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4 IL SEGRETO DELL'INQUISIZIONE, I SEGRETI DELLA REPUBBLICA

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provocare lesioni e strappi nel tessuto sociale, secondo il principio della “concordia”. La<br />

tradizione statutaria, che era stata ripresa e compendiata grazie alla pubblicazione di un’ultima<br />

e definitiva raccolta di norme sia in latino sia in volgare, nel 1538 65 , rappresentava un<br />

prodotto degli usi giuridici sedimentati nei secoli, e quindi un riferimento obbligato per ogni<br />

iniziativa giudiziaria, in chiave politica, econonomica, e non meno morale e religiosa. Per<br />

quanto riguarda in particolare la giustizia criminale, si direbbe che le leggi ponessero in primo<br />

piano l’esigenza della correttezza procedurale, e, in maniera correlata, l’intento di mantenere<br />

l’equilibrio pacifico dei rapporti umani all’interno della comunità. Ad esempio la tortura,<br />

come era del tutto normale nell’orizzonte culturale dell’epoca, era ampiamente ammessa in<br />

sede processuale per ottenere la confessione degli imputati, ma solo in relazione ad una serie<br />

di norme che ne regolavano la “somministratione”. Esse evocavano principi di moderazione,<br />

sicurezza degli indizi di colpevolezza, e precauzione contro la morte dell’imputato, oltre che<br />

l’urgenza di nuove testimonianze e la presenza di un notaio ufficiale per potere procedere una<br />

seconda volta al “rigoroso esamine”. Inoltre, il magistrato che trasgredisse sarebbe potuto<br />

incorrere in ammende pecuniarie piuttosto pesanti, e, in caso di morte del torturato, in una<br />

conseguente imputazione per omicidio 66 . Nella medesima ottica, d’altronde, risultano di<br />

interesse ancora maggiore le precauzioni volte ad assicurarsi che i testimoni fossero esaminati<br />

con la massima diligenza, sotto giuramento e senza intimidazioni 67 ; a valutare gli indizi e le<br />

prove legali in modo rigoroso 68 ; oppure anche a censurare le false accuse o la produzione di<br />

falsi testimoni, la cosiddetta “subornazione”. L’ultima misura, oltre a dimostrare un certo<br />

timore nei confronti delle delazioni, evidentemente considerate particolarmente lesive<br />

dell’ordine pubblico, finiva in qualche modo con l’assimilare i possibili imputati e i loro<br />

accusatori. Su questa strada, anzi, i legislatori arrivavano persino a sostenere che la falsa<br />

denunzia fosse più grave del crimine stesso contro la quale essa intendeva rivolgersi 69 .<br />

Ciò non toglie, tuttavia, che gli statuti individuassero alcuni reati meritevoli di essere<br />

castigati in maniera severa: con la morte, oppure, secondo una modulazione che si correlava<br />

direttamente alla percezione della pericolosità degli atti, con il “bando in modo che muoia”,<br />

vale a dire la condanna capitale, oppure con il “bando di esilio”, temporaneo o perpetuo. Essi,<br />

65 Il codice, destinato a rimanere in vigore fino alla fine della Repubblica, fu elaborato da una commissione di<br />

dodici giureconsulti cittadini, e dato alle stampe per i tipi del bolognese Giovanni Faello, in Memorie e<br />

documenti per servire alla storia di Lucca, a cura di L. Del Prete e S. Bongi, I, Lucca, Giusti, 1867, pp. XX-<br />

XXI.<br />

66 ASLu, SCL, 17, libro 4, cap. 43, c. 195r: Dei tormenti proibiti overo permissi, e nello stesso libro, cap. 44, c.<br />

195v: Della ripetizione de’ tormenti et di quegli che morti fussero negli tormenti, esattamente corrispondenti, per<br />

quanto riguarda lo statuto del 1446, alle norme contenute nel libro 4, capitoli 30-31, pp. 207-210.<br />

67 Ibidem, libro 1, capp. 76 e 77, Del giuramento degli testimoni e dello esamine degli testimoni, cc. 40v-41r.<br />

68 Ibidem, libro 4, cap. 1, Del procedere contra gli delinquenti, c. 178rv.<br />

69 Ibidem, cap. 17, c. 183r, Della pena di chi facesse falsa accusa; già incluso nella redazione precedente del<br />

1446, al libro 4, cap. 14, p. 200: De pena facientis falsam accusationem vel denuntiationem.<br />

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