internazionale.

Eventi espositivi in loco e online, workshop, collaborazioni

con altre associazioni e gallerie d’arte, residenze d’artista sono

alcune delle iniziative che la Kunst Grenzen si prefigge di

promuovere per avviare un costante confronto con il territorio

e con le realtà, non solo locali, operanti nel settore artistico e

culturale. Diverse le iniziative già organizzate in questo primo

anno di vita, a partire dall’evento online Aiutiamo la Protezione

Civile – una raccolta fondi per sostenere gli operatori impegnati

nell’emergenza sanitaria – passando attraverso varie

mostre virtuali e in sede come quella intitolata Grenzen e la recente

Versi in forma – Omaggio al poeta Angelo Magro, e l’avvio

di corsi di pittura, ritratto e decorazione. In programma nei prossimi

mesi una collettiva sul tema femminile e più in generale

mostre a tema sulla civiltà contadina, patrimonio da riscoprire

e valorizzare, e sulla strada romana che passava anticamente

nei pressi di Roveré della Luna.

Associazione e galleria Kunst Grenzen – Arte di frontiera

Via Villotta 7/a – 38030 Roveré della Luna (TR)

www.kunst-grenzen.eu

kunstgrenzen20artedifrontiera@gmail.com

Per informazioni o iscrizioni alla mailing list contattare:

+ 39 3356079154 (Gentile Polo)

+ 39 3474005481 (Claudio Cavalieri)

+ 39 3886319808 (Lucia Martorelli)

Kunst Grenzen – Arte di frontiera


La tutela

dell’ingegno

A cura di

Aldo Fittante

Licenza obbligatoria sul brevetto anti Covid

Una soluzione per garantire il vaccino a tutti e subito

di Aldo Fittante

Afronte dell’acuirsi della crisi non solo sanitaria ma

sempre più socio-economica determinata dall’emergenza

Coronavirus, si è scatenata una febbrile corsa

al vaccino, al momento l’unico strumento in grado di offrire

una solida prospettiva per sconfiggere definitivamente la

pandemia. Una corsa che rischia però di divenire folle, con

uno spietato ed irragionevole groviglio di interessi finanziari

e geo-politici in grado di mettere a repentaglio il sacrosanto

diritto alla salute. Si pensi al ritardo nella campagna di

vaccinazione di almeno due mesi, a causa di blocchi di produzione

e patti non rispettati. Pfizer-BioNTech, Moderna e

Astrazeneca, le uniche multinazionali che ad oggi dispongono

di un vaccino anti Covid approvato dalle autorità preposte

ed in commercio, non riescono a soddisfare in tempi accettabili

il fabbisogno di dosi necessarie ad immunizzare i cittadini

del mondo intero. È legittimo chiedersi a questo punto

se esistano serie alternative a questa insensata lotta per accaparrarsi

quello che appare un privilegio e che invece altro

non è che un sacrosanto diritto, quello di ogni essere umano

a veder tutelata la propria salute. Un’alternativa in realtà esiste

ed è percorribile sul piano della normativa internazionale

concernente i brevetti sui farmaci. Mi riferisco alla possibilità

di attivare uno strumento giuridico in grado di “raffreddare”

il mercato dei vaccini, introducendo una sorta di “sospensione”

del brevetto, una deroga chiamata “licenza obbligatoria”.

Tale opportunità è in particolare prevista da accordi internazionali

ed è destinata ad operare in presenza – tra le altre ipotesi

– di emergenze di sanità pubblica, nelle quali certamente

ben può rientrare la pandemia che affligge l’intera popolazione

mondiale. Si tratta delle disposizioni speciali previste in

caso di emergenze sanitarie e pandemie dagli articoli 31 e

31 bis dell’Accordo sugli aspetti commerciali dei diritti di

proprietà intellettuale – sottoscritto dai membri dell’Organizzazione

mondiale del Commercio (WTO) – che contemplano,

in presenza delle suddette circostanze eccezionali, la

possibilità di by-passare i brevetti e concedere licenze obbligatorie

per la produzione di farmaci essenziali. La licenza

obbligatoria potrebbe consentire di produrre – come generico

– nei numerosissimi stabilimenti sparsi per il mondo ed

in grado tecnicamente di farlo, la quantità di vaccino necessaria

a soddisfare il fabbisogno di tutti i paesi. La particolare

clausola internazionale in questione consentirebbe in altre

parole – e fermo restando il riconoscimento di un giusto ristoro

compensativo alle multinazionali titolari del brevetto

– di coinvolgere altre aziende e laboratori farmaceutici certificati

per la produzione dei vaccini, in tal modo garantendo

una massiccia produzione degli stessi almeno fino al termine

dell’emergenza pandemica e/o della effettiva disponibilità

sul mercato delle dosi necessarie all’immunizzazione di

massa. La deroga prevista dalla riferita norma internazionale

interviene in effetti su uno degli aspetti maggiormente dibattuti

del brevetto farmaceutico, rappresentato dai potenziali

limiti esistenti alla sua applicazione. È doveroso, senza alcuna

obiezione, tener sempre in giusta considerazione la titolarità

ed il legittimo esercizio di un titolo di privativa. È certo

infatti che la proprietà intellettuale costituisca un patrimonio

inestimabile per il progresso scientifico ed il corretto funzionamento

del libero mercato ed uno strumento per premiare

coloro che si sono distinti all’interno di esso investendo tempo,

risorse umane e denaro. Tuttavia, il legittimo utilizzo del

titolo brevettuale concesso deve pur sempre rispettare il sacrosanto

diritto alla salute e, nello specifico, il diritto all’accesso

ai vaccini. Tale diritto è del resto scolpito e costituisce

un noto ed imprescindibile caposaldo della nostra Costituzione

che, all’art. 32 recita: “La Repubblica tutela la salute come

fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività,

e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Sotto questo

punto di vista la licenza obbligatoria prevista dalla normativa

internazionale rappresenta una opportunità unica per ristabilire

un corretto equilibrio degli interessi coinvolti, imponendo

alle multinazionali che detengono brevetti sul vaccino anti

Covid – in funzione di un interesse di gran lunga superiore e

davvero di tutti – un sacrificio ragionevole e comunque adeguatamente

remunerato. Una strada, peraltro, da percorrere

molto in fretta in quanto ogni ritardo rischia di avere effetti

devastanti, in una situazione in cui si rivela di vitale importanza

accelerare i livelli di copertura per raggiungere nel più breve

tempo possibile l’immunità di gregge.

60 BREVETTO ANTI COVID


A cura di

Lorenzo Borghini

Il cinema

a casa

Tokyo Godfathers

Il romanzo sociale di Satoshi Kon

di Lorenzo Borghini

Due barboni, una ragazza scappata di casa e una neonata

abbandonata. Questi i protagonisti del terzo

lungometraggio di Satoshi Kon. Il teatro della vicenda

è una Tokyo innevata, durante le vacanze di Natale, in una

settimana che pare non finire mai. Gin è il tipico senzatetto

ridotto sul lastrico per guai economici, affoga i suoi problemi

nell’alcool e ricorda con nostalgia una vita che non gli

appartiene più. Hana è un transessuale allegro e senza peli

sulla lingua, che, nonostante i numerosi problemi, crede ancora

che la speranza sia l’ultima a morire. Miyuki è scappata

di casa da circa sei mesi, testarda e scontrosa si rifiuta di

tornare a causa delle sue azioni. Il loro “regalo di Natale” sarà

una bambina trovata tra i rifiuti, una luce che illuminerà le loro

vite dandogli uno scopo: ritrovare i genitori della piccola.

In Tokyo Godfathers, Satoshi Kon decide di adattare una delle

sceneggiature più usate del cinema hollywoodiano: I tre

padrini di Peter Kyne, trasposto nel ’48 anche da John Ford.

Kon, da buon cinefilo sapiente, decide di ribaltare la morale

evangelica di Ford, dando vita ad un penetrante ritratto di un

Giappone moderno e notturno. Dal modello americano prende

l’idea di una grazia che bacia le buone intenzioni e, nonostante

le avversità, conduce all’amorevole obiettivo. Dall’altra

parte, invece, la meschinità abietta di un

mondo moderno spietato, e un lieto fine

che tanto lieto non è, ma che appare

come una tregua dopo la tempesta,

priva di quel senso di pace e durevolezza.

I personaggi di Tokyo Godfathers sono

dei perdenti per antonomasia, anime

ferite che si barcamenano tra le pagine

amare della vita. Il ritrovamento della

piccola gli conferisce una speranza,

una luce che rischiara il grigiore delle loro

esistenze. Il riscatto, anche se parziale,

può avvenire, “basta solo” ritrovare i

genitori in una delle metropoli più popolose

al mondo. Satoshi Kon conferisce

ai suoi protagonisti uno spessore degno

dei romanzi di Dickens, perché il regista

nipponico è sempre stato attento alle

dinamiche sociali, dando respiro a quel

sottobosco metropolitano che tanto lo

affascina e fa riflettere. Pregno di citazioni,

Tokyo Godfathers strizza l’occhio

anche al Padrino, con un matrimonio tra

mafiosi che ci ricorda il capolavoro di

Coppola, ma allo stesso tempo guarda

anche verso Satoshi Kon stesso, quando

Gin incontra il presunto padre della

bambina e sopra un tavolo si può vedere

un giornale con una foto delle Cham,

il trio di idol di Perfect Blue, film d’esordio

del regista a cui rimarrà sempre legato.

Satoshi Kon, nonostante la sua

prematura dipartita, insieme a Katsuhiro

Ōtomo, Isao Takahata e Hayao Miyazaki,

entra a pieno titolo in quella schiera

di registi che hanno saputo elevare l’animazione

da semplice strumento per

bambini a forma d’arte intramontabile

che regge il passo coi tempi.

TOKYO GODFATHERS

61


La notte, acrilico su cartone e polistirolo, cm 100x60

Manuela Morandini

I paesaggi del cuore

manuelamorandini@alice.it

Vinarello, acquerello su carta, cm 70x50


A cura di

Manuela Ambrosini

Di-segni

astrologici

Pesci

Empatico e altruista, è incline al

cambiamento e dotato di sensibilità

profonda

di Manuela Ambrosini

Forse l’intera superficie delle acque terrestri non è abbasta

estesa per contenere il tuo spirito di servizio,

amico dei Pesci. Hai una qualità suprema nel prenderti

cura. C’è da aggiungere che anche la generosità, a volte, può

diventare un vizio, se essere di sostegno diventa un bisogno

senza minimi termini. Il cuore, reso sensibile dalla vulnerabilità

pescina, ha lo spazio di un contenitore, che può diventare

privo di confini, allora ti trasformi da fluente risorsa delle umane

speranze in tormentosa e tormentata vittima delle calamità

disperate. Il confine tra questo e quello è una questione di

punti di svolta. Infatti, tutti noi siamo un po’ vittime e un po’

carnefici, finché non diventiamo in grado di generare circoli

virtuosi ed impariamo ad essere centrati, ricchi di stabilità interiore

e palinsesti della tranquillità anche nel corso delle tempeste

della vita. Chi più di te lo ha sperimentato, che sembri

essere al centro di un vortice di empatiche condivisioni con

tutti coloro che soffrono. Tu sei come un gigante che diventa

guida universale quando riesce ad incontrare la sua parte spirituale,

che scopre il suo valore quando si solleva dalla terra

dei mortali per osservare dal cielo. Che tu lo voglia o meno hai

una connessione profonda con tutto quanto va oltre i limiti del

conosciuto, il transpersonale. Ercole, nella sua dodicesima fatica,

emula il senso dei Pesci, come eroi che sono destinati alla

liberazione e alla salvezza umana. Questo non significa, in

ogni caso, come un moderno Cristo, immolare la propria esistenza

al prossimo, ma quanto meno accrescere il senso del

proprio scopo nella vita: ciò che ti rende davvero felice può diventare

un’estensione della tua vita interiore con il piacere di

provvedere anche al benessere degli altri. Un’altra caratteristica

che ti aiuta è la capacità di adattamento: tu scorri come

l’acqua nel fiume della trasformazione e non hai paura di affrontare

i cambiamenti, tutt’altro. Attenzione a coltivare l’idealismo,

in amore l’eterna insoddisfazione può diventare la tua

pena. Tra le gesta che vorresti annoverare nel tuo parco della

realizzazione personale può spiccare l’eremitaggio. Nei luoghi

solitari tu ti ricarichi, specialmente se sei a contatto con

l’acqua, il tuo elemento. Il mito di Melusina che si trasforma in

sirena quando è lontana dal suo amore mortale ti appartiene.

La tua magia è sacra.

Salvatore Sardisco, Pesci (2020), linearismo continuo, biro su carta, cm 33x24

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familiari, è fondatrice del metodo di crescita personale Oasi di

Luce e insegnante di Hatha Yoga. Vive e lavora a Monsummano

Terme, effettua incontri individuali di lettura del tema natale astrologico

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Solis

Manuela coccole per l’anima

PESCI

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Il super tifoso

Viola

A cura di

Lucia Petraroli

Giancarlo De Sisti

La viola secondo “Picchio”, ex centrocampista ed allenatore della Fiorentina

di Lucia Petraroli

Soprannominato “Picchio”, cioè “trottola” in romanesco,

Giancarlo De Sisti, nelle nove stagioni alla Fiorentina,

è stato sempre titolare e perno del centrocampo viola.

Nel 1968-69 ha conquistato lo scudetto, oltre ad una Coppa

Italia ed una Mitropa Cup. Dismessi gli scarpini nel gennaio

1981, ha raccolto la Fiorentina da Carosi portandola dalla zona

retrocessione al quinto posto in classifica. Nella stagione

successiva, invece, ha perso lo scudetto all’ultima giornata.

È rimasto alla guida dei viola fino al 1984, quando, dopo un

problema di salute, gli è stato proposto dai Pontello di essere

affiancato da Ferruccio Valcareggi, che lo ha poi sostituito.

Come giudichi il momento in casa Fiorentina?

Non è un momento facile. L’ho provato sulla mia persona, vorresti

spaccare il mondo però non riesci. Ci sono periodi in cui niente

va bene. Per riprendersi c’è bisogno di risultati pieni, un clima

buono e serenità. Adesso la viola sta viaggiando a fari spenti.

Salvezza sicura?

Se giochi con la paura non puoi ambire a posizioni buone,

ad un futuro che vorremmo europeo. Se cadi nel vittimismo

non riesci a fare quello che è nelle tue corde. Spero potremo

scongiurare questa situazione.

L’attacco è sotto la lente di ingrandimento?

Prandelli ha fatto bene a dare fiducia a Vlahovic, è un punto

da riconoscergli. Andando via Chiesa, hai perso un pezzo da

novanta. Occorre il ritorno di Castrovilli e Ribéry in ottima forma.

Con i loro guizzi puoi fare il salto di qualità. Penso a San

Siro contro l’Inter dove Ribery fece lezione di calcio. Hanno

preso Kokorin, la società ha tentato di fare qualcosa. Ma c’è

comunque un malessere. Bisogna essere compatti ora, fare

gruppo, giocare combattendo.

Giancarlo De Sisti nel 1984 quando

allenava la Fiorentina

Commisso chiamato a fare

delle scelte, panchina e

direttore sportivo: cosa si

aspetta?

Credo che oggi si debba pensare

solo all’andamento della

squadra, alla salvezza. La viola

è a ridosso dalle ultime posizioni.

Prima occorre fare risultato,

poi si penserà a tutto il resto.

L’andamento della stagione farà

poi valutare le scelte future. Oggi

serve tranquillità e pensare

al futuro imminente.

Cosa pensa della gestione

Commisso?

Non lo conosco, ma è un

uomo molto entusiasta

del progetto. Vorrebbe fare

sempre meglio. Spero

abbia buoni consiglieri

sulle questioni calcistiche

che magari ancora

non conosce bene.

Picchio in maglia viola

D’accordo con Commisso sulla questione stadio?

Anche a Roma abbiamo il problema stadio. Istituzioni e città

vanno di pari passo. Ma la prima cosa importante è la squadra,

bisogna pretendere e ottenere di più di quello che sta facendo

oggi. Lo stadio non è la panacea di tutti i mali, è una

risorsa certamente importante per una casa definitiva della

società. Deve esserci un buon progetto però da cui partire e

indicazioni prefissate che tutti devono seguire.

Quali differenze tra questa e la sua Fiorentina?

Quando noi lottavano per lo scudetto si dormiva così bene,

invece questa viola purtroppo soffre. Nella storia viola

il massimo è arrivato nel 1955-56 e nel 1968-69, non ci sono

stati tanti altri trionfi. Firenze è una città unica che ha avuto

sempre l’onere e l’onore di rappresentare il bello nel mondo.

Indossare i colori viola non deve essere un punto arrivo ma

un orgoglio. L’amore che si prova per questa maglia deve portare

a far scendere in campo venti cervelli pronti a dare il

massimo. Questo è quello che abbiamo cercato di fare noi

ai nostri tempi.

Il ricordo più bello in maglia viola?

Quando c’era Pugliese e stavamo per retrocedere davamo il

tutto per tutto in campo. Ci dividevamo tra Montecatini e Sesto

Fiorentino in ritiro dal mercoledì al sabato. Nella struttura

alberghiera dove alloggiavamo c’era un calesse con un

pony per fare un giro nel giardino del complesso. Il proprietario

dell’hotel disse all’allenatore che se avesse salvato la

Fiorentina ci avrebbe regalato

il pony. Alla fine però non

lo prendemmo, era troppo costoso

(ride).

64

GIANCARLO DE SISTI


A cura di

Franco Tozzi

Toscana

a tavola

Lonza di maiale alla medievale

Da un manoscritto del Quattrocento, una delizia per chi ama i sapori decisi

di Franco Tozzi

Questo mese presentiamo una ricetta molto antica, scritta

il 7 ottobre 1436 in fondo ad un registro contabile, ovviamente

manoscritto, proveniente (presumibilmente)

da un monastero toscano e presente nella biblioteca

dell’Accademia del Coccio a cui è stato donato. Come in tutte le

ricette antiche, non vengono date istruzioni su come realizzare la

pietanza ma vengono indicati solo gli ingredienti base, perché l’esecuzione

era (ed è) affidata all’esperienza dei “cucinieri”. La ricetta

è stata rielaborata dall’Accademia sulla base della propria

esperienza e del gusto attuale, sperando di non aver tolto nulla alla

sua originalità. Tra le due versioni riportate dallo scritto come

era usanza all’epoca, cioè cibi di “magro” per i periodi di penitenza

e di “grasso” per quelli normali, è stata scelta la versione “di grasso”

perché quella di “magro” prevede di sostituire al maiale il riso

e quindi, in pratica, verrebbe fuori un risotto molto complicato.

Accademia del Coccio

Lungarno Buozzi, 53

Ponte a Signa

50055 Lastra a Signa (FI)

+ 39 334 380 22 29

www.accademiadelcoccio.it

info@accademiadelcoccio.it

La ricetta: lonza di maiale alla medievale

La pagina del manoscritto da cui è tratta la ricetta

Ingredienti:

lonza di maiale 800 gr.

arancia candita 60 gr.

cedro candito 60 gr.

zucchero 160 gr.

burro 60 gr.

pinoli 30 gr.

uva passa 20 gr.

latte di mandorle 250 gr.

spezie (anche solo cannella) 10 gr.

olio di oliva

pepe bianco

sale q.b.

farina 00 q.b.

La lavorazione inizia la sera prima mettendo la lonza a marinare

nel latte di mandorla. Al momento della cottura, scaldare

l’olio e 20 gr di burro in una casseruola; togliere la lonza

dalla marinatura, legarla, steccarla, andando anche in profondità,

con le scorze di arancia e cedro ed infarinarla (se

la carne è abbastanza compatta si può anche non legarla).

Unire la carne all’olio e al burro facendola rosolare per bene

su tutti i lati, poi salare, pepare e irrorare con il latte della

marinatura, facendo cuocere per circa 45 minuti a fuoco

basso e rigirando di tanto in tanto. Poi accendere il grill del

forno e far “grillare” la carne su tutti i lati per 15 minuti. Nel

frattempo, caramellare lo zucchero con l’aggiunta di cannella

in polvere e pepe bianco; tenere la preparazione in caldo.

A cottura avvenuta, far scolare la lonza su di una griglia

e successivamente spalmarci sopra il caramello facendolo

aderire omogeneamente alla carne. Rimettere la lonza in forno

per un massimo 20 minuti, sotto al grill: posizionare la

carne su di una griglia appoggiata sopra una teglia in modo

da raccogliere il sugo che colerà durante la cottura; rigirare

spesso. Intanto, con il fondo di cottura della carne, preparare

un sughetto di accompagnamento facendolo rapprendere

e mischiando, con il rimanente burro, l’uvetta, i pinoli,

le spezie, un cucchiaio raso di farina e un pizzico di sale.

Se il fondo dovesse risultare denso, aggiungere olio e passarlo

nel mixer facendone una crema. Al termine dei 20 minuti

dell’ultima infornata, togliere la lonza, tagliarla a fette

e disporla su di un piatto da portata, versandoci il sughetto

precedentemente preparato e ben caldo. Come accompagnamento,

anziché pane, pezzi di schiacciata “unta”, anche

questi ben caldi.

LONZA DI MAIALE

65


Cosetta Garuglieri

Dai fiori…

Papaveri, tecnica mista su tela, cm 40x50

… al paesaggio

Il borgo, olio su tavola, cm 30x40

Villa San Domenico, olio su tavola, cm 40x25

Il boschetto, olio su tavola, cm 40x30

scyoset@libero.it


A cura di

Stefano Marucci

Storia delle

Religioni

Commento all’Enciclica di Papa Francesco sulla fraternità e l’amicizia

sociale in occasione della Giornata Mondiale dei Poveri 2020

In collaborazione con la Parrocchia Santa Maria al Giglio di Montevarchi

2^ parte

Tendere la mano fa scoprire prima di tutto a chi lo fa, che

dentro di noi esiste la capacità di compiere gesti che danno

senso alla vita. Quante mani tese si vedono ogni giorno.

Purtroppo, accade sempre più spesso che la fretta trascini

l’essere umano in un vortice di indifferenza, al punto che non si

sa più riconoscere il bene che quotidianamente viene compiuto

nel silenzio e con grande generosità. Solo quando succedono

fatti che sconvolgono il corso della nostra vita gli occhi diventano

capaci di scorgere la bontà dei santi “della porta accanto”, «di

quelli che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di

Dio» (citazione da Esort. ap. Gaudete et exsultate), ma di cui nessuno

parla. Le cattive notizie abbondano sulle pagine dei giornali,

sul web e sugli schermi televisivi, tanto da far pensare che il

male regni sovrano. Non è così. Certo, non mancano la cattiveria

e la violenza, il sopruso e la corruzione, ma la vita è intessuta

di atti di rispetto e di generosità che non solo compensano il

male, ma spingono ad andare oltre e ad essere pieni di speranza.

Tendere la mano è un segno che richiama immediatamente

alla prossimità, alla solidarietà, all’amore. In questi mesi, nei

quali il mondo intero è stato sopraffatto da un virus che ha portato

dolore e morte, sconforto e smarrimento, abbiamo potuto vedere

tante mani tese. La mano tesa del medico che si preoccupa

di ogni paziente cercando di trovare il rimedio giusto. La mano

tesa dell’infermiera e dell’infermiere che, ben oltre i loro orari di

lavoro, rimangono ad accudire i malati. La mano tesa di chi lavora

nell’amministrazione e procura i mezzi per salvare quante più

vite possibile. La mano tesa del farmacista esposto a tante richieste

in un rischioso contatto con la gente. La mano tesa del

sacerdote che benedice con lo strazio nel cuore. La mano tesa

del volontario che soccorre chi vive per strada e quanti, pur avendo

un tetto, non hanno da mangiare. La mano tesa di uomini e

donne che lavorano per offrire servizi essenziali e sicurezza. E altre

mani tese potremmo ancora descrivere fino a comporre una

litania di opere di bene. Tutte queste mani hanno sfidato il contagio

e la paura pur di dare sostegno e consolazione. Questa pandemia

è giunta all’improvviso e ci ha colto impreparati, lasciando

un grande senso di disorientamento e impotenza. La mano tesa

verso il povero, tuttavia, non è giunta improvvisa. Essa, piuttosto,

offre la testimonianza di come ci si prepara a riconoscere

il povero per sostenerlo nel tempo della necessità. Non ci si improvvisa

strumenti di misericordia. È necessario un allenamento

quotidiano che parte dalla consapevolezza di quanto noi per

primi abbiamo bisogno di una mano tesa verso di noi. Questo

momento che stiamo vivendo ha messo in crisi tante certezze.

Ci sentiamo più poveri e più deboli perché abbiamo sperimentato

il senso del limite e la restrizione della libertà. La perdita del

lavoro, degli affetti più cari, come la mancanza delle consuete

relazioni interpersonali hanno di colpo spalancato orizzonti che

non eravamo più abituati a osservare. Le nostre ricchezze spirituali

e materiali sono state messe in discussione e abbiamo

scoperto di avere paura. Chiusi nel silenzio delle nostre case,

abbiamo riscoperto quanto sia importante la semplicità e il tenere

gli occhi fissi sull’essenziale. Abbiamo maturato l’esigenza

di una nuova fraternità, capace di aiuto reciproco e di stima

vicendevole. Questo è un tempo favorevole per «sentire nuovamente

che abbiamo bisogno gli uni degli altri, che abbiamo una

responsabilità verso gli altri e verso il mondo. Già troppo a lungo

siamo stati nel degrado morale, prendendoci gioco dell’etica,

della bontà, della fede, dell’onestà. Tale distruzione di ogni fondamento

della vita sociale finisce col metterci l’uno contro l’altro

per difendere i propri interessi, provoca il sorgere di nuove

forme di violenza e crudeltà e impedisce lo sviluppo di una vera

cultura della cura dell’ambiente». Insomma, le gravi crisi economiche,

finanziarie e politiche non cesseranno fino a quando permetteremo

che rimanga in letargo la responsabilità che ognuno

deve sentire verso il prossimo ed ogni persona. “Tendi la mano

al povero”, dunque, è un invito alla responsabilità come impegno

diretto di chiunque si sente partecipe della stessa sorte. È un incitamento

a farsi carico dei pesi dei più deboli, come ricorda San

Paolo: «Mediante l’amore siate a servizio gli uni degli altri. Tutta

la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai

il tuo prossimo come te stesso. Portate i pesi gli uni degli altri».

ENCICLICA DI PAPA FRANCESCO

67


I libri del

Mese

KristiPo

Haiku, una raccolta poetica

per celebrare la vita

di Alessandro Calonaci

Scriveva Flaiano: «Non c’è che una stagione: l’estate.

Tanto bella che le altre le girano attorno. L’autunno la ricorda,

l’inverno la invoca, la primavera la invidia e tenta

puerilmente di guastarla». Come falene attratte dalla luce,

lo scorso 28 febbraio, io, il regista Federico Gori e il giornalista

Fabrizio Borghini abbiamo svolazzato intorno alla luminosità

accecante e calda dell’estate. Proprio quell’estate che ti

fa sentire la sabbia che scotta sulla spiaggia ma che un attimo

dopo, passato il primo fastidio, consente alle tue mani

di provare una sensazione rinvigorente. L’estate spensierata

che con la sua luce si adagia sulle nostre campagne svelandone

tutta la bellezza. L’estate che ti avvolge con la sua energia,

con la felicità racchiusa in un sorriso sbadato pieno di

possibilità. Quell’estate, nell’ultima domenica di febbraio, ha

avuto un nome: KristiPo. L’occasione, per quanto ci riguardava,

era un servizio televisivo per la rubrica “Incontri con l’arte”

nel bellissimo atelier di Pola Cecchi, luogo incantato ai

miei occhi, sulle multiformi doti dell’artista russa che, come

l’estate, appunto, illumina tutte le arti su cui posa la sua attenzione.

Mentre KristiPo volteggiava nei bellissimi abiti di

Pola e rispondeva alle domande di Fabrizio Borghini davanti

all’obbiettivo dell’indaffaratissimo Federico, io mi accingevo

a declamare i versi delle sue poesie raccolte in un curatissimo

libro dal titolo Haiku edito dal Masso delle Fate. Quello

dell’haiku è un genere della poesia giapponese che affonda le

proprie radici in tempi antichissimi; si tratta di una particolare

forma di componimenti che prevede solo tre versi dove si tenta

di rendere eterno un attimo fuggente che riguarda la natura

ed i suoi accadimenti. Nella struttura culturale giapponese la

forma è tutto e questo particolare modo di poetare sintetizza

il “sentire” nipponico; KristiPo non solo è stata più che ligia nel

rispetto dei tradizionali dettami, ma è andata oltre creando un

qualcosa di assolutamente originale. Con grande talento, è riuscita

a coniugare la forma dell’haiku con lo scandagliamento

dell’animo umano tanto caro alla letteratura russa che l’ha forgiata,

traendone una sintesi perfetta. Aiutata da suoi raffinati

disegni, che accompagnano sinergicamente ogni componimento,

KristiPo ci prende per mano stimolandoci alla riflessione

su quello che siamo, su come viviamo, ma soprattutto

aprendoci alla speranza di una messianica estate dell’anima

che ci consenta di raggiungere quella leggerezza calviniana a

cui tutti aspiriamo. Haiku è una raccolta poetica piena di energia,

un luogo esistenziale in cui rifugiarsi per ricordare la vita

com’era e com’è, secondo la lente deformata dell’anno osceno

che abbiamo vissuto, ma è anche un’ideale macchina del

tempo capace di condurci finalmente verso l’abbagliante luce

dell’estate… KristiPo è l’estate.

KristiPo

Artista eclettica, pittrice, scultrice, poetessa, cantante, attrice e regista,

Kristina Poplitskaya, in arte KristiPo, è nata a Mosca e risiede attualmente

a Montecatini Terme. La sua formazione è iniziata frequentando

la scuola di cinema e drammaturgia Sverdlovsk Film Studio a Ekaterinburg. Ha

seguito il corso accademico di arte e lingua italiana al Michelangelo Institute

e nel 2017 si è diplomata all’Accademia di Belle Arti di San Pietroburgo. Amante

della natura ed animalista convinta, si dedica con eguale passione alla pittura

e alla poesia cimentandosi soprattutto nel genere letterario giapponese

dell’haiku. Ha iniziato a scrivere poesie quando aveva solo quattro anni. Dipinge

anche quadri legandoli alla poesia. Nel 2019 ha ricevuto il Premio Prosa del 4

Maggio (VIII edizione), in collaborazione con la rete tv locale Italia 7. Attualmente

studia al Liceo Artistico Passaglia di Lucca e all’Accademia d’Arte di Firenze.

68

KRISTIPO


Cultura e

Società

Festival di Sanremo 2021 senza pubblico: un ritorno alle

origini radiofoniche della manifestazione nel lontano 1951

di Doretta Boretti

La radio, in questi ultimi anni, ha dovuto affrontare

periodi non facili ma, nonostante

tutto, è sempre riuscita a reinventarsi e

sopravvivere alle numerose intemperie (leggi, normative,

divieti e crisi economiche) da cui è stata

più volte aggredita. Quest’anno, il Festival di Sanremo

ha vissuto un momento piuttosto difficile, se

non altro dal punto di vista organizzativo-gestionale.

Non credo sia facile per un artista cantare,

recitare o ballare senza un pubblico presente e per

gli organizzatori tenere alto il ritmo dello spettacolo

e viva l’attenzione degli spettatori che soltanto da remoto

hanno potuto fruire di quell’intrattenimento in un momento

così amaro per troppi lavoratori. Correva l’anno 1951 quando

prese vita la prima edizione del Festival di Sanremo; venne

interamente trasmessa in diretta

radio e fu ascoltata dalla

maggior parte degli italiani

poiché il costo degli apparecchi

radiofonici era calato vertiginosamente

e moltissime

persone poterono permettersi

di ascoltarlo, integralmente,

dalla propria abitazione. Il Festival

era entrato, cantando,

nelle case degli italiani e gli

italiani iniziarono a cantare le

canzoni del Festival. Quel primo

concorso canoro fu tenuto

nel Salone delle Feste del

Il libretto con i testi delle canzoni

Nilla Pizzi a Sanremo canta Grazie dei fior Una foto storica della prima edizione del Festival nel 1951

Casinò di Sanremo e fu condotto da Nunzio Filogamo, che tutti

ricordiamo per il saluto “Cari amici vicini e lontani buonasera”

che aveva ispirato il titolo di una trasmissione radiofonica.

Vi presero parte solo tre interpreti della canzone: Nilla Pizzi,

il Duo Fasano e Achille Togliani. Cantarono ininterrottamente,

alternandosi, venti brani inediti, tra la noia e l’indifferenza

delle persone presenti che, si narra, continuarono a mangiare

chiacchierando tra loro. Vinse Nilla Pizzi con la canzone Grazie

dei fior che fu scritta da Mario Panzeri e Gian Carlo Testoni

e musicata da Saverio Seracini. Nunzio Filogamo invitò gli autori

della canzone la sera della premiazione, ma Seracini non

poté essere presente in quanto poco tempo prima era diventato

cieco in seguito ad una malattia agli occhi causata da una

precedente polmonite. Confido che, nonostante l’allora indifferenza

del pubblico presente, l’enorme successo radiofonico

che ebbero i venti brani cantati si ripeta, in questa particolare

edizione 2021, senza pubblico presente, grazie proprio ai

numerosi canali radio italiani e stranieri da cui verranno trasmessi

e ascoltati.

Il Casinò di Sanremo, sede della prima edizione del Festival

I cantanti dell'edizione del 1951

FESTIVAL DI SANREMO

69


Eccellenze toscane

in Cina

A cura di

Michele Taccetti

Da Livorno alla Cina con la società

di logistica F.lli Colò

di Michele Taccetti / foto courtesy F.lli Colò

Livorno, sin dal tempo dei Medici,

ha rappresentato la porta

per il mondo per le aziende

toscane e non solo. La città si sviluppò

soprattutto dalla seconda metà del

XVI secolo grazie ai Medici prima ed

ai Lorena in seguito, creando un porto

di importanza internazionale frequentato

da numerosi mercanti stranieri. In

pochi anni crebbe la presenza di sedi

di consolati e di compagnie di navigazione.

Questo movimento di merci,

persone e valute rese la città moderna

e all’avanguardia e contribuì ad affermarne,

sin dalla fine del Cinquecento,

i caratteri di città multietnica e multi-

culturale per eccellenza, dei quali ancor oggi sopravvivono

importanti vestigia, quali chiese e cimiteri nazionali, palazzi,

ville e opere di pubblica utilità indissolubilmente legate

ai nomi delle importanti comunità straniere che frequentarono

il porto franco fino alla seconda metà dell’Ottocento.

Questa vocazione internazionale portò a identificare la città

come “Leghorn” nel Regno Unito e negli Stati Uniti d’America,

“Livourne” in Francia, “Liorna” in Spagna, etc., analogamente

alle più importanti capitali di stato dell’epoca. Anche il famoso

cappello di paglia di Firenze, originario di Lastra a Signa

in Toscana, era conosciuto nel mondo sotto il nome di “Leghorn”,

appunto il nome inglese della città di Livorno da dove

partivano le spedizioni di cappelli di paglia per il mondo.

Ma dopo la seconda guerra mondiale Leghorn divenne un nome

noto anche quale porto di destinazione proprio di quella

materia prima del cappello di paglia di Firenze, ovvero le

trecce di paglia, che non più si raccoglievano e si lavoravano

nella campagna toscana, ma venivano importate dalla Cina.

Proprio da questa relazione fra cappelli di paglia, Cina e

porto di Livorno nasce la collaborazione fra China 2000 e F.lli

70

DA LIVORNO ALLA CINA


Colò, nota società livornese specializzata in servizi di spedizioni

doganali e logistica con oltre quarant’anni di esperienza

che opera in tutti i porti italiani ed ha strutture di proprietà

nei porti di Livorno, Genova, La Spezia e Trieste. La società si

avvale di un network di agenti internazionali in grado di gestire

ogni tipo di spedizione import/export da e per tutto il mondo,

organizzare trasporti terrestri e/o trasporti eccezionali,

offrire aree nazionali e bonded con possibilità di stoccaggio

di qualunque categoria merceologica e relative consulenze

doganali. F.lli Colò è ben radicata in Cina con una rete di partner

qualificati che le permette di offrire servizi da e per la

Cina di alto livello e competitività in termini di costi. La sinergia

sviluppata con China 2000 mira ad offrire un pacchetto

completo in termini di logistica e gestione commerciale, garantendo

così alle aziende italiane un servizio professionale,

diretto, rapido, efficiente ed economico da e per la Cina. F.lli

Colò non è solo una società di logistica, ma vuole essere

un partner e un consulente per i propri clienti trasformando

le loro esigenze in un servizio che tenga conto delle caratteristiche

dei materiali da gestire, della necessità di trasformare

numeri di pezzi in colli pronti ad essere spediti nella modalità

più idonea container, treno, aereo, su gomma e dell’ottimizzazione

di tempi, costi, procedure aeroportuali e doganali. Tutto

questo, spesso, senza tenere conto dell’orario e dei giorni

rossi in calendario. Con i servizi dedicati all’export, F.lli Colò

porta le eccellenze italiane nel mondo. Un valore aggiunto

della società è rappresentato dal team di esperti doganalisti,

costantemente aggiornati sulle più recenti normative e

procedure nazionali e internazionali. F.lli Colò è fra i pochissimi

operatori a disporre di una dogana “in house” che offre

un servizio di sdoganamento diretto in azienda, garantendo

ai clienti un controllo diretto delle dichiarazioni di esportazione

ai fini non imponibili d’IVA. La qualifica AEO (Authorized

Economic Operator) permette infine di avere l’autorizzazione

ad inviare le dichiarazioni doganali per tutte le merci che

arrivano nei porti italiani. Negli anni la società si è specializzata

anche nell’implementazione delle “procedure domiciliate”

ora sostituite dai cosiddetti “luoghi approvati”, ottenendo

autorizzazioni presso le principali dogane interne sul territorio

nazionale.

F.lli Colò

Piazza Attias, 21, 57125 - Livorno

www.fratellicolo.it

Amministratore unico di China 2000 SRL e consulente per il

Ministero dello Sviluppo Economico, esperto di scambi economici

Italia-Cina, svolge attività di formazione in materia di

marketing ed internazionalizzazione.

michele.taccetti@china2000.it

China 2000 srl

@Michele Taccetti

taccetti_dr_michele

Michele Taccetti

DA LIVORNO ALLA CINA

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Racconti dalla

pandemia

Sopravvissuta alla pandemia, la rosticceria

La Nuova Luna a Firenze racconta una storia

di dedizione al lavoro e alla famiglia

di Doretta Boretti

Fino a qualche anno fa, Via

Domenico Maria Manni a

Firenze era costellata di

negozi. La crisi economica prima

e il Covid-19 dopo hanno messo

in seria difficoltà molti commercianti.

I pochi sopravvissuti alle

numerose vicissitudini, non ultime

quelle personali, sono da considerarsi

veri e propri eroi. Tra

questi, i proprietari della rosticceria

La Nuova Luna, della quale ho

avuto il privilegio di conoscere il

fondatore che purtroppo è venuto

a mancare all’affetto dei suoi cari

troppo prematuramente. I figli,

per il grande amore verso il padre,

stanno cercando di portare

avanti quello che lui, con straordinaria

determinazione, è riuscito

a creare.

Sara, se non sbaglio, sei la secondogenita.

Quando siete arrivati

in Italia? È stato difficile

integrarsi?

Sì, è vero, sono la secondogenita.

Prima di me c’è Simone e,

dopo di me, la piccola, ormai

grande, Nur. Noi tre siamo nati

tutti a Firenze, io e Simone alla

Maternità a Fiesole, Nur invece

alla Maternità dell’Ospedale

di Torregalli. I miei genitori

sono arrivati in Italia nel 1975.

Io e i mei fratelli, essendo nati,

cresciuti e avendo studiato qui,

sinceramente, non abbiamo mai

avuto difficoltà ad integrarci.

Per i miei invece è stato un pochino

più difficile, ma non più di tanto perché fin da subito

i fiorentini, vedendo il loro estremo rispetto e la loro

educazione, li hanno accolti volentieri. Mio padre e mia

madre mi hanno raccontato che negli anni Settanta gli

stranieri a Firenze erano considerati come una novità perché

ce n’erano pochi in giro e la gente era curiosa di conoscere

nuove culture, nuovi usi e costumi.

Puoi dirci che lavoro svolgi?

Sono laureata in Medicina e Chirurgia, specializzata in Cardiologia

e svolgo la mia professione medica con tanto amore

perché quando ero in terza elementare mio padre ebbe il primo

infarto e da lì iniziò il nostro calvario negli ospedali. Nur

ancora non era stata concepita, ma ricordo che io, mamma e

72

LA NUOVA LUNA


Simone eravamo giorno e notte in ospedale per sostenerlo e

fare il tifo per lui.

Nel tempo libero aiuti la famiglia in negozio, giusto?

Eh già! Nel tempo libero sono sempre corsa in negozio ad aiutare

i miei per cercare di dare un minimo di sollievo, perché

anche con mille sacrifici, i miei genitori non ci hanno fatto

mai mancare nulla. Sono sempre stata orgogliosa e onorata

di poterli aiutare, fin da quando studiavo all'Università. Non

gli dicevo mai, per esempio, che dovevo preparare per un esame,

perché se lo avessero saputo mi avrebbero obbligata ad

andare a casa a studiare. Chiudevamo il negozio alle 22 e poi

mi ritiravo nella mia camera a studiare: quante nottate passate

sui libri! Ma lo faccio e lo rifarei mille volte perché se sono

quella che sono oggi è solo merito loro.

È stato tuo padre, del quale vorrei tu ci dicessi il nome, a

decidere di riaprire la rosticceria Luna in Via Domenico Maria

Manni. Perché l’ha chiamata “La Nuova Luna”?

Mio padre si chiamava Sahaer e, come dicevo prima, aveva

avuto un problema cardiaco. A quel tempo lavorava in un ristorante

dove da solo, come unico cuoco, cucinava quotidianamente

per trecento persone. Mia mamma, preoccupata per

la grande mole di lavoro e per il possibile stress che mio padre

poteva subire, venuta a conoscenza della vendita della rosticceria

Luna, vicino a casa, decise di parlarne col babbo. Il

vecchio proprietario non aveva lavorato bene e nel giro di poco

tempo aveva perso tutta la clientela. Così, il 1 aprile 1999,

i miei genitori decisero di comprare la rosticceria Luna dandole

il nome La Nuova Luna. Ricordo che all’inizio è stato durissimo

recuperare e trovare nuovi clienti, perché quando un

locale decade, per riportarlo in auge occorrono tempo, pazienza

e tenacia.

Che tipo di cibi offrite alla clientela e con quale orario?

Siamo aperti tutti i giorni, tranne il lunedì, dalle 9,30 alle 14,30,

e nel pomeriggio dalle 17 alle 22. Offriamo una grande varietà

di primi piatti e secondi freschi tutti i giorni, con vari tipi di

contorni, dalle patate arrosto alle verdure fritte, al nostro pollo,

definito dai clienti “strepitoso”, alla pizza, alle focacce e tanto

altro. Effettuiamo anche la consegna a domicilio.

Come avete affrontato questo periodo di pandemia?

È stato davvero duro. Abbiamo cercato di implementare il

servizio a domicilio, mantenendo e favorendo le consegne

con la massima sicurezza sia per lo staff che per la clientela.

A partire da destra, Sara con il padre, la madre, il fratello Simone e la sorella Nur

LA NUOVA LUNA

73


B&B Hotels

Italia

Il B&B Hotel Cortina Passo Tre Croci

alle pendici del Monte Cristallo

di Chiara Mariani

B&B Hotels, catena internazionale con più di 550 hotel

in Europa e 43 in Italia, continua la sua espansione

approdando in una location esclusiva ed internazionale:

Cortina d’Ampezzo. Soprannominata “la Regina delle

Dolomiti”, la città è un mix di arte e natura e il B&B Hotel

Cortina Passo Tre Croci s’inserisce perfettamente in questo

scenario magico e senza tempo. Situato in località Passo

Tre Croci, l’albergo si trova in posizione strategica per raggiungere

il centro città, le piste sciistiche e le attrazioni più

famose della zona come il Lago Sorapis, il Lago Misurina e

le Tre Cime di Lavaredo. Inserita nel comprensorio sciistico

più grande al mondo, il Dolomiti Superski, d’inverno Cortina

è perfetta per le sue piste – considerate tra le più impegnative

e panoramiche di tutte le Dolomiti – l’estate, invece, è la

stagione ideale per escursionisti e arrampicatori. Il B&B Hotel

Cortina Passo Tre Croci presenta un design moderno e

raffinato e propone un’accoglienza all’insegna della sicurezza

e servizi di qualità a prezzi convenienti solo su hotelbb.

com, in linea con il concept del gruppo: Only For Everyone.

A più di 1.800 metri, l’hotel dispone di 124 camere che offrono

una vista mozzafiato sulle Dolomiti e la Valle d'Ampezzo

e sono dotate dei comfort necessari come bagno privato,

connessione Wi-Fi 200 mega, Smart TV 43” con Chromecast

integrato e canali Sky gratuiti, il tutto per godersi un soggiorno

in pieno relax e sicurezza grazie al protocollo Safety

Label High Quality Anti Covid-19 sviluppato da B&B Hotels

Italia a tutela degli ospiti e dello staff. Non manca poi una

moderna area laundry/ironing a disposizione di tutti gli ospiti

e un’area shop targata B&B Hotels che, oltre a fornire prodotti

strategici ed essenziali per ogni viaggiatore, presenta

un’arricchita selezione di cibi e bevande. Al piano terra del

B&B Hotel Cortina Passo Tre Croci si trova il grande spazio

living, un mix funzionale a pianta libera dedicato all’area accoglienza,

svago e ristoro. Infine, tra gli spazi che accolgono

gli ospiti, un ampio ristorante formato da due sale: una dedicata

esclusivamente agli ospiti dell’hotel e una aperta agli

esterni con il concept Bistrot. Il nuovo B&B Hotel Cortina

Passo Tre Croci sarà il primo del gruppo a prevedere prenotazioni

di soggiorni in mezza pensione, per garantire a tutti

gli ospiti la massima flessibilità, assicurando una vacanza in

grande relax e, allo stesso tempo, con tutti i comfort necessari

nei mesi invernali così come quelli estivi.

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B&B HOTEL CORTINA


Su B&B Hotels

Destinazioni, design, prezzo. B&B Hotels unisce il calore e

l’attenzione di una gestione di tipo familiare all’offerta tipica

di una grande catena d’alberghi. Un’ospitalità di qualità a

prezzi contenuti e competitivi, senza fronzoli ma con una forte

attenzione ai servizi. 43 hotel in Italia. Camere dal design

moderno e funzionale con bagno spazioso e soffione XL, Wi-

Fi in fibra fino a 200 mega, TV 43” con canali Sky e satellitari

di sport, cinema e informazione gratuiti. Nei B&B Hotels sono

presenti Smart TV che offrono un servizio di e-concierge

per scoprire la città a 360°.

Prenota al miglior prezzo garantito solo su hotelbb.com

B&B HOTEL CORTINA

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Arte del

gusto

A cura di

Elena Maria Petrini

Vitigni toscani per i vini della terra dei nuraghi

di Elena Maria Petrini / Foto Peppe Fulghesu

Nino Fulghesu nella sua vigna con la moglie

Sulle alte colline di Meana Sardo, un comune in provincia

di Nùoro, nella regione della Barbagia di Belvì,

si trova l’azienda “Le Vigne” della famiglia Fulghesu.

Siamo al centro geometrico della Sardegna, dove arriva la

brezza dei due mari: dal Golfo di Oristano, sul Mediterraneo,

e dal Tirreno. Meana Sardo è un piccolo borgo circondato

dalle suggestive colline della Terra di Nolza, con il suo maestoso

nuraghe quadrilobato, i menhir, le domus de janas e

tutte le vestigia dell’antico popolo nuragico che osò sfidare

la potenza dei faraoni d’Egitto. La civiltà nuragica si è sviluppata

a partire dalla metà del II millennio a.C. in piena età

del bronzo. Le grandi torri megalitiche di forma troncoconica

furono edificate in tutta l’isola e divennero il centro della

vita sociale dell’antica popolazione, anche se la loro funzione

si pensa sia stata per uso militare, civile o religioso.

Una recente teoria ritiene, invece, che queste strutture funzionassero

come un vero e proprio osservatorio astronomico,

e quindi che venissero collocate sul territorio secondo

precisi allineamenti con la volta celeste. In questa dimensione

affascinante, ricca di tradizioni e di paesaggi straordinari,

inizia, negli anni Trenta del secolo scorso, la storia

vinicola della famiglia Fulghesu, che mise a dimora alcuni

vigneti con le varietà dell’attuale DOC Mandrolisai, ovvero

Cannonau, Muristellu e Monica, assieme ad altri vitigni

come il Barbera Sardo, la Garnacha Tintorera (vitigno presente

già dall’Ottocento), il Cagnulari e l’Aleatico. Successivamente,

nel 1954, vennero impiantati altri due ettari di uve

Cannonau ed altri vitigni a bacca bianca della varietà Nuragus

e Malvasia. Nel 1969, Nino Fulghesu iniziò l’avventura

di una viticoltura proiettata nel futuro, implementando la

sua azienda con vitigni anche toscani e di altre regioni, come

Sangiovese, Montepulciano, Ciliegiolo, Vermentino, Cabernet

Sauvignon, Dolcetto e Nebbiolo, creando così una

produzione variegata di vini da coltivazioni biologiche certificate

di altissima qualità. Il territorio è collinare e l’azienda

si trova a circa 600 metri sul livello del mare; la cantina

sorge proprio nella zona dell’area archeologica del grande

nuraghe quadrilobato di Nolza. Oggi è una moderna azienda

guidata dai figli di Nino, Maria Teresa e i suoi fratelli, particolarmente

attenti non solo alla morfologia del terroir ma

anche alle condizioni pedoclimatiche. La tipologia delle vigne

è quella tradizionale “ad alberello”, tuttavia per i nuovi

impianti si è optato per il “cordone speronato bilaterale”.

Presentiamo di seguito alcuni vini prodotti dall’azienda che,

essendo bio, utilizza pochissimi solfiti aggiunti, mentre la

complessità fenolica e l’alta acidità generano una buona

freschezza rendendoli più equilibrati:

Kantharu - nasce da uve autoctone di Cannonau, Muristellu

e Monica. Si presenta di un bel colore rosso rubino, dal

profumo intenso e vinoso; il gusto è pieno, vellutato, armonico

e persistente. Eleganti note fruttate lo rendono particolarmente

piacevole al palato; ideale con carni rosse e formaggi

in genere.

Giuseppe Fulghesu, figlio di Nino

Ampsicora - ottenuto da uve Cannonau in purezza, ha un

bel colore rosso rubino dai riflessi violacei, un profumo intenso

che ricorda la mora e la prugna, al palato il gusto è fruttato

e intenso, persistente e vellutato. Si abbina perfettamente

con le specialità sarde, in particolare arrosti, formaggi stagionati

e piccanti.

76

VITIGNI TOSCANI


Jolao - un blend di uve autoctone come Cannonau, Ciliegiolo,

Primitivo di Manduria, Malvasia Nera e Negroamaro.

Ha un colore rosso rubino che col tempo vira verso riflessi

granato. Il profumo è persistente ed equilibrato; al palato è

morbido e ben strutturato con sentori di frutta molto matura

e note di prugna e liquirizia. Si accompagna con primi piatti

importanti e secondi di cacciagione, ma anche con formaggi

piccanti e stagionati.

Sentidu - nasce da uva Cagnulari, ha un colore rosso rubino

con riflessi violacei, un profumo intenso ed equilibrato dal

fresco sapore di frutti di bosco. Sapido e persistente, è ottimo

con carni rosse, ma anche formaggi – sia freschi che stagionati

– ed in particolare caprini.

Alinus - Vermentino in purezza, ha un colore giallo paglierino

con sfumature tendenti al verde; all’olfatto profumi di

albicocca, pesca e frutta matura, con sentori balsamici di

macchia mediterranea. Al palato si presenta sapido, fresco e

di gradevole ed equilibrata acidità, con una bella persistenza

e spiccate note minerali. È un vino “a tutto pasto”, particolarmente

indicato con frutti di mare, crostacei e pesci.

Zoli - 100% uve Moscato invecchiato in botti rovere. È ambrato,

con profumo di fiori e piante mediterranee, sapore di

miele e frutta sciroppata; ottimo con i dolci sardi e la pasticceria

della tradizione isolana, all’occorrenza diventa anche

un ottimo compagno di meditazione.

Appassimento sulla pianta dell’uva Garnacha Tintorera

Lunatico - nasce da uve Nuragus, un vitigno autoctono

a bacca bianca, molto antico, portato presumibilmente dai

Fenici. Di colore giallo paglierino delicato, talvolta intenso.

Sensazioni olfattive di fiori bianchi,

mela verde e note agrumate. Piacevolmente

sapido e fresco al palato,

si accompagna bene ai piatti di pesce

e ai dolci tipici sardi con pasta

di mandorle, noci e nocciole.

Saraceno - vino rosso dolce ottenuto

da uve stramature appassite

naturalmente sulle piante e appartenenti

ad un vecchio vitigno presente

a Meana Sarda fin dagli anni Settanta:

il Girò di Cagliari. Viene vinificato

a freddo con 2/3 giorni di macerazione

con le bucce e fermentazione

lentissima del mosto fino a 20 giorni.

Al palato si presenta dolce, con

sentori che richiamano frutti a bacca

rossa e prugne stramature.

Una selezione di vini dell'azienda Le Vigne della famiglia Fulghesu

Si conclude questa carrellata con

gli ultimi due vini prodotti: Eldorado,

ottenuto da uve moscato in purezza

e Likorys, un rosato da uve

Montepulciano.

VITIGNI TOSCANI

77


Benessere e cura

della persona

A cura di

Antonio Pieri

Marzo: prenditi cura della pelle durante

il cambio di stagione

di Antonio Pieri

La bella stagione è alle porte, tra poco potremo dire

addio al pungente freddo che ha contraddistinto

questo inverno. Non per questo però dobbiamo abbassare

la guardia smettendo di idratare e nutrire la nostra

pelle. Infatti utilizzare prodotti naturali e biologici per prenderci

cura di noi stessi è una buona abitudine che va mantenuta

tutto l’anno.

Attenzione al cambio di stagione

Il cambio di stagione è una fase in cui il corpo e la mente vengono

messe a dura prova. Per evitare di incorrere in spiacevoli

inconvenienti è bene avere i giusti comportamenti che ci

consentono di vivere al meglio questa fase delicata.

Coccolare le mani

Come sappiamo, durante il periodo invernale, le mani sono

la parte del corpo che viene messa più a dura prova. Infatti,

sono quelle più esposte agli effetti del freddo. Durante tutto

l’inverno per contrastare questi effetti ce ne siamo presi cura

idratandole continuamente. Adesso non è il momento di

smettere, continuiamo ad idratarle e a nutrirle con prodotti

naturali e biologici. Un consiglio è quello di fare uno scrub

mani, in modo da eliminare la pelle morta, prima di applicare

una crema nutritiva naturale.

Esfoliazione

Dopo il gelo dell’inverno la pelle appare secca ed ispessita,

occorre rinnovarla effettuando il giusto rituale di esfoliazione

eliminando la pelle morta con degli scrub e idratandola con

creme corpo naturali, meglio ancora se a base di olio extra-

vergine di oliva toscano IGP biologico che, grazie a sostanze

come lo squalane o i polifenoli, idrata e protegge la pelle.

Idratare in profondità

Il Burro Corpo Fondente Prima Spremitura di Idea Toscana è

l’alleato ideale per preparare la pelle alla nuova stagione. Infatti

contiene ingredienti emollienti come i burri di karité e di

cocco e oli naturali come quello di jojoba e ha come principio

attivo principale l’olio extravergine di oliva toscano IGP biologico.

La sua composizione gli permette di creare una barriera

tra gli agenti esterni e la pelle, proteggendola così dall’inquinamento

e dalle difficili condizioni ambientali. Inoltre permette di

mantenere l’idratazione della pelle, penetrando in profondità e

mantenendone lo strato superficiale liscio ed elastico. Avendo

una consistenza semisolida, al fine di migliorarne la stesura, si

consiglia di conservare il barattolo in bagno per ammorbidirlo

e massaggiarlo sulla pelle ancora calda dopo la doccia. Si

assorbirà completamente in pochi minuti. Per la sua capacità

di protezione dell’epidermide è particolarmente efficace nell’idratazione

della pelle di viso, corpo e mani, prevenendo così la

formazione di rughe, grazie all’olio extravergine di oliva, ricco

di antiossidanti naturali. È ottimo anche come crema post-depilatoria,

infatti grazie alla sua formula particolarmente ricca

di nutrienti, aiuta a lenire la pelle irritata dalla depilazione, lasciandola

morbida e liscia.

Ti aspettiamo nel nostro nel nostro punto vendita

in Borgo Ognissanti 2 a Firenze o sul sito

www.ideatoscana.it per prenderti cura della tua

pelle in maniera naturale e biologica.

Antonio Pieri è amministratore delegato dell’azienda il Forte srl

e cofondatore di Idea Toscana, azienda produttrice di cosmetici

naturali all’olio extravergine di oliva toscano IGP biologico.

Svolge consulenze di marketing per primarie aziende del settore,

ed è sommelier ufficale FISAR e assaggiatore di olio professionista.

antoniopieri@primaspremitura.it

Antonio Pieri

78

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Cosmetici Naturali e Biologici per il Benessere

CON OLIO EXTRAVERGINE D’OLIVA TOSCANO “IGP” BIOLOGICO

IDEA TOSCANA - Borgo Ognissanti, 2 - FIRENZE | Viale Niccolò Machiavelli, 65/67 - SESTO FIORENTINO (FI) |

Tel. 055.7606635 |info@ideatoscana.it | www.ideatoscana.it


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