180Meraviglie n. 45
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te amministrazioni provinciali si
susseguivano negli anni ottanta e
novanta, e lasciavano crollare edi-
noi psichiatri, dismettendo uno per
che avanzano di trincea in trincea,
invitavamo le autorità a riprendersi
per altro, più nobile, pubblico uso),
si ebbe il coraggio mediatico di in-
ra
(poi) furioso dovere dimostrare
che, se eravamo capaci di fare il
nostro mestiere rimuovendo le vergogne
della psichiatria, eravamo
anche capaci, per esattamente i medesimi
motivi e con esattamente la
medesima energia, come esercizio
dei poteri conferitici pro tempore,
di ricostruire il San Giovanni ai più
nobili, appunto, fìni. Con i poteri
di direttore generale dell'Azienda
amministratori comproprietari sensati,
potemmo coordinare recuperi
e forzando (ebbene sì!) tempi, metodi
e competenze, riparare a tanti
anni di altrui (quella sì!) disastrosa
gestione dei pubblici beni. Mancano
però cinquemila rose e per
me sono il segno della città ancora
incerta, la cifra del possibile, non
inverata la pienezza della vita vera
che volevamo per noi e per i folli,
fratelli e sorelle dolenti con cui abbiamo
fatto un lungo cammino che
dove speravamo di arrivare (molto
più in là, comunque, di quel che
lor signori immaginavano). La rosa
che non c'è chiama un tempo altro,
una generazione altra, una nuova
fatica, una nuova energia, un
nuovo amore. Di cui nessuno può
certo, tantomeno oggi, fare profezia:
profezia di uomini e donne che
vedano, sentano, guardino, tocchino,
annusino, adoperino i loro
sensi tutti, e ne coltivino i simboli
concreti, perché capaci di ascoltare
i rumori delle vite (e toccare la
terra e bagnare le rose e cambiare
le cose).
UMANITÀ E
FEROCIA
CRITICA.
FRANCO
ROTELLI E LE
LOTTE DI DUE
GENERAZIONI
di Daniele Piccione
(Tratto dal sito
www.salutementale.it - 26
marzo 2023)
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Per me che sono nato nel 1975,
accettare un compromesso delicato.
Un’immagine ormai remota di
rimasta nella mia memoria di bambino,
nel mio ultimo inverno triestino,
quello fatidico del 1980. La
-
attraverso i racconti e gli aneddo-
corso delle epiche battaglie di decostruzione
delle istituzioni della
violenza; lotte consumatesi nel
decennio dei settanta. Mio padre
era una di queste persone e mi ha
sempre restituito l’immagine di un
personaggio ieratico, magnetico,
capace – come dicono gli Americani
– di farsi bigger than life. Autentico
eroe del corpo a corpo contro il
manicomio, i suoi contorni avevano
preso forma in me attraverso le
ammirate descrizioni di interminabili
viaggi in treno in cui mio padre
e lui si giocavano a dadi i rispettivi
stipendi. Stipendi che, comunque,
sarebbero stati poi fatti oggetto di
spartizioni comunitarie, come sabato
scorso veniva ricordato nella
toccante cerimonia di addio collettivo
nel suo parco di San Giovanni.
Non di rado, mio padre mi andava
narrando di alcuni tratti che legavano
Basaglia e Rotelli, ben oltre
il comune nome di battesimo. La
vocazione alla guida, il senso delle
responsabilità rispetto
alle generazioni più
giovani, il continuo richiamo
all’intransigente
impegno del collettivo,
a imboccare sentieri su
cui altri avrebbero dovuto
seguire, a pena di
di arresto. E ancora: la
consapevole fusione tra
le pratiche di restituzione
della soggettività e
l’elaborazione teorica,
l’innato senso del rischio
come componente vitalistica
e volano della trasformazione, la
comprensione tattica e strategica
del contesto politico e dei punti
di debolezza su cui aprire le contraddizioni
nel fronte avverso delle
istituzioni repressive. In questi
racconti di un’epoca che, mentre
crescevo, andava allontanandosi
nella memoria del suo tempo
dell’oro, il mito non accennava a
scolorire. Basaglia non c’era più,
proprio dall’estate del 1980, ma
mano, in sella a Marco Cavallo,
direttore del dipartimento triestino,
poi direttore generale della Azienda
Sanitaria, non prima di essersi
lanciato, in Campania e nel mondo
largo, a inventare pratiche e soluzioni,
a dimostrare che Trieste non
era un’isola e neanche un modello
autoreferenziale; sarebbe stata poi
questa la stantia critica ricevuta dal