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Dispensa - Istituto Teologico Marchigiano

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ISTITUTO TEOLOGICO MARCHIGIANO<br />

TEOLOGIA MORALE II<br />

MORALE<br />

RELIGIOSA<br />

<strong>Dispensa</strong> ad uso degli studenti<br />

Prof. Don Massimo Regini


INTRODUZIONE<br />

2<br />

La morale descrive e dirige l‘agire dell‘uomo e, trattandosi della teologia morale,<br />

presenta l‘agire del cristiano alla luce e nella luce della sua fede.<br />

In questo ambito trova spazio la definizione di un trattato teologico che cerca di<br />

indicare e sviluppare quel agire del cristiano nel quale egli vive la sua relazione e la sua<br />

risposta d‘amore a Dio che lo chiama alla comunione con sé. Questa dimensione, che<br />

appartiene da sempre al patrimonio etico dell‘uomo, può essere vista proprio come un<br />

aspetto decisivo della fedeltà etica del cristiano alla sua vocazione alla felicità, a quel senso<br />

e fine della vita che trova proprio nell‘incontro con Dio il suo significato e la sua pienezza.<br />

La natura etica di questo trattato può, tuttavia, prestarsi ad un ingannevole e<br />

pericoloso equivoco. Definendosi come trattato di morale speciale, l‘etica religiosa può<br />

indurre a pensare che al centro della morale religiosa ci sia l‘uomo con i suoi atti di culto,<br />

le sue pratiche religiose, con il dovere che queste esigono nella vita morale del cristiano.<br />

L‘etica in questo caso guarderebbe al dovere religioso dell‘uomo, e del cristiano in<br />

particolare, come fatto religioso, simile nella sua sostanza ad ogni altra espressione ed<br />

atteggiamento religioso. In questa visione non mancava, da un punto di vista etico, una<br />

particolare attenzione ad analizzare i peccati contro la religione, in ciò che si presenta<br />

come mancante o addirittura contrario al dovere religioso espresso nelle sue diverse<br />

articolazioni. E‘ questa un‘impostazione classica nei manuali di teologia morale fino al<br />

concilio.<br />

Nella presentazione che più adeguatamente oggi viene proposta di questo trattato di<br />

teologia morale, si assiste ad una variegata presentazione di quella che un tempo era<br />

definita la «virtù di religione», ma che globalmente testimonia un abbandono<br />

dell‘impostazione dei manuali preconciliari per un‘opzione che analizza gli atteggiamenti<br />

religiosi che nascono dall‘identità e vocazione propria del cristiano. Si tratta di<br />

un‘impostazione dell‘etica della religione che, considerando gli spetti della modernità<br />

legati al fenomeno religioso, cerca le motivazioni e gli atteggiamenti del vissuto religioso<br />

del cristiano e quindi anche del culto, entro il dialogo etico proprio dell‘alleanza pasquale,<br />

celebrata nei sacramenti della Chiesa.<br />

Nel percorso, che vogliamo qui proporre, guardiamo all‘agire morale del cristiano,<br />

nel suo fondamentale atteggiamento e rapporto con Dio, a partire dalla relazione fra<br />

indicativo salvifico e imperativo etico propria della prospettiva paolina e giovannea della<br />

rivelazione neotestamentaria, secondo cui il dovere di amare Dio e di celebrare il culto<br />

cristiano nasce dalla scoperta dell‘essere amati, dall‘incontro con Cristo e dal dono dello<br />

Spirito, nei quali si rivela l‘amore di Dio Padre.<br />

La vocazione in Cristo, generando nei credenti la fede-speranza-carità, è chiamata<br />

ad una vita teologale articolata e animata dal dialogo fra grazia e libertà, fra dono e<br />

impegno, che comprende anche la preghiera e i sacramenti. In questo modo tutti i «doveri<br />

religiosi» potranno essere compresi e valutati nel loro autentico significato etico non come<br />

doveri per acquisire meriti o aiuto per essere buoni o in pace con Dio, ma come<br />

espressione e sviluppo del dialogo teologale e propriamente etico fra la grazia di Dio e la<br />

libertà redenta partecipata al cristiano. Il battezzato, infatti, nella fede-speranza-carità vive<br />

la novità della salvezza in Cristo, in una relazione con Dio che accoglie e sviluppa il dono<br />

della vita teologale, quindi a partire dalla verità della sua identità creaturale e filiale.


3<br />

CAPITOLO I<br />

RELIGIONE E MORALE<br />

Prima di parlare del dialogo della fede e del suo impegno etico, può essere<br />

opportuno chiarire, ancor prima del rapporto fra fede e morale, quello fra religione e<br />

morale.<br />

La corretta comprensione del rapporto fra religione ed etica è richiesta da<br />

quell‘intrinseco legame fra queste due espressioni fondamentali del vissuto umano. Una<br />

non corretta valutazione dell‘identità sia della religione, sia della vita morale, può portare,<br />

infatti, a confondere la religione con la morale, il vissuto religioso con il buon<br />

comportamento, o a pensare la vita morale come accanto al vissuto religioso, nel qual caso<br />

però ciò che è propriamente religioso non avrebbe nessun valore significativo circa l‘agire<br />

morale dell‘uomo. Da una visione legalista sia della religione, sia dell‘agire morale, può<br />

risultare un rapporto fra religione e morale estrinseco, centrato sull‘uomo e i suoi doveri, o<br />

anche funzionale quando si cerca un fattore religioso per regolare l‘etica della società e dei<br />

singoli cittadini.<br />

La voce religione (dal latino religio) ha vari significati secondo le varie voci a cui<br />

etimologicamente può essere riallacciata: relegare, relinquere, religare, religere. Più<br />

corretta morfologicamente l'etimologia di Cicerone da relegere (= considerare, trattare con<br />

diligenza), seguito da S. Agostino, che tuttavia non disprezza anche l'etimologia di<br />

Lattanzio da religare (legare, vincolare).<br />

Religione in senso ampio significa il complesso dei rapporti tra l'uomo e la divinità,<br />

rapporti morali di ordine naturale o razionale (religione naturale) e soprannaturale<br />

(religione rivelata). Come scienza è lo studio di questi rapporti teoretici e pratici. In senso<br />

meno ampio indica il complesso degli atti di culto che l'uomo rende alla divinità e quindi<br />

anche l'atteggiamento morale che lo inclina a tributare tali atti, sia nell'ordine naturale che<br />

nel soprannaturale.<br />

L‘etica, o morale secondo l‘origine latina del termine, indica la scienza di ciò che<br />

l‘uomo deve fare e quindi di ciò che egli deve essere o diventare, perché nell‘agire,<br />

conoscendo e facendo ciò che è buono, l‘uomo cerca un senso per il suo esistere e realizza<br />

la sua vocazione al bene.<br />

Legando fra loro questi due aspetti, possiamo affermare che nel vissuto religioso<br />

l‘uomo trova il senso del suo agire nella comunione con Dio. L‘atteggiamento religioso<br />

viene con ciò a porre un senso per l‘agire, a fondare e sostenere un costume che guida tutta<br />

l‘esistenza umana. Ontologicamente legato al suo Dio, cui deve tutto il proprio essere,<br />

l‘uomo è capace e, perciò stesso tenuto, in modo cosciente e libero a riconoscere con tutto<br />

se stesso, intelligenza sentimenti e volontà, il costitutivo ligamen che lo ri-lega al suo Dio.<br />

In questo ligamen riconosciuto (e perciò re-ligamen: religione) si trova l‘essenza stessa<br />

della religione e l‘imperativo morale decisivo per l‘uomo, imperativo di fedeltà a questo<br />

legame che scaturisce dal profondo del suo essere e che coinvolge necessariamente tutta la<br />

sua vita e le sue scelte. Ecco costituito quel legame inscindibile fra religione e morale, che<br />

non accetta equivoci, identificazioni o separazioni.<br />

Tuttavia questo legame si presta facilmente ad alcuni possibili equivoci.<br />

1. Una visione eticamente riduttiva del fatto religioso: la religione civile


4<br />

Nel rapporto fra religione e morale è possibile una concezione della religione<br />

pensata e utilizzata come fonte di moralità per la convivenza sociale. La religione acquista,<br />

in una forma secolarizzata anche se impegnata e moralmente valorizzata, una funzione<br />

indispensabile, testimoniata da un diffuso ritorno della religiosità e da un bisogno mai<br />

dimenticato del sacro. Una religione quindi al servizio della morale, una base comune per<br />

fondare valori condivisi e indispensabili per la società civile, una religione come segno di<br />

appartenenza ad un popolo e ad una cultura.<br />

In occidente e in Italia questo rischia di essere l‘atteggiamento verso la religione<br />

cattolica, e la presenza della Chiesa nella società, di ―atei devoti‖ o di chi è preoccupato di<br />

salvaguardare una certa influenza della Chiesa nella società. ―È il fascino di un<br />

cristianesimo visto innanzitutto come cultura di un popolo, addirittura di un‘identità<br />

nazionale, che assicura il ricompattarsi della società e che si ammanta di evidenti risultati<br />

culturali: una presenza cristiana che inevitabilmente apparirà sempre più come<br />

declinazione dell‘equazione ―cristianesimo uguale occidente‖. Va riconosciuto che oggi la<br />

politica avverte il bisogno di utilizzare il codice religioso e pertanto è pronta al<br />

riconoscimento dell‘utilità sociale della religione. Ma è un atteggiamento estraneo in radice<br />

alla tradizione cattolica: si configura piuttosto come la deriva di un certo protestantesimo<br />

settario e fondamentalista (non il protestantesimo della Riforma!) – curiosamente, però,<br />

annovera tra i suoi sostenitori quanti accusano il Vaticano II di aver ―protestantizzato‖ la<br />

chiesa! – eppure viene incoraggiato, forse per nostalgia di una riedizione del mito della<br />

cristianità, e salutato come necessario per la nostra società sempre più frammentata e<br />

smarrita.‖ 1 .<br />

Il rischio è quello di impadronirsi della religione cristiana per fini puramente<br />

utilitaristici; non c‘è un interesse e un‘attenzione alla fede. ―La religione è piegata ad un<br />

uso ideologico; è cioè concepita come instrumentum regni, come guardiana di una cultura<br />

particolare, che viene contrapposta da altre culture‖ 2 .<br />

Nello stesso tempo il pluralismo religioso, garantito dallo Stato democratico, e<br />

l‘accentuazione della dimensione soggettiva e narcisistica delle scelte etiche, spingono a<br />

guardare alla religione come opzione soggettiva, che arricchisce la persona nella<br />

costruzione di sé in questo mondo, col pericolo di una soggettivazione dell‘esperienza<br />

religiosa, insieme alla tendenza ad una considerazione e valutazione intimistica del vivere<br />

religioso, non influente sul vivere sociale e sull‘impegno di costruzione della società<br />

2. La deriva morale della religione: etica religiosa come autosalvezza<br />

Una lunga tradizione circa l‘insegnamento della morale ha indicato fra i doveri<br />

principali del cristiano anche quelli riguardanti il suo rapporto con Dio, secondo la logica<br />

del dovere sottoposto alla legge. Secondo questa prospettiva è diventato centrale parlare<br />

dell‘aspetto etico della religione in riferimento alle norme legate alla religione e al culto,<br />

aumentate a dismisura proprio per indicare un corretto comportamento religioso e perciò<br />

presenti in ogni aspetto che riguardava il culto cristiano.<br />

La religione, così, ha assunto la forma etica dei precetti, regolando tutto l‘agire<br />

morale, senza per questo poter sfuggire ad un certo formalismo. Accanto a ciò la morale è<br />

apparsa come necessaria non tanto per la coerenza col dono della fede, ma come mezzo per<br />

acquistare la salvezza, secondo un pericoloso neopelagianesimo, che vede nell‘agire<br />

1 Dalla lettera della comunità di Bose, 4 dicembre 2003<br />

2 G. PIANA, Cristianesimo come «religione civile»?, in Aggiornamenti sociali 3(2006), 229.


5<br />

corretto la possibilità di una salvezza non come dono, ma come merito, non perciò accolta<br />

e vissuta, ma conquistata spesso non andando oltre un minimo indispensabile per ottenerla.<br />

3. L’identificazione religiosa della morale<br />

E‘ l‘atteggiamento di chi teoricamente o praticamente intende far coincidere<br />

l‘impegno del bene col vissuto religioso, senza riconoscere nell‘autonomia una qualità<br />

propria della morale, rispetto alla scelta religiosa. Certamente autonomia non significa<br />

separazione, ma la mancanza di chiara identità del fatto etico rispetto alla scelta di fede<br />

apre la strada alla deriva fondamentalista della morale, fondata proprio sull‘identità fra<br />

morale e religione.<br />

L‘atteggiamento che chiamiamo fondamentalista non è errato nel ritenere il fatto<br />

religioso fondamentale per la vita e nemmeno col proporre la propria esperienza religiosa<br />

come l‘unica autenticamente salvifica, ma nel ritenere che questo debba essere affermato<br />

anche della morale direttamente derivata dalla fede, senza la mediazione di ciò che, proprio<br />

nella fede autentica, appare come autenticamente umano e perciò impegno realizzabile da e<br />

per ogni uomo.<br />

L‘identificazione religiosa della morale, di un rapporto con Dio che dimentica<br />

l‘autonomia dell‘uomo, la sua condizione di figlio e fratello non è più in grado di rispettare<br />

la libertà donata da Dio ad ogni uomo, prima fra tutte la libertà religiosa.<br />

4. La separazione fra religione e morale<br />

L‘opposizione all‘intolleranza religiosa, frutto di una visione fondamentalista della<br />

religione sembra autorizzare, secondo un movimento pendolare del pensiero, una<br />

separazione teoricamente avvallata, ma anche più semplicemente vissuta, fra religione e<br />

morale, per cui si può essere profondamente religiosi, ed eticamente non coerenti o<br />

addirittura scorretti, con l‘impegno del bene spesso ridotto a fatto privato e frutto della<br />

scelta personale, in piena libertà e autonomia del soggetto, che non interessa il vissuto<br />

religioso. Questo si fonda su una visione riduttiva non solo del fatto etico e della persona<br />

che vive a settori la propria vita, senza ricercare quell‘unità personale che è il frutto di una<br />

personalità etica matura, ma anche di una visione riduttiva della religione, della fede come<br />

soddisfacimento di un bisogno religioso, un ingraziarsi la divinità, ma senza impegnarsi in<br />

ciò che la verità dell‘incontro con Dio chiede alla verità della propria vocazione alla<br />

felicità, in particolare nella verità delle relazione con gli altri uomini.<br />

In riferimento ai fraintendimenti possibili dell‘identificazione fra religione e morale<br />

o la loro netta separazione, in cui possono cadere i discepoli di Gesù con pericolose<br />

conseguenze sul vissuto di fede, riportiamo un illuminante testo di Bonhoeffer. ―Né la<br />

legge è Dio, né Dio stesso è la legge, come se la legge avesse preso il posto di Dio. Questo<br />

era stato il fraintendimento della legge da parte d‘Israele. La divinizzazione della legge e la<br />

riduzione legalistica di Dio è stato il peccato d‘Israele. Viceversa, il misconoscimento della<br />

divinità della legge e la separazione di Dio da essa sarebbe stato il peccaminoso<br />

fraintendimento dei discepoli. In entrambi i casi Dio e la legge risultavano separati o<br />

identificati, il che ha sempre lo stesso esito. Se gli ebrei identificavano Dio con la legge,<br />

l‘intento era di avere in proprio potere Dio insieme alla legge. Dio si era risolto nella legge<br />

e non era più il Signore delle legge. Se i discepoli potevano pensare di separare Dio dalla<br />

legge, lo facevano per poter avere, grazie al possesso della salvezza, Dio in loro potere.<br />

(…) Davanti ai due fraintendimenti Gesù pone nuovamente in vigore la legge come legge


6<br />

di Dio. Dio è il datore e Signore della legge, e solo nella comunione personale con Dio la<br />

legge è adempiuta. Non c‘è adempimento della legge senza comunione con Dio, e non c‘è<br />

alcuna comunione con Dio senza adempimento della legge‖ 3 .<br />

4. La vita morale come vissuto religioso.<br />

L‘autenticità dell‘esperienza religiosa coinvolge e chiede la verità del vivere etico<br />

come coerenza e fedeltà. Occorre evitare il fondamentalismo religioso dell‘identificazione<br />

di Dio con la legge morale, per scoprire il fondamento religioso della vita, secondo una<br />

visione ―mistica‖ dell‘uomo e della sua vocazione divina.<br />

L‘esperienza del bene e del vivere facendo il bene contiene in sé un valore di<br />

infinito, di pienezza che guarda all‘esperienza religiosa come suo fonte e come suo<br />

compimento, tanto che sempre l‘agire buono è considerato come valore che rimane e apre<br />

all‘incontro con Dio.<br />

Tutto questo ci spinge a ricercare un nuovo modo di impostare il rapporto fra<br />

religione e morale, fra rapporto con Dio e rapporto del cristiano con la fonte personale del<br />

suo agire, che si apre all‘incontro eticamente responsabile con ogni persona. Una<br />

impostazione che sia capace di ritrovare la centralità della persona, la sua autonomia nella<br />

relazione più fondante la sua dignità, riscoprendo la centralità di Dio, di quel mistero che la<br />

abita e che costituisce il rapporto più vero, autentico e fecondo fra fede e morale, per poi<br />

ritrovare la verità eucaristica e orante del rapporto fra morale e religione.<br />

Il rapporto dell‘uomo con Dio non può consistere nel dare a Dio qualcosa che egli<br />

non abbia. La dialettica del dare e del ricevere non può avere, nei confronti di Dio, che un<br />

unica direzione: da Dio all‘uomo. Lo stesso dare gloria a Dio è in realtà un diventare<br />

gloria di Dio, attraverso l‘apertura incondizionata ai suoi doni. Da lui possiamo solo<br />

ricevere; non in una ricezione passiva e deresponsabilizzante, ma libera e personalizzante,<br />

insieme tutto dono di Dio e tutto frutto del nostro impegno etico. Perchè il dono di Dio per<br />

eccellenza è Dio stesso.<br />

Un agire pienamente umano e autenticamente religioso è quello dell‘uomo che vive<br />

la sua vocazione filiale di figlio di Dio in Cristo e perciò capace di amare Dio con tutto il<br />

cuore, perché amato e redento nell‘amore totale e fedele del Crocifisso Risorto.<br />

3 D. BONHOEFFER, Sequela, Queriniana, Brescia 1989, 114-115.


7<br />

CAPITOLO II<br />

L’ESISTENZA CRISTIANA COME VITA TEOLOGALE<br />

DI FEDE-SPERANZA-CARITÀ<br />

―Sbagliarsi su Dio è un dramma, la cosa peggiore che possa capitarci, perché poi ci<br />

sbagliamo sul mondo, sulla storia, sull‘uomo, su noi stessi. Sbagliamo la vita‖ (David<br />

Maria Turoldo).<br />

1. LA VITA CRISTIANA COME VITA TEOLOGALE<br />

L‘esistenza cristiana nella sua verità più profonda non indica una relazione formale<br />

con Dio, secondo un rapporto di religione puramente intenzionale, affettivo ed esterno, per<br />

quanto convinto e coinvolgente. La relazione del cristiano con Dio in Cristo Gesù è un<br />

rapporto di partecipazione vivente e vitale; in Cristo Dio si comunica all'uomo e questi è<br />

coinvolto nella integralità del suo essere in questa relazione che diventa per ciò stesso<br />

costitutiva, interiore, ontologica. ―Noi siamo nel vero Dio e nel suo figlio Gesù<br />

Cristo‖(1Gv 5,20). Si tratta di una relazione che è dono dello Spirito: ―Da questo si<br />

conosce che noi rimaniamo in lui ed egli in noi: egli ci ha fatto dono del suo Spirito‖(1Gv<br />

4,13; 3,24). Così la vita dell'uomo in Cristo è vita teologale: partecipe della natura divina,<br />

il cristiano vive la vita stessa di Dio. Quindi è chiamato nel suo agire non a fare qualcosa<br />

per Dio, ma a fare tutto in Dio, a gloria del suo nome, per quel nome che lo definisce<br />

«vivente in Cristo», appunto «cristiano» e perciò partecipe del dialogo trinitario<br />

dell‘amore.<br />

La Chiesa, nel suo magistero sulla vita morale dei credenti, mette direttamente in<br />

relazione questa comunione e partecipazione dei cristiani alla vita di Dio con la<br />

celebrazione dei sacramenti, nei quali si dà origine e dinamismo all‘esistenza teologale dei<br />

cristiani. ―Ciò che la fede confessa, i sacramenti lo comunicano: «per mezzo dei<br />

sacramenti che li hanno fatto rinascere», i cristiani sono «diventati figli di Dio»(Gv 1, 12;<br />

1Gv 3, 1), «partecipi della natura divina» (2 Pt 1, 4)‖ 4 .<br />

La partecipazione dei cristiani alla vita di Dio è perciò dono di grazia sacramentale.<br />

Nei pronunciamenti del Magistero questa verità viene affermata sulla base della<br />

testimonianza neotestamentario della seconda lettera di Pietro, nella quale l‘autore, che si<br />

presenta col duplice nome di «Simon Pietro» e «servo e apostolo di Gesù Cristo», indirizza<br />

a tutti i fedeli che hanno ricevuto il dono della fede, una lettera scritta con l‘intento di<br />

ricordare loro quella fede che si esprime nella ―conoscenza profonda di Dio e di Gesù,<br />

Signore e salvatore‖ (2 Pt, 1, 3). ―Con queste ci ha donato i beni grandissimi e preziosi che<br />

erano stati promessi, perché diventaste per loro mezzo partecipi della natura divina,<br />

essendo sfuggiti alla corruzione che è nel mondo a causa della concupiscenza‖(2 Pt 1, 4).<br />

La vocazione cristiana è presentata come una conoscenza profonda di Dio in Gesù Cristo,<br />

che determina un nuovo rapporto con Dio e un nuovo modo di vivere. E‘ la chiamata in<br />

Cristo a doni definitivi e permanenti nella vita dei cristiani, che erano stati promessi, e che<br />

ora li rende «partecipi della natura divina».<br />

4 CCC, 1692.


8<br />

La lettera di Pietro va al cuore del messaggio cristiano e, usando una fraseologia<br />

molto audace, afferma la reale partecipazione dei credenti alla vita divina propria di Dio.<br />

Non si tratta dell‘assorbimento della persona nella divinità, ma dell‘incontro personale,<br />

reale e definitivo con Dio in Cristo.<br />

Questa è la verità e il compito della vita cristiana accolta e celebrata come vita<br />

teologale.<br />

1.1. La vocazione dell’uomo alla vita teologale<br />

Rendere partecipe l'uomo della propria vita fa parte del disegno eterno di Dio. ― In<br />

lui (il Padre) ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al<br />

suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù<br />

Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà‖ (Ef 1, 4-6). Tale disegno dirige e muove<br />

tutta la storia della salvezza dalla creazione alla redenzione. Dio, dando la vita all'uomo, lo<br />

costituisce nello stato di grazia originale come comunione dialogica con lui. L'uomo riceve<br />

la vita in pienezza da Dio e vi corrisponde con amore accogliente e fedele.<br />

Vita di comunione, la vita teologale è al punto d'incontro del dono di Dio e della<br />

libertà di accoglienza e fedeltà dell'uomo. Ciò significa che questi può chiudersi in una<br />

libertà di rifiuto-infedeltà. Allora l‘uomo fa l'esperienza del peccato come libertà di<br />

egoismo/orgoglio con cui si chiude al dono di Dio, centrandosi su se stesso e affermando la<br />

sua autonomia e il suo orgoglio (cfr. Gn 3,5). È la fine per l‘uomo della comunione con<br />

Dio, pur conservando la indefettibile ―immagine di Dio‖(Gn 1,27) in sé.<br />

Ma Dio non abbandona l'uomo nel peccato e, fedele al suo disegno eterno, realizza<br />

il progetto redentore — in diversi modi significato e promesso nell'antica alleanza per<br />

mezzo dei profeti — di rigenerazione dell'uomo attraverso una nuova comunione con Dio,<br />

frutto di un rinnovamento interiore del cuore dell‘uomo.<br />

Questa rigenerazione è la giustificazione del peccatore realizzata da Dio in Cristo,<br />

―nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati<br />

secondo la ricchezza della sua grazia‖(Ef 1,7). Pertanto, l'uomo è riconciliato con Dio per<br />

―l'opera di giustizia‖ di Cristo che si riversa sull'uomo come ―giustificazione che dà la<br />

vita‖(Rm 5,18). Questa nuova situazione oggettiva di giustificazione-riconciliazione,<br />

originata dalla Pasqua di Cristo, raggiunge l'uomo nella sua situazione personale per il<br />

dono dello Spirito ―che dà vita in Cristo Gesù‖(Rom 8, 2).<br />

―Se il progetto di Dio precede le scelte, e quindi anche il peccato dell‘uomo,<br />

nell‘intenzione divina la partecipazione alla vita divina viene prima della remissione dei<br />

peccati. Certo storicamente, l‘una non può essere dato senza l‘altra, ma l‘uomo riceve il<br />

perdono per essere posto nella condizione di partecipare alla vita trinitaria. E‘ l‘adagio caro<br />

ai Padri della Chiesa: «Dio si è fatto uomo, perché l‘uomo diventi Dio»‖ 5 .<br />

1.2. La vita nuova in Cristo<br />

Il cristiano riceve il dono della vita teologale perché è «in Cristo», per mezzo dello<br />

Spirito. In quanto unito a Cristo e vivente in Lui, il cristiano vive la vita di Dio. Questa<br />

novità investe e rinnova tutto il suo essere e esistere perché è ―vita nuova‖(Rm 6,4), che si<br />

compie per mezzo del battesimo ―bagno della rigenerazione e del rinnovamento nello<br />

Spirito Santo‖(Tt 3,5). Attraverso il segno dell'acqua, lo Spirito opera efficacemente la<br />

5 D. VITALI, Esistenza cristiana. Fede, speranza e carità, Queriniana, Brescia 2001, 49.


9<br />

rigenerazione battesimale come partecipazione alla vita del Risorto: «Per mezzo del<br />

battesimo siamo stati sepolti insieme con lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato<br />

dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita<br />

nuova» (Rom 6,4).<br />

Il cristiano partecipa al mistero pasquale attraverso il battesimo, che può essere<br />

definito come resurrezione del credente. ―In lui infatti siete stati sepolti insieme nel<br />

battesimo, in lui siete insieme risuscitati per la fede nella potenza di Dio, che lo ha<br />

risuscitato dai morti‖(Col 2, 12). Nel futuro escatologico ci sarà la manifestazione della<br />

vita nuova, partecipata nel battesimo e ancora avvolta nel mistero; su questa vita già da<br />

risorti si fonda l‘impegno morale dei battezzati di vivere da risorti con Cristo. ―Se dunque<br />

siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù dove ritrova Cristo assiso alla destra di Dio;<br />

pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra‖ (Col 3, 1-2).<br />

Ciò che risulta evidente nella tensione fra presente e futuro, nella accentuazione di<br />

un presente in Cristo, ma ancora nascosto, rimane l‘affermazione che l‘appartenenza a<br />

Cristo è già realtà; essa infatti ha già avuto il suo fondamento nel battesimo, in cui il<br />

cristiano è stato inserito nella morte e risurrezione di Cristo. Per il battesimo, sacramento<br />

della pasqua, si determina una nuova situazione ontologica: il cristiano è una nuova<br />

creatura (cfr. Gal 5, 6; 6, 15; 2 Cor 5, 17), sperimenta un nuovo intervento creatore di<br />

Dio(cfr. Col 3, 10), diventa un uomo nuovo rispetto a ciò che era prima e che non esiste<br />

più (cfr. Rom 6, 6; Col 3, 9; Gal 2, 19). Per il battezzato l‘essere «in Cristo» non significa<br />

semplice relazione psicologica, sentimentale, né fusione o assorbimento, ma comunione<br />

personale e vitale, così da essere inserito e incorporato in Cristo, per divenire un essere<br />

solo con lui (cfr. Gal 3, 27-28).<br />

Perciò l‘espressione «in Cristo» contiene ed esprime la relazione esistenziale del<br />

cristiano, che nel battesimo è posto in rapporto vitale con Cristo con un evento<br />

sacramentale iniziale, unico e sempre attuale nella sua efficacia . L‘espressione «vita in<br />

Cristo», secondo la piena verità del suo significato ontologico e morale, permette di<br />

comprendere che la natura e l‘identità della vita morale, che si sviluppa a partire dal dono<br />

sacramentale, è una «vita nuova in Cristo», in cui è contenuta e comunicata tutta la verità<br />

salvifica e santificante dell‘essere in Cristo.<br />

Il cristiano è un vivente, vive la vita stessa di Cristo «fuoriuscita» dal suo costato<br />

nella vittoria pasquale sul peccato e sulla morte, una vita perciò di riconciliazione con Dio<br />

nello Spirito e di partecipazione all‘amore trinitario di Dio. Ed è in questo suo essere che<br />

si fonda e si sviluppa il suo operare.<br />

Questa vita nuova è alimentata e fecondata dall'eucaristia come sacramento della<br />

vita in Cristo e per Cristo: ―Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue... dimora in me e<br />

io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche<br />

colui che mangia di me vivrà per me‖(Gv 6, 54-57). Assume qui realismo sacramentale la<br />

relazione dei tralci con la vite, paradigmatica della relazione vivente e vitale del cristiano<br />

con Cristo: ―Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se<br />

non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi<br />

rimane in me e io in lui fa molto frutto‖(Gv 15,4-5).<br />

Incorporati a Cristo per mezzo del Battesimo, i cristiani sono morti al peccato, ma<br />

viventi per Dio, in Cristo Gesù, partecipando così alla vita del Risorto. Alla sequela di<br />

Cristo e in unione con lui, i cristiani possono farsi «imitatori di Dio», conformando i loro<br />

pensieri, le loro parole, le loro azioni ai sentimenti che furono in Cristo Gesù e seguendone<br />

gli esempi (cfr. Fil 2, 5).<br />

La vocazione in Cristo si rivela come vocazione divina che non annulla ma compie<br />

in Cristo la vocazione alla pienezza di senso e di vita che la natura umana porta in sé.<br />

―Cristo, infatti, è morto per tutti e la vocazione ultima dell‘uomo è effettivamente una sola,


10<br />

quella divina‖ 6 . Proprio a partire da questa partecipazione alla vita stessa di Dio, per<br />

l‘inserimento battesimale nel mistero pasquale, il cristiano è impegnato a realizzare<br />

esistenzialmente una vita morale teologale. E‘ il ―dovere‖ necessitato dalla libertà del dono<br />

di Dio, che diventa fondamento dell‘impegno morale di santificare la vita: ―Santificati in<br />

Cristo Gesù, chiamati ad essere santi…‖(1Cor 1, 2).<br />

La storia della salvezza, entro cui occorre continuamente ricollocare la riflessione<br />

teologico-morale, ci rivela che ―piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelarsi in<br />

persona e manifestare il mistero della sua volontà (cfr. Ef 1, 9), mediante il quale gli<br />

uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, hanno accesso al Padre nello Spirito Santo<br />

e sono resi partecipi della divina natura(cfr. Ef 2, 18; 2 Pt 1,4)‖ 7 . Il battezzato riceve la vita<br />

divina perché è in Cristo, partecipa alla vita divina del Verbo incarnato. ―Inserito in Cristo,<br />

il cristiano diventa membro del suo Corpo, che è la Chiesa (cfr. 1 Cor 12,13.27). Sotto<br />

l'impulso dello Spirito, il Battesimo configura radicalmente il fedele a Cristo nel mistero<br />

pasquale della morte e risurrezione, lo «riveste» di Cristo (cfr. Gal 3,27): « Rallegriamoci e<br />

ringraziamo — esclama sant'Agostino rivolgendosi ai battezzati —: siamo diventati non<br />

solo cristiani, ma Cristo(...). Stupite e gioite: Cristo siamo diventati!‖ 8 . Morto al peccato, il<br />

battezzato riceve la vita nuova (cfr. Rom 6,3-11): vivente per Dio in Cristo Gesù, è<br />

chiamato a camminare secondo lo Spirito e a manifestarne nella vita i frutti (cfr. Gal 5,16-<br />

25).<br />

Essenzialmente tutti i sacramenti realizzano il dono della vita nuova in Cristo, che<br />

lo Spirito opera in noi, secondo il simbolismo proprio di ciascun sacramento e in relazione<br />

alla situazione esistenziale in cui ogni sacramento viene ricevuto.<br />

Vita nuova in Cristo, morto e risorto, che siede alla destra del Padre, per l'azione<br />

rigenerante dello Spirito, la vita teologale è vita eterna, non solo come vita oltre la morte,<br />

ma secondo il significato giovanneo di vita divina partecipata nel tempo all'uomo che<br />

accoglie il Figlio e la sua parola (cfr. Gv 3,36; 4,14; 5,24; 6,40.47.54) e che Gesù invoca<br />

come dono del Padre ai suoi (cfr. Gv 17,2 . ―Questa è la vita eterna: conoscere te, l'unico<br />

vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo‖ (Gv 17,3). Non si tratta di una conoscenza<br />

speculativa di Dio e di Gesù Cristo, ma della conoscenza propriamente biblica, la quale<br />

esprime una relazione esistenziale, una esperienza concreta, dove il conoscere qualcuno<br />

significa entrare in relazione personale con lui.<br />

La vita eterna è una comunione e comunicazione di vita che lega Cristo ai suoi, la<br />

quale è partecipazione e prolungamento salvifico dell' amore che unisce il Padre e il Figlio,<br />

che Cristo Cristo rivela e comunica, ―perché l'amore con il quale mi hai amato sia m essi e<br />

io in loro‖(Gv 17,26).<br />

Il cristiano, dunque, conosce Dio secondo l‘amore con cui Cristo conosce il Padre.<br />

E questa conoscenza amante è vita eterna: partecipazione alla pienezza di vita che e in Dio.<br />

Per questa partecipazione Cristo ha condiviso la condizione umana: ―Io sono venuto perché<br />

abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza‖(Gv 10,10). In Cristo infatti ―abita<br />

corporalmente tutta la pienezza della divinità, corporalmente; e voi avete in lui parte alla<br />

sua pienezza‖(Col 2,9-10): ―Dalla sua pienezza noi abbiamo ricevuto e grazia su<br />

grazia‖(Gv 1,16).<br />

La vita eterna è già la condizione presente dell‘essere del cristiano, come<br />

partecipazione alla pienezza di vita di Dio che si offre a noi nell'umanità del Cristo,<br />

sacramento del Padre. Si tratta di un dono divino che investe interamente l'uomo,<br />

rinnovandolo interiormente. Dio, infatti, si comunica pienamente e l'uomo è coinvolto<br />

totalmente. ―Il dono di Dio non si giustappone all'umano, ma lo assume in una dinamica di<br />

6 GS, 22.<br />

7 DV, 2.<br />

8 VS, 21.


11<br />

elevazione soprannaturale. D'altra parte, nelle condizioni spazio-temporali in cui la vita<br />

divina si offre all'uomo, la pienezza di Dio non può annullare il limite umano e rifulgere in<br />

tutto il suo splendore. Per cui l'uomo vive sempre una partecipazione tensionale verso il<br />

compimento escatologico‖ 9 .<br />

La vita divina si offre nell‘oggi del tempo della salvezza come vita eterna, ma nella<br />

forma dell‘inizio, quindi in tensione verso la sua completa manifestazione e attuazione in<br />

Dio, oltre ogni limite umano, nella forma di vittoria non solo sul peccato, ma anche sulla<br />

morte. Per questo resta una vita ―nascosta con Cristo in Dio‖(Col 3,3). Come tale conosce<br />

il momento della kenosi, come esperienza della debolezza, dell'abbandono, della<br />

tentazione, della sofferenza, della morte, portando la forma crucis della vita con Cristo.<br />

Essa sarà manifesta e gloriosa solo alla parusia: ―Quando si manifesterà Cristo, la vostra<br />

vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria‖(Col 3,4).<br />

1.3. Vita trinitaria<br />

Partecipazione alla vita di Dio in Cristo per lo Spirito, la vita teologale è vita<br />

trinitario. Essa è ontologica conformazione a Cristo, di cui il cristiano condivide la dignità<br />

filiale: ―Dio mandò il suo Figlio... perché ricevessimo l'adozione a figli‖(Gal 4,4-5).<br />

Quest‘adozione filiale è opera in noi dello Spirito del Figlio che, costituendoci figli, ci<br />

rapporta a Dio come a nostro Padre: ―Che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha<br />

mandato nei nostri cuori lo Spirito del Figlio suo che grida: "Abbà, Padre!". Quindi non sei<br />

più schiavo ma figlio; e se figlio, sei anche erede per volontà di Dio‖(Gal 4,6-7; cfr. Rom<br />

8,15-17).<br />

Per il dono ricreatore dello Spirito il cristiano è dunque in rapporto con Dio nella<br />

stessa relazione filiale di Cristo con il Padre: Cristo come figlio unigenito, coeterno al<br />

Padre; il cristiano come figlio adottivo ed erede. E questa è comunione trinitaria:<br />

comunione con Cristo, il cui Spirito ci conforma a lui e ci attesta la nostra dignità filiale<br />

(Rm 8,16); e comunione con il Padre che effonde in noi lo Spirito del suo amore (Rm 5,5),<br />

chiamandoci e abilitandoci alla stessa risposta d'amore del Figlio. Lo Spirito del Padre e<br />

del Figlio è così in noi principio e vincolo di comunione trinitaria: ―La nostra comunione è<br />

con il Padre e con il Figlio suo Gesù Cristo‖(1Gv 1,3). Nel vincolo di comunione dello<br />

Spirito Santo (cfr. 2Cor 13,13), la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio,<br />

comunione che costituisce e definisce la vita teologale come vita trinitaria. ―Come intimità<br />

immediata con Dio, la grazia santificante è dunque essenzialmente una relazione vitale con<br />

le tre persone divine nella loro distinzione e nella loro unità, ciò che è precisamente Dio.<br />

Essa (…) come unione di destino con la morte e risurrezione del Signore, realizza la nostra<br />

comunione personale con la Trinità‖ 10 .<br />

La comunione con Dio in Cristo per lo Spirito avviene nella Chiesa e per la Chiesa.<br />

La Chiesa è il sacramento della vita trinitaria. Essa, infatti, è ricolma della pienezza di<br />

Cristo (Ef 1,23) per il dono pentecostale dello Spirito, generando ―a vita nuova e immortale<br />

i figli, concepiti ad opera dello Spirito Santo e nati da Dio‖ 11 .<br />

Così il cristiano attinge la vita divina alla teologalità della Chiesa, originata perciò<br />

non dalla semplice virtù di religione come individuale rapporto con Dio, ma dalla<br />

comunione ecclesiale quale partecipazione all‘economia di grazia della Chiesa. ―La<br />

Santissima Trinità dona al battezzato la grazia santificante, la grazia della giustificazione<br />

che: - lo rende capace di credere in Dio, di sperare in lui e di amarlo per mezzo delle virtù<br />

9 M. COZZOLI, Etica teologale. Fede carità Speranza, San Paolo, Cinisello Balsamo(MI) 1991, 15.<br />

10 E. SCHILLEBEECKX, Cristo sacramento dell’incontro con Dio, Paoline, Roma 1962, 226<br />

11 LG, 64.


12<br />

teologali; - gli dà la capacità di vivere e agire sotto la mozione dello Spirito Santo per<br />

mezzo dei doni dello Spirito Santo; - gli permette di crescere nel bene per mezzo delle<br />

virtù morali‖ 12 . La vita divina non conosce dunque individualismi e intimismi di sorta,<br />

perché la partecipazione alla vita di Cristo e inserimento e comunione con il suo corpo<br />

ecclesiale.<br />

Espressione dell'economia di grazia della Chiesa, la vita divina si fa testimonianza<br />

ecclesiale. La vita divina in noi è vita con Dio per gli altri: è «luce» (cfr. Ef 5,8) che ―deve<br />

brillare agli occhi degli uomini»‖(Mt 5,16). ―E Dio che disse: "Rifulga la luce dalle<br />

tenebre", rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che<br />

rifulge sul volto del Cristo»(2Cor 4,6).<br />

La vita teologale è accoglienza ecclesiale della luce divina che rende i battezzati<br />

luminosi, per diventare un'irradiazione, uno specchio della gloria di Dio, come risplende<br />

sul volto di Cristo. Vita teologale è essere e diventare, in Cristo e come Cristo, splendore<br />

della gloria di Dio.<br />

CRISTO<br />

2. FEDE, SPERANZA, CARITA’: VIRTU’ TEOLOGALI DELLA VITA IN<br />

Costituito nella vita teologale, il cristiano è partecipe della vita di Dio, poiché vive<br />

in Cristo per mezzo del dono dello Spirito Santo, che ―dà vita in Cristo Gesù‖(Rom 8, 2).<br />

Partecipe di una vita nuova è abilitato ad una novità di vita, in cui vivere il dialogo<br />

trinitario con Dio. La sua vita morale, esperienza di libertà per Dio, è suscitata e animata<br />

dalla comunione con Dio, dall‘amore stesso di Dio di cui il cristiano è reso partecipe;<br />

quindi è per lui un amare Dio perché amato da Dio e vivente in lui, per la partecipazione<br />

alla vita del Figlio. Così a fondamento dell‘agire ―religioso‖ che anima e dirige tutto<br />

l‘agire del cristiano, e in modo specifico la sua comunione con Dio, c‘è la vita di Dio, la<br />

vita in Dio, cosicché ―è Dio che suscita in voi il volere e l‘operare‖(Fil 2, 13).<br />

A partire dall‘unità dell‘evento fondativo del dono della vita in Cristo e secondo le<br />

dimensioni dell‘unica libertà per Dio e quindi delle modalità di relazione dell‘esistenza<br />

umana, la vita cristiana come vita teologale è definita come esistenza di fede, speranza e<br />

carità. Queste sono chiamate, dalla tradizione teologica e dalle affermazioni magisteriali,<br />

virtù teologali, poiché fede, speranza e carità sono i modi specifici, fra loro inscindibili ma<br />

pur sempre distinguibili, della vita teologale, dell‘unica relazione con Dio e della risposta<br />

libera suscitata dal dono di grazia del cristiano, la cui esistenza e pienamente e totalmente<br />

animata dal vissuto teologale di fede, speranza e carità.<br />

La loro identità permette di considerare un itinerario di vita cristiana, che a partire<br />

dal dono di Dio e dalla partecipazione alla sua vita, trova nelle facoltà dell‘uomo e nel suo<br />

desiderio di felicità la possibilità di vivere tutta l‘esistenza umana secondo una pienezza di<br />

vita teologale.<br />

La idoneità delle virtù teologali è data dal doppio significato, soggettivo e<br />

oggettivo, di fede-speranza-carità. In senso oggettivo, le virtù teologali vengono da Dio<br />

come virtù infuse e si riferiscono direttamente a Dio creduto come verità infinita,<br />

desiderato come piena felicità e amato come sommo bene. In senso soggettivo, fedesperanza-carità<br />

coinvolgono tutto l‘uomo in un dinamismo che lo orienta in modo radicale<br />

verso il compimento del regno di Dio, nella piena conformazione a Cristo, primogenito dei<br />

risorti.<br />

Ma questa ricchezza di significato è diventata problematica in ordine alla<br />

opportunità di parlare delle virtù teologali secondo gli schemi e il linguaggio usati dalla<br />

12 CCC, 1266.


13<br />

scolastica, come anche la scelta della collocazione di questo tema all‘interno delle<br />

discipline teologiche.<br />

Infatti, è possibile affrontare il tema delle virtù teologali nella prospettiva della vita<br />

teologale, quindi nella prospettiva dell‘uomo giustificato (antropologia teologica). Ma<br />

fede-speranza-carità- raccolgono in unità le dimensioni costitutive dell‘uomo giustificato<br />

per quanto riguarda la sua relazione con Dio, quindi secondo l‘approccio proprio della<br />

morale religiosa: dalla vocazione in Cristo che introduce il battezzato nella comunione<br />

trinitaria, alla trasformazione radicale del battezzato che vive in Cristo, secondo quel dono<br />

della vocazione alla santità proprio di una esistenza di fede, speranza, carità vissuta come<br />

risposta al Dio che salva.<br />

Le virtù teologali permettono, così, di comprendere e descrivere la vita cristiana<br />

come evento sempre in atto, secondo il dinamismo della vita in Cristo, realizzando nel<br />

legame fra essere e agire, tutta la verità e l‘estensione dell‘esistenza cristiana. Per questo la<br />

loro collocazione teologica, secondo una lunga tradizione teologica, può essere ancora<br />

quella dell‘etica teologica, e ancor più precisamente quella trattazione che considera il<br />

credente in quanto chiamato a vivere la sua comunione con Dio, quindi di un‘etica che, a<br />

partire dal dono della vita teologale, assume il carattere di un‘etica teologale di fedesperanza-carità.<br />

2.1. La testimonianza della Scrittura: fede-speranza-carità nel Nuovo<br />

Testamento<br />

A fronte di un grande numeri di testi del Nuovo Testamento che parlano<br />

distintamente della fede, della speranza e della carità, i testi che riportano il ternario fedesperanza-carità<br />

sono pochi, 15 in tutto.<br />

Oltre a questa scarsa attenzione ad indicare nell‘unità le virtù teologali, stupisce il<br />

fatto che il Nuovo Testamento non le chiama mai ―virtù‖, come invece ha codificato la<br />

tradizione teologica, riassunta nel De Virtutibus infusis, che faceva di questa definizione il<br />

fondamento e la possibilità di un trattato sulle virtù teologali. Questo ci impone un‘analisi<br />

dei testi neotestamentari e una breve analisi del tracciato che ha portato a definire queste<br />

dimensioni della vita cristiana ―virtù‖, per verificare perché e come oggi sia opportuno o<br />

addirittura necessario parlare ancora di virtù teologali per indicare la comunione del<br />

cristiano con Dio in Cristo, nei suoi aspetti di dono e impegno.<br />

La maggior parte dei testi in cui ricorre il ternario si trova nell‘epistolario paolino,<br />

che insiste sul ternario fede-speranza-carità variamente articolato: 1Tes 1, 2s; 5, 8; 1Cor<br />

13, 13; Gal 5, 5s; Rom 5, 1-5; Col 1, 3-5; Ef 1, 15-18; 4, 1-6; 1Tim 6, 11; Tt 2, 2; 2Tim 3,<br />

10: A questi si aggiungono altri testi del Nuovo Testamento: Eb 6, 10-12; 10, 22-24; Gd<br />

20; 1Pt 1, 3-9.21s; Ap 2, 19.<br />

Il testo più importante, a cui fa riferimento la tradizione teologica per parlare delle<br />

virtù teologali, è 1Cor 13, 13, dove a conclusione dell‘inno alla carità, l‘apostolo Paolo<br />

mostra la via migliore di tutte per la vita cristiana. ―Queste dunque le tre cose che<br />

rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità!‖. Fede,<br />

speranza e carità esprimono secondo il verbo ―rimangono‖, nell‘unità tutta l‘esistenza<br />

cristiana, con una preminenza della carità secondo il modo di essere, mentre la radice della<br />

vita cristiana è posta nella fede.<br />

Alcuni testi in cui il ternario ricorre si trovano nella preghiera di ringraziamento<br />

iniziale delle lettere di Paolo. ―Ringraziamo sempre Dio per tutti voi, ricordandovi nelle<br />

nostre preghiere, continuamente memori davanti a Dio e Padre nostro del vostro impegno<br />

nella fede, della vostra operosità nella carità e della vostra costante speranza nel Signore


14<br />

nostro Gesù Cristo‖(1 Ts 1, 2-4). Fede, speranza e carità al genitivo soggettivo, che per<br />

sua natura precisa il soggetto dell‘azione, indica che l‘operosità è propria della fede; che<br />

la fatica, ma anche la sofferenza, il sacrificarsi dandosi senza risparmio, è proprio della<br />

carità; la fermezza, la tenacia e la pazienza è propria della speranza. Così Paolo ricorda la<br />

fede operosa, la carità che si sacrifica e la speranza ferma e tenace dei cristiani di<br />

Tessalonica.<br />

Nello stesso quadro di riferimento di trova Col 1, 3-5: ―Noi rendiamo<br />

continuamente grazie a Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, nelle nostre preghiere<br />

per voi, per le notizie ricevute della vostra fede in Cristo Gesù, e della carità che avete<br />

verso tutti i santi, in vista della speranza che vi attende nei cieli‖ e Ef 1, 15-18: ―Anch‘io,<br />

avendo avuto notizia della vostra fede nel Signore Gesù e dell‘amore che avete verso tutti i<br />

santi, non cesso di render grazie per voi, ricordandovi nelle mie preghiere, perché il Dio<br />

del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di<br />

rivelazione per una più profonda conoscenza di lui. Possa egli davvero illuminare gli occhi<br />

della vostra mente per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di<br />

gloria racchiude la sua eredità fra i santi‖. Qui la speranza non è un atteggiamento del<br />

cristiano, ma, in senso oggettivo, il punto di arrivo del cammino di fede in Cristo e della<br />

carità verso i fratelli: la beata speranza (Tt 2, 13), cioè il regno di Dio, la vita eterna.<br />

La stessa scansione, che considera la speranza in senso oggettivo, si trova anche in<br />

Gal 5, 5-6: ―Noi infatti per virtù dello Spirito, attendiamo dalla fede la giustificazione che<br />

speriamo. Poiché in Cristo Gesù non è la circoncisione che conta o la non circoncisione,<br />

ma la fede che opera per mezzo della carità‖. All‘interno della dottrina della<br />

giustificazione, questa dipende dalla fede che dona una vita nuova, ma partecipata nella<br />

speranza. La vita nuova in Cristo, ottenuta mediante la giustificazione, è un dono da<br />

adempiere mediante il precetto della carità.<br />

Sempre nel contesto della giustificazione si colloca Rom 5, 1-5: ―Giustificati<br />

dunque per la fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo;<br />

per suo mezzo abbiamo anche ottenuto, mediante la fede, di accedere a questa grazia nella<br />

quale ci troviamo e ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio. E non soltanto questo:<br />

noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce<br />

pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non<br />

delude, perché l‘amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito<br />

Santo che ci è stato dato‖. La condizione dell‘uomo giustificato si configura come una<br />

vita tesa al raggiungimento della gloria di Dio, che si esprime nell‘impegno di vivere nella<br />

grazia, portando frutto in ogni situazione.<br />

In un quadro di riferimento ancor più chiaramente escatologico si colloca 1Tes 5,<br />

8: ―Noi invece, che siamo del giorno, dobbiamo essere sobrii, rivestiti con la corazza della<br />

fede e della carità e avendo come elmo la speranza della salvezza‖. La vita nella fedecarità,<br />

condotta nella speranza della salvezza, è descritta secondo il modello del<br />

combattimento, dove fede-speranza-carità sono gli elementi fondamentali dell‘armatura di<br />

Dio che rende il credente capace di resistere agli assalti del maligno (cfr. Rom 13, 11-14;<br />

Ef 6, 10-22).<br />

Secondo un fine parenetico e in un contesto ecclesiologico si esprime Ef 4, 1-6:<br />

―Vi esorto dunque io, il prigioniero nel Signore, a comportarvi in maniera degna della<br />

vocazione che avete ricevuto, con ogni umiltà, mansuetudine e pazienza, sopportandovi<br />

a vicenda con amore, cercando di conservare l‘unità dello spirito per mezzo del vincolo<br />

della pace. Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete<br />

stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo<br />

battesimo. Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti<br />

ed è presente in tutti‖. L‘impegno dell‘amore reciproco (della carità anche se non


esplicitamente menzionata) è visto in riferimento all‘unica speranza e alla stessa fede<br />

della comunità.<br />

Al di fuori dell‘epistolario paolino, si trovano alcuni testi in cui compare il<br />

ternario come quadro comprensivo e descrittivo della vita cristiana.<br />

Testi significativi in questo senso sono due passi della lettera agli Ebrei, che<br />

prospettano la fede-speranza-carità nelle condizioni concrete della vita dei credenti,<br />

davanti a persecuzioni e prove di vario genere. ―Dio infatti non è ingiusto da<br />

dimenticare il vostro lavoro e la carità che avete dimostrato verso il suo nome, con i<br />

servizi che avete reso e rendete tuttora ai santi. Soltanto desideriamo che ciascuno di voi<br />

dimostri il medesimo zelo perché la sua speranza abbia compimento sino alla fine, e<br />

perché non diventiate pigri, ma piuttosto imitatori di coloro che con la fede e la<br />

perseveranza divengono eredi delle promesse‖(Eb 6, 10-12). E‘ un incoraggiamento ad<br />

essere perseveranti nella fede che l‘autore ribadisce poco dopo: «Accostiamoci con<br />

cuore sincero nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e<br />

il corpo lavato con acqua pura. Manteniamo senza vacillare la professione della nostra<br />

speranza, perché è fedele colui che ha promesso. Cerchiamo anche di stimolarci a<br />

vicenda nella carità e nelle opere buone»(Eb 10, 22-24).<br />

Cercando di giungere a qualche conclusione possiamo notare che nei testi<br />

neotestamentari troviamo due sequenze percorribili del ternario che indica la condizione<br />

e l‘impegno della vita cristiana: fede-carità-speranza e fede-speranza-carità, dove risulta<br />

essere privilegiato nel primo l‘oggetto stesso della speranza, mentre nel secondo<br />

l‘atteggiamento dell‘uomo che spera. Ciò che risulta evidente, indipendentemente dal<br />

fatto che l‘apostolo Paolo lo assuma dalla tradizione o lo elabori lui stesso, è che fedesperanza-carità<br />

descrivono adeguatamente l‘esistenza cristiana nella sua interezza e<br />

nelle sue esigenze, poiché descrivono i dinamismi e le condizioni essenziali della vita<br />

«in» Cristo.<br />

15<br />

2.2. Le virtù teologali della vita in Cristo: il fondamento cristocentrico delle<br />

virtù teologali<br />

Non si può non sottolineare che il termine virtù è molto marginale nel Nuovo<br />

Testamento e mai viene applicato alla fede-speranza-carità. Anche quando sono citate<br />

singolarmente il testo biblico non parla di virtù in riferimento alla fede, alla speranza,<br />

alla carità. La definizione di virtù come ―disposizione abituale e ferma a fare il bene‖ 13 ,<br />

non è biblica, ma una interpretazione posteriore che il linguaggio teologico ha attribuito<br />

ai contenuti del Nuovo Testamento.<br />

Il termine «virtù» (aretē) è tipico della cultura e della filosofia greca di cui<br />

qualifica in modo paradigmatico la dottrina morale. Nel Nuovo Testamento ricorre<br />

quattro volte, due delle quali indicano la virtù come riferita direttamente a Dio, poiché<br />

gli uomini devono «annunciare le virtù di Dio»(1Pt 2, 9) e sono chiamati ―alla sua<br />

gloria e virtù‖(2Pt 1, 3), mentre le altre due riguardano la condotta dell‘uomo, secondo<br />

la concezione greca della virtù. ―In conclusione, fratelli, tutto quello che è vero, nobile,<br />

giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto<br />

dei vostri pensieri‖(Fil 4, 8). ―Mettete ogni impegno per aggiungere alla vostra fede la<br />

virtù, alla virtù la conoscenza, alla conoscenza la temperanza, alla temperanza la<br />

pazienza, alla pazienza la pietà, alla pietà l‘amore fraterno, all‘amore fraterno la<br />

carità‖(2Pt 1, 5).<br />

13 CCC, 1803.


La marginalità di questo termine nel Nuovo Testamento corrisponde<br />

all‘annuncio che la salvezza dell‘uomo non sta nella sua capacità o perfezione etica, ma<br />

nell‘iniziativa gratuita di Dio, dove l‘impegno morale, fra cui quello della virtù, è una<br />

capacità nuova che nasce dalla fede e che Dio dona all‘uomo in Cristo come possibilità<br />

di rispondere al suo dono con l‘impegno delle buone opere. ―Poiché la serie è chiusa tra<br />

i vocaboli πίστις e άγάπη, essa viene tutta modificata. La fede è l‘inizio e il fondamento<br />

della vita cristiana; la carità è il suo compimento‖ 14 . Le tensione morale è sì espressa e<br />

articolata secondo il cammino delle virtù, ma sul fondamento della fede che giunge alla<br />

pienezza nella carità, in cui si esprime la pienezza e la verità della conoscenza di Cristo.<br />

―Anche se l‘importanza che ha la virtù è fuori discussione, il Nuovo Testamento sembra<br />

rifuggire dalla concezione greca, in quanto troppo antropocentrica e intenta ad<br />

evidenziare l‘opera e il merito dell‘uomo e non cessa di ricordare che tutto il bene che è<br />

in noi è dono di Dio e frutto del suo Spirito‖ 15 .<br />

Questa diffidenza si trova anche negli scritti dei primi secoli, in cui pur<br />

indicando la centralità del ternario, riprendendo in ciò il pensiero del Nuovo<br />

Testamento, alla fede-speranza-carità non viene mai attribuito la qualità di virtù. Nella<br />

Lettera a Policarpo, S. Ignazio di Antiochia riprende 1Tes 5, 8, affermando: ―Il vostro<br />

battesimo sia come uno scudo, la fede sia il vostro elmo, la carità la lancia, la pazienza<br />

l‘armatura completa‖ 16 . E anche Policarpo, scrivendo ai Filippesi, li esorta a restare<br />

saldi nella fede, perché ―questa fede è la madre di tutti noi, seguita dalla speranza e<br />

preceduta dalla carità verso Dio, Cristo e il prossimo‖ 17 .<br />

A partire da queste osservazioni sull‘utilizzo del termine virtù, occorre<br />

percorrere un lungo tratto di strada per arrivare a definire, secondo quella che anche<br />

oggi appare la comune definizione, la fede-speranza-carità come virtù teologali. Per<br />

arrivare a questo occorre considerare quel processo di cristianizzazione del termine<br />

virtù che ha permesso di applicarlo alla triade indicata dal Nuovo Testamento.<br />

Nei primi secoli cristiani il termine virtù assume molti significati, fra cui anche<br />

quello di agire secondo quei doni soprannaturali che manifestano la potenza di Dio<br />

nell‘uomo, così lentamente si impone l‘accezione teologica di virtù in relazione alla<br />

carità. Agire secondo virtù equivale ad agire secondo carità, afferma S. Ambrogio; per<br />

S. Agostino, tutte le virtù devono essere ordinate al fine ultimo della carità, che le<br />

produce tutte o, almeno, le suscita e le porta a effetto. ―Dopo aver dunque proposto<br />

questo amore (di Cristo per l‘uomo) come fine cui far convergere tutto quello che dici,<br />

qualunque cosa tu esponga, esponila in modo che il tuo ascoltatore, ascoltando creda,<br />

credendo speri, sperando ami‖ 18 .<br />

Il cammino per arrivare a definire fede, speranza e carità come virtù, esposte in<br />

un trattato ben definito, arriva a compiersi in S. Gregorio Magno, che applicherà a<br />

questi valori altissimi la categoria filosofica di virtù, non più quindi come sorgenti di<br />

virtù, ma esse stesse virtù su cui si fonda l‘edificio della vita spirituale del cristiano 19 .<br />

Il punto di arrivo di questo processo di sviluppo, che passa per lo slittamento<br />

della categoria di virtù dal senso generico di forza, a quello più circoscritto di qualità, di<br />

abito operativo che orienta al bene le potenze spirituali dell‘uomo, è la definizione di<br />

fede, speranza, carità come ―virtù teologali‖. Il contesto teologico è quello della<br />

giustificazione in un contesto sociale e religioso in cui l‘uomo è necessariamente<br />

16<br />

14<br />

K. H. SCHELKLE, Le lettere di Pietro. La lettera di Giuda, Paideia, Brescia 1981 (Commentario<br />

<strong>Teologico</strong> del Nuovo Testamento, XIII/2), 304.<br />

15<br />

Virtù, in Dizionario dei Concetti Biblici del Nuovo Testamento, 2007<br />

16<br />

S. IGNAZIO DI ANTIOCHIA, In Epist. ad Pol., VI, 2: PG 5, 724-725.<br />

17<br />

POLICARPO, Ad Phil., III, 3: PG 1008.<br />

18<br />

S. AGOSTINO, De catechizandis rudibus, IV, 8: PL 40, 315.<br />

19<br />

Cfr. S. GREGORIO MAGNO, Moralia in Job, I, XXVII, 46: PL 75, 544.


cristiano, battezzato e impegnato in una vita virtuosa. Ci si domanda allora cosa porta la<br />

giustificazione, cosa produce il battesimo nell‘uomo rendendolo capace di partecipare<br />

alla comunione con Dio.<br />

La grande Scolastica ha risposto distinguendo fra grazia increata e grazia creata.<br />

―Nella giustificazione non soltanto si dà l‘inabitazione dello Spirito nell‘anima del<br />

giusto, ma si produce – come condizione di quella in abitazione – una nuova condizione<br />

dell‘uomo giustificato, una realtà che non esisteva prima e che consisteva propriamente<br />

in una nuova forma, completa di qualità, inclinazioni, tendenze, che innalzano la natura<br />

dell‘uomo alla capacità di relazione con Dio‖ 20 .<br />

Applicando la distinzione aristotelica tra l‘anima come principio vitale e le<br />

facoltà come principi operativi, la teologia scolastica indicò la distinzione fra grazia<br />

santificante propria dell‘essere dell‘uomo, e le virtù teologali, relative al suo agire,<br />

quindi infuse nelle facoltà dell‘uomo: la memoria, l‘intelletto e la volontà. Così ―la<br />

grazia sta alle virtù come l‘essenza dell‘anima alle facoltà: quindi, le virtù risiedono<br />

nelle facoltà, mentre la grazia perfeziona la sostanza dell‘anima stessa‖ 21 . La virtù<br />

diventa perciò un habitus, una qualità che Dio infonde nell‘anima e che orienta al bene<br />

le facoltà dell‘uomo, la memoria l‘intelletto e la volontà.<br />

Il concilio di Trento nel Decreto sulla giustificazione fisserà la dottrina insegnata<br />

e definita dal magistero sui doni infusi nel battesimo, quindi nella giustificazione<br />

dell‘uomo. ―La giustificazione non è semplice remissione dei peccati, ma anche<br />

santificazione e rinnovamento dell‘uomo interiore, mediante la libera accettazione della<br />

grazia e dei doni che l‘accompagnano. (…) Quantunque nessuno possa essere giusto se<br />

non per la comunicazione dei meriti della passione di nostro Signore Gesù Cristo,<br />

tuttavia la giustificazione del peccatore si produce quando, per merito della stessa<br />

santissima passione, l‘amore di Dio viene diffuso mediante lo Spirito Santo nei cuori di<br />

coloro che sono giustificati e inerisce loro. Ne consegue che nella stessa giustificazione<br />

l‘uomo, insieme alla remissione dei peccati, riceve per mezzo di Gesù Cristo, nel quale<br />

è innestato, tutti questi doni infusi: fede, speranza, carità. Infatti, la fede, senza la<br />

speranza e la carità, né unisce perfettamente a Cristo, né genera membra vive del suo<br />

corpo. Per questo motivo è assolutamente vero affermare che la fede senza le opere è<br />

morta e inutile e che in Gesù Cristo non valgono né la circoncisione né<br />

l‘incirconcisione, ma la fede che opera per mezzo della carità‖ 22 . È questo il punto di<br />

arrivo dello sviluppo dogmatico sulla fede-speranza-carità. Il magistero ha definito la<br />

natura teologale della fede, della speranza e della carità, doni infusi che al pari della<br />

grazia sono inseparabilmente unite all‘anima e diventano nel cristiano il principio<br />

costitutivo e permanente della vita in Cristo.<br />

Il trattato sviluppato a partire dalle affermazioni tridentine chiamato De<br />

Virtutibus infusis consegnerà alla storia della teologia e alla catechesi la definizione di<br />

virtù teologali della fede-speranza-carità, con una presentazione complessa che cercherà<br />

di raccogliere in unità virtù naturali e virtù infuse, virtù teologali e doni dello Spirito.<br />

Ma occorre chiedersi se è ancora utile e opportuno presentare una teologia legata a<br />

categorie e ad un linguaggio lontano da quello di oggi, senza perdere la ricchezza della<br />

teologia del passato e nella fedeltà alle definizioni del magistero.<br />

La tradizione teologica presenta la fede, la speranza e la carità come virtù, cioè<br />

come principi operativi infusi nell‘uomo giustificato, che lo rendono capace di agire<br />

secondo Cristo e di tendere a Dio come fine ultimo dell‘uomo. Mediante questi doni<br />

infusi, le facoltà naturali dell‘uomo, l‘intelletto, la volontà e anche la memoria, sono in<br />

17<br />

20 VITALI, Esistenza cristiana, 144.<br />

21 M. FLICK – Z. ALZEGHY, Il vangelo della grazia. Un trattato dogmatico, Lef, Firenze 1967, 567.<br />

22 DS, 1529-1531.


grado di produrre atti proporzionati al fine soprannaturale. L‘insufficienza delle facoltà<br />

umane veniva risolta con il supplemento di capacità derivato dalle virtù teologali, in<br />

forza delle quali mediante le quali l‘uomo era in grado di attingere il fine ultimo della<br />

comunione con Dio.<br />

Nella sintesi della Scolastica fede, speranza, carità sono principi ordinati non al<br />

raggiungimento di un bene particolare, ma alla comunione stessa dell‘uomo con Dio;<br />

sono nell‘uomo il principio di partecipazione alla natura divina, per mezzo loro l‘uomo<br />

è costitutivamente ordinato a Dio e reso capace di vivere in modo soprannaturale. Ma<br />

secondo la distinzione tra essere e agire, che è un dato basilare dell‘antropologia<br />

scolastica, la rigenerazione non tocca le potenze dell‘uomo, ma unicamente l‘essenza<br />

della sua anima. Così l‘uomo rigenerato sul piano dell‘essere dalla grazia santificante,<br />

che inerisce all‘anima, necessità di un principio corrispondente sul piano dell‘agire, che<br />

sono le virtù teologali e morali infuse, che innalzi gli atti dell‘uomo al piano<br />

soprannaturale.<br />

Secondo un visione dinamica e personalistica dell‘uomo, in forza di una<br />

profonda unità della persona in cui l‘essere si dispiega nell‘agire, è necessario, in<br />

riferimento ad una aggiornata comprensione della fede, speranza, carità come virtù<br />

teologali, considerare come la rigenerazione dell‘uomo realizza anche la trasformazione<br />

delle sue facoltà e quindi la sua capacità di agire secondo in dinamismo della vita in<br />

Cristo. Come tali ineriscono fondamentalmente all'essere: sono modi dell‘essere, che ne<br />

assumono ed esprimono le esigenze dinamiche. Sono dunque la stessa persona che si<br />

manifesta nell‘agire.<br />

Il modello filosofico di partecipazione delle virtù infuse alle facoltà umane, può<br />

essere integrato e «aggiornato», secondo un più feconda fondazione biblica, dal modello<br />

biblico-teologico della vita soprannaturale come conformazione a Cristo, in cui tutto<br />

l‘uomo che vive in Cristo è elevato alla capacità di vivere la condizione di figlio di Dio.<br />

Perciò nelle virtù teologali si realizza la conformazione della nostra libertà alla libertà di<br />

fede, speranza carità di Cristo in noi, operata dall'azione sacramentale dello Spirito.<br />

Sicché la libertà è abilitata al dover-essere secondo Dio in Cristo e quest'abilitazione<br />

definisce come virtù i tre modi di essere fondamentali della vita cristiana.<br />

Le virtù teologali sono i modi specifici e tematici della vita teologale. Fede,<br />

speranza e carità descrivono la vita in Cristo come doni di Dio che costituiscono il<br />

battezzato nella sua condizione filiale e nella partecipazione alla natura divina. Sono<br />

vera vita in Cristo e di Cristo nel cristiano; fede, speranza e carità sono dimensioni<br />

costitutive e ineliminabili della vita in Cristo. Dalla sua umanità glorificata, principio e<br />

sorgente della vita teologale, il cristiano, innestato nella vite che è Cristo, quindi<br />

partecipe della vita di Cristo mediante il dono dello Spirito, riceve la fede, speranza,<br />

carità di Cristo, secondo quelle strutture antropologiche che egli nella sua incarnazioneredenzione<br />

a portato a compimento e ha rese partecipe della novità della grazia. ―Poiché<br />

l‘amore teologale in forma completa è già stato infuso dallo Spirito Santo in Gesù<br />

Cristo, le virtù teologali si limitano a rendere i singoli fedeli partecipi della potenzialità<br />

teologale propria di Cristo Gesù. Per tali virtù teologali Gesù Cristo vive in noi con il<br />

suo amore‖ 23 .<br />

Così il cristiano si trova nella capacità di vivere la vita in Cristo, secondo la<br />

capacità di Cristo. Fede, speranza, carità sono quei doni di Cristo che, infusi per mezzo<br />

dello Spirito, operano nell‘uomo, ma non senza l‘uomo, come gli atteggiamenti<br />

fondamentali della vita in Cristo, per una piena conformazione a lui e una reale e<br />

18<br />

23 T. GOFFI, Etica cristiana trinitaria, EDB, Bologna 1995, 62


dinamica partecipazione alla vita trinitaria, verso il pieno e definitivo compimento<br />

escatologico della vita in Cristo.<br />

―L‘unica vita dell‘uomo, innestata in Cristo con il battesimo, è al tempo stesso<br />

vita pienamente umana e pienamente teologale.(…) Il dono infuso di fede-speranzacarità<br />

di Cristo costituisce l‘uomo nella sua capacità di atti pienamente e<br />

responsabilmente umani nell‘ordine soprannaturale, perché eleva le sue infrastrutture<br />

antropologiche, i suoi atteggiamenti fondamentali o come li si voglia chiamare,<br />

comunque tutto il suo essere-agire all‘ordine della vita in Cristo‖ 24 .<br />

Credendo, sperando, amando Cristo, il cristiano per il sacramento della Chiesa, è<br />

reso partecipe nella sua umanità redenta della fede, speranza, carità quali atteggiamenti<br />

fondamentali - virtù infuse secondo la definizione tradizionale - che sono in Cristo e<br />

secondo Cristo, perché ciò che è di Cristo è diventato dono per l‘uomo, in una relazione<br />

vitale e vivificante, in cui si raccordano la dimensione oggettiva e soggettiva delle virtù<br />

teologali.<br />

19<br />

2.3. La dimensione ecclesiale e sacramentale delle virtù teologali<br />

Il cristiano riceve il dono della vita in Cristo mediante il battesimo sorgente della<br />

fede, speranza, carità in Cristo e di Cristo, mediante la partecipazione al suo mistero<br />

pasquale. L‘uomo riceve questi doni nel battesimo in un evento ecclesiale e nella<br />

partecipazione alla vita teologale del corpo di Cristo che è la Chiesa.<br />

La Chiesa è sacramento in se stessa, nasce dalla pasqua come sacramento del<br />

Corpo di Cristo crocifisso. ―Dal costato di Cristo dormiente sulla croce è scaturito il<br />

mirabile sacramento di tutta la Chiesa‖ 25 . Come dal corpo aperto del primo Adamo è<br />

nata Eva, la madre di tutti i viventi, così dal corpo trafitto di Cristo, nuovo Adamo,<br />

nasce un corpo a lui congiunto, la Chiesa, che nel simbolo sponsale è madre di tutti i<br />

viventi in Cristo e nel simbolo del corpo è prolungamento nella storia del suo corpo<br />

glorificato. Questo avviene per mezzo dello Spirito Santo, compimento pentecostale<br />

della pasqua di resurrezione. Sacramento di Cristo, la Chiesa è il primo sacramento per<br />

mezzo del quale il dono escatologico di Cristo risorto diventa presente e storicamente<br />

visibile, per la potenza dello Spirito, dono pasquale del Risorto per una nuova umanità<br />

di «viventi in lui».<br />

All‘economia sacramentale dell‘incarnazione succede, secondo una continuità<br />

analogica, la Chiesa, corpo di Cristo animato dallo Spirito: essa è per noi il sacramento<br />

di Cristo, come Cristo è nella sua umanità il sacramento di Dio Padre. ―Per una analogia<br />

che non è senza valore, quindi, è paragonata al mistero del Verbo incarnato. Infatti,<br />

come la natura serve al Verbo divino da vivo organo di salvezza, a lui indissolubilmente<br />

unito, così, in modo non dissimile l‘organismo sociale della Chiesa serve allo Spirito di<br />

Cristo che la vivifica per la crescita del corpo (cfr. Ef 4, 16)‖ 26 . La corporeità del Verbo<br />

incarnato e glorificato è continuata dalla Chiesa, corpo di Cristo, e dai gesti visibili che<br />

questa compie. La Chiesa non è solo un mezzo di salvezza: è la salvezza stessa del<br />

Cristo, cioè la forma corporale di questa salvezza, che si manifesta nel mondo. Essa è<br />

«il corpo del Signore» . Per il suo essere «corpo di Cristo», la Chiesa manifesta la sua<br />

sacramentalità salvifica, chiamando e convocando ogni uomo a divenire con lei e in lei,<br />

corpo redento, umanità salvata e vivificata per la potenza dello Spirito.<br />

24 VITALI, Esistenza cristiana, 286.<br />

25 SC, 5.<br />

26 LG, 8.


L‘immagine della Chiesa «corpo di Cristo», unita a quella di «sposa di Cristo»<br />

permettono di considerare la Chiesa come soggetto di fede, speranza, carità. ―Cristo,<br />

unico mediatore, ha costituito sulla terra la sua Chiesa santa, comunità di fede, di<br />

speranza e di carità, come un organismo visibile; la sostenta incessantemente, e per essa<br />

diffonde su tutti la verità e la grazia‖ 27 . La sacramentalità della chiesa, ―sacramento<br />

visibile di cui il Cristo invisibile si serve per distribuire i suoi doni invisibili a uomini<br />

visibili‖ 28 , si manifesta in parole e gesti, cioè nei modi in cui si esprime ogni forma<br />

simbolica, in parole che annunciano e gesti che donano. ―Pertanto, come il Cristo fu<br />

inviato dal Padre, così anche egli ha inviato gli Apostoli, ripieni dello Spirito Santo‖ 29 .<br />

Come cioè la Chiesa è il «sacramento di Cristo» e Cristo è il «sacramento de<br />

Padre», cosi gli eventi sacramentali della Chiesa sono l‘effettiva attuazione storica del<br />

suo essere, il luogo e la dimora dell‘amore trinitario di Dio. ―Essi sono luogo di<br />

incontro personale col Vivente, che – raggiungendo il cuore dell‘uomo con la sua<br />

grazia- si offre al credente nel volto visibile del gesto sacramentale: Tu ti sei mostrato a<br />

me faccia a faccia, o Cristo: io ti trovo nei tuoi sacramenti (S.Leone Magno)‖ 30 . Il volto<br />

di Cristo risplende sul volto della Chiesa e le mani della Chiesa sono le mani del corpo<br />

di Cristo. I sacramenti sono atti di Cristo e nello stesso tempo e in modo necessario<br />

sono atti della Chiesa per la salvezza dell‘uomo. ―Non c‘è azione sacramentale che non<br />

sia azione ecclesiale. Il motivo è che i sacramenti non sono che la concretizzazione di<br />

ciò che la chiesa è essenzialmente in se stessa: appartengono, manifestano e prolungano<br />

l‘essere sacramentale proprio della chiesa‖ 31 .<br />

Le virtù teologali sono dono di grazia nella celebrazione dei sacramenti pasquali,<br />

che realizzano la conformazione ontologica e dinamica a Cristo. ―Espressioni dinamiche<br />

della vita di grazia, le virtù teologali sono attinte alle sorgenti stesse della vita teologale:<br />

i sacramenti. Questi sono segni della fede, della carità e della speranza che significano.<br />

Ciascuno in modo proprio, con una significatività specifica, è fonte e alimento della<br />

fede-carità-speranza di Cristo in noi, come il nuovo dover-essere irradiante dall‘essere<br />

di grazia‖ 32 . I sacramenti della vita in Cristo, configurando la vita del cristiano esistenza<br />

teologale di fede-speranza-carità, realizzano e chiedono il cammino etico della vita in<br />

Cristo come tensione di fede-carità, come telos di etica escatologica animata dalla<br />

speranza teologale. L‘esistenza teologale, iniziata e dinamizzata proprio dalla vita in<br />

Cristo e nel vivere in Cristo, si traduce così in una tensione operativa e virtuosa al<br />

compimento delle promesse di Dio, perché ogni sacramento ―è efficacemente<br />

significativo insieme sul piano ontologico-costitutivo e operativo-dinamico‖ 33 . Si tratta<br />

di una operatività la cui traduzione primaria avviene non secondo la prescrizione della<br />

legge, ma secondo la forza abilitante e movente della grazia, secondo il cammino di<br />

crescita delle virtù, in cui si esprime la novità teologale della partecipazione alla vita<br />

divina.<br />

I cristiani, «viventi per Dio, in Cristo, nello Spirito», sono partecipi della vita di<br />

Dio; la loro umanità è salvata e redenta, ma nello stesso tempo vivono e sono chiamati<br />

alla pienezza della loro umanità, per la partecipazione di tutto l‘uomo alla natura divina,<br />

per il dinamismo ontologico-costitutivo e operativo-dinamico, generato ed richiesto<br />

20<br />

27 LG, 8.<br />

28 C. ROCCHETTA, I sacramenti della fede. Saggio di teologia biblica sui sacramenti quali meraviglie<br />

della salvezza nel tempo della chiesa, EDB, Bologna 1982, 190.<br />

29 SC, 6.<br />

30 B. FORTE, L’eternità nel tempo. Saggio di antropologia ed etica sacramentale, San Paolo, Cinisello<br />

B.(Milano) 1993, 195.<br />

31 ROCCHETTA, I sacramenti della fede, 192-193.<br />

32 M. COZZOLI, Etica teologale, 33.<br />

33 COZZOLI, Etica teologale, 34


21<br />

dalla santificazione sacramentale e da questa abilitato. La vita teologale si presenta<br />

come «vita di Dio» e «in Dio» dell‘uomo nuovo, dell‘uomo costituito in Cristo «nuova<br />

creatura», per la potenza dello Spirito.<br />

―Dai sacramenti, secondo il significato simbolico specifico di ciascuno, la vita<br />

cristiana s‘effonde e si rinnova come esistenza di fede-carità-speranza. Ciò implica che<br />

tutta la vita cristiana si comprenda operativamente come vissuto di fede-carità-speranza<br />

nelle singolarità delle vocazioni e nella tematicità e categorialità del vivere etico‖ 34 . I<br />

sacramenti della fede e della grazia, simboli di libertà, santificando il credente e<br />

santificando gli avvenimenti fondamentali della sua vita, mobilitano e abilitano le<br />

energie, la libertà e le facoltà del battezzato, la sua conoscenza, i suoi desideri, la sua<br />

capacità d‘amare, ad un agire teologale-sacramentale espressivo della vita in Cristo.<br />

Secondo le virtù teologali e secondo il simbolismo espresso dai singoli<br />

sacramenti, in particolare dai sacramenti dell‘iniziazione cristiana che costituiscono il<br />

cristiano nella sua divinizzazione ontologico-costitutiva, i sacramenti pasquali fondano<br />

e sostengono un dinamismo di santità morale, un vissuto virtuoso e normativo di fedesperanza-carità,<br />

―Tutta la vita morale attinge alla sacramentalità lo specifico teologale a<br />

un livello insieme metaetico: per cui l‘ethos cristiano è fondato e motivato; ed etico: per<br />

cui è altresì specificato e normato. Pertanto la teologia morale non può non essere<br />

morale sacramentale, pena la sua riduzione essenzialistica e precettistica‖ 35 .<br />

Questa impostazione e il suo dinamismo, insieme salvifico ed etico, corrisponde<br />

al rinnovamento conciliare della teologia morale che ―riaccredita i sacramenti come<br />

celebrazione vivente e vitale della fede, della carità e della speranza, ne ristabilisce il<br />

primato e la centralità in tutta la persona e su tutta l‘etica‖ 36 .<br />

2.4. La qualità di virtù teologali di fede-speranza-carità (dimensione<br />

antropologica)<br />

Riprendiamo la definizione di virtù e continuiamo ad applicarla alla triade<br />

neotestamentaria, ma illuminata da dono della vita in Cristo, che il cristiano riceve nella<br />

accoglienza e partecipazione al mistero pasquale celebrato nell‘evento sacramentale, e<br />

da una comprensione personalistica della persona che agisce.<br />

Secondo una definizione classica, la virtù è una disposizione permanente e<br />

dinamica della libertà al bene. La virtù non è un atto, ne una somma di atti. È un<br />

atteggiamento, una inclinazione e polarizzazione di tutta la libertà e come tale è un<br />

atteggiamento costitutivo della persona. La virtù è caratterizzata da stabilità e continuità<br />

nell'intenzione operativa del bene da diventare un habitus: un modo di essere della<br />

persona che si esprime fedelmente nell'azione. La virtù è dinamismo interiore, un<br />

potenziale etico che induce all'azione, che dispone agevolmente al bene.<br />

Fede, speranza e carità, come virtù teologali in un quadro etico-personalistico,<br />

sono disposizioni permanenti e dinamiche della libertà verso Dio, bene supremo<br />

dell'esistere umano, che in Cristo ci dona la comunione con lui nello Spirito.<br />

Secondo le virtù teologali la vita morale cristiana non è essenzialmente una<br />

somma di atti meritori al cospetto di un Dio remuneratore, ma la fedeltà della libertà che<br />

da testimonianza alla grazia a ciò che Dio ha fatto di me, della mia libertà, per<br />

conformazione pneumatica a Cristo. In questa abilitazione dello Spirito sta il carattere<br />

permanente, stabile delle virtù teologali. Per cui la vita cristiana non si atomizza in una<br />

34 COZZOLI, Etica teologale, 34.<br />

35 M. COZZOLI, Lineamenti di metaetica ed etica sacramentale, in C. COLAFEMMINA (a cura di), A<br />

servizio del Regno, Mezzina, Molfetta 1983, 79<br />

36 COZZOLI, Etica teologale, 35.


pluralità di atti, ma si riassume e unifica primariamente in un atteggiamento<br />

fondamentale di fede-speranza-carità.<br />

Nella stessa abilitazione dello Spirito consiste il loro carattere dinamico, come<br />

forza e possibilità di corrispondere alle esigenze di totalità e perfezione della vita<br />

secondo il vangelo. Si tratta di un potenziale di azione che informa e muove<br />

teologalmente tutte le potenzialità umane. Così che il cristiano vive un'unica vita<br />

morale, senza sdoppiamenti: è la vita morale soprannaturale che non è mai tale per<br />

svalutazione o disconoscimento del naturale ma per assunzione ed elevazione.<br />

Le virtù teologali esprimono l‘unità inscindibile dell‘evento fondativo<br />

cristologico, ma secondo modalità di relazione a Dio in Cristo, propria e specifica di<br />

ciascuna: la fede come virtù di relazione conoscitiva, la speranza come virtù di relazione<br />

che tende al suo compimento, la carità come virtù relazionale di comunione, rapportabili<br />

alla rivelazione di Cristo come ―via, verità e vita‖ (Gv 14, 5).<br />

Cristo, infatti, si offre all‘uomo come rivelazione del mistero di Dio, che chiede<br />

di essere conosciuto ed accolto, come promessa da desiderare e verso cui tendere, come<br />

amore da accogliere e vivere. ―Si può dire che la struttura esistenziale della vita<br />

cristiana include le virtù teologali come mutuamente interdipendenti e inseparabili: la<br />

loro unità vitale è incentrata intorno alla comune aspirazione per un incontro con Dio,<br />

che nella fede privilegia la dimensione di affermazione-confessione delle verità rivelate,<br />

nella speranza tende fiduciosamente al futuro promesso e nell‘amore è ricerca di una<br />

comunione di vita con Dio. Più specificatamente, l‘unità di fede, speranza, carità è<br />

centrata sull‘unità stessa dell‘evento fondativo cristologico. Questo evento, infatti si<br />

offre all‘uomo, come rivelazione del mistero di Dio per noi, come amore rivelato e<br />

comunicato nel dono supremo di Cristo, come promessa del compimento<br />

escatologico‖ 37 . In questo senso la teologia parla di un diverso oggetto formale delle<br />

virtù teologali.<br />

A queste corrispondono gli elementi strutturali e decisivi dell‘esistere umano<br />

nelle sue dimensioni relazionali, quali la conoscenza, la tensione-desiderio e la<br />

comunione, nelle quali Dio si fa in Cristo salvezza dell‘uomo e di tutto l‘uomo,<br />

abitandolo secondo le sue inclinazioni e capacità a vivere nella comunione con Dio e la<br />

vita stessa di Dio, partecipando all‘umanità di Cristo, alla sua fede, speranza e carità.<br />

Quindi correlazione di unità e distinzione delle virtù teologali, per l‘unico mistero di<br />

Cristo nell‘unità dell‘esistenza dell‘uomo e nella unicità del mistero della persona,<br />

secondo un dinamismo di circolarità nella risposta alla vita in Cristo, i cui si dispiega la<br />

verità e la tensione etica della vita cristiana. ―Se l‘esistenza cristiana è realmente<br />

attuazione esistenziale di fede, amore e speranza, ovvero, in altre parole, un rimanere in<br />

Cristo, un rimanere che credendo, sperando e amando riprende continuamente la propria<br />

decisione in favore di lui, si deve anche d‘altro lato tenere presente che essa è vera<br />

esistenza solo se unità di fede, amore speranza‖ 38 .<br />

Nelle virtù teologali la nostra libertà diventa libertà di fede, speranza, carità in<br />

Cristo e di Cristo in noi, operata dall'azione sacramentale dello Spirito. Sicché la libertà<br />

è abilitata al dover-essere secondo Dio in Cristo e quest‘abilitazione definisce come<br />

virtù i tre modi di essere fondamentali della vita cristiana. In forza di fede, speranza e<br />

carità tutto l‘orizzonte della vita cristiana, passato, presente e futuro, è abbracciato e<br />

innestato in Cristo, secondo il dinamismo del «già» e «non ancora». ―La «fede che sa»,<br />

diventa anche e sempre la fede che spera ciò che già le è dato di sperimentare, e fede<br />

che ama, fede che già vive nella carità ciò che attende. Correlativamente, la speranza è<br />

22<br />

37<br />

I. SANNA, Chiamati per nome. Antropologia teologica, San Paolo, Cinisello Balsamo(MI) 1994, 360-<br />

361.<br />

38<br />

H. SCHLIER, Riflessioni sul Nuovo Testamento, Paideia Brescia 1969, 172.


tale perché sa le ragioni della fede e legge con anticipo l‘esperienza dell‘amore<br />

cristiano; la carità, poi, altro non è – né può essere – che attuazione della fede<br />

sperante‖ 39 .<br />

Le virtù teologali realizzano l‘unica libertà per Dio, dunque hanno Dio come<br />

loro oggetto immediato: esse sono ad Deum ed esprimono nella loro unità<br />

l‘orientamento fondamentale dell‘uomo a Dio. Ma nello stesso tempo, espressione della<br />

libertà di Dio per l‘uomo, hanno Dio come loro principio perché a differenza delle virtù<br />

umane che sono acquisite per la fedeltà di un loro esercizio, le virtù teologali sono<br />

infuse per grazia da Dio: esse sono a Deo. Nella fede, speranza, carità si realizza la<br />

conformazione ontologica e dinamica del cristiano a Cristo, per cui egli crede, spera e<br />

ama con la fede, speranza e carità di Cristo, nel quale e per il quale egli vive. Questo<br />

processo di conformazione può avvenire perché tutta l‘umanità del cristiano, radicata<br />

nel dono di grazia, è animata e sostenuta, in tutte le sue facoltà, dal dono dell‘essere in<br />

Cristo.<br />

―Le virtù teologali fondano, animano e caratterizzano l‘agire morale del<br />

cristiano. Esse informano e vivificano tutte le virtù morali. Sono infuse da Dio<br />

nell‘anima dei fedeli per renderli capaci di agire quali suoi figli e meritare la vita eterna.<br />

Sono il pegno della presenza e dell‘azione dello Spirito Santo nelle facoltà dell‘essere<br />

umano. Tre sono le virtù teologali: la fede, la speranza e la carità(cfr. 1 Cor 13, 13)‖ 40 .<br />

Nelle virtù umane si esprime l‘agire simbolico umano, la ricerca di significato, il<br />

valore della moralità come domanda di salvezza. Ma ora tutto l‘humanum che vive in<br />

Cristo è vivificato dalla grazia. Questo avviene operativamente mediante le virtù morali<br />

che per via sacramentale si fondano sul dono teologale della vita in Cristo, in quel<br />

rinnovamento ontologico-morale di tutto l‘uomo, reso partecipe della vita divina. ―Le<br />

virtù sono le attitudini operative dell‘uomo nuovo, che designano la fedeltà morale<br />

dell‘essere in Cristo e abilitano al vissuto di Cristo (sequela Christi), di cui il cristiano è<br />

costituito immagine vivente. Il che avviene per via sacramentale, secondo l‘efficacia di<br />

grazia, insieme consacrante e movente, di ciascun sacramento‖ 41 .<br />

Comprendiamo, perciò, il motivo per cui la vita teologale, partecipata nei<br />

sacramenti come vita di fede-speranza-carità, intercetti elevi e dinamizzi, secondo il<br />

telos di una fede che spera e che si compie nella carità, tutto l‘agire umano,<br />

simbolizzandolo come espressione e manifestazione del dono di grazia. Poiché tutto<br />

l‘uomo, nelle sue facoltà e nelle situazioni fondamentali della vita, è teologalmente<br />

vivificato in Cristo e nello Spirito, il cristiano è chiamato a santificare, come vita<br />

teologale vivente e vissuta, il suo agire morale virtuoso come agire teologale. ―Il<br />

credente, inserito in Cristo come il tralcio nella vite, partecipa ai pensieri di Cristo, ai<br />

sentimenti di Cristo, e tutto ciò implica una struttura di persuasioni, apprezzamenti,<br />

attrazioni affettive, tendenze operative, che egli giudica validi perché testimoniati dallo<br />

Spirito come esigenza e modalità della sequela di Cristo‖ 42 .<br />

Sulla base di questa visione integrale e integrata delle virtù teologali, guardiamo<br />

ora alla vita in Cristo come esistenza di fede, speranza e carità, dal punto di vista di ciò<br />

che realizzano nell‘uomo giustificato e secondo ciò che chiedono alla sua vita morale<br />

perché sia vissuta nella comunione con Dio, informando e animando tutto il suo vissuto.<br />

23<br />

39<br />

VITALI, Esistenza cristiana, 332.<br />

40<br />

CCC, 1813<br />

41<br />

M. COZZOLI, Per una Teologia morale delle Virtù e della Vita buona, Lateran University Press, Roma<br />

2002, 108.<br />

42<br />

Z. ALZEGHY, Il senso della fede e il progresso dogmatico, in R. LATOURELLE (ed.), Vaticano II.<br />

Bilancio e prospettive, I, Cittadella, Assisi 1987, 144.


Per quanto riguarda l‘ordine delle virtù teologali, S. Tommaso propone un<br />

doppio ordine - di origine e di perfezione - delle virtù teologali. L‘ordine di origine o di<br />

generazione porta la sequenza tradizionale fede-speranza-carità che prende in<br />

considerazione le virtù teologali a partire dall‘uomo, in relazione alle sue facoltà, in<br />

ragione del dinamismo di conoscenza-desiderio-conseguimento; quello di perfezione,<br />

invece, stabilisce la precedenza della carità sulla fede e speranza, in quanto forma e<br />

radice di tutte le virtù. Di fatto la Summa procede secondo l‘ordine di generazione.<br />

Il Nuovo Testamento non fornisce un‘unica scansione del ternario, ma a<br />

differenza della tradizionale sequenza, solo 1Cor 13, 13 attesta la successione di fedesperanza-carità.<br />

Certamente però in tutte le sequenza la fede appare come la radice e il<br />

fondamento della vita teologale.<br />

L‘ordine che seguiamo è quello che meglio si coniuga con la prospettiva etica,<br />

secondo il dinamismo di sviluppo delle virtù teologali. Quindi a partire dal dinamismo<br />

della grazia nell‘uomo giustificato e secondo l‘ordine di generazione, la fede e la<br />

speranza vanno sempre insieme e precedono la carità, che costituisce il momento di<br />

attuazione della fede sperante.<br />

Lo sviluppo che guarda al dinamismo delle singole virtù non perderà di vista<br />

l‘unitarietà e la circolarità delle virtù teologali e ne raccoglierà tutte le esigenze etiche<br />

allo scopo di animare tutta l‘esistenza cristiana. Tutto questo sempre a partire dal dono<br />

della vita in Cristo nella grazia dello Spirito Santo e secondo le strutture cristocentriche,<br />

ecclesiologico-sacramentali e antropologiche con cui abbiamo definito le virtù teologali<br />

della fede-speranza-carità.<br />

24


25<br />

CAPITOLO III<br />

ETICA TEOLOGALE DELLA FEDE<br />

La fede del cristiano è ―fede nel Signore Gesù‖(Ef 1, 15). L‘opera prima<br />

e più importante che il discepolo deve compiere è ―credere in colui che il Padre ha<br />

mandato‖(Gv 6, 29).<br />

Nel cristiano la fede è dono teologale, che illumina la mente nel riconoscere e<br />

confessare che Gesù è il Signore. Ma la fede è dono fatto alla libertà dell‘uomo,<br />

concerne l‘uomo come soggetto e destinatario della fede, poiché il credente accoglie<br />

nella sua libertà il dono teologale della fede attraverso e mediante le sue facoltà,<br />

diventando in lui una nuova conoscenza e una relazione fondamentale con Dio in Cristo<br />

per mezzo dello Spirito.<br />

Per ricevere questo dono e iniziare il dialogo della fede, la libertà dell‘uomo è<br />

coinvolta fin dall‘inizio nella disponibilità a credere, nel cercare la verità e nel<br />

rimuovere gli ostacoli che impediscono l‘ascolto e l‘obbedienza della fede. Questo<br />

impegno risponde a ciò che possiamo indicare come la libertà per la fede. La<br />

disponibilità a crescere nella vita teologale, anche attraverso l‘impegno della<br />

conversione, pongono la libertà del credente in un continuo atteggiamento di verifica di<br />

quelle condizioni che hanno permesso l‘accoglienza del dono della fede stessa e ne<br />

permettono ora la sua crescita, senza dimenticare però che anche questo impegno della<br />

libertà non può essere svolto senza il dono e la luce della grazia.<br />

Così la prospettiva con cui consideriamo le virtù teologali si colloca all‘interno<br />

delle coordinate propriamente etiche della libertà e della fedeltà. E questo secondo un<br />

procedimento che possiamo definire ―a spirale‖, perché la libertà per la virtù e il dono<br />

della virtù, richiede di percorrere, dentro uno sviluppo esigente e mai concluso, lo stesso<br />

itinerario da cui ha preso inizio, fino al suo compimento.<br />

1. La libertà per la fede<br />

Come evento e dono teologale, la fede interpella e coinvolge tutta la persona: la<br />

fede è per l‘uomo. Ma ogni uomo è chiamato a riconoscere, mediante la sua libertà, di<br />

essere fatto per credere, di essere alla ricerca di verità e di relazioni significative per la<br />

sua esistenza: l‘uomo è per la fede.<br />

Secondo la terminologia classica, fides quaerens intellectum e intellectus<br />

quaerens fidem: la fede cerca e si dà le ragioni umane del credere (intelligo ut credam) e<br />

la ragiona trova e realizza la sua sete di verità nella fede (credo ut intelligam). Ma la<br />

ragione che cerca la verità, per riconoscere ed accogliere il dono della fede, può farlo<br />

mediante una corretta comprensione della verità e un‘autentica libertà, quindi secondo<br />

la verità sia della fede, ma anche della libertà che si apre alla relazione. Così, parlando<br />

della libertà per la fede come luogo in cui è richiesto un necessario impegno etico<br />

dell‘uomo verso la fede, possiamo parlare del passaggio dal cogito al credo, della<br />

questione del senso e della conversione. Queste indicano rispettivamente l‘apertura e la<br />

disponibilità al vero, al bello e al buono verso cui ogni uomo è chiamato.<br />

1.1. Dal cogito al credo: conoscere nella fiducia e nella comunione<br />

Nell‘impegno di conoscere, la persona si protende mediante la sua coscienza oltre<br />

l‘esistere nella sua attualità, sporgendosi verso la significazione e progettualità


26<br />

dell‘esistere. In questo si manifesta la dimensione trascendente dell‘esistenza, ma anche il<br />

pieno significato di cosa sia la verità e di come sia possibile la sua conoscenza. Si tratta di<br />

affrontare il tema della verità del credere e della sua conoscenza.<br />

La ragione nella sua sete di verità è chiamata a passare da una conoscenza dettata<br />

dall‘evidenza, ad una conoscenza in cui è necessaria l‘impegno e l‘esperienza della<br />

comunione. Definiamo la prima cogito, quel conoscere in cui il vedere e il toccare vengono<br />

considerati come la totalità delle cose secondo la loro conoscenza. Cogito è la logica<br />

dell‘evidenza, sostenuta dall‘affermazione che è possibile una sola verità, quella del<br />

constatabile e dimostrabile scientificamente. La conoscenza del cogito è caratterizzata<br />

dalla netta separazione fra conoscente e conosciuto. Per essa il conoscente è un osservatore<br />

distaccato di fatti che si accadono e si svolgono; la cui verità non lo impegna<br />

(responsabilizza). È una verità neutra, puramente descrittiva, indicativa dei fenomeni e<br />

delle leggi che li determinano. L‘esperienza di credere (credo) è invece segnata<br />

dall‘incontro personale, dove il conosciuto si rivela e il conoscente si apre all‘incontro<br />

personale; la sua verità si comprende come dono, accoglienza e comunione.<br />

Il passaggio dal cogito al credo è un atto di libertà, credibile e possibile, ma libero e<br />

perciò impegnativo della persona che conosce. In questo l‘atto di fede è il compimento<br />

della libertà e della capacità di conoscere che si eleva alle possibilità conoscitive<br />

dell‘inverificabile, non dell‘incredibile. Nel credo il conoscere non è scoprimento del<br />

conoscente, ma l‘accoglienza e la comunione del conosciuto. E‘ un conoscere che risponde<br />

ad una logica di libertà, di ciò che assume la qualità di vero non per chiunque, ma per chi<br />

entra in una relazione comunicativa.<br />

Nella logica relazionale del credo, la verità si fa conoscere secondo un rapporto<br />

partecipativo in cui il conoscente si consegna, mediante un atteggiamento di fiducia e di affidamento,<br />

che definisce l‘atteggiamento proprio della fede. Tale rapporto partecipativo<br />

interpersonale è contenuto nella formula : «Io credo in te», che comprende, ma anche<br />

supera e completa l‘affermare: «Io conosco te». La fede si presenta, secondo questi<br />

termini, come un atto di d‘incontro e di fiducia, che coinvolge l‘intelletto, la volontà e i<br />

sentimenti nella loro unitarietà originaria, perché dicono la totalità e l‘unità della persona<br />

che conosce e di quella conosciuta. La formula: Io credo in te, si riferisce alla persona nella<br />

sua interezza; crea lo spazio dell‘incontro io/tu in quanto atto autenticamente personale.<br />

Il credere comprende sia l‘atto di affidarsi nella fiducia e nell‘amore, quindi la fede<br />

fiduciale (fides qua creditur: «credo in/a»), sia l‘atto conoscitivo dell‘altro come persona<br />

(fides quae creditur: «credo che»). Nell‘affidamento fiducioso del credo si sviluppa una<br />

conoscenza che rende partecipi della vita dell‘altro, quel conoscere secondo verità che è<br />

proprio dell‘amore. Credere diventa così dare il proprio cuore, a colui che si dimostra<br />

credibile: ―Principale e in qualche modo con valore di fine, in ogni atto di fede, è la<br />

persona alla cui parola si dà la propria adesione‖ 43 . La fede non termina quindi negli<br />

enunciati, ma nella persona. Questo chiede di non accontentarsi di credere nella formula<br />

«una persona», ma di raggiungere la persona stessa e, in un certo senso, toccarla,<br />

intendendo con ciò non una conoscenza per concetti ma quella diretta e immediata<br />

possibile per mezzo dell‘incontro e della comunicazione di vita. Parlando del Cristo<br />

Risorto, S. Agostino afferma: ―Se uno non può toccarlo quando è in terra, chi fra i mortali<br />

potrà toccarlo assiso in cielo? Ebbene quel toccare (cfr. Gv 20, 17) rappresenta la fede.<br />

Tocca Cristo chi crede in Cristo‖ 44 .<br />

Nel dialogo fra grazia e libertà, la disponibilità di conoscere secondo la verità del<br />

credo, chiede alla persona la grazia di aprirsi alla relazione come esercizio di libertà, per<br />

poter vivere autentiche relazioni interpersonali. La libertà per la fede è quindi disponibilità<br />

43 S. TOMMASO, S. Th., II-II, q.11, a.1.<br />

44 S. AGOSTINO, Sermo 243, 1-2: PL 38, 1144.


27<br />

al credo, a conoscere nella fiducia fino alla comunione di vita. Il fallimento della fede si<br />

manifesta spesso nella fatica della persona ad aprirsi e a sostenere una relazione<br />

coinvolgente, che richiede fiducia e disponibilità, conoscenza e amore.<br />

1.2. La questione del senso come «luogo» della fede<br />

Se nella precedente riflessione si evidenziava la debolezza del conoscere nella<br />

disponibilità della libertà verso la fede, parlando della questione del senso risulta evidente<br />

che la disponibilità antropologica al credo deve essere sostenuta dalla profondità delle<br />

domande dell‘uomo, in particolare dalla sua domanda di pienezza di vita.<br />

Ogni persona, anche se in modo molto diverso, prende posizione verso il senso<br />

della propria esistenza, perché la coscienza è per se stessa ricerca di senso. La questione<br />

del senso, che sviluppa la logica del credo perché non soggiace alla evidenza del cogito, è<br />

il luogo dell‘esperienza umana in cui la coscienza intravede e trova un credibile e decisivo<br />

motivo di disponibilità alla fede. Secondo questa prospettiva il credo si presenta come<br />

risposta alla domanda di bellezza della vita, di significato dell‘essere e dell‘esistere. Così,<br />

al contrario, la fatica di trovare un senso si presenta come esperienza di vita vissuta nella<br />

noia, in cui ogni cosa perde il suo splendore.<br />

Ma anche la domanda di senso non può essere data per scontata, in particolare<br />

quando l‘uomo si ritiene debitore esclusivo di se stesso, fino a darsi un senso erigendosi<br />

come fine oppure rinunciando a cercarlo perché troppo sazio per pensarci. ―La società è<br />

come una nave in crociera; l‘equipaggio non obbedisce più agli ordini del comandante e il<br />

megafono di bordo non trasmette più le indicazioni che fanno andare nella direzione<br />

giusta; ai passeggeri non interessa più dove siamo diretti; interessa solo ascoltare dal<br />

megafono di bordo che cosa si mangerà domani‖ 45 .<br />

In realtà, però, la domanda sul senso e significato, proiettandosi verso un «oltre» e<br />

voltandosi verso un «prima», non può non riconoscere che il senso non può essere creato<br />

dall‘uomo, ma può solo essere accolto e fatta proprio, e questo mediante un incontro<br />

significativo. ―Il senso vero, ossia il terreno su cui la nostra esistenza possa realmente<br />

reggersi e vivere, non può venir fabbricato empiricamente, ma solo venir ricevuto dal di<br />

fuori‖ 46 . Il senso è posto in forma di domanda. Ma l‘atmosfera in cui cominciano ad<br />

ossigenarsi le nostre domande è la presenza dell‘altro e la sua prossimità. La domanda sul<br />

senso chiede perciò interlocutori e richiede al soggetto di uscire dal domandare solo a se<br />

stesso, per incontrare la risposta a quella domanda che in definitiva è la persona stessa,<br />

attraverso l‘incontro interpersonale.<br />

La questione del senso è provocata e delimitata dalle due domande che riguardano<br />

il prima e il dopo della vita di ogni uomo, domande significativi perchè autenticamente<br />

umane. Se prima c‘è un Altro che ci ha pensati e voluti, allora noi veniamo dall‘Amore e<br />

non dal nulla. Se invece alla domanda sul prima si risponde che c‘è solo il nulla, resta da<br />

spiegare il mistero della vita di ogni uomo, il quale non avrebbe nulla da sperare, nulla da<br />

fare, se non lasciarsi andare alla deriva del nulla.<br />

Ma non è possibile vivere il nulla e vivere di nulla. Di fatto ognuno sceglie un<br />

comportamento perché almeno implicitamente si pone un fine, dove l‘attesa, il desiderio e<br />

la fiducia in qualcosa che sembra sul momento importante è in qualche modo presente.<br />

Perché se tutto fosse uguale a zero, se nulla facesse la differenza fra l‘onestà e la<br />

45 S. KIERKEGAARD, Aut-aut<br />

46 J. RATZINGER, Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico, Queriniana, Brescia<br />

1969, 41.


28<br />

delinquenza, tra la tenerezza e la crudeltà, allora tutto sarebbe uguale al contrario di tutto.<br />

In realtà la volontà del nulla deriva da un amore deluso, di un amore cercato ma deluso<br />

dall‘insufficienza della sua esperienza. Anche il drammatico problema del dopo domanda<br />

di un Altro che ci ha pensati e verso il quale andiamo. Il suo contrario aprirebbe le porte<br />

dell‘assurdo, della vita che si corre verso l‘abisso del nulla.<br />

L‘uomo, essere finito e fatto per la relazione, scopre se stesso e trova l‘infinito che<br />

è posto in lui come senso mediante l‘apertura all‘altro e l‘incontro con l‘altro, che<br />

dischiude il senso e il significato dell‘essere e del vivere. Nella domanda di senso è<br />

racchiusa la domanda di bellezza della vita e per la vita, del bello di un incontro, della<br />

bellezza dell‘amore che vince le tenebre e la tragicità del nulla.<br />

Sporgendosi sull‘abisso del non senso, la domanda di senso si rivela come domanda<br />

di salvezza, di una salvezza possibile a condizione di essere salvati, dunque possibile come<br />

dono. E le possibilità del senso come dono sono le possibilità della fede come accoglienza.<br />

1.3. La conversione: dagli idoli al Dio vivente<br />

Per accogliere l'annuncio di Gesù fatto dalla Chiesa e «credere» la persona deve<br />

anzitutto «ascoltarlo»; la parola deve giungere alle orecchie del cuore. Ma sul cammino<br />

che conduce alla fede si possono presentare altri ostacoli legati alla bontà della vita, alla<br />

ricerca non solo di ciò che è vero e bello, ma anche di ciò che è bene.<br />

Il messaggio cristiano, proclamato dalla Chiesa, parla di realtà spirituali che, per<br />

essere comprese e apprezzate richiedono un'apertura ai valori dello spirito. Chi perciò fa<br />

del denaro e dell'acquisto della ricchezza lo scopo supremo della sua vita; chi fa del<br />

benessere materiale e dei beni che lo rendono sempre più grande la sua aspirazione<br />

suprema; chi va alla ricerca di piaceri sempre più raffinati e ha interessi esclusivamente<br />

materiali e mondani, incontra notevoli ostacoli ad ascoltare e ad accogliere il messaggio<br />

cristiano, il quale non promette né ricchezza né benessere né felicità «mondana». C‘è in<br />

molti una sordità e una insensibilità spirituale che rendono difficile non soltanto l‘ascolto<br />

del messaggio cristiano, ma anche il desiderio di ascoltarlo. Così la fede appare inutile, se<br />

non addirittura contraria i legittimi desideri della vita.<br />

L'ostacolo più radicale all'ascolto del messaggio cristiano è però il peccato, inteso<br />

non come fatto passeggero, ma come condizione stabile di vita, in cui ci si sente a proprio<br />

agio e da cui non si cerca o, meglio, non si desidera uscire. Il credere richiede, secondo la<br />

sua struttura veritativa e il suo amore per la bellezza, la ricerca del bene, che si traduce<br />

nella bontà della vita.<br />

L‘ostacolo più difficile è costituito dal peccato di orgoglio, per cui l'uomo fa di se<br />

stesso il centro di tutto, si ritiene un essere superiore che non ha bisogno di ricevere e<br />

d'imparare nulla da nessuno e fa della propria intelligenza la norma e la misura della verità.<br />

Ostacolo non minore all'ascolto del messaggio cristiano è anche il peccato della<br />

sensualità, quando essa non sia subita per debolezza o commessa sotto l'impulso di una<br />

passione a cui si è incapaci di resistere, ma sia cercata, voluta e accettata fino a divenire il<br />

proprio modo di essere e di vivere, senza provare nessun senso di colpa, anzi sentendosene<br />

fieri. Infatti chi si trova in questa condizione prova spesso repulsione e rigetto per il<br />

messaggio cristiano. Il suo ascolto diventa allora difficile. ―L‘incredulo dice: «Avrei<br />

abbandonato i piaceri, se avessi la fede»; ma io gli rispondo:«Avresti la fede se avessi<br />

abbandonato i piaceri»‖ 47 .<br />

47 B. PASCAL, Pensieri, 240.


29<br />

La paura di non essere amati, come quella di amare, di entrare in una relazione<br />

coinvolgente e impegnativa, di qualcuno che entra nella propria vita, può ugualmente<br />

rappresentare un ostacolo ad accogliere il dono della fede. Anche questa carenza e fragilità<br />

affettiva rappresenta un ostacolo, non sempre riconosciuto, per aprirsi all‘amore di Dio e al<br />

dono della fede, soprattutto perché può generare l‘idea di un Dio padrone o indifferente<br />

alle vicende umane.<br />

Così se la fede è vedere e conoscere chi è Dio e chi siamo noi, occorre purificare il<br />

cuore per rendersi docili a vedere col cuore, per accogliere la fede come dono che supera e<br />

compie ogni attesa dell‘uomo.<br />

2. Il dono della fede teologale (valore oggettivo della virtù)<br />

Giustificati dalla fede e dai sacramenti della fede, nei battezzati si compie il<br />

dialogo e il dono della fede teologale.<br />

2.1. Il dialogo teologale della fede<br />

Si tratta di un dialogo fra Dio e l‘uomo, nell‘unico mediatore che è l‘uomo-Dio<br />

Cristo Gesù, di un dialogo salvifico che chiede della filiazione, quindi della fede teologale,<br />

come comunione di vita e santificazione dell‘uomo e di una filiazione che alimenta e<br />

sostiene, nel suo valore ontologico, il dialogo stesso della fede come partecipazione alla<br />

vita trinitaria. Parliamo perciò della dimensione relazionale della fede, insieme fiduciale e<br />

assertiva, della accoglienza della Rivelazione, del giusto che vive mediante la fede.<br />

2.1.1. La fede secondo la rivelazione biblica<br />

2.1.1.1. La fede nell’Antico Testamento<br />

Nell‘Antico Testamento (AT) la fede è indicata da due sostantivi derivati dalle<br />

radici verbali ‘aman e batah: ‘aman (da cui viene ‗amen: aggettivo che significa «sicuro»,<br />

«fedele», poi preso in senso avverbiale, «certamente», «è così», «sì», «così sia») ha due<br />

significati: a) «essere sostenuto», quindi «essere solido» e, infine, «essere certo», «essere<br />

fedele»: perciò con questa parola si esprime la «solidità» che il fedele sente nella fede per<br />

il fatto che si appoggia a Dio e, insieme, la «certezza e la sicurezza», legate alla parola di<br />

JHWH, che è «fedele» (‘eman) (Is 49,7); b) «aver fiducia» che Dio realizzerà quello che ha<br />

promesso: perciò «credere» significa l‘adesione alla promessa di Dio e la certezza che egli<br />

compirà quanto ha promesso. A sua volta, il verbo batah esprime la «sicurezza» e la<br />

«fiducia»: perciò «credere in JHWH» significa «essere sicuro di JHWH», «aver fiducia in<br />

Lui», «riposare su di Lui» e, quindi, essere «tranquillo» circa il proprio futuro, che è nelle<br />

mani di Colui del quale ci si può fidare.<br />

Dalla radice verbale ‘aman derivano i sostantivi ‘emunah ed ‘èméth. Il primo<br />

significa la fede fatta di fedeltà, a cui corrispondono il credito e la fiducia: questa qualità è<br />

attribuita agli uomini (―il giusto vivrà per la sua fede-fedeltà‖ Ab 2,4) oppure a Dio<br />

(―Signore, la tua grazia è nel cielo, la tua fedeltà fino alle nubi‖ Sal 36,6). Il secondo<br />

significa solidità, sicurezza, fedeltà, fede e verità (cioè cosa degna di fede, che merita<br />

l‘adesione umana) ed è spesso unito a hesed (misericordia, grazia): ―Dio mandi la sua<br />

fedeltà e la sua grazia‖(Sal 57,4): ―Tutti i sentieri del Signore sono verità e grazia per chi<br />

osserva il suo patto e i suoi precetti‖(Sal 24[23],10). Qui il termine «verità» non ha il senso<br />

intellettualista greco di «conformità col reale», ma il senso ebraico di essere stabile, di


30<br />

essere una realtà su cui ci si può appoggiare: Dio è «vero», perché è «fedele», perché ci si<br />

può fidare di Lui, in quanto è solido e stabile. Le sue parole sono «verità» (2 Sam 7,28):<br />

infatti le promesse divine assicurano la perpetuità della casa di Davide.<br />

Che cos‘è, dunque, la «fede» per l‘AT? L‘uomo dell‘AT ha profondo il senso della<br />

fragilità e dell‘insicurezza della vita umana, soggetta alla sofferenza e alla morte e, perciò,<br />

sente vivo il bisogno di avere un appoggio solido, che possa dargli stabilità e sicurezza.<br />

L‘unico appoggio solido è JHWH, perché Egli è «una roccia», una «rupe» e uno «scudo»:<br />

―Ti amo, Signore, mia forza; Signore, mia roccia, mia fortezza, mio liberatore; mio Dio,<br />

mia rupe in cui trovo riparo; mio scudo e baluardo, mia potente salvezza‖(Sal 18,2-3).<br />

Perciò, per l‘uomo dell‘AT, la fede comporta anzitutto il sentimento della propria<br />

debolezza che lo induce a rivolgersi a JHWH per trovare in Lui la solidità e la sicurezza di<br />

cui ha bisogno; comporta poi un sentimento di fiducia, perché JHWH è «fedele» e «vero»<br />

e, dunque, ci si può fidare di Lui e della sua parola. Quindi, per l‘uomo dell‘AT la fede è<br />

l‘affidarsi fiducioso al Dio «fedele» e alla sua Parola di «verità». Ma la Parola a cui il<br />

credente si affida è anzitutto la rivelazione di Dio: la fede è allora adesione della mente e<br />

del cuore a quanto Dio rivela. La Parola di Dio è anche promessa di un futuro di salvezza:<br />

allora la fede è certezza fiduciosa che Dio compirà quanto ha promesso. Infine la Parola di<br />

Dio è comandamento e legge: allora la fede è ubbidienza e fedeltà a quanto egli ordina.<br />

Nell‘AT si parla di fede per la prima volta nella vicenda di Abramo. A lui che si<br />

lamenta con Dio che non gli ha dato una discendenza, Dio promette di dare una<br />

discendenza numerosa come le stelle del cielo: ―Egli credette al Signore, che glielo<br />

accreditò come giustizia‖(Gen 15,6). In che cosa consiste allora la fede di Abramo, per cui<br />

egli è divenuto il prototipo del credente, il «padre» di tutti i credenti (Rm 4,12.16)?<br />

Consiste nel fatto che Abramo, contro ogni verosimiglianza, perché egli e Sara, sua<br />

moglie, sono avanzati negli anni, si fida della promessa che Dio gli ha fatto e su questa<br />

promessa impegna tutta la sua esistenza, nella certezza che Dio manterrà la sua parola,<br />

nonostante che gli chieda in seguito dì sacrificargli lo stesso figlio della promessa, Isacco.<br />

Come Abramo, Mosè crede a JHWH che gli si è rivelato per inviarlo dal faraone,<br />

promettendogli che «sarà con lui» per condurre il popolo d‘Israele nella terra promessa.<br />

Mediatore tra JHWH e il suo popolo, Mosè rivela al popolo i disegni di Dio e con i prodigi<br />

che egli compie mostra l‘origine divina della sua missione. Così il popolo, dopo il<br />

passaggio del Mar Rosso, «temette il Signore e credette in Lui e nel suo servo Mosè» (Es<br />

14,31).<br />

Due saranno i cardini della fede del popolo d‘Israele. Anzitutto esso crede che<br />

JHWH è il Dio «unico» e che fuori di Lui «non ve n‘è un altro» (Dt4,3 ); crede poi che<br />

JHWH per mezzo di Mosè ha liberato Israele dalla schiavitù egiziana e, sul monte Sinai, ha<br />

stretto con esso un‘Alleanza, in virtù della quale Israele è divenuto il «suo» popolo.<br />

L‘Alleanza comporta da parte di Dio l‘impegno a soccorrere e a salvare Israele e a dargli la<br />

terra promessa ad Abramo; da parte d‘Israele comporta la «fede», cioè anzitutto la fedeltà<br />

ad ascoltare la parola di JHWH e a non ribellarsi a lui (Dt 9,2 3-24): infatti obbedire alla<br />

voce di JHWH è «credere» in Lui; poi la fiducia che JHWH sarà fedele alle sue promesse,<br />

perché Egli è «il Dio fedele, che mantiene la sua alleanza e benevolenza per mille<br />

generazioni con coloro che lo amano e osservano i suoi comandamenti» (Dt 7,9).<br />

Così il destino di Israele è legato alla sua fede, cioè alla sua fedeltà ad ascoltare<br />

JHWH, osservando la sua legge, e alla sua fiducia nella protezione del «suo» Dio. La<br />

mancanza di fede sarà, perciò, per Israele la sua rovina. Per questo i profeti denunciano la<br />

mancanza di fede in Israele: mancanza che si esprime, anzitutto, nell‘idolatria, che è la<br />

negazione di JHWH come Dio unico, e poi nella ricerca di alleanze straniere, che è la<br />

negazione della fiducia che Israele deve nutrire in JHWH, l‘unico che può salvarlo dai suoi<br />

nemici.


31<br />

Profeta della fede è soprattutto Isaia. Egli annunzia al re Acaz: ―Se non crederete,<br />

non avrete stabilità‖(Is 7,9 b), e denuncia l‘invio di ambasciatori in Egitto per chiedere<br />

aiuto al faraone contro gli assiri che minacciano Gerusalemme: ―Guai a quanti scendono in<br />

Egitto per cercare aiuto, e pongono la speranza nei cavalli, confidando nei carri perché<br />

numerosi e nella cavalleria perché molto potente, senza guardare al Santo d‘Israele e senza<br />

cercare il Signore‖(Is 31,1). Il peccato di Israele è porre la fiducia in una potenza umana —<br />

―L‘egiziano è un uomo e non un dio‖(Is 31,3) — e non in JHWH, che solo può salvarlo<br />

dalla potenza assira; è una mancanza di fede nel Santo d‘Israele che così ammonisce il suo<br />

popolo: ―Nella conversione e nella calma sta la vostra salvezza, nell‘abbandono confidente<br />

[= nella fede] sta la vostra forza‖(Is 30,1 ). Lo stesso peccato di mancanza di fede denuncia<br />

Geremia: ―Maledetto l‘uomo che confida nell‘uomo, pone nella carne [cioè, nell‘uomo, in<br />

quanto essere debole e fragile] il suo sostegno [...]. Benedetto l‘uomo che confida nel<br />

Signore e il Signore è la sua fiducia‖(Ger 17,5.7).<br />

In realtà gli appelli alla fede lanciati dai profeti non sono ascoltati dal popolo<br />

d‘Israele nel suo insieme (Ger 29,19). Soltanto un piccolo gruppo di «poveri» (‗anawim)<br />

sarà nella storia d‘Israele dopo l‘esilio il «popolo della fede»: ―Farò restare in mezzo a te<br />

un popolo umile e povero: confiderà nel nome del Signore il resto d‘Israele‖(Sof 3,1 2-I 3).<br />

La figura esemplare di questo popolo sarà il Servo di JHWH, che, posto dinanzi a una<br />

terribile prova, rende la sua «faccia dura come pietra, sapendo di non restare deluso»,<br />

perché ha la sicurezza assoluta che il Signore lo «assiste» (Is 50,7). Perciò invita coloro<br />

che sono nelle tenebre ad aver fede in JHWH: ―Colui che cammina nelle tenebre, senza<br />

aver luce, speri nel nome del Signore, si appoggi al suo Dio‖(Is 50,10).<br />

In conclusione, la fede nell‘AT esprime l‘atteggiamento di fondo dell‘israelita di<br />

fronte a JHWH, Dio dell‘Alleanza e salvatore del suo popolo. Essa si traduce nel<br />

riconoscimento di JHWH e della potenza salvatrice, che si manifesta in tutta la storia<br />

d‘Israele, in particolare nella liberazione dall‘Egitto e nell‘introduzione nella terra<br />

promessa; nella fiducia che JHWH, misericordioso e fedele, manterrà le sue promesse,<br />

nonostante le infedeltà del suo popolo; nell‘ascolto del Signore e nell‘obbedienza ai suoi<br />

comandamenti, per cui nell‘AT credere è confidare in JHWH, appoggiarsi a Lui e dire<br />

amen (cioè sì) alle sue parole, alle sue promesse, alle sue leggi.<br />

2.1.1.2. La fede nel Nuovo Testamento<br />

Se dall‘AT passiamo al Nuovo Testamento (NT), notiamo che la fede ha in esso un<br />

posto assai più importante e decisivo che nell‘AT. E già indicativo il fatto che mentre<br />

nell‘AT il verbo ‘aman (credere) si trova 51 volte e il sostantivo ‘emunah (fede) 49 volte,<br />

nel NT il verbo pisteuein (credere) e il sostantivo pistis (fede) si trovano complessivamente<br />

243 volte. Ma l‘importanza decisiva che il NT dà alla fede va al di là del semplice fatto che<br />

se ne parli un numero così grande di volte.<br />

Vediamo anzitutto il significato delle parole con cui nel NT si indica la fede.<br />

Pisteuein ha tre significati: a) significa credere a ciò che una persona dice: «Tu non hai<br />

creduto (ouk episteusas) alle mie parole» (Lc 1,20); b) significa credere in (eis) qualcuno,<br />

cioè ritenere per vero ciò che una persona dice di se stessa: così credere «in Cristo» (Gv<br />

3,18; Gal 2,16) significa credere che Gesù è il Figlio di Dio; oppure credere che (hoti)<br />

Gesù è il Cristo (Gv 20,31); c) significa avere assoluta fiducia che ciò che si chiede lo si<br />

otterrà da Dio o da Cristo con certezza: ―Tutto ciò che chiederete con fede (pisteuontes)<br />

nella preghiera, lo otterrete‖(Mt 21,22).<br />

Il sostantivo pistis significa: a) fede, fiducia in Dio; fede, fiducia in Gesù e nel suo<br />

aiuto in caso di malattia o di bisogno; b) la religione vera, autentica: questo sembra essere<br />

il senso del famoso versetto: ―Il Figlio dell‘uomo, quando verrà, troverà la fede (pistin)


32<br />

sulla terra?‖(Lc 18,8); c) l‘oggetto e il contenuto della fede: così la lettera agli Efesini<br />

parlando di «una sola fede (mia pistis)» intende dire che tutti credono le stesse cose.<br />

Ma qual è il carattere specifico della fede del NT rispetto all‘AT? Indubbiamente la<br />

fede del NT continua la fede dell‘AT e ha con essa molti punti di contatto, tanto che<br />

qualcuno ha parlato della fede del NT come di una «eredità giudaica» (H. Windisch).<br />

Tuttavia ciò che differenzia la fede del NT da quella dell‘AT è la persona di Cristo: il<br />

credere in JHWH dell‘israelita diviene il credere in Gesù Cristo del cristiano. Mentre l‘AT<br />

poneva l‘uomo di fronte a JHWH, il NT lo pone di fronte a Cristo. Certamente, anche il<br />

cristiano crede nel Dio dell‘AT, ma lo vede come il «Padre del Signore nostro Gesù<br />

Cristo», come Colui che ha mandato nel mondo il suo Figlio Gesù Cristo, lo ha risuscitato<br />

dai morti e lo ha fatto sedere alla sua destra.<br />

Che cos‘è allora, la fede nel NT? E anzitutto riconoscere che Gesù di Nazaret è il<br />

Messia promesso a Israele e il Figlio di Dio fatto uomo. Ci sono nel Vangelo due<br />

interrogativi che Gesù pone. Chiede ai suoi discepoli: ―Voi chi dite che io sia?‖. Simone, a<br />

nome dei suoi compagni, risponde: ―Tu sei il Cristo [= il Messia], il Figlio del Dio<br />

vivente‖(Mt 16, 15-16). Chiede poi al cieco nato, che egli ha guarito: ―Credi tu nel Figlio<br />

dell‘uomo?‖. Il cieco risponde: ―Io credo, Signore‖(Gv 9, 35.38).<br />

In queste due risposte è contenuta la fede secondo il NT. E poi espressa nella sua<br />

forma più completa nelle parole che dice il discepolo Tommaso, dopo che Gesù risorto lo<br />

ha invitato a mettere il suo dito nel foro dei chiodi e la sua mano nella ferita del costato:<br />

―Mio Signore e mio Dio‖(Gv 20,28). Così la fede «cristiana» consiste precisamente nel<br />

credere interiormente e nel professare esteriormente che Gesù di Nazareth — un<br />

personaggio storico, nato a Betlemme al tempo dell‘imperatore Augusto, crocifisso e<br />

morto a Gerusalemme al tempo dell‘imperatore Tiberio — è Dio. La divinità di Gesù di<br />

Nazareth quindi è lo specifico della fede cristiana: chi non crede che Gesù è Dio, per<br />

quanto lo ammiri, ritenendolo un genio religioso, un insuperabile maestro di morale o<br />

anche l‘uomo in cui Dio si è manifestato in maniera unica, non ha la fede cristiana. In<br />

realtà, non c‘è nessuno che, conoscendo anche in maniera superficiale Gesù di Nazareth,<br />

quanto egli ha detto e quanto ha fatto, non provi per lui ammirazione e rispetto e non lo<br />

ritenga un uomo eccezionale, forse anche l‘uomo più straordinario apparso nella storia<br />

umana; e tuttavia ciò non basta per fare di questa persona un «cristiano». E infatti<br />

«cristiano» soltanto chi crede che Gesù è Dio.<br />

In conclusione, la fede cristiana è essenzialmente cristocentrica, nel senso che la<br />

persona di Gesù, Figlio di Dio incarnato, crocifisso e risorto, è il centro e il cuore della<br />

fede cristiana.<br />

Ma che cosa comporta il «credere in Cristo»? Anzitutto, la consapevolezza<br />

profonda che l‘uomo è peccatore, lontano da Dio e schiavo del peccato e delle forze del<br />

male, e che senza Cristo egli non può liberarsi dal peccato e andare a Dio; comporta, in<br />

secondo luogo, l‘opzione, la decisione personale di aderire a Cristo, Figlio di Dio e unico<br />

Salvatore degli uomini, affidandosi fiduciosamente alla persona di Cristo per essere da lui<br />

salvato e condotto a Dio. Perciò l‘atto di fede cristiana è rivolto essenzialmente alla<br />

persona di Cristo, che da colui che lo compie è creduto il Figlio di Dio e il Salvatore degli<br />

uomini. Indubbiamente il credere in Cristo comporta anche l‘accettazione di quello che<br />

egli dice, come parola di Dio, e di quello che egli compie, come opera di salvezza di Dio.<br />

Quello che però è caratteristico nella fede cristiana è che si crede nella parola e nell‘opera<br />

di Gesù, perché si crede nella sua persona: è infatti la sua persona che dà valore divino alle<br />

sue parole e alle sue opere. Questo carattere distingue Gesù dagli altri fondatori di<br />

religioni.<br />

Due autori del NT hanno maggiormente approfondito il mistero di Gesù e il<br />

significato della fede nella sua persona: sono Paolo e Giovanni. Certo, tutti i libri del NT


33<br />

danno alla fede un posto di primo piano. Così la Lettera agli Ebrei non solo afferma che<br />

―senza la fede è impossibile essere graditi a Dio‖(Eb 11, 6) e mostra in Gesù ―l‘autore e il<br />

perfezionatore della fede‖( Eb 12, 2), ma legge tutta la storia dell‘AT come una ―storia di<br />

fede‖(Eb 11, 2-38). La Prima Lettera di Pietro afferma che i cristiani sono ―custoditi dalla<br />

potenza di Dio mediante la fede‖(1 Pt 1, 5) e li esorta a resistere al diavolo «saldi nella<br />

fede» (1 Pt 5, 9). La Lettera di Giuda si scaglia con inusitata violenza contro i corruttori<br />

della fede ed esorta i cristiani a ―combattere per la fede che fu trasmessa ai credenti una<br />

volta per tutte‖(Gd 1,3) e a costruire il proprio edificio spirituale ―sopra la santissima<br />

fede‖(Gd 1,20).<br />

Sono tuttavia Paolo e Giovanni che più ampiamente e più profondamente hanno<br />

trattato il problema della fede.<br />

Per san Paolo credere è accogliere la predicazione degli Apostoli, testimoni di<br />

Gesù, e confessare che egli, Gesù, è «il Signore» (1 Cor 12,3). La fede infatti nasce<br />

dall‘ascolto della predicazione: «La fede dipende dalla predicazione e la predicazione a sua<br />

volta si attua per la parola di Cristo» (Rm 10,17). Tuttavia non tutti ascoltano l‘annuncio<br />

del Vangelo. Così se la fede sta nell‘ascolto (akoe) della predicazione del Vangelo, e<br />

nell‘«obbedienza» (ypakoe) a Cristo (2 Cor 10, 5), l‘incredulità consiste nel rifiuto di<br />

ascoltare la predicazione evangelica e nel non credere che Gesù è il Signore. Ma ciò che è<br />

caratteristico della fede, secondo san Paolo, è che ―l‘uomo è giustificato dalla fede,<br />

indipendentemente dalle opere della legge‖(Rm 3,28), perché ―il giusto vivrà mediante la<br />

fede‖(Rom 1,17). Non è l‘osservanza della Torà, scritta e orale, quindi che può salvare<br />

l‘uomo peccatore e renderlo giusto dinanzi a Dio, ma soltanto la fede, cioè l‘umile<br />

accettazione della grazia di Dio, che giustifica l‘uomo mediante la morte e la risurrezione<br />

di Gesù. La fede consiste dunque nell‘aderire a Cristo crocifisso e risorto con la mente e il<br />

cuore e attendere da lui la salvezza: ―Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore,<br />

e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo‖(Rom 10,9). Ma,<br />

se la fede è «ascolto» del Vangelo di salvezza in Cristo morto e risorto, ed è «obbedienza e<br />

accettazione del Vangelo di Cristo» (2 Cor 9,13), essa comporta una decisione e<br />

un‘inversione di marcia: si tratta di «convertirsi al Signore (epistrephein pros ton kyrion)»<br />

(2 Cor 3,16). E quanto ha fatto lo stesso Paolo che ormai vive di fede in Cristo: ―In realtà,<br />

mediante la Legge io sono morto alla Legge, per vivere per Dio. Sono stato crocifisso con<br />

Cristo, e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita che vivo nella carne<br />

io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me‖(Gal<br />

2,19-20).<br />

In conclusione, per san Paolo, la fede è sempre un rapporto personale con Gesù<br />

Cristo e un‘accoglienza della sua vicenda storica: il Cristo secondo san Paolo è Gesù, il<br />

Figlio nato da una donna, crocifisso e risorto. D‘altra parte, la vicenda storica di Gesù è<br />

espressa in termini estremamente precisi e concreti nell‘«annuncio» (kerygma) apostolico,<br />

a cui si deve prestare «ascolto» e «obbedienza», e non in favole e miti. L‘evento storico di<br />

Gesù espresso nel kerygma è la base della fede cristiana, a cui tutti i credenti devono<br />

richiamarsi, per formare «una sola fede» (Ef 4,5), e dunque un solo Corpo, una sola<br />

Chiesa. Infine la fede sarà autentica nella misura in cui si tradurrà nella carità. Infatti la<br />

vera fede è quella «che opera per mezzo della carità» (Gal 5,6).<br />

Assai più dei Vangeli Sinottici, quello di Giovanni è il Vangelo della fede. Egli<br />

parte dal concetto di «testimonianza» (le parole martyrein = testimoniare e martyria<br />

testimonianza sono assai frequenti nel quarto Vangelo): all‘inizio del Vangelo, Giovanni<br />

Battista «testimonia» in favore di Gesù, affermando che egli è «il Figlio dì Dio», è<br />

«l‘Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo» (Gv 1,34.29). Gesù testimonia in suo<br />

favore, accreditandosi come «il Figlio dell‘uomo che è disceso dal cielo» (Gv 3,13),<br />

anzitutto con la sua parola, perché egli «testimonia quello che ha veduto» (Gv 3,1 i), ma


34<br />

anche con i «segni», i prodigi che egli compie. Soprattutto, a favore di Gesù «testimonia»<br />

Dio stesso, il Padre: a coloro che l‘accusano che la sua testimonianza in proprio favore non<br />

e accettabile, Gesù risponde che non e soltanto lui a testimoniare in proprio favore: ―Anche<br />

il Padre, che mi ha mandato, mi dà testimonianza‖(Gv 8,18). Infatti i miracoli che egli<br />

compie sono «opere del Padre» (Gv 10,37), che «il Padre gli ha dato da compiere» «Esse<br />

testimoniano di me che il Padre mi ha mandato» (Gv 5,36). Che cos‘è, allora, la fede? E<br />

accogliere la testimonianza del Padre, il quale, concedendo a Gesù di compiere miracoli,<br />

autentica la sua missione di Inviato di Dio nel mondo. Perciò chi crede in Gesù, accettando<br />

la testimonianza del Padre in suo favore, «certifica che Dio è veritiero» (Gv 3,33); mentre<br />

chi la respinge fa di Dio «un bugiardo, perché non crede alla testimonianza che Dio ha reso<br />

a suo Figlio» (1 Gv 5, 10).<br />

Ma che cosa Gesù attesta di se stesso? Anzitutto egli attesta di essere Dio,<br />

attribuendosi il nome proprio di Dio nell‘AT: «Io Sono». Dice infatti ai suoi avversari<br />

«giudei»: ―Se non credete che Io Sono, morirete nei vostri peccati‖(Gv 8,24): attesta poi di<br />

essere il Figlio di Dio e di essere una cosa sola col Padre: ―Io e il Padre siamo una cosa<br />

sola (hen esmen)‖(Gv 10,30); attesta di essere stato mandato dal Padre, il quale ha posto<br />

tutto nelle sue mani, anche il giudizio degli uomini e il loro destino eterno (Gv 5,22);<br />

attesta infine di essere «la luce del mondo» (Gv 8,12), «il pane della vita» (Gv 6,35),<br />

l‘unico mediatore della rivelazione e della salvezza, l‘unica via che porta al Padre<br />

(«nessuno viene al Padre se non per mezzo mio»), «la risurrezione e la vita», cosicché chi<br />

crede in lui «è passato dalla morte alla vita» (Gv 5,24) e «ha la vita eterna» (Gv 3,36).<br />

Credere in Cristo significa accettare per vere queste prerogative di Cristo. La fede<br />

comporta quindi un contenuto dottrinale che l‘intelligenza umana deve accettare con<br />

umiltà docilità da colui che è la Verità stessa, Gesù Cristo.<br />

In conclusione possiamo dire che la fede cristiana nel NT ha due caratteri<br />

essenziali. Ha infatti un carattere intellettuale di adesione alle verità che Cristo ha rivelata e<br />

che i suoi Apostoli hanno predicato. Perciò non può essere ridotta a pura fiducia in Cristo<br />

che salva dal peccato. Ha poi un carattere affettivo di adesione alla persona storica di Gesù<br />

di Nazareth è dunque amore, almeno iniziale, a Cristo, è dono di sé a lui. Perciò la fede un<br />

incontro personale del cristiano con Cristo, che deve divenire sempre più profondo, fino a<br />

vivere in Cristo e con Cristo e a farne l‘esperienza vitale. La fede è quindi fiducia e<br />

abbandono nelle mani di Cristo Salvatore e Redentore, perché liberi dal peccato colui che<br />

crede in lui e lo conduca al Padre. E chiaro però che la fede non viene dall‘uomo, ma è<br />

dono di Dio. La fede (pìstis)del cristiano rimanda dunque a Dio, a colui che la Bibbia<br />

definisce come fedele (pistòs) per eccellenza, colui che resta incrollabile nei confronti<br />

dell‘uomo, roccia e fondamento su cui costruire. Questo comporta tuttavia, da parte<br />

dell‘uomo, una decisione per Cristo, una scelta di Cristo, chi può essere difficile e<br />

dolorosa, ma che la grazia — che Dio non fa mai mancare a nessuno — rende possibile a<br />

chi non si chiude volontariamente alla luce, preferendo restare nel peccato: «Chiunque<br />

infatti fa il male odia la luce e non viene alla luce; [...] ma chi opera la verità viene alla<br />

luce» (Gv 3,20-21).<br />

2.1.2. La teologia della fede<br />

―La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si<br />

vedono‖ (Eb 11,1): in quanto tale essa esige un completo uscire da sé per andare verso<br />

l'Altro, un esodo senza pentimento e senza ritorno verso il Padre che invita e ci attrae a sé,<br />

ed insieme un‘accettazione di ciò che Egli propone, un assenso alla Sua parola di verità.<br />

Credere in Dio è movimento esodale del cuore, affidamento di sé; credere quanto rivela è


35<br />

professione di fede, accoglienza riflessa del mondo veniente dall'alto nelle opere e nei<br />

giorni degli uomini.<br />

Per la Sacra Scrittura «credere» è una peculiare forma di conoscenza che permette<br />

di entrare nel mistero e di percepirlo nella sua importanza per la vita personale. La fede,<br />

quindi, si esprime in un comportamento concreto; implica, infatti, «riconoscere»,<br />

«accogliere», «vedere», «udire», «ascoltare»...; quindi un atto globale e complesso in cui<br />

ognuno può esprimere se stesso pienamente: intelligenza, volontà, comprensione di sé e<br />

decisione, nel dialogo fra il dono di grazia e libertà personale.<br />

Data la complessità del credere, non meraviglia che i Padri della Chiesa e i grandi<br />

maestri della teologia abbiano posto sempre al centro della loro riflessione il tema della<br />

fede. Se in alcune epoche è più facile verificare l‘attenzione sui contenuti della fede, in<br />

altre l‘oggetto di indagine fu costituito maggiormente dall‘analisi dell‘atto con cui si crede,<br />

ma è l‘unità profonda di questi due momenti e la loro reciproca unità che costituiscono la<br />

coerente comprensione della fede.<br />

Quando deve affrontare l‘analisi della fede, la teologia è solita distinguere due<br />

momenti: la fides qua e la fides quae. Con la prima espressione si intende qualificare l‘atto<br />

con cui, sotto la spinta della grazia, si crede; esso comporta l‘affidamento a Dio che si<br />

rivela e che, quindi, manifesta se stesso come fedele, veritiero e credibile. Con la seconda<br />

formula si specifica il contenuto della fede che in maniera unitaria consiste nel mistero<br />

della rivelazione di Dio in Gesù Cristo; in una parola, la fede nella Trinità. Non c‘è<br />

separazione tra fides qua e fides quae; entrambi i termini, infatti, vogliono specificare i<br />

diversi momenti di un unico atto. Nel credere, ognuno accetta un contenuto che lo<br />

impegna; la fides qua, pertanto, non astrae dalla fides quae, ma da essa è determinata. La<br />

fides quae, a sua volta, rimanda alla fides qua come l‘atto fondamentale mediante il quale<br />

il credente, nella sua libertà, accetta di affidare se stesso pienamente alla rivelazione di<br />

Dio. Dall'uno e dall'altro momento, dalla ―fides qua creditur‖ e dalla ―fides quae creditur‖,<br />

sgorga quel dialogo dell'esodo e dell'avvento, che è la fede pensosa e responsabile,<br />

suscitata e alimentata dalla proclamazione e dall‘ascolto obbediente della Parola di Dio.<br />

La teologia medievale, facendo riferimento a un testo attribuito a sant‘Agostino,<br />

considerando l‘atto del credere fece propria la triplice formulazione: «credere Deo»,<br />

«credere Deum», «credere in Deum»: ―Una cosa è credere a lui, altro credere lui, altro<br />

ancora credere in lui. Credere a lui significa credere che è vero tutto ciò che egli ha detto;<br />

credere lui equivale a credere che lui stesso è Dio; credere in lui significa amarlo‖ 48 .<br />

L‘espressione, essenzialmente, permette di verificare il recupero dei dati della Sacra<br />

Scrittura dove a più riprese si ritrovano le tre formule. Teologicamente, queste espressioni<br />

hanno un loro valore intrinseco che consentono di accedere a una teologia della fede<br />

coerente con le sue fonti e articolata nelle sue spiegazioni. Nelle tre espressioni vengono<br />

esplicitati tre aspetti dell‘atto di fede, non tre diversi modi di credere; lo attesta bene san<br />

Tommaso d‘Aquino: ―Credere a Dio, credere che Dio e credere in Dio non indicano diversi<br />

atti, ma diverse circostanze dello stesso atto‖ 49 .<br />

Con la formula «credere Deo» si vuole esprimere la dimensione formale della fede,<br />

ciò che ne costituisce il fondamento stesso, vale a dire l‘autorità di Dio stesso nel suo<br />

rivelarsi. Credendo, quindi, ognuno accetta la testimonianza che Dio dà di sé e che si fonda<br />

sulla sua autorità; il credente, pertanto, accetta la verità della rivelazione perché Dio stesso<br />

ne è garante. Il Concilio Vaticano I accolse questa interpretazione e la fece sua quando<br />

nella costituzione Dei Filius afferma: ―La stessa santa madre Chiesa ritiene e insegna che<br />

Dio, principio e fine di ogni cosa, può essere conosciuto con certezza con la luce naturale<br />

della ragione umana a partire dalle cose create... ma è piaciuto alla sua sapienza e bontà<br />

48 S. AGOSTINO, Sermo de Simbolo: PL 40, 1190.1191.<br />

49 S. TOMMASO, In Johannem, VI,3 7.


36<br />

rivelare se stesso e gli eterni decreti della sua volontà per altra via, quella<br />

soprannaturale‖ 50 .<br />

Con l‘espressione «credere Deum» si vuole fare riferimento al contenuto della fede,<br />

a ciò che viene creduto, il mistero stesso dell‘amore di Dio. Si sottolinea la dimensione del<br />

mistero come l‘orizzonte su cui si pone l‘esistenza di Dio. Un mistero che non può essere<br />

pienamente analizzato dalla ragione, ma non per questo è meno comprensibile; la fede,<br />

appunto, diventa la forma mediante la quale si conosce il mistero perché si fa forte della<br />

rivelazione di Gesù Cristo. Accogliere il mistero di Dio comporta dare il proprio assenso. È<br />

un termine tecnico nella teologia della fede con il quale si vuole esprimere un impegno<br />

assoluto nell‘accettazione di un contenuto. Per comprendere il valore dell‘assenso è<br />

necessario fare riferimento, ancora una volta, a S. Agostino il quale in un celebre testo<br />

scrive: ―Lo stesso atto del credere non consiste in altro che dare l‘assenso riflettendo.<br />

Pensa, infatti, chiunque crede, e credendo pensa e pensando crede... La fede se non è<br />

pensata è nulla. Se si toglie l‘assenso, si toglie la fede perché senza assenso non si dà<br />

fede‖ 51 . Nell‘epoca moderna, è stato particolarmente J. H. Newman a esplicitare<br />

teologicamente il valore dell‘assenso definendolo come: ―L‘atto con cui si accetta<br />

assolutamente, in modo incondizionato, una proposizione‖ 52 .<br />

Con la formula « credere in Deum », infine, si intende definire il valore dinamico<br />

della fede e la sua dimensione interpersonale. Credere in Dio significa, anzitutto, credere a<br />

una persona; ciò comporta il desiderio di volerla conoscere sempre di più e di entrare in un<br />

rapporto di amore. Credere «in Dio» è in realtà credere «verso Dio», nel senso<br />

dell‘accusativo greco e latino, di movimento. Perché la fede è un movimento verso Dio,<br />

una fede che è esodo da se stessi e immissione in Dio. L‘espressione, pertanto, mostra il<br />

fine stesso della fede: una crescita continua nella fiducia e nell‘abbandono in Dio sapendo<br />

che lui stesso si è impegnato per noi, offrendo suo Figlio.<br />

Credere in Dio è mettere incondizionatamente la propria vita nelle mani dell' Altro,<br />

affidarGli non qualcosa di sé, ma se stessi. Secondo una suggestiva etimologia medioevale<br />

―credere‖ è dare il cuore (―cor-dare‖), offrirsi con la libertà più grande a Colui che invita<br />

dalle profondità del Mistero, perché sia Lui a gestire la nostra vita: credere è uscire da sé<br />

per abbandonarsi in Dio. Fede è in tal senso l'esodo che naufraga volontariamente<br />

nell'avvento, il giorno dell'uomo che accetta di tramontare nella notte che conduce al<br />

giorno di Dio.<br />

―Fede significa stare sull'orlo di un abisso oscuro e udire la Voce che grida: gettati,<br />

ti prenderò fra le mie braccia‖ (S. Kierkegaard): credere è vivere il rischio, gettarsi nel<br />

vuoto nutrendo il sospetto doloroso che, invece di braccia accoglienti, ci siano soltanto<br />

nude rocce ad attenderci, liberamente disposti alla possibilità mortale, pur di mostrare<br />

l'appassionata volontà di obbedire a Colui che ci ha chiamato. ―Tu mi hai sedotto, o<br />

Signore, ed io mi sono lasciato sedurre, mi hai fatto violenza, ed hai vinto‖(Ger 20,7).<br />

Credere non è allora anzitutto accettare qualcosa, ma accettare Qualcuno, rinunciare<br />

ad abitare noi stessi in un geloso possesso, perché l'Altro ci abiti, consegnando a Lui<br />

totalmente la nostra esistenza. «Credere in» si applica solamente a Dio. La chiesa si attiene<br />

scrupolosamente a questo uso; infatti nel credo ci fa dire: «Credo in Dio Padre…, in Gesù<br />

Cristo…, nello Spirito Santo». Credere «nel» Figlio di Dio è qualcosa di diverso e di più<br />

«che» credere che Gesù è il Figlio di Dio. S. Agostino così mette in risalto l‘importanza<br />

dell‘espressione credere in, commentando Gv 6, 29. ―Dice credere in lui, non credere a lui.<br />

Sì, perché se credete in lui, credete anche a lui, non però necessariamente chi crede a lui,<br />

crede anche in lui. I demoni credevano a lui, ma non credevano in lui. Altrettanto si può<br />

50 DS, 3004<br />

51 S. AGOSTINO, De praedestinatione sanctorum, 2: PL 44, 963.<br />

52 J.H. NEWMAN, Grammatica dell’assenso, Jaca Book, Milano 1980, 824.


37<br />

dire riferendosi agli apostoli. Altrettanto si può dire riferendosi agli apostoli: crediamo a<br />

Paolo, ma non crediamo in Paolo; crediamo a Pietro, ma non crediamo in Pietro. Ecco,<br />

solo a chi crede in colui che giustifica l‘empio la sua fede gli è tenuta in conto di giustizia<br />

(Rm 4, 5). Che significa dunque credere in lui? Credendo, amarlo e diventare suoi amici;<br />

credendo, entrare nella sua intimità e incorporarsi alle sue membra. Questa è la fede che<br />

Dio vuole da noi; ma che non può trovare in noi se egli stesso non ce la dà‖ 53 .<br />

Sulla base dei dati analizzati, si impone una ulteriore specificazione e distinzione<br />

tra fede e credenza. La distinzione semantica ha una sua oggettiva validità che merita di<br />

essere conservata in ambito teologico e non solo. Come si è visto, la fede è per sua stessa<br />

natura formata dall‘assenso che viene dato alla rivelazione di Dio. Nella fede, quindi,<br />

permane attivo il principio che quanto viene creduto non proviene dagli uomini, ma da<br />

Dio; per questo si dà un‘adesione piena e totale in quanto porta con sé la garanzia di verità.<br />

La credenza, invece, è il frutto della comprensione umana del mistero trascendente; in<br />

quanto tale, non ha la pretesa di richiedere l‘assenso perché è frutto della riflessione<br />

personale. Ci sono verità, pertanto, che pur riguardando il mistero divino e trascendente,<br />

provengono dagli uomini. Esse sono frutto di una elaborazione illuminata, spesso difficile<br />

e complessa, a cui si dà il nome di credenza, proprio per distinguere il carattere umano da<br />

quello della rivelazione. Le religioni non rivelate sono, normalmente, composte da<br />

credenze; esse portano con sé il frutto della saggezza umana con la verità che la ragione<br />

riesce a esprimere, ma come tali non possono avere la pretesa di richiedere la fede.<br />

Nelle sue diverse articolazioni, credere è un abbandonarsi al mistero senza temere<br />

di venire sommersi. La fede pone il mistero all‘inizio del suo cammino, non alla fine,<br />

quando tutto sembra irreparabile e nessuna spiegazione sembra più bastare. Accogliendo in<br />

sé il mistero di Dio che si fa uomo per amore, il credente riesce a porre continuamente<br />

domande con l‘intento di comprendere sempre di più ciò che già crede. ―Insegnami a<br />

cercarti, e mostrati a chi ti cerca; perché non posso cercarti se tu non mi insegni, né trovarti<br />

se tu non ti mostri. Che io ti cerchi desiderando, che ti desideri cercando, che ti trovi<br />

amando, che ti ami ritrovandoti... Io infatti non domando di intendere perché possa credere,<br />

ma credo perché possa intendere. Infatti anche questo credo, che se non avrò creduto, non<br />

intenderò‖ 54 .<br />

Il motivo profondo di questa inquietudine della fede nell'esistenza del credente non<br />

sta solo nella storicità dell'uomo, teso nel movimento dalla morte alla vita, ma anche dalla<br />

parte dell'avvento del Dio, veniente nella Sua Parola. Questa Parola è detta negli umili<br />

segni della storia, i soli accessibili all'uomo. Gli eventi e le parole della rivelazione si<br />

nutrono di questa vita e di questo mondo, sono linguaggio, in cui abita l'essere finito<br />

dell'uomo. È di qui che nasce il paradosso della Parola: in essa l‘eterno viene a risuonare<br />

nel tempo; nella finitudine dello spazio l‘infinitezza di Colui, che è Signore del cielo e<br />

della terra; nelle tenebre la luce; nella morte la vita. Per quanto le realtà del nostro mondo<br />

si dilatino per accogliere e veicolare il divino, esse rimangono finite, determinate dal<br />

proprio limite, dal proprio orizzonte. L‘eccedenza del Mistero resta infinita: la profondità<br />

indicibile viene evocata, non detta in modo esauriente e adeguato. Lo stesso Cristo, Parola<br />

eterna nei giorni della carne, è pienezza di rivelazione in quanto esprime nella maniera più<br />

alta e più densa possibile per noi quanto di Dio a noi è reso accessibile; ma Lui stesso<br />

rinvia all‘ulteriorità da cui viene, si fa via e vita, senza cessare di essere la verità<br />

dell'Eterno, presente nel tempo (cf. Gv 14,6). È così che Dio rivelandosi si vela;<br />

comunicandosi si nasconde; parlando si mostra Silenzio. Il Suo avvicinarsi apre a una<br />

lontananza infinita; il Suo avvento è per noi promessa e nostalgia della Patria.<br />

53 S. AGOSTINO, In Ioh. 29, 6: PL 35, 1631.<br />

54 S. ANSELMO, Proslogion, I


38<br />

È perciò che l'assenso della fede non riposa nella Parola udita, ma esige di<br />

scandagliarla con inestinguibile sete per andare, in essa e per essa, verso le profondità di<br />

Dio, dove solo lo Spirito giunge. La fede si fa ricerca, provocata e nutrita dal santo<br />

racconto della rivelazione, inquietudine santa, che non lascia l'uomo dove lo ha trovato, ma<br />

lo seduce e l'attira verso un più vasto orizzonte. L'assenso si fa ―cogitativo‖, pervaso cioè<br />

dall'agitazione del desiderio e della vita sempre in movimento del pensiero: ―Credere est<br />

cum assensione cogitare‖ 55 . Ed è in questo dinamismo della fede pellegrina verso la luce<br />

più grande, che viene a situarsi la dignità della conoscenza nella fede: essa esprime il<br />

bisogno di dire la luce raggiunta, non per fermare la ricerca, ma per darle un appoggio che<br />

l'aiuti a comunicarsi e ad andare oltre. Essa porta alla parola l'incontro dell'esodo e<br />

dell'avvento, per aprire a un esodo ancora più radicale e stimolare una sempre più profonda<br />

accoglienza di Dio. I pensieri della fede non sono lastre tombali, ceppi che frenino la sete<br />

della vita e della conoscenza, ma pietre miliari, tappe di un cammino aperto, nutrito di<br />

ascolto e di dialogo: pensieri nella speranza.<br />

La fede, oggettivata nella conoscenza e professata nella parola, la ―fides quae<br />

creditur‖, resta allora sempre nella tensione dell'atto con cui, credendo, l'uomo si<br />

abbandona al Mistero, di quella ―fides qua creditur‖, che è la sorgente profonda di ogni<br />

pensiero credente, in quanto è il luogo interiore dell'avvento. Per cui ci si può fidare<br />

sempre più di Cristo, abbandonarsi sempre più a lui e perdersi in lui, fino a fare della fede<br />

nel Figlio di Dio la ragione della propria vita.<br />

Anche da parte dell'uomo, tuttavia, l'assenso ―cogitativo‖ si offre degno e sensato:<br />

se è Dio stesso che, rivelandosi, attiva nel cuore e nella mente di chi crede la sete della<br />

conoscenza più grande, non è meno vero che il gusto e la fatica del sapere sono fedele<br />

espressione del movimento esodale dell‘uomo, che si apre alla Parola veniente dall'alto.<br />

Una fede che non venisse colta nelle sue motivazioni e giustificazioni, degenererebbe nella<br />

credulità o nella superstizione. Il pensiero della fede non può e non deve mai rinunciare<br />

alla sua natura dialogica e interrogativa: la razionalità del credere non si oppone alla vita<br />

della fede, la nutre anzi e l'esprime. ―Intellige, ut credas!‖. Il primato della fede non<br />

annulla l'intelligenza credente, l'esige, anzi, e la stimola: ―Crede, ut intelligas!‖.<br />

Conoscenza e vita di fede risultano inseparabili l'una dall'altra: nella tensione fra il<br />

credere in Dio abbandonandosi a Lui e l'accettare quanto Egli propone come oggetto di<br />

conoscenza e di professione di fede, l'intera vita dell'uomo sulla terra si lascia plasmare da<br />

Colui che viene. ―Essere innamorati di Dio, in quanto sperimentato, è essere innamorati in<br />

maniera che non conosce limite alcuno. Ogni amore è donazione di sé, ma essere<br />

innamorati di Dio è essere innamorati senza limiti, né restrizioni, né condizioni, né riserve.<br />

Come il nostro potere illimitato di domandare costituisce la nostra capacità di<br />

autotrascendenza, così l'essere innamorati in maniera illimitata costituisce l'attuazione<br />

propria di siffatta capacità‖ 56 .<br />

La natura dialogica del conoscere nella vita di fede si offre allora come la prova<br />

evidente di quanto sia umanizzante l'avventura di credere ed insieme come il segnale di<br />

quanto l'umana inquietudine sia desiderosa del volto di Dio. La conoscenza di Dio aumenta<br />

in noi man mano che aumenta il nostro amore per Lui. ―Ogni creatura intelligente, angelo o<br />

uomo, ha in sé stesso due facoltà principali: l‘una si chiama facoltà di conoscere, l‘altra è<br />

chiamata facoltà di amare. Di entrambe Dio è creatore: ma se Egli resta sempre<br />

incomprensibile per la prima, è invece attingibile nella seconda, secondo il grado differente<br />

di ciascuno. Di modo che soltanto l‘anima che ama può per virtù del suo amore attingere a<br />

Colui che pienamente basta a saziare tutte le anime e tutti gli Angeli della creazione‖ 57 .<br />

55 S. AGOSTINO, De praedestinatione sanctorum 2,5: PL 44, 963<br />

56 B. LONERGAN, Il metodo in teologia, Queriniana, Brescia 1975, 163<br />

57 La nube della non conoscenza, 25.


39<br />

2.2. Il dono della fede nella filiazione<br />

Il dialogo teologale della fede si compie e si alimenta nell‘evento sacramentale. In<br />

particolare nel battesimo, sacramento della fede, la fede fiduciale e assertiva si compie nel<br />

dono della rigenerazione e santificazione battesimale, in cui il dialogo trova fondamento e<br />

stabilità, diventando comunione di vita. La fede come filiazione compie infatti la<br />

partecipazione sacramentale alla pasqua di Cristo e il dono della comunione con Dio. ―Con<br />

questa Rivelazione infatti Dio invisibile (cfr. Col 1,15; 1 Tm 1,17) nel suo grande amore<br />

parla agli uomini come ad amici (cfr. Es 33,11; Gv 15,14-15) e si intrattiene con essi (cfr.<br />

Bar 3,38), per invitarli e ammetterli alla comunione con sé. Questa economia della<br />

Rivelazione comprende eventi e parole intimamente connessi, in modo che le opere,<br />

compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà<br />

significate dalle parole, mentre le parole proclamano le opere e illustrano il mistero in esse<br />

contenuto‖ 58 .<br />

Ogni sacramento esprime la fede cristologico-trinitaria e al tempo stesso la dona,<br />

realizzando il dono di un principio nuovo di vita e di conoscenza di Dio che è la fede<br />

teologale. Per questo i sacramenti ―non solo presuppongono la fede, ma con le parole e gli<br />

elementi rituali la nutrono, la irrobustiscono e la esprimono; perciò vengono chiamati<br />

sacramenti della fede‖ 59 .<br />

Se questo può essere detto di ogni sacramento, la definizione di sacramento delle<br />

fede deve essere usata e applicata in modo primario, a motivo del suo valore fondante, al<br />

sacramento del battesimo, che esprime l‘accoglienza della fede nell‘obbedienza alla Parola<br />

e realizza la fede sacramentale della comunione teologale con Dio Padre in Cristo, nella<br />

potenza trasformante e vivificante dello Spirito.<br />

Il battesimo è sacramento della fede, poiché per il dono della fede che chiede e<br />

porta al sacramento, è generata la fede teologale quale partecipazione alla vita di Cristo<br />

mediante l‘inserimento e la partecipazione simbolico-battesimale al mistero della sua<br />

pasqua e al dono pentecostale dello Spirito. ―Il battesimo realizza la fede nella sua forma<br />

originaria, dalla quale prendono il via gli altri sacramenti. Va precisata ulteriormente la<br />

qualità teologale della fede che se inizialmente è condizione preliminare (dispositiva) per<br />

l‘accoglienza della grazia, nel compimento del sacramento viene donata nella sua<br />

qualificazione teologale, cioè che attiene alla vita di Dio; in questo senso, con la fede<br />

vengono donate la speranza e la carità col loro dinamismo di trasfigurazione‖ 60 . Prendere<br />

coscienza del dono della fede teologale rappresenta il primo impegno etico di fedeltà al<br />

dono stesso.<br />

Il battesimo è sacramento della fede come filiazione, perché attuando la metànoia<br />

come purificazione dal peccato e come giustificazione, dona all‘esistenza un nuovo<br />

orientamento etico, la vita filiale, che chiede di essere riconosciuta e vissuta nella novità<br />

della vita. La fede può perciò animare come scelta fondamentale tutto il vissuto etico della<br />

personalità teologale del cristiano, a partire dal dono sacramentale. Nella libera risposta del<br />

credente al dono battesimale si compie la piena obbedienza a Dio. L‘obbedienza della fede<br />

suscita e chiede un ethos dinamico dalla fede teologale, vissuta come risposta, la quale<br />

tuttavia è resa possibile dallo stesso dono di grazia, dalla nuova condizione di figlio di Dio<br />

nel quale il battezzato è posto.<br />

58 DV, 2<br />

59 SC, 59.<br />

60 C. SCORDATO, Il sacramento della fede. Teoria e prassi nelle Chiese, in Ho Theologos 20(2002), 261.


40<br />

L‘antropologia teologale, partecipazione nella fede alla vita filiale di Cristo per il<br />

battesimo e il dono dello Spirito, realizza la vocazione dell‘uomo e la sua capax Dei,<br />

compiendo nella vita filiale, secondo la comunione e l‘imitazione del Figlio, il disegno di<br />

salvezza per ogni uomo. Per identificazione sacramentale il cristiano nel battesimo è<br />

iniziato alla vita che Cristo possiede in pienezza e che può donare a tutti coloro che<br />

credono in lui e lo amano. La sua natura di Figlio di Dio, manifestata nel mistero pasquale<br />

e comunicata nell‘effusione dello Spirito che dona la filiazione secondo il dinamismo<br />

pasquale della morte e resurrezione di Cristo, rende i battezzati partecipi della vita filiale<br />

che cambia il cuore e dona di vivere secondo la carità del Figlio, nel quale si manifesta<br />

l‘amore di Dio, l‘amore che è Dio. Resi figli nel Figlio i battezzati, partecipi della pasqua<br />

di Cristo, sono resi partecipi della natura divina (cfr. 2Pt 1, 4), non come alienazione del<br />

proprio essere-uomo, ma come suo compimento, come sua umanizzazione.<br />

La fede generata dalla rigenerazione battesimale è questa somiglianza di natura col<br />

Figlio, partecipazione, mediante il sacramento della sua umanità nella nostra umanità<br />

battezzata dall‘acqua e dallo Spirito. E‘ la fede teologale della partecipazione vivente alla<br />

vita di Cristo che nel battezzato diviene vita filiale, secondo la vocazione dell‘uomo ad<br />

essere immagine perfetta del Padre, riproducendo in se stesso, per imitazione e per intima<br />

assimilazione a Lui, l‘altra immagine increata che si riflette sul volto di Gesù Cristo.<br />

L‘etica determinata dalla fede teologale battesimale è la filiazione-deificazione,<br />

come vita del Figlio per il Padre, partecipazione filiale per «adozione battesimale» alla<br />

comunione trinitaria. ―L‘inabitazione di Dio, della Trinità redentiva che ci ricrea<br />

interiormente nel Cristo come filii in Filio, come figli del Padre, questo è lo splendore,<br />

vissuto coscientemente dalla fede, dal sacramento fruttuoso‖ 61 .<br />

Il rivestirsi di Cristo nel battesimo, l‘essere uniti a Lui, è unitariamente dono di<br />

fede-speranza-carità quali strutture dinamiche della vita in Cristo; se nel battesimo,<br />

secondo le formule liturgiche, insistiamo sulla struttura teologale della fede è perché questa<br />

esprime dal punto di vista dell‘adesione a Cristo l‘esistenza cristiana nella sua interezza. Il<br />

battesimo, realizzando la filiazione come deificazione, rende possibile e chiede la risposta<br />

della fede vissuta. Questa non si fonda solo sulla chiamata interiore, ma sulla situazione di<br />

novità di vita in cui il battezzato è posto, come persona «divinizzata» in cui è generata una<br />

sinergia divino-umana che è il fondamento cristico, sacramentalmente partecipato, della<br />

vita morale del cristiano.<br />

E‘ questa iniziativa e fonte divina, che suscita e chiede la collaborazione attiva e<br />

libera del battezzato e rende possibile la risposta della fedeltà filiale al dono teologale.<br />

3. La fedeltà alla fede teologale<br />

La fede, in quanto virtù infusa, è quel dinamismo ricevuto dal credente nel<br />

battesimo, che si sviluppa in tutta la sua esistenza, sia come tempo favorevole di<br />

salvezza e sia come pienezza di vita. La fede è virtù che plasma e informa la libertà per<br />

Dio, perché fondata sulla libertà e sul dono di Dio.<br />

Al dono della fede e alla libertà per la fede, segue l‘impegno di fedeltà alla fede,<br />

sia come conoscenza di tutti i contenuti della fede, sia come adesione personale sempre<br />

più totale e vitale nella relazione con Cristo. È la dimensione soggettiva della fede come<br />

virtù personale di fedeltà al dono della fede stessa. Ma la via della fedeltà alla fede, che<br />

possiamo considerare come «etica della fede», intesa come libertà nella fede e<br />

61 E. SCHILLEBEECKX, Cristo sacramento dell’incontro con Dio, Paoline, Roma 1960, 226.


esponsabilità per la fede, percorre anch‘essa i sentieri della fede assertiva e fiduciale,<br />

come fedeltà al credere Deo, credere Deum, credere in Deum.<br />

41<br />

3.1. Un’etica dell’obbedienza alla fede<br />

La fede è accogliere la testimonianza che Dio dà di sé e che si fonda sulla sua<br />

autorità; il credente, pertanto, accetta la verità della rivelazione perché Dio stesso ne è<br />

garante. E‘ ciò che abbiamo chiamato «credere Deo».<br />

L‘ascolto della fede si compie nell‘obbedienza della fede, perché la parola della<br />

fede è accolta come ―parola di Dio, che opera in voi che credete‖(1Ts 2, 13).<br />

Nell‘obbedienza la parola udita diventa una decisione per la libertà. ―L‘obbedienza non<br />

è altro che l‘udire, il quale ha progredito ed è divenuto efficace per la decisione, non è<br />

altro che l‘udire decisivo‖ 62 . Credere è obbedire, così che l‘incredulità è disobbedienza<br />

(cfr. Rm 11, 30; Ef 2, 2). Ma si può anche notare che obbedire è credere, perché per<br />

vivere la fede occorre un atto di obbedienza alla parola di Gesù e un rimanere<br />

nell‘obbedienza della fede. ―Chi giustifica la propria disubbidienza di fatto alla<br />

chiamata di Gesù con la propria fede o con la propria mancanza di fede, a lui Gesù dice:<br />

Prima ubbidisci, fa l‘opera esteriore, liberati da ciò che ti vincola, rinuncia a ciò che ti<br />

separa dalla volontà di Dio! Non dire: non ho la fede per farlo. Non l‘hai finché resti<br />

nella disubbidienza, finché non vuoi fare il primo passo. (…) Solo chi crede è<br />

ubbidiente – questo è detto all‘ubbidiente nel credente; solo chi ubbidisce crede –<br />

questo è detto al credente nell‘ubbidiente‖ 63 .<br />

―Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l‘anima e con tutte le<br />

forze‖(Deut 6,5). Il primo comandamento ci chiede di vivere e custodire l‘obbedienza<br />

della fede, perché sia autentica e vera, celebrata e vissuta in tutta l‘esistenza credente.<br />

Questo richiede una continua verifica e purificazione del dono della fede, insieme<br />

all‘impegno di nutrire la fede con la preghiera e i sacramenti, perché la fede operi per<br />

mezzo della carità (cfr. Gal 5, 6).<br />

3.1.1. Il dubbio di fede<br />

―Il dubbio volontario circa la fede trascura o rifiuta di ritenere per vero ciò che<br />

Dio ha rivelato e che la Chiesa ci propone a credere. Il dubbio involontario indica<br />

l'esitazione a credere, la difficoltà nel superare le obiezioni legate alla fede, oppure<br />

anche l'ansia causata dalla sua oscurità. Se viene deliberatamente coltivato, il dubbio<br />

può condurre all'accecamento dello spirito‖ 64 .<br />

Il dubbio di fede indica normalmente la difficoltà a comprendere il senso e il<br />

significato di alcune verità di fede. Talvolta il dubbio può nascere dalla difficoltà di<br />

conciliare verità scientifiche, modi di vivere e pensare, con la parola di Dio, specie in un<br />

contesto di pluralismo religioso e culturale.<br />

Il dubbio della fede in senso proprio è l‘atto libero e consapevole con cui il<br />

credente toglie l‘assenso della volontà alla fede o ad una verità di fede. Un tale dubbio<br />

diventa peccato nella misura in cui è un atto della volontà libero e consapevole. Il<br />

dubbio assume qualità di responsabilità imputabile alla persona quando il credente non<br />

si cura di trovare ragioni alla propria fede. La stessa responsabilità si ha quando la fede<br />

62 H. SCHLIER, Per la vita cristiana: fede, speranza, carità, Paideia, Brescia 1975, 33.<br />

63 D. BONHOEFFER, Sequela, Queriniana 1997, 54-55.<br />

64 CCC, 2088.


è ridotta ad una conoscenza caratterizzata dalla dimostrazione del cogito, quando il<br />

credente non cerca quella conoscenza che è possibile per mezzo dell‘obbedienza alla<br />

rivelazione di Dio, credibile per la ragione, non nell‘ordine della dimostrazione, ma<br />

secondo la verità di una fiducia e affidamento al Dio che parla e chiama alla comunione<br />

con sé.<br />

3.1.2. L’incredulità<br />

―L‘incredulità è la non curanza della verità o il rifiuto volontario di dare ad essa<br />

il proprio assenso‖ 65 .<br />

La fedeltà alla fede cammina per i sentieri del credere, in cui la prova e la fatica<br />

della fede sperimentano il fascino del non credere, del fermarsi nel cammino di una fede<br />

professata e ricevuta nei sacramenti della Chiesa. L‘abbandono della fede, spesso in<br />

seguito alla non curanza nella ricerca della verità e della fedeltà della fede alla vita, è la<br />

morte della fede e della comunione vivente con Dio, anche se rimane in ogni battezzato<br />

che perde il dono della fede la dignità di figlio di Dio e l‘amore di Dio che non smette di<br />

cercare i suoi figli. La gioia della fede, pur nelle prove che la fede deve affrontare,<br />

spesso non si accompagna a quella non credenza seria e pensosa che alle domande vere<br />

della vita sperimenta la sofferenza e la passione di non credere.<br />

Possiamo quindi anche parlare del non credente presente in ogni credente, in cui<br />

egli, chiamato ad interrogarsi sulla sua fede scava negli abissi del non credente che è in<br />

lui. Anche per il credente la fede rimane una chiamata alla libertà e una scelta libera e<br />

consapevole, che lo pone sempre sulla soglia , sfiorato dalla vertigine dell‘una o<br />

dell‘altra possibilità radicale. ―Il credente è in fondo un ateo che ogni giorno si sforza di<br />

cominciare a credere e — forse — il non credente, che soffre dell‘infinito dolore<br />

dell‘assenza di Dio, è un credente che ogni giorno di nuovo si sforza di cominciare a<br />

non credere. Se il credente non vivesse ogni giorno lo sforzo di cominciare a credere, la<br />

sua fede non sarebbe altro che una rassicurazione mondana, una delle ideologie che<br />

hanno ingannato il mondo e determinato l‘alienazione dell‘uomo. Contro ogni<br />

ideologia, la fede va concepita e vissuta come un continuo convertirsi a Dio, un<br />

continuo consegnargli il cuore, cominciando ogni giorno, in modo nuovo, a vivere la<br />

fatica di credere, di sperare, di amare: perciò la fede è preghiera, e chi non prega non<br />

vivrà di fede!‖ 66 .<br />

Da qui deriva l‘impegno e la responsabilità morale di vincere una certa<br />

negligenza della fede, una fede indolente, abitudinaria, fatta di intolleranza comoda<br />

verso la fatica di credere, che si difende condannando perché non sa vivere la sofferenza<br />

dell‘amore. A questo si deve aggiungere l‘impegno i una fede interrogante, anche<br />

dubbiosa, capace ogni giorno di cominciare a consegnarsi perdutamente all‘altro, per<br />

vivere ―il «sì» all‘incessante ricerca del Volto nascosto, del Silenzio al di là della<br />

Parola, e della Parola crocifissa dove il Silenzio si apre accogliente alla ricerca del<br />

cuore‖ 67 .<br />

Dostoevskij scrisse un giorno nei suoi appunti: «Sono un figlio del dubbio e<br />

dell‘incredulità. Quale terribile sofferenza mi è costata e mi costa questa sete di credere,<br />

che è tanto più forte nella mia anima quanto sono più numerosi gli argomenti contrari<br />

… È attraverso il crogiuolo del dubbio che è passato il mio ‗osanna‘» Nonostante ciò<br />

Dostoevskij poteva continuare: «Non c‘è niente di più bello, di più profondo, di più<br />

65 CCC, 2089.<br />

66 B. FORTE, L’essenza del cristianesimo, Mondatori, Milano 2002, 104-105.<br />

67 Ibidem, 105.<br />

42


perfetto che il Cristo; e non solo non c‘è niente, ma non può esserci niente». Quando<br />

quest‘uomo di Dio lascia trasparire che in lui il non-credente convive con il credente, il<br />

suo amore appassionato per Cristo non è tuttavia intaccato.<br />

43<br />

3.1.3. L’impegno nell’ascolto della Parola<br />

―Per vivere, crescere e perseverare nella fede sino alla fine, dobbiamo nutrirla<br />

con la Parola di Dio‖ 68 .<br />

Se la fede nasce dall‘ascolto, il pericolo più grave per un credente diventa il non<br />

ascoltare, il non avere come metodologia di vita cristiana l‘ascolto. La fede, generata<br />

dall‘ex auditu, si nutre dell‘ascolto penetrante della Parola, per superare i dubbi, vincere<br />

le paure, sostenere la lotta. La Chiesa ci fa dire ogni mattina nella Liturgia delle Ore:<br />

―Ascoltate oggi la sua voce, non indurite il vostro cuore‖. La Parola ha una sua carica<br />

intrinseca; è presentata, descritta come parola creatrice; è una Parola salvifica capace di<br />

risanare, rinnovare l‘uomo. E‘ una Parola fedele, veritiera, perché Dio non può mutare:<br />

la tua Parola, Signore, è stabile come il cielo (Salmo 188).<br />

―Insieme con la sacra Tradizione, (la Chiesa) ha sempre considerato e considera le<br />

divine Scritture come la regola suprema della propria fede; esse infatti, ispirate come<br />

sono da Dio e redatte una volta per sempre, comunicano immutabilmente la parola di<br />

Dio stesso e fanno risuonare nelle parole dei profeti e degli apostoli la voce dello Spirito<br />

Santo. È necessario dunque che la predicazione ecclesiastica, come la stessa religione<br />

cristiana, sia nutrita e regolata dalla sacra Scrittura. Nei libri sacri, infatti, il Padre che è<br />

nei cieli viene con molta amorevolezza incontro ai suoi figli ed entra in conversazione<br />

con essi; nella parola di Dio poi è insita tanta efficacia e potenza, da essere sostegno e<br />

vigore della Chiesa, e per i figli della Chiesa la forza della loro fede, il nutrimento<br />

dell'anima, la sorgente pura e perenne della vita spirituale‖ 69 .<br />

Un etica dell‘obbedienza alla fede, che supera il dubbio e l‘incredulità, porta in<br />

sé l‘impegno attivo dell‘obbedienza alla Parola, per mezzo dell‘ascolto e attraverso il<br />

dialogo della preghiera. La fede come obbedienza, domanda al credente di avere gli<br />

stessi sentimenti di Cristo e l‘intelligenza spirituale che si nutre dello Spirito presente<br />

nelle Scritture.<br />

3.2. Un’etica della fedeltà alla fede.<br />

Abbiamo visto come l‘espressione «credere Deum» faccia riferimento al<br />

contenuto della fede, a ciò che viene creduto ed è espresso nel «credo» della Chiesa, nel<br />

«simbolo» apostolico. Per la struttura sacramentale della storia salvifica e secondo la<br />

struttura sacramentale dell‘uomo, Dio si rivela e chiama ogni uomo alla comunione con<br />

lui per mezzo di parole e gesti, e così il credente vive la comunione con Dio mediante<br />

parole e gesti. Proprio perché Dio ci ama e si rivela a noi, invitandoci alla comunione<br />

con lui, il primo simbolo della fede è la fede stessa, secondo la definizione che la<br />

tradizione ha dato del Credo niceno-costantinopolitano, professandolo nella sua forma<br />

più antica come «simbolo apostolico». Così la fede professata è il primo simbolo della<br />

fede cristiana, il gesto della libertà che accoglie il dono della salvezza nella pasqua di<br />

Cristo.<br />

68 CCC, 162.<br />

69 DV, 21.


Il Credo è la professione pubblica della fede come risposta ad una Parola<br />

rivelata, annunciata dalla Chiesa. Questa confessio fidei, che ha una struttura trinitaria e<br />

accoglie la rivelazione storico-salvifica della salvezza in Cristo, è pronunciata dal<br />

credente perché la riconosce come «simbolo» della sua risposta alla domanda di senso,<br />

simbolicamente contenuta nel suo agire. La sua professio fidei è simbolo perché è la sua<br />

risposta attraverso l‘«Amen» della fede e manifesta il nucleo del simbolo quale<br />

incontro, riconoscimento, dialogo e comunione. ―Nella designazione della professione<br />

di fede come simbolo, si ha al contempo una profonda spiegazione della sua vera natura.<br />

In effetti, è proprio questo il senso primordiale delle formulazioni dogmatiche avutesi<br />

nella chiesa: agevolare l‘unanime riconoscimento di Dio, facilitare l‘adorazione<br />

comune. Nella sua qualità di simbolo, la professione di fede ora richiama l‘altro, addita<br />

l‘unione degli spiriti nell‘unica parola‖ 70 . Ma l‘espressione simbolica del Credo è<br />

possibile per il simbolo che è la Parola di Dio, rivelazione del mysterion salvifico di<br />

Dio. ―Con questa rivelazione infatti Dio invisibile (cfr Col 1, 15; 1 Tim 1, 17) nel suo<br />

grande amore parla agli uomini come ad amici (cfr. Es 33, 11; Gv 15, 14-15) e si<br />

intrattiene con essi (cfr. Bar 3, 38), per invitarli ed ammetterli alla comunione con sé‖ 71 .<br />

Questo chiede la verità del simbolo della fede, per poter vivere il riconoscimento<br />

della verità salvifica della fede. Così la fedeltà alla fede, la verità del «credere Deum»,<br />

diventa impegno e verifica della conoscenza e professione della fede, che non può<br />

essere né falsa, né parziale, ma custodita in tutta la sua integrità, prendendosi cura della<br />

sua crescita e della sua simbolica esistenziale.<br />

Considerando questo impegno di autenticità e fedeltà alla fede si devono<br />

considerare alcuni atteggiamenti e scelte che rappresentano un‘infedeltà al dono di fede,<br />

come è contenuto nel simbolo della fede professata.<br />

3.2.1. La superstizione<br />

―La superstizione è la deviazione del sentimento religioso e delle pratiche che<br />

esso impone. Può anche presentarsi mascherata sotto il culto che rendiamo al vero Dio,<br />

per esempio, quando si attribuisce un'importanza in qualche misura magica a certe<br />

pratiche, peraltro legittime o necessarie. Attribuire alla sola materialità delle preghiere o<br />

dei segni sacramentali la loro efficacia, prescindendo dalle disposizioni interiori che<br />

richiedono, è cadere nella superstizione‖ 72 .<br />

La superstizione si presenta come un insieme di comportamenti il cui carattere<br />

immediato è quello di una sospensione della razionalità, affidandosi all‘efficacia utopica<br />

dell‘irrazionale. Così possiamo definire le pratiche superstiziose come schegge<br />

irrazionali di una fede che ha perso la sua identità. Dal punto di vista psicologico, la<br />

superstizione rivela il mondo delle paure inconsce della persona di fronte al futuro, alla<br />

malattia o a rischi imminenti. Assume forme svariate, quali l‘invocazione dei morti, gli<br />

scongiuri davanti a simboli visti come pericolo imminente, l‘uso di oggetti o simboli<br />

che proteggono contro pericoli per il futuro.<br />

Quando le forme di superstizione non incidono profondamente nel rapporto con Dio e<br />

nella serenità dei rapporti con gli altri, si parla di vana osservanza, cioè di gesti che<br />

rivelano la credulità o superficialità della fede. In genere si può affermare che la<br />

superstizione agisce quasi come un surrogato e quindi si esprime spesso insieme alla<br />

70 J. RATZINGER, Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia 1969, 62.<br />

71 DV, 2.<br />

72 CCC, 2111.<br />

44


fede, accompagnandosi con riti, scongiuri e gesti misteriosi, il normale esprimersi degli<br />

atteggiamenti di fede.<br />

Per quanto riguarda la valutazione morale della superstizione, questa può<br />

rimanere ai margini e quindi non presentarsi contro la fede, ma accanto a questa come<br />

nel caso di chi legge l‘oroscopo. Ma può anche essere contro la fede, quando si<br />

attribuiscono energie sovrumane, o addirittura divine, a gesti, riti, preghiere, scongiuri.<br />

In questo caso il vissuto religioso va contro la ragione e la fede nella potenza di Dio,<br />

insieme al tentativo di guadagnarsi la salvezza. Questo atteggiamento è unito,<br />

facilmente, ad una immagine di un Dio giudice e ad una immagine colpevolizzante di se<br />

stessi davanti a Dio.<br />

L‘atteggiamento di fede consiste nel rendere a Dio l‘adorazione e l‘obbedienza<br />

che gli sono dovute in modo adeguato, mentre la superstizione (da «super-stare»)<br />

consiste nel prestare culto divino a chi non è dovuto o nel modo sbagliato. Il che<br />

stravolge le finalità della vera religiosità, che tende invece a lasciarsi istruire dalla<br />

sapienza di Dio per poter fare la sua volontà.<br />

La superstizione, che consiste nel prestare onori divini a una creatura o<br />

nell‘onorare Dio in modo sbagliato, si esprime in modo evidente nella scaramanzia, con<br />

la quale si vuole favorire la buona sorte o allontanare dai guai. C‘è chi si preoccupa<br />

eccessivamente se qualche appuntamento importante va a cadere proprio di venerdì 17;<br />

chi fa di tutto per evitare strette di mano incrociate, o tocca ferro se si sente parlare di<br />

qualche ipotetica sventura; chi, ricevendo una lettera con l‘ordine perentorio di<br />

rispedirla moltiplicata in un certo numero di copie, pena l‘incorrere in gravi sciagure se<br />

spezzerà la catena, ma con la promessa di grandi benefici se la continuerà, accetta di<br />

perpetuare le cosiddette catene di Sant‘Antonio. Superstizione è anche attribuire alla<br />

sola materialità delle preghiere o dei segni sacramentali la loro efficacia, prescindendo<br />

dalle disposizioni interiori che richiedono. Un culto falso a Dio consiste nell‘inventare<br />

miracoli, visioni, rivelazioni, nel produrre reliquie false; mentre un culto vano a Dio<br />

consiste nell‘aggiungere alle funzioni liturgiche cerimonie speciali o nell‘introdurre<br />

devozioni strane.<br />

Ma il cristiano non grida con superbia attraverso formule, scongiuri e false<br />

preghiere: «sia fatta la mia volontà», ma si rivolge a Dio con le parole che Gesù stesso<br />

gli ha insegnato, chiedendo che: «sia fatta la tua volontà». Occorre abbandonarsi con<br />

fiducia nelle mani della Provvidenza per ciò che concerne il futuro e fuggire da ogni<br />

curiosità malsana.<br />

Non è opportuno chiedersi se una determinata pratica funziona o non funziona,<br />

ma se è moralmente lecita o no. La nostra vita è interamente nelle nostre mani, che,<br />

unite a quelle di Dio, edificano in piena libertà, oggi il nostro presente e domani il<br />

nostro avvenire. A proposito di oroscopi si osservi che a distanza di giorni la stessa<br />

fonte dà risposte diverse e fonti diverse danno lo stesso giorno risposte inconciliabili, e<br />

che mettendo a confronto diverse risposte della stessa fonte o di fonti diverse appare la<br />

genericità del linguaggio. Questo prova la vacuità di tutto il discorso, con la<br />

conseguenza che questi atteggiamenti spingono a trascurare la libertà e quindi la<br />

responsabilità delle persone coinvolte.<br />

3.2.2. L’idolatria<br />

A una creatura si presta culto divino onorandola come Dio (idolatria) o<br />

attribuendoli poteri che non ha (divinazione e magia). L‘idolatria o adorazione di<br />

un‘immagine consiste dunque nell‘adorare qualcuno o qualcosa che non sia Dio. Si<br />

45


pensi al mondo della gnosi che dissemina l‘universo di forze di natura divina tra il<br />

mondo materiale e quello divino.<br />

―La Scrittura costantemente richiama a questo rifiuto degli idoli che sono<br />

«argento e oro, opera delle mani dell'uomo», i quali «hanno bocca e non parlano, hanno<br />

occhi e non vedono...». Questi idoli vani rendono l'uomo vano: «Sia come loro chi li<br />

fabbrica e chiunque in essi confida» (Sal 115,4-5.8).62 Dio, al contrario, è il «Dio<br />

vivente» (Gs 3,10),63 che fa vivere e interviene nella storia‖ 73 . L‘idolo altro non è che<br />

un‘«opera delle mani dell‘uomo», un prodotto dei desideri umani; è quindi impotente a<br />

superare i limiti creaturali. Esso ha, sì, una forma umana con bocca, occhi, orecchi,<br />

gola, ma è inerte, senza vita, come accade appunto a una statua inanimata (cfr Sal<br />

113B,4-8).<br />

L'idolatria rimane una costante tentazione della fede, nel tentativo dell‘uomo di<br />

materializzare il suo Dio e sotto la spinta di voler manipolare e usare «un» Dio al<br />

proprio servizio. ―C'è idolatria quando l'uomo onora e riverisce una creatura al posto di<br />

Dio, si tratti degli dèi o dei demoni (per esempio il satanismo), del potere, del piacere,<br />

della razza, degli antenati, dello Stato, del denaro, ecc. «Non potete servire a Dio e a<br />

mammona», dice Gesù (Mt 6,24). Numerosi martiri sono morti per non adorare «la<br />

Bestia», rifiutando perfino di simularne il culto. L'idolatria respinge l'unica Signoria di<br />

Dio; perciò è incompatibile con la comunione divina‖ 74 .<br />

Il destino di chi adora queste realtà morte è di diventare simile ad esse,<br />

impotente, fragile, inerte. ―In effetti – credetelo, fratelli – si incide in loro una certa<br />

somiglianza con i loro idoli: non certo nel loro corpo, ma nel loro uomo interiore. Essi<br />

hanno orecchi, ma non odono quanto Dio loro grida: "Chi ha orecchi per intendere,<br />

intenda". Hanno occhi ma non vedono: hanno cioè gli occhi del corpo, ma non l‘occhio<br />

della fede». E allo stesso modo, «hanno narici ma non percepiscono odori. Non sono in<br />

grado di percepire quell‘odore di cui l‘Apostolo dice: Siamo il buon odore di Cristo in<br />

ogni luogo (cfr 2Cor 2,15). Che vantaggio è per loro avere le narici, se con esse non<br />

riescono a respirare il soave profumo di Cristo?‖ 75 .<br />

In senso analogico, quindi, si può parlare di idolatria in riferimento a quel<br />

atteggiamento o comportamento di chi tratta come un assoluto, quasi fosse il suo Dio,<br />

un valore o un bene terreno, che prende materialmente, anche se non dichiaratamente, il<br />

posto di Dio e la fiducia in lui.<br />

3.2.3. Magia e la divinazione.<br />

3.2.3.1. La magia e le sue forme<br />

Occorre considerare in primo luogo che esiste una fondamentale distinzione fra<br />

religione e magia. 76 La distinzione deriva dal diverso modo con cui le due esperienze si<br />

rapportano al trascendente: la religione dice riferimento diretto a Dio e alla sua azione,<br />

tanto che non esiste e non può esistere esperienza religiosa senza un tale riferimento; la<br />

magia implica una visione dei mondo che crede all‘esistenza di forze occulte che<br />

influiscono sulla vita dell‘uomo e sulle quali l‘operatore (o il fruitore) di magia pensa di<br />

poter esercitare un controllo mediante pratiche rituali capaci di produrre<br />

automaticamente degli effetti; il ricorso alla divinità - quando c‘è - è funzionale,<br />

subordinato a queste forze e agli effetti voluti. La magia non ammette infatti alcun<br />

46<br />

73 CCC, 2112.<br />

74 CCC, 2113.<br />

75 S. AGOSTINO, Esposizione sul salmo 134, 24-25, Città Nuova, Roma 1977, 375.<br />

76 Cfr. "A proposito di magia e demonologia", Nota Pastorale della Conferenza Episcopale Toscana, 1-06-<br />

1994.


potere superiore a sé; essa ritiene di poter costringere gli stessi «spiriti» o «demoni»<br />

evocati a manifestarsi e a compiere ciò che essa richiede. Anche oggi chi ricorre alla<br />

magia non pensa anzitutto di riferirsi a Dio, ma piuttosto a forze occulte impersonali,<br />

sovrumane e sovramondane, imperanti sulla vita del cosmo e dell‘uomo. Da queste<br />

forze ritiene di difendersi con il ricorso a gesti di scongiuro e ad amuleti, o presume di<br />

carpirne i benefici con formule di incantesimo, filtri o azioni collegate agli astri, al<br />

creato o alla vita umana.<br />

Rientra in questo contesto il carattere produttivo dell‘azione magica, la quale<br />

non ammette - una volta posta in atto secondo le modalità richieste - alcuna possibilità<br />

di fallimento. Questo può avvenire in varie forme. C‘è la magia imitativa, secondo la<br />

quale il simile produce il simile: il versare dell‘acqua per terra porterà la pioggia, il<br />

trafiggere gli occhi di un pupazzo accecherà o farà morire la persona da esso<br />

rappresentata. C‘è la magia contagiosa, in base a cui il contiguo agisce sul contiguo o<br />

una parte sul tutto, al punto che è sufficiente mettere in contatto due realtà, animate o<br />

inanimate, perché una forza benefica o malefica si trasmetta dall‘una all‘altra: così il<br />

«toccare ferro» o il «gettare del sale» terrà lontano da influssi negativi o da iettature in<br />

relazione a virtù speciali affidate a questi elementi. Esiste, infine, la magia incantatrice,<br />

la quale attribuisce un potere particolare a formule o azioni simboliche, ritenute capaci<br />

di produrre degli effetti evocati o da esse indicati.<br />

Il pensiero magico si caratterizza per due attitudini essenziali: il sentimento dei<br />

desiderio di ottenere qualcosa che non si possiede o il sentimento della paura che spinge<br />

a pensare di porre dei poteri occulti al proprio servizio, e la netta separazione tra rito e<br />

vita.<br />

Per poter rispondere a queste istanze, la magia attiva dei rituali cui attribuisce<br />

un‘efficacia diretta in ordine al conseguimento dell‘effetto inteso o sollecitato dal<br />

desiderio. L‘operatività di questi rituali non ha alcun rapporto, nella percezione del<br />

soggetto, con il suo atteggiamento etico e con le sue opzioni esistenziali. La magia non<br />

implica per sé alcun legame con le scelte morali della persona e con i suoi doveri: un<br />

individuo può tenere un comportamento riprovevole o vivere in situazioni di colpa, di<br />

egoismo o di odio, ma niente di tutto questo, almeno in linea di principio, potrà essere di<br />

impedimento perché il rituale magico esattamente osservato o instancabilmente ripetuto<br />

produca gli effetti che gli sono attribuiti.<br />

Nonostante la distanza fra religione e magia, soggettivamente si possono creare<br />

delle sovrapposizioni e perfino delle collusioni. Proprio perché l‘origine della magia<br />

non sta nella ragione, ma nel sentimento, anche nel credente si può verificare una<br />

dissociazione dello stesso tipo: con la ragione egli è consapevole di porre in atto dei<br />

gesti cristiani nei quali sa che opera Dio e la sua grazia, ma sul piano dei sentimento ciò<br />

che sta funzionando in lui può essere un‘attitudine di tipo magico, legata solo al<br />

desiderio di ottenere qualcosa o di sfuggire ad una forza impersonale di cui ha paura.<br />

Tradizionalmente si è soliti distinguere tra magia «bianca» e magia «nera». La<br />

distinzione ha un suo significato, specialmente per il diverso livello di responsabilità<br />

morale a cui rimanda.<br />

Per magia «bianca» si intendono, normalmente, forme di intervento che<br />

presumono di mirare a scopi, sia pure benefici come il ripristino di un rapporto di<br />

amore, la guarigione da una malattia, la risoluzione di problemi economici e così via,<br />

ma con il ricorso all‘uso di mezzi inadeguati come talismani e amuleti, portafortuna e<br />

filtri, credenze in combinazioni di carte, persone o eventi, oppure con il riferimento a<br />

pratiche mediche centrate su arti occulte o poteri «sovrumani».<br />

Più grave è la magia «nera». Essa si richiama, in modo diretto o indiretto, a<br />

poteri diabolici o comunque presume di agire sotto un qualche loro influsso. Di norma,<br />

47


la magia «nera» è indirizzata a scopi malefici (procurare malattie, disgrazie, morte) o ad<br />

influenzare il corso degli eventi a propria utilità, specialmente per conseguirne vantaggi<br />

personali come onori, ricchezze o altro. Si chiama magia «nera» per i metodi a cui<br />

ricorre e per i fini che persegue. Questa forma di magia è una vera e propria espressione<br />

di anticulto, indirizzata a far diventare i suoi adepti «servi di satana». Rientrano in essa<br />

tutti quei riti esoterici, a sfondo satanico, che hanno il loro apice nelle cosiddette messe<br />

nere.<br />

3.2.3.2. Divinazione e spiritismo<br />

Alla magia, di entrambe le forme, si collega la divinazione: una pratica che in<br />

senso stretto costituisce un tentativo di voler predire il futuro in base a segni tratti dal<br />

mondo della natura o in rapporto all‘interpretazione di presagi o sorti di diverso genere;<br />

in senso più largo, specie fra la gente più semplice, rappresenta un misto di credulità e<br />

di ingenue intenzioni indirizzate a conoscere in anticipo, con l‘uso di particolari mezzi o<br />

arti, qualche fatto che dovrà accadere.<br />

Fanno parte della divinazione, l‘astrologia (presumere di individuare il futuro<br />

libero degli uomini negli astri o nell‘ordinamento delle stelle), la cartomanzia (il farsi<br />

predire l‘avvenire con le carte, i cosiddetti «tarocchi»), la chiromanzia (decifrazione<br />

delle linee della mano) e forme simili. La peggiore e più grave espressione di<br />

divinazione è la necromanzia o spiritismo, ossia il ricorso agli spiriti dei morti per<br />

entrare in contatto con loro e svelare il futuro o qualche suo aspetto. Le sedute spiritiche<br />

appartengono a questo genere di magia. In tali sedute i partecipanti e i medium si<br />

prodigano nell‘invocazione delle anime dei defunti (ad esempio presunte registrazioni di<br />

voci dall‘oltretomba); in realtà essi introducono una forma di alienazione dal presente e<br />

operano una mistificazione della fede nell‘aldilà, generalmente con trucchi, agendo di<br />

fatto come strumenti di forze del male che li usano spesso per fini distruttivi, orientati a<br />

confondere l‘uomo e ad allontanarlo da Dio.<br />

Interagiscono con questi differenti tipi di divinazione i molteplici gruppi<br />

esoterici e occultisti di antica origine o di recente nascita (dalla teosofia all‘antroposofia<br />

fino alla New age) che presumono di «aprire una porta» per far entrare nella conoscenza<br />

di verità nascoste ed acquisire poteri spirituali speciali. Questi gruppi si presentano<br />

come «vie di salvezza» (di qui il loro carattere segreto, i rituali posti in atto e il ricorso<br />

alla figura di un leader dotato di poteri eccezionali), talvolta impiegando il nome stesso<br />

di Gesù Cristo o facendo ricorso a riti che vorrebbero essere «sacramentali».<br />

48<br />

3.2.3.3. Giudizio etico su magia e divinazione<br />

Costante e inequivocabile è stata la condanna della Chiesa sulla magia, in linea<br />

con quanto insegna la Sacra Scrittura. È nota l‘estrema durezza dell‘Antico Testamento<br />

contro chi pratica la magia (Es 22,17; Lv 20,27). La ragione di tanta severità risiede nel<br />

fatto che la magia è un rifiuto del vero e unico Dio. ―Non vi rivolgete ai negromanti nè<br />

agli indovini; non li consultate... Io sono il Signore, vostro Dio‖(Lv 19,31). ―Se un<br />

uomo si rivolge ai negromanti e agli indovini per darsi alle superstizioni dietro a loro, io<br />

volgerò la faccia contro quella persona... perché io sono il Signore, vostro Dio‖(Lv<br />

20,6-7). La magia, nella visione biblica, rappresenta un atto di apostasia dal Signore,<br />

unico salvatore dei suo popolo (Dt 13,6), ed equivale ad un gesto di ribellione nei<br />

confronti di Dio e della sua parola (1 Sam 15,23). ―Io, io sono il Signore, fuori di me<br />

non v‘è salvatore. Io ho proclamato in anticipo e ho salvato‖(Is 43,11-12). Altro è la<br />

profezia, annunciatrice della salvezza del Signore, altro i presagi degli indovini e dei


maghi, portatori di falsità e di inganno (Ger 27,9; 29,8; Is 44,25; 47,12-15). Darsi alla<br />

magia è come consegnarsi alla prostituzione. «Il mio popolo consulta il suo pezzo di<br />

legno e il suo bastone gli dà il responso, poiché uno spirito di prostituzione li svia, e si<br />

prostituiscono allontanandosi dal loro Dio» (Os 4,12; Is 2,6; 3,2-3).<br />

Il Libro della Sapienza rileva ironicamente come i riti magici, anziché salvare,<br />

conducano ad una situazione addirittura peggiore. ―Fallivano i ritrovati della magia e la<br />

loro baldanzosa pretesa di sapienza. I maghi promettevano di cacciare timore e<br />

inquietudine dall‘anima malata, e cadevano malati per uno spavento ridicolo‖(Sap 17,7-<br />

8).<br />

Il Nuovo Testamento si situa nella stessa linea quando, nel richiedere la fede<br />

nell‘unico Signore Gesù e il battesimo nel suo nome, esige il rifiuto di ogni mentalità e<br />

comportamento magici (At 8,9-13; 19,18-20). Sussiste, infatti, una netta opposizione tra<br />

l‘annuncio della fede e la magia (At 13,6-12; 16,16-24). I veri credenti sono chiamati ad<br />

affidarsi all‘unico profeta, il Signore Gesù, Figlio prediletto del Padre (Mc 1,11) e alle<br />

Sacre Scritture donate dallo Spirito alla sua Chiesa (2 Pt 1,16-21). La «stregoneria», in<br />

qualunque forma si manifesti, fa parte delle opere che estromettono dall‘eredità del<br />

Regno di Dio (Gal 5,20), tanto che l‘Apocalisse esclude dalla Gerusalemme celeste i<br />

«menzogneri» e «fattucchieri» di qualsiasi genere (Ap 9,21; 18,23; 21,8; 22,15).<br />

La magia infatti sostituisce Dio con delle creature e rappresenta una ripresa di<br />

quella tentazione diabolica a cui Gesù stesso si è voluto sottoporre, vincendola: «Il<br />

diavolo.., gli disse: ―Ti darò tutta questa potenza e la gloria di questi regni... Se ti prostri<br />

dinanzi a me, tutto sarò tuo‖. Gesù gli rispose: ―Sta scritto: Solo al Signore Dio tuo ti<br />

prostrerai, lui solo adorerai‖» (Lc 4,6-8).<br />

―Tutte le forme di divinazione sono da respingere: ricorso a Satana o ai demoni,<br />

evocazione dei morti o altre pratiche che a torto si ritiene che «svelino» l'avvenire. La<br />

consultazione degli oroscopi, l'astrologia, la chiromanzia, l'interpretazione dei presagi e<br />

delle sorti, i fenomeni di veggenza, il ricorso ai medium manifestano una volontà di<br />

dominio sul tempo, sulla storia ed infine sugli uomini ed insieme un desiderio di<br />

rendersi propizie le potenze nascoste. Sono in contraddizione con l'onore e il rispetto,<br />

congiunto a timore amante, che dobbiamo a Dio solo‖ 77 .<br />

―Tutte le pratiche di magia e di stregoneria con le quali si pretende di<br />

sottomettere le potenze occulte per porle al proprio servizio ed ottenere un potere<br />

soprannaturale sul prossimo – fosse anche per procurargli la salute – sono gravemente<br />

contrarie alla virtù della religione. Tali pratiche sono ancora più da condannare quando<br />

si accompagnano ad una intenzione di nuocere ad altri o quando in esse si ricorre<br />

all'intervento dei demoni. Anche portare amuleti è biasimevole. Lo spiritismo spesso<br />

implica pratiche divinatorie o magiche. Pure da esso la Chiesa mette in guardia i<br />

fedeli‖ 78 .<br />

Il cristiano non può accettare la magia perché non può tradire la fede nel vero<br />

Dio con quella in false credulità. Allo stesso modo non può accettare di ritenere che la<br />

sua vita sia dominata da forze occulte manipolabili a piacimento con riti magici o che il<br />

suo futuro sia scritto in anticipo nei movimenti stellari o in altre forme di presagio.<br />

―Riconoscendosi chiamato da Dio a vivere la propria esistenza come risposta<br />

libera al suo progetto di amore nell‘accoglienza della grazia, il battezzato rifiuta ogni<br />

forma di pratiche magiche nella misura stessa in cui esse costituiscono una deviazione<br />

dalla verità rivelata, sono contrarie alla fede in Dio Creatore e al culto esclusivo che gli<br />

è dovuto, opposte al riconoscimento di Gesù Cristo come unico Redentore dell‘uomo e<br />

77 CCC, 2116.<br />

78 CCC, 2117.<br />

49


del mondo e al dono del suo Spirito, e quindi si pongono in contrapposizione con<br />

l‘integrità della professione credente e pericolose per la salvezza‖ 79 .<br />

Per essere fedeli al dono della fede ed evitare derive magiche o l‘attrazione<br />

dell‘occultismo occorre ritornare al dono del Battesimo al dono della fede teologale. Nel<br />

rito del Battesimo abbiamo da una parte il "si" al Signore e alla sua legge, e dall'altra il<br />

"no" a satana. In tempi passati ci si voltava verso l'oriente per dire "si" al Signore e<br />

verso l'occidente per dire "no" alle seduzioni del diavolo. Con questo rito, nato in tempi<br />

in cui, come accade oggi, la Chiesa era circondata e attaccata dalle pratiche occulte, si<br />

capisce la diversità inconciliabile di questi due comportamenti. Il credente dice "si" al<br />

cammino del Signore e questo implica che dica il suo "no" alle pratiche magiche.<br />

50<br />

3.3. Un’etica della testimonianza della fede.<br />

La fede ha un valore dinamico e una dimensione interpersonale. Poiché credere<br />

in Dio significa, anzitutto, credere a una persona, questo comporta il desiderio, non solo<br />

di conoscerla, ma di entrare in un rapporto di amore e di comunione con Dio in Cristo,<br />

nella potenza dello Spirito.<br />

L‘autenticità della vita in Cristo, partecipazione alla vita teologale per mezzo<br />

della fede e dei sacramenti, domanda la testimonianza della fede, la sua manifestazione<br />

e visibilità celebrativa e testimoniale.<br />

3.3.1. Professare la fede: fede e liturgia<br />

La celebrazione liturgica è incontro, dialogo, comunione tra Cristo risorto, che in<br />

essa è presente e agisce per donare lo Spirito, e la Chiesa sua sposa. ―La liturgia è il<br />

culmine verso cui tende l'azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana<br />

tutta la sua energia. Il lavoro apostolico, infatti, è ordinato a che tutti, diventati figli di<br />

Dio mediante la fede e il battesimo, si riuniscano in assemblea, lodino Dio nella Chiesa,<br />

prendano parte al sacrificio e alla mensa del Signore. A sua volta, la liturgia spinge i<br />

fedeli, nutriti dei «sacramenti pasquali», a vivere «in perfetta unione»; prega affinché<br />

«esprimano nella vita quanto hanno ricevuto mediante la fede»‖ 80 .<br />

Nella celebrazione dei divini misteri, scuola di fede e di vita cristiana, la Chiesa<br />

si manifesta e si edifica come ―popolo adunato nell‘unità del Padre, del Figlio e dello<br />

Spirito Santo‖ 81 ed è spinta dallo stesso Spirito ad andare nel mondo per annunciare a<br />

tutti gli uomini che solo in Cristo, morto e risorto, è possibile essere salvati. ―Se<br />

confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo<br />

ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia<br />

e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza‖(Rom 10, 9-10).<br />

La confessione della fede trova il suo giusto posto nella celebrazione liturgica.<br />

La grazia, frutto dei sacramenti, è la condizione insostituibile dell'agire cristiano, così<br />

come la partecipazione alla liturgia della Chiesa richiede la fede.<br />

La fedeltà al dono della fede chiede di crescere nell‘obbedienza alla Parola<br />

mediante la professio fidei, che la celebrazione liturgica rinnova e alimenta. Così la<br />

celebrazione domenicale dell‘eucaristia celebra la risposta al dono della Parola mediante<br />

al professione pubblica della fede. In particolare la liturgia del triduo pasquale celebra<br />

79 "A proposito di magia e demonologia", 12.<br />

80 SC, 10.<br />

81 LG, 4.


nella liturgia battesimale della veglia pasquale la rinnovazione delle promesse<br />

battesimali. Il Credo è la professione pubblica della fede come risposta ad una Parola<br />

rivelata, annunciata dalla Chiesa.<br />

Questa confessio fidei, che ha una struttura trinitaria e accoglie la rivelazione<br />

storico-salvifica della salvezza in Cristo, è pronunciata dal credente perché la riconosce<br />

come «simbolo» della sua risposta alla domanda di senso, simbolicamente contenuta nel<br />

suo agire. La sua professio fidei è simbolo perché è la sua risposta attraverso l‘«Amen»<br />

della fede e manifesta il nucleo del simbolo quale incontro, riconoscimento, dialogo e<br />

comunione. Per il credente la professio fidei nella celebrazione liturgica è impegno e<br />

necessità per poter celebrare la confessione della fede nella vita e la redditio symboli<br />

nell‘offerta la Padre della propria vita di fede.<br />

La fede, comunione vitale col Signore Risorto è accoglienza e scelta del dono di<br />

Dio da rinnovare continuamente, secondo la logica della relazione, che pubblicamente<br />

deve essere riconosciuta e proclamata. Quindi non solo è necessario la cura<br />

dell‘integrità e verità della fede professata, ma l‘etica della fede come fedeltà richiede<br />

che la fede venga continuamente professata e celebrata come dialogo sempre nuovo col<br />

Signore Risorto.<br />

51<br />

3.3.2. Confessare la fede: l’annuncio e il martirio<br />

Dal momento che tutta quanta la Chiesa è per sua natura missionaria e che<br />

l‘opera di evangelizzazione è dovere fondamentale del popolo di Dio, tutti i fedeli sono<br />

chiamati ad assumere la propria parte nell‘opera missionaria. Etica di fedeltà alla fede è<br />

corrispondere la mandato di Cristo di annunciare il vangelo ad ogni creatura: ―Andate e<br />

ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello<br />

Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato‖(Mt 28, 19-<br />

20). Nell‘elencare gli obblighi e i diritti di tutti i fedeli, il Codice afferma: ―Tutti i fedeli<br />

hanno il dovere e il diritto di impegnarsi perché l‘annuncio divino della salvezza si<br />

diffonda sempre più fra gli uomini di ogni tempo e di ogni luogo‖ 82 . Per<br />

l‘evangelizzazione rimane sempre indispensabile la comunicazione interpersonale da<br />

parte di un credente nei confronti di un non credente, anche se occorre ricordare che,<br />

essendo fatto in comunione e a nome dell‘intera comunità ecclesiale, l‘annuncio non è<br />

mai un atto esclusivamente individuale: tutta la Chiesa ne è coinvolta.<br />

Per il credente, non è necessaria alcuna forma di investitura particolare che vada<br />

al di là dei sacramenti dell‘iniziazione cristiana, né di alcuna delega speciale, né di<br />

alcuna competenza specifica per comunicare il Vangelo nella vita ordinaria perchè<br />

l‘impegno dell‘evangelizzazione non è riservato ad alcuni ―specialisti‖, ma è proprio di<br />

tutta la comunità . ―Perché un credente sappia comunicare con la testimonianza il primo<br />

annuncio della fede, non gli si richiede altro che credere e non vergognarsi del Vangelo;<br />

basta dire, con atteggiamenti concreti e con linguaggio appropriato, perché si è lieti e<br />

fieri di credere‖ 83 .<br />

A questo compito di fedeltà all‘annuncio della fede il cristiano viene meno<br />

quando vive con atteggiamento di indifferenza la sua fede, non riconoscendo il valore<br />

salvifico dell‘annuncio di Cristo. Anche il silenzio della fede nella vita sociale del<br />

cristiano, magari in nome del rispetto e di una tolleranza vissuta come indifferenza, può<br />

essere considerata una mancanza di fede.<br />

82 CIC, can. 211.<br />

83 COMMISSIONE EPISCOPALE PER LA DOTRINA DELLA FEDE, L‘ANNUNCIO E LA<br />

CATECHESI DELLA CEI, Questa è la nostra fede. Nota pastorale sul primo annuncio, 18.


―Mediante la vita morale la fede diventa «confessione», non solo davanti a Dio,<br />

ma anche davanti agli uomini: si fa testimonianza‖ 84 . La fede in Cristo, la sequela di lui<br />

porta con sé, secondo l‘autenticità del coinvolgimento con la sua vita, lo scandalo della<br />

persecuzione e dell‘ostilità del mondo. ―Se hanno perseguitato me, perseguiteranno<br />

anche voi‖(Gv 15, 20). La testimonianza della fede trova nel martirio cristiano la sua<br />

forma più radicale, come possibilità e tensione propria di ogni scelta di fede. Egli si<br />

pone, infatti, alla sequela di Cristo che ha dato la sua vita per noi, come testimone<br />

dell‘amore di Dio per ogni uomo.<br />

Il martirio è la confessione di una fede viva, di chi pone in Dio la sua speranza,<br />

di chi ama Dio mediante il dono totale di tutta la propria vita.<br />

―Il martirio è la suprema testimonianza resa alla verità della fede; il martire è un<br />

testimone che arriva fino alla morte. Egli rende testimonianza a Cristo, morto e risorto,<br />

al quale è unito dalla carità. Rende testimonianza alla verità della fede e della dottrina<br />

cristiana, affronta la morte con un atto di fortezza‖ 85 .<br />

Ciò che fa di un uomo un martire, un vero testimone di Cristo, è la sua<br />

conformazione al Signore. Solo chi vive sulle tracce del Signore Gesù, deponendo la<br />

propria vita giorno dopo giorno perché gli altri vivano, testimonia in qualche misura la<br />

potenza della resurrezione che già opera in questo mondo.<br />

Nel martirio la partecipazione alla pasqua di Cristo si manifesta come parresìa,<br />

come franchezza e fermezza, di chi parla e non tace la propria fede, di chi trova la forza<br />

di spendere e donare la vita per il nome di Cristo. Il martirio, come orientamento e<br />

possibilità contenuta nella stessa professione di fede, possiede in ogni tempo un valore<br />

kerigmatico. Il martirio annuncia un mondo futuro, ma già presente, annuncia il primato<br />

di Dio e la ricerca prima e necessaria del suo Regno nelle vicende e contraddizioni della<br />

storia dove. All‘opposizione del mondo, il martire oppone la vittoria della croce<br />

nell‘offerta di sé, per compiere nella propria carne ciò che manca alla passione di Cristo,<br />

per amore degli uomini chiamati alla salvezza (cfr. Col 1,24).<br />

3.3.3. Fede e morale<br />

La morale cristiana è una maniera di vivere secondo la fede, cioè alla luce delle<br />

verità e degli esempi di Cristo, quali abbiamo appreso dal Vangelo e dalla sua prima<br />

irradiazione apostolica. La fede cristiana non è semplicemente un insieme di verità da<br />

credere, ma una conoscenza vissuta di Cristo, una verità da vivere, per cui ―la fede è una<br />

decisione che impegna tutta l‘esistenza‖ 86 . Vale quindi per noi, nel suo significato<br />

esegetico e nella sua applicazione pratica ed estensiva a tutto lo stile della vita cristiana,<br />

la formula incisiva e sintetica di S. Paolo: «il giusto vive di fede» (Rom 1, 17; Gal 3, 11;<br />

Fil. 3, 9; Eb 10, 38). ―La caratteristica essenziale (dell‘etica cristiana) è d‘essere legata<br />

alla fede e al battesimo‖ 87 .<br />

Questo significa che la nostra concezione pratica della vita deve conservare a<br />

Dio, alla fede in lui, il primo posto: ―Io sono il Signore Dio tuo‖(Es. 20, 2). Cristo lo<br />

ripeterà: ―cercate in primo luogo il regno di Dio‖ (Mt. 6, 33).<br />

―Il cristiano, grazie alla rivelazione di Dio e alla fede, conosce la novità da cui è<br />

segnata la moralità dei suoi atti; questi sono chiamati ad esprimere la coerenza o meno<br />

con quella dignità e vocazione che gli sono state donate con la grazia: in Gesù Cristo e<br />

52<br />

84 VS, 89.<br />

85 CCC, 2473.<br />

86 VS, 88.<br />

87 A. FEUILLET, Les fondements de la morale chrétìenne d’après l’épître aux Romains, in Revue<br />

Tomiste 4(1970), 357-386.


nel suo Spirito, il cristiano è creatura nuova, figlio di Dio, e mediante i suoi atti<br />

manifesta la sua conformità o difformità con l‘immagine del Figlio che è il primogenito<br />

tra molti fratelli (cfr. Rom 8, 29), vive la sua fedeltà o infedeltà al dono dello Spirito e si<br />

apre o si chiude alla vita eterna, alla comunione di visione, di amore e di beatitudine con<br />

Dio Padre, Figlio e Spirito Santo‖ 88 .<br />

L'etica non nasce con la rivelazione e la fede, ma con l'uomo e la ragione. Essa è<br />

universalmente umana: riconoscibile e vincolante ogni uomo. Su questo ―universale<br />

umano‖ s'innesta la fede, dando luogo non a un'etica aggiuntiva ma a uno ―specifico<br />

cristiano‖ che consiste nella innovazione teologale di tutta l'etica umana, cioè nella<br />

novità della vita in Cristo, in cui il cristiano vive la sua vocazione etica alla pienezza di<br />

bene e di felicità. ―In questo modo l'etica cristiana è la verità piena dell'etica<br />

semplicemente umana. Non qualcosa, semplicemente, che aggiunge altri precetti: è<br />

l'etica in cui si compie e si rivela la verità intera dell'uomo, del suo essere-persona‖ 89 .<br />

La fede, senza sostituirsi alla ragione, le viene incontro come luce-grazia per<br />

l'inveramento e l'adempimento ―in modo integrale e perfetto‖ del bene morale. Il<br />

cristiano non vive due morali – una umana e una cristiana - ma una morale cristiana,<br />

integralmente umana e propriamente teologale, propria dell‘uomo redento. La<br />

redenzione, infatti, è la pienezza e la perfezione dell‘humanum in Cristo e che la<br />

vocazione dell‘humanum è la conformazione alla pienezza di Cristo, secondo il<br />

principio cristologico dell'unità nella distinzione dell'umano e del divino nella persona<br />

di Gesù Cristo.<br />

53<br />

88 VS, 73.<br />

89 C. CAFFARRA, Viventi in Cristo, Jaca Book, Milano 1981, 57.


54<br />

CAPITOLO IV<br />

ETICA TEOLOGALE DELLA SPERANZA<br />

Il cristiano accoglie insieme alla fede, e in dialogo con questa, il dono della<br />

speranza. Fede e speranza sono fra loro intimamente unite, perché fondate in Dio<br />

creduto e sperato come pienezza del desiderio e della felicità dell‘uomo.<br />

―Voi sapete che non a prezzo di cose corruttibili, come l‘argento e l‘oro, foste<br />

liberati dalla vostra vuota condotta ereditata dai vostri padri, ma con il sangue prezioso<br />

di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia. Egli fu predestinato già prima<br />

della fondazione del mondo, ma si è manifestato negli ultimi tempi per voi. E voi per<br />

opera sua credete in Dio, che l‘ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria e così la<br />

vostra fede e la vostra speranza sono fisse in Dio‖(1Pt 1, 18-21).<br />

Mentre l'intelletto trova la sua perfezione nella conoscenza della verità, il<br />

desiderio muove la volontà per raggiungere il bene desiderato.<br />

Per il cristiano la speranza teologale rappresenta una tensione verso la definitiva<br />

e piena bontà che è Dio stesso. Questa perfeziona nell'essere umano la capacità di<br />

trovare pieno compimento solo in Dio, una capacità di cui Dio stesso ha reso partecipe<br />

l'essere umano. ―La fede racchiude in boccio la speranza, la sostiene e la nutre, come un<br />

gioioso trepido senso di attesa. Il più ed il meglio per i figli di Dio, non è ancora apparso<br />

ed essi vivono nel possesso di ciò che è già, nell‘aspettazione di ciò che deve venire‖ 90 .<br />

Così il cristiano è un chiamato alla speranza e sperimenta la speranza come dono<br />

fondato sulla risurrezione di Cristo, che diventa impegno di fedeltà alla speranza viva da<br />

cui è stato generato.<br />

1. La libertà per la speranza e la vocazione alla speranza<br />

Prima di esaminare la virtuosità della speranza teologale, è necessario richiamare<br />

alcuni presupposti antropologici che permettono di comprendere come ogni uomo è<br />

fatto per la speranza. La disponibilità della libertà per la speranza, fino a considerarla<br />

come necessaria, permette di comprendere che il dono teologale della speranza risponde<br />

alla vocazione dell‘uomo a sperare. Egli, infatti, possiede nel suo costitutivo umano e<br />

nella sua vocazione la disponibilità a desiderare e ad accogliere il dono sempre nuovo<br />

della fede che spera e che ama.<br />

1.1. La persona e i suoi desideri<br />

―La virtù della speranza risponde all‘aspirazione alla felicità, che Dio ha posto<br />

nel cuore di ogni uomo; essa assume le attese che ispirano le attività degli uomini‖ 91 . La<br />

speranza cristiana si impianta e assume le attese e le ispirazioni più autentiche di ogni<br />

uomo, in altre parole chiede che la libertà si lasci affascinare dal desiderio della<br />

beatitudine nella ricerca del bene. L‘intensità della speranza e della sua forza trainante<br />

per la libertà chiede perciò di intensificare la capacità di desiderare propria dell‘uomo,<br />

insieme allo scavo dei desideri che sono nell‘uomo.<br />

90 CEI, Vivere la fede oggi, E/C 1, 3695.<br />

91 CCC, 1818.


Da un punto di vista filosofico il desiderio si riferisce alla mancanza dell‘oggetto<br />

a cui è rivolto un «appetito» della persona ed è pensato come il principio che muove<br />

l‘agire. Da un punto di vista psicologico il desiderio o il desiderare significa concentrare<br />

e canalizzare tutte le energie in direzione di qualcosa di importante per sé e centrale per<br />

la propria vita. Quindi non si tratta del semplice essere colpiti da ciò che è piacevole, ma<br />

un aspirare con tutte le proprie forze verso qualcosa che vale in se stesso e che la<br />

persona scopre e vuole al centro della vita e del proprio futuro.<br />

Il valore e la qualità di una persona può essere spiegato da ciò che questa<br />

desidera. In ogni uomo è nascosto il desiderio di Dio e del bene che Dio mostra come<br />

buono e desiderabile. Così ―il desiderio e la capacità di desiderare sono l‘organo o il<br />

luogo per eccellenza dell‘esperienza umana di Dio‖ 92 .<br />

Quando si sperimenta la caduta della qualità del desiderio e del desiderare come<br />

facoltà, dove sono appiattiti i desideri con la conseguenza che non ci si esercita più<br />

nell‘arte di desiderare, la vita è impedita di aprirsi alla speranza e si chiude in un<br />

presente ripetitivo e noioso. Per parlare di speranza quindi è necessario scavare il<br />

desiderio per giungere alla scoperta della sua verità. Ma è necessario anche scalare i<br />

desideri per cogliere quell‘esigenza radicale di bene e di felicità che è presente in ogni<br />

essere umano e che è l‘espressione immediata del desiderio ancor più radicale di Dio e<br />

di quel che Dio ha pensato per ogni uomo. Se ogni desiderio è segnato dall‘impronta del<br />

desiderio di Dio, la verità di ogni desiderio è il suo orientamento verso Dio, l‘unico che<br />

può appagare pienamente il desiderare umano.<br />

1.2. Le speranze dell’uomo<br />

―La speranza, come l‘amore è una delle più semplici, primordiali disposizioni<br />

della persona. Nella speranza, l'uomo "con il cuore inquieto", con confidenza e pazienza<br />

tende all‘attesa verso... l'arduo "non ancora" del compimento, sia naturale che<br />

soprannaturale‖ 93 . In quanto sforzo propriamente umano, sperare rappresenta una<br />

tensione verso qualcosa che è percepito come bene, verso il compimento di ciò che il<br />

possesso di qualcosa comporta. Così le speranze umane prendono per mano i desideri e<br />

li muovono verso la loro possibilità, secondo le aspirazioni proprie del cuore di ogni<br />

uomo.<br />

Perciò la speranza è una prerogativa tipicamente umana, strettamente legata alla<br />

vita la quale, per il suo carattere di tensione, è concepita come via. Vivere è sperare;<br />

sperare è vivere incamminati in una via nella quale, gli uomini e il cosmo, sono<br />

collegati da vincoli di radicale solidarietà. Il cammino dell'uomo nella storia è già<br />

iniziato e va verso il non ancora che, temuto o amato comunque incalza<br />

incessantemente.<br />

A questa speranza si può attribuire certe caratteristiche, certe costanti presenti<br />

nelle sue varie manifestazioni: la speranza è attesa, fiducia, certezza della realizzazione<br />

di ciò che si ama e si desidera; è continuo impegno nel superare gli ostacoli che<br />

contrastano il conseguimento della realtà sperata; è pregustare la pace che sarà completa<br />

quando il possesso del bene sarà totale, non più conteso o in pericolo.<br />

Nella sua forma più matura, la speranza non è desiderio di cose, ma è intensa<br />

aspirazione alla comunione senza limiti con le persone amate. Anche quando non ha<br />

raggiunto ancora la piena maturità, la speranza è ancora desiderio delle cose, ma sempre<br />

55<br />

92 A. CENCINI, Vita consacrata. Itinerario formativo lungo la via di Emmaus, San Paolo, Cinisello<br />

Balsamo(MI) 1994, 223.<br />

93 J. PIEPER, Sulla speranza


di realtà sperate per qualcuno, almeno per la persona stessa che spera. E proprio in<br />

questo consiste la distinzione tra il semplice desiderio e la speranza.<br />

Quando il bene desiderato, pur restando nella sfera del possibile, diventa arduo,<br />

il desiderio assume la forma della speranza, in cui l‘amore per ciò che si desidera si<br />

protende verso il possesso del bene desiderato, accettando la fatica per giungere a quel<br />

possesso.<br />

Ciò che è arduo diventa possibile quando c'è qualcuno che ne garantisce il<br />

possesso. La speranza include perciò un rapporto di fiducia nella persona e non si<br />

esaurisce in una relazione alle cose. La speranza è essenzialmente legata a chi la rende<br />

possibile, suppone la fiducia in lui e questa è tanto più sicura quanto più si radica nella<br />

fedeltà dell'amico. È per questo che le speranze umane sono insicure. Nel senso più<br />

rigoroso del termine, solo gli amici sperano veramente, solo dove c'è la vera amicizia c'è<br />

la vera speranza. Per l'uomo non c'è alternativa alla speranza: se muore la speranza non<br />

vive più da uomo. Chi spera ha fiducia di riuscire, con l'aiuto di qualcuno, a prevalere<br />

sulle realtà che ostacolano la conquista del bene amato o la comunione nel bene.<br />

La speranza è anche il vincolo che lega le persone fra loro nella stessa avventura<br />

e costituisce quindi la trama vitale dei gruppi sociali. La storia di un popolo ha un futuro<br />

solo se c'è speranza. Quando la speranza appare illusoria, il cammino della storia si<br />

blocca e procedere diventa impossibile. La ricchezza umana di una società può essere<br />

valutata dalle sue speranze.<br />

Gli attuali ambiti sociali della speranza sembrano inquinati, perché educano a<br />

desiderare le cose o a sognare situazioni future illusorie. Mancano spazi di esercizio<br />

autentico della speranza. La società dei consumi sviluppa dinamiche idolatriche perché<br />

presenta beni, situazioni, persone come ragioni adeguate e risposte sufficienti ai desideri<br />

vitali e agli istinti ad essi corrispondenti. Anche in altri secoli queste dinamiche erano<br />

frequenti, ma non offrivano le medesime possibilità o le medesime verifiche.<br />

Lo sviluppo attuale della scienza e della tecnica ha reso molto più facile, ma<br />

anche molto più precario, il soddisfacimento di tutti i desideri istintivi. Lo ha reso più<br />

facile per la vertiginosa facilità di produzione e la conseguente offerta sempre più larga<br />

di beni. Ma nello stesso tempo lo ha reso molto più precario, perché con l'accelerazione<br />

veloce dei processi storici ha favorito la saturazione dei desideri e ne ha mostrato le<br />

insufficienze. Ora, finché non scopriamo il termine reale di ogni speranza vitale, non<br />

siamo in grado di capire la nostra condizione di esseri creati e di godere pienamente la<br />

vita. La ragione della affannosa ricerca dell'uomo sta nel fatto che egli è realmente<br />

chiamato alla felicità, al benessere e al dominio sulle cose, ma questa si traduce nelle<br />

tensioni istintive che spingono l'uomo alla ricerca della gioia in tutte le situazioni della<br />

sua esistenza.<br />

La speranza, invece, è profondamente diversa da un tale stato euforico, spesso<br />

largamente debitore al temperamento e al carattere. La speranza sorge dentro la prova e<br />

ne assume il peso tragico e si rafforza nel suo immediato aderire a ciò che c'è in esso di<br />

più vissuto e vincolante. Da questo punto di vista, essa si profila nei tratti caratteristici<br />

della virtù della pazienza, che davanti alla prova impedisce alla persona di contrarsi o di<br />

ribellarsi e di emanciparsene prematuramente. Per questo atteggiamento, sperare è già<br />

contribuire a superare la prova.<br />

L'ardore eroico che la sapienza greca poneva nel restringersi al presente, a non<br />

preoccuparsi dell'avvenire, la Sapienza biblica lo pone al contrario nel proiettarsi verso<br />

il futuro promesso con la certezza di non essere confusi. Nel linguaggio biblico le parole<br />

stesse del greco classico, acquistano un significato nuovo. Il verbo elpizo (= spero) e in<br />

latino spes non ha più il suo significato antico «attesa di un bene o di un male»: è<br />

sempre attesa di un bene ed è un‘attesa permeata di confidenza.<br />

56


57<br />

2. Il dono della speranza teologale<br />

2.1. La speranza di Gesù<br />

Parlare della speranza è parlare di futuro e dell‘impegno per realizzarlo, con una<br />

fiducia che riposa in Dio. Considerando questi elementi propri della speranza, la narrazione<br />

evangelica ci presenta Gesù prima di tutto come testimone della speranza. Il cristiano<br />

attinge da Gesù di Nazaret la forma e lo stile della speranza. Egli c‘insegna un‘esistenza<br />

che non ripone in sé o nelle proprie prestazioni la fiducia fondamentale, ma in Dio Padre e<br />

nella forza dello Spirito.<br />

Gesù è il Figlio di Dio, che facendosi figlio dell‘uomo assume la condizione umana<br />

in tutta la precarietà di sofferenza, di limite e di morte da cui è attraversata. Ma la sua<br />

umanità non cede né alla tentazione né alla prova, perché sostenuta e animata dalla<br />

speranza in Dio. La sua estrema debolezza, la sua rinunzia a ogni apparato e attrattiva di<br />

potenza sono il segno della speranza più grande .<br />

Soprattutto nella vicenda della passione e della morte Gesù offre la testimonianza<br />

più alta della speranza. Assumendo la morte in tutta la sua drammaticità — in ciò che essa<br />

ha di paura, lotta interiore, solitudine, impotenza e tristezza — Gesù la vive come il<br />

momento culminante e decisivo del suo essere per Dio: si abbandona totalmente al Padre<br />

nell‘atto dell‘amore-obbedienza-fiducia-fedeltà più grande: in una parola, della speranza<br />

assoluta. Gesù vive la morte come il momento della decisione ultima per Dio nell‘offerta<br />

della vita. ―Nella completa solitudine del suo spirito, si abbandona alla volontà e alla<br />

potenza di Dio nella preghiera più filiale di amore e di fiduciosa speranza che mai sia<br />

uscita da cuore umano (Abbà: Mc 14,36; Mt 26,39; Lc 22,42)‖ 94 . Gesù non subisce,<br />

malgrado tutto, la morte ma l‘assume come supremo atto d‘amore.<br />

Questa relazione vivente e vitale col Padre — che la morte in croce scuote<br />

profondamente ma non infrange, anzi intensifica e rinsalda — scandisce e costituisce la<br />

speranza di Gesù. Non si tratta di un ostinato ottimismo, ma della fede-fiducia in Dio,<br />

come ―colui che poteva liberarlo dalla morte‖(Eb 5,7). Egli infatti è ―il Dio che dà la vita<br />

ai morti e chiama all‘esistenza le cose che non sono‖(Rm 4,17). In questo esodo da sé e<br />

abbandono a Dio, Gesù vive e attesta la sua speranza come la sfida più alta a ogni<br />

rassegnazione e fatalità umana. ― Per questo si rallegrò il mio cuore ed esultò la mia<br />

lingua; ed anche la mia carne riposerà nella speranza, perché tu non abbandonerai l‘anima<br />

mia negli inferi, né permetterai che il tuo Santo veda la corruzione‖(At 2, 26-27).<br />

Nella sua prima lettera ai Tessalonicesi – forse lo scritto più antico del Nuovo<br />

Testamento – Paolo dichiara di essere ―continuamente memore davanti a Dio e Padre<br />

nostro del vostro impegno della fede, della vostra fatica della carità e della vostra pazienza<br />

della speranza del Signore nostro Gesù Cristo‖(1,3). Collocata dopo la fede e la carità, la<br />

speranza è da Paolo subito precisata con due tratti. Il primo è la ―pazienza‖ (upomoné),<br />

cioè la forza di rimanere fermi qualsiasi avversità si attraversi e di saper attendere, anche a<br />

lungo. Senza questa pazienza la speranza cristiana non regge. Cadrebbe nel rischio della<br />

rassegnazione, oppure nel rischio di rifugiarsi in Dio disimpegnandosi dal mondo. Il<br />

secondo tratto è che la speranza del cristiano trova il suo fondamento in Gesù Cristo. La<br />

speranza è una certezza che si fonda sulla promessa fatta da una Persona di cui ti fidi<br />

totalmente. Ma il legame con Gesù Cristo è detto al genitivo: non solo la speranza «nel»<br />

94 J. ALFARO, Speranza cristiana e liberazione dell’uomo, Queriniana, Brescia 1973, 46.


58<br />

Signore Gesù, ma «del» Signore Gesù. Si tratta dunque di una speranza cristiana che trova<br />

la sua forma nell‘abbandono fiducioso e costante di Gesù al Padre.<br />

Gesù è vissuto fidandosi del Padre. Per comprendere la speranza cristiana occorre<br />

dunque collocarsi nel centro stesso dell‘evento di Gesù, in quello che è lo scandalo della<br />

speranza e insieme il fondamento che la sorregge. Gesù non si presenta come un semplice<br />

profeta che annuncia il futuro avvento di Dio. Egli dichiara che il regno di Dio è già<br />

arrivato nella sua persona, nelle sue parole e nella sua attività. Con il suo arrivo iniziano i<br />

tempi nuovi. E tuttavia questa pretesa di Gesù sembra continuamente smentita:<br />

l‘opposizione e il rifiuto si fanno sempre più chiari e l‘avvento di Dio sembra annullato<br />

dalla Croce. Ma la fiducia di Gesù nel Padre non si è lasciata distrarre dall‘abbandono delle<br />

folle, né dall‘abbandono dei discepoli, né dall‘apparente abbandono di Dio. E‘ rimasta<br />

solida perché fondata sulla certezza che la promessa di Dio è incrollabile. Non si può<br />

mantenere ferma la speranza senza una sicurezza, né si può restare fermi nella solitudine<br />

della speranza senza una compagnia. ―Mi lascerete solo e ognuno tornerà ai suoi affari. Ma<br />

non sono solo, perché il Padre è con me‖(Gv 16,32). Dunque una speranza quella di Gesù<br />

che – proprio perché ferma davanti a Dio e certa del suo amore – non teme il rischio di<br />

incarnarsi nella storia contraddittoria degli uomini.<br />

La morte, vissuta nella speranza del Dio della vita, sfocia per Gesù nella vita stessa<br />

di Dio. La risurrezione, come vittoria pasquale della vita sulla morte, è la risposta di Dio<br />

alla speranza di Gesù, il compimento della sua speranza e il fondamento della speranza<br />

cristiana. Il dono dell‘amore salvifico del Padre alla speranza del Figlio, diventa il<br />

compimento più alto della speranza più grande .<br />

L‘abbandono totale e incondizionato a Dio, nella comunione d‘amore che non teme<br />

la debolezza e non cede alla tentazione, fa di Gesù il testimone della speranza. E una<br />

speranza che attraversa tutta l‘esistenza di Gesù, come il modo nuovo di affrontare e non<br />

cedere, affidandosi al Dio più forte di ogni male. Per il cristiano questa è una testimonianza<br />

che suscita la sequela e l‘imitazione. Egli vive la speranza come fiducia (Gal 5,5),<br />

perseveranza (Rom 8,25), pazienza (Rom 3,3), vigilanza (l Ts 3,6), coraggio (Ef 3,12).<br />

Atteggiamenti tutti indotti e sostenuti dalla forza del possibile suscitati dalla speranza della<br />

fede: ―Tutto posso in colui che mi dà forza‖(Fil 4,13). Così la professione della speranza<br />

nel Dio che ha risuscitato Cristo dai morti, sostiene e muove tutta la vita cristiana.<br />

2.2. Cristo nostra speranza<br />

2.2.1. Il fondamento della speranza<br />

Gesù è più che esempio di speranza. Egli è la sorgente, il fondamento e la meta<br />

della speranza cristiana. Attingendo a tutta ricchezza del messaggio neotestamentario sulla<br />

speranza affermiamo non solo Gesù come testimone di speranza, ma che Gesù Cristo è la<br />

nostra speranza.<br />

Attingendo al racconto evangelico non possiamo notare, tuttavia, che il giorno della<br />

speranza cristiana fiorisce sulle ceneri delle speranze umane dei discepoli disillusi e<br />

scoraggiati. ―Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele‖(Lc 24, 21). Il giorno<br />

dell‘evento che è alla base della speranza cristiana si conclude per i due discepoli di<br />

Emmaus come il giorno della morte delle loro speranze. Per loro l‘incontro con la speranza<br />

passa attraverso il lutto per le loro speranze e riduttive che nutrivano nei confronti di Gesù,<br />

segnate da attese politiche e unicamente umane. Scoprire il fondamento della speranza<br />

richiede una purificazione della speranza dell‘uomo e la scoperta del carattere paradossale


59<br />

della speranza cristiana: la speranza del Risorto inizia da una tomba vuota, nasce dal luogo<br />

di morte di altre speranze.<br />

Il fondamento della speranza neotestamentaria è la risurrezione di Gesù, evento<br />

prolettico che attua e garantisce l‘incontro con Dio: quanto è già avvenuto per lui, avverrà<br />

anche per il cristiano. La fede di pasqua mostra Cristo come il contenuto e la ragione della<br />

speranza dell‘uomo: la comunità primitiva fissa lo sguardo alla parusia, pensata come<br />

imminente (1Ts 5,1-11; 2Ts 2,1-12) e attende e invoca la venuta del suo Signore e Cristo,<br />

la sua manifestazione ultima, ―per il possesso della gloria del Signore nostro Gesù<br />

Cristo‖(2 Ts 2,14).<br />

Il kerygma della Chiesa non mostra dubbi su questo punto: non è data altra<br />

possibilità all‘uomo per raggiungere la speranza offerta da Dio se non in Gesù Cristo<br />

crocifisso e risorto. La speranza cristiana è anch‘essa come la fede, intimamente<br />

attraversata dalla dinamica pasquale di morte e risurrezione: porta anch‘essa le stigmate<br />

della croce, è abitata dalla pienezza del Regno, ma anche dal vuoto della tomba; crede la<br />

risurrezione ma nel tempo la speranza non cessa di guardare il Crocifisso.<br />

Essere senza Cristo equivale ad essere senza speranza in questo mondo, ad essere<br />

senza Dio (cfr. Ef 2,12); essere in Cristo è invece la condizione per il dischiudersi della<br />

speranza alla quale l‘uomo è stato chiamato (cfr. Ef 4,4), quel tesoro di gloria che<br />

racchiude la sua eredità tra i santi (cfr. Ef 1,18). È questa la condizione della comunione<br />

con Dio, la possibilità realmente data all‘uomo — anche se, appunto, ‗nella speranza‘ — di<br />

essere partecipe della natura divina (cfr. 2 Pt 1,3).<br />

Nella rivelazione del mysterion, la storia della salvezza trova il suo compimento<br />

nella ricapitolazione di tutte le cose in Cristo (cfr. Ef 1,10), punto di arrivo del progetto di<br />

Dio per l‘uomo: ―se qualcuno è in Cristo, è una creatura nuova‖(2 Cor 5,17). ‗Essere in<br />

Cristo‘, ‗vivere in Cristo‘, ‗rivestirsi di Cristo‘ sono formule che dicono la vita nella fede,<br />

che è già radicalmente trasformata, ma che comporta costitutivamente anche ―la speranza<br />

della gloria di Dio‖(Rm 5,2) che l‘uomo è chiamato a vivere nello Spirito quale pegno e<br />

caparra della eredità tra i santi (cfr. Ef 1,14). E questa la speranza promessa dal vangelo<br />

(cfr. Col 1,23), riservata nei cieli per i credenti (cfr. Col 1,5), e che si compirà con<br />

l‘apparizione della gloria di Cristo (cfr. Tt 2,13).<br />

A ragione, quindi, il Nuovo testamento chiama ―Cristo Gesù nostra<br />

speranza‖(1Tim1,1); l‘oggetto della speranza verrebbe perciò a coincidere perfettamente<br />

con quello della fede: Gesù di Nazareth, costituito Signore e Cristo, mediatore della nuova<br />

alleanza che introduce alla comunione con il ―Dio della speranza‖(Rom 15,13). Ma con<br />

una differenza, che fonda il dinamismo della fede sperante: l‘oggetto della speranza<br />

cristiana non è semplicemente — come per la fede — la persona di Gesù; è piuttosto il<br />

regno di Dio come eredità che l‘uomo riceve in Cristo e per Cristo. Quindi il cristiano<br />

spera Cristo come primizia del Regno, come il ―primogenito di una moltitudine di fratelli‖<br />

(Rm 8,29). Tende cioè al compimento del mysterion, alla consumazione escatologica,<br />

considerata dal punto di vista oggettivo del Regno come il compimento del cammino<br />

dell‘uomo, mediante la progressiva conformazione a Cristo, «speranza della gloria» (Col<br />

1,27).<br />

La vita in Cristo, fondamento della speranza personale del cristiano dischiusa dal<br />

battesimo, è infatti costitutivamente orientata in senso escatologico verso il compimento<br />

della speranza cristiana, indicata come ―completa redenzione di coloro che Dio si è<br />

acquistato, a lode della sua gloria‖(Ef 1,14) e immette chi la riceve nell‘atteggiamento<br />

dell‘attesa, tipico della speranza. Il credente è descritto come colui che attende e che, per<br />

non lasciarsi allontanare dalla speranza promessa nel vangelo (Col 1,23), traduce in vissuto<br />

concreto tutte le esigenze dell‘agire cristiano, in conformità all‘esempio di Cristo.


60<br />

L‘impegno nell‘imitazione di Cristo è corrispondente e proporzionale<br />

all‘atteggiamento dell‘attesa, che ha per oggetto non una speranza indeterminata e<br />

impersonale, ma la venuta stessa di Cristo. Questo perché il Padre ―ci ha rigenerati,<br />

mediante la risurrezione di Cristo dai morti, per una speranza viva, per un‘eredità che non<br />

si corrompe, non si macchia e non marcisce‖(1 Pt 1,3s.). Per questo i cristiani sono<br />

chiamati a vivere ―nell‘attesa della beata speranza e nella manifestazione della gloria di<br />

Gesù Cristo‖(Tt 2,13). Anzi, Cristo è così costitutivo per la speranza cristiana da<br />

diventarne il predicato; infatti, Paolo si professa ―apostolo di Cristo Gesù, nostra<br />

speranza‖(l Tm 1,1) e proclama che il mistero di Dio nascosto da sempre ora rivelato ai<br />

pagani e ―Cristo in voi, speranza della gloria‖(Col 1,27). L‘attesa della parusia non<br />

significa tanto un attesa della fine, ma l‘attesa di Cristo che viene e che porta a definitivo<br />

compimento il destino dell‘uomo, gia proletticamente anticipato nella sua risurrezione e<br />

nel lavacro di rigenerazione nello Spirito perché ―giustificati dalla sua grazia diventassimo<br />

eredi, secondo la speranza, della vita eterna‖(Tt 3, 7).<br />

Così centrata sulla risurrezione dei morti (cfr. At 23, 6; 24, 15; 2Cor 1, 10) e non su<br />

sogni di immortalità, la speranza cristiana, ―speranza viva‖ fondata sulla risurrezione di<br />

Gesù Cristo dai morti, si misura con la morte, la attraversa, non la rimuove, mostrando con<br />

ciò tutto il carattere paradossale e drammatico che la speranza porta in sé, a motivo del suo<br />

fondamento pasquale.<br />

D‘altra parte non attendere la risurrezione significa essere senza speranza (cfr. 1Cor<br />

15,19; 1 Ts 4,13), o chiudersi in una speranza solo umana, incapace di cogliere il senso<br />

della vita teologale. Ai credenti perciò è chiesto di ―fissare ogni speranza in quella grazia<br />

che vi sarà data quando Gesù Cristo si rivelerà‖(1Pt 1,13) e, vivendo nella santità della<br />

vita, di essere ―pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza<br />

che è in voi‖(1 Pt 3,15).<br />

2.2.2. Il motivo e la forza della speranza<br />

La forza della speranza è data al cristiano dallo Spirito Santo. Lo Spirito, infatti,<br />

rende partecipe ogni cristiano della vita in Cristo poiché riversa l‘amore di Dio nel<br />

cuore dei credenti, rendendoli partecipi della speranza di Cristo e della speranza in<br />

Cristo Risorto. ―La speranza poi non delude, perché l‘amore di Dio è stato riversato nei<br />

nostri cuori per mezzo dello Spirito santo che ci è stato donato‖(Rom 5, 5). E questo a<br />

partire dal dono del battesimo e per mezzo di tutti i sacramenti a cui il cristiano attinge<br />

il motivo e la forza della speranza teologale.<br />

Nella confermazione il sigillo dello Spirito, cosi come è indicato dalla<br />

celebrazione del sacramento, è certezza dell‘attuale comunione con Cristo per la fede e<br />

l‘amore, ma anche ―caparra dello Spirito nei nostri cuori‖(2Cor 1, 22b), come «pegno»<br />

e inizio della piena comunione escatologica col Cristo glorioso: ―E‘ Dio che ci ha fatti<br />

per questo e ci ha dato la caparra dello Spirito‖(2 Cor 5, 5). ―Cristo ci ha dato la caparra<br />

dello Spirito Santo con la quale lui, che comunque non ci potrebbe ingannare, ha voluto<br />

renderci sicuri del compimento delle sua promessa, anche se pur senza la caparra<br />

l‘avrebbe mantenuta. Che cosa ha promesso? Ha promesso la vita eterna di cui è caparra<br />

lo Spirito che ci ha dato. La vita eterna è possesso di chi è giunto alla dimora; la sua<br />

caparra è la consolazione di chi è ancora in viaggio. E‘ più esatto dire caparra che<br />

pegno: i due termini sembrano simili, ma v‘è fra loro una differenza non trascurabile di<br />

significato. Sia con il pegno che con la caparra si vuol garantire che sarà mantenuto ciò<br />

che si è promesso, ma mentre il pegno viene restituito quando sia stato adempiuto a ciò


per cui lo si è ricevuto, la caparra invece non viene restituita ma le viene aggiunto<br />

quanto completa il dovuto‖ 95 .<br />

Il dono dello Spirito, e il suo sigillo sacramentale, suscitano, perciò, un‘esistenza<br />

strutturata e «sigillata» dalla speranza teologale. La speranza teologale fondata sulla<br />

fede, muove e sostiene la carità, perché fondata sulla caparra dello Spirito e sulla sua<br />

forza che guarda e tende al compimento escatologico della piena rivelazione dei figli di<br />

Dio. L‘ottimismo escatologico dei cristiani è connesso con la dimensione e il senso<br />

della genuina libertà, quella dei figli di Dio(cfr. Rom 8, 21; Gal 4, 31; 5, 13). ―Anche<br />

noi che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando<br />

l‘adozione e figli, la redenzione del nostro Corpo. Poiché nella speranza noi siamo stati<br />

salvati‖(Rom 8, 23).<br />

Per il dono confirmatorio dello Spirito, la speranza teologale informa l‘intera<br />

esistenza cristiana secondo una struttura dinamica e sinergica con la potenza dello<br />

Spirito Santo «certificata» sacramentalmente. Tutta la vita teologale ha nel dono dello<br />

Spirito la sua origine sorgiva e dinamica, poiché lo Spirito è colui che dà la vita: dona la<br />

fede-speranza-carità, l‘amore stesso di Dio nella filiazione, ma sempre come caparra<br />

protesa verso il suo compimento. In particolare nella confermazione, secondo il<br />

simbolismo proprio dell‘unzione quale sigillo indelebile della vita nello Spirito,<br />

l‘esistenza cristiana viene a collocarsi e a strutturarsi sul fondamento della speranza<br />

teologale, del «già» in Cristo e verso il «non ancora» della piena manifestazione e<br />

realizzazione della filiazione-deificazione(cfr. 1Gv 3, 1-2), poiché l‘essere in Cristo, e il<br />

Cristo in noi, è ―speranza della gloria‖(Col 1, 27).<br />

Il dono di tale speranza crea una attrazione dello Spirito nello spirito dell‘uomo,<br />

nelle sue facoltà e in particolare nel suo desiderare, verso la piena manifestazione e<br />

rivelazione dei figli di Dio (cfr. 1Gv 3, 3), che impegna la libera risposta del<br />

confermato, secondo un dinamismo etico di fedeltà al dono dello Spirito. ―Il fine già<br />

parzialmente raggiunto resta situato nel futuro dell‘uomo, fino al Giorno del Signore e<br />

della piena comunione con il Figlio. Un desiderio illimitato si risveglia e lo Spirito non<br />

ne soffoca il respiro (Rom 8, 26). Nel cristianesimo il desiderio è sacro: è la<br />

ripercussione nel cuore della presenza dello Spirito e della sua comunione infinita: ―Lo<br />

Spirito e la Sposa dicono: Vieni‖(Ap 22, 17). Anche nell‘incontro beato con il Cristo, il<br />

desiderio pure colmato, non potrà mai spegnersi, perché lo Spirito, in cui tutto si<br />

compie, è un eterno inizio‖ 96 .<br />

La speranza cristiana si presenta come dono teologale fondato e confermato nei<br />

sacramenti, un dono che diventa fondamento dell‘impegno etico del cristiano a vivere<br />

nella speranza il suo essere «in Cristo». L‘esperienza di appartenenza del cristiano<br />

all‘èschaton per il suo fondamento ontologico sacramentario, quindi la chiamata alla<br />

fede e alla speranza (cfr. Ef 4, 4), si presenta sempre come l‘inizio del cammino verso di<br />

esso, configurandosi nel suo «già» come gioia e pace proprio per la virtù dello Spirito.<br />

―Il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia e pace nella fede, perché abbondiate nella<br />

speranza per la virtù dello Spirito Santo‖(Rom 15, 13). La testimonianza sgorga dalla<br />

gioia dello Spirito, dall‘essere salvati e abitati dalla novità di Dio. Se la fede opera per<br />

mezzo della carità, che è il frutto dello Spirito (cfr. Gal 5, 22), questa non può che<br />

essere sostenuta dalla speranza che nello Spirito si protende verso la piena realizzazione<br />

della novità della vita in Cristo.<br />

Questo perché il Padre ―ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Cristo dai<br />

morti, per una speranza viva, per un‘eredità che non si corrompe, non si macchia e non<br />

marcisce‖(1 Pt 1,3s.). Mediante la metafora della ―generazione‖ si può affermare che il<br />

61<br />

95 S. AGOSTINO, Sermo 378, 1: PL 39, 1673.<br />

96 F. X. DURRWELL, Lo Spirito Santo alla luce del mistero pasquale, Paoline, Roma 1985, 135


credente nasce nella Pasqua di Gesù. La nuova nascita dei credenti è pasquale perché<br />

avviene nella risurrezione dai morti; ha il suo luogo sacramentale nel battesimo; trova il<br />

suo significato esistenziale nella novità di vita mediante la fede. Al centro sta il Risorto<br />

e la sua azione che genera in noi una speranza vivente e attiva. Di seguito, la speranza è<br />

precisata ―come una eredità che non si corrompe, non si macchia, non marcisce‖ (1,4).<br />

La differenza cristiana della speranza è un‘eredità promessa, che ha già un anticipo<br />

nell‘esperienza filiale e fraterna dei credenti ed è descritta nei suoi tratti salienti così: è<br />

incorruttibile, perché è custodita nei cieli per noi (v. 4b); è incontaminata, perché<br />

accolta nella fede (v. 5a); è indistruttibile, perché è un patrimonio che raggiunge al di là<br />

della morte la pienezza della vita stessa di Dio (v. 5b).<br />

Così la speranza sostiene la tensione escatologica dell‘uomo nuovo in Cristo.<br />

―La speranza si protende dunque verso un avvenire sul quale è già fissata l‘ancora (Eb<br />

6, 18s). Nel dinamismo dello Spirito essa si muove verso una salvezza che la fede già<br />

tocca, che l‘amore abita. Per questo la speranza viene spessissimo nominata come<br />

ultima, dopo la carità(cfr. 1Ts 1, 3; 5, 8). La speranza è la stessa carità, ma sotto forma<br />

di prua che salpa verso la sua pienezza‖ 97 .<br />

62<br />

2.3. La virtù teologale della speranza<br />

La fede è il fondamento di ogni nostra speranza. Senza la fede la speranza non<br />

può vivere: si trasforma nel sognare. La fede, a cui il cristiano aderisce, è di natura sua<br />

una promessa; o meglio: è un incontro e una risposta alla rivelazione di Dio che<br />

aspettano la loro pienezza di beatitudine. ―La fede è il fondamento delle cose che si<br />

sperano e prova di quelle che non si vedono‖ (Eb 11, 1). Perciò la fede e la speranza<br />

vivono di una mutua appartenenza e di un reciproco fondamento. Se per virtù<br />

intendiamo la disposizione operativa dell'uomo alla vera realizzazione del suo essere<br />

mediante la libertà per il bene, la virtù teologale della speranza si fonda sulla fede e<br />

sulla partecipazione alla vita divina, sulla comunione col Bene riconosciuto, amato e<br />

desiderato, che si realizza per mezzo di Cristo come dono di grazia. ―La speranza è la<br />

virtù teologale per la quale desideriamo il Regno dei cieli e la vita eterna come nostra<br />

felicità, riponendo la nostra fiducia nelle promesse di Cristo e appoggiandoci non sulle<br />

nostre forze, ma sull‘aiuto della grazia dello Spirito Santo‖ 98 .<br />

La speranza che nasce dalla grazia tende al vero e definitivo bene che è Cristo,<br />

reale compimento della speranza. In lui si è già compiuto ciò che il cristiano spera come<br />

promessa. La speranza del cristiano è perciò testimonianza della fedeltà del Signore che<br />

ha promesso: il cristiano è colui che crede alla promessa della venuta del Signore.<br />

―Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché colui che ha<br />

promesso è fedele‖(Eb 10, 23). Nel cuore del credente, la speranza testimonia la fedeltà<br />

di Dio e l‘affidabilità della sua parola. Il credente guarda perciò alla storia come abitata<br />

dalla novità della promessa di Cristo. Promettere è far sperare ed è dare forma al tempo.<br />

Biblicamente la promessa crea la sensatezza del tempo, crea la storia. Il concetto non<br />

biblico di senso è solo una traduzione di ciò che la Bibbia chiama promessa.<br />

Etimologicamente, promettere significa mandare avanti, o anche mettere davanti, creare<br />

un orizzonte che consente un cammino. ―E‘ perché hai promesso che mi hai fatto<br />

sperare‖ 99 . Sperare la vita eterna implica il credere alla promessa di partecipare a quella<br />

stessa vita, perché in Cristo tutte le promesse di Dio sono diventate «sì» (2Cor 1, 20).<br />

97<br />

DURRWELL, Lo Spirito Santo alla luce del mistero pasquale, 142.<br />

98<br />

CCC, 1817.<br />

99<br />

S. AGOSTINO, Enarrationes in Ps. 118, 15, 1.


Così il Dio che promette è anche il Dio che si compromette, che in Cristo abita la morte<br />

e gli inferi e li vince con la risurrezione, evento che permette uno sguardo di<br />

compassionevole speranza di ogni credente sulla storia degli uomini.<br />

La speranza è la virtù teologale per la quale veniamo disposti, perciò, ad<br />

attendere da Dio con confidenza la vita eterna e tutto ciò che può aiutarci ad ottenerla.<br />

Se la speranza è una tensione di tutta la persona che aspira alla felicità, la speranza<br />

teologale ne assume la stessa struttura e ne compie l‘aspirazione; solo si tratta di una<br />

tensione che supera la naturale capacità dell'uomo, spingendosi fino al possesso di Dio,<br />

perché è Dio stesso rivela il suo amore per invitare e ammettere ogni uomo alla<br />

comunione con sé. Per questo la speranza è un dono. Al pari delle altre virtù anche la<br />

speranza è infusa nell'anima al momento della giustificazione, come una permanente<br />

disposizione ed inclinazione.<br />

Nel dinamico accordo delle virtù teologali la speranza sta nel mezzo, tra la fede<br />

e la carità, formando la nota di passaggio dalla prima alla seconda. La fede illumina la<br />

mente sugli orizzonti della verità di Dio, la speranza si apre alle incommensurabili<br />

ricchezze della bontà di Dio. La speranza dunque riposa sulla verità della fede, che<br />

riconosce l‘amore e la bontà di Dio, aprendosi alla confidenza e alla fiducia. Essa è<br />

talmente legata alla fede, che non si può parlare della vita di fede, senza parlare della<br />

confidenza che questa infonde nella vita del credente, che è in realtà entrare proprio nel<br />

campo della speranza.<br />

Riprendendo il discorso da cui siamo partiti, quello dei desideri come anima<br />

della speranza cristiana, comprendiamo ora da un punto di vista teologico tutta la novità<br />

posta nel desiderare umano dal dono teologale della speranza.<br />

La speranza viene definita da san Tommaso mediante il termine desiderio, ma<br />

non può essere confusa con esso. ―La speranza non è semplicemente desiderio. La<br />

speranza si distingue dal desiderio sotto due aspetti. Primo, perché il desiderio riguarda<br />

qualsiasi bene e appartiene all'appetito concupiscibile, mentre la speranza riguarda un<br />

bene arduo, e quindi cade sotto l'appetito irascibile. Secondo, il desiderio è rivolto a<br />

qualsiasi bene, indipendentemente dal fatto che sia possibile o impossibile, invece la<br />

speranza è volta a un bene raggiungibile e implica una certa sicurezza di poterlo<br />

raggiungere‖ 100 .<br />

La speranza non è semplice desiderio di qualcosa che manca. A contrapporla al<br />

desiderio aiuta anche l'etimologia. Mentre «desiderio» rimanda a sidus «stella», e quindi<br />

a un guardare alle stelle per attendersi qualcosa da loro, ma perdendo i riferimenti<br />

dell'orientamento, l'etimologia di speranza, sia in latino che in greco, costituisce uno<br />

sviluppo della radice vel e dunque, si colloca nell'orizzonte del volere.<br />

Ancor più suggestivo può essere l'accostamento tra la radice ebraica di sperare<br />

(qwh) e la parola «corda» (qaw). La «volontà di tensione», dunque, sembra essere<br />

elemento costitutivo della speranza. Un desiderio attivo, radicato sulla fiducia (in un<br />

fede, altra virtù teologale) nel riconoscersi in un fondamento che ci abita, in una<br />

comunione che ci pervade.<br />

La speranza della fede, quella che nasce dal credere in Dio e nel suo amore<br />

rivelato nella pasqua di Cristo, anima la forza del possibile, di un bene già posseduto ma<br />

nella speranza, dove l‘arduo del raggiungerlo è sostenuto dalla promessa di Dio che è la<br />

risurrezione di Cristo e il dono dello Spirito, quindi dall‘inizio della vita di comunione<br />

con lui. ―Sperare è ben più che desiderare, e noi spesso confondiamo l‘una cosa con<br />

l‘altra. Sperare è attendere ciò che la fede ci fa conoscere; si tratta, sì, di una cosa<br />

oscura, ma incomparabilmente più piena. Sperare è attendere con illimitata fiducia<br />

100 S. TOMMASO, De spe, a. 1.<br />

63


qualcosa che non si conosce, ma da parte di Colui del quale si conosce<br />

l‘amore‖(Madeleine Delbrel).<br />

Il cristiano perciò è l‘uomo della speranza più radicale e più impegnativa. E<br />

riguardo alla speranza vi è una differenza fra il cristiano e l‘uomo non animato dalla<br />

speranza teologale. Quest‘ultimo è un uomo dai molti desideri, che cerca di abbreviare<br />

la distanza fra lui e i beni da conseguire; è uomo dalle speranze a breve termine, le<br />

vuole presto soddisfatte, soprattutto quelle sensibili ed economiche che sono più<br />

rapidamente raggiungibili, e perciò, presto esaurite, ma con il risultato di lasciare stanco<br />

e vuoto, e spesso deluso il cuore dell‘uomo. Sono le sue delle speranze che non fanno<br />

grande il suo spirito, sia per l‘oggetto che le muove e sia per l‘impegno che richiedono,<br />

trattandosi spesso di speranze a buon mercato.<br />

Il cristiano invece è l‘uomo della vera e piena speranza, quella che è mossa dal<br />

desiderio di raggiungere il Sommo Bene 101 , e che sa d‘avere l‘aiuto da quello stesso<br />

sommo Bene, che alla speranza infonde la fiducia e la grazia di conseguirlo 102 . Quando<br />

nel cristiano il suo desiderio riduce la speranza teologale a semplice attesa di qualcosa,<br />

questa non muove più l‘attesa vigile e impegnativa del Regno che viene. ―Il Signore<br />

Gesù tornerà presto solo se lo aspettiamo con speranza viva. La Parusìa deve essere<br />

fatta esplodere dall‘accumularsi dei desideri. E noi cristiani, chiamati a mantenere<br />

sempre viva sulla terra la fiamma del desiderio, che cosa abbiamo fatto dell‘attesa?<br />

…Continuiamo a dire che vegliamo nell‘attesa del Signore. Ma in realtà, se vogliamo<br />

essere sinceri, saremmo costretti ad ammettere che non attendiamo più niente. E‘<br />

assolutamente necessario ravvivare la fiamma. Dobbiamo, ad ogni costo, rinnovare in<br />

noi stessi il desiderio e l‘attesa del grande avvenimento‖(Teillard de Chardin).<br />

Tuttavia occorre riconoscere che in fondo è sempre e solo l‘incontro con Dio che<br />

muove i nostri desideri ed alimenta la nostra attesa. Per guardare e protenderci verso di<br />

Lui, dobbiamo aprirci al dono del suo amore, alla forza della sua grazia: solo così il<br />

nostro desiderio, anziché piegarsi alla tristezza, diventa fiduciosa speranza. Per questo il<br />

fondamento della speranza sta nella fede, in quella volontà salvifica di Dio che rivela il<br />

suo amore e chiama tutti alla comunione con lui e la ragione profonda per la quale la<br />

speranza è essenzialmente unita alla preghiera. La preghiera infatti è la manifestazione<br />

e la proclamazione della speranza: ―petitio est interpretativa spei‖ 103 .<br />

Ma la speranza teologale è dono dato all‘uomo che coinvolge pienamente e<br />

definitivamente tutte la sua facoltà, quindi tutta la sua umanità, come anche la sua<br />

storicità, il suo essere nel tempo e nelle sue dimensioni di presente, passato e futuro. La<br />

speranza in particolare affonda le sue radici nel valore incancellabile che nell‘uomo è la<br />

sua memoria, quindi il suo passato. Egli desidera perché ricorda il bene gia ricevuto,<br />

desidera il sommo bene perchè ricorda cosa è il bene, attende perché sperimenta la<br />

privazione della pienezza del bene e perciò si protende verso un futuro di bene.<br />

La speranza cristiana non coincide con la futurologia, e la profezia evangelica<br />

non appartiene al genere delle previsioni, ma appartiene al genere delle promesse. E le<br />

promesse di Dio sono sempre al di là delle attese umane: ―Dio non realizza sempre le<br />

nostre attese, ma compie sempre le sue promesse‖ (Bonhoeffer).<br />

―Ciò che si spera, se visto, non è più speranza: infatti ciò che uno già vede, come<br />

potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con<br />

perseveranza‖(Rom 8, 24-25). La speranza spera l‘invisibile, dunque l‘eterno (cfr. 2Cor<br />

4, 17-18). L‘oggetto della speranza è sottratto al potere di chi spera, non gli è<br />

64<br />

101<br />

Cfr. S. AGOSTINO, Conf. 1, 1: «Fecisti nos ad Te»<br />

102<br />

Cfr. S. Th., I-II, 40, 7<br />

103<br />

S.Th., II-I1, 17, 4, 3 m; 2, 2 m.


disponibile, ―perché nessuno dice di sperare ciò che egli stesso può fare o provocare‖ 104 .<br />

La speranza non spera ciò che è razionalmente pre-vedibile, ma suppone un‘assenza e<br />

un ignoto, un non possedere e un non sapere. La speranza è umile e povera, per questo è<br />

soprattutto degli umili e dei poveri. La speranza suppone anche un non vedere, eppure la<br />

fiducia e la perseveranza nelle quali vive la speranza vede qualcosa, vede con gli occhi<br />

della fede e pre-gusta ciò che ancora non vede, ma è certa di raggiungere. ―Noi<br />

speriamo quello che in verità non vediamo; siamo però nel corpo di quel capo, nel quale<br />

è già diventato perfetto ciò che speriamo‖ 105 .<br />

Così nelle profondità nascoste del desiderio, nella capacità di elaborare sogni<br />

diurni, la stessa ragione si riconosce assunta e superata non solo da un orizzonte più<br />

ampio, ma da un dono più grande, in cui i desideri sono diventati promessa a motivo del<br />

loro inizio nella storia della salvezza: ―il principio speranza‖ riaccende la possibilità<br />

dell'esodo, l'attesa di una patria intravista, anche se non posseduta. Sul piano speculativo<br />

la ragione indagante oltre se stessa si ferma meditante sull‘abisso «dell'Inizio»:<br />

indicibile, ineludibile sponda‖ 106 .<br />

La speranza che ci è offerta attraverso la fede in Cristo non è un‘aggiunta alla<br />

realtà umana, ma è la scoperta della sua fondazione e il dispiegarsi della sua verità. La<br />

fede in Cristo offre un modo concreto di esercitare la speranza in Dio, come ragione di<br />

vita per ogni uomo. Chi crede in Gesù come incarnazione della Parola eterna sa che per<br />

incontrare Dio non è necessario aspettare che la storia finisca, né augurarsi che le<br />

creature scompaiano. La salvezza o è offerta già nella storia, o non sarà mai, perché solo<br />

nella storia l'uomo può raggiungere la sua statura di figlio. La speranza perciò è una<br />

virtù che affonda le sue radici nella memoria, coglie i suoi frutti maturi nella parusìa,<br />

ma sperimenta già l‘inizio delle promesse di Dio nella storia, anche se il suo oggetto<br />

conduce l'uomo a trascenderla e a guardare oltre.<br />

Imparare a sperare significa sviluppare le proprie attese nella storia e non fuggire<br />

dalle sue durezze. Occorre individuare perciò gli oggetti adeguati delle nostre attese.<br />

Queste attese hanno un rapporto con la speranza teologale, non c'è identità ma neppure<br />

separazione. La speranza teologale si esercita in rapporto alle stesse situazioni, ma ha<br />

movenze e dinamiche diverse, perché ha come riferimento il Bene riflesso nei molti<br />

beni, la Verità rilucente in ogni parola esatta, la Vita, alimento di ogni esistenza.<br />

Occorre capire quale connessione esista tra le speranze quotidiane e la speranza<br />

teologale, per evitare che questa venga intesa come l'attesa di eventi fuori dalla storia o<br />

dopo la morte, come se essa riguardasse la grazia soprannaturale, la vita eterna, il<br />

paradiso. Anche la speranza teologale ha rapporto con il cibo che dobbiamo mangiare,<br />

con la casa che dobbiamo abitare, con il lavoro che dobbiamo svolgere. La distinzione<br />

perciò tra la speranza quotidiana e la speranza teologale non riguarda l'oggetto<br />

materiale, come si esprimevano gli scolastici, ma l'oggetto formale, cioè l'attitudine con<br />

cui si vive la speranza di ogni giorno. La speranza teologale, infatti, è una modalità<br />

particolare con cui si vivono le attese storiche e le speranze quotidiane. E attendere Dio<br />

che viene in ogni istante della nostra esistenza. Dio viene con i doni che ci fanno<br />

crescere nella nostra identità filiale.<br />

Alla promessa di Dio non si chiedono prove ma ci si affida incondizionatamente,<br />

certi, come dice San Paolo parlando di Abramo, ―che quanto Dio aveva promesso era<br />

anche capace di portarlo a compimento‖(Rom 4,2 1).<br />

65<br />

104<br />

J. PIEPER, Speranza e storia, Morcelliana, Brescia 1969, 20.<br />

105<br />

S. AGOSTINO, Sermo, 157, 3<br />

106<br />

B. FORTE, La sfida di Dio, Milano 2001


66<br />

3. La fedeltà alla speranza teologale<br />

―Noi infatti ci affatichiamo e combattiamo perché abbiamo posto la nostra<br />

speranza nel Dio vivente‖(1Tm 4, 10). Il dono teologale della speranza richiede la<br />

fedeltà alla speranza come virtù, dove la libertà del cristiano è posta sul fondamento del<br />

suo sperare nel Dio vivente. La fedeltà alla speranza muove la libertà nell‘impegno di<br />

chi si affatica per la speranza perché diventi speranza di salvezza e di redenzione per<br />

tutti. ―Quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono<br />

senza affannarsi, camminano senza stancarsi‖(Is 40, 31). Virtù teologale della libertà di<br />

Dio per l‘uomo e della libertà dell‘uomo per raggiungere in Dio la sua felicità, la<br />

speranza cammina sulle vie del desiderio di bene, percorrendo la via della vita nuova in<br />

Cristo. Così,poggiando sulla fede e protendendosi verso la gloria, la speranza cammina<br />

nella carità, dando a questa la forza del possibile, per mezzo delle ali della pazienza e<br />

della perseveranza.<br />

La speranza assume perciò l‘impegno morale della responsabilità. Nello stesso<br />

tempo, la fedeltà alla speranza si esercita nel combattimento contro le tentazioni che<br />

invitano a rinunciare a vivere secondo il principio della speranza che è Cristo, e nella<br />

prospettiva della beatitudine del suo regno.<br />

3. 1. Speranza e responsabilità<br />

Il pensiero delle realtà future, vissuto in maniera teoretica e asettica, non è<br />

capace di ridestare il moto autentico della speranza. Infatti, soltanto il desiderio della<br />

patria beata può conferire significato definitivo ai momenti quotidiani della vita, che<br />

allora vengono visti e valutati come premessa e preparazione efficace alla gioia perfetta<br />

del cielo. Senza la meta finale la nostra esistenza perde il principio unificatore e ogni<br />

istante si espone alla tentazione di essere vissuto come un frammento slegato dal<br />

passato e dal futuro. La speranza invece ―dilata il cuore nell‘attesa della beatitudine<br />

eterna. Lo slancio della speranza preserva dall‘egoismo e conduce alla gioia della<br />

carità‖ 107 .<br />

3.1.1. Speranza e purificazione<br />

La speranza suscita e muove una responsabilità e cura per la speranza che abita il<br />

cuore del credente, come esigenza di purificazione da tutto ciò che è corrosivo della<br />

libertà per il Regno e della speranza di contemplare il volto di Dio. Sotto la forza e il<br />

dinamismo della grazia, la speranza diventa principio e forza di quegli atti mediante i<br />

quali il cristiano, a motivo della sua speranza, purifica se stesso. ―Carissimi, noi fin<br />

d‘ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però<br />

che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così<br />

come egli. Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro‖(1<br />

Gv, 3, 2-4). ―Il movente per purificare se stesso è la speranza in Cristo: quella di<br />

diventare simile a lui, sempre più figlio di Dio... La purificazione non è presentata come<br />

un mezzo o una condizione per realizzare la figliolanza; essa è piuttosto il<br />

comportamento suscitato spontaneamente nei credenti dalla loro fede in Cristo che è<br />

107 CCC, 1818.


puro, ma molto più ancora dalla loro ―speranza in lui‖, quella di diventare totalmente<br />

simili a lui‖ 108 .<br />

L‘oggi della fede si protende con la forza della speranza oltre la debolezza e le<br />

colpe, per partecipare a quella promessa fondata sulla speranza che è la piena e<br />

definitiva comunione di vita in Dio, sommo bene e piena felicità. E questo accettando la<br />

purificazione come morte dell‘uomo vecchio e la morte accettata e vissuta per amore<br />

come luogo e fonte di speranza. ―La speranza vede la spiga, quando i miei occhi di<br />

carne vedono solo un seme che marcisce‖(Primo Mazzolari).<br />

67<br />

3.1.2. Speranza e impegno per tutto l’uomo<br />

La speranza vera, tuttavia, non può limitarsi a superare le sconfitte, ma la<br />

speranza autentica crea lo spazio di una gratuità ricevuta e accolta con animo aperto,<br />

resa disponibile per la crescita della persona, come impegno di tutto l‘uomo, per ogni<br />

uomo, nell‘oggi del tempo.<br />

Quando la meta futura si rischiara con il supplemento di luce che proviene dalla<br />

fede nel Dio fedele alle sue promesse, la persona fa suo l‘orizzonte della gratuità<br />

ricevuta e i vari aspetti della esistenza vengono polarizzati verso quell‘unica meta. In<br />

quest‘orizzonte ben definito di speranza, la persona intuisce l‘unitarietà del suo ―esserenel-tempo‖,<br />

dove il passato, il presente e il futuro rivelano il mistero dei loro nessi<br />

nascosti: è questa la situazione ideale nella quale la persona non soltanto è in grado di<br />

elaborare un suo progetto, ma ritrova in sé le energie per far convergere in esso la<br />

propria esistenza personale e comunitaria. La speranza infatti salva dal pericolo di<br />

essere o illusi o nostalgici, di guardare al futuro senza passato o di fermarsi a un passato<br />

privo di futuro. ―La speranza è l‘―àncora della nostra vita, sicura e salda, la quale<br />

penetra…‖ là ―dove Gesù è entrato per noi come precursore‖(Eb 6, 19-20). E‘ altresì<br />

un‘arma che ci protegge nel combattimento della salvezza: ―Dobbiamo essere…rivestiti<br />

con la corazza della fede e della carità, avendo come elmo la speranza della salvezza‖(1<br />

Ts 5, 8)‖ 109 .<br />

Anche dopo aver intuito che la speranza vera crea nel credente quella forza di<br />

coesione verso il proprio futuro, che conferisce unitarietà all‘esistenza umana a partire<br />

dalle categorie fondamentali del tempo e dello spazio, la persona si ritrova a riprendere<br />

giorno dopo il giorno il cammino di coerenza: la speranza autentica richiede fedeltà.<br />

Contro le illusioni di un futuro giudicato utopico la speranza indica al credente la<br />

consistenza dei suoi gesti quotidiani che costruiscono il progetto di vita; e contro la<br />

sensazione di perenne insignificanza o inadeguatezza dei propri atti, rispetto all‘ideale<br />

di vita, mostra la valenza eterna, anche se concentrata nel frammento, delle singole<br />

scelte operate in vista della meta definitiva. ―Essa ci procura la gioia anche nella prova:<br />

«lieti nella speranza, forti nella tribolazione» (Rm 12, 12)‖ 110 .<br />

Così la virtù della speranza coniuga insieme i due poli della esistenza umana: il<br />

presente sostenuto da una pazienza ferma e salda di fronte alle prove della vita, e il<br />

futuro che nel frammento della già iniziata comunione con Dio in Cristo anticipa la<br />

pienezza escatologica. ―La speranza teologale è anticipazione militante del futuro<br />

promesso che fa tirare nel presente degli uomini il futuro di Dio‖ 111 . Vivere sotto la<br />

108<br />

I. DE LA POTTERIE, Speranza in Cristo e purificazione (1Gv 3,3), in Cristo nostra speranza[Parola<br />

Spirito e Vita 9]EDB, Bologna 1984, 224-225.<br />

109<br />

CCC, 1820.<br />

110<br />

CCC, 1820.<br />

111<br />

B. FORTE, Trinità come storia, Paoline, Cinisello Balsamo(MI) 1985, 190.


signoria di Dio, manifestatasi nella risurrezione di Cristo, significa vivere come<br />

migranti sul punto di partire. Per questo Cristo inaugura l'ora della missione. La<br />

speranza diviene un atteggiamento attivo, nutrito di coraggio e di fortezza d'animo, che<br />

alimenta la resistenza nella sofferenza e la tensione nella lotta. Del resto, ricorda<br />

l‘apostolo Paolo, la speranza si forgia nelle tribolazioni e nelle prove: La tribolazione<br />

produce la pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza‖(Rom<br />

5, 3-4). Così il cristiano è chiamato a vivere il suo impegno nel mondo non perché<br />

rimanga quello che è, ma perché si trasformi e diventi ciò che gli è promesso che<br />

diventerà. ―La speranza è l‘annuncio profetico di questo avvenire della salvezza<br />

escatologica e il ritmarsi etico di tutta l‘esistenza cristiana a questo av-venimento<br />

salvifico della grazia in noi e attorno a noi: l‘avvenire fonda e muove il divenire‖ 112 .<br />

La speranza è annuncio operante e operativo di salvezza. Ribadire la<br />

responsabilità per l‘uomo e per il mondo non può significare certo uno sbilanciamento<br />

nelle attività da compiere per vivere l‘impegno suscitato dalla speranza. Esso, infatti,<br />

comincia dall‘interiorità della persona, profondamente sollecitata dall‘avvenire salvifico<br />

della grazia, ma non per questo rifiuta di assumersi la responsabilità della speranza per<br />

il mondo e per la storia. ―La Chiesa insegna che la speranza escatologica non<br />

diminuisce l'importanza degli impegni terreni, ma anzi dà nuovi motivi a sostegno<br />

dell'attuazione di essi. Al contrario, invece, se manca la base religiosa e la speranza<br />

della vita eterna, la dignità umana viene lesa in maniera assai grave, come si constata<br />

spesso al giorno d'oggi, e gli enigmi della vita e della morte, della colpa e del dolore<br />

rimangono senza soluzione, tanto che non di rado gli uomini sprofondano nella<br />

disperazione‖ 113 .<br />

La promessa di salvezza per tutto l‘uomo, a cui la speranza attinge il suo<br />

progetto di responsabilità e la forza del suo impegno, è fondata sul mistero pasquale<br />

celebrato nei sacramenti. Ai sacramenti della speranza il cristiano attinge la passione del<br />

possibile, quale coscienza attiva che il male e il peccato nel mondo e tra gli uomini, per<br />

quanto radicati e ancora presenti, sono vinti e quindi vincibili. Questa passione è in lui<br />

forza, coraggio, perseveranza, pazienza, vigilanza e lotta: atteggiamento in cui prende<br />

forma operativa la speranza.<br />

Questa speranza teologale non attenua perciò l‘impegno e la responsabilità per il<br />

progresso della città terrena, ma al contrario gli dà senso e forza. La salvezza o è offerta<br />

già nella storia, o non sarà mai, perché solo nella storia l'uomo può raggiungere la sua<br />

statura di figlio. La speranza perciò e una virtù che si svolge nella storia, anche se il suo<br />

oggetto conduce l'uomo a trascenderla e a guardare oltre. La vocazione dell‘uomo alla<br />

vita eterna non elimina, anzi conferma il suo compito di mettere in atto le energie e i<br />

mezzi, che ha ricevuti dal Creatore per sviluppare la sua vita temporale. ―La vigile e<br />

operosa attesa della venuta del regno è pure quella di una giustizia finalmente perfetta<br />

per i vivi e per i morti, per gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi, che Gesù Cristo,<br />

costituito Giudice supremo, instaurerà. Una tale promessa, che supera tutte le possibilità<br />

umane, riguarda direttamente la nostra vita in questo mondo. Infatti, una vera giustizia<br />

deve estendersi a tutti, portare la risposta all‘immenso cumulo di sofferenze che gravano<br />

su tutte le generazioni. In realtà, senza la risurrezione dei morti e il giudizio del Signore<br />

non c‘è giustizia nel senso pieno di questo termine. La promessa della risurrezione viene<br />

gratuitamente incontro al desiderio di vera giustizia, che abita nel cuore umano‖ 114 .<br />

68<br />

112<br />

COZZOLI, Etica teologale, 271.<br />

113<br />

GS, 21.<br />

114<br />

CONGREGAZI0NE PER LA D0TTRINA DELLA FEDE, Istruzione su «Libertà cristiana e<br />

liberazione» [22 marzo 1986], in Ench. Vat. 10, 274-275.


―Io spero in te per noi‖: così in modo lapidario G. Marcel sigilla il legame<br />

profondo tra la speranza personale e comunitaria radicandole nella loro dimensione<br />

trascendente. Per ritrovare la possibilità di sperare nel Dio della vita, occorre che la<br />

speranza di ciascuno porti dentro il cuore l‘anelito di speranza di tutti. Gli stessi<br />

linguaggi della speranza mettono in evidenza la tensione tra la speranza di ogni uomo e<br />

donna (―io spero…‖) e la ricerca dei beni sperati (―io spero che…‖). Questa tensione<br />

deve però prestar credito alla promessa (―io spero in…‖) che è presente nei beni sperati,<br />

ma che supera sempre i beni ottenuti.<br />

Occorre ritrovare lo slancio della speranza dentro le esperienze della vita umana.<br />

Perché la speranza ha la forma della promessa che è prefigurata nelle esperienze della<br />

vita umana e sociale. Oggi la speranza è confinata nello spazio intimo di una speranza<br />

individuale o nell‘ambito di un progressismo sociale, senza che si riescano a vedere gli<br />

stretti legami che uniscono le speranze della persona e le attese della società. Ma per il<br />

suo carattere etico la speranza chiede un agire grato, una libertà operosa, capace di<br />

rinnovare le relazioni personali e di istituire nuovi legami e progetti sociali. E si<br />

trasforma in invocazione verso Colui che è il garante, l‘origine misericordiosa che<br />

sostiene la nostra attesa: «io spero in Te per noi!».<br />

Occorre capire e intrecciare le connessione esistenti e possibili tra le speranze<br />

quotidiane e la speranza teologale, per evitare che questa venga intesa come l‘attesa di<br />

eventi fuori dalla storia o dopo la morte, come se essa riguardasse soltanto la grazia<br />

soprannaturale, la vita eterna, il paradiso.<br />

69<br />

3.1.3. La speranza come riserva escatologica<br />

Il cristiano è sostenuto e guidato nel suo impegno dalla tensione salvifica della<br />

speranza escatologica, dall‘amore a quelle realtà ultime che danno valore e fecondità<br />

alle penultime realtà dell‘esistenza umana. Proprio perché guarda e cammina verso quel<br />

avvenire assoluto la speranza relativizza nella prospettiva del provvisorio tutte le mete<br />

raggiunte dall'uomo nella storia, rivelandone la dimensione del penultimo. Quando si<br />

parla di speranza o di segni di speranza nel nostro mondo sì intendono spesso piccole<br />

realizzazioni positive o comportamenti onesti tangibili da cui trarre occasione, come si<br />

usa dire «per ben sperare», per illudersi che tutto non vada proprio così male. Ma si<br />

tratta spesso di caricature della speranza teologale, che è fondata non su piccole lucciole<br />

vaganti nella notte, ma sulla promessa di Dio, a cui non si chiedono prove ma a cui ci si<br />

affida incondizionatamente.<br />

Il cristiano non può dichiararsi pienamente soddisfatto di nessuna politica,<br />

economia e istituzione che le governano, ma cammina sempre in avanti in cerca del<br />

nuovo e del migliore, in uno stato costante di esodo verso il compimento futuro della<br />

promessa. Essa assume per questo un atteggiamento critico di vigilanza di fronte<br />

all'ambivalenza del progresso, e profetico in ordine alla pienezza di bene che la speranza<br />

del regno prospetta secondo la parola evangelica, ma, nello stesso tempo accoglie, con<br />

fiducia le attese umane orientandole verso il nuovo e l'ultimo.<br />

―Avere speranza significa essere preparati in qualsiasi momento a ciò che ancora<br />

non nasce, però senza arrivare a disperarsi se la nascita non avviene nel corso della<br />

nostra vita. Pertanto non ha senso aspettare ciò che già esiste o ciò che non può essere.<br />

Coloro la cui speranza é debole lottano per le comodità o per la violenza, mentre coloro<br />

la cui speranza é forte riconoscono e fomentano tutti i segni della nuova vita e stanno


pronti in tutti i momenti per aiutare l‘avvento di ciò che si trova in condizioni di<br />

nascere‖ 115 .<br />

3.1.4. Speranza e carità<br />

Chi ha fiducia in Dio e spera in Lui, deve come Lui donarsi interamente agli<br />

uomini. La speranza si riversa nella carità, perché al cristiano che spera non è dato di<br />

chiudersi in una ricerca individualistica della salvezza, quella della propria anima, ma di<br />

partecipare alla speranza di Cristo che è il suo amore salvifico per tutti gli uomini.<br />

Se la carità è la via della speranza, il suo lessico perché dà voce e credibilità alla<br />

speranza dell‘amore riversato nel cuore dei credenti dallo Spirito, la speranza è la fonte<br />

inesauribile cui attinge l‘immaginazione creativa della carità e insieme la verifica che la<br />

carità sia fedele alle promesse di Dio contemplate dalla speranza teologale.<br />

La speranza per l‘altro, per la sua vita e la sua felicità, mediante la carità diviene<br />

speranza nell‘altro. La carità fondata sulla speranza riflette in sé quel sentimento di<br />

fiducia che appartiene come suo proprio alla speranza teologale, che spera in Dio e nelle<br />

sue promesse.<br />

Questo richiede un delicato equilibrio tra i due atteggiamenti propri della<br />

speranza: attendere nella fiducia e rimboccarsi le maniche per l'azione. Il cristiano è<br />

sempre come seduto sul bordo estremo della sua sedia. Seduto su quello che dispone<br />

d‘un appoggio sicuro: la speranza. All'estremo bordo della sedia, perché è pronto ad<br />

alzarsi e a pagare di persona con la sua carità. La poltrona del fannullone non fa parte<br />

dei suoi mobili.<br />

3.2. I peccati contro la speranza<br />

Alla speranza sono legate la fiducia e il timore, perché la speranza ― è l'attesa<br />

fiduciosa della benedizione divina e della beata visione di Dio; è anche il timore di<br />

offendere l'amore di Dio e di provocare il castigo‖ 116 .<br />

I peccati contro la speranza sono perciò la disperazione e la presunzione. Contro<br />

la speranza si può peccare direttamente in due modi: per difetto e per eccesso. Peccati<br />

per difetto sono la disperazione e lo scoraggiamento; la presunzione, invece, è un<br />

peccare per eccesso contro la speranza teologale.<br />

3.2.1. Disperazione<br />

―Per la disperazione, l'uomo cessa di sperare da Dio la propria salvezza<br />

personale, gli aiuti per conseguirla o il perdono dei propri peccati. Si oppone alla bontà<br />

di Dio, alla sua giustizia – il Signore, infatti, è fedele alle sue promesse – e alla sua<br />

misericordia‖ 117 .<br />

Pecca per difetto contro la speranza tanto colui che non desidera più la vita<br />

eterna, escludendola dall‘orizzonte del proprio vivere, quanto chi dispera di poterla<br />

raggiungere. Il primo atteggiamento può essere determinato o dall'incredulità o<br />

dall'eccessivo attaccamento ai beni materiali. La disperazione invece, è il più delle volte<br />

70<br />

115 E. FROMM, La Rivoluzione della Speranza<br />

116 CCC, 2090.<br />

117 CCC, 2091.


determinata dalla sfiducia. Talvolta però le due forme si incrociano; è il caso di chi, non<br />

credendo, dispera, non trovando nulla nella propria vita che possa appagare i suoi<br />

desideri, trovandosi cosi vinto dal senso di vuoto e di noia. Tuttavia è possibile la<br />

disperazione senza mancanza della fede. ―Parimente, può capitare che uno, pur<br />

ritenendo in universale il vero concetto della fede, cioè che nella Chiesa c'è la<br />

remissione dei peccati, subisca un moto di disperazione, persuadendosi, per una<br />

corruzione del giudizio in cose particolari, che per lui il quale si trova in tale stato non<br />

c'è speranza di perdono. Ed è così che è possibile la disperazione, come pure altri<br />

peccati mortali, senza mancare di fede‖ 118 .<br />

La disperazione è un peccato che paralizza gli sforzi per fare il bene e per<br />

superare le difficoltà. La disperazione impedisce di vedere la vita nell‘orizzonte delle<br />

promesse di Dio. Perciò distrugge la virtù come impegno di pazienza, fortezza e<br />

perseveranza, che la speranza abilità e promuove. ―Niente è più esecrabile della<br />

disperazione: la quale toglie a chi la possiede la costanza nei travagli ordinari della vita,<br />

e, peggio ancora, nelle tentazioni della fede. S. Isidoro poi insegna: «Commettere una<br />

colpa è la morte dell'anima; ma disperare è discendere all'inferno»‖ 119 .<br />

La virtù della speranza non esclude tuttavia la possibilità di sperimentare la<br />

disperazione come tentazione, la lotta per il bene come sconfitta. Sono sempre<br />

illuminanti le parole che Silvano dell‘Athos avverte nel suo cuore nella sua lotta contro<br />

il demone dell‘orgoglio: ―Tieni il tuo spirito agli inferi e non disperare‖. Si tratta di non<br />

disperare mai della misericordia di Dio anche contro l‘evidenza della propria miseria e<br />

del proprio peccato. Così la speranza più grande può germogliare nel terreno in cui<br />

sembra più probabile trovare l‘albero seccato della disperazione, sulle ceneri di speranze<br />

che erano illusioni, in una solitudine che scopre la speranza fedele di Dio. ―Uno non può<br />

conoscere la speranza finché non ha sperimentato che la speranza è come la<br />

disperazione‖(T. Merton).<br />

3.2.2. Scoraggiamento<br />

Dalla disperazione propriamente detta alcuni teologi cercano di distinguere lo<br />

scoraggiamento, non solo quando pesa involontariamente sull'anima come tentazione o<br />

come malattia, ma anche quando è accolto nella volontà: esso infatti non è la rinunzia,<br />

ma il rallentamento della speranza. Può dipendere dall'intiepidirsi della fede, ma anche<br />

dalla paura dei propri limiti e dell‘insuccesso. Tuttavia lo scoraggiamento, se non<br />

dominato, può gradualmente degenerare in disperazione.<br />

A combattere la sfiducia valgono soprattutto il ricordo delle grazie ricevute, il<br />

pensiero della nostra incorporazione in Cristo, la serena accettazione della prova e<br />

l'umile consapevolezza della propria miseria. Davanti allo scoraggiamento la speranza<br />

veste lo sguardo della compassione, che sa vedere il dolore del mondo e crederne la<br />

redenzione. ―La speranza non è ottimismo. La speranza non è la convinzione che ciò<br />

che stiamo facendo avrà successo. La speranza è la certezza che ciò che stiamo facendo<br />

ha un significato che abbia successo o meno‖ (Vaclav Havel).<br />

3.2.3. Presunzione<br />

118 S. TOMMASO, S. Th., II-II, 20, 2.<br />

119 S. TOMMASO, S. Th., II-II, 20, 3.<br />

71


Alla speranza si oppone, per eccesso, la presunzione. ―Ci sono due tipi di<br />

presunzione. O l'uomo presume delle proprie capacità (sperando di potersi salvare senza<br />

l'aiuto dall'alto), oppure presume della onnipotenza e della misericordia di Dio<br />

(sperando di ottenere il suo perdono senza conversione e la gloria senza merito)‖ 120 .<br />

La presunzione nasce dalla fiducia nelle proprie forze per il raggiungimento<br />

della salvezza (presunzione pelagiana), la quale nasce dall‘attesa della beatitudine e del<br />

perdono senza il proprio pentimento e l‘impegno della conversione. Tuttavia qualsiasi<br />

peccato di presunzione è meno grave di quello di disperazione. La presunzione infatti<br />

distrugge la giustizia divina; la disperazione invece distrugge la sua divina misericordia.<br />

Ma è anche vero che la presunzione impedisce alla virtù della speranza di camminare<br />

verso la pienezza della fede, di abbandonarsi in quell‘affidamento che rende possibile<br />

l‘impossibile di Dio.<br />

―Ogni tanto ci aiuta il fare un passo indietro e vedere da lontano. Il Regno non è<br />

solo oltre i nostri sforzi, è anche oltre le nostre visioni. Nella nostra vita riusciamo a<br />

compiere solo una piccola parte di quella meravigliosa impresa che è l'opera di Dio.<br />

Niente di ciò che noi facciamo è completo. Che è come dire che il Regno sta più in là di<br />

noi stessi. Nessuna affermazione dice tutto quello che si può dire. Nessuna preghiera<br />

esprime completamente la fede. Nessun credo porta la perfezione. Nessuna visita<br />

pastorale porta con sé tutte le soluzioni. Nessun programma compie in pieno la missione<br />

della Chiesa. Nessuna meta né obbiettivo raggiunge la completezza. Di questo si tratta:<br />

Noi piantiamo semi che un giorno nasceranno. Noi innaffiamo semi già piantati,<br />

sapendo che altri li custodiranno. Mettiamo le basi di qualcosa che si svilupperà.<br />

Mettiamo il lievito che moltiplicherà le nostre capacità. Non possiamo fare tutto, però<br />

dà un senso di liberazione l'iniziarlo. Ci dà la forza di fare qualcosa e di farlo bene. Può<br />

rimanere incompleto, però è un inizio, il passo di un cammino. Una opportunità perché<br />

la grazia di Dio entri e faccia il resto.<br />

Può darsi che mai vedremo il suo compimento, ma questa è la differenza tra il<br />

capomastro e il manovale. Siamo manovali, non capomastri, servitori, non messia. Noi<br />

siamo profeti di un futuro che non ci appartiene‖ (Oscar Romero).<br />

120 CCC, 2092.<br />

72


73<br />

CAPITOLO V<br />

ETICA TEOLOGALE DELLA CARITA’<br />

L‘unione con Dio si attua nella carità. Dio stesso è Carità, e nella carità noi<br />

diventiamo figli suoi, partecipando dell‘amore trinitario di Dio. La carità ancor prima di<br />

essere una virtù del cristiano è il dono stesso di Dio, del suo amore, riversato dallo Spirito<br />

Santo nel cuore dei credenti e che muove la risposta dell‘amare Dio con tutto il cuore e il<br />

prossimo come se stessi.<br />

Per poter parlare con efficacia della carità dobbiamo però chiederci fin dall‘inizio,<br />

il significato semantico di questo termine e il suo rapporto con il termine amore, spesso<br />

usati come sinonimi.<br />

Per indicare l‘amore, nella lingua greca troviamo la parola éros per considerare<br />

soprattutto l‘amore bramoso, passionale, in modo particolare, l‘amore sessuale. Essa indica<br />

la inclinazione egoistica, il desiderio, lo sforzo per qualche cosa, in particolarmente la<br />

bramosia passionale dell‘istinto sessuale. Nel Vecchio Testamento greco éros appare<br />

raramente.<br />

Il sostantivo filia, insieme con il corrispondente verbo fìléo, significa sempre<br />

l‘amore e l‘amare, come amicizia, simpatia, favore, benevolenza: amore degli déi verso gli<br />

uomini, del marito verso la moglie, dei genitori verso i figli e viceversa, dell‘ospite verso i<br />

forestieri. Di solito con filia si esprime l‘affetto spirituale. Ma ciò non toglie che tale<br />

espressione si adoperi anche per l‘amore sensibile sessuale. Nel Nuovo Testamento fìlèin<br />

s‘incontra di preferenza in San Giovanni; solo due volte in San Paolo. In quest‘ultimo, e<br />

nelle lettere di San Pietro, incontriamo l‘espressione filadelfìa (fìlàdeifos) nel senso di quel<br />

particolare amore fraterno dei credenti tra loro. Così troviamo anche la parola filànthropìa<br />

(atteggiamento spirituale e condotta pratica dei fìlànthropos) ad indicare sempre l‘amore<br />

per gli uomini nel senso di amicizia verso gli uomini ed anche nel senso di mitezza, bontà,<br />

tolleranza.<br />

Il sostantivo agàpe è sconosciuto alla letteratura greca profana. Da questo è nata<br />

l‘ipotesi che esso sia stato utilizzato appositamente nella versione greca del Vecchio<br />

Testamento (dei Settanta) per esprimere l‘amore disinteressato che dona e s‘immola,<br />

l‘amore che a quello divino si ricollega e da quello deriva. Mentre i Settanta adoperano<br />

ancora al tempo stesso agàpe e agàpesis il Nuovo Testamento conosce ed usa solamente<br />

agàpe. Attraverso il Nuovo Testamento la parola agàpe si diffuse poi dappertutto, sì che la<br />

si può in tal senso considerare come un termine specificamente neotestamentario. Il<br />

termine agàpe appare ne Sinottici solo due volte, negli scritti giovannei circa trenta volte,<br />

in San Paolo esso raggiunge la massima frequenza.<br />

La parola agàpe viene adoperata sempre, quando essa corrisponde ad una direttiva<br />

della volontà, quando una propensione o un amore si basano su una decisione di questa. Ha<br />

come presupposto una elezione, una scelta avvenuta. Viene inoltre con essa contrassegnato<br />

ogni stato d‘animo che diviene compassione, attraverso una forma di amore liberamente<br />

voluto. La parola agàpe è adoperata sempre in senso morale. Mentre la parola filèin è usata<br />

per indicare una propensione fondata su motivi naturali, il verbo agapàn esprime la forma<br />

più alta di amore, tutta spirituale, il cui soggetto è la volontà.<br />

Il neotestamentario agàpe viene tradotto in latino col termine, anch‘esso almeno in<br />

parte nuovo, di c(h)aritas. Esso esprime propriamente una penuria (di beni), ma anche<br />

diletto, amato derivato da càrus. Tuttavia quando si riferisce all‘amore di cui parla la<br />

Scrittura si scrive con la «h»; per questo, secondo una fondata interpretazione, sembra<br />

derivare dal greco charis (grazia). Dunque, il latino c(h)aritas rappresenterebbe non solo la<br />

sintesi già presente nel greco neotestamentario agàpe (come amore e misericordia,


74<br />

nell‘unità-pluralità di significati che ritroviamo nell‘Antico Testamento) e soprattutto la<br />

novità cristologica, ma anche la struttura dell‘evento salvifico espressa dal termine paolino<br />

e giovanneo charis, che indica la benevolenza, la grazia, non meritata ma accordata solo da<br />

Dio Padre come dono dello Spirito Santo attraverso la croce di Cristo.<br />

Anche soltanto da questo rapido esame terminologico, è evidente un grande<br />

processo di approfondimento semantico del concetto di amore, soprattutto nell‘Antico e nel<br />

Nuovo Testamento, che si esprime anche in una notevole e significativa creatività<br />

terminologica.<br />

Per comprenderne tutta la portata occorre perciò rifarsi all‘esperienza biblica,<br />

vetero e neotestamentaria, dell‘autocomunicazione salvifica di Dio e a quella vocazione<br />

all‘amore che Dio stesso ha messo nel cuore di ogni uomo.<br />

1. La libertà per la carità: la vocazione dell’uomo all’amore<br />

L‘amore è una realtà propria dell‘uomo e la capacità di amare la sua caratteristica<br />

fondamentale, che ne rivela il mistero e il fine. Per parlare della carità come dono e<br />

comandamento, occorre partire dalla vocazione all‘amore propria di ogni uomo, perché il<br />

primato della carità, verso cui conduce la riflessione teologico-morale sulla carità, realizza<br />

quella vocazione all‘amore a cui ogni uomo è chiamato.<br />

Se l‘amore è, come ci ricorda S. Tommaso, «il principio del movimento che tende<br />

verso il fine bramato», allora l‘amore nella sua dimensione trascendente, è presente in tutte<br />

le dimensioni costitutive dell‘uomo. Infatti, tutte queste sono specificazioni dell‘amore<br />

come attrazione verso un polo magnetico. E, in particolare, la dimensione intellettiva è<br />

attrazione verso il polo della verità, mentre quella volitiva è attrazione verso il polo del<br />

bene. Dunque, anche l‘intelligere e il velle hanno come molla l‘amore. L‘amore, nel senso<br />

specifico, si distingue dalla facoltà intellettiva perché è piena attrazione verso il polo<br />

magnetico secondo la sua forma personale. Così la stessa istintualità, propria dell‘area<br />

della corporeità, in quanto sensazione attrattiva verso un bene per il vivente, si risolve in<br />

una forma di amore.<br />

―L‘uomo è un animale dotato di ragione », afferma Jacques Maritain, «la cui<br />

suprema dignità consiste nell‘intelletto; E...] e la cui perfezione suprema consiste<br />

nell‘amore‖ 121 . E più avanti: ―La perfezione dell‘uomo consiste nella perfezione<br />

dell‘amore, e così, essa è meno perfezione della persona che perfezione del suo amore, nel<br />

quale il ―sé‖ è, in certo modo, perduto di vista‖ 122 . Maritain dunque, sulla linea tomistica,<br />

riconosce alla razionalità lo specifico d‘essere dell‘uomo, ma all‘amore il suo elemento<br />

perfettivo. Nell‘atto dell‘amore ci si costruisce persona dinamicamente. ―L‘amore è l‘atto<br />

che realizza nel modo più completo l‘esistenza della persona‖ 123 .<br />

L‘amore è l‘esperienza culmine che rivela la costituzione stessa dell‘uomo. ―Essa<br />

non riguarda primariamente una virtù, ma una struttura dell‘essere umano. Il discorso<br />

sull‘amore, appartiene dunque all‘area metafisica e solo conseguentemente alla sfera etica<br />

che è fedeltà alla propria struttura d‘essere. L‘adagio popolare recita: all‘amore non si<br />

comanda. Tuttavia si può comandare l‘impegno in ordine al funzionamento del proprio<br />

essere, per la fedeltà alla propria struttura antropologica‖ 124<br />

121 J. MARITAIN, L’educazione al bivio, La Scuola, Brescia 1976, 20.<br />

122 MARITAIN, L’educazione al bivio, 57.<br />

123 K. WOJTYLA, Amore e responsabilità, Marietti, Torino 1980, 60.<br />

124 S. PALUMBIERI, Pluralismo antropologico e approccio etico, in P. CARLOTTI (a cura di), Quale<br />

filosofia per la teologia morale? Problemi, prospettive e proposte, Las , Roma 2003, 41.


75<br />

Questo livello di essere, necessario alla conoscenza come fedeltà alla struttura<br />

costitutiva, è l‘unico su cui si può intessere un discorso sull‘amore, che qui appare come il<br />

dato ontologico essenziale. L‘amore è conoscenza come intelligenza d‘amore. Può essere<br />

conosciuto, ma come mistero, da quelli che lo vivono, mentre per gli altri è un problema<br />

che non possono comprendere.<br />

―L'uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere<br />

incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l'amore, se non<br />

s'incontra con l'amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa<br />

vivamente. E perciò appunto Cristo Redentore rivela pienamente l'uomo all'uomo<br />

stesso‖ 125 .<br />

Il fatto originario antropologico, dunque, da cui le dinamiche interiori partono e in<br />

cui confluiscono, non è il cogito della egocentricità razionale e idealistica. Non è il<br />

rapporto io-cose. Non è neppure quello io-valori astratti, ma la relazione io-tu-noi nel<br />

mondo. Questo si basa sulla reciproca interpellanza e svela ancor meglio la struttura del<br />

singolo come relazione costitutiva, come esse-ad.<br />

L‘espressione prima della costitutiva relazione interpersonale è la parola. Essa è<br />

epifania dell‘interiorità e manifestazione della struttura responsoriale dell‘essere umano.<br />

L‘apice della tensione relazionale si tocca nella verità della parola d‘amore. Martin Buber<br />

concepisce l‘amore non come fruizione dell‘altro, ma come rapporto con un tu ―emerso,<br />

unico, che sta di fronte‖ 126 . Tutto questo è come un evento. ―L‘amore non coinvolge l‘io<br />

come se per l‘amore il tu non fosse che il ―contenuto‖, l‘oggetto; l‘amore è tra l‘io e il tu.<br />

[…] L‘amore è responsabilità di un io verso un tu‖ 127 .<br />

Parlando dell‘originarietà dell‘amore si può evidenziare come esso risponde ai tre<br />

elementi del sistema dei bisogni del fondo d‘essere. Essi sono l‘incanto attraente, la<br />

motivazione coinvolgente e la certezza rassicurante. Al primo livello corrisponde il<br />

traguardo della bellezza. Al secondo quello della bontà. Al terzo quello della verità. Questi<br />

tre livelli corrispondono alle tre leve principali della interiorità davanti all‘essere, che si<br />

presenta come bello, buono, vero. L‘esperienza dell‘amore è quell‘operazione interiore che<br />

mette in moto queste tre originarie sollecitazioni: la verità su cui fondarsi, la bellezza che<br />

attrae, la bontà che commuove e muove.<br />

Ogni esperienza d‘amore si ritrova con due tendenze fondamentali compresenti in<br />

diverso dosaggio. La cultura ellenistica le ha formulate con i termini di éros, philia e agàpe.<br />

L‘éros connota l‘attrazione di un essere verso l‘altro da sé in ordine all‘acquisizione di<br />

quella perfezione che manca al sé. L‘agàpe dice tensione di un soggetto verso l‘altro in<br />

ordine all‘arricchimento della perfezione o al potenziamento di una già esistente.<br />

Queste due forme risultano costantemente intrecciate e si implicano<br />

reciprocamente. ―L‘agàpe non può essere pensata come assolutamente separata dall‘amore<br />

naturale di sé, diretto alla ricerca della felicità ed al compimento dell‘esistenza‖ 128 . Si noti<br />

bene che qui il termine agàpe non è usato nel senso di dono di grazia o di virtù teologale,<br />

ma piuttosto — ed è anche l‘accezione con cui lo usiamo in questa analisi sui presupposti<br />

antropologici dell‘amore — nel senso analogico di tensione che va verso la direzione<br />

oblativa.<br />

L‘éros non dice di per sé egoismo. Dice solo desiderio della propria perfezione.<br />

L‘agàpe, invece, è desiderio prevalente della perfezione per l‘amato. L‘éros e l‘agàpe sono<br />

dunque due tendenze complementari. Sono due facce della medesima medaglia.<br />

L‘appesantimento dell‘éros, che si riscontra lungo i percorsi di tante storie, è dovuto al<br />

125<br />

RH, 10<br />

126<br />

M. BUBER, Io e tu, in Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo 1997, 114.<br />

127<br />

BUBER, Io e tu, 69-70.<br />

128<br />

J. PIEPER, Sull’amore, Morcelliana, Brescia 1974, 150.


76<br />

limite costitutivo che indebolisce l‘aspetto etico della persona. Tuttavia, sul piano<br />

fenomenologico occorre rilevare la continua compresenza di queste due tendenze<br />

fondamentali.<br />

L‘éros della classicità appare come una risultante e sintesi degli aneliti di fondo di<br />

una creatura verso la propria pienezza o felicità. E la tensione alla felicità è una necessità<br />

per l‘uomo. ―Per natura la creatura spirituale desidera essere felice e, quindi, essa non può<br />

non volere essere felice‖ 129 .<br />

L‘éros è una spinta verso il mondo del sé. E amore del sé, che non è ripiegamento<br />

sul sé, ma è autentica tensione al perfezionamento delle strutture di sé entro cui si inscrive<br />

la socialità. E proprio per questo possiamo renderci conto della primarietà e<br />

paradigmaticità di questo amore del sé, che si condensa nel precetto biblico di amare il<br />

prossimo come se stessi. Non si può amare, insomma, se non a partire dal proprio sé. ―Se<br />

non sai amare te stesso, non puoi neppure amare veramente il prossimo‖ 130 . Perciò da un<br />

punto di vista paradigmatico ogni soggetto che ama non può assumere come norma e<br />

misura dell‘amore relazionale che quella dell‘amore autentico di sé.<br />

In concreto possiamo affermare che ogni atto d‘amore autentico compie questo<br />

percorso: parte dall‘amore del sé e, passando per la struttura del sé — éros — che è aperta<br />

all‘altro da sé, perciò stesso si invera nella direzione dell‘agàpe, avendo come suo centro<br />

l‘altro con le sue esigenze e attese. E quanto più matura diventa l‘esperienza dell‘amore,<br />

tanto più coerentemente si registra lo sbocco dell‘amore sulla linea dell‘agàpe.<br />

Ogni esperienza d‘amore combina i vari significati espressi in un ventaglio di<br />

termini complementari. Le due tendenze di fondo restano, tuttavia, nella direzione dell‘éros<br />

e dell‘agàpe, cioè, nel senso di marcia dell‘amore autointensivo o rivolto alla perfezione<br />

del sé, e di quello oblativo o rivolto alla perfezione dell‘altro.<br />

Nell‘uomo si rivela, perciò, un bisogno vitale d‘essere amato e di amare. In<br />

particolare la persona è chiamata a riconoscere il bisogno di essere amata, per imparare ad<br />

amare. Questo bisogno significa desiderio d‘apertura agli altri, coscienza del proprio<br />

limite, accettazione dell‘aiuto, gratitudine per quanto si riceve continuamente dagli altri.<br />

Chi demonizza questo istinto e non si lascia voler bene, si espone al pericolo di voler bene<br />

a tutti e non attaccarsi a nessuno, ma per finire col voler bene a nessuno e restare attaccati<br />

solo a se stessi. Amare è anche essere aperti e gioviali, coinvolgersi nella relazione e saper<br />

esprimere i propri sentimenti, riconoscere l‘altro non solo degno d‘essere amato ma capace<br />

d‘amare, accogliere la sua benevolenza e soprattutto riscoprirla ogni volta come parte e<br />

segno di quell‘amore più grande per il quale siamo venuti alla vita, e grazie al quale siamo<br />

ora in grado di voler bene.<br />

Questa percorso dell‘amore non è solo via dell‘uomo, ma per le qualità che<br />

abbiamo descritto e per essere l‘elemento originario e originale della persona, l‘amore è<br />

l‘esperienza religiosa più radicale e luogo dell‘esperienza stessa di Dio. Quindi via della<br />

conoscenza di Dio, via in cui incontrare l‘Altro per essere veramente se stessi, nel<br />

momento in cui si è conosciuti, quindi amati. Incamminarsi sull‘amore è la strada in cui è<br />

possibile fare l‘esperienza dell‘eterno perché Dio ha messo nell‘uomo l‘immagine della<br />

sua capacità d‘amare. Così Dio può incontrare ogni uomo là dove egli si apre all‘incontro<br />

e alla relazione.<br />

In questo l‘amore è segno d‘eternità, il bisogno di essere amati e di imparare ad<br />

amare come sete d‘infinito, la strada dell‘amore come strada dell‘esperienza di Dio, per<br />

scoprire in modo sorprendente, che sulla strada dell‘amore Dio stesso viene incontro<br />

all‘uomo per rivelargli non il segreto dell‘amore, ma il mistero del suo amore.<br />

―Nell‘amore, ognuno è volenterosamente disposto a lasciare che abbia valore qualcosa di<br />

129 S. TOMMASO, Contra gentiles, 1, 4, q. 92.<br />

130 S. AGOSTINO, Sermo 368, 5: PL 39, 1655.


77<br />

più di quanto lui soltanto può controllare e valutare. L‘amore è quella recettività che dà<br />

credito ad ogni verità straniera e le consente di rivelarsi come tale‖ 131 .<br />

2. Il dono della carità teologale<br />

La vocazione all‘amore è posta nel cuore di ogni uomo da Dio, che ha creato<br />

l‘uomo a sua immagine e somiglianza. Per conoscere l‘amore, occorre riconoscere l‘amore<br />

e accogliere il dono di essere amati da Dio. E Dio ―ha tanto amato il mondo da donare il<br />

suo Figlio per noi‖(Gv 3, 16). Il dono della carità si rivela nel mistero di Cristo e nel suo<br />

esodo pasquale. E noi siamo resi partecipi della sua pasqua e riceviamo il dono personale<br />

della carità teologale nel battesimo e in tutti i sacramenti. Perché ―la carità è da Dio‖(1Gv<br />

4, 7) e noi ―abbiamo creduto all‘amore che Dio ha per noi‖(1Gv 4, 16).<br />

Il cristiano, infatti, non ama con un suo amore, ma con l‘amore stesso di Dio che gli<br />

è stato gratuitamente e liberamente donato, come realizzazione graziosa e piena di quel<br />

desiderio di essere amati e di amare, che è nascosto nel cuore di ogni uomo.<br />

2.1. La rivelazione della carità: il mistero pasquale<br />

Gesù con tutta la sua vita rivela il volto del Padre e il suo amore per gli uomini. Ma<br />

nella croce ―Dio dimostra il suo amore per noi, perché mentre eravamo ancora peccatori,<br />

Cristo è morto per noi‖(Rom 5, 8). La croce di Cristo è lo spettacolo da contemplare per<br />

conoscere e convertirsi all‘amore di Dio. ―Nella sua morte in croce si compie quel volgersi<br />

di Dio contro se stesso nel quale Egli si dona per rialzare l'uomo e salvarlo — amore,<br />

questo, nella sua forma più radicale. Lo sguardo rivolto al fianco squarciato di Cristo, di<br />

cui parla Giovanni (cfr 19, 37), comprende ciò che è stato il punto di partenza di questa<br />

Lettera enciclica: « Dio è amore » (1 Gv 4, 8). È lì che questa verità può essere<br />

contemplata. E partendo da lì deve ora definirsi che cosa sia l'amore. A partire da questo<br />

sguardo il cristiano trova la strada del suo vivere e del suo amare‖ 132 .<br />

Tutta la vita di Gesù è caratterizzata dall‘amore, perchè in lui si manifesta l‘amore<br />

del Padre, che è la sorgente dell‘amore che la croce rivela. ―Come il Padre ha amato me,<br />

così anch‘io ho amato voi‖(Gv 15, 9). Nella croce l‘amore di Cristo raggiunge la sua<br />

completezza, ―li amo fino alla fine‖(Gv 13, 1) e la misura più grande perchè ―non c‘è<br />

amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici‖(Gv 15, 13). La croce è<br />

l‘espressione più alta della carità, perché nel morire per la salvezza degli uomini, l‘amore<br />

non solo dona qualcosa, ma si fa dono.<br />

Nel mistero pasquale non solo si rivela l‘amore di Dio in Cristo nella forma del<br />

tutto, ma anche che l‘amore è più forte della morte; per questo la carità, che è da Dio, è ciò<br />

che conta e ciò che rimane per sempre. Nella risurrezione di Cristo si rivela la vittoria<br />

dell‘amore di Cristo e quindi il primato della carità nella vita dei suoi discepoli. Se l‘amore<br />

non avesse vinto, la croce sarebbe rimasta certo l‘espressione dell‘amore più grande di<br />

Cristo, ma non la rivelazione di un amore redentivo, quindi per sempre e sempre possibile,<br />

quello che proprio nel giorno di pasqua si rivela come amore più forte del peccato e della<br />

morte.<br />

131 H.U. von BALTHASAR, Teologica, vol. 1: La verità del mondo, Jaka Book, Milano 1997, 130<br />

132 DCE, 12.


78<br />

2.2. La sorgente della carità: Dio è Carità<br />

Nel giorno di Pasqua si rivela l‘iniziativa del Padre, il Dio che ha costituito Gesù<br />

Suo Figlio Cristo e Signore ―con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la<br />

resurrezione dai morti‖ (Rom 1,4). L‘evento pasquale è manifestazione della vita divina<br />

che è rivelata come storia dell‘amore trinitario.<br />

A partire dal fatto che nella rivelazione spetta sempre al Padre l‘iniziativa<br />

dell‘amore, ciò che anzitutto risulta è quanto l‘amore del Padre sia sorgivo, fontale: il<br />

Padre è il principio, la sorgente e l‘origine della vita divina. La vicenda di Gesù, Figlio<br />

unigenito del Padre, rivela l‘assoluta libertà e gratuità dell‘amore del Padre, che ama da<br />

sempre e per sempre: senza essere necessitato o causato o motivato dal di fuori, egli ha<br />

cominciato nell‘eterno ad amare. Alla sua fedeltà nell‘amore egli non verrà mai meno:<br />

«Dio non ci ama perché siamo buoni e belli, ma ci rende buoni e belli perché ci ama»<br />

(Lutero). Perciò si può parlare dell‘assoluta spontaneità, della sovranità e dell‘inesauribile<br />

creatività dell‘amore divino. Il Padre è l‘eterna provenienza dell‘amore, Colui che ama<br />

nell‘assoluta libertà, l‘eterno Amante, caratterizzato dalla più pura gratuità dell‘amore. 133<br />

Se nel Padre risiede la sorgente dell‘amore, nel Figlio si lascia riconoscere la<br />

recettività dell‘amore. Il Figlio è accoglienza pura, eterna obbedienza d‘amore, gratitudine<br />

infinita: egli è 1‘ ―amato prima della creazione del mondo‖(Gv 17,24), in cui scorre nel<br />

tempo e nell‘eternità la vita divina, sorgente dalla pienezza del Padre: ―Come il Padre ha la<br />

vita in se stesso, così ha concesso al Figlio di avere la vita in se stesso‖ (Gv 5,26). L‘eterno<br />

Amante si distingue dall‘eterno Amato, che da Lui procede per la traboccante pienezza del<br />

suo amore: il Figlio è l‘Altro nell‘amore, Colui sul quale riposa il movimento della<br />

generosità infinita dell‘Amore fontale. L‘Amante è principio dell‘Amato: l‘Amore sorgivo<br />

è fonte dell‘Amore accogliente, nell‘insondabile unità dell‘Amore eterno.<br />

Questo processo per cui il Vivente nell‘amore dà origine in quanto principio a<br />

Colui che vive dell‘amore recettivo e accogliente, a Lui indissolubilmente congiunto, viene<br />

detto nella tradizione teologica cristiana «generazione»: l‘atto eterno di questo processo<br />

eterno è l‘eterna nascita del Figlio, il suo venire dal seno del Padre. In rapporto a Colui che<br />

è principio e fonte, Amore eternamente amante, il Figlio è il generato, l‘eternamente<br />

amato: egli è la Parola del Padre. Il Figlio non è una pura inconsistenza, una vuota forma<br />

per il gioco dell‘Assoluto divino con se stesso, ma è l‘Amato, il Figlio eterno, il Prediletto,<br />

l‘Unigenito. La recettività dell‘amore ha in Dio una consistenza infinita: accettare l‘amore<br />

non è meno personalizzante che dare l‘amore; lasciarsi amare è amore, non meno che<br />

amare... Anche il ricevere è divino! Precisamente in quanto è Amore ricettivo, il Figlio nel<br />

processo della sua generazione eterna è il fondamento immanente della comunicazione di<br />

sé assolutamente libera e gratuita che Dio realizza creando il mondo. Solo l‘infinita<br />

recettività del Figlio, ―per mezzo del quale e in vista del quale tutto è stato creato‖(Col<br />

1,16) e che si è fatto solidale con i peccatori fino all‘esilio della maledizione e della morte,<br />

consente l‘accoglienza da parte della creatura del puro dono dell‘essere (creazione del<br />

mondo) e dell‘esistere nell‘amore, che è la vita nuova nella grazia: nel Verbo tutto è stato<br />

creato e tutto viene redento; in Lui è offerta la grazia del Padre.<br />

In questa storia eterna dell‘amore lo Spirito è Colui che unisce il Generato al<br />

Generante, manifestando come l‘incancellabile distinzione dell‘amore non sia separazione:<br />

egli è la comunione dell‘Amante e dell‘Amato, che garantisce anche la comunione<br />

dell‘eterno Amante con le sue creature e con le loro storie di sofferenza, non a prescindere<br />

dall‘Amato, ma proprio in Lui e mediante Lui. Lo Spirito garantisce che l‘unità è più forte<br />

della distinzione e la gioia eterna è più forte del dolore provocato dal non-amore delle<br />

creature. Effuso sul Crocifisso nel giorno di Pasqua, egli riconcilia il Padre con<br />

133 Cfr. B. FORTE, L’essenza del cristianesimo, Mondatori, Milano 2002, 79-85.


79<br />

l‘Abbandonato del Venerdì Santo e in Lui con la passione del mondo. E Spirito di unità, di<br />

consolazione, di pace e di gioia. La distinzione del Padre e del Figlio è assunta nell‘unità<br />

più alta dell‘amore che procede dal Padre e, riposandosi e riflettendosi nel Figlio, ritorna<br />

alla sua origine senza origine: lo Spirito è il vincolo dell‘amore eterno. Perciò il Padre resta<br />

il principio, il Figlio l‘espressione, lo Spirito il loro legame personale nel movimento<br />

dell‘eterno amore.<br />

Il movimento eterno che dal Padre raggiunge il Figlio e per il Figlio raggiunge lo<br />

Spirito, in cui il Padre ama il Figlio nello Spirito e il Figlio riceve dal Padre l‘amore per<br />

amarLo nello stesso Spirito, dice l‘apertura dell‘amore trinitario, la pura oblatività di esso:<br />

è per questo che nella rivelazione Dio esce da sé sempre nello Spirito, tanto nell‘opera<br />

della creazione quanto in quella della redenzione. In questo senso lo Spirito compie la<br />

verità dell‘amore divino, mostrando come l‘amore non è mai chiusura o possessività, ma<br />

apertura, dono, uscita dal cerchio dei due: egli è l‘estasi di Dio verso il suo «altro». Nello<br />

Spirito l‘Amante e l‘Amato si «aprono» all‘alterità, nell‘immanenza del mistero come<br />

nell‘economia della salvezza: in quanto al di là del Figlio nella insondabile unità<br />

dell‘amore, lo Spirito è anche il luogo personale in cui la storia divina passa in quella<br />

umana, e questa in quella.<br />

L‘evento pasquale rivela dunque la storia trinitaria di Dio: non solo, cioè, la storia<br />

del Padre, del Figlio e dello Spirito, che in esso si rivelano nella fecondità delle loro<br />

reciproche relazioni e nella meravigliosa gratuità del loro amore per il mondo, ma anche<br />

l‘insondabile unità dei Tre che in esso fanno storia, come unità nella incancellabile<br />

differenziazione (Croce) e nella profondissima comunione (Pasqua), come unità della<br />

storia dell‘Amore che consegna l‘Amato (il Padre), che si lascia consegnare in assoluta<br />

libertà (il Figlio), il quale, consegnato per rendere possibile l‘ingresso divino nell‘esilio dei<br />

peccatori, è effuso in pienezza nell‘ora pasquale per realizzare l‘ingresso dei peccatori<br />

nella patria unificante e vivificante dell‘amore divino (lo Spirito). L‘unità dell‘evento<br />

pasquale è l‘unità dell‘evento dell‘amore che ama (il Padre), che è amato (il Figlio), che<br />

unisce nella libertà (lo Spirito). A Pasqua diventa manifesto come l‘amore non solo<br />

produca e crei l‘unità, ma già la presupponga, come esso sia non tanto unione di persone<br />

estranee, quanto riunione di persone tra loro estraniatesi per amore del mondo, che<br />

dall‘esilio dell‘estraneazione ritornano all‘originario e insieme nuovo essere uno della<br />

patria.<br />

Muovendo dalla rivelazione dell‘amore Amante, Amato e Unificante nella libertà,<br />

che è la storia di Pasqua, l‘unità divina può essere intesa come l‘amore essenziale, che<br />

soggiace all‘incancellabile differenziazione trinitaria dell‘Amante, dell‘Amato e<br />

dell‘Amore personale. E la via intravista da Agostino: ―In verità vedi la Trinità, se vedi<br />

l‘amore‖ 134 . ―Ecco sono tre: l‘Amante, l‘Amato e l‘Amore‖ 135 . ―E non più di tre: uno che<br />

ama colui che viene da lui, uno che ama colui da cui viene, e l‘amore stesso ... E se questo<br />

non è niente, in che modo Dio è amore? E se questo non è sostanza, in che modo Dio è<br />

sostanza?‖ 136 .<br />

L‘essenza del Dio vivo è dunque il suo amore in eterno movimento di uscita da sé,<br />

come Amore amante; di accoglienza di sé, come Amore amato; di ritorno a sé e di infinita<br />

apertura all‘altro nella libertà, come Spirito dell‘amore trinitario. L‘essenza del Dio<br />

cristiano è l‘amore nel suo processo eterno, è la storia trinitaria dell‘amore, è la Trinità<br />

come storia eterna di amore, che suscita, assume e pervade la storia del mondo, oggetto del<br />

suo puro amore. L‘evento pasquale non rivela altrimenti l‘essenza divina che come evento<br />

eterno dell‘amore fra i Tre e del loro amore per noi. L‘unità di Dio è dunque l‘unità del suo<br />

134 S. AGOSTINO, De Trinitate, 8, 8, 12: PL 42, 959.<br />

135 Ibidem, 8, 10, 14: PL 42, 960.<br />

136 Ibidem, 6, 5, 7: PL 42, 928.


80<br />

essere-amore, del suo amore essenziale, che esiste eternamente come Amore amante,<br />

Amore amato e Amore personale, come provenienza, venuta e avvenire eterni dell‘amore,<br />

origine, accoglienza e dono di esso, paternità, filiazione e apertura nella libertà, Padre,<br />

Figlio e Spirito Santo.<br />

Nel Dio vivo unità e originalità delle persone non solo non sono in concorrenza, ma<br />

si affermano reciprocamente. L‘essenza divina come amore non esclude, ma include le<br />

differenziazioni personali: e questo vale tanto nell‘immanenza della vita divina, quanto nel<br />

mistero di questa vita partecipata agli uomini. L‘amore divino non annulla le differenze,<br />

anche se le assume in un‘unità più profonda di esse.<br />

La rivelazione della comunione trinitaria risuona come risposta vera alle domande<br />

sulla possibilità di vivere la vocazione all‘amore, riconoscendo che si diventa capaci di<br />

amare quando ci si scopre amati per primi, avvolti e condotti dalla forza di un amore, che<br />

non annulla le differenze, valorizzandole anzi nell‘unità. Avvolto dall‘amore eterno,<br />

accolto nella storia trinitaria dell‘amore, l‘uomo può costruire storie d‘amore nella verità<br />

della sua vita.<br />

La Trinità di Dio, che è Amore, è dunque la buona notizia che risponde al bisogno<br />

più vero degli scenari del tempo e degli scenari del cuore. E nella Chiesa la fede nella<br />

Trinità diventa accoglienza dell‘amore dei Tre nella partecipazione al mistero dell‘amore<br />

crocifisso e risorto. Questo perché l‘amore non sia solo creduto ma ricevuto in dono, e i<br />

battezzati resi partecipi della natura divina, quindi dell‘amore di Dio effuso nei loro cuori,<br />

possano vivere il dono della carità come comandamento nuovo.<br />

2.3. Il dono sacramentale della carità<br />

La comunione di vita con Cristo, il dono di vivere in Cristo, diviene un‘esigenza e<br />

una urgenza di carità . ―La morale cristiana dell‘agàpe, che consiste nell‘amare come Dio<br />

ama, poiché è una morale di figli di Dio, è precisamente determinata da questa unione al<br />

Cristo pura manifestazione dell‘amore del Padre e modello di carità perfetta: «Camminate<br />

nella carità come Cristo vi ha amati (Ef 5, 2)‖ 137 . E la carità di Cristo ci spinge a vivere<br />

proprio secondo la sua carità. ―Poiché l‘amore di Cristo ci spinge al pensiero che uno è<br />

morto per tutti e quindi tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono<br />

non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro‖ (2 Cor 5, 14).<br />

Perciò la novità dell‘essere in Cristo nuova creatura (cfr. 2 Cor 5, 17), è l‘amore<br />

stesso di Cristo, l‘agàpe effuso nel cuore del cristiano, che lo sospinge - «urget nos»<br />

traduceva la Vulgata - ad agire in una carità che è frutto della vita dalla morte e quindi<br />

impegno di vita nel morire al peccato. La vita di carità, infatti, è legge possibile per la<br />

partecipazione al mistero pasquale, che è la «legge di Cristo» in noi, il dono della sua<br />

carità. ―Il fatto è che la legge di Cristo ha un altro punto di partenza, un altro fondamento<br />

rispetto alla Legge antica: essa è fondata sulla grazia (chàris) che Cristo ci ha donato, ed è<br />

proprio sulla base di questa grazia (l‘indicativo dell‘evento della salvezza) che l‘uomo è<br />

chiamato ad un agire conforme (imperativo dell‘agire religioso e morale). In altri termini, è<br />

l‘agápe che Cristo ci ha donato che diventa in noi principio di una nuova comprensione<br />

dell‘esistenza e di conseguenza dell‘agire. Ed è proprio per questo che la legge di Cristo,<br />

essendo ormai riassunta nel comandamento dell‘agápe, è legge di libertà e non di<br />

schiavitù‖ 138 .<br />

La centralità dell‘agàpe nella rivelazione neotestamentaria deve essere spiegata<br />

anche secondo la prospettiva escatologica iniziata nel giungere dell‘ora di Cristo, quindi<br />

137 C. SPICQ, L’«agape» nella vita e nella morale cristiana, in Asprenas 15(1968), 124-125<br />

138 P. CODA, L’agape come grazia e libertà, Città Nuova, Roma 1994, 119-120


81<br />

come frutto dell‘evento salvifico della sua vittoria sul peccato e sulla morte. La realtà<br />

dell‘amore rende visibile la vittoria escatologica della luce sulle tenebre, dove l‘amore<br />

deve operare come luce che scaccia le tenebre (cfr. Gv 4, 23; 5, 25). ―La comunità prende<br />

parte al progredire della potenza dell‘amore in quanto rappresenta il patto escatologico,<br />

mediante il quale Dio regola il suo rapporto con gli uomini in modo nuovo e definitivo. Il<br />

nuovo comandamento è così la regola della nuova comunità escatologica‖ .<br />

Questa centralità è data dalla grazia della filiazione battesimale che è il dono stesso<br />

della carità perché la filiazione è la partecipazione all‘amore con cui il Figlio ama il Padre<br />

nello Spirito. Nella struttura della fedeltà filiale, per la sua natura di filiazione-deificazione<br />

è già contenuta e donata la carità, quale normatività nuova ed esigente della stessa<br />

filiazione battesimale.<br />

Ma la centralità della carità, compimento e ricapitolazione etico-normativa del<br />

messaggio neotestamentario, è annunciata e consegnata continuamente alla Chiesa,<br />

comunità escatologica nata dalla pasqua, nella celebrazione dell‘eucaristia. Sacramento del<br />

corpo dato e del sangue versato, l‘eucaristia celebrando il memoriale della pasqua annuncia<br />

e dona l‘amore di Cristo, consegnando nello stesso tempo il comandamento di vivere nel<br />

«come» della sua carità. Il «perchè» eucaristico di Cristo è la sorgente e la forza normativa<br />

del «come» del comandamento, che nella memoria eucaristica della pasqua è rivelato ogni<br />

volta non solo come «suo», ma anche come «nuovo». ―Sappiamo infatti che questo<br />

Vangelo (di Giovanni) introduce il racconto della lavanda dei piedi là dove ci si<br />

aspetterebbe quello della cena: «Vi ho dato l‘esempio, perché come ho fatto io, facciate<br />

anche voi» (Gv 13, 15). «Si impone l‘accostamento all‘anamnesis», commenta X. Léon-<br />

Dufour: «Fate questo in memoria di me. Infatti questo kathós giovanneo ha valore più di<br />

generazione che di esemplarità (…), come se dicesse: ―Agendo così, vi dò la facoltà di<br />

agire anche voi allo stesso modo‖». Questo kathós, potremmo dire, ha valore di<br />

sacramentum, cioè di dono da parte di Cristo, e non semplicemente di exemplum‖ 139 .<br />

Realizzando il «come» dell‘amore di Cristo per noi e in noi, l‘eucaristia rende<br />

possibile il «come» del comandamento, la carità reciproca dei discepoli. E questo avviene<br />

proprio attraverso il dono sacramentale della carità pasquale che è il «corpo dato» e il<br />

«sangue versato», dono di amore e servizio, simbolizzato dalla «eucaristia» giovannea<br />

della lavanda dei piedi e nella sintesi paolina della «legge di Cristo». ―Nel «culto» stesso,<br />

nella comunione eucaristica è contenuto l'essere amati e l'amare a propria volta gli altri.<br />

Un' Eucaristia che non si traduca in amore concretamente praticato è in se stessa<br />

frammentata. Reciprocamente — come dovremo ancora considerare in modo più<br />

dettagliato — il «comandamento» dell'amore diventa possibile solo perché non è soltanto<br />

esigenza: l'amore può essere «comandato» perché prima è donato‖ 140 .<br />

L‘eucaristia si pone come sorgente e norma della vita morale poiché è sacramento<br />

di quella carità che, come abbiamo visto, è indicata come legge fondamentale<br />

dell‘esistenza redenta e pienezza di ogni legge nel tempo della grazia. ―L‘eucaristia è<br />

comunione, nient‘altro, unione nello Spirito che è amore, unione d‘amore con il corpo di<br />

Cristo, cena fraterna e unione di tutti in un sol corpo, un alimento che trasforma i<br />

commensali stessi in cibo per il mondo. Essa dice che la legge fondamentale è la carità,<br />

senza la quale nulla è eucaristico, nulla è cristiano‖ 141 .<br />

Sacramento in cui è celebrata e donata la carità pasquale di Cristo, perché si riceve<br />

Cristo stesso, l‘eucaristia promulga l‘ethos della carità di Cristo, che consiste prima di tutto<br />

139<br />

L.-M. CHAUVET, Simbolo e sacramento. Una rilettura sacramentale dell’esistenza cristiana, Elle Di<br />

Ci, Leumann-Torino 1990, 181<br />

140<br />

DCE, 14<br />

141<br />

F.-X. DURRWELL, L’eucaristia sacramento del mistero pasquale, Paoline, Roma 1982, 199


82<br />

nel rimanere nel suo amore e nel dare forma di carità ad ogni scelta morale, perché sia nel<br />

«come» di Cristo.<br />

2.4. La virtù della carità<br />

Tutto questo ci permette di comprendere il dinamismo proprio della carità come<br />

virtù teologale, dono di Dio che muove la libertà del cristiano. La virtù teologale della<br />

carità è dono dell‘amore di Dio, dell‘amore che è Dio, per amare Dio con tutto il cuore,<br />

non senza l‘amore del prossimo come se stessi. E questo secondo il come e la misura con<br />

cui si è riconosciuto e accolto l‘amore di Dio in Cristo Gesù. ―La carità è la virtù teologale<br />

per la quale amiamo Dio sopra ogni cosa per se stesso, e il nostro prossimo come noi stessi<br />

per amore di Dio‖ 142 . Secondo la definizione classica della carità, si tratta di una virtù<br />

infusa da Dio nella volontà per cui amiamo Dio per se stesso e il prossimo per amore di<br />

Dio 143 .<br />

L‘amore verso Dio, reso possibile dal dono dello Spirito, si fonda sulla mediazione<br />

di Gesù e sulla partecipazione al suo amore filiale, come egli stesso afferma nella preghiera<br />

sacerdotale: ―E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l‘amore<br />

con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro‖ (Gv 17,26). Questa mediazione si<br />

concretizza soprattutto nel dono che egli ha fatto della sua vita, dono che da un lato<br />

testimonia il più grande amore, dall‘altro esige l‘osservanza del suo comandamento:<br />

―Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Voi siete miei<br />

amici, se farete ciò che io vi comando‖ (Gv 15,13-14).<br />

La carità cristiana attinge a questa sorgente di amore, che è Gesù, il Figlio di Dio<br />

che per amore ha dato la sua vita per noi. La capacità di amare come Dio ama è offerta ad<br />

ogni cristiano come frutto del mistero pasquale di morte e risurrezione, di cui è reso<br />

partecipe per dono sacramentale. ―E‘ noto infatti che per sua natura l‘amato è nell‘amante.<br />

E perciò chi ama Dio, lo possiede in sé medesimo: ―Chi sta nell‘amore sta in Dio e Dio sta<br />

in lui‖ (1 Gv 4, 16). E‘ pure la legge dell‘amore, che l‘amante venga trasformato<br />

nell‘amato. Se amiamo il Signore, diventiamo anche noi divini: ―Chi si unisce al Signore,<br />

diventa un solo spirito con lui ‖ (1 Cor 6, 17). A detta di sant‘Agostino, ―come l‘anima è la<br />

vita del corpo, così Dio è la vita dell‘anima ‖. L‘anima perciò agisce in maniera virtuosa e<br />

perfetta quando opera per mezzo della carità, mediante la quale Dio dimora in essa. Senza<br />

la carità, in verità l‘anima non agisce: ―Chi non ama rimane nella morte‖ (1 Gv 3, 14)‖ 144 .<br />

La carità, perciò, è una virtù teologale, vale a dire una virtù che si riferisce<br />

direttamente a Dio e rende partecipi fa entrare dell‘amore trinitario. Infatti Dio Padre ci<br />

ama come ama Cristo, vedendo in noi la sua immagine. Questa viene, per così dire, dipinta<br />

in noi dallo Spirito, che come un ‗iconografo‘ la realizza nel tempo. È sempre lo Spirito<br />

Santo a disegnare nell‘intimo della nostra persona anche le linee fondamentali della<br />

risposta cristiana. Il dinamismo dell‘amore per Dio scaturisce così da una sorta di<br />

―connaturalità‖ realizzata dallo Spirito Santo che ci ―divinizza‖, secondo il linguaggio<br />

della tradizione orientale. Così è facile comprendere perchè l‘amore sia presentato nel<br />

Nuovo Testamento come un frutto dello Spirito, anzi come il primo fra i molti doni<br />

elencati da san Paolo nella Lettera ai Galati: ―Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia,<br />

pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé‖(Gal 5,22).<br />

Nella tradizione teologica si sono distinti, pur ponendoli in correlazione, le virtù<br />

teologali, i doni e i frutti dello Spirito Santo. Mentre le virtù sono qualità permanenti<br />

142 CCC, 1822.<br />

143 Cfr. S.Th., II-II, q. 25.<br />

144 S. TOMMASO, Opuscula theologica, II, 1137-1154


83<br />

conferite alla creatura in vista delle opere soprannaturali che deve compiere e i doni<br />

perfezionano le virtù sia teologali che morali, i frutti dello Spirito sono atti virtuosi che la<br />

persona compie con facilità, in modo abituale e con diletto 145 . Queste distinzioni non si<br />

oppongono a ciò che Paolo afferma parlando al singolare di frutto dello Spirito.<br />

L‘Apostolo infatti intende indicare che il frutto per eccellenza è la stessa carità divina che è<br />

l‘anima di ogni atto virtuoso. Come la luce del sole si esprime in una gamma sconfinata di<br />

colori, così la carità si manifesta in molteplici frutti dello Spirito.<br />

Nella forza dello Spirito Santo, la carità anima l‘agire morale del cristiano, orienta e<br />

rafforza tutte le altre virtù, le quali edificano in noi la struttura dell‘uomo nuovo.<br />

―L'esercizio di tutte le virtù è animato e ispirato dalla carità. Questa è il «vincolo di<br />

perfezione» (Col 3,14); è la forma delle virtù; le articola e le ordina tra loro; è sorgente e<br />

termine della loro pratica cristiana. La carità garantisce e purifica la nostra capacità umana<br />

di amare. La eleva alla perfezione soprannaturale dell'amore divino‖ 146 .<br />

Tuttavia la carità, nel suo dono e dinamismo eucaristico di conformazione alla<br />

carità di Cristo, è già ciò che conta e ciò che rimane, perché ―più grande di tutte è la<br />

carità!‖ (1Cor 13, 13). Essa chiede di informare e animare tutta la vita morale, non solo<br />

come comandamento della carità e in tutte le sue «esigenze» eucaristiche, ma anche<br />

secondo il dinamismo delle virtù dell‘uomo nuovo chiamato in Cristo a vivere secondo la<br />

sua carità. ―Si tratta di ―rimanere‖ nell‘amore, nel suo amore (cfr. Gv 15, 9). La carità è un<br />

modo di essere che configura e attiva uno stile di vita: è l‘habitus della libertà cristiana.<br />

Essa non è una virtù particolare, accanto alle altre, ma basilare e assiale. E‘ ―forma<br />

virtutum‖, dice San Tommaso: la carità è la forma di tutte le virtù. (…) Se ciascuna virtù è<br />

specificata dal bene particolare su cui essa adegua e dispone il volere, dalla carità tutte<br />

ricevono significato teologale e valore salvifico‖ 147 .<br />

I cristiani sono dei chiamati a vivere la carità, senza della quale niente giova, ma al<br />

contrario per mezzo della quale tutto rimane per l‘eternità. ―Se non avessi la carità, dice<br />

ancora l'Apostolo, «non sono nulla». E tutto ciò che è privilegio, servizio, perfino virtù...<br />

senza la carità, « niente mi giova ». La carità è superiore a tutte le virtù. È la prima delle<br />

virtù teologali: ―Queste le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di<br />

tutte più grande è la carità‖(1 Cor 13,13)‖ 148 .<br />

La virtù teologale della carità si esprime nella duplice direzione: verso Dio e verso<br />

il prossimo. Nell‘uno e nell‘altro aspetto, essa è frutto del dinamismo stesso della vita della<br />

Trinità dentro di noi. La carità ha infatti nel Padre la sua sorgente, si rivela pienamente<br />

nella Pasqua del Figlio crocifisso e risorto, è infusa in noi dallo Spirito Santo. In essa Dio<br />

ci rende partecipi del suo stesso amore. Se si ama davvero con l‘amore di Dio, si amerà<br />

anche il fratello come Lui lo ama. Qui sta la grande novità del cristianesimo, che nasce<br />

dalla fede nell‘incarnazione e redenzione: amare Dio è amare i fratelli e non si può amare<br />

Dio, se non si amano i fratelli, creando con loro un‘intima e perseverante comunione di<br />

amore.<br />

3. La fedeltà alla carità<br />

La carità teologale è una e indivisibile. Ciò che conta è possedere l‘agàpe, essere<br />

partecipi dell‘amore proprio di Dio, e rimanere fedeli a questo amore. La maturità nella<br />

145<br />

Cfr. S. Th., I-II, q. 70 a. 1, ad 2<br />

146<br />

CCC, 1827.<br />

147<br />

COZZOLI, Per una teologia morale delle virtù e della vita buona, 102.<br />

148 CCC, 1826.


84<br />

carità non è semplicemente la capacità di credere all‘amore e di accoglierlo, ma il saper<br />

restare nell‘amore. Il cristiano, chiamato ad osservare il dovere della carità, sa di<br />

custodirla, anzi di essere custodito da essa e, dunque, di poterla esprimere dando forma e<br />

unità alla sua intera esistenza, ritrovando in essa la sua ―opzione fondamentale‖.<br />

Quando «si resta» nell‘amore di Dio la fedeltà non è più semplicemente questione<br />

di resistere alle tentazioni o evitare i pericoli, ma vuol dire crescere in questo amore,<br />

nell‘esperienza d‘essere amati, nella coscienza delle esigenze di quest‘amore, nelle<br />

motivazioni della propria risposta, nella capacità d‘esprimerlo e nella disponibilità a farne<br />

il criterio dell‘essere e dell‘agire.<br />

In particolare c‘è fedeltà e crescita nell‘amore di Dio quando c‘è una esperienza<br />

sempre più umanamente piena di questo amore, sempre più vissuta armonicamente con la<br />

totalità del cuore, che comprende anche la mente e la volontà. Questa carità chiede la<br />

fedeltà al dono di Dio, al suo amore in noi, secondo il dinamismo perfettivo proprio della<br />

amore di Dio e secondo la verità del suo oggetto, specificata dalla struttura trinitaria<br />

dell‘agape. Così il dono di carità si vive nella fedeltà al comandamento della carità, in tutte<br />

le sue dimensioni. E questo secondo la rivelazione evangelica, quindi nella verità della<br />

persona vivente in Cristo Gesù, che vive nel suo amore e secondo il suo comandamento.<br />

3.1. Il dinamismo trinitario della virtù di carità<br />

La carità di Dio crea nel cristiano la libertà di amare e la grazia dell‘amore, la virtù<br />

teologale della carità appunto. Essa è in noi partecipazione all‘amore donante, accogliente<br />

e comunionale della Trinità, per mezzo della comunione col Padre, in Cristo e nello Spirito<br />

Santo.<br />

Immagine di Dio-carità e partecipe della carità trinitaria per mezzo del battesimo, il<br />

cristiano ne riflette la dinamica strutturale. La carità cristiana è il dono fatto al cristiano di<br />

essere nella carità divina e di amare col cuore di Dio. Essa ―trasporta in noi, in certo modo,<br />

lo stesso amore trinitario, o meglio trasporta noi in esso. E quando amiamo qualcuno di<br />

carità, noi entriamo con lui in una comunicazione simile a quella del Figlio col Padre o del<br />

Padre e del Figlio con lo Spirito‖ 149 . Dalla Trinità, reso partecipe della vita divina per<br />

mezzo del Figlio, il cristiano attinge e impara quella carità che è chiamato a testimoniare<br />

con la vita, perché è diventata la sua vita.<br />

3.1.1. La carità è accoglienza<br />

Riflesso dell‘amore filiale di Cristo, la carità è accoglienza. Questo è il primo<br />

movimento della carità nel cristiano e quindi il suo primo impegno. Egli è chiamato ad<br />

accogliere il dono della carità, a lasciarsi amare, perché è reso partecipe della vita in Cristo,<br />

dell‘amore accogliente del Figlio di Dio. Il cristiano è in rapporto al Padre nella stessa<br />

relazione recettiva del Figlio: ―Come in forza dell‘accoglienza pura il Figlio è immagine<br />

perfetta del Padre, così l‘uomo è immagine di Dio, recettività capace di accogliere..,<br />

l‘amore eternamente amante. Nell‘eterno Amato l‘uomo è costitutivamente oggetto<br />

d‘amore, apertura radicale‖ 150 . Carità è lasciarsi amare dal Padre; amare è consentire ad<br />

essere amati ed essere nell‘amore.<br />

149 G. GILLEMANN, Il primato della carità in teologia morale, Morcelliana, Brescia 1959, 170.<br />

150 FORTE, Trinità come storia, 175.


85<br />

La carità è ricettiva essenzialmente e primariamente in relazione a Dio, da cui tutto<br />

viene: «Per grazia di Dio sono quello che sono» (1Cor 15,10). Il rifiuto di aprirsi<br />

all‘accoglienza della grazia è l‘orgoglio (hybris) dell‘uomo che crede di bastare a se stesso<br />

e che ripone in sé (nei propri mezzi o nei propri meriti) la propria salvezza. Per crescere<br />

nella virtù della carità occorre quindi per prima cosa la libertà di lasciarsi amare. E un<br />

atteggiamento certamente non facile e meno scontato di quanto possa sembrare. Dio infatti<br />

ama tutti, ma non tutti si sentono amati da lui. Spesso le difficoltà nel vivere la carità<br />

nascono da questa fatica dettata da orgoglio e sufficienza.<br />

Per poter riconoscere l‘amore di Dio per noi è importante non aver paura<br />

dell‘amore. Vi sono persone che non sanno coinvolgersi in relazioni affettive. A volte<br />

mantengono un atteggiamento distaccato e piuttosto freddo, quasi da superuomo, come non<br />

avessero bisogno degli altri e del rapporto amicale; altre volte sono eccessivamente<br />

preoccupati di salvare la «bella virtù» e vedono il male dove non c‘è; altre volte ancora,<br />

pur vivendo un certo rapporto sociale, si ritirano imbarazzati quando avvertono una certa<br />

gratificazione o temono di sentirsi troppo coinvolti. Se queste difese e paure sono radicate<br />

in profondità e se non è intervenuto un processo di guarigione, in particolare della memoria<br />

affettiva, sarà facile che barriere difensive scattino anche nei confronti di Dio, col risultato<br />

di impedire o di ostacolare l‘esperienza dell‘essere amati dal Padre. La maturità affettiva<br />

non è fatta solo di capacità oblativa, ma pure di disponibilità a stabilire relazioni umane<br />

d‘una certa intensità e a vivere affetti sani e profondi, di serenità e semplicità nel lasciarsi<br />

amare e nel godere dei segni d‘affetto nei propri confronti. Questa libertà ci predispone a<br />

sperimentare e gustare allo stesso modo la benevolenza di Dio verso di noi.<br />

D‘altra parte, occorre liberarsi dalla preoccupazione eccessiva d‘essere amati. Si<br />

dimostra, infatti, profondamente vero come solo chi è abbastanza libero dall‘ansia di essere<br />

amato potrà fare esperienza dell‘amore di Dio. Il narcisista, il ripiegato su di sé avrà serie<br />

difficoltà ad abbandonarsi, a lasciarsi benvolere, ad accorgersi che è già profondamente<br />

amato. Ma più si è preoccupati di essere amati, meno ci si sente in realtà amati, anche<br />

quando si può avere l‘impressione di essere finalmente «sazi», perché il bisogno<br />

egoisticamente gratificato diventa sempre più esigente, riemerge puntuale dopo ogni<br />

«concessione» ed è incontentabile.<br />

La vera soluzione del problema sta in una radicale inversione di rotta: passare dalla<br />

ricerca d‘essere amati alla scelta di amare, in modo adulto e il più possibile disinteressato.<br />

È allora che si scopre l‘amore e se ne fa esperienza. Il cuore si libera progressivamente:<br />

abbiamo deciso di amare e ci ritroviamo amati; siamo stati generosi nel donare e<br />

diventiamo capaci di ricevere; abbiamo scelto di non consumarci più nel ricercare affetto,<br />

stima, comprensione e scopriamo come per incanto segni innumerevoli di tutto questo<br />

nella nostra vita, li apprezziamo e siamo pieni di gioia. Non che prima non fossimo amati e<br />

stimati, ma il nostro cuore non era abbastanza libero per accorgersene e sereno per<br />

goderne.<br />

Lo stesso principio vale ancor più per il nostro rapporto con Dio. Egli ci ama come<br />

nessun altro, d‘un amore che è profondo e tenero ma anche forte ed esigente. Non ci ama<br />

semplicemente per gratificare il nostro bisogno d‘affetto, ma per mandarci nel mondo ad<br />

amare alla sua maniera. Ci ha talmente amati da renderci capaci di voler bene come lui.<br />

Anzi, è proprio questo il segno più grande del suo amore per noi, l‘averci creati amanti,<br />

non solo amabili, provocandoci a dare affetto più ancora che accontentando la nostra sete<br />

di riceverlo. Di conseguenza, solo amando possiamo scoprire quanto Dio ci ha amato. E<br />

faremo tale esperienza nel momento stesso in cui, donando benevolenza, accetteremo di<br />

dimenticarci e pensar meno a noi stessi. Più avremo il coraggio di perderci, più troveremo<br />

l‘amore e nell‘amore Dio. Un semplice ma sincero gesto di benevolenza verso il prossimo,


86<br />

mentre dona all‘altro la certezza di un affetto umano, regala a noi la certezza dell‘amore<br />

divino, perché ogni qualvolta un uomo ama, lì Dio è presente.<br />

Inoltre, ci si lascia amare da Dio quando s‘abbandona la pretesa d‘essere noi a<br />

decidere d‘amarlo e si scopre che è sempre lui a prendere l‘iniziativa: ―non siamo stati noi<br />

ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi... Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo‖<br />

(lGv 4,10.19). Se dunque avvertiamo in noi il desiderio di riamarlo è perché lui ci ha<br />

prevenuti. E‘ Dio che attira l‘uomo a sé, lui che lo sceglie, lo cerca, lo sottopone alla prova,<br />

lo perdona godendo di essergli padre, e infine è sempre e ancora Dio che, — innamorato<br />

dell‘uomo — lo seduce e lo conquista. Il nostro amore è prima di tutto un lasciarci sedurre,<br />

un essere conquistati, un lasciarsi amare.<br />

La carità è accogliente non solo dell‘amore di Dio ma anche in relazione a ogni<br />

uomo incontrato nell‘amore. Una carità che presumesse dare soltanto, chiudendosi a ogni<br />

ricettività, cadrebbe semplicemente come carità. Finirebbe o in quel attivismo caritativo<br />

incapace di riconoscere e comprendere l‘altro, incurante di questi come persona; o in quel<br />

«fare la carità» secondo cui l‘altro serve per compiere azioni meritorie.<br />

Un amore incapace o indisponibile all‘accoglienza dell‘altro e del suo amore, che<br />

non gli dà la possibilità di donare, è un atteggiamento che separa e allontana; che pone chi<br />

dona in attitudine paternalistica o in posizione di superiorità, mortificante colui che riceve,<br />

mentre accogliere l‘altro nella carità è farne un amante in relazione di reciprocità, perché<br />

non c‘è essere amato incapace di amare a sua volta. La carità è sempre un avvenimento<br />

reciproco, perché l‘amore crea sempre amore.<br />

La carità teologale, donata nel battesimo, rende partecipe colui la riceve della<br />

dignità di figlio di Dio. Accogliere nell‘amore è riflettere l‘immagine del Figlio, per cui la<br />

recettività propria della virtù della carità trova il Cristo la sua verità e la sua forza. Noi<br />

siamo in Cristo e come lui siamo chiamati ad una relazione accogliente di Dio e del suo<br />

amore, dei fratelli e del loro amore. In Cristo la carità eternamente accogliente del Padre si<br />

è fatta storia accogliente degli uomini: accoglienza liberatrice di carità con cui gli uomini<br />

sono stati fatti capaci di donare amore. Egli ha vissuto l‘apertura al Padre e al suo amore<br />

come universale apertura a tutti gli uomini, a cominciare dagli ultimi, dagli emarginati,<br />

dagli esclusi, dai peccatori. Amarli ha significato accoglierli: chiamarli all‘amore, donare<br />

loro la libertà di amare.<br />

Perché accolti da Cristo, noi siamo in relazione accogliente di amore, come Cristo,<br />

con Dio e con tutti i figli di Dio. Dio lo riconosciamo e accogliamo, e il suo amore cresce<br />

in noi in perfezione (cfr. lGv 4,12), in ragione diretta del nostro riconoscerlo e accoglierlo<br />

nei fratelli: nel più povero, piccolo e bisognoso. In essi si fa presente l‘Amato di Dio, colui<br />

che riceve tutto dal Padre. Per cui accogliere il fratello, il più piccolo, è accogliere Cristo e<br />

in lui Dio: ―Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; chi accoglie<br />

me non accoglie me, ma colui che mi ha mandato‖ (Mc 9,37).<br />

Lasciarsi amare da Dio, in definitiva, è accogliere il fascino della persona di Cristo,<br />

rivelazione umana dell‘amore divino, dove la fede è conoscenza nata dall‘amore, così che<br />

la fede vive dell‘amore ed opera per mezzo della carità.<br />

L‘amore di Cristo in noi raggiunge la profondità del cuore creando un‘attrazione<br />

verso lo stile di vita di Gesù, per quel suo modo d‘amare, per la sua straordinaria capacità<br />

d‘entrare in empatia, di comprendere e soccorrere chi soffre, di accogliere e perdonare chi<br />

ha sbagliato. Fascino per il suo sentirsi figlio del Padre e fratello d‘ogni uomo, servo di<br />

JHWH e dell‘intera umanità.


3.1.2. La carità è donazione<br />

87<br />

Riflesso dell‘amore paterno di Dio, la carità è donazione. Nel Padre, infatti, la<br />

carità è amore essenzialmente donante. Immagine di Dio Padre e destinatario del suo<br />

amore, il cristiano è costituito e abilitato alla carità donante del Padre. Il donare è atto di<br />

uscita da sé nell‘altro: è l‘estasi dell‘amore. Il donare nella carità fuga l‘egoismo dell‘io<br />

interessato solo a sé e che tiene tutto per sé, per il quale l‘altro è funzionale a sé, al proprio<br />

vantaggio o al proprio piacere.<br />

Il donare è movimento dell‘essere, ossia dell‘«io» che dona se stesso nell‘amore,<br />

ma anche dell‘avere perché il dare qualcosa è espressione del dono di sé. Io posso coprire<br />

di beni l‘altro senza amarlo davvero. Come posso non avere nulla da dargli e amarlo<br />

veramente, intensamente: una presenza, un sorriso, una parola, un‘azione paziente di<br />

accompagnamento, un incoraggiamento sono poca cosa sul piano dell‘avere; realizzano<br />

però un modo di essere per l‘altro che più fedelmente riproduce l‘atto creatore e redentore<br />

divino. ―L‘intima partecipazione personale al bisogno e alla sofferenza dell‘altro diventa<br />

così un partecipargli me stesso: perché il dono non umilii l‘altro, devo dargli non soltanto<br />

qualcosa di mio ma me stesso, devo essere presente nel dono come persona‖ 151 .<br />

Dio dona se stesso nell‘amore: donandosi nell‘eternità al Figlio lo genera come<br />

Figlio; donandosi nel tempo all‘uomo lo pone creativamente e redentivamente nell‘essere.<br />

Nella donazione la carità del cristiano partecipa della creatività dell‘amore divino,<br />

perché l‘amore è ciò che fa essere. Ogni volta che io mi dono all‘altro, dandogli qualcosa<br />

di me (il mio tempo, i miei beni, le mie forze, la mia disponibilità), è un po‘ della mia vita<br />

che gli comunico, perché egli viva.<br />

Proprio perché dono egli stesso di Dio, il cristiano si fa dono per gli altri: ―In questo<br />

suo poter dare l‘amore si riflette, pur nell‘infinita differenza, il principio eterno dell‘amore,<br />

la sorgività senza principio e senza origine dell‘eterno Amante‖ 152 .<br />

La carità del cristiano nella misura del dono di Dio è chiamata a riflettere<br />

l‘iniziativa divina nell‘amore: Dio ama sempre per primo (cfr. lGv 4,19). La gratuità e la<br />

benignità nel dono esprimono la sua piena libertà, la sua bontà e benevolenza: ―Buono è il<br />

Signore verso tutti‖(Sal 143,9).<br />

La carità come dono si veste di misericordia, come amore che si china su tutte le<br />

miserie umane, perché Dio ha il volto paterno della misericordia. Nella testimonianza di<br />

Gesù è il Padre del figliol prodigo (cfr. Lc 15,11-32). Nella predicazione apostolica è il<br />

―Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione‖(2Cor 1,3; cfr. Gc 5,11), il quale ―per il<br />

grande amore con cui ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere<br />

con Cristo‖(Ef 2,4-5). Per questo l‘amore assume la forma del dono nel per-dono offerto ai<br />

fratelli, senza limitazione e come risposta al perdono di Dio, che egli domanda sempre<br />

nella preghiera del Pater.<br />

Infine, la carità veste le tonalità dell‘universalità e della fedeltà del dono di Dio che<br />

non fa discriminazioni di sorta né viene mai meno nell‘amore. Egli è il Padre che ―fa<br />

sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli<br />

ingiusti‖(Mt 5,45).<br />

―Siate voi dunque perfetti com‘è perfetto il Padre vostro celeste‖(Mt 5,48). Perfetti<br />

come il Padre, noi lo diventiamo nella fedeltà al suo amore donante. Il suo amore in noi e<br />

per noi significa il nostro dono d‘amore per lui e, come lui, verso i figli del suo amore. Un<br />

dono che ne riflette e riproduce i tratti essenziali, per poterci dire veramente suoi figli:<br />

―Amate..., fate del bene, prestate senza aspettare niente in cambio... e sarete figli<br />

151 DCE, 34<br />

152 FORTE, Trinità come storia, 175.


88<br />

dell‘Altissimo‖(Lc 6,35); ―amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché<br />

siate figli del Padre vostro celeste‖(Mt 5,44-45); ―siate misericordiosi, com‘è<br />

misericordioso il Padre vostro‖(Lc 6,36).<br />

3.1.3. La carità è comunione<br />

Riflesso dell‘amore dello Spirito Santo, la carità è comunione. Lo Spirito è la<br />

comunione procedente dalla carità donante del Padre e accogliente del Figlio. Egli è<br />

l‘amore donato dal Padre e ricevuto dal Figlio, che li unisce nella reciprocità e comunità<br />

del «noi» trinitario. Nello Spirito l‘amore è apertura e comunione: estasi dell‘Amante<br />

nell‘Amato e vincolo di eterna unità. Partecipe per il dono dello Spirito dell‘agape<br />

trinitaria, il cristiano ne riflette la dinamica estatica e comunionale. ―Lo Spirito imprime<br />

nella creatura umana un certo riflesso di quello che egli è nel mistero di Dio. Come fra<br />

l‘Amante e l‘Amato egli è l‘eterno legame di unità ed insieme Colui che fonda l‘apertura<br />

infinita del loro amore, così nell‘uomo egli è Spirito di unità e di uscita da sé. Soggetto e<br />

oggetto d‘amore, l‘uomo è unità vivente di questo duplice movimento dell‘amore: amando<br />

egli si fa amare; lasciandosi amare egli ama‖ 153 .<br />

Iniziativa e accoglienza sono un tutt‘uno nella carità e creano relazione di<br />

reciprocità: aprono la libertà alla comunione e uniscono nella comunità dell‘amore donato<br />

e ricevuto. Nel cristiano la carità donante del Padre e accogliente del Figlio è nel contempo<br />

la carità comunionale dello Spirito: amore che apre alla reciprocità del dono e<br />

dell‘accoglienza e unisce in questa reciprocità. E un‘apertura dell‘«io» al «tu» nel «noi»<br />

dell‘amore, che infrange ogni sufficienza possibile del vivere solo faccia a faccia. La carità<br />

dello Spirito, nel cristiano, spezza ogni chiusura narcisistica e intimistica dell‘amore; apre<br />

l‘intersoggettività alla socialità, le relazioni più esclusive e intense alle più inclusive ed<br />

estese.<br />

Nella comunione dell‘amore donato e accolto, la persona afferma, ritrova e realizza<br />

se stessa, perché l‘amore non significa fusione annientatrice delle individualità personali,<br />

ma comunione integratrice di differenti sorgività e ricettività nell‘amore. L‘amore è<br />

creatore e redentore in questa comunione, che è anzitutto comunione con Dio, di cui ogni<br />

comunione interumana è riflesso creatore e redentore.<br />

Icona del movimento trinitario dell‘amore, la carità apre la libertà del cristiano<br />

all‘accoglienza del Figlio, all‘amore del Padre e alla comunione dello Spirito Santo,<br />

liberandolo dall‘orgoglio, dall‘egoismo e dalla divisione del peccato.<br />

Rifiuto di accogliere, di donare, di comunicare: questo è il peccato contro la carità.<br />

Peccato di non-amore a Dio, presente in ogni chiusura della libertà alla grazia, che è il suo<br />

amore per noi. Peccato di non-amore all‘uomo e, insieme, a Dio in ogni rifiuto interessato<br />

e diffidente dell‘altro. Ogni peccato contro l‘amore dell‘uomo è peccato contro Dio,<br />

perché una sola è la carità con cui amiamo Dio e l‘uomo, e teologale è tutta la carità nel<br />

suo duplice indirizzo. E per questo che mancare di amore del prossimo è mancare contro<br />

l‘unica carità. Così come mancare di amore di Dio è mancare, in definitiva, tutta la carità,<br />

perché non può darsi vero amore del prossimo chiuso all‘amore di Dio. Insomma, il<br />

peccato contro la carità è ad ogni modo e sempre peccato teologale.<br />

3.2. Il comandamento della carità: una sola carità<br />

153 FORTE, Trinità come storia, 176.


89<br />

Mentre la fede è un appello che aspetta una risposta e diviene vita in Cristo e con<br />

Cristo, la carità assume la forza del comandamento, perché chi ha accolto l‘amore,<br />

nell‘amore è chiamato a rispondere al dono ricevuto.<br />

Definire con san Tommaso la carità come «amicizia dell‘uomo con Dio» è rilevarne<br />

insieme la natura ontologica ed etica: riconoscerla nel contempo come modo di essere e<br />

dover-essere. Chiamando per mezzo di Cristo, nello Spirito, alla comunione trinitaria, Dio<br />

dona e impegna a vivere la carità teologale. Amicizia dell‘uomo con Dio, la carità è<br />

relazione agapica con Dio e con tutti i chiamati alla comunione con lui. In questa<br />

partecipazione alla comunione con Dio, Trinità nell‘amore, i credenti sono costituiti in<br />

Cristo nella comunione pneumatica non solo con il Padre ma con tutti i figli del suo amore.<br />

Per cui un‘unica carità unisce e induce ad amare Dio e i figli di Dio. La carità di Dio<br />

diventa nei battezzati amore filiale e fraterno.<br />

Non ci sono due carità, perché una è la carità di Dio, che ci pone in comunione di<br />

essere e di agire con Dio e con i figli di Dio. ―La carità che ama il prossimo non è diversa<br />

da quella che ama Dio. Non c‘è una seconda carità. Con la stessa carità con la quale<br />

amiamo il prossimo amiamo anche Dio‖ 154 . L‘unica carità è in noi principio dell‘amore di<br />

Dio e del prossimo, così che non si dà amore per l‘uomo senza Dio, né si dà amore per Dio<br />

a prescindere dall‘uomo. L‘unica carità pone nel cristiano un principio fontale e dinamico<br />

di carità che è anima ogni virtù e quindi tutte le sue relazione, così che senza la carità<br />

niente per lui ha valore, mentre con la carità tutto acquista valore di eternità perché è fatto<br />

nell‘amore di Dio. La carità di Dio, e più precisamente la carità che è Dio, è il fondamento<br />

e la forza della nostra carità: insieme dell‘amore per Dio, dell‘amore per il prossimo, fino<br />

al compimento della carità nell‘amore reciproco.<br />

Vogliamo ora considerare come l‘unica carità è il motivo e nello stesso tempo il<br />

fine di quel unico comandamento che nei vangeli sinottici rappresenta la novità del<br />

messaggio di Cristo sull‘amore: l‘unità e inscindibilità fra amore di Dio e amore del<br />

prossimo.<br />

3.2.1. “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore”<br />

La carità di Dio in noi è amore per Dio. E‘ la prima esigenza della Torah,<br />

espressione di fedeltà all‘elezione e alleanza divina (cfr. Dt 6,5), indicata da Gesù come il<br />

«primo» comandamento, che assorbe interamente l‘uomo, impegnandolo in totalità:<br />

―Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua<br />

forza‖(Mc 12,30). L‘oggetto di questo amore, incomparabile nel suo assoluto valore,<br />

polarizza la libertà in modo unico, pieno e prioritario. L‘uomo, infatti è chiamato ad amare<br />

Dio al di sopra di tutto e appartenergli totalmente, con un amore di adorazione e di<br />

appartenenza esclusiva (cfr. Mt 6,24).<br />

Nel Nuovo Testamento «l‘amore per Dio» (2Ts 3,5) è donato dallo Spirito e rende<br />

partecipi i discepoli dell‘amore del Figlio per il Padre (cfr. Gv 14,31). In quanto il volto<br />

del Padre risplende sul volto del Figlio, e il suo amore ci è rivelato e donato nel Figlio,<br />

l‘amore per Dio è anche amore per Cristo e per entrambi in uno. ―Quand‘ebbero<br />

mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: ―Simone di Giovanni, mi vuoi bene tu più di<br />

costoro? ‖. Gli rispose: ―Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene‖. Gli disse: ―Pasci i<br />

miei agnelli‖(Gv 21,15). Ogni ministero nella chiesa nasce ed esprime questo amore per<br />

Dio che è amore per Cristo. Per questo l‘Apostolo è servitore ―per amore di Gesù<br />

Cristo‖(2Cor 4, 5; cfr. Fil 1, 8).).<br />

154 S. AGOSTINO, Sermo 265, 8, 9: PL 38, 1223.


90<br />

L‘uomo può amare Gesù con tutto se stesso, cuore-mente-volontà, perché lui per<br />

primo lo ha amato con tutto se stesso. ―Questa vita nella carne la vivo nella fede del Figlio<br />

di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me‖(Gal 2, 20). ―Camminate nella carità,<br />

nel modo in cui Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi‖(Ef 5, 2).<br />

Non si può rispondere a un amore totale con un amore parziale. D‘altronde noi<br />

sappiamo che ogni amore è sacro nella misura in cui esprime donazione di sé; ma solo<br />

l‘amore verso Dio esige per natura sua una donazione totale, senza limiti né restrizioni,<br />

senza condizioni né riserve. Solo colui che ha creato il cuore può essere amato con tutto il<br />

cuore.<br />

Nella vita d‘ogni uomo ci deve normalmente essere una relazione interpersonale<br />

privilegiata, che manifesta tutta la sua ricchezza solo quando è impiegata in un rapporto nel<br />

quale la persona si coinvolge pienamente. Colui che è ama Dio pone al centro della sua<br />

vita questa relazione. Da essa hanno origine i propri desideri e i propri timori, le gioie e i<br />

dolori, le decisioni e le azioni. Ogni realtà assume gusto e senso, verità e valore nella<br />

misura in cui sgorga da questa sorgente e si butta in questo mare. Tutto il suo essere e agire<br />

è progressivamente preso da questa passione, ne è conquistato e posseduto, e vi si<br />

consegna: nessuno e nulla lo potranno mai separare da essa (cfr. Rom 8,38).<br />

Quando irrompe in un‘esistenza, quest‘amore senza limiti smantella e abolisce<br />

l‘orizzonte angusto entro il quale fino a quel momento si muoveva l‘individuo, e stabilisce<br />

un nuovo orizzonte, stavolta senza limiti (come l‘amore), nel quale egli si muove con la<br />

disinvolta libertà e l‘interiore gusto di chi opera il bene perché innamorato. E l‘esperienza<br />

d‘un nuovo modo d‘essere, che porta, appunto, a una piena libertà interiore nel disporre di<br />

sé. Quando al centro della vita c‘è il Signore della vita, non c‘è più posto per la costrizione,<br />

interna od esterna, né per la paura, di vivere o di morire, d‘amare o d‘essere amati.<br />

3.2.2. “Il secondo è simile al primo: amerai il prossimo tuo come te stesso”<br />

L‘amore per Dio e per il prossimo costituiscono per Giovanni un solo<br />

comandamento divino: ―Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio ami<br />

anche il fratello‖ (lGv 4,21). In Luca esprimono l‘esigenza unica per ereditare la vita, così<br />

chiaramente unita che i due comandamenti sono retti da un solo verbo ―amare‖(cfr. Lc<br />

10,25-28). Per Matteo il precetto della legge mosaica: ―Amerai il prossimo tuo come te<br />

stesso‖(Lv 19,18) è comandamento ―simile al primo‖, quindi allo stesso livello dell‘amore<br />

per Dio e ad esso strettamente unito, così che ―da questi due comandamenti dipende tutta la<br />

legge e i profeti» (Mt 22, 40). Per Marco le due esigenze della legge insieme costituiscono<br />

il comandamento più importante e la garanzia di appartenere al regno (cfr. Mc 12,28-34).<br />

Ugualmente Paolo dichiara che ―tutta la legge trova la sua pienezza in un solo<br />

precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso‖(Gal 5,14), e la lettera di Giacomo afferma<br />

che amare il prossimo come se stesso ―il più importante dei comandamenti‖(Gc 2,8).<br />

Questa condensazione della carità nell‘amore del prossimo esprime il valore<br />

teologale dell‘amore del prossimo, come espressione della nostra fedeltà e gratitudine a<br />

Dio: l‘amore per il prossimo s‘iscrive nel dialogo d‘amore che ci unisce a Dio.<br />

La carità di Dio in noi suscita primariamente il nostro amore per Dio, ma non senza<br />

l‘amore per il prossimo. L‘unificazione e l‘interazione proposta da Gesù tra amore di Dio e<br />

amore del prossimo, il loro compattamento, non ne sopprime, tuttavia, una possibile<br />

articolazione riscontrabile in particolare nella versione matteana del duplice<br />

comandamento (Mt 22, 34-40). Il ―più grande e primo‖ comandamento, quello dell‘amore<br />

di Dio, unisce a sé il ―secondo‖ che gli è ―uguale‖ (ómoios). Si istituisce una duplice<br />

criteriologia: quella tra il ―primo‖ e l‘altro che gli è ―secondo‖, e quella di ―uguaglianza‖,<br />

di pari valore, tra di essi. ―Il primo comandamento – ha notato con finezza Bruno


91<br />

Maggioni – è assoluto per se stesso, non è simile a nessun altro. Il secondo, invece, è<br />

assoluto perché simile al primo. Qui sta il segreto dell‘uguaglianza e della differenza,<br />

dell‘identità e della distinzione. […] Il legame che unisce i due amori – in un rapporto<br />

ovviamente asimmetrico – non si aggiunge loro dall‘esterno, ma sorge dal loro interno,<br />

dalla loro natura, se così si può dire. Uguali non in quanto tutti e due necessari per<br />

abbracciare l‘intero ambito dei doveri, quelli verso Dio e quelli verso gli altri; ma perché il<br />

primo si riproduce nel secondo, e il secondo riceve la sua importanza nel primo‖. È<br />

all‘interno della dinamica che lega il credente nell‘amore di Dio che trova la sua<br />

significazione cristiana l‘amore del prossimo, comprendendosi nella stessa radicalità che lo<br />

rende uguale, ma anche traendo la sua qualità specifica, a partire dal primo. Fino ad<br />

abbracciare quella sua espressione radicale per cui non si ama solo l‘amabile, estendendosi<br />

al nemico, all‘ostile, all‘indifferente. Questa possibilità è solo di chi viene colpito<br />

nell‘affetto da un amore, quello divino, che ha amato sorprendentemente ciascuno mentre<br />

eravamo ―nemici e peccatori‖ (cfr. Rom 5, 10).<br />

Anche secondo il pensiero giovanneo, chi ama il prossimo è nell‘economia<br />

dell‘amore di Dio e non prescinde da Dio: ―Amiamoci gli uni gli altri, perché l‘amore è da<br />

Dio. Chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio... Perché Dio è amore‖(lGv 4,7-8).<br />

Questo significa che chi ama veramente, proprio perché ama veramente, è in relazione<br />

filiale con Dio e ne fa l‘esperienza, perché Dio è amore. Per questo l‘amore quando è vero,<br />

è sempre da Dio e chi ama veramente è in Dio e ama con l‘amore di Dio.<br />

La teologia s‘è espressa a riguardo affermando che la carità ama il prossimo in Dio<br />

e per amore di Dio. Ciò significa che Dio, e il suo amore, oltreché origine e fonte, è motivo<br />

e fondamento dell‘amore del prossimo. Questi consistono nella paternità di Dio che nel<br />

Figlio rende suoi figli gli uomini, unendoli a sé col dono e nella comunione dello Spirito<br />

Santo. In questa comunione trinitaria io sono in relazione a Dio con tutti i figli di Dio.<br />

Questi mi appartengono e tale appartenenza definisce come carità la mia relazione a essi:<br />

io li amo perché Dio li ama come ama me, unendoci a sé (come suoi figli) e tra noi (come<br />

fratelli).<br />

Questa inseparabile connessione esprime, insieme e progressivamente, una<br />

relazione di conseguenza dell‘amore del prossimo dall‘amore di Dio; di inveramento<br />

dell‘amore di Dio nell‘amore del prossimo; e di compresenza dell‘amore di Dio nell‘amore<br />

del prossimo.<br />

Anzitutto una relazione di conseguenza: ―Questo è il comandamento che abbiamo<br />

ricevuto da lui: chi ama Dio ami anche il suo fratello‖(1 Gv 4,21). L‘imperativo segue<br />

l‘indicativo della paternità di Dio e della filiazione dell‘uomo, che suscita l‘amore filiale<br />

per il Padre e di conseguenza l‘amore fraterno dei figli: ―Chi ama colui che ha generato<br />

ama anche chi da lui è stato generato» (lGv 5,1). ―E‘ il testo fondamentale per vedere la<br />

dimensione teologale dell‘amore fraterno: la carità fraterna non è solo umanesimo,<br />

filantropia, buona intesa fra i cristiani. Giovanni la contempla dall‘alto, dalla sua sorgente<br />

divina, che è Dio Padre: solo colui che ama Dio Padre, che vive in Dio, nella comunione<br />

col Padre (cfr. 1, 3), può veramente nella comunità cristiana, amare anche i suoi fratelli, i<br />

figli di Dio. Difficilemente si poteva insistere con più forza sul carattere soprannaturale,<br />

teologale e divino dell‘autentica carità cristiana‖ 155 .<br />

Ma l‘amore reciproco non consegue soltanto come esigenza irrinunciabile<br />

dell‘amore per Dio. Ne è insieme il «luogo» di inveramento: il criterio di verità. Un amore<br />

per Dio e per Gesù Cristo, incurante dei fratelli, rischia il verbalismo di chi dice «Signore,<br />

Signore!», ma non adempie la sua volontà (cfr. Mt 7,21), o anche il cultualismo di chi<br />

presume presentare la propria offerta a Dio in situazione di discordia, senza prima<br />

155 I. DE LA POTTERIE, I precetti morale secondo Giovanni, in Fondamenti biblici della teologia<br />

morale. Atti della XXII settimana biblica, Paideia Brescia, 1973, 339.


92<br />

riconciliarsi col proprio fratello (cfr. Mt 5,23-24). L‘amore fraterno è il comandamento<br />

ricevuto fin dall‘inizio (cfr. lGv 2,7; 3,11), in cui l‘amore per Dio si fa concreto, visibile e<br />

veritiero. Non riconoscerlo e osservarlo rende evanescente e insincero l‘amore per Dio:<br />

―Se uno dicesse: ―Io amo Dio‖ e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama<br />

il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento<br />

che abbiamo da lui: chi ama Dio ami anche il suo fratello‖(lGv 4,20-2 1). La verità del<br />

nostro essere cristiano è dunque fatta da un amore per Dio e Gesù Cristo verificato<br />

dall‘amore reciproco: ―Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avrete amore<br />

gli uni per gli altri‖(Gv 13,35). Così come la verità della fede, che configura il cristiano, è<br />

fatta dalla sua operosità nell‘amore del prossimo (cfr. Gal 5,6), concretamente dimostrato<br />

da opere di carità (cfr. Gc 2,14-26). Perché ―la fede senza le opere è morta‖(Gc 2,26).<br />

L‘amore reciproco e per il prossimo, in cui si condensa il comandamento di Dio,<br />

non solo non fa dimenticare l‘amore per Dio ma gli dà espressione, credibilità e<br />

compimento, sottraendolo a un misticismo e gnosticismo che la trascendenza e invisibilità<br />

del suo oggetto potrebbe facilmente ingenerare: ―Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo<br />

gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l‘amore di lui è perfetto in noi‖(lGv 4,12).<br />

Ciò che rende ancor più vero e fondato l‘amore di Dio nel prossimo, è il fatto che il<br />

cristiano vede e ama Gesù Cristo, Dio fatto uomo. C‘è una compresenza dell‘amore di Dio<br />

nell‘amore del prossimo. «Immagine e riflesso di Dio» (lCor 11,7; cfr. Gen 1,27) e<br />

«conforme all‘immagine del Figlio suo» (Rm 8,29; cfr. Col 3,10). In ogni fratello si mostra<br />

a noi il volto invisibile di Dio, perché Dio in Cristo si è fatto uomo. ―L‘amore al prossimo<br />

non è soltanto condizione preliminare, conseguenza, frutto e pietra di paragone dell‘amore<br />

a Dio, ma è esso stesso un atto di questo amore a Dio; quindi perlomeno un atto all‘interno<br />

di quell‘abbandono totale, in fede e speranza dell‘uomo a Dio che noi chiamiamo amore di<br />

Dio…‖ 156 .<br />

Nella povertà del fratello che c‘interpella è Cristo che si fa prossimo a noi: è lui il<br />

destinatario dell‘amore con cui abbiamo soddisfatto il bisogno del fratello. In questi il<br />

Figlio di Dio continua a diventare il figlio dell‘uomo che incontriamo e accogliamo<br />

prigioniero, affamato, assetato, infermo, perseguitato, a ogni modo bisognoso. ―Ogni volta<br />

che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli l‘avete fatto a<br />

me‖(Mt 25, 40). Donare al fratello è donare a Cristo. E Dio che risponde e contraccambia<br />

l‘amore con cui doniamo gratuitamente e generosamente al fratello (cfr. Lc 6,38).<br />

Nell‘amore fraterno noi entriamo in reciprocità con Dio.<br />

L‘inseparabile connessione dell‘amore del prossimo con l‘amore di Dio raggiunge<br />

qui la massima espressione: noi amiamo Dio nel prossimo. Quando Giovanni fa dell‘amore<br />

del prossimo il comandamento nuovo (cfr. Gv 15,12; 13,34; lGv 2,8; 2Gv 4-6) e Paolo<br />

riassume in esso tutta la morale (cfr. Rom 13,8.10; Gal 5,14), non è perché il prossimo<br />

sovrasta e soppianta Dio, ma perché nel prossimo si ama Dio. Allora ―è vero in senso<br />

radicale, cioè per una necessità ontologica, non soltanto ―morale‖ o ―psicologica‖, che chi<br />

non ama il fratello che ―vede‖, non può amare nemmeno Dio che non vede, e uno può<br />

amare Dio che non vede soltanto amando intensamente il fratello che vede‖ 157 .<br />

La carità di Dio ama in me e mediante me e io amo il fratello con l‘amore di Dio in<br />

me; per cui la carità è amore da Dio in me e che ritorna a Dio nell‘amore del fratello.<br />

L‘unità di questo amore rappresenta la novità del comandamento di Gesù, e insieme<br />

la sua difficoltà. Se non è poi così difficile, infatti, voler bene a Dio e poi anche all‘uomo,<br />

può essere un problema invece amare Dio nell‘uomo e l‘uomo in Dio, rendere simultanei e<br />

convergenti questi due affetti.<br />

156 K. RAHNER, Unità dell’amore di Dio e del prossimo, in Id., Nuovi saggi, Paoline, Roma 1968, 393.<br />

157 Ibidem, 410.


93<br />

Che sia un problema è dimostrato da due tendenze, l‘una contraria all‘altra, che<br />

contrappongono tra loro anche questi due amori. C‘è chi è tentato di vivere l‘amore verso<br />

Dio come qualcosa di intimistico e solo verticale, di strettamente personale e privato,<br />

scollegato dalla vita e dagli affetti d‘ogni giorno, quasi che l‘amore del prossimo sia un<br />

furto all‘amore di Dio; e c‘è chi vive profondamente immerso in rapporti umani molto<br />

coinvolgenti e sé arricchenti, ma che rischiano di essere solo umani. E come se si temesse<br />

che l‘amore verso Dio possa impoverire o addirittura impedire i rapporti di benevolenza<br />

umana, cosicché si finisce per tenere Dio al di fuori di essi, con la conseguenza di<br />

ritrovarsi, spesso senza volerlo e senza saperlo, ad amare in modo solo umano. C‘è dunque<br />

chi ama poco l‘uomo per timore di offendere e chi ama poco Dio per timore di escludere<br />

l‘uomo, quasi fosse impossibile esser ad un tempo amici di Dio e degli uomini. La carità<br />

che è da Dio è il luogo dell‘unità della vita che unifica tutto l‘uomo e indirizza ogni sua<br />

energia verso un unico obiettivo<br />

Chi ama il fratello raggiunge Dio non perché «sovrappone» in qualche modo<br />

l‘immagine di Dio a quella del fratello stesso, ma perché attraverso il suo amore raggiunge,<br />

come progressione, l‘intimità dell‘altro, il suo io più profondo vero, la sua amabilità<br />

oggettiva, e dunque anche la presenza di Dio in lui, l‘«esperienza» che Dio sta facendo in<br />

lui. In altre parole, arrivo a scoprire e ad amare Dio nell‘altro solo se amo l‘uomo concreto,<br />

in carne ed ossa. Non amo l‘altro semplicemente perché vedo Dio in lui, quasi chiudendo<br />

gli occhi sulla sua realtà personale; al contrario, proprio perché amo il mio prossimo per<br />

quello che è, incontro Dio e riconosco Dio in lui. E solo un amore fraterno e umano,<br />

sincero e personale, può raggiungere Dio. E allora il fratello che mi è al fianco e mi è<br />

«prossimo», diventa passaggio obbligato, mediazione preziosa e ineludibile per la mia<br />

esperienza di Dio. Quando l‘amo nella verità dei miei sentimenti e nel rispetto della sua<br />

inconfondibile identità, scopro l‘amore particolare che Dio ha per lui e la storia particolare<br />

di salvezza che Dio sta tracciando nella sua vita. E come se quest‘amore e questa storia mi<br />

riguardassero e raggiungessero ora anche me, oggetto dell‘identico amore e parte della<br />

medesima storia. Trovo Dio nell‘uomo, lo contemplo e lo amo. Sono finalmente libero<br />

d‘essere amico di Dio e degli uomini!<br />

3.3. Il comandamento nuovo: amore «come» e «perché» Cristo<br />

L‘amore di Dio, che ci relaziona a lui e tra noi, muove la nostra carità vicendevole:<br />

«Se Dio ci ha amati anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri» (lGv 4,11): l‘amore<br />

originario e gratuito di Dio è il motivo fondante ed esigente la carità fraterna. È<br />

sorprendente e significativo che Giovanni, dall‘amore di Dio per noi, non derivi<br />

espressamente l‘esigenza di amare Dio, ma quella di amarci tra noi. Così come lo stesso<br />

Giovanni, parlando del comandamento nuovo, lo formula non come amore di Dio e del<br />

prossimo, ma soltanto come amore del prossimo, nella forma dell‘amore reciproco. Questa<br />

è l‘originalità e la sintesi della teologia giovannea sulla carità, che nel vangelo è espressa<br />

dal comandamento che Gesù chiama ―nuovo‖ (Gv 13, 34) e ―suo‖ (Gv 15, 12), quello<br />

dell‘amore reciproco: ―Questo è il mio comandamento che vi amiate gli uni gli altri, come<br />

io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo dare la vita per i suoi amici‖ (Gv<br />

15, 12-13).<br />

Nella luce dell‘evento pasquale, in cui Gesù ―avendo amato i suoi che erano nel<br />

mondo li amò sino alla fine‖ (Gv 13, 1), la reciprocità dell‘agàpe si fonda, anche secondo<br />

il vangelo di Giovanni come già la carità in Paolo, sulla dinamica «kenotica» di Cristo,<br />

sulla sua carità comunicata e testimoniata nell‘evento pasquale e anticipata nel gesto<br />

simbolico della lavanda dei piedi agli apostoli (cfr. Gv 13, 1-20). Ma il segno più grande


94<br />

dell‘amore per i discepoli è la morte consumata da Cristo sulla croce ed è il motivo<br />

determinante quella pienezza dell‘amore che è la carità reciproca dei discepoli, perfezione<br />

dell‘amore e di ogni comandamento.<br />

La carità reciproca è resa possibile da quell‘amore nel quale ogni discepolo è posto<br />

e nel quale deve rimanere, nella duplice direzione e interpretazione del «come» (kathòs)<br />

contenuto nella formulazione del comandamento, sia del «come» fondativi-causale:<br />

«perché Cristo», sia del «come» esemplificativo-comparativo: sull‘«esempio di Cristo».<br />

―Occorre notare l‘ambivalenza di kathòs. Ordinariamente lo si traduce con «come»,<br />

essendo l‘amore di Gesù la norma della carità fraterna. Si può anche intendere kathòs nel<br />

senso di «poiché». Si tratta allora del motivo e del fondamento del nostro agapé per il<br />

prossimo: poiché vi ho amati, amatevi gli uni gli altri (Gv 13, 34). Il fatto che gli uomini<br />

siano oggetto dell‘amore divino li obbliga a impregnare i loro rapporti di questo stesso<br />

amore‖ 158 .<br />

La vita teologale di carità comunicata nella pasqua è comunione d‘amore col Padre<br />

in Cristo e nello Spirito. Così l‘amore del Padre, attraverso Cristo passa nella vita dei<br />

discepoli, perchè ―come il Padre ha amato me anch‘io ho amato voi‖ (Gv 15, 9a). I<br />

discepoli sono impegnati nella reciprocità dell‘amore, ma a partire dal comandamento di<br />

rimanere nella carità di Cristo, che rende possibile e contiene in sé ogni comandamento,<br />

vissuto come risposta al dono della vita teologale: ―rimanete nel mio amore‖ (Gv 15, 9b).<br />

Perciò l‘imperativo ―rimanete in me‖ si risolve nell‘imperativo ―amatevi reciprocamente‖:<br />

la certezza di rimanere in Cristo è la prassi dell‘amore verso i fratelli.<br />

Praticare l‘amore fraterno «come» e «perché» Cristo è attuare tutta la carità: è<br />

vivere la teologalità dell‘amore. Anche l‘apostolo Paolo alla carità esemplare e fondante di<br />

Cristo a Dio fa derivare la fedeltà alla carità in cui il cristiano deve vivere: «camminate<br />

nella carità, come e perché Cristo vi ha amato, e ha dato se stesso a Dio in sacrificio di<br />

soave odore» (Ef 5,2).<br />

3.3.1. La carità esemplare di Cristo<br />

Vivere la novità cristiana dell‘amore vuol dire innanzitutto amare «come» Cristo:<br />

egli è la norma. ―In lui si sono rivelate (e comunicate) l‘ampiezza, la profondità e la<br />

sorprendente novità della vita di Dio (una vita di amore tra il Padre e il Figlio); in lui si è<br />

realizzata e rivelata la novità dell‘alleanza (l‘incarnazione: l‘amore di Dio per noi). Nuovo<br />

non è l‘amore fraterno come precetto, ma in quanto rivela ed attua tutto questo‖ 159 .<br />

Per il cristiano amare è aprirsi nella sequela e nell‘imitazione alla carità di Cristo,<br />

che lo Spirito trascrive nei nostri cuori. Cristo è il maestro, il modello e il principio della<br />

carità «cristiana», la quale ha la forma e la misura della carità di Cristo.<br />

La carità di Cristo ha la forma del suo essere pro-esistente. La pro-esistenza di<br />

Cristo è una libertà che non ripone in sé il proprio centro, ma è uno ―spazio libero‖<br />

attraverso cui l‘amore di Dio si espande nel mondo. In Gesù la libertà coincide con la<br />

carità: con l‘essere d‘amore di Dio, perché nella sua libertà c‘è la libertà d‘amore che Dio è<br />

in se stesso. Così che Cristo ha il volto della carità e la carità assume i lineamenti di Cristo.<br />

Nell‘amore con cui egli ha effettivamente amato si rivela a noi la virtù e la norma<br />

dell‘amore in tutta la sua verità. E se questo può essere detto di ogni suo gesto, il come<br />

della carità proesistente di Gesù si rivela in pienezza nella croce. Qui la carità si offre a noi<br />

come oblatività pura dell‘amore che ―ha dato se stesso‖(Gal 2, 20; Tt 2,14; Ef 5,2), «per i<br />

158 N. LAZURE, Les valeurs morales de la théologie johannique, Gabalda, Paris 1965, 220<br />

159 B. MAGGIONI, Amatevi come io vi ho amati, in Amerai Dio e il tuo prossimo [Parola Spirito e Vita<br />

11], 160.


95<br />

nostri peccati» (Gal 1,14); dell‘amore che ―offre la vita per le pecore‖(Gv 10,15), che ―è<br />

morto per tutti‖(2Cor 5,14.15); la diakonia dell‘amore che ―spogliò se stesso assumendo la<br />

condizione di servo‖ e ―umiliò se stesso fino alla morte e alla morte di croce‖(Fil 2,7.8); la<br />

mansuetudine indifesa dell‘amore che ―oltraggiato non rispondeva con oltraggi e soffrendo<br />

non minacciava vendetta‖ (lPt 2,23); l‘ampiezza sconfinata dell‘ ―amore più grande‖(Gv<br />

15,13), dell‘amore ―sino alla fine‖ (Gv 13,1), dell‘amore che ―dona la vita‖(Gv 15,13; lGv<br />

3,16).<br />

La configurazione normativa della carità esemplare di Cristo, può essere descritta in<br />

tutti i suoi aspetti e atteggiamenti dall‘inno all‘amore con cui l‘apostolo Paolo mostra il<br />

primato e la necessità della carità. ―La carità è paziente, è benigna la carità, non è invidiosa<br />

la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non<br />

si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell‘ingiustizia, ma si compiace della<br />

verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (lCor 13,47). La carità qui è<br />

caratterizzata non in modo astratto ma con l‘azione che suscita. Si tratta non di attributi o<br />

espressioni di un amore in generale, ma di modi di essere di una carità-persona. E questa è<br />

Cristo: «Il soggetto dei 15 verbi di lCor 13,4-7, invece dell‘agape personificata, potrebbe<br />

altrettanto essere Cristo stesso»‖ 160 .<br />

La carità che Cristo è in se stesso, deve diventare la carità del cristiano, proprio<br />

nella conformazione alla forma e misura della carità di Cristo. ―Abbiate in voi gli stessi<br />

sentimenti che furono in Cristo Gesù‖(Fil 2,5). ―Rivestitevi dunque... di sentimenti di<br />

misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza; sopportandovi a vicenda e<br />

perdonandovi scambievolmente... Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. Al<br />

di sopra di tutto poi vi sia la carità‖(Col 3,12-14; cfr. Rom 12,9-13; Fil 2,3-4). L‘uomo<br />

nuovo in Cristo, battezzato nella sua morte e risurrezione, ne riveste e riproduce la carità in<br />

tutti gli atteggiamenti che la esprimono, in modo tale che la carità di Cristo è il nuovo<br />

nome della sua libertà.<br />

L‘esigente carità del Cristo è possibile come dono del Padre, grazie al suo Spirito: è<br />

lui a costituirci in essa, a insegnarcela e conformarvi la nostra libertà. L‘intensità della<br />

carità è data in primo luogo non dalla prassi, ma dalla preghiera e dalla fedeltà alla grazia.<br />

Essa non è una conquista una volta per sempre, perché la carità sviluppa in sé, a motivo<br />

dell‘essere di Cristo, un dinamismo di pienezza che richiede la disponibilità sempre nuova<br />

ad coglierne e tradurne l‘appello, nei modi realmente e quotidianamente possibili.<br />

3.3.2. La carità motivante di Cristo<br />

Cristo è il motivo della nostra carità: ―Noi amiamo perché egli ci ha amati per<br />

primo» (lGv 4,19). L‘amore «come» Cristo è effettivamente possibile «perché» lui ce lo ha<br />

mostrato e donato: noi vi attingiamo non solo la norma dell‘imitazione ma anche la forza<br />

della motivazione. Esso non ci sta semplicemente davanti, ma ci coinvolge come<br />

destinatari e beneficiari della carità di Cristo.<br />

La norma dell‘amore fraterno deriva la sua forza obbligante dalla conoscenza della<br />

fede di essere amati da Dio in Cristo: «In questo si è manifestato l‘amore di Dio per noi:<br />

Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo perché noi avessimo la vita per mezzo di<br />

lui‖(1Gv 4, 9).<br />

Nel «perché» Dio in Cristo ci ha amati e ci ama, c‘è l‘inedito fondativo della carità<br />

e della sua motivazione, perché anche quando dovessero venir meno tutti i motivi umani<br />

160 R. PENNA, Solo l’amore non avrà mai fine. Una lettura di 1Cor 13 nella sua pluralità di senso, in La<br />

carità. Teologia e pastorale alla luce di Dio-Agape, EDB, Bologna 1988, 29.


96<br />

per amare il prossimo, resta il fatto che chi è chiamato ad amare e chi deve essere amato,<br />

beneficiano della stessa carità di Cristo. Amando il prossimo perché Dio ci ama, noi<br />

troviamo la ragione e la necessità dell‘amore fraterno e la perfetta reciprocità nell‘amore di<br />

Dio.<br />

Ma «perché» Cristo può essere anche inteso non solo «a motivo di Cristo» perchè<br />

Cristo ci ha amato, ma «per il fatto stesso di Cristo». Secondo questo significato il motivo<br />

determinate ed esigente di amare «come» Cristo ogni uomo è dato dal mistero<br />

dell‘incarnazione, «perché» Cristo si è unito ad ogni uomo, così che la forza e la radicalità<br />

della carità è data dal «perché» ogni persona è diventata icona del volto di Cristo.<br />

L‘incarnazione-redenzione è in definitiva il «perché» dell‘amore di Cristo, il<br />

motivo urgente ed esigente di vivere nella radicalità del suo amore, non solo per<br />

comprendere la forza del suo comandamento, ma infine per comprendere l‘inscindibile<br />

unità fra amore di Dio e del prossimo.<br />

3.4. Eros e agape nella carità<br />

La concezione greca dell‘amore è espressa dal termine eros, designante il desiderio<br />

attrattivo dell‘altro intravisto come proprio bene. Nella tradizione giudeo-cristiana l‘amore<br />

è primariamente ed essenzialmente agàpe. Questo termine è assunto a designare l‘amore<br />

preveniente, gratuito ed eccedente di Dio che si offre come salvezza dell‘uomo.<br />

L‘agàpe è dunque l‘amore-grazia (karis) — l‘amore-carità — di Dio rivelato e<br />

donato a noi, che suscita il nostro amore e la nostra risposta d‘amore-carità. Nel cristiano<br />

l‘amore è agape: amore-dono con cui egli si offre a Dio e ai fratelli al di fuori di ogni<br />

interesse e ricerca di sé. L‘agape «non cerca il suo interesse» (1Cor 13,5). E amore<br />

unicamente intenzionato dal bene dell‘altro. Essa riproduce l‘amore puramente donante di<br />

Dio, rivelato dalla croce di Cristo. L‘agape nel cristiano è il riflesso della carità di Dio, in<br />

cui traspare la novità cristiana dell‘amore.<br />

La novità agapica dell‘amore cristiano pone la domanda sulla relazione e la<br />

possibile conciliazione tra le esigenze dell‘eros e quelle dell‘agape, espressioni<br />

rispettivamente dell‘amore-bisogno e dell‘amore-dono. Secondo una cultura contraria al<br />

valore del piacere e più in generale della gioia nelle relazioni umane, c‘è il sospetto di una<br />

non conciliabilità fra eros e agàpe, fra amore che si dà soltanto, in modo del tutto<br />

disinteressato senza mai nulla desiderare, e l‘eros che si contrappone incompatibilmente,<br />

quale amore egocentrico, cui sottrarsi come a insidiosa tentazione.<br />

Ma ci chiediamo: quest‘assolutizzazione del donare disinteressato, negatrice d‘ogni<br />

gioia e compiacimento nell‘amare, definisce correttamente l‘agape cristiana o non ne<br />

rappresenta piuttosto l‘esasperazione che ne svilisce la bontà e quindi il desiderio di vivere<br />

l‘amore-carità?<br />

Per una corretta e serena soluzione della questione, va rilevato anzitutto che non ci<br />

si deve lasciare condizionare e fuorviare dalle ambiguità e ambivalenze di senso di cui si<br />

sono culturalmente caricati i due termini. Occorre cercare i significati oltre le parole e<br />

portare la riflessione sui contenuti e valori effettivamente in gioco. Parole come eros e<br />

concupiscenza «amore di sé», «amore-bisogno» hanno finito col suscitare e far prevalere<br />

l‘accezione primariamente negativa del loro ambivalente significato; così che diventa<br />

impossibile, o quanto meno inopportuno, adoperarle in senso positivo senza un previa<br />

spiegazione. Certamente se eros e «concezione erotica» dell‘amore stanno a significare<br />

solamente l‘attrazione passionale che domina istintivamente ed edonisticamente la libertà,<br />

diventa impossibile ogni tentativo di concilarle con l‘agàpe. Ma non dimentichiamo la<br />

tensione naturale, iscritta nell‘essere dell‘uomo, alla felicità e al sommo bene, insieme al


97<br />

suo essere indigens, dove l‘ «amore-bisogno» rappresenta il primo movimento dell‘amore<br />

come uscita da sé.<br />

Riconoscendo perciò a eros e agàpe un significato più ampio, possiamo<br />

comprendere tutta la loro dinamica veritativa e il loro mutuo intrecciarsi.<br />

L‘amore-carità, nel suo radicalismo agapico, è essenzialmente un movimento<br />

estatico di benevolenza, che induce l‘«io» a uscire da sé e a donarsi, fino a perdersi per<br />

l‘altro e nell‘altro. Questo avviene primariamente e in assoluto nell‘amore per Dio, che è il<br />

sommo Bene, il Tu assoluto che induce la totale autoespropriazione nell‘estasi dell‘amoredono.<br />

Egli è l‘Amore crocifisso che chiama all‘incondizionata sequela dell‘agàpe<br />

sull‘esempio di Cristo<br />

Ora, si tratta si sapere se questa ontologia agapica dell‘amore-carità non implichi<br />

per se stessa, come intrinseca al suo dinamismo, una componente di autorealizzazione<br />

dell‘amante, un riverbero creativo dell‘amore sullo stesso soggetto dell‘agape, se ci sia un<br />

«per me» dell‘amore. Così che amore di benevolenza e amore di concupiscenza, amoredono<br />

e amore-bisogno, amore per l‘altro e amore per sé, insomma agape ed eros non siano<br />

che aspetti contigui e compenetrati dell‘unico amore<br />

Dobbiamo riconoscere che la verità dell‘amore-carità, la donazione più oblativa e<br />

disinteressata a Dio e al prossimo è sempre un evento di grazia per la libertà di chi vive<br />

questo amore. La Bibbia descrive l‘«esultanza di gioia» (cfr. Sof 3,17; lPt 1,8) che trabocca<br />

dalla carità e anche dal punto di vista lessicale il termine «agàpe» esprime un significato di<br />

felicità, di esultanza, di soddisfazione. Per Gesù Cristo, i cristiani ―esultano di gioia<br />

indicibile e gloriosa‖(lPt 1,8). C‘è sempre una ricompensa attuata e promessa per ―coloro<br />

che amano Dio‖(1Cor 2,9; Eb 12,22-23; Gc 1,12). Carità e gioia insieme sono grazia dello<br />

Spirito: ―Il frutto dello Spirito è carità-gioia‖(Gal 5,22).<br />

Questo è vero innanzitutto nella carità che stabilisce la comunione, in cui i soggetti<br />

sono reciprocamente destinatari dell‘amore, in cui la gioia di vivere la carità è immediata e<br />

ha evidenti connotati d‘ordine psicologico. ―Ogni amore non solo ha come suo frutto<br />

naturale la gioia, ma ogni umano essere felici è in fondo felicità dell‘amore‖ 161<br />

Amando l‘uomo cerca il bene che è Dio stesso, fonte di beatitudine, e lo trova<br />

attraverso la bene-volenza dell‘agape con cui l‘«io» si perde nell‘amore. Ma in questo<br />

perdersi ritrova se stesso, secondo la logica evangelica del perdere la propria vita per<br />

ritrovarla (cfr. Mt 16,24-25), nella dinamica pasquale del morire per risorgere (cfr. Gv<br />

12,24-25).<br />

Per cui è vero che la carità cercando tutto il bene dell‘amato, intensifica il bene di<br />

chi ama. In questo senso l‘amore ha una componente di eros insita nell‘economia stessa<br />

dell‘agàpe. Non si tratta di un «per me» dell‘amore-carità cercato indipendentemente dal<br />

«per te», ma simultaneo a esso e intrinseco alla sua dinamica: ―chi è amato costituisce lui<br />

stesso la ricompensa dell‘amore‖ 162 . Per cui nell‘amore autentico, quello della carità che<br />

non cerca il proprio interesse, quando cioè l‘altro è amato per se stesso, l‘amore stesso si<br />

mostra come pienezza di felicità, nella logica del ―dato e vi sarà dato‖(Lc 6, 38). ―L‘amore<br />

è sufficiente per se stesso, piace per se stesso e in ragione di sé. E‘ a se stesso merito e<br />

premio. L‘amore non cerca ragioni, non cerca vantaggi al di fuori di sé. Il suo vantaggio<br />

sta nell‘esistere. Amo perché amo, amo per amare. Grande cosa è l‘amore se si rifà al suo<br />

principio, se ricondotto alla sua origine, se riportato alla sorgente. Di là prende sempre<br />

alimento per continuare a scorrere. L‘amore è il solo tra tutti i moti dell‘anima, tra i<br />

sentimenti e gli affetti, con cui la creatura possa rispondere al Creatore, anche se non alla<br />

pari; l‘unico con il quale possa contraccambiare il prossimo, alla pari. Quando Dio ama,<br />

161 PIEPER, Sull’amore, 56.<br />

162 S. AGOSTINO, Sermo 340, 1: PL 38, 905.


98<br />

altro non desidera che essere amato. Non per altro ma, se non per essere amato, sapendo<br />

che coloro che lo ameranno, si beeranno di questo stesso amore‖ 163 .<br />

L‘eros nell‘agape non ha la forma dell‘avere ma della grazia, non è sotto il<br />

condizionamento limitante e discriminante del sentimento e della passione, ma entro<br />

l‘economia liberante della carità di Cristo in noi, che dilata l‘amore-carità su tutti. E<br />

perfino quando la carità non è riconosciuta e corrisposta, come nell‘amore per il nemico,<br />

ogni autentico dono d‘amore si riverbera creativamente e redentivamente in colui che ama,<br />

così come l‘amore crocifisso è diventato l‘amore risorto. L‘importante è saper amare:<br />

imparare e convertirsi alla virtù della carità, che è sempre comunione con Dio. Come<br />

nell‘amore per il prossimo amiamo Dio, così sempre nello stesso amore siamo amati da<br />

Dio. Possiamo non trovare la corrispondenza del prossimo; non potremo mai non trovare la<br />

risposta piena di grazia di Dio amato nel prossimo.<br />

La carità è sempre un evento di grazia per chi è amato e per chi ama. E la grazia<br />

qualifica l‘economia di agàpe e di eros che scandisce la comunione donante e ricettiva<br />

della carità, perchè l‘agàpe è essenzialmente donazione e contemporaneamente<br />

realizzazione di sé, luogo in cui è possibile sperimentare l‘unità e l‘armonia dell‘amore a<br />

Dio, al prossimo e a sé stessi.<br />

L‘agàpe, quindi, nella sua verità di amore-carità, recepisce in sé l‘eros come la<br />

componente e il momento di intensificazione e di crescita dell‘amante nell‘amore: come la<br />

gioia di amare e la grazia che ogni autodonazione nella carità promette. L‘eros, che vuole<br />

l‘altro come altro e non solo come felicità propria, porta con sé una tensione agapica<br />

d‘amore. Nella carità di cui ci fa capaci lo Spirito Santo, l‘eros è liberato da ogni ricerca e<br />

fruizione egotica delle gioie dell‘amore e l‘agape ingloba l‘eros nell‘oblatività radicale e<br />

totale dell‘amore crocifisso e risorto.<br />

163 S. BERNARDO, Discorsi sul Cantico dei cantici, 83, 4.


99<br />

CAPITOLO VI<br />

VITA TEOLOGALE E VIRTU’ DI RELIGIONE:<br />

VERSO LA PIENEZZA DELLA VITA IN CRISTO<br />

Dono di grazia e libertà della risposta, la vita teologale è comunione con Dio da<br />

accogliere come dono di grazia che chiede di esprimersi e crescere attraverso l‘impegno<br />

pubblico di una vita religiosa. I comandamenti della prima tavola della legge mosaica,<br />

portati a compimento dalla rivelazione di Cristo, dirigono la relazione e la reciprocità fra il<br />

dono soprannaturale e l‘impegno religioso proprio dell‘uomo che in Cristo vive l‘alleanza<br />

con Dio Padre.<br />

La verità della vita teologale e delle virtù che la esprimono, stanno alla base della<br />

virtù di religione. In particolare, pur sottolineando l‘unità del vissuto teologale, la carità<br />

costituisce l‘anima e la forma della virtù di religione con la quale viviamo il legame<br />

d‘amore con Dio, riconosciuto come Signore e fine della propria vita. ―E‘ compito<br />

immediato della carità determinare l‘uomo a donarsi a Dio in una unione spirituale. Ma che<br />

l‘uomo si dedichi alle opere di culto dipende immediatamente dalla virtù di religione e<br />

mediatamente dalla carità in quanto principio della virtù di religione‖ 164 .<br />

Le virtù teologali causano, in quanto lo comandano, l‘impegno nella virtù di<br />

religione e questa è una testimonianza resa alla fede, alla speranza e alla carità. 165 La<br />

disposizione all‘adorazione di Dio in ―Spirito e verità‖, si deve comprendere come frutto<br />

della carità, per evitare di diventare espressione di pura esteriorità. ―Così la carità ci porta a<br />

rendere a Dio ciò che in tutta giustizia gli dobbiamo in quanto creature. La virtù di<br />

religione ci dispone a tale atteggiamento‖ 166<br />

1. VITA TEOLOGALE E PREGHIERA<br />

Nella preghiera si rivela la religiosità della persona, il suo sguardo di fede e<br />

quale relazione fondante e vivente egli vive con Dio. La virtù di religione si esprime<br />

perciò necessariamente e primariamente nella vita di preghiera. La preghiera, a sua<br />

volta, dona forza e stabilità all‘impegno morale delle virtù, animando quelle teologali e<br />

fortificando quelle morali.<br />

La crisi attuale della preghiera è collegata all‘immagine dell‘uomo e della sua<br />

missione nella storia. In particolare si avverte la difficoltà della preghiera di<br />

intercessione e di ringraziamento.<br />

In una concezione sacrale del mondo il ricorso a Dio, la domanda di<br />

intercessione, occupava un posto di rilievo ed era spontanea e naturale. La<br />

consapevolezza dell‘autonomia del mondo e della responsabilità dell‘uomo<br />

nell‘affrontare le questioni che riguardano la sua condizione esistenziale rende superfluo<br />

il suo ricorso a Dio. Di qui la crisi della preghiera di intercessione, considerata una<br />

forma di evasione alla realtà e dalla presa di responsabilità verso il mondo, in una<br />

visione in cui non è eluso il pensiero di un certo infantilismo attribuito a chi prega. Ma<br />

Dio che ha lasciato l‘uomo in mano al suo consiglio, non lo ha lasciato padrone della<br />

164 S. Th., II-II, q. 82, a. 2, ad 1.<br />

165 cfr. S. Th., II-II, 81, a. 5, ad 1.<br />

166 CCC, 2095.


100<br />

vita e della morte. Non tutto è spiegabile, anzi la ragione è chiamata proprio a<br />

riconoscere che sono molte le cose che la superano (Pascal). La preghiera di<br />

intercessione appare ed è resa possibile davanti a questa consapevolezza del limite di<br />

ciò che è finito e destinato a finire nella vita e nella storia degli uomini.<br />

Prima di essere un mezzo per ottenere qualcosa, la preghiera è un bene in sé,<br />

perché la relazione con Dio ha valore per se stessa e lo è proprio in quanto lode,<br />

gratitudine, contemplazione. Essa presuppone nell‘uomo capacità creativa e senso del<br />

mistero, comporta il passaggio da un ascesi del dare ad una mistica del ricevere, cioè del<br />

lasciarsi fare da Dio, spogliandosi della propria presunzione. Per questo la preghiera<br />

nasce dalle sorgenti della vita teologale e si esprime in primo luogo nella lode. La vita<br />

teologale rende inoltre la preghiera non solo necessaria, ma prima di tutto possibile.<br />

Questo atteggiamento fondamentale ed essenziale della preghiera è messo in<br />

discussione dalla civiltà del dare e del fare, dalla logica dell‘efficienza produttiva e del<br />

consumismo che producono una sorta di disincanto nei confronti di tutto ciò che non è<br />

valutabile in termini di utilità. Ma questo produce disumanizzazione, pessimismo e<br />

conflittualità. Per questo la preghiera acquista tutto il suo valore perché alimenta<br />

nell‘uomo il senso della gratuità e della sorpresa e lo apre a quella esperienza del divino<br />

che si esprime nella fede-speranza-carità.<br />

1.1. Virtù teologali e preghiera<br />

Se la virtù della religione esprime il rapporto creaturale dell‘uomo che si rivolge<br />

al suo Creatore, la preghiera cristiana è la preghiera dei figli nel Figli, una preghiera che<br />

nasce dall‘Alto. Nella preghiera vivono e si esprimono le stesse virtù teologali, in<br />

quanto ―la fede, la speranza e la carità pregano‖ 167 . La preghiera cristiana, infatti, nasce<br />

dalla vita teologale, la esprime e la fa crescere, perché il cristiano non prega davanti a<br />

Dio, ma prega in Dio e questo rende possibile pregare sempre.<br />

La preghiera vive di queste virtù ed esse vivono della preghiera. Una fede senza<br />

preghiera si ridurrebbe ad una fede filosofica; la speranza una vana presunzione; la<br />

carità un amore senza espressione, senza accostamento personale. La preghiera<br />

teologale è relazione personale con Qualcuno; è incontro vero e sempre possibile con<br />

Dio Trinità d‘amore, non è più attraverso la mediazione di idee, ma per mezzo dello<br />

Spirito del Risorto, riversato nel cuore del credente che fa sorgere nel cristiano il<br />

desiderio di incontrare il Dio Uno e Trino, e crea la comunione e il dialogo con Dio,<br />

perché fatto partecipe della vita di Dio. Per questo ogni preghiera cristiana deve essere<br />

modellata sul Padre Nostro e se nella prima parte è lode e adorazione, nella seconda<br />

parte entra nei limiti creaturali e si affida al Padre nei bisogni e necessità della vita, ma<br />

sostenuti dal desiderio primo e necessario di chiede l‘avvento del Regno di Dio e il<br />

compimento della sua volontà.<br />

In definitiva la preghiera cristiana ha un andamento e forma trinitaria. Ma<br />

insieme la preghiera del cristiano si apre necessariamente alla dimensione comunitaria,<br />

al dono dello Spirito fatto alla Chiesa e alla partecipazione alla missione e testimonianza<br />

della Chiesa.<br />

La preghiera non è altro che la nostra vita teologale che ogni giorno in qualche<br />

modo viviamo. In quanto vita teologale, la preghiera che facciamo deve essere intrisa di<br />

fede, deve essere sospiro di speranza, gesto concreto d'amore. Infatti, ―la fede è la<br />

madre; la preghiera è la figlia; ma è la figlia ad alimentare la madre‖(S. Kierkegaard).<br />

167 S. AGOSTINO, Enchiridion sive de fide, spe et caritate, lib. I, cap VII: PL 40, 234.


101<br />

Ecco la nostra preghiera che si fa risposta, accoglienza, dialogo tra «io - Tu», quindi<br />

comunione.<br />

Virtù teologali e preghiera sono dunque in se stessi inseparabili. Non si può<br />

credere senza pregare, e non si può pregare senza credere. Inoltre la preghiera teologale<br />

illumina e sostiene la vita morale perché permette di valutare con il Signore come<br />

rispondere al dono della vita teologale, come vivere il discernimento dell‘agire virtuoso.<br />

Non dimentichiamo, infatti, che anche le virtù teologali vivono del dialogo con la libertà<br />

e la preghiera sostiene la libera risposta alla grazia di Dio, proprio perché anche la<br />

preghiera è dono di grazia.<br />

1.2. Preghiera e vita morale<br />

La doverosità della preghiera è connessa con quella della cura della propria<br />

interiorità, per vivere secondo Dio a partire dall‘incontro con lui sempre nuovo e sempre<br />

necessario. Occorre infatti ricordare l‘impegno di unità e armonia della propria vita e<br />

anche che fede e morale stanno insieme, perchè la verità del dono di vita nuova è verità<br />

da vivere, una verità operativa nella fedeltà etica. Se la vita teologale è fondante questa<br />

deve essere alimentata, rigenerata nell‘incontro con Cristo, nell‘ascolto dello Spirito,<br />

nell‘offerta la Padre della propria vita. ―Per colui che si sa e si vuole vivente in Cristo,<br />

tale «meditare per comprendere» la propria vita, così da poterla continuamente orientare<br />

in maniera corretta e consapevole, non potrà essere solo un esercizio di intelligenza fatto<br />

con se stesso e le proprie forze. La cura per la propria moralità dovrà esprimersi anche<br />

in preghiera: valutare con il Signore quella che intende essere vita in lui‖ 168 .<br />

Questo pone la preghiera sotto l‘istanza del dovere e quindi la mancanza di<br />

fedeltà alla preghiera è dimenticanza di se stessi nella dimenticanza di ciò che è vitale e<br />

vivente nella propria vita di credenti. Questo rientra sotto l‘infedeltà che è il peccato, e<br />

il primo peccato, non definito dalla sua gravità materiale, ma ugualmente distruttivo per<br />

i suoi effetti, è proprio la mancanza di momenti e di profondità nella preghiera. Inserire<br />

saggiamente la preghiera nel ritmo e nello stile del vivere è aver cura dell‘interiorità che<br />

sorregge l‘agire come l‘agire di un soggetto credente. Questo inoltre si pone come<br />

obiettivo quello della maturazione dell‘unità personale del soggetto, in una assunzione<br />

di consapevolezza, libertà e responsabilità. La preghiera personale diventa perciò il<br />

luogo di esplicitazione e attualizzazione di quel incontro con Dio in Cristo che motiva,<br />

fonda e orienta l‘agire morale del cristiano.<br />

La preghiera ha efficacia diretta sulla bontà morale di chi prega, sul suo fare la<br />

verità davanti al Signore. Ma ha anche efficacia indiretta sulla capacità di conoscenza<br />

oggettiva del bene e delle possibili scelte moralmente corrette. Si tratta della luce del<br />

discernimento che la preghiera getta nella coscienza, in particolare nella preghiera che<br />

fatta nel dialogo con la Parola di Dio.<br />

―Senza la preghiera, tutte le virtù sono come alberi senza terra; la preghiera è il<br />

terreno che permette a tutte le virtù di crescere... Il discepolo di Cristo deve vivere<br />

unicamente per Cristo. Quando egli amerà Cristo fino a questo punto, amerà<br />

necessariamente anche tutte le creature di Dio. Gli uomini credono che occorra amare<br />

prima gli uomini e poi Dio. Anch‘io ho fatto così, ma questo non serve a nulla. Quando<br />

al contrario ho cominciato ad amare Dio, in questo amore di Dio ho trovato il mio<br />

prossimo. E in questo amore di Dio, i miei nemici sono diventati miei amici, creature<br />

divine‖ (testo di un "pazzo per Cristo" russo, degli inizi del nostro secolo).<br />

168 S. BASTIANEL, La preghiera nella vita morale cristiana, Piemme, Casale Monferrato 1986, 32.


102<br />

2. VITA TEOLOGALE E SACRAMENTI:<br />

2.1. Dal dovere alla necessità di celebrare i sacramenti<br />

La riflessione teologico-morale ha sempre indicato ai cristiani il dovere e l‘obbligo<br />

di celebrare i sacramenti, perché il rendere culto a Dio rappresenta un impegno morale<br />

determinante nella vita di fede. Soprattutto in una visione cosificata e quantificata della<br />

grazia sacramentale, la recezione dei sacramenti non potevano non essere indicata fra gli<br />

obblighi principali del cristiano, espressione della virtù di religione, in quanto la situazione<br />

di peccato e fragilità umana chiedono l‘aiuto indispensabile della grazia e quindi dei suoi<br />

sacramenti.<br />

Tutto questo ha generato fino ad un recente passato, sia nella prassi sacramentaria e<br />

sia nella riflessione teologico-morale, una relazione fra sacramenti e vita morale impostata<br />

principalmente sulla doverosità precettistica della loro celebrazione, con l‘intento di<br />

salvaguardare il primato del dono di Dio e della sua grazia. Ma proprio a partire da tale<br />

prospettiva di fatto emergeva la centralità dell‘uomo, che con i suoi atti di culto, e primi fra<br />

tutti i sacramenti, accedeva ad una grazia, che tanto più era donata quanto più era frutto di<br />

impegno e di buone disposizioni, legate ai requisiti di liceità e validità della ricezione<br />

sacramentale. Così i sacramenti erano visti soprattutto come atti di culto a Dio, un‘opera<br />

buona che permette di accedere alla grazia, diventando meritoria davanti a Dio.<br />

La verità teologale di tutta la vita cristiana chiede di pensare e vivere in modo<br />

nuovo la relazione fra vita morale e sacramenti, fra celebrazione dei sacramenti e impegno<br />

morale, secondo una nuova valutazione della necessaria reciprocità fra etica e liturgia.<br />

Se la vita morale si fonda sulla partecipazione alla vita divina, sulla verità teologale<br />

della vita in Cristo propria del cristiano, tutta la vita morale la morale cristiana deve trovare<br />

nei sacramenti inizio, fondamento e slancio. Se si comprende che tutta la teologia della vita<br />

cristiana e della morale cristiana è riflessione sull‘essere «in Cristo» e sul vivere la «vita in<br />

Cristo» e che questa è partecipazione salvifica alla pasqua di Cristo per mezzo dei<br />

sacramenti, la loro celebrazione, e in particolare la celebrazione dell‘iniziazione cristiana,<br />

diventa fondante e fondamentale per tutta l‘esistenza cristiana e il dovere dei sacramenti<br />

ricollocato in una visione sacramentale e misterica della salvezza e della vita cristiana<br />

animata da questo dono.<br />

Azioni di Cristo e della Chiesa, ―i sacramenti sono ordinati alla santificazione degli<br />

uomini, alla edificazione del corpo di Cristo e, infine, a rendere culto a Dio‖ 169 . Nella<br />

liturgia dei sacramenti viene data ai fedeli la possibilità di ―santificare quasi tutti gli<br />

avvenimenti della vita per mezzo della grazia divina, che fluisce dal mistero pasquale della<br />

passione, morte e resurrezione di Cristo; mistero dal quale derivano la loro efficacia tutti i<br />

sacramenti e i sacramentali‖ 170 . Ogni celebrazione sacramentale è evento che attualizza il<br />

mistero della salvezza di Cristo nella vita dei credenti ed è sorgente della santificazione ed<br />

edificazione della Chiesa.<br />

A partire da questa comprensione misterica dell‘economia sacramentale, il dovere<br />

di celebrare nasce per il cristiano e per l‘intera comunità cristiana dalla necessità di<br />

celebrare e rendere vivente e vitale la memoria del fondamento sacramentale della vita<br />

teologale; il valore obbligante è dato dalla necessità di celebrare il mistero di Cristo, perché<br />

si vive del dono sempre nuovo e sempre grato della «vita di Cristo», che chiede l‘incontro<br />

col Cristo vivente nella celebrazione sacramentale della sua pasqua .<br />

169 SC, 59.<br />

170 SC, 61.


103<br />

La doverosità del culto, l‘obbligo dei sacramenti appare come l‘impegno della<br />

gratitudine e della memoria del dono che ha generato la novità di vita del cristiano, perché<br />

il memoriale della pasqua diventi in lui memoria grata e vivente nell‘esistenziale cristico<br />

della vita morale. ―Celebrata in diversi momenti ma da viversi incessantemente, la liturgia<br />

è l‘unico mistero di Cristo che dà la vita agli uomini. Quando viene celebrata, essa non ci<br />

offre un modello da imitare poi nella vita; ricadremmo in questo caso nell‘esteriorità che<br />

separa il rituale sacro dalla condotta morale. Lo stesso Cristo che celebriamo è quello che<br />

viviamo; nell‘uno come nell‘altro caso è sempre il suo mistero. Così come i sacramenti<br />

sono i suoi misteri, allo stesso modo la sua vita in noi o è ―mistica‖, oppure non è. Il suo<br />

Spirito santo è la medesima sorgente alla quale beviamo nella celebrazione sacramentale e<br />

che sgorga nei nostri cuori come vita eterna‖ 171 .<br />

Il dovere di celebrare con verità e fedeltà etica la liturgia e in particolare la liturgia<br />

dei sacramenti nasce, inoltre, dal valore e significato del rito e del celebrare. Nel rito si<br />

celebra l‘«epifania di un mistero» dentro una vita morale fondata e abitata dal mistero di<br />

Cristo, che celebrato chiede di diventare liturgia offerta e ricevuta, per essere azione<br />

fondante e dinamica della vita morale, e non semplice rappresentazione del fondamento<br />

che l‘ha costituita. Il dovere di celebrare è richiesto proprio dalla centralità della liturgia,<br />

dal valore fontale e culminante del celebrare, che si traduce in compito morale.<br />

Nell‘impegno-dovere di celebrare colui che ha ricevuto la vita in Cristo si rapporta al<br />

fondamento che l‘ha generato, per vivere del fondamento che è sempre nuovo perchè<br />

gratuitamente celebrato.<br />

Il rito ritrova la centralità del suo valore e la necessità della sua celebrazione perché<br />

è una «forma» di vita, un‘azione della persona che vive in Cristo e un rito che dà forma<br />

sempre nuova alla vita. Celebrando il memoriale del suo fondamento cristologico, il rito<br />

pone sempre un nuovo inizio, quello della vita nuova rigenerata dall‘incontro in Cristo, di<br />

una vita donata e ricevuta in cui si sperimenta la disponibilità gratuita, altrimenti<br />

indisponibile se considerata dovuta, del fondamento su cui si è fondati. L‘azione<br />

plasmatrice della liturgia diviene progressivamente energia plasmatrice, evocatica e<br />

provocante della vita morale, anche per la sua necessaria e irrinunciabile ripetibilità<br />

nell‘«anno di grazia» del tempo liturgico.<br />

Certamente nel suo «dovere» celebrativo, che acquista le caratteristiche del<br />

desiderio e della necessità di rendere grazie, il cristiano porta tutta la sua umanità. Per<br />

questo egli vive la liturgia come impegno etico fondamentale, anche per la pienezza di<br />

azione umana e quindi pienamente morale che la liturgia stessa chiede ed esige. Il dovere<br />

di celebrare la divino-umanità del mistero di Cristo, richiede non solo una celebrazione<br />

valida e lecita, ma anche che sia secondo l‘umanità rinnovata nel mistero pasquale, quindi<br />

vissuta con piena dignità umana, perché il rito è azione pienamente umana. E‘ la pienezza<br />

di una umanità redenta che, a partire dalla consapevolezza della dignità teologale del<br />

cristiano e sul fondamento della dimora ecclesiale dell‘etica, genera la necessità e la<br />

possibilità di una consapevole e fruttuosa partecipazione all‘assemblea liturgica.<br />

Questa diviene partecipazione attiva, agire veritativo nella libertà, non solo<br />

nell‘impegno della partecipazione esterna, ma in tutta la verità di un ethos liturgico in cui<br />

sono richieste tutte le disposizioni interiori per partecipare, sia nell‘accoglienza come<br />

nell‘offerta, al mistero pasquale celebrato nei sacramenti.<br />

La costituzione conciliare sulla liturgia insiste particolarmente sulla partecipazione<br />

attiva dei cristiani alla liturgia, mediante una azione libera e cosciente, consapevole e<br />

fruttuosa che deve essere posta dal fedele che vive in Cristo. La necessità di vivere la<br />

liturgia in modo attivo e consapevole è fondata sul battesimo e trova compimento<br />

171 J. CORBON, Liturgia alla sorgente, Qiqajon, Comunità di Bose 2003, 214-215.


104<br />

nell‘eucaristia. ―E‘ ardente desiderio della madre Chiesa che tutti i fedeli vengano formati<br />

a quella piena, consapevole e attiva partecipazione alle celebrazioni liturgiche, che è<br />

richiesta dalla natura stessa della liturgia e alla quale il popolo cristiano (…) ha diritto e<br />

dovere in forza del battesimo‖ 172 . La liturgia per sua natura coinvolge tutto il cristiano ed è<br />

per lui un diritto e un dovere. Ma il «dovere» della partecipazione alla liturgia trova<br />

fondamento in un dono, quello del battesimo, che costituendo il fondamento e la sorgente<br />

di vita teologale, chiede di celebrare tale fondamento in un dialogo vitale e dinamico fra<br />

etica e liturgia, in primo luogo mediante la consapevole e attiva partecipazione alla liturgia<br />

stessa.<br />

La vita liturgica e sacramentale ha nell‘eucaristia la sua fonte ed il suo culmine. Il<br />

―dovere‖ di celebrare e di partecipare attivamente diventa necessità della partecipazione<br />

all‘eucaristia memoriale della pasqua da cui scaturisce la vita teologale. Celebrando il<br />

mistero pasquale ogni cristiano cresce nel dinamismo pasquale della vita teologale,<br />

alimentando la fede nell‘amore di Cristo; nella comunione al suo corpo e sangue trova<br />

forza per vivere la speranza nella sua venuta. Ma soprattutto la vita teologale della carità<br />

trova fonte e culmine nell‘eucaristia, perchè la carità fruttifica dai sacramenti. ―Perché la<br />

carità come buon seme cresca e fruttifichi, ogni fedele deve ascoltare volentieri la parola di<br />

Dio e con l‘aiuto della sua grazia compiere con le opere la sua volontà, partecipare<br />

frequentemente ai sacramenti, soprattutto all‘eucaristia e alle azioni liturgiche…‖ 173 . Il<br />

primato della carità e l‘origine eucaristica della carità, permettono di passare dal dovere di<br />

partecipare all‘eucaristia al bisogno di farlo per vivere ciò che si celebra e per celebrare ciò<br />

che si vive.<br />

2.2. “Ricordati di santificare le feste”<br />

Il comandamento di «santificare le feste» è legato alla fedeltà all‘alleanza, al dovere<br />

di amare Dio. Questo comandamento rimane da attuare anche nell‘economia nella Nuova<br />

alleanza, dove emerge il primato dell‘eucaristia nella vita teologale del cristiano, che<br />

chiede, come abbiamo visto di passare dal dovere di partecipare all‘eucaristia, al bisogno<br />

di celebrare il mistero pasquale, nel giorno del Signore.<br />

Vogliamo ora considerare se e come questi doni di Dio, quello della vita teologale e<br />

del comandamento di santificare le feste, sono fra loro uniti, per vivere con verità un<br />

aspetto centrale del rapporto fra vita teologale e sacramenti.<br />

La domenica non rappresenta certo la trasposizione del sabato ebraico, ma per<br />

comprendere come il comandamento di santificare le feste, legato al riposo del sabato,<br />

possa e debba essere vissuto dai cristiani che celebrano la domenica, il giorno del Signore,<br />

non è senza importanza ricordare il significato spirituale del sabato ebraico. Questo anche a<br />

motivo del fatto che dal IV secolo si verifico un preciso influsso del precetto<br />

veterotestamentario sull‘interpretazione della domenica, divenuta così anche giorno di<br />

riposo.<br />

2.2.1. Dal sabato ebraico alla domenica cristiana<br />

Il precetto sabbatico si trova già nei testi biblici risalenti al periodo del deserto. È<br />

presente in tutte le raccolte legislative del Pentateuco, quali il codice d‘alleanza (cfr. Es<br />

23,12), il codice cultuale jahwista (cfr. Es 34,21), il codice sacerdotale (cfr. per es. Es<br />

172 SC, 14.<br />

173 LG, 42.


105<br />

31,12-17; 35,1-3), la legge di santità (cfr. Lv19,3.30; 23,3; 26,2), le due redazioni del<br />

decalogo (cfr. Es 20,8 e Dt 5,12). La sua origine sembra derivare direttamente<br />

dall‘esperienza d‘Israele come popolo di Dio, quindi dalla sua esperienza di fede.<br />

Il suo tratto fondamentale consisteva nel riposo da ogni lavoro. Il sabato non aveva,<br />

originariamente, alcun carattere cultuale ed era privo di ogni rapporto con il santuario. Si<br />

potrebbe dire che era una festa di carattere familiare e sociale. Solo molto più tardi,<br />

certamente dopo l‘esilio, se ne rinnegò la profanità, trasformandolo in giorno di riunione<br />

liturgica (cfr. Lv 23,3: ―Durante sei giorni si attenderà al lavoro; ma il settimo giorno è<br />

sabato, giorno di assoluto riposo e di santa convocazione‖). Il riposo era contrapposto alla<br />

fatica dei sei giorni lavorativi. Nelle redazioni del decalogo (cfr. Es 20,10; Dt 5,14) si<br />

specifica che i beneficiari non erano soltanto i proprietari, ma anche i forestieri, i lavoratori<br />

dipendenti e gli schiavi. Anche per loro valeva la pausa settimanale dal lavoro faticoso. Da<br />

questo punto di vista il sabato trova collocazione in linea con quelle prescrizioni che<br />

imponevano la liberazione dello schiavo ebreo dopo sei anni di servizio (cf Es 21,2 e Dt<br />

15,12) e l‘anno giubilare (cf Lv 25,39-43). Il sabato mirava ad evitare che il lavoro<br />

assumesse tonalità oppressive e schiaviste. L‘uomo era così liberato anche dalla necessità<br />

del suo lavoro. La catena dei giorni di fatica era spezzata dalla libertà del sabato.<br />

Su questa traiettoria si collocò, in maniera esplicita, il deuteronomista nella<br />

motivazione del riposo sabbatico come ricordo-memoriale della liberazione dalla schiavitù<br />

d‘Egitto: ―Ricordati che sei stato schiavo nel paese d‘Egitto, e che JHWH, tuo Dio, ti ha<br />

fatto uscire di là con mano potente e braccio steso‖(Dt 5,15). Nel sabato Israele era<br />

chiamato a gioire del dono divino della libertà. Il lavoro da schiavi fatto in Egitto, dal quale<br />

JHWH aveva riscattato il popolo, non doveva rivivere nella terra della promessa e<br />

dell‘eredità divina. L‘esodo otteneva in questo modo una sua riattualizzazione nel riposo<br />

sabbatico, nell‘uscita dalla fatica dei sei giorni settimanali di lavoro.<br />

La tradizione sacerdotale, invece, ha motivato il riposo sabbatico come memoriale e<br />

imitazione del riposo di Dio al termine della creazione del cielo e della terra: ―Perché in sei<br />

giorni JHWH ha fatto il cielo e la terra e il mare e tutto ciò che vi è in essi, ma si è riposato<br />

il giorno settimo‖(Es 20,11). Il richiamo a Gen 2,2-3 è chiaro, ma non ci si riferisce al<br />

precetto del riposo sabbatico. L‘attenzione è rivolta allo stato di riposo di Dio e al carattere<br />

sacro, cioè riservato a Dio, del sabato. Siamo qui di fronte ad una concezione del riposo<br />

divino come stato di beatitudine. Nel riposo sabbatico Israele era chiamato a parteciparvi,<br />

facendo propria la pace divina. E in questa direzione si svilupperà in seguito la speranza<br />

escatologica di entrare nel riposo di Dio (cfr. Sap 4, 7).<br />

Tutti e quattro i vangeli, concordemente, datano la risurrezione del Signore e le sue<br />

apparizioni di Risorto nel «primo giorno della settimana sabbatica» (cfr. Mt 28, 1; Mc 16,<br />

2; Lc 24, 1.13; Gv 20, 1.19.26). Il primo giorno della settimana sabbatica ha avuto subito<br />

un particolare significato per la chiesa primitiva, esattamente il significato cultuale di<br />

celebrazione del memoriale della risurrezione del Signore. Forse, fin dalla prima settimana<br />

dopo la risurrezione, gli apostoli iniziarono a trovarsi insieme di domenica. Il quarto<br />

vangelo ci testimonia che mentre gli undici si trovavano riuniti e anche Tommaso era<br />

presente, il Signore venne tra loro e si manifestò particolarmente al discepolo incredulo<br />

(cfr. 20,26).<br />

Più esplicita è la testimonianza degli Atti: ―Il primo giorno della settimana<br />

sabbatica ci radunammo a spezzare il pane‖(20,7). A Troade, Paolo s‘intrattenne con la<br />

comunità della città, riunita per la celebrazione eucaristica, appunto di domenica. In lCor<br />

l‘Apostolo esortò i credenti della città a mettere da parte le loro offerte per i ‗santi‘ di<br />

Gerusalemme ogni primo giorno della settimana (cfr. 16,2), per cui è lecito pensare che nel<br />

giorno menzionato la comunità di Corinto si riunisse in assemblea.


106<br />

Da queste constatazioni convergenti emerge con sufficiente sicurezza che fin dal<br />

tempo apostolico le comunità cristiane nel primo giorno della settimana si riunivano a<br />

«spezzare il pane» e a celebrare la risurrezione del Signore. Non è certo un giorno di<br />

riposo, ma il primo giorno dopo il sabato è il giorno in cui si celebra la memoria della<br />

pasqua, mediante lo spezzare il pane.<br />

Un ultimo testo neotestamentario deve essere preso in considerazione. Il libro<br />

dell‘Apocalisse precisa il giorno della rivelazione divina sperimentata da Giovanni: ―E fui<br />

rapito in spirito, una domenica, e udii dietro a me una voce potente, come di tromba, che<br />

diceva...‖(Ap 1,10). Particolarmente interessante è qui il nuovo termine usato: «giorno<br />

kyriale», che trova un solo passo parallelo neotestamentario in lCor 11,20, dove si parla<br />

della «cena del Signore». Ed è appunto in questa direzione che si deve cercare il significato<br />

dell‘espressione «giorno kyriale»: come la cena del Signore significa la comunione<br />

eucaristica dei credenti con Cristo, cioè l‘esperienza della sua presenza, così il giorno del<br />

Signore è qualificato dalla presenza di Gesù risorto ai suoi. La domenica, in altre parole, è<br />

il giorno dell‘incontro di fede della comunità cristiana con il suo Signore risorto presente<br />

nella celebrazione eucaristica.<br />

La domenica attinge la sua origine dalla risurrezione di Cristo, grazie alla quale<br />

sono stati impressi nel tempo i tratti dell'eternità. La domenica è allora, per così dire, un<br />

frammento di tempo pervaso di eternità, perché la sua alba ha visto il Crocifisso risuscitato<br />

entrare vittorioso nella vita eterna.<br />

Con l'evento della risurrezione, la creazione e la redenzione raggiungono il loro<br />

compimento. Nel «primo giorno dopo il sabato», le donne e poi i discepoli, incontrando il<br />

Risorto, compresero che quello era ―il giorno fatto dal Signore‖(Sal 117,24), il «suo»<br />

giorno, il dies Domini. Così, infatti, lo canta la liturgia: "O giorno primo ed ultimo, giorno<br />

radioso e splendido del trionfo di Cristo".<br />

Sin dalle origini, questo è stato un elemento stabile nella percezione del mistero<br />

della domenica: ―Il Verbo ha trasferito la festa del sabato al giorno in cui è sorta la luce e<br />

ci ha dato come immagine del vero riposo il giorno della salvezza, la domenica, primo<br />

giorno della luce in cui il Salvatore del mondo, dopo aver compiuto tutte le sue opere<br />

presso gli uomini, avendo vinto la morte, ha varcato le porte del cielo superando la<br />

creazione dei sei giorni e ricevendo il sabato beato e il riposo beatifico‖ 174 . Animato da<br />

questa consapevolezza, Sant‘Ignazio di Antiochia giunge ad affermare: ―Noi non viviamo<br />

più secondo il sabato, ma apparteniamo alla domenica‖ 175 .<br />

2.2.2. Il precetto domenicale<br />

Con questa espressione si è denominato l‘obbligo, formulato da disposizioni<br />

ecclesiastiche, per ogni cristiano di partecipare alla messa domenicale, se non è<br />

legittimamente impedito. L‘obbligo si estende anche ad alcune feste infrasettimanali, da<br />

cui l‘espressione ‗precetto festivo‘. Fin dalle origini si manifestò la preoccupazione<br />

pastorale circa la presenza, in questo giorno, dei fedeli nell‘assemblea (cfr. Eb 10,25) e<br />

circa la qualità della celebrazione eucaristica (cfr. lCor 11,17.20) ma lungo la storia tale<br />

preoccupazione ha acquisito motivazioni, formulazioni e interpretazioni differenti che è<br />

utile ricordare, anche perchè influiscono sulla formazione della coscienza cristiana.<br />

La formulazione di questo precetto in un testo legislativo di valore universale si ha<br />

solo nel CIC del 1917 (cann. 1247-1248), ma sin dalle origini è chiara la consapevolezza<br />

che la domenica comporta la riunione dell‘assemblea eucaristica e che i fedeli vi debbono<br />

prendere parte.<br />

174 ORIGENE, Commento al Salmo 91.<br />

175 S. IGNAZIO DI ANTIOCHIA, Ad Magn. 9,1


107<br />

Già la Didaché riporta questa esortazione: ―Radunatevi insieme nel giorno del<br />

Signore, spezzate il pane e rendete grazie, dopo aver confessato i vostri peccati, affinché il<br />

vostro sacrificio sia puro‖ 176 . Giustino nel II sec. afferma che ―nel giorno detto del sole<br />

tanto quelli che abitano in città come quelli che abitano in campagna si radunano nello<br />

stesso luogo‖ 177 , e agli inizi del IV sec. ad Abitinia, in Africa, il cristiano Emerito,<br />

interrogato dal pretore romano sul motivo delle riunioni in casa sua nonostante la<br />

proibizione dell‘imperatore, risponde: ―Perché sono miei fratelli e non potevo<br />

proibirglielo; non potevo perché non possiamo vivere senza eucaristia domenicale (sine<br />

dominico)‖.<br />

Le motivazioni, d‘ordine teologico, sono esplicitate da questo testo della Didascalia<br />

degli Apostoli (metà del III sec. in Siria), che ricorda al vescovo di ammonire gli assenti:<br />

―Quando ammaestri, comanda e persuadi il popolo di essere fedele alla riunione ecclesiale.<br />

Non vi manchi, ma sia fedele a riunirsi affinché nessuno diminuisca la chiesa con la sua<br />

assenza né separi un membro di Cristo. Poiché voi siete membra di Cristo, non<br />

disperdetevi fuori della chiesa non partecipando all‘assemblea. Avendo Cristo come capo,<br />

presente e comunicante con voi stessi, non alienate il Salvatore dalle sue membra, non<br />

lacerate né disperdete il suo corpo né anteponete alla parola di Dio le necessità temporali<br />

della vostra vita, ma nel giorno domenicale, abbandonando tutto, accorrete<br />

all‘assemblea‖ 178 .<br />

La prima prescrizione legislativa, con sanzioni, è contenuta nel can. 21 del concilio<br />

di Elvira (inizio IV sec.): ―Se qualcuno abitante in città non va all‘assemblea liturgica per<br />

tre domeniche di seguito, sia escluso per un certo tempo finché appaia di essere pentito‖.<br />

Nei secoli successivi, specialmente nel VI sec., numerosi concili locali prescrivono di<br />

assistere alla messa intera e di astenersi dai lavori materiali, comminando pene corporali e<br />

pecuniarie. Queste saranno precisate anche da disposizioni civili, particolarmente dai<br />

capitolari carolingi. In tutta questa letteratura ecclesiastica si va disgregando la concezione<br />

vigente nei primi secoli e ad una concezione ecclesiale e teologale subentra una visione<br />

individuale e legalistica. L‘obbligo riguarda la presenza alla messa in parrocchia, ma la<br />

partecipazione si riduce alla presenza fisica e l‘assemblea scompare per dare importanza al<br />

luogo; inoltre la motivazione è sempre più legata al terzo comandamento.<br />

Per un decisivo mutamento si deve attendere il Vat. II che in SC 106 motiva la<br />

riunione domenicale e ne specifica i contenuti. Il nuovo CIC riporta la motivazione<br />

conciliare nel can. 1246, e nei cann. 1247-1248 richiama la norma tradizionale: ―La<br />

domenica e le altre feste di precetto i fedeli sono tenuti all‘obbligo di partecipare alla<br />

messa; si astengano, inoltre, da quei lavori e quegli affari che impediscono di rendere culto<br />

a Dio e turbano la letizia propria del giorno del Signore o il dovuto riposo della mente e del<br />

corpo‖. E il Catechismo della Chiesa Cattolica riafferma: ―Coloro che deliberatamente non<br />

ottemperano a questo obbligo commettono un peccato grave‖ 179 . Si tratta di una disciplina<br />

che deriva dal discepolato; si radica perciò su di un giorno che, prima che una istituzione<br />

ecclesiale, è dono del Padre e di Cristo e tende a una pienezza di realizzazione non<br />

limitabile alla sola messa, ma che esige testimonianza e impegno per essere pienamente<br />

attuato.<br />

Rispetto al precedente, in Codice del 1983 ha il merito di recepire due espressioni<br />

conciliari: «partecipare alla messa» invece di «ascoltare la messa»; l‘esortazione ad<br />

astenersi dai lavori che «impediscono di rendere culto a Dio e turbano la letizia...» invece<br />

di «ci si deve astenere dalle opere servili». Quindi se ―il precetto domenicale-festivo per sé<br />

176 Didachè, 14,1-2.<br />

177 GIUSTINO, Apologia, 1, 67.<br />

178 Didascalia degli apostoli, II, 59, 1-3.<br />

179 CCC, 2181.


108<br />

non impone altro obbligo che la partecipazione alla messa, un obbligo sulla cui gravità,<br />

anche se non specificata, non pare esistano dubbi‖ 180 , la partecipazione è tutt‘altro che<br />

semplice presenza fisica nel luogo dove viene celebrata la messa: contempla l‘inserimento<br />

nell‘assemblea, l‘ascolto della parola di Dio, un‘esperienza personale di preghiera, la<br />

presenza spirituale all‘eucaristia possibilmente con la comunione sacramentale. ―E‘ il<br />

Padre che imbandisce una mensa e invita i suoi figli: i fedeli sono tenuti all‘obbligo di<br />

parteciparvi. Disprezzare l‘invito è grave colpa; declinano per seri motivi, è causa di<br />

rammarico; prendervi parte stancamente significa privarsi dell‘abbondanza dei suoi<br />

doni‖ 181 . Il precetto, perciò, ricorda e getta luce su tutti gli elementi che caratterizzano la<br />

partecipazione attiva e fruttuosa alla celebrazione eucaristica nei giorni di festa, indicando<br />

sulla strada dell‘obbligo, quella della necessità di celebrare il giorno del Signore<br />

Il riposo domenicale è messo in stretta relazione al significato e alle esigenze del<br />

giorno del Signore. L‘astensione dal lavoro si estende a quelle attività che impediscono il<br />

culto a Dio e fanno dimenticare il clima di festa proprio della domenica. Quindi il riposo è<br />

finalizzato a rendere possibile la partecipazione all‘assemblea domenicale e a promuovere<br />

quelle attività che esprimono la gioia di essere redenti, liberi e solidali. Il riposo festivo<br />

quindi, anche nel CIC, non è presentato come obbligo giuridico-morale bensì come<br />

conseguenza della festa e della gioia e perciò come obiettivo da perseguire. Pertanto<br />

attività ricreative e sportive assorbenti e stressanti, al punto da impedire la partecipazione<br />

all‘assemblea eucaristica, sono difficilmente conciliabili con il carattere festivo della<br />

domenica.<br />

Il riposo festivo, ma soprattutto la celebrazione eucaristica, dilatano la domenica<br />

verso quelle attenzioni della carità che sono la visita agli ammalati e ogni proposta di<br />

solidarietà e fraternità, come la cura delle relazioni familiari, che rendono pienamente<br />

festivo il giorno del Signore, e danno ragione della necessità del precetto. ―Dalla pietà<br />

cristiana la domenica è tradizionalmente consacrata alle opere di bene e agli umili servizi<br />

di cui necessitano i malati, gli infermi, gli anziani. I cristiani santificheranno la domenica<br />

anche dando alla loro famiglia e ai loro parenti il tempo e le attenzioni che difficilmente si<br />

possono loro accordare negli altri giorni della settimana. La domenica è un tempo propizio<br />

per la riflessione, il silenzio, lo studio e la meditazione, che favoriscono la crescita della<br />

vita interiore e cristiana‖ 182 .<br />

L‘obbligo di coscienza di partecipare all‘eucaristia, come esigenza interiore dei<br />

cristiani, nel giorno del Signore e della Chiesa, obbliga a ciò che l‘eucaristia significa a<br />

motivo del suo essere sacramento della carità di Cristo, in cui si rinnova l‘alleanza nel suo<br />

sangue. ―La partecipazione alla celebrazione comunitaria dell'Eucaristia domenicale è una<br />

testimonianza di appartenenza e di fedeltà a Cristo e alla sua Chiesa‖ 183 . L‘obbligo verso<br />

ciò che non può mancare, si allarga a ciò che la celebrazione dona ed esige. ―L'Eucaristia è<br />

evento e progetto di fraternità. Dalla Messa domenicale parte un'onda di carità, destinata ad<br />

espandersi in tutta la vita dei fedeli, iniziando ad animare il modo stesso di vivere il resto<br />

della domenica‖ 184 .<br />

180 R. FALSINI, Il precetto domenicale, in Corso di teologia morale V, Brescia 1986, 337.<br />

181 CEI, Nota pastorale. Il giorno del Signore (15.07.1984), 25, in E/CEI 3, 1959.<br />

182 CCC, 2186.<br />

183 CCC, 2182.<br />

184 GIOVANNI PAOLO II, Dies Domini, 72.


Conclusione<br />

109<br />

―Altissimo glorioso Dio<br />

Illumina le tenebre de lo core mio.<br />

Et dame fede dricta,<br />

speranza certa et carità perfecta,<br />

senno e cognoscemento,<br />

Signore,<br />

che faccia lo tuo santo e verace comandamento. Amen‖ 185 .<br />

BIBLIOGRAFIA<br />

CODA P., L’agape come grazia e libertà, Città Nuova, Roma 1994<br />

COZZOLI M., Etica teologale. Fede carità Speranza, San Paolo, Cinisello<br />

Balsamo(MI) 199<br />

COZZOLI M., Per una Teologia morale delle Virtù e della Vita buona, Lateran<br />

University Press, Roma 2002<br />

FISICHELLA R. La fede come risposta di senso, Paoline, Milano 2005<br />

FRATTALLONE R. Religione, fede, speranza e carità virtù del cristiano, LAS,<br />

Roma 2003<br />

FORTE B., L’eternità nel tempo. Saggio di antropologia ed etica sacramentale,<br />

San Paolo, Cinisello B.(Milano) 1993,<br />

J. PIEPER J., Sull’amore, Morcelliana, Brescia 1974<br />

RATZINGER J., Guardare Cristo. Esercizi di fede, speranza e carità, Jaca<br />

Book, Milano 1989<br />

SCHLIER H., Per la vita cristiana: fede, speranza, carità, Paideia, brescia<br />

1975<br />

VITALI D., Esistenza cristiana. Fede, speranza e carità, Queriniana, Brescia<br />

2001<br />

VON BALTHASAR H.U., Solo l’amore è credibile, Borla, Roma 1982<br />

185 S. FRANCESCO D‘ASSISI, Preghiera davanti al Crocifisso, in Fonti francescane, Messaggero,<br />

Padova 1987, 143.


110<br />

INDICE<br />

INTRODUZIONE 2<br />

CAPITOLO I 3<br />

RELIGIONE E MORALE 3<br />

1. UNA VISIONE ETICAMENTE RIDUTTIVA DEL FATTO RELIGIOSO: LA RELIGIONE<br />

CIVILE 3<br />

2. LA DERIVA MORALE DELLA RELIGIONE: ETICA RELIGIOSA COME AUTOSALVEZZA 4<br />

3. L’IDENTIFICAZIONE RELIGIOSA DELLA MORALE 5<br />

4. LA SEPARAZIONE FRA RELIGIONE E MORALE 5<br />

4. LA VITA MORALE COME VISSUTO RELIGIOSO. 6<br />

CAPITOLO II<br />

L’ESISTENZA CRISTIANA COME VITA TEOLOGALE<br />

DI FEDE-SPERANZA-CARITÀ 7<br />

1. LA VITA CRISTIANA COME VITA TEOLOGALE. 7<br />

1.1. LA VOCAZIONE DELL’UOMO ALLA VITA TEOLOGALE 8<br />

1.2. LA VITA NUOVA IN CRISTO 8<br />

1.3. VITA TRINITARIA 11<br />

2. FEDE, SPERANZA, CARITA’: VIRTU’ TEOLOGALI DELLA VITA IN CRISTO 12<br />

2.1. LA TESTIMONIANZA DELLA SCRITTURA:<br />

FEDE-SPERANZA-CARITÀ NEL NUOVO TESTAMENTO 13<br />

2.2. LE VIRTÙ TEOLOGALI DELLA VITA IN CRISTO: IL FONDAMENTO CRISTOCENTRICO<br />

DELLE VIRTÙ TEOLOGALI 15


111<br />

2.3. LA DIMENSIONE ECCLESIALE E SACRAMENTALE DELLE VIRTÙ TEOLOGALI 19<br />

2.4. LA QUALITÀ DI VIRTÙ TEOLOGALI DI FEDE-SPERANZA-CARITÀ (DIMENSIONE<br />

ANTROPOLOGICA) 21<br />

CAPITOLO III<br />

ETICA TEOLOGALE DELLA FEDE 25<br />

1. LA LIBERTÀ PER LA FEDE 25<br />

1.1. DAL COGITO AL CREDO: CONOSCERE NELLA FIDUCIA E NELLA COMUNIONE 25<br />

1.2. LA QUESTIONE DEL SENSO COME «LUOGO» DELLA FEDE 27<br />

1.3. LA CONVERSIONE: DAGLI IDOLI AL DIO VIVENTE 28<br />

2. IL DONO DELLA FEDE TEOLOGALE (VALORE OGGETTIVO DELLA VIRTÙ) 29<br />

2.1. IL DIALOGO TEOLOGALE DELLA FEDE 29<br />

2.1.1. LA FEDE SECONDO LA RIVELAZIONE BIBLICA 29<br />

2.1.1.1. LA FEDE NELL’ANTICO TESTAMENTO 29<br />

2.1.1.2. LA FEDE NEL NUOVO TESTAMENTO 31<br />

2.1.2. LA TEOLOGIA DELLA FEDE 34<br />

2.2. IL DONO DELLA FEDE NELLA FILIAZIONE 39<br />

3. LA FEDELTÀ ALLA FEDE TEOLOGALE 40<br />

3.1. UN’ETICA DELL’OBBEDIENZA ALLA FEDE 41<br />

3.1.1. IL DUBBIO DI FEDE 41<br />

3.1.2. L’INCREDULITÀ 42<br />

3.1.3. L’IMPEGNO NELL’ASCOLTO DELLA PAROLA 43<br />

3.2. UN’ETICA DELLA FEDELTÀ ALLA FEDE. 43<br />

3.2.1. LA SUPERSTIZIONE 44<br />

3.2.2. L’IDOLATRIA 45<br />

3.2.3. LA MAGIA E LA DIVINIZZAZIONE. 46<br />

3.2.3.1. LA MAGIA E LE SUE FORME 46<br />

3.2.3.2. DIVINAZIONE E SPIRITISMO 48<br />

3.2.3.3. GIUDIZIO ETICO SU MAGIA E DIVINAZIONE 48<br />

3.3. UN’ETICA DELLA TESTIMONIANZA DELLA FEDE. 50<br />

3.3.1. PROFESSARE LA FEDE: FEDE E LITURGIA 50<br />

3.3.2. CONFESSARE LA FEDE: L’ANNUNCIO E IL MARTIRIO 51<br />

3.3.3. FEDE E MORALE 52<br />

CAPITOLO IV


112<br />

ETICA TEOLOGALE DELLA SPERANZA 54<br />

1. LA LIBERTÀ PER LA SPERANZA E LA VOCAZIONE ALLA SPERANZA 54<br />

1.1. LA PERSONA E I SUOI DESIDERI 54<br />

1.2. LE SPERANZE DELL’UOMO 55<br />

2. IL DONO DELLA SPERANZA TEOLOGALE 57<br />

2.1. LA SPERANZA DI GESÙ 57<br />

2.2. CRISTO NOSTRA SPERANZA 58<br />

2.2.1. IL FONDAMENTO DELLA SPERANZA 58<br />

2.2.2. IL MOTIVO E LA FORZA DELLA SPERANZA 60<br />

2.3. LA VIRTÙ TEOLOGALE DELLA SPERANZA 62<br />

3. LA FEDELTÀ ALLA SPERANZA TEOLOGALE 66<br />

3. 1. SPERANZA E RESPONSABILITÀ 66<br />

3.1.1. SPERANZA E PURIFICAZIONE 66<br />

3.1.2. SPERANZA E IMPEGNO PER TUTTO L’UOMO 67<br />

3.1.3. LA SPERANZA COME RISERVA ESCATOLOGICA 69<br />

3.1.4. SPERANZA E CARITÀ 70<br />

3.2. I PECCATI CONTRO LA SPERANZA 70<br />

3.2.1. DISPERAZIONE 70<br />

3.2.2. SCORAGGIAMENTO 71<br />

3.2.3. PRESUNZIONE 71<br />

CAPITOLO V<br />

ETICA TEOLOGALE DELLA CARITA’ 73<br />

1. LA LIBERTÀ PER LA CARITÀ: LA VOCAZIONE DELL’UOMO ALL’AMORE 74<br />

2. IL DONO DELLA CARITÀ TEOLOGALE 77<br />

2.1. LA RIVELAZIONE DELLA CARITÀ: IL MISTERO PASQUALE 77<br />

2.2. LA SORGENTE DELLA CARITÀ: DIO È CARITÀ 78<br />

2.3. IL DONO SACRAMENTALE DELLA CARITÀ 80<br />

2.4. LA VIRTÙ DELLA CARITÀ 82<br />

3. LA FEDELTÀ ALLA CARITÀ 83


113<br />

3.1. IL DINAMISMO TRINITARIO DELLA VIRTÙ DI CARITÀ 84<br />

3.1.1. LA CARITÀ È ACCOGLIENZA 84<br />

3.1.2. LA CARITÀ È DONAZIONE 87<br />

3.1.3. LA CARITÀ È COMUNIONE 88<br />

3.2. IL COMANDAMENTO DELLA CARITÀ: UNA SOLA CARITÀ 88<br />

3.2.1. “AMERAI IL SIGNORE DIO TUO CON TUTTO IL CUORE” 89<br />

3.2.2. “IL SECONDO È SIMILE AL PRIMO: AMERAI IL PROSSIMO TUO COME TE STESSO” 90<br />

3.3. IL COMANDAMENTO NUOVO: AMORE «COME» E «PERCHÉ» CRISTO 93<br />

3.3.1. LA CARITÀ ESEMPLARE DI CRISTO 94<br />

3.3.2. LA CARITÀ MOTIVANTE DI CRISTO 95<br />

3.4. EROS E AGAPE NELLA CARITÀ 96<br />

CAPITOLO VI<br />

VITA TEOLOGALE E VIRTU’ DI RELIGIONE:<br />

VERSO LA PIENEZZA DELLA VITA IN CRISTO 99<br />

1. VITA TEOLOGALE E PREGHIERA 99<br />

1.1. VIRTÙ TEOLOGALI E PREGHIERA 100<br />

1.2. PREGHIERA E VITA MORALE 101<br />

2. VITA TEOLOGALE E SACRAMENTI 102<br />

2.1. DAL DOVERE ALLA NECESSITÀ DI CELEBRARE I SACRAMENTI 102<br />

2.2. “RICORDATI DI SANTIFICARE LE FESTE” 104<br />

2.2.1. DAL SABATO EBRAICO ALLA DOMENICA CRISTIANA 104<br />

2.2.2. IL PRECETTO DOMENICALE 106<br />

CONCLUSIONE 109<br />

BIBLIOGRAFIA 109

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