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Mie care nipoti ... - Cambiailmondo

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Antonio Ciancio<br />

<strong>Mie</strong> <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong> ...


© 2007 edizioni Noubs<br />

via Ovidio, 25 - 66100 - Chieti<br />

tel/fax 0871 348890<br />

www.noubs.it - info@noubs.it<br />

Finito di stampare nel mese di ottobre 2007<br />

grafica.arterialab.com<br />

Stampa: Brandolini, Chieti Scalo<br />

Con il contributo di


A Valentina Benedetta Elisa Martina<br />

Il giorno dopo sarà come lo vorremo noi...<br />

(da un compito di Valentina in seconda elementare)


Antonio Ciancio<br />

MIE CARE<br />

NIPOTI...


PROlOgO<br />

Un giorno mia nipote, Valentina, che allora aveva poco più di sei anni, mentre la<br />

riportavo con la macchina da scuola a casa, mi chiese: Nonno, ma tu prima che lavoro<br />

facevi?, intendendo con prima il tempo che lei non era ancora nata.<br />

Lì per lì rimasi un po’ stupito della domanda, anche se a quella età è naturale la voglia<br />

di sapere; poi allo stupore subentrò l’imbarazzo.<br />

Ve l’immaginate rispondere a una bambina di quella età: Il nonno faceva il funzionario<br />

di partito e il dirigente politico; o addirittura: Il nonno era un rivoluzionario di<br />

professione, secondo la definizione che diede Lenin di chi, comunista, dell’impegno<br />

politico permanente a servizio del partito faceva una scelta di vita (definizione celebre<br />

anche questa, ma di Giorgio Amendola).<br />

Dare a chicchessia oggi una risposta del genere, se non è un po’ in là con gli anni e<br />

non ha una certa conoscenza della storia delle forze politiche del ‘900, significa parlare<br />

arabo; figuratevi a una bambina!<br />

Così non risposi; le dissi semplicemente: Quando sarai più grande, il nonno te lo<br />

spiegherà.<br />

Oggi, scrivendo ogni volta che me ne verrà la voglia queste pagine e se Valentina un<br />

giorno, fatta grande (e con lei anche Benedetta, Elisa e Martina, la più piccola, che<br />

prima o poi faranno la stessa domanda), le leggerà, spero di dare attraverso di esse la<br />

risposta che lei attende ancora.<br />

D’altra parte, cara Valentina, anche il tuo papà e lo zio Stefano, che rivolsero alla nonna,<br />

più o meno alla tua stessa età, la stessa domanda, si lamentavano che a scuola non<br />

riuscivano a spiegare bene il mestiere che faceva il loro padre, perché non l’avevano<br />

capito bene neanche loro, e solo quando diventarono più grandi ebbero chiara la<br />

risposta.<br />

Già spiegare che uno ha come lavoro quello di fare politica a tempo pieno era difficile<br />

allora, figuriamoci oggi; se poi si tratta di politica a tempo pieno fatta con il PCI, la cosa<br />

risultava allora e a maggior ragione risulta oggi ancora più complicata da far capire.<br />

E pensare che Tucidide, il grande storico greco del V secolo a.C., già scriveva quasi<br />

2500 anni fa: “Da noi, le medesime persone si curano nello stesso tempo e dei loro<br />

interessi privati e delle questioni pubbliche: gli altri poi che si dedicano ad attività<br />

particolari, sono perfetti conoscitori dei problemi politici; poiché il cittadino che di essi<br />

assolutamente non si curi, (noi ateniesi) siamo i soli a considerarlo non già un uomo<br />

pacifico, ma addirittura un inutile” !<br />

Il ‘900 è stato il secolo delle grandi utopie, in nome delle quali milioni di uomini hanno<br />

combattuto e in tanti sono morti; e la loro storia si è intrecciata con guasti immensi ma<br />

anche con progressi sul terreno economico e sociale mai visti prima, e non più solo<br />

per pochi come è stato per millenni, ma per masse sempre più grandi di uomini e di<br />

donne.<br />

Tra queste grandi utopie, vi è stato il comunismo.<br />

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Non è certo questo il luogo per ripercorrerne la lunga e tormentata vicenda, ma liquidare<br />

la storia del comunismo a livello mondiale come una storia di orrori (come si fa da<br />

destra, ma anche da settori liberali e di una certa sinistra) non solo è fuori di ogni realtà<br />

storica, ma significa anche ignorare, contro ogni evidenza, la enorme spinta che dal<br />

movimento comunista è venuta per l’avvio di un processo concreto di liberazione di<br />

ceti sociali subalterni e di intere società, della quale sono stati parte essenziale e, per<br />

certi aspetti decisiva, la Rivoluzione d’Ottobre del 1917 e la instaurazione di un potere<br />

operaio in Russia, comunque se ne giudichino poi gli sviluppi successivi e gli esiti.<br />

Né ha senso l’equazione che tanti oggi fanno, che, anzi, è stata in determinati periodi del<br />

secolo appena trascorso ripetuta fino alla sazietà: comunismo uguale fascismo!<br />

Proprio no, il fascismo e, con esso, il nazismo, oltre a essere stati gli iniziatori consapevoli<br />

della seconda guerra mondiale, la più distruttiva e la più crudele che l’umanità ricordi,<br />

sono stati una ideologia profondamente reazionaria i cui obiettivi fondamentali erano<br />

la negazione stessa della civiltà europea così come essa si era formata nei secoli e la<br />

repressione portata fino all’estremo di ogni aspirazione di uguaglianza e di liberazione<br />

dei popoli e degli individui.<br />

Questo non toglie nulla naturalmente agli errori, alle infamie e anche agli orrori che in<br />

nome del comunismo sono stati commessi, specie nelle società di socialismo realizzato,<br />

ma ridurre a questo un processo storico così complesso e di quella portata è sicuramente<br />

fuori di ogni logica.<br />

Tanto più che il comunismo non è stato uno solo.<br />

Vi sono stati tanti comunismi, e ognuno con storie e risultati diversi.<br />

Il comunismo che io ho conosciuto e che è diventato la mia ragione di vita, con una<br />

militanza piena lunga quasi cinquanta anni, e cioè quello italiano, ha anch’esso le sue<br />

pagine opache, ma non si trascina dietro né orrori né infamie; al contrario, può vantare di<br />

aver dato un contributo decisivo alla sconfitta del fascismo e del nazismo, alla conquista<br />

e alla salvaguardia della democrazia nel nostro paese e alla crescita di una società più<br />

giusta e più moderna, con più diritti per tutti sia sul piano economico e sociale che sul<br />

piano civile.<br />

Qualcuno però, a questo punto, mi dirà: Ma che c’entra tutto questo con la risposta che<br />

devi a Valentina (e anche a Benedetta, Elisa e Martina)?<br />

C’entra, eccome!<br />

Innanzitutto perché è bene, mie <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>, che voi sappiate per che cosa ho combattuto<br />

nella mia vita.<br />

Poi, c’è un legame diretto tra questa storia e la vita del nonno e la scelta che ho fatto, un<br />

giorno molto lontano della mia giovinezza, di lavorare a tempo pieno per organizzare<br />

e far funzionare lo strumento, e cioè il partito, che la mia utopia, che è stata non a caso<br />

anche l’utopia e la scelta politica ed elettorale di milioni di italiani, si era data per<br />

suscitare e far vincere movimenti sociali e politici diretti a cambiare lo Stato e la società<br />

e a renderli più giusti e più liberi per tutti.<br />

Questo è stato, cara Valentina e <strong>care</strong> Benedetta, Elisa e Martina, il mio lavoro prima che<br />

voi nasceste e che ha coinvolto nelle sue scelte, nei suoi ritmi, nelle sue esigenze, nelle<br />

sue rinunce, nei suoi sacrifici, nei suoi successi e nelle sue sconfitte non solo il nonno<br />

ma anche la nonna e i vostri stessi papà.<br />

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Oggi, forse, i vostri genitori non lo ricordano più, ma quante volte non hanno potuto<br />

avere quello che avevano gli altri bambini della loro età, perché i soldi erano sempre<br />

pochi, anche se tutto sommato io credo che la loro infanzia e la loro adolescenza siano<br />

state felici e serene e non sia mai mancato loro, non il superfluo, ma il giusto e il<br />

necessario! E quante volte sono andati in giro, fino a ora tarda, con il loro papà e la loro<br />

mamma per i paesini della provincia di Chieti o anche a Roma, e quante volte, mentre<br />

partecipavano a una riunione o a una manifestazione perché nessuno li poteva guardare<br />

a casa, cascavano dal sonno!<br />

E’ costata anche a loro, dunque, la mia scelta di vita. Ma parliamoci chiaro, la esperienza<br />

che in questo modo essi hanno compiuto è servita a dar loro anche una maggiore<br />

intelligenza della vita, una capacità critica che sicuramente non avrebbero avuta nella<br />

stessa misura se fossero vissuti nella bambagia e, soprattutto, la fermezza delle loro idee<br />

e un senso della dignità affidato, non alla roba, ma alla intelligenza.<br />

I ricordi che seguono raccontano un po’ a ruota libera, senza un ordine né cronologico<br />

né di altro tipo, momenti di questa mia attività, con lunghe scorribande anche in periodi<br />

e fatti della mia vita che hanno poco a che fare con la politica; e sono destinati a voi,<br />

alle mie bellissime <strong>nipoti</strong>: come dice Virgilio, il più grande poeta latino, insere, Daphni,<br />

piros; carpent tua poma nepotes: inserta, o Dafni, i peri; i <strong>nipoti</strong> coglieranno i tuoi<br />

frutti!<br />

Oggi, all’età di poco più di settanta anni, posso dire di essere nella condizione di chi, per<br />

ripetere l’espressione dantesca, è uscito fuor del pelago alla riva, e può guardare quindi<br />

con un certo distacco dentro la fitta trama dei ricordi accumulatisi negli anni; e riandare<br />

con l’occhio della mente non tanto all’acqua perigliosa, che ormai è dietro le spalle,<br />

quanto a quel ricco e complesso intreccio di avvenimenti, anche tragici, che hanno<br />

segnato la seconda metà del secolo scorso e alle aspirazioni, agli ideali, alle ambizioni,<br />

alle scelte che -dentro quegli avvenimenti- io ho coltivato e compiuto.<br />

Si dice che la storia è magistra vitae, in generale non è vero perché, a cercarlo con il<br />

lanternino, non esiste un animale più ripetitivo dell’uomo, soprattutto nel commettere<br />

sempre gli stessi errori, ma vai a vedere che a volte la memoria di ciò che è stato riesce<br />

a insegnare qualcosa a chi viene dopo.<br />

In ogni modo, il racconto degli avvenimenti che mi hanno visto partecipe o protagonista<br />

può certamente aiutare Valentina, Benedetta, Elisa e Martina a conoscere meglio il loro<br />

nonno e il mondo in cui è vissuto e ha combattuto per le sue idee, ma può forse anche<br />

dar loro una mano per cer<strong>care</strong> e trovare ognuna la propria strada e per contribuire così,<br />

anch’esse, al progresso del mondo, avendo un occhio a quella che è stata la vita del<br />

nonno.<br />

Ma è ora di chiudere questa ormai già lunga premessa; e, se le mie pazienti <strong>nipoti</strong><br />

me lo consentono, vorrei farlo con un’ultima citazione dantesca, tratta dal X canto del<br />

Paradiso, il canto dell’ascesa del poeta al cielo del Sole:<br />

Messo t’ho innanzi: omai per te ti ciba.<br />

In altre parole, mie <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>ne, il mondo, se si vuole, può essere letto, decifrato e<br />

9


compreso, almeno nei suoi aspetti essenziali; si può anche, avendone davvero la voglia,<br />

trarre qualche piccolo insegnamento da ciò che hanno fatto gli altri prima di noi e<br />

cibarsene; e tutto questo aiuta a volte a inoltrarsi con più sicurezza sulle strade del<br />

proprio futuro.<br />

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CAPITOlO I<br />

Alla fine degli anni ’30, alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia, io avevo poco più<br />

di cinque anni.<br />

Vivevamo allora in campagna, quasi a mezza strada tra Orsogna e Poggiofiorito, in un<br />

bel casolare a due piani che distava solo poche decine di metri dalla statale Marrucina<br />

che porta verso Ortona: ricordo che avevamo a disposizione tutto il piano terra mentre il<br />

piano superiore, dove erano le camere da letto, veniva in parte utilizzato, per le vacanze<br />

estive, dai proprietari che risiedevano a Lanciano.<br />

Non era da molto che ci eravamo trasferiti, da Orsogna, nella nuova residenza. Solo<br />

da qualche mese, infatti, mio padre aveva preso a mezzadria quel podere, con annessa<br />

masseria, non avendo terreno suo da lavorare.<br />

Mio padre proveniva da una famiglia di braccianti, era nullatenente e spesso, in<br />

gioventù, si era dovuto re<strong>care</strong> in Puglia, nella zona della Capitanata, nella grande piana<br />

del Tavoliere, per la mietitura del grano assieme a tanti altri giovani di Orsogna.<br />

Mia madre invece apparteneva a una famiglia che possedeva un po’ di terra, cosa che<br />

consentì alla famiglia stessa di sopravvivere alla tragedia che si era abbattuta su di essa<br />

con la morte, a causa della guerra del ’15-’18, del mio nonno materno (dato ufficialmente<br />

per disperso) e a mia nonna di crescere da sola ben quattro figli.<br />

Così essa, quando si sposò con mio padre (si sposarono nel 1932, mia madre aveva poco<br />

più di diciannove anni e ventiquattro mio padre, ma cominciarono a vivere insieme<br />

solo nel 1933), poté portare in dote un po’ di quella terra, forse poco più di un ettaro,<br />

ma si trattava di due appezzamenti distinti e situati in contrade assai distanti tra loro e<br />

quindi disagevoli da lavorare. Del tutto insufficienti comunque a sfamare la famiglia<br />

che intanto si arricchiva rapidamente di due figli: io nacqui infatti subito dopo la loro<br />

unione, il 23 dicembre del 1934, e la mia prima sorella appena l’anno dopo, gli altri<br />

tre figli invece arrivarono un po’ più tardi, la mia sorella minore in coincidenza con lo<br />

scoppio della guerra e i miei due fratelli, dei quali il più piccolo morirà a poco più di<br />

venti anni, addirittura dopo la guerra.<br />

Per queste ragioni, la conduzione a mezzadria di terra altrui fu il destino di mio padre,<br />

a cui egli cercò di sottrarsi negli anni ’50 emigrando negli Stati Uniti.<br />

Gli anni ‘50 sono stati, infatti, gli anni della grande migrazione dei miei compaesani<br />

-che potevano utilizzare la qualifica di profughi, avendo Orsogna subìto danni davvero<br />

gravissimi dalla guerra- verso gli Stati Uniti dove proprio in quel periodo si sono formate<br />

grosse comunità di orsognesi.<br />

Ma la sua rimase solo un’aspirazione, perché non arrivò mai dalla parrocchia e dalla<br />

caserma dei carabinieri il parere favorevole alla sua richiesta di espatrio, che all’epoca<br />

era indispensabile per volare verso il nuovo mondo: suo figlio era comunista!<br />

Anche se fino al momento del nostro trasferimento nella nuova abitazione avevo vissuto<br />

in paese dove in qualunque ora del giorno era possibile incontrare altri bambini della<br />

mia età e gio<strong>care</strong> con loro, tuttavia non mi creò problemi la nostra nuova sistemazione:<br />

è vero, vivere in campagna mi costringeva a passare la gran parte del tempo con la<br />

compagnia soltanto di mia sorella (anche perché a Orsogna si tornava solo raramente),<br />

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ma potevo anche correre per i campi, rotolarmi e sbizzarrirmi come volevo in mezzo al<br />

grano e all’erba alta nei mesi di primavera e durante l’estate.<br />

Ricordo, anzi, che spesso d’estate, soprattutto nel primo pomeriggio quando la calura<br />

si faceva più intensa, mi piaceva trascorrere parte del mio tempo a fantasti<strong>care</strong> lungo<br />

disteso in mezzo all’erba fresca che ti avvolgeva tutto e ti sottraeva alla vista degli altri,<br />

all’ombra magari di un albero tra le cui foglie si vedeva tralucere l’azzurro brillante del<br />

cielo; e ancora oggi rivado volentieri con la memoria a questi momenti deliziosi e mi<br />

sembra, come allora, che tutto il corpo sia come percorso da flussi di frescura e immerso<br />

in un lago di piacere quasi sensuale.<br />

Negli immediati dintorni abitava anche qualche altro bambino e quindi ogni tanto<br />

potevo gio<strong>care</strong> con qualcuno di loro, ma questo non accadeva spesso.<br />

Insomma, passavo giorni tranquilli e tutto sommato felici, nonostante che la nostra<br />

vita si svolgesse di fatto in una condizione di isolamento e di solitudine che aveva però<br />

anche i suoi vantaggi: ti abituava, ad esempio, ad apprezzare il silenzio e ad avere un<br />

rapporto diretto e vivo con la natura e le sue più varie manifestazioni, e ad apprezzare<br />

le scoperte che ogni tanto mi accadeva di fare.<br />

Ricordo, ad esempio, ancora oggi, con un misto di timore e piacere, le lunghe ore<br />

trascorse ad osservare lo stuolo numerosissimo di bisce che si erano raccolte e avevano<br />

nidificato attorno a un pozzo non lontano dalla nostra masseria, eleggendo quel posto<br />

a loro sede abituale, evidentemente per la presenza dell’acqua e anche perché il pozzo<br />

non veniva usato, quindi nessuno le disturbava.<br />

Era d’estate, e ciò per me rappresentava uno spettacolo del tutto nuovo e straordinario,<br />

a cui non avevo mai assistito in precedenza e che non mi accadrà più di osservare: mi<br />

impressionò soprattutto il gran numero di bisce che si intrecciavano e si avvoltolavano<br />

l’una all’altra, senza mai fermarsi un istante.<br />

Io le guardavo naturalmente da debita distanza, preso da molta paura ma anche<br />

affascinato.<br />

Di quegli anni ricordo anche alcuni passatempi, con cui riempivo la giornata: ad esempio,<br />

quello di osservare, stando al di qua della siepe che separava la campagna dalla strada,<br />

ciò che accadeva sulla statale, o quello ancora di attraversare la strada e salire sui binari<br />

della ferrovia locale che le correvano a fianco.<br />

Non si vedevano automobili allora da noi, che io ricordi. Ogni tanto però attirava la<br />

mia attenzione il passaggio di un carro agricolo, tirato dai buoi, o di ‘nu trajìne, il<br />

biroccio trainato dal mulo o più spesso da un vecchio ronzino piuttosto malandato,<br />

oppure l’approssimarsi di gruppi di contadini che si recavano al lavoro in campagna o<br />

tornavano in paese, spesso a dorso d’asino.<br />

Il momento migliore era però quando passava il treno, la Sangritana, che dovevo<br />

utilizzare in seguito, durante gli anni del liceo, per raggiungere Lanciano.<br />

Era per noi bambini un vero spettacolo, il passaggio del treno, che avveniva più volte<br />

al giorno. Anche perché qualche volta potevo assistervi dal casello ferroviario che si<br />

trovava a meno di un centinaio di metri dalla mia casa ed era l’abitazione di alcuni<br />

bambini della mia stessa età, con i quali mi ritrovavo a volte a gio<strong>care</strong>: la littorina e i<br />

pochi vagoni che vi erano attaccati ci passavano accanto alla distanza di poco più di un<br />

metro e volendo bastava allungare la mano per toc<strong>care</strong> le ruote del trenino che correvano<br />

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piuttosto lente sui binari ma sferragliando comunque con un rumore assordante...!<br />

Ma sulla statale si potevano osservare anche altri spettacoli, di tutt’altro genere e che<br />

oggi non si potrebbe più, anche se lo si volesse.<br />

Mi capitò, infatti, un giorno di vedere che la strada veniva attraversata velocemente nei<br />

due sensi da un gruppo di faine (almeno credo che di esse si trattasse), dalle quali allora i<br />

pollai dovevano essere difesi con cura se si voleva evitare una strage di galline: con una<br />

furia inusitata, spinte da non so bene che cosa, le faine uscivano da una siepe, infilandosi<br />

in quella che si trovava sul lato opposto della strada, e poi tornavano indietro...<br />

La storia si trascinò così per un po’ di tempo, e fu per me uno spettacolo davvero<br />

insolito ma anche divertente!<br />

Di queste piccole cose era fatta allora la mia vita, come in generale quella dei bambini<br />

della mia età; e, poiché non vi erano sollecitazioni di alcun tipo che spingessero a<br />

chiedere altro, che solo pochi d’altra parte si sarebbero potuti permettere, si trattava<br />

tutto sommato di una vita abbastanza idilliaca, pur con le durezze della campagna e<br />

soprattutto la miseria che a quel tempo colpiva la quasi totalità della popolazione.<br />

Tuttavia, un bel giorno, quella vita fu turbata e rotta da un avvenimento che avrebbe<br />

avuto un seguito assai penoso e pericoloso sia per noi bambini che per i grandi.<br />

Mussolini aveva deciso che l’Italia doveva entrare in guerra a fianco dei tedeschi, per<br />

partecipare alla spartizione del bottino nell’imminenza del trionfo del grande Reich, e<br />

l’aveva comunicato per radio agli italiani, con gli altoparlanti dislocati nelle piazze anche<br />

dei paesini, con il tono solenne di chi annuncia l’approssimarsi di chi sa quale grande<br />

evento destinato a cambiare sicuramente in meglio la vita della gente, pretendendo che<br />

anche mio padre e i poveri diavoli come lui fossero contenti per questo!<br />

Era la fine di giugno del 1940, era una giornata piena di sole e faceva molto caldo e mio<br />

padre, lo ricordo benissimo, quel giorno stava falciando l’erba vicino casa.<br />

Tutto era tranquillo attorno a noi, e io giocavo a pochi metri da lui.<br />

A un certo punto, però, arriva da Orsogna, non molto distante in linea d’aria dal nostro<br />

casolare, lo scampanio a festa delle campane della chiesa maggiore del paese (all’epoca,<br />

a Orsogna, che era un importante centro agricolo, c’erano ben cinque chiese, distrutte<br />

poi per più della metà dalla guerra: la chiesa arcipretale di S. Nicola, la più importante,<br />

e quelle di S. Giovanni Battista, di S. Rocco, del Purgatorio e della Madonna nera del<br />

rifugio, sulle cui rovine sorgerà nel dopoguerra il belvedere che guarda alla Maiella e<br />

da cui si gode un bellissimo panorama).<br />

Era l’annuncio festoso, dato dai fascisti del paese, con la benedizione del vecchio<br />

arciprete e della parrocchia, dello scoppio della guerra che tutti pensavano, a partire dal<br />

duce, sarebbe stata una semplice passeggiata: mai classe dirigente fu più sciocca, così<br />

poco lungimirante e criminale!<br />

Mio padre, che aveva allora poco più di trent’anni, tuttavia non apprezzò e come lui<br />

in generale i contadini delle nostre terre che sapevano bene che sarebbe innanzitutto<br />

toccato a loro partire per la guerra. Come sentì, infatti, il suono a distesa delle campane,<br />

comprese subito che quell’allegro scampanio salutava l’entrata in guerra dell’Italia,<br />

così d’istinto gettò con rabbia lontano da sé la falce e se ne andò via bestemmiando.<br />

Ricordo ancora bene questo suo gesto, e fu proprio esso che mi fece avvertire che<br />

qualcosa di veramente grave era accaduto, anche se non potevo capire di che cosa si<br />

13


trattasse. Lo dovevo capire solo qualche anno dopo, a mie spese e a spese della mia<br />

famiglia e dell’intera popolazione di Orsogna e dei paesi vicini!<br />

Fu così, dunque, che anche la nostra famiglia entrò in guerra, anche se erano altri ad<br />

averla voluta.<br />

Di lì a poco, mio padre fu richiamato alle armi e venne mandato in Sicilia; e assieme a<br />

lui partirono anche i miei zii, due dei quali finirono per loro fortuna prigionieri, l’uno, lo<br />

zio Antonio, degli inglesi e l’altro, lo zio Nicolino, dei tedeschi (gli toccò però una sorte<br />

assai grama e pericolosa durante la prigionia, perché fu tra gli italiani caduti in mano ai<br />

tedeschi dopo l’8 settembre che si rifiutarono di arruolarsi nell’esercito messo in piedi<br />

dalla repubblica di Salò), mentre un altro, lo zio Giuseppe, il fratello più giovane di<br />

mio padre, sempre così allegro e scanzonato (mi ricordo ancora le volte che giocava<br />

con me bambino), sposato da soli pochi mesi, doveva sparire, lasciando un figlio che<br />

non conobbe mai, nelle acque dell’Egeo, di fronte alle coste della Grecia, a seguito<br />

dell’affondamento da parte degli inglesi della nave che trasportava i nostri soldati.<br />

Mia madre, rimasta sola con due figli piccoli e mia sorella minore ancora in fasce, senza<br />

mio padre non era naturalmente in grado di lavorare la campagna; e così dovemmo<br />

lasciare tutto e tornare a Orsogna.<br />

Andammo a stare in una casa situata lungo la strada, allora tutta lastricata di ciottoli, che<br />

porta a quella che gli orsognesi chiamano la fonte vecchia e che io ricordo soprattutto<br />

perché durante l’unico inverno che vi abbiamo abitato, grazie al fatto che la strada era<br />

tutta in forte discesa, noi bambini ci divertimmo un mondo a fare grandi scivolate sulla<br />

poltiglia ghiacciata che ricopriva l’acciottolato. Qualche volta facevamo anche brutte<br />

cadute, ma questo non faceva che accrescere il nostro divertimento!<br />

Con l’arrivo della primavera ci trasferimmo, sempre in affitto, in una nuova abitazione<br />

lontana appena un centinaio di metri dalla vecchia: si trovava dietro la caserma dei<br />

carabinieri, in una zona popolata di bambini, proprio al margine dello strapiombo che<br />

dà sulla angusta valle dell’Arenale e dal quale si scorgeva in lontananza il mare di<br />

Ortona.<br />

Nella nuova casa, la vita scorreva senza particolari problemi. E la nostra giornata era<br />

quella solita: la scuola (frequentavo allora la seconda elementare), i giochi con gli altri<br />

bambini del vicinato, le partite di calcio con la palla di pezza davanti alla caserma dei<br />

carabinieri o le scorribande con i miei amici di allora da una zona all’altra del paese…<br />

Insomma, della guerra che imperversava in tutta l’Europa a noi bambini non arrivava<br />

neppure l‘eco. Gli unici indizi erano l’assenza dei padri e le lettere che ogni tanto<br />

arrivavano dal fronte, ma neanche ciò turbava più di tanto le nostre giornate.<br />

Le cose cominciarono a cambiare qualche anno dopo, all’indomani della caduta del<br />

fascismo nel luglio del ’43 e poi dopo l’8 settembre, quando anche noi bambini ci<br />

trovammo di fronte a fatti e situazioni per noi del tutto nuovi e sconosciuti e che<br />

dovevano in un breve giro di mesi mutare radicalmente la nostra vita.<br />

Ho ancora vive, ad esempio, nella mia mente le immagini di un gruppo di uomini<br />

impegnato con molto entusiasmo e anche un certo furore a togliere dal municipio e da<br />

altri edifici pubblici i simboli del fascismo, buttati poi a terra e fracassati, subito dopo<br />

la caduta di Mussolini.<br />

14


Era, in parte, gente venuta da fuori, altri invece erano di Orsogna: essi reagivano così<br />

alla fine della dittatura e alla disgregazione del fascismo, ma anche alle tante angherie<br />

subìte nel ventennio!<br />

Si trattava probabilmente di socialisti.<br />

A Orsogna, negli anni ‘20, i socialisti erano assai forti; e, anzi, proprio in quel periodo<br />

essi avevano conquistato l’Amministrazione comunale spazzata poi via dopo appena<br />

qualche anno dalle squadracce del fascismo avanzante.<br />

Essi erano molto numerosi anche a Ortona; e forse proprio da Ortona proveniva una<br />

parte di quegli uomini.<br />

In piazza quel giorno c’era un gran fermento, del tutto inusitato per realtà sonnolente<br />

come quelle dei nostri paesi, che richiamò subito anche la curiosità dei bambini; ma in<br />

generale la gente stava a guardare: evidentemente, aveva ancora dei timori per il futuro<br />

o semplicemente non voleva immischiarsi!<br />

Noi bambini assistevamo piuttosto frastornati, anche perché non ci rendevamo affatto<br />

conto di cosa esattamente stesse accadendo e delle ragioni che l’avevano provocato.<br />

Del fascismo infatti non sapevamo nulla, non solo cosa fosse ma neppure che<br />

esistesse.<br />

Cominciammo in realtà a conoscerlo solo allora e meglio dovevamo poi conoscerlo nei<br />

mesi e negli anni immediatamente successivi per le conseguenze che la guerra, voluta<br />

dal fascismo, doveva avere sulle nostre vite. E non è un caso, d’altra parte, che io del<br />

fascismo abbia solo qualche ricordo riferito appunto a fatti accaduti in quel periodo.<br />

Tra questi, ne voglio ricordare un paio, che mi colpirono particolarmente.<br />

Il primo è quello di quando, in occasione di una adunata alla quale partecipavano tutti<br />

gli alunni della scuola elementare, io mi sentii rimproverare dal maestro perché non<br />

avevo la divisa dei figli della lupa che mia madre non avrebbe mai potuto comprarmi!<br />

L’altro ricordo è legato all’arrivo in paese, nell’estate del ’43, prima della caduta del<br />

fascismo, di una colonia di giovani del Littorio, gli avanguardisti, che venne ospitata<br />

presso la scuola elementare.<br />

Saranno stati sicuramente bravi ragazzi, come ha scritto qualche orsognese ricordando<br />

quegli anni, sta di fatto però che io, che avevo ormai intorno agli otto anni, li ricordo<br />

per le scorribande che facevano a gruppi nelle campagne attorno a Orsogna, dove<br />

razziavano non solo frutta di stagione ma anche galline e conigli, con grande rabbia e<br />

anche qualche spavento da parte dei contadini.<br />

Ricordo scorribande del genere anche nel nuovo podere che la mia famiglia aveva,<br />

come al solito, preso a mezzadria: esso si trovava solo a poco più di un chilometro dal<br />

paese, lungo la provinciale che da Orsogna porta a Lanciano, all’altezza di Colle S.<br />

Giacomo, e quindi facilmente raggiungibile dai vari gruppi di avanguardisti.<br />

Mio padre allora era ancora sotto le armi, di stanza in Sicilia; sarebbe tornato solo dopo<br />

l’8 settembre, dopo un viaggio molto avventuroso e pieno di traversie dal Nord, dov’era<br />

finito dopo lo sbarco degli Alleati nell’isola nel luglio del ’43 e la ritirata precipitosa<br />

del nostro esercito. Così, qualche volta mi sono trovato proprio io ad assistere da solo,<br />

impotente, a queste visite di gruppo, mentre mia madre era affaccendata nei campi.<br />

D’altra parte, anche se lei fosse stata presente non sarebbe cambiato nulla, anzi doveva<br />

stare attenta a quel che diceva e faceva perché quei bravi ragazzi non ci avrebbero<br />

15


pensato due volte a usare le mani!<br />

Dopo la caduta del fascismo e i disordini che ne seguirono subito dopo, nei nostri paesi<br />

tutto sembrò tornare nella normalità.<br />

Ma di lì a poco doveva sopraggiungere l’8 settembre che portò novità importanti anche<br />

da noi.<br />

A cominciare dalle notizie che arrivarono naturalmente anche in paese sulla fuga del re e<br />

del governo Badoglio da Roma, per imbarcarsi a Ortona verso Brindisi, e del soggiorno<br />

di poche ore della famiglia reale nel castello di Crecchio, un paesino ad appena qualche<br />

decina di chilometri da Orsogna.<br />

Non era certamente un buon segnale per chi aveva pensato che, con l’8 settembre e<br />

la firma dell’armistizio da parte dell’Italia con gli Alleati, fossimo ormai fuori della<br />

guerra.<br />

In realtà, l’Italia poteva solo cambiare di spalla al fucile, e non altro, come di fatto poi<br />

avvenne quando, il 13 ottobre, il governo Badoglio insediatosi, dopo l’abbandono della<br />

capitale, nel Sud del Paese dichiarò lo stato di guerra nei confronti della Germania!<br />

Con la fuga del re, l’Italia precipitò nel caos, anche perché, dopo la firma dell’armistizio,<br />

nulla era stato predisposto dalle autorità italiane per fronteggiare la prevedibile e<br />

feroce reazione dei tedeschi; e le conseguenze furono terribili: lo sbandamento e lo<br />

scioglimento di fatto del nostro esercito, tanti nostri soldati uccisi o fatti prigionieri<br />

dai tedeschi o abbandonati a se stessi ed esposti a mille pericoli mentre cercavano in<br />

qualche modo di raggiungere le proprie case, l’occupazione rapida dell’Italia da parte<br />

delle truppe germaniche e il loro arrivo anche nei nostri paesi che via via si trovarono<br />

così sempre di più dentro il ciclone della guerra guerreggiata, subendo un gran numero<br />

di vittime civili e distruzioni materiali enormi.<br />

Orsogna fu tra i paesi dell’Abruzzo che più di altri pagò un tale prezzo: distruzione, per<br />

oltre il 90%, delle sue case a causa dei bombardamenti alleati e delle mine tedesche, e<br />

tante donne bambini e uomini vittime della guerra, per non parlare dello sfollamento<br />

totale della popolazione per il periodo che va dal tardo autunno del ’43 all’estate del<br />

‘44, della fame, delle malattie, dei disagi patiti per tanti mesi. L’inverno del ’43-‘44 fu,<br />

tra l’altro, tra i più rigidi che si ricordino, e anche questo ebbe i suoi effetti micidiali<br />

soprattutto sui più deboli.<br />

I tedeschi arrivarono a Orsogna verso la fine di settembre del 1943.<br />

Nella strategia dei tedeschi, Orsogna -come scrivono studiosi della seconda guerra<br />

mondiale- faceva parte di quella che, dopo il ritiro dell’esercito germanico dal Sud,<br />

veniva considerata la linea difensiva principale per bloc<strong>care</strong> l’avanzata degli Alleati<br />

verso il Nord.<br />

Nella relazione presentata al convegno di Atessa dell’aprile 1990 da Gerhard Schreiber<br />

che esamina lo svolgimento della battaglia sul fiume Sangro dal punto di vista della<br />

Wehrmacht e riportata nel volume La guerra sul Sangro – Eserciti e popolazione<br />

in Abruzzo – 1943/1944, a cura di Costantino Felice, si dice: “Il 25 settembre 1943<br />

Kesselring dichiarò che lo schieramento fortificato che si estendeva dalla sponda<br />

occidentale del Garigliano fino ad Ortona, passando per Montecassino, la zona a nord<br />

di Mignano, le alture ad occidente di Colli, Alfedena, Roccaraso, i monti della Maiella<br />

16


e Orsogna, andava considerato come la linea difensiva principale…”.<br />

Orsogna era dunque destinata ad essere uno dei capisaldi di un fronte che attraversava<br />

l’Italia dall’Adriatico al Tirreno e che doveva dimostrarsi inespugnabile fino al giugno<br />

del 1944, quando i soldati italiani della Nembo vi poterono finalmente penetrare dopo<br />

il ritiro dei tedeschi.<br />

Il nuovo esercito italiano, che combatteva contro i nazifascisti, trovò un paese quasi<br />

completamente raso al suolo, con edifici, strade e le campagne circostanti minate con<br />

mine antiuomo e anticarro, e molti carrarmati alleati ridotti in rottami lungo la strada<br />

provinciale Lanciano-Orsogna, a testimonianza dei diversi, inutili tentativi messi in atto<br />

dagli anglo-americani per conquistare Orsogna, rimediando solo grandi perdite di vite<br />

umane e di mezzi.<br />

Ricordo ancora oggi la comparsa dei carrarmati tedeschi nella piazza centrale del paese.<br />

Era una giornata piena di sole; e la piazza era tutta un riverbero di luce accecante.<br />

Ero anch’io in piazza quel giorno, non c’era per la verità molta gente in giro, quando vidi<br />

arrivare dalla parte alta del paese, per la strada che viene dalla stazioncina ferroviaria<br />

della Sangritana, un carrarmato tedesco.<br />

Il carrarmato si fermò nel mezzo della grande piazza, fece qualche giro su se stesso e<br />

poi rifece all’indietro la stessa strada per riunirsi agli altri carri parcheggiati sotto gli<br />

alberi, nel piccolo Parco della rimembranza che si trova all’ingresso del paese, venendo<br />

da Guardiagrele, per nasconderli alla vista degli aerei da ricognizione alleati.<br />

Dopo l’arrivo dei tedeschi, molte cose cambiarono nella vita del paese.<br />

Gli uomini, soprattutto i più giovani, dovevano nascondersi per non farsi prendere dai<br />

soldati del Reich ed essere condotti a lavorare, senza risparmio di fatica e di pericoli, in<br />

zone anche lontane dal paese e magari vicine al fronte, nelle opere di fortificazione della<br />

nuova linea di difesa tedesca.<br />

Anche mio padre, che era da poco ritornato a Orsogna, era costretto a nascondersi.<br />

Proprio per questa ragione, anzi, passava prevalentemente il suo tempo in campagna<br />

da dove tornava solo di rado, restando a dormire nella masseria di terra di Colle S.<br />

Giacomo.<br />

Durante il giorno, naturalmente, oltre a tenersi sempre a buona distanza dalla strada<br />

provinciale, doveva stare costantemente sul chi vive per non farsi scorgere mentre<br />

lavorava nei campi e, quando c’erano in giro i tedeschi, poter correre subito a nascondersi<br />

in qualche fosso, agli estremi lembi della campagna, nella parte più vicina al vallone in<br />

cui scorre il torrente che, provenendo dalla fonte vecchia, si butta nel Moro, per evitare<br />

di farsi catturare.<br />

Se poi il rastrellamento dei tedeschi lo sorprendeva in paese, il suo nascondiglio era nel<br />

sottotetto della casa.<br />

In questi casi, si ficcava dentro un baule vuoto (per sua fortuna, era di corporatura assai<br />

magra!), collocato appunto nel sottotetto, e si copriva di panni, mentre mia madre si<br />

metteva davanti alla porta di casa e mostrava ai tedeschi le lettere spedite da mio padre<br />

dalla Sicilia.<br />

Così, egli riuscì a non farsi mai prendere, tirando avanti nello stesso tempo come meglio<br />

poteva nei lavori della campagna, perché comunque nel frattempo la famiglia doveva<br />

17


mangiare!<br />

Anche i bombardamenti incominciarono a interessare il nostro piccolo e sonnacchioso<br />

paese.<br />

Prima gli aerei ci passavano solo sulla testa, e noi, ormai ragazzini, ci divertivamo a<br />

guardare i cacciabombardieri che volavano in formazione nel cielo di Orsogna diretti,<br />

con il loro terribile fardello di morte, verso luoghi lontani e sconosciuti.<br />

Ma un bel giorno la meta dei bombardamenti alleati fu Orsogna, e così anche il nostro<br />

paese subì il suo primo bombardamento.<br />

Per fortuna, se non ricordo male, quel primo bombardamento fu opera di un solo aereo<br />

(forse un aereo da ricognizione), che però sganciò diverse bombe sul quartiere di S.<br />

Giovanni, probabilmente per colpire le prime opere di fortificazione nemiche, mentre<br />

la contraerea tedesca cercava di reagire. Nulla a che fare quindi con ciò che sarebbe<br />

accaduto nei mesi successivi, quando i bombardamenti non si contavano più e la loro<br />

violenza e intensità divennero davvero indescrivibili! Ma erano i primi colpi inferti<br />

al nostro territorio dalla guerra, e proprio ciò fece impressione e suscitò una forte<br />

preoccupazione tra la gente.<br />

Noi in quel periodo ci eravamo trasferiti in campagna, a Colle S. Giacomo, e dormivamo<br />

nella masseria di terra. Ma non eravamo soli: con noi c’erano anche la zia Giacinta,<br />

sorella di mia madre, e i suoi due figli poco più piccoli di me (mancava naturalmente,<br />

perché prigioniero in Germania, lo zio Nicolino, il marito di mia zia); e così, quel giorno,<br />

io e i miei due cugini potemmo assistere dalla strada provinciale che si trova sul crinale<br />

della collina, non distante dalla masseria, alla caduta delle prime bombe su Orsogna,<br />

uno spettacolo per noi ragazzi davvero nuovo e insolito.<br />

Ricordo che le bombe che vedevamo esplodere sul costone di S. Giovanni non ci fecero<br />

per la verità molta paura, ma una qualche apprensione la suscitarono anche in noi; in<br />

ogni modo esse rappresentavano, al di là della nostra incoscienza, il segnale più vistoso<br />

di un pericolo che per noi si faceva sempre più incombente.<br />

Già agli inizi di ottobre, chi poteva aveva cercato rifugio nelle campagne.<br />

Anche noi l’avevamo fatto, ma la nuova sistemazione non era affatto rassicurante.<br />

Infatti, a ridosso com’essa era della strada provinciale, la masseria di Colle S. Giacomo<br />

rischiava di farci ritrovare da un momento all’altro nel cuore degli scontri ripetuti che,<br />

poi, realmente vi furono tra i tedeschi arroccati a Orsogna e gli alleati provenienti da<br />

Lanciano, senza poter disporre tra l’altro di ripari di alcun genere, in grado di proteggerci<br />

dai bombardamenti e dai furiosi combattimenti che, sul finire del ’43 e poi in primavera<br />

l’anno successivo, si svolsero lungo di essa. E poi: non avevamo messo nel conto che<br />

Colle S. Giacomo era troppo vicino a Orsogna, e la masseria poteva diventare, come di<br />

fatto in seguito avvenne, meta frequente di pattuglie tedesche...<br />

Tentammo anche di scavare una grotta davanti alla masseria, lungo il pendio della<br />

collina. Ma fu fatica vana. Non solo avevamo a che fare con un terreno argilloso, ma<br />

per costruire il nostro rifugio ci volevano ben altro che la zappa e il bidente!<br />

Nella masseria di Colle S. Giacomo restammo così solo qualche settimana: un tempo<br />

sufficiente comunque, oltre che per assistere al primo bombardamento su Orsogna,<br />

anche per sentire arrivare fino a noi, da Lanciano (che, in linea d’aria, dista sì e no<br />

18


una quindicina di chilometri) anche l’eco dei colpi di cannone sparati dai tedeschi per<br />

reprimere nel sangue il generoso ma inutile tentativo di rivolta messo in atto, tra il 5 e<br />

il 6 ottobre del 1943, da parte di un gruppo di giovani lancianesi contro gli occupanti<br />

germanici.<br />

La rivolta di Lanciano fu, dopo le quattro giornate di Napoli, uno dei primi segnali della<br />

profonda ostilità rapidamente maturata tra la gente nei confronti dei tedeschi e delle<br />

loro angherie e sopraffazioni che si trasformò nei mesi successivi, nelle zone dell’Alto<br />

Aventino, in vera e propria lotta partigiana, con la costituzione di bande partigiane che<br />

si riunirono poi nella Brigata Maiella.<br />

A lasciare la zona e a cer<strong>care</strong> altrove una sistemazione più sicura fummo obbligati però<br />

non soltanto dai timori legati all’avvicinarsi del fronte, ma anche e forse soprattutto<br />

dal fatto che, sul finire del mese di ottobre, arrivò l’ordine tassativo dei tedeschi di<br />

sgomberare Orsogna, al massimo entro i primi dieci giorni di novembre.<br />

L’ordine non riguardava solo il nostro paese ma anche tutti i comuni vicini (in tutto,<br />

ben 16) e venne dato, su disposizione del comando tedesco, attraverso un manifesto<br />

pubblico che porta la data del 25 di ottobre del 1943, dal nuovo prefetto di Chieti,<br />

Giuseppe Girgenti.<br />

Era, insomma, lo sfollamento di massa che si aprì come un baratro davanti a noi e alle<br />

popolazioni della zona e fece pagare, non solo agli orsognesi, un prezzo particolarmente<br />

pesante in vite umane.<br />

Così la nostra famiglia, che intanto era ritornata in paese, si trasferì di nuovo in<br />

campagna, questa volta però presso l’abitazione di uno zio, lo zio Camillo, che aveva<br />

sposato una sorella di mio padre, nel territorio di Arielli.<br />

Assieme a noi, c’erano anche la mia nonna paterna (il nonno era morto, abbastanza<br />

giovane, già da alcuni anni) e la zia Linuccia, moglie del fratello di mio padre, lo zio<br />

Giuseppe, morto nei primi mesi di guerra nelle acque della Grecia, mentre gli altri<br />

nostri parenti si erano dispersi in altre direzioni e ci saremmo rincontrati solo dopo la<br />

fine della guerra.<br />

Naturalmente, prima di abbandonare la nostra casa di Orsogna, ci demmo da fare, come<br />

tutti, per murare e nascondere le nostre poche cose, in primo luogo la biancheria, frutto<br />

della dote di mia madre e costata molta fatica e denaro, il poco oro che lei possedeva e<br />

poi piatti e utensili da cucina e altre suppellettili varie: insomma, quel poco che avevamo<br />

e che ci era indispensabile per la nostra vita di tutti i giorni, nella quasi certezza che non<br />

sarebbe passato molto tempo prima del nostro ritorno!<br />

Una operazione analoga fece mio padre nella masseria di Colle S. Giacomo, seppellendo<br />

dentro il pagliaio posto lì accanto la raccolta d’olio di quell’anno.<br />

La cosa funzionò, ma la fortuna ci mise molto di suo. Così, dopo la guerra, nonostante<br />

la nostra casa fosse diventata un fortino e venisse utilizzata dal comando tedesco,<br />

ritrovammo intatto il muro che chiudeva il sottoscala, a difesa dei nostri scarsi ma<br />

preziosi beni; inoltre, nel pieno della guerra, mio padre, affrontando il rischio di essere<br />

preso e fucilato dai tedeschi mentre si recava di notte, passando per le campagne, verso<br />

la masseria di terra, poté recuperare l’olio sepolto nel pagliaio.<br />

Nella nostra nuova sistemazione, la vita, sia pure con i disagi e i problemi legati a una<br />

19


situazione non certo normale, procedette tuttavia in modo abbastanza tranquillo per<br />

quasi tutto il mese di novembre.<br />

Anche perché la casa dello zio si trovava verso l’interno rispetto alla statale per Ortona,<br />

ad alcuni chilometri da essa, lontana quindi dal traffico di truppe e mezzi militari che<br />

vi si svolgeva; e forse fu anche per questo che non avemmo visite dei tedeschi, come<br />

accadde invece ad altri, che ci avrebbero obbligato ad andare verso il nord, meta di<br />

tantissime famiglie di orsognesi: prima a Chieti, ospiti non molto graditi, e poi appunto<br />

verso zone del nord, soprattutto l’Emilia.<br />

I problemi cominciarono a sorgere verso la fine del mese e gli inizi di dicembre. E la<br />

ragione era semplice.<br />

Chi scorra oggi le pagine dei libri di storia che raccontano dei violenti combattimenti<br />

che insanguinarono le nostre contrade durante la battaglia del Sangro e del Moro,<br />

mietendo tantissime vittime civili e militari e provocando distruzioni inaudite, sa infatti<br />

che proprio tra la fine di novembre e i primi giorni di dicembre del ‘43 iniziò l’offensiva<br />

degli alleati contro i tedeschi.<br />

Ma tale offensiva non fu né facile né di breve durata perché la zona interessata<br />

presentava caratteristiche tali da rendere particolarmente difficoltosa l’avanzata degli<br />

attaccanti, mentre offriva vantaggi assai consistenti ai tedeschi che, non a caso, dopo il<br />

ritiro dal Sangro riuscirono a bloc<strong>care</strong> l’avanzata sul Moro perdendo solo Ortona dopo<br />

sanguinosi combattimenti e a resistere a Orsogna fino al giugno successivo.<br />

Churchill, nel suo libro La seconda guerra mondiale, così descrive la posizione tenuta<br />

dai tedeschi sul fronte del Sangro e del Moro: “Le particolarità fisiche di quella regione,<br />

le sue montagne impervie e i suoi torrenti impetuosi rendevano questa posizione, che<br />

aveva una profondità di parecchi chilometri, straordinariamente forte”.<br />

Con una situazione di tal genere, non è difficile immaginare quale fu la scelta degli<br />

alleati per aprire la strada all’avanzata di terra: la intensificazione dell’intervento aereo<br />

e dell’artiglieria pesante sulle zone controllate dai tedeschi, con rischi naturalmente<br />

sempre maggiori per i civili che, come noi, non si erano allontanati dai paesi obbligati<br />

allo sfollamento e ora al centro della battaglia.<br />

Così, mano a mano che passavano i giorni, sempre più vicino e incombente si faceva il<br />

rumore sordo dei cacciabombardieri che si dirigevano verso i paesi vicini, soprattutto<br />

verso Orsogna e Ortona, con il loro enorme carico di bombe, mentre sempre più<br />

percepibile e frequente si faceva il sibilo dei proiettili di cannone sparati dalle artiglierie<br />

alleate sulle linee nemiche e che cadevano non molto distanti dalla zona dove ci eravamo<br />

rifugiati.<br />

Era il fronte che ormai ci minacciava da vicino.<br />

La nostra condizione si faceva dunque sempre più precaria; così un bel giorno, ai primi<br />

di dicembre, dovemmo lasciare anche la casa dello zio e cer<strong>care</strong> un rifugio più adatto<br />

alla nuova drammatica situazione che era in procinto di travolgerci.<br />

Per nostra fortuna, non lontano dalla campagna di mio zio, scavata a una certa altezza<br />

del costone, non molto elevato, che fiancheggia sulla sinistra l’Arielli, un torrentello<br />

insignificante ma che fu al centro di aspri scontri durante l’attacco degli anglo-americani<br />

su Ortona e su Orsogna, si trovava una grotta che divenne la nostra nuova casa fino<br />

al 24 di dicembre, quando potemmo consegnarci nelle mani degli alleati, che in quel<br />

20


punto avevano sfondato il fronte e travolta la resistenza tedesca, e così allontanarci dalla<br />

prima linea, trasferendoci nelle retrovie controllate dai nostri liberatori.<br />

La grotta era molto profonda e ampia, con un soffitto abbastanza alto e sopra,<br />

all’esterno, roccia e terra di uno spessore tale che si dimostrò capace di resistere alla<br />

penetrazione delle bombe che ci caddero sulla testa di lì a qualche settimana in una<br />

quantità incredibile.<br />

Essa inoltre era ripartita in tante nicchie, su tutte e due le pareti, capaci di ospitare<br />

ciascuna una famiglia, e comunicava direttamente dall’interno, attraverso un breve<br />

passaggio, con un’altra piccola grotta, a forma di torre, che aveva, in alto, una presa<br />

d’aria non grande ma molto utile, e fungeva anche da toilette almeno per i più piccoli.<br />

Insomma, una grotta abitabile che si diceva fosse stata attrezzata e utilizzata dai briganti<br />

che imperversarono tra Orsogna e Arielli negli anni immediatamente successivi all’unità<br />

d’Italia.<br />

Il nostro nuovo e inconsueto alloggio era stato naturalmente ripulito e mimetizzato con<br />

cura prima dell’uso: la bocca della grotta era stata quasi totalmente richiusa con terra<br />

e fascine di rami, lasciando appena un pertugio attraverso il quale si poteva passare<br />

solo carponi e che poi veniva a sua volta fatto scomparire dall’interno sempre con<br />

una fascina di rami; e dall’esterno era difficile individuarla, anche perché il maltempo<br />

contribuì rapidamente a cancellare le tracce del lavoro di mimetizzazione e a rendere<br />

omogenea tutta la parete esterna.<br />

Fummo in molti a rifugiarci nella grotta: le famiglie della zona, innanzitutto, più quelle<br />

venute da Orsogna, che avevano trovato ospitalità nella contrada da amici e parenti.<br />

In tutto saremo stati intorno a 60-70 persone (almeno nel mio ricordo: mia sorella<br />

Ida sostiene invece che eravamo una novantina), tra donne bambini (tanti) e adulti.<br />

Ogni famiglia aveva la sua nicchia, naturalmente quelle che avevano bambini piccoli<br />

erano state sistemate nella parte più interna, ad evitare che i loro pianti e i loro lamenti<br />

potessero essere captati dall’esterno e quindi farci scoprire.<br />

Trascorremmo molti giorni nella grotta, più o meno una quindicina, perché, se la<br />

memoria non mi inganna, traslocammo in essa il giorno dell’Immacolata Concezione,<br />

all’indomani cioè del violentissimo bombardamento di artiglieria (furono sparate circa<br />

10.000 granate) che si scatenò il 7 dicembre su Orsogna, intorno a mezzogiorno; e ne<br />

uscimmo la vigilia di Natale.<br />

Dire che nella grotta passammo giorni difficili è usare un eufemismo, anche se noi<br />

bambini non ce ne rendevamo del tutto conto se non per la fame e i bombardamenti<br />

continui, con le bombe che cadevano anche sulle nostre teste, nella parte sovrastante<br />

della grotta.<br />

Mangiare tutti i giorni e in quantità sufficiente era il nostro primo problema, soprattutto<br />

era il problema dei bambini, a partire dai più piccoli che reagivano ai morsi della<br />

fame piangendo in continuazione, nonostante i rimbrotti e le minacce degli adulti e le<br />

sollecitazioni accorate delle madri ai loro figlioletti perché smettessero di piangere.<br />

Per i primi giorni, furono sufficienti le provviste portate da ciascuna famiglia al momento<br />

dell’entrata nella grotta; ma esse non durarono, purtroppo, a lungo! Così fu necessario<br />

che i padri tornassero nelle case a prendere altre provviste, con il rischio o di finire<br />

sotto i bombardamenti o di incappare in qualche pattuglia tedesca. Per fortuna, le cose<br />

21


andarono sempre per il meglio!<br />

Anche mio padre e mio zio si allontanarono varie volte dalla grotta, senza incorrere mai<br />

nei mille pericoli che li aspettavano fuori.<br />

Essi, però, non uscivano solo per procurare il cibo necessario alle nostre famiglie, ma<br />

anche per accudire le pecore che, se ricordo bene, erano nostre e mio padre aveva<br />

portate con sé nella masseria dello zio da Colle S. Giacomo e nascoste, al momento di<br />

rifugiarci nella grotta, nel pagliaio dello zio, dentro una grossa buca scavata nel terreno<br />

e ricoperta di frasche, paglia e fieno per sottrarle alla vista di eventuali visitatori.<br />

Che fine abbiano fatto queste pecore, dopo la nostra uscita dalla grotta, francamente<br />

non lo ricordo né ho mai chiesto notizie ai miei in proposito, sta di fatto comunque che,<br />

avendo anch’esse, come noi, bisogno di mangiare e di bere, mio padre cercò sempre in<br />

quel periodo, nonostante i rischi, di rifornirle ogni tanto di fieno e di acqua!<br />

A quei tempi, anche il possesso di un piccolissimo gregge rappresentava una ricchezza<br />

per la famiglia contadina; e la loro perdita avrebbe significato un colpo molto duro,<br />

perciò una tale attenzione alle nostre poche pecore, in una situazione in cui bisognava<br />

preoccuparsi di ben altro, non deve affatto stupire.<br />

All’epoca, chi poteva, facendo anche grossi sacrifici, con una agricoltura destinata<br />

essenzialmente all’autoconsumo, si preoccupava, per soddisfare necessità elementari<br />

della famiglia, non solo di avere nella stalla qualche pecora ma di allevare, oltre a galline<br />

e conigli, anche il maiale che poi, quand’era ingrassato a dovere, finiva ammazzato e<br />

trasformato in salsicce, prosciutto, ventresca, ecc., ricordo che le operazioni si svolgevano,<br />

d’inverno, tutte in casa, ed era una festa per tutti, soprattutto per i bambini!<br />

Ci si garantiva così, oltre alla provvista di carne, la possibilità di vendere, assieme<br />

ad alcuni prodotti della terra, anche uova, polli, ricotta, formaggio, facendo entrare in<br />

questo modo dei soldi in casa, che in genere i contadini non avevano altra maniera di<br />

procurarsi, per provvedere agli acquisti di vestiti, scarpe, attrezzi necessari al lavoro dei<br />

campi e agli altri bisogni della famiglia.<br />

L’altro grande problema, per grandi e piccini, era quello della pulizia.<br />

Non che prima, all’epoca, si avesse molta dimestichezza con l’acqua.<br />

Nelle case non c’era neppure l’acqua corrente, figuriamoci docce, vasche da bagno e<br />

altre cose del genere. Erano tutte cose di là da venire, come del resto i servizi igienici.<br />

Ci si lavava appena la faccia tutti i giorni, o con l’acqua presa alla fontana se si viveva in<br />

paese o, se si abitava in campagna, con l’acqua del pozzo, molte volte scavato a ridosso<br />

dei depositi del letame prodotto dalla stalla, e poi, ogni morte di papa, ci si faceva<br />

il bagno nella tinozza, di solito questo accadeva in occasioni importanti: quando, per<br />

esempio, si doveva andare fuori, così se ti accadeva qualcosa eri pulito!<br />

Ma, in quei giorni, nella grotta non ci si poteva neppure lavare la faccia!<br />

Non solo, ma tra i capelli e dentro le maglie invernali fatte di lana grossa che indossavamo<br />

allora e che, bisogna dire, tenevano abbastanza caldo, molti animaletti assai fastidiosi<br />

bivaccavano tranquillamente, e l’unico rimedio era grattarsi grattarsi grattarsi…<br />

Per il resto, la paura di ciò che accadeva fuori era sufficiente a far superare a tutti i disagi<br />

inevitabili derivanti da una convivenza forzata, in uno spazio ristretto, e che si protrasse<br />

per giorni e giorni.<br />

Il pensiero di tutti era a come e quando si sarebbe usciti di lì, e se sani e salvi, e questo<br />

22


aiutava anche a non far venire meno un minimo di solidarietà tra quanti vivevano nella<br />

grotta.<br />

Pur con questi problemi e la preoccupazione costante che qualcosa di grave ci potesse<br />

capitare all’improvviso, da un giorno all’altro, tuttavia il tempo scorreva senza grandi<br />

scossoni dentro la grotta; e forse saremmo potuti arrivare senza sorprese al 24 dicembre,<br />

il giorno della nostra liberazione, se il diavolo non ci avesse messo la coda.<br />

Nella grotta, aveva trovato posto anche una famiglia che abitava non lontano da noi<br />

in paese e che quindi conoscevamo bene, il cui figlio più grande, mal sopportando di<br />

vivere rinchiuso, un bel giorno decise di attraversare le linee tedesche per raggiungere<br />

il territorio controllato dagli alleati.<br />

Uscì così dalla grotta, nonostante la disperazione dei genitori, e affrontò da solo l’ignoto<br />

da cui purtroppo non riemerse più e nessuno mai seppe che cosa fosse realmente<br />

accaduto, dove e come fosse andato a morire.<br />

Il tentativo di attraversamento del fronte ebbe luogo non molti giorni prima dell’attacco<br />

sferrato dagli alleati sulla direttrice dove si trovava anche la nostra grotta e che si concluse<br />

con l’arretramento dei tedeschi; ma il fatto non avrebbe avuto per noi conseguenza<br />

alcuna se il padre del giovane, nella convinzione che il figlio, se ci avesse ripensato o<br />

fosse stato costretto dalle circostanze a tornare indietro, non sarebbe stato in grado da<br />

solo di ritrovare il nostro rifugio, non avesse deciso, nonostante le proteste di tutti, di<br />

piazzarsi, allorché cominciava a fare buio, lui all’esterno della grotta e diventare così<br />

punto di riferimento per l’eventuale ritorno del figlio.<br />

La cosa si protrasse per alcuni giorni, ma per nostra fortuna non accadde mai nulla,<br />

almeno fino alla notte del 23 dicembre, quando invece si verificò quello che temevamo<br />

più di ogni altra cosa: la scoperta della grotta da parte dei tedeschi!<br />

Era intorno alle undici di notte, e ricordo ancora come fosse oggi il nostro spavento di<br />

fronte a un tedesco che, pistola in pugno, con davanti quel disgraziato che si era fatto<br />

scoprire, entra nella grotta e ci intima di uscire di lì al massimo entro un’ora.<br />

Probabilmente il tedesco era solo a ispezionare le linee di comunicazione germaniche<br />

che correvano lungo l’Arielli. Se fosse stato con una pattuglia, lo avremmo sicuramente<br />

visto entrare in forze, accompagnato dai suoi commilitoni, e forse in quel caso ci avrebbe<br />

obbligato a sgomberare immediatamente.<br />

Il tedesco andò poi via minacciando che sarebbe tornato più tardi, ma la buona sorte<br />

fu ancora dalla nostra parte, perché né lui né altri tedeschi ebbero la possibilità di farsi<br />

di nuovo vivi. Non passò infatti più di una mezzora dal suo allontanamento che lungo<br />

l’Arielli e sulla nostra stessa grotta si scatenò l’inferno.<br />

Il bombardamento dell’artiglieria, che preparava l’attacco alleato, fu di una violenza<br />

inimmaginabile e durò quasi tutta la notte, seguito poi dall’avanzata delle truppe di<br />

terra.<br />

Ma fu solo a giorno inoltrato e quando ormai la furia della battaglia si era del tutto<br />

placata che decidemmo di uscire.<br />

Ormai anche dall’interno della grotta era possibile non solo percepire l’eco dell’intenso<br />

andirivieni che si stava svolgendo nei pressi del nostro rifugio, ma anche ascoltare le<br />

voci provenienti dall’esterno e capire che non parlavano tedesco. Così i nostri genitori<br />

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(forse qualcuno spiò anche fuori, attraverso lo stretto pertugio di ingresso alla grotta)<br />

compresero che avevamo a che fare con gli inglesi (in realtà, canadesi) e decisero che<br />

era arrivato il momento di lasciare il nostro provvidenziale e insolito ricovero.<br />

Fino a quel momento, anche se i soldati vi passavano e ripassavano quasi davanti, la<br />

grotta non era stata scoperta, tanto era ben mimetizzata, neppure dagli alleati.<br />

Ma il rischio per noi era che l’apparizione improvvisa di un numero abbastanza<br />

consistente di persone potesse essere scambiata dagli alleati per un agguato ordito da<br />

un gruppo di tedeschi e quindi metterci in mezzo ai guai.<br />

Della cosa naturalmente i nostri genitori erano molto preoccupati, ma risolsero il<br />

problema stabilendo di mandare avanti i bambini e i ragazzini: fummo così noi i primi<br />

a uscire all’esterno, ne eravamo parecchi, sventolando fazzoletti e stracci di vario<br />

colore!<br />

Quando abbandonammo la grotta, era la tarda mattinata del 24 dicembre del 1943;<br />

e quel giorno, anche se circondati da lutti e rovine e con la guerra attorno a noi che<br />

continuava, fummo tutti molto felici perché finalmente avevamo riacquistata la libertà.<br />

Lo spettacolo che ci si presentò, quando uscimmo a riveder il sole (per parafrasare<br />

Dante), fu quello di un ininterrotto via vai di soldati: gruppi che tornavano dal fronte,<br />

altri che vi si recavano. Visi stanchi, divise sporche e strappate, soldati feriti, gente<br />

insomma che tornava dall’inferno alla ricerca di un po’ di tregua e riposo nelle retrovie,<br />

per riprendere poi l’indomani la stessa via all’inverso!<br />

Mentre anche noi ci apprestavamo, accompagnati da alcuni soldati che ci avevano preso<br />

in consegna, a prendere la strada delle retrovie, ecco arrivare una colonna abbastanza<br />

numerosa di soldati tedeschi fatti prigionieri, la gran parte giovanissimi e anch’essi<br />

visibilmente assai provati e malridotti.<br />

Ci passarono proprio accanto, e a quel punto alcuni dei nostri non poterono trattenersi<br />

dall’inveire violentemente contro di loro, qualcuno, anzi, tentò anche di avvicinarsi per<br />

colpirli fisicamente.<br />

Fu, bisogna dire, una reazione istintiva, più forte di qualunque altro sentimento: essi<br />

erano i responsabili dei grandi patimenti sofferti durante i lunghi mesi della occupazione<br />

delle nostre terre e l’odio nei loro confronti era cresciuto in tutti nella stessa misura<br />

della paura che ci attanagliava ogni volta che si vedeva apparire una divisa tedesca<br />

all’orizzonte!<br />

I soldati che ci accompagnavano ci portarono in direzione della statale per Ortona; e<br />

la nostra prima tappa fu un ospedaletto da campo, organizzato in una casupola che si<br />

trovava in aperta campagna, a qualche centinaio di metri dalla strada e quasi all’altezza<br />

del casolare in cui abitavamo al momento dell’entrata in guerra dell’Italia.<br />

Si trattava in realtà di una rimessa per utensili agricoli, quindi assai piccola e poco<br />

capiente, utilizzata alla meglio per prestare i primi soccorsi ai soldati feriti.<br />

Quella rimessa, almeno fino a qualche anno fa, era ancora in piedi e, ogni volta che<br />

mi è capitato di percorrere con l’auto la Marrucina, non ho mai mancato passando di<br />

lì di rallentare e gettarle uno sguardo, perché essa è sempre restata uno dei punti vivi e<br />

indelebili dei miei ricordi di guerra.<br />

Forse i soldati feriti che vi abbiamo incontrato al nostro arrivo, tra i quali ricordo molto<br />

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ene anche il soldato che mi mostrò con un sorriso appena accennato il moncherino<br />

insanguinato reciso da una pallottola o da una scheggia all’altezza del polso, hanno<br />

contribuito a fissare nella mia mente la sua immagine. O forse, più semplicemente,<br />

perché l’immagine di quella rimessa coincide, nonostante lo spettacolo orribile che vi<br />

abbiamo trovato, con il giorno della nostra liberazione e del nostro ritorno al futuro!<br />

Anche noi avemmo i primi soccorsi all’ospedaletto da campo, nel senso che lì qualcuno<br />

si diede da fare per rifocillarci e rifornirci di un po’ di viveri per il lungo viaggio a piedi<br />

che ci attendeva, verso la nostra nuova tappa, Lanciano, ormai saldamente in mano agli<br />

alleati.<br />

Lanciano distava dal punto in cui eravamo almeno una ventina di chilometri, non si<br />

trattava quindi di un viaggio facile, anche perché con noi, oltre ai bambini, c’erano<br />

anche persone anziane debilitate dai numerosi disagi ai quali erano state sottoposte<br />

dalle circostanze.<br />

Inoltre il percorso, che subito di là della statale incontrava la contrada Martorella<br />

(appartenente al Comune di Poggiofiorito) dove avevo frequentato la prima elementare,<br />

era fatto di stradine di campagna rese fangose e scivolose dal maltempo di quei giorni<br />

ed era perciò non poco disagevole. All’inizio, esso era piuttosto pianeggiante, poi<br />

scendeva verso il Moro per risalire successivamente, nella sua parte finale che era anche<br />

la più lunga, verso Lanciano. Contavamo, comunque, di fermarci a riposare e mangiare<br />

qualcosa presso una delle masserie che sicuramente, lungo il cammino, avremmo<br />

incontrato.<br />

Ricordo però che ci fermammo, per qualche ora, solo una volta, e la sosta avvenne in un<br />

casolare colpito da un lutto recentissimo: durante la notte, a causa dei colpi di cannone<br />

scambiati tra tedeschi e alleati, era morto il più anziano della famiglia.<br />

Appena entrati nella casa, trovammo il povero morto posto nel mezzo di una grande<br />

stanza a pian terreno e, attorno, i pochi parenti presenti che lo vegliavano.<br />

Non c’erano manifestazioni di disperazione, ma piuttosto una rassegnazione pacata<br />

e senza pianti, l’accettazione insomma di un destino davvero ineluttabile, date le<br />

circostanze.<br />

Arrivammo a Lanciano a notte ormai fatta, e francamente non ricordo dove alloggiammo<br />

per il resto della notte.<br />

Ricordo solo che il giorno dopo, che era Natale, ripartimmo, sempre a piedi, anche da<br />

Lanciano per dirigerci, la nostra famiglia, mia zia con il figlio piccolissimo e mia nonna,<br />

verso Orsogna tuttora occupata dai tedeschi, mentre tutti gli altri nostri compagni di<br />

grotta e di viaggio avevano preso altre direzioni.<br />

Quando arrivammo a Spac<strong>care</strong>lli, l’ultima contrada della città frentana che s’incontra<br />

andando verso Orsogna lungo la provinciale, era ormai intorno a mezzogiorno: eravamo<br />

stanchi e soprattutto affamati, così decidemmo di chiedere ospitalità a una famiglia di<br />

contadini la cui masseria si trovava ai limiti della strada, e con loro consumammo il<br />

pranzo di Natale, un pranzo non certo lauto e succulento.<br />

Al centro della tavola infatti, in un clima non proprio di allegria e di festa, c’era solo<br />

una vazzije piena di verdura cotta, scondita perché il sale era introvabile, con poco olio e<br />

senza neppure la pizza di granturco che i contadini mangiavano mescolata alla verdura,<br />

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ma il pasto fu ugualmente apprezzato da tutti!<br />

All’epoca non è che le tavole dei contadini e in generale della povera gente abbondassero<br />

di leccornie.<br />

Durante l’anno, anzi, la pizze ‘nghe li fojje era uno dei piatti più ricorrenti, tuttavia per<br />

alcune date, assai poche per la verità, le cose andavano diversamente e si mangiava<br />

anche la carne (pollo o coniglio), cotta di solito sotto il coppo, assieme alle patate<br />

tagliate a fette, ciò che le dava un profumo assai intenso e un sapore particolarmente<br />

buono.<br />

Il Natale era una di queste date, assieme alla Pasqua, alla festa del patrono, al giorno<br />

della trebbiatura e a qualche altra ricorrenza particolare. Questa volta però ci dovemmo<br />

accontentare e considerarci pure fortunati, perché con la miseria che c’era in giro ci<br />

poteva anche capitare di rimanere a digiuno!<br />

Nel pomeriggio, riprendemmo il cammino traversando poco dopo il Moro, che segna il<br />

confine tra Lanciano e Orsogna.<br />

Il Moro, il cui nome è diventato celebre nel corso della seconda guerra mondiale per<br />

l’accanita resistenza che vi incontrarono le truppe alleate, è in realtà un fiumiciattolo<br />

senza importanza che però, soprattutto d’inverno quando le sue acque si gonfiano,<br />

diventa un ostacolo serio da superare perché scorre generalmente tra due strapiombi<br />

fatti di calanchi e i ponti che l’attraversano sono pochissimi: ad esempio, il ponte che<br />

avevamo appena attraversato è l’unico che porta a Orsogna venendo da Lanciano.<br />

Nonostante questo però i tedeschi, stranamente, non l’avevano fatto saltare dopo il loro<br />

ritiro da Lanciano, a seguito dell’offensiva scatenata dagli alleati sul Sangro.<br />

Evidentemente, nella fretta della ritirata, non ne avevano neppure avuto il tempo; o<br />

forse non ne vedevano la necessità: non solo il ponte era a notevole distanza dal paese,<br />

ma la sua presenza era comunque assai difficile che potesse agevolare il successo di un<br />

attacco contro Orsogna che aveva una posizione tale ed era così fortificata, con una rete<br />

molto estesa di mine antiuomo e anticarro che copriva sia le campagne verso est (le più<br />

attaccabili) che le strade di accesso al paese, che in nessun modo sarebbe stato facile<br />

occuparla (come poi si dimostrò).<br />

Il ponte, comunque, era ormai nelle mani degli alleati e sotto il loro controllo; e, anzi, a<br />

ridosso di esso, sulla parte destra del fiume gli alleati avevano collocato una batteria di<br />

cannoni che teneva sotto tiro proprio Orsogna, mentre al di là non vi erano postazioni e<br />

vi si svolgevano solo azioni di pattuglia e di osservazione.<br />

Finalmente, dopo un cammino non lungo, arrivammo alla nostra definitiva destinazione,<br />

nel senso che lì rimanemmo fino alla liberazione di Orsogna, nel giugno del 1944:<br />

si trattava della casa di una famiglia contadina, con la quale i miei genitori avevano<br />

antichi rapporti.<br />

Il casolare nel quale fummo ospitati era abbastanza grande per accogliere altre due<br />

famiglie, così non fu difficile sistemarci. Esso si trovava ai limiti del ciglio di una collina,<br />

dal quale si poteva scorgere il paese e anche la nostra masseria di Colle S. Giacomo,<br />

ma sul versante non visibile da Orsogna; era poi lontano a sufficienza dal paese per<br />

cui era difficile che pattuglie tedesche si spingessero fin lì, così come era lontano dalla<br />

provinciale lungo la quale gli alleati tentarono nei mesi successivi di marciare, con i<br />

carrarmati, su Orsogna, neppure in questo caso corremmo perciò rischi e non fummo<br />

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costretti a cer<strong>care</strong> altrove un nuovo rifugio.<br />

La nostra nuova sistemazione non ci creò problemi particolari.<br />

Solo una volta partirono da Orsogna tre colpi di cannone sparati dai tedeschi contro un<br />

gruppo di ufficiali alleati che, sulla stradina che correva lungo il ciglio della collina,<br />

stavano scrutando con il binocolo verso il paese. Le bombe caddero non distanti dalla<br />

casa, in un tratto di campagna dove in quel momento (era di mattina) stavano lavorando<br />

le donne, ma per fortuna senza conseguenza alcuna.<br />

Per tutto il tempo della nostra permanenza presso la famiglia che ci aveva accolto, non<br />

stemmo naturalmente con le mani in mano.<br />

Mia madre, Ida, la zia e la nonna partecipavano normalmente al lavoro dei campi,<br />

così tra l’altro potevamo ripagare i nostri amici della ospitalità e anche del cibo che ci<br />

offrivano (non so però se i miei dovevano anche pagare qualcosa, una specie d’affitto<br />

insomma, probabilmente sì a quel che dice mia sorella).<br />

Mio padre ed io invece avevamo trovato lavoro presso gli alleati e venivamo impiegati,<br />

dietro regolare compenso, a sistemare la strada brecciata che da Lanciano porta verso<br />

Poggiofiorito, utilizzata per il trasporto di truppe e mezzi verso il fronte.<br />

Così ogni mattina mio padre ed io, pala e piccone in spalla, dovevamo attraversare il<br />

Moro per recarci al lavoro, rifacendo la sera, sull’imbrunire, all’incontrario la stessa<br />

strada.<br />

Fu per me, quella, una esperienza molto divertente, oltre che utile dal punto di vista<br />

delle finanze familiari perché anch’io vi contribuivo con il mio piccolo gruzzolo.<br />

Avevo naturalmente, come tutti gli altri, la mia pala, ma in realtà il mio compito principale<br />

era quello di andare a prendere e distribuire l’acqua tra gli operai e, quando passavano<br />

i camion di soldati che tornavano o si recavano al fronte e ci buttavano pacchetti di<br />

sigarette, darmi da fare per raccoglierne per mio padre quanti più ne potevo.<br />

Il lavoro con gli alleati consentì a mio padre anche di stabilire rapporti con qualche<br />

soldato, per procurare cibo, coperte, vestiario vario per la famiglia, egli cercava insomma<br />

di arrangiarsi come meglio poteva in una situazione non certo facile per noi.<br />

Ricordo anche qualche episodio legato a questa sua attività. Come quando, ad esempio,<br />

dopo la fine della nostra giornata lavorativa, mio padre mi portò in un accampamento di<br />

soldati indiani dislocato nei dintorni della nostra zona di lavoro: era un accampamento<br />

abbastanza grande, e lì fummo ospiti della tenda di un indiano, forse, chissà, un sikh<br />

visto il gran turbante che aveva in testa e la lunghezza e abbondanza della barba e dei<br />

capelli, che ci offrì il tè, un tè nero e denso che fu il primo della mia vita e che però non<br />

sapevo affatto che bevanda fosse, non l’avevo mai sentito neppure nominare.<br />

Ma non si trattava sempre di un traffico tranquillo. Un giorno, infatti, capitò a mio padre<br />

di avere a che fare con un soldato ubriaco che minacciò di sparargli con la pistola.<br />

Un altro giorno, mentre eravamo sul lavoro, ci accadde invece di incontrare uno zio,<br />

lo zio Antonio, che nessuno sapeva dove fosse, sapevamo solo che era stato fatto<br />

prigioniero dagli inglesi, come non sapevamo nulla della sua famiglia che non era<br />

riuscita ad attraversare le linee tedesche e si trovava ancora dall’altra parte del fronte,<br />

chissà dove.<br />

Naturalmente, tutti fummo contenti dell’incontro ma egli si fermò con noi solo pochi<br />

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minuti, lavorava anche lui con gli inglesi (anche se non ho mai saputo che cosa facesse<br />

esattamente), e perciò andò via subito salendo su un camion e lo rivedemmo solo alla<br />

fine della guerra.<br />

Insomma, la nostra vita stava quasi tornando alla normalità, soprattutto se paragonata<br />

a quella di chi viveva ancora sotto i tedeschi, con l’incubo dei bombardamenti e della<br />

fame, ma non era naturalmente la normalità.<br />

E’ vero, dopo la conquista di Ortona e i tentativi di sfondamento su Orsogna costati<br />

-come del resto tutta la battaglia del Sangro e del Moro- tantissime vite, di soldati<br />

innanzitutto di cui sono testimonianza i due cimiteri di guerra di Ortona e di Torino<br />

di Sangro, ma anche di civili, durante i mesi invernali l’attività militare si era ridotta<br />

al minimo dall’una e dall’altra parte, e il lungo e rigido inverno servì agli alleati per<br />

accumulare forze in vista dell’arrivo della primavera, quando riprese l’offensiva per<br />

cacciare i tedeschi dall’Italia e, intanto, sloggiarli da Orsogna.<br />

Tuttavia i fatti si incaricavano, ogni tanto, di ricordarci che eravamo sempre in guerra.<br />

Ad esempio, le bombe di aereo che i tedeschi un giorno lanciarono sulla strada dove<br />

stavamo lavorando.<br />

Fu un fuggi fuggi generale, ma per fortuna gli aerei (ne erano due), che rappresentarono<br />

una vera sorpresa perché i tedeschi non avevano ormai quasi più aviazione, andarono<br />

via subito e sganciarono solo qualche bomba.<br />

Ogni tanto ci capitava anche di assistere a bombardamenti su Orsogna o di vedere<br />

pattuglie tedesche che si spostavano nelle campagne ai margini del paese, una volta ne<br />

vedemmo anche una che si aggirava attorno alla masseria di Colle S. Giacomo.<br />

Alla vigilia dell’estate, proprio agli inizi di giugno del ’44, anche Orsogna fu strappata<br />

ai tedeschi, e si aprì così finalmente per noi la via del ritorno.<br />

Noi fummo tra i primi a rimettere piede in paese, assieme a tutti gli altri che, come noi,<br />

avevano passato il fronte o, comunque, non si erano, con lo sfollamento, allontanati<br />

dall’Abruzzo.<br />

Quello che trovammo non ci sono parole per descriverlo: eravamo di fronte a un cumulo<br />

di macerie, che nascondevano anche insidie mortali, e gli edifici che non avevano subìto<br />

gravi danni si potevano davvero contare sulle dita di poche mani!<br />

La nostra casa in paese, come anche le case del vicinato, fu tra quelle non danneggiate,<br />

anche se sulle pareti esterne erano evidenti i segni delle schegge che le avevano<br />

colpite.<br />

Tra l’altro, trovammo tutto il piano terra fortificato con il legname di una vicina<br />

falegnameria, segno che essa era stata utilizzata dai tedeschi, più che come punto di<br />

difesa, come osservatorio, forse in ragione del fatto che affacciava direttamente sulla<br />

valle dell’Arenale e da lì quindi si potevano tenere sotto controllo alcune possibili<br />

vie d’attacco da parte degli alleati, e cioè la valle, appunto, e la statale che viene da<br />

Ortona.<br />

Ritrovammo intatto anche il muretto che chiudeva il sottoscala, con il suo prezioso<br />

piccolo tesoro, e in più i tedeschi avevano portato in casa -prendendolo chi sa dove-<br />

anche un tavolo da cucina molto grande e robusto che restò nostro, mentre tutto il<br />

legname del pian terreno tornò al suo legittimo proprietario.<br />

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Ma il ritorno a casa non mise, purtroppo, la parola fine alle nostre traversie.<br />

Da questo punto di vista, anzi, il dopoguerra non fu meno avventuroso del periodo di<br />

guerra, per certi aspetti anzi fu anche più pericoloso.<br />

Ma anche questa parte della nostra vita noi, divenuti ormai ragazzini, la vivemmo, certo<br />

subendone i disagi, ma anche con quella dose di incoscienza che ti consente di trovare<br />

sempre il lato divertente delle cose.<br />

Intanto, dovemmo ospitare in casa anche la famiglia di mia zia, la zia Giacinta, con i<br />

suoi due figli (lo zio era ancora prigioniero in Germania, tornò solo a guerra finita):<br />

erano rientrati anch’essi, qualche settimana dopo di noi, dalla zona nella quale si erano<br />

rifugiati per sfuggire ai pericoli della guerra, ma la loro casa non era al momento in<br />

grado di accoglierli.<br />

Ma alla coabitazione eravamo ormai abituati, la loro presenza non costituiva perciò<br />

in nessun modo un problema. Consentiva, anzi, a noi ragazzi di stare di più assieme a<br />

gio<strong>care</strong> e divertirci.<br />

Di solito, il giorno stavamo in campagna con i nostri genitori e passavamo il tempo o<br />

ad aiutarli nel lavoro o a scorrazzare liberamente per i campi, alla ricerca delle schegge<br />

di rame e ferro disseminate dalle bombe d’aereo o di cannone esplose nei dintorni, che<br />

poi rivendevamo guadagnandoci qualche soldo. Quando invece restavamo a casa, ci<br />

univamo agli altri ragazzi del vicinato, che erano numerosi, e tutti insieme facevamo i<br />

giochi più diversi.<br />

In genere, con gli altri ragazzi andavamo d’amore e d’accordo. Ma ogni tanto finivamo<br />

col litigare e allora non solo si faceva a pugni ma poteva anche accadere che, durante la<br />

lite, qualche scriteriato ti scagliasse contro all’improvviso, alla traditora, un sasso che<br />

non ti faceva certo bene (come capitò a me una volta, ricordo che fui colpito alla testa<br />

e mi uscì anche un po’ di sangue); ma erano cose, che io ricordi, che non succedevano<br />

spesso.<br />

I nostri giochi erano i giochi del tempo.<br />

A sticchie: ogni giocatore depositava il suo soldo sul mattone piazzato a terra a coltello,<br />

poi a turno da una certa distanza ognuno con la sua pietra tentava di rovesciare il<br />

mattone, facendo cadere a terra i soldi: ogni giocatore vinceva i soldi che aveva più<br />

vicini alla sua pietra. A guardie e ladri. A nascondino (alé, in dialetto). A mazziche:<br />

erano due i giocatori e si giocava con due bastoncini di legno di diversa grandezza, il<br />

primo giocatore colpiva e cercava di lanciare il più lontano possibile, col bastoncino<br />

più grande, quello più piccolo, mentre il secondo, raccoltolo, lo rilanciava a sua volta<br />

da dov’era caduto, cercando di colpire e far cadere il bastoncino grande dai due mattoni<br />

su cui era stato posato in sospensione. A bottoni (ci strappavamo i bottoni dai pantaloni<br />

per gio<strong>care</strong>, con grande disperazione delle nostre madri). A soldi: chi avvicinava di più<br />

il soldo al muro, aveva il diritto di giocarsi per primo a testa e croce i soldi di tutti gli<br />

altri giocatori.<br />

Oppure partecipavamo a giochi legati ad alcune ricorrenze, girando, ad esempio, in<br />

gruppo per le vie del paese -durante la settimana santa- con le raganelle: le costruivamo<br />

noi stessi incastrando il rocchetto di legno che le nostre madri ci davano, dopo aver<br />

consumato tutto il filo che vi era avvolto, in un pezzo di canna spaccata a metà e con<br />

una linguetta flessibile su un lato, e il suo suono stridulo non rallegrava certo le orecchie<br />

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della gente; oppure -alla vigilia del giorno dei morti- portando in giro la sera per il<br />

paese, per la festa della veracire (termine dialettale di cui ancora oggi non conosco il<br />

significato), una zucca svuotata della polpa dentro la quale veniva accesa una candela<br />

la cui luce fuoriusciva all’esterno attraverso alcune piccole fessure: sembravamo tante<br />

lucciole giganti (le massamane, come a Orsogna vengono chiamate le lucciole) nella<br />

notte senza luce elettrica dell’epoca.<br />

Altro gioco che ci appassionava era quello di correre per le strade con una ruota di<br />

bicicletta, spogliata del suo copertone, e una martinicchie in mano per guidarla nella<br />

corsa, così come la partita a calcio con la palla di pezza; i più fortunati poi si potevano<br />

permettere di fare la discesa di S. Rocco con la carrozze, guidandola -alla maniera dei<br />

cavalli- con una specie di cavezza che manovrava le ruote davanti: una piccola carrozza<br />

appunto, fatta di un pianale di legno lungo all’incirca un metro e largo una trentina di<br />

centimetri e di quattro rotelle, anch’esse di legno.<br />

Essa era molto appetita dai ragazzi che, per averla, cercavano innanzitutto di farsi<br />

amico il falegname del quartiere; e divenne ancora più ricercata quando, al posto delle<br />

tradizionali rotelle di legno che si usuravano abbastanza rapidamente, si poterono usare<br />

i cuscinetti a sfera prelevati dai carrarmati alleati abbandonati lungo la provinciale per<br />

Lanciano (anch’io, a un certo punto, entrai nel novero dei fortunati costruendomi una<br />

carrozze con i cuscinetti a sfera).<br />

Qualche volta facevamo anche giochi più movimentati e meno pacifici: ad esempio,<br />

scontrandoci a sassate con i ragazzi di altri quartieri.<br />

Era in realtà un gioco meno pericoloso di quel che sembrava, certo qualche rischio lo<br />

correvamo, ma di solito la sassaiola finiva senza danni per nessuno.<br />

Il gruppo di ragazzi del nostro quartiere, un pezzo di lu quart’abballe, normalmente si<br />

scontrava con i ragazzi del quartiere che avevamo di fronte, quelli di lu quarte de la<br />

ville dai quali ci separava uno strapiombo largo quasi un centinaio di metri, al fondo del<br />

quale corre la strada che porta alla fonte vecchia: ci fronteggiavamo quindi a distanza e,<br />

armati di fionde o usando le nude mani, cominciavamo subito a scagliarci sassi che si<br />

incrociavano allegramente al di sopra del burrone, finché non ci prendeva la stanchezza<br />

o arrivava l’ora di andare a cena.<br />

Insomma, ci divertivamo come potevamo e come sapevamo.<br />

Ma le circostanze ci offrirono, almeno per tutta l’estate, l’opportunità di prati<strong>care</strong> giochi<br />

del tutto nuovi, a causa dei quali più di un ragazzo rischiò seriamente la pelle e alcuni si<br />

sono portati dietro per tutta la vita mutilazioni a volte anche gravi.<br />

I tedeschi, andando via, avevano lasciato in paese qualche arma e soprattutto un gran<br />

numero di proiettili e bombe di vario tipo: dalle bombe di cannone ai proiettili di fucile<br />

e di mitragliatrice, alle bombe a mano. C’erano poi (non molte) le bombe di aereo o di<br />

cannone sparate dagli alleati ma non esplose, oltre alle mine messe dai tedeschi.<br />

Questa situazione, prima che avvenisse lo sminamento e che ci fosse la raccolta da parte<br />

delle autorità delle armi e bombe abbandonate, costituiva già di per sé un pericolo. E<br />

infatti più di un poveraccio in quei giorni perse la vita o su una mina antiuomo o su una<br />

anticarro, fatta esplodere dal passaggio di carri agricoli o di un traìno.<br />

Vi furono diverse vittime anche tra gli uomini mandati a sminare le campagne attorno<br />

al paese, senza parlare di quelli che, tornando dallo sfollamento, morirono aprendo la<br />

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porta di casa o rimuovendo un oggetto dietro cui i tedeschi avevano nascosto la mina.<br />

In quei giorni poteva anche capitare che qualche pallottola di fucile finisse sul focolare<br />

di casa assieme ai ceppi messi ad ardere: arroventandosi, ad un certo punto la pallottola<br />

esplodeva, facendo partire il proiettile che rischiava di causare guai grossi. Un simile<br />

rischio un giorno lo corremmo anche a casa nostra quando un proiettile di fucile, partito<br />

dal focolare, colpì, per fortuna solo di striscio, la gamba di mia zia.<br />

Noi ragazzi trovammo tuttavia il modo di trasformare una situazione così pericolosa in<br />

una occasione di gioco.<br />

Ricordo, ad esempio, che ci ritrovavamo spesso in tanti nel deposito di grosse bombe da<br />

cannone, lasciate dai tedeschi, che si trovava sotto a lu ponte di Cillone, di fronte alla<br />

caserma dei carabinieri, in uno spazioso scantinato. E qui tutti a darci un gran da fare<br />

per svellere il proiettile dal bossolo nel quale era contenuta la polvere da sparo di cui<br />

poi ci servivamo per gio<strong>care</strong>, felici finalmente quando quella polvere diventava nostra<br />

e più felici ancora se dal bossolo sbucavano fuori quelli che chiamavamo i maccheroni,<br />

un esplosivo assai ricercato perché, quando il maccherone veniva acceso, esso andava<br />

zigzagando tra le gambe della gente e tutti ci divertivamo a guardare lo spettacolo.<br />

L’operazione era naturalmente tra le più rischiose: si batteva per terra, con molta forza,<br />

la testa del proiettile per allargare il collo del bossolo nel quale era incassato finché non<br />

se ne staccava, facendo così venir fuori il suo contenuto. Per nostra buona stella, non<br />

successe mai niente, ma nulla impediva che un bel giorno potesse saltare tutto per aria<br />

con noi dentro.<br />

Bombe di altro tipo si potevano poi trovare tranquillamente in giro, a disposizione di chi<br />

le volesse raccogliere: per esempio, le bombe a mano tedesche.<br />

Un giorno, ne trovò una mio cugino Salvatore, qualche anno meno di me: senza nessuna<br />

preoccupazione, egli legò una corda alla linguetta di sicurezza della bomba a mano,<br />

si nascose dietro un muricciolo e la fece esplodere alla presenza di altri ragazzi che<br />

assistevano, a una certa distanza ovviamente, all’audace gesta.<br />

Anch’io, naturalmente, ho partecipato con impegno a queste imprese. Anzi, nel nostro<br />

vicinato, assieme agli altri ragazzini miei compagni di gioco, facevo anche altro perché,<br />

vicino alla nostra abitazione, in una casa ancora abbandonata, trovammo un giorno un<br />

ricco deposito di casse piene di pallottole di fucile. Ci impadronimmo subito delle casse<br />

e le nascondemmo in un piccolo rifugio in muratura che era diventata la nostra sede,<br />

la sede anzi della banda perché nel frattempo ci eravamo appunto costituiti in banda:<br />

potemmo così avere a disposizione solo per noi un numero incredibile di pallottole di<br />

fucile con le quali passammo l’estate a divertirci.<br />

Il nostro gioco consisteva o nello svuotare i bossoli della polvere da sparo, con la quale<br />

imbastivamo poi altri giochi, oppure nel confic<strong>care</strong> una pallottola per terra e colpirne<br />

quindi la capsula con un’altra che la faceva esplodere e spingeva così il proiettile a<br />

penetrare nel terreno.<br />

Era, com’è evidente, un gioco piuttosto stupido ma a noi ci divertiva, finché un bel giorno<br />

non ce ne stancammo e seppellimmo le casse rimaste nel piccolissimo appezzamento di<br />

terra che ospitava la sede della banda; e forse sono ancora lì, nascoste.<br />

Prima però di seppellire la nostra scorta di pallottole, chi disponeva di una specie di<br />

minuscolo fucile di nostra fabbricazione poté provare anche l’emozione di spararne<br />

31


alcune per aria.<br />

Di che si trattava?<br />

Alcuni di noi, e io tra questi, venimmo in possesso, non ricordo più come, dell’aggeggio<br />

che provocava lo scoppio delle mine antiuomo.<br />

Esso era costituito da un piccolo cilindro, lungo non più di dieci centimetri, al cui interno<br />

delle dimensioni di qualche centimetro, incassato in una molla potente, si trovava una<br />

specie di punteruolo trattenuto da un morsetto posto su un lato del cilindro: quando il<br />

morsetto veniva strappato, il punteruolo scattava spinto dalla molla e faceva scoppiare<br />

la mina.<br />

Noi usammo invece il congegno per spararci pallottole di fucile, avendo però l’accortezza<br />

di proteggere la mano che reggeva l’insolita arma con un bossolo di mitragliatrice<br />

tagliato dalla parte della capsula e infilato nella bocca del cilindro: ci andava proprio<br />

bene, e dentro di esso veniva introdotta la pallottola.<br />

Ricordo che, per procurarci i bossoli di mitragliatrice, incappammo un giorno, io e mio<br />

cugino Salvatore, in un nido di vespe molto arrabbiate dalle quali dovemmo scappare in<br />

tutta fretta, il tempo appena di raccogliere i bossoli che cercavamo sparsi per terra.<br />

I bossoli li trovammo non lontano dalla masseria di Colle S. Giacomo, lungo la<br />

provinciale per Lanciano, accanto a una mitragliatrice abbandonata in mezzo alla<br />

campagna, a qualche decina di metri dalla strada, ma per nostra sfortuna proprio lì le<br />

vespe avevano disposto il loro puntuto accampamento.<br />

Insomma, ne combinammo delle belle. Ma le circostanze erano quelle; né in giro vi era<br />

altro di tanto importante e divertente che potesse attirare la nostra attenzione!<br />

L’altra grande, pericolosa avventura di quei giorni nella quale eravamo tutti coinvolti,<br />

bambini ragazzi e adulti, erano le malattie che imperversarono a Orsogna nei mesi<br />

successivi al nostro rientro.<br />

Pidocchi e cimici che scorrazzavano in folla nei letti, nei vestiti e tra i capelli, il tifo<br />

petecchiale che mieté diverse vittime in paese colpendo soprattutto le donne, la rogna<br />

di cui ci si poteva liberare solo ricoprendo per diversi giorni il corpo con un impasto di<br />

zolfo: questo era il quadro sanitario di quei mesi!<br />

Sembrava che l’aria stessa del paese fosse impregnata di miasmi malefici, l’acqua o<br />

non c’era o era inquinata, i cumuli di sporcizia erano sparsi dappertutto, i vestiti e la<br />

biancheria intima erano ridotti a stracci e non si cambiavano perché non ne avevamo<br />

altri, l’assenza di ogni igiene personale era poi la norma, frutto delle circostanze; inoltre,<br />

il fisico sfibrato dalla sottoalimentazione imposta dalla guerra e che continuava nel<br />

dopoguerra non aiutava certo a resistere alle malattie.<br />

Naturalmente, contro le malattie ci si difendeva come si poteva: contro il tifo, ad<br />

esempio, con vaccinazioni che non avevano però sempre il loro effetto.<br />

Io, di vaccinazioni contro il tifo, ne feci addirittura due.<br />

La prima assieme alle mie sorelle presso un medico polacco, di origine ebraica, che<br />

era stato internato dai fascisti a Orsogna: se il mio ricordo è esatto, la vaccinazione<br />

consisteva in tre iniezioni fatte, nel giro di qualche settimana, alla spina dorsale, ma alla<br />

seconda iniezione io svenni e caddi come corpo morto cade sotto l’occhio del medico,<br />

così mi guardai bene dal completare la cura.<br />

La seconda vaccinazione, con una sola iniezione al petto praticata dal medico condotto,<br />

32


la feci invece qualche mese dopo: la facemmo anzi in due, io e un mio compagno di<br />

scuola, di ritorno da una bella camminata lungo la Pes<strong>care</strong>se, la strada (allora brecciata)<br />

che da Orsogna porta a Canosa Sannita. Doveva essere piena estate perché ricordo che,<br />

quando ci recammo da don Levino, il nostro medico condotto, faceva molto caldo ed<br />

eravamo tutto sudati, ovviamente non mi domandai se una nuova vaccinazione, diversa<br />

da quella fatta in precedenza, potesse comportare qualche pericolo!<br />

La situazione sanitaria della nostra famiglia non era naturalmente migliore di quella<br />

delle altre famiglie, anzi…<br />

Tutti in casa infatti facemmo conoscenza di cimici e pidocchi, che ti succhiavano il<br />

sangue che era una bellezza e dai quali non ti potevi proprio liberare, le mie sorelle e<br />

io avemmo inoltre anche a che fare con la rogna, ricordo che restammo per tre giorni<br />

rinchiusi in casa con addosso la puzza dello zolfo che mio padre ci aveva sparso sul<br />

corpo, mentre mia madre si prese il tifo petecchiale che la portò a un punto dalla morte.<br />

Il tifo, poi, era infettivo, e perciò, anche se noi eravamo stati vaccinati, non potemmo<br />

avvicinare mia madre per tutto il periodo della malattia.<br />

Mia madre se la vide proprio brutta, in preda per diverse settimane a febbri violente che<br />

la facevano vaneggiare e l’avevano ridotta una larva; e, visto quello che era accaduto ad<br />

altre donne colpite dallo stesso male, tutti ormai in casa pensavamo che non l’avrebbe<br />

scampata. Ma per fortuna, quando tutto sembrava perduto, lei riuscì a superare la crisi<br />

e, sia pure lentamente, a riacquistare le forze e anche i capelli che le erano caduti nel<br />

corso della malattia.<br />

A poco a poco, tuttavia, anche a Orsogna la vita tornò a farsi normale.<br />

Superata la fase più acuta delle malattie e ripulito ormai il paese delle bombe e delle<br />

armi lasciate dai tedeschi, rimosse anche le carcasse dei carrarmati alleati rimasti ad<br />

arrugginire sulla provinciale per Lanciano, diventarono altre le preoccupazioni degli<br />

orsognesi: ricostruire alla meglio un tessuto istituzionale in grado di provvedere<br />

ai bisogni più impellenti, riavviare le varie attività andate in malora con la guerra,<br />

cominciare la ricostruzione anche fisica del paese.<br />

Non si trattò di cosa facile, ma sia pure con fatica e con molta lentezza tornò a riaprirsi<br />

finalmente la strada per il futuro.<br />

Anche per i bambini ricominciò la normalità.<br />

La scuola venne riaperta, e anche i giochi tornarono a essere quelli di sempre.<br />

Ritornai a scuola anch’io, naturalmente, ripartendo dalla quarta elementare, dopo l’anno<br />

perso a causa della guerra.<br />

Riandando oggi alla vita di quei giorni, bisogna anche dire però che il ritorno alla<br />

normalità non significò affatto il ritorno a quella immobilità, sociale e culturale, che fu<br />

tipica degli anni del fascismo e dalla quale si poteva tentare di uscire solo arruolandosi<br />

come volontari per le avventure del regime in Africa o nella guerra di Spagna dove<br />

molti poveracci, alcuni anche di Orsogna, andarono a combattere e morire per pochi<br />

soldi, a fianco dei franchisti, contro il legittimo governo repubblicano.<br />

Il fascismo aveva persino chiuso le vie dell’emigrazione; e non si poteva così neppure<br />

più cer<strong>care</strong> fortuna altrove!<br />

Insomma, prima della guerra, i destini di ciascuno erano segnati.<br />

E in genere il destino dei figli era quello dei padri, e chi nasceva povero tale rimaneva<br />

33


per il resto della sua vita; e così i suoi figli, in una vicenda sempre immutabile come<br />

le stagioni (almeno quelle di una volta, oggi anche il variare delle stagioni sembra<br />

impazzito!).<br />

Anche i mestieri erano ereditari: studiare, ad esempio, era un privilegio di cui potevano<br />

godere solo i figli dei professionisti e comunque di gente agiata se non proprio ricca, che<br />

si trasmettevano il mestiere di medico, avvocato, ecc., di padre in figlio, anche quando<br />

i figli erano teste di rapa (come si dice da noi).<br />

Qualche volta accadeva anche che, con molti sacrifici, figli di impiegati comunali o di<br />

artigiani e contadini con una discreta quantità di terra riuscissero anche loro a diventare<br />

geometri, maestri elementari, periti agrari; o addirittura a laurearsi, ma si trattava solo<br />

di casi sporadici che non rientravano nelle regole dell’epoca.<br />

Il grosso della popolazione invece passava la sua vita, anche con rassegnazione,<br />

nell’analfabetismo e nell’ignoranza, anzi venivano indicati a dito i ragazzi che, a quei<br />

tempi, erano riusciti ad arrivare alla quinta elementare: il popolino li considerava<br />

persone quasi istruite!<br />

Il dopoguerra nacque dunque con segni diversi; e aprì le porte a un diverso futuro anche<br />

per i più svantaggiati.<br />

Si potevano cogliere questi segni anche nelle piccole cose, come ad esempio il rapporto<br />

tra le persone che non era più quello reverenziale del cafone nei confronti di uomini e<br />

ceti che ieri comandavano, si poteva parlare liberamente e il bisogno spingeva tutti a far<br />

valere le proprie ragioni senza molti timori.<br />

La guerra stessa contribuì a questo cambiamento. E non solo per il passaggio sulle<br />

nostre terre, con le truppe alleate, di uomini che avevano un’altra idea della vita e delle<br />

relazioni tra gli uomini e provenivano dall’esperienza della democrazia che, a memoria<br />

d’uomo, nessuno da noi aveva mai conosciuta.<br />

Per noi ragazzi la guerra, anche in ragione dei disagi e dei pericoli che ci aveva rovesciato<br />

addosso, fu anzi una grande scuola di formazione: eravamo arrivati alla guerra che<br />

eravamo bambini e ne uscivamo appunto ragazzi, con un carico di esperienze che ci<br />

diede più forza, carattere e determinazione e certamente anche qualche ambizione in<br />

più dei nostri genitori che doveva poi fruttifi<strong>care</strong> negli anni successivi.<br />

Il ritorno alla libertà, la conquista di istituzioni democratiche con la cacciata dei Savoia<br />

e la proclamazione della Repubblica e poi l’approvazione della nuova Costituzione<br />

costituirono l’intelaiatura necessaria, frutto dell’unità e della grande lungimiranza delle<br />

forze antifasciste, che consentì a quei segni di rinnovamento di mettere radici e di dare<br />

nuovo slancio e nuove prospettive ai singoli e a tutta la collettività.<br />

Il consolidarsi dei partiti di massa, negli anni immediatamente successivi alla guerra,<br />

in ogni angolo del paese, fu l’altro pilastro attorno a cui si costruì, oltre a un futuro<br />

di libertà e di democrazia per l’Italia, anche la possibilità di un avanzamento sociale<br />

individuale, a prescindere dalle origini e appartenenze sociali: non erano più i tempi<br />

in cui sindaco, assessore, consigliere comunale di un comune, consiglieri provinciali o<br />

addirittura parlamentari erano sempre e solo espressione di ceti agiati.<br />

L’intelligenza cominciò a valere di più, soprattutto quando -già appena dopo la guerra-<br />

anche la possibilità di accedere agli studi, sia pure in modo molto ridotto e in forme<br />

anche singolari, non fu più solo un privilegio di alcuni.<br />

34


Ricordo, ad esempio, che in seminario, dove io entrai nell’autunno del ’46, in tanti<br />

erano figli di povera gente: era un modo antico, tipicamente meridionale, di cambiare<br />

condizione sociale, solo che questa volta, dopo aver terminato il ginnasio, la gran parte<br />

di quei ragazzi abbandonò la strada del sacerdozio e continuò gli studi nella scuola<br />

pubblica!<br />

Insomma, iniziava una storia nuova che si trascinò dietro anche realtà che fino ad allora<br />

erano state relegate ai limiti del vivere civile.<br />

Anche la mia famiglia riprese le sue consuete attività; e mio padre continuò a coltivare a<br />

mezzadria il podere di Colle S. Giacomo, con il lavoro dell’intero nucleo familiare. Con<br />

una piccola eccezione però, che mi riguardava e che produsse per me un futuro assai<br />

diverso da quello che era nella tradizione.<br />

Dopo il ritorno a scuola, io cominciai infatti a frequentare la parrocchia, assieme ad<br />

altri ragazzi della mia età, anch’essi in maggioranza provenienti da famiglie contadine<br />

(anche questo era un segno dei tempi).<br />

A scuola, inoltre, pur non avendo in casa nessun aiuto, andavo bene ed ero, se non il<br />

migliore, certo tra i pochissimi che se la cavavano discretamente; e lo stesso accadeva<br />

in parrocchia, nel servir messa e nel partecipare alle varie altre funzioni religiose della<br />

giornata.<br />

In poche parole, venivo considerato un tipo sveglio e promettente. E tutto questo non fu<br />

naturalmente senza conseguenze: la frequentazione attiva della parrocchia e il contatto<br />

con un mondo che per me era nuovo e si presentava, a quella età, pieno di suggestioni e<br />

di fascino mi portarono infatti a entrare in seminario.<br />

Dovetti naturalmente affrontare anche gli esami di ammissione alla scuola media che<br />

diedi a Ortona, nei locali dell’Istituto Nautico.<br />

A prepararmi agli esami, durante l’estate, fu la signorina Di Bene, grazie all’intervento<br />

nei suoi confronti dell’allora giovane vice-parroco, che poi divenne, dopo la morte<br />

dell’arciprete Fonzi, il nuovo parroco della Chiesa di S. Nicola: parlo di don Vincenzo<br />

Camplone che ebbe un ruolo assai importante in quegli anni per il mio futuro, assieme<br />

alla signorina Olga che si accollò una parte delle spese per la mia permanenza in<br />

seminario.<br />

La signorina Olga era veneta, ma non so per quali circostanze si trovava già da prima<br />

della guerra a Orsogna, dove svolgeva un ruolo importante a servizio del parroco e in<br />

generale nella vita della parrocchia: era una donna ormai abbastanza avanti negli anni,<br />

assai devota e dal cuore veramente buono!<br />

Non so se avessi, come si dice in questi casi, la vocazione, sta di fatto comunque che<br />

mi incamminai animato da grande convinzione per una strada che cambiò radicalmente<br />

la mia vita, finché le irrequietudini e i turbamenti dell’adolescenza non mi spinsero a<br />

lasciare il seminario e a continuare gli studi presso il liceo classico di Lanciano.<br />

Al di là in ogni modo di questo esito, il seminario fu per me una esperienza formativa<br />

fondamentale, sia dal punto di vista intellettuale che morale, che ho sempre considerata<br />

altamente positiva e che mi è sempre stata di grande aiuto anche nella costruzione negli<br />

anni successivi del mio futuro.<br />

L’entrata in seminario pose in pratica, almeno per me, la parola fine alla lunga e<br />

35


travagliata vicenda della guerra e del dopoguerra che ho cercato di raccontare in queste<br />

pagine.<br />

Ma, come accadeva una volta anche nei romanzi, non può man<strong>care</strong> a questo punto, mie<br />

<strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>, una piccola morale conclusiva, a vostra edificazione naturalmente.<br />

E quale può essere questa morale, se non la lezione di libertà che ci viene anche dalla<br />

più grande tragedia del ‘900, quale appunto è stata la seconda guerra mondiale, una<br />

guerra tra le più violente e sanguinose che la storia ricordi?<br />

La guerra fu una scelta del nazismo e del fascismo, nella illusione di ridurre il mondo ai<br />

propri piedi e fondare su questo un potere dispotico sui popoli vinti, con il soffocamento,<br />

per chissà quanto tempo, di ogni libertà e democrazia come già era avvenuto in Italia e<br />

in Germania prima della guerra.<br />

Ma per fortuna, grazie al sacrificio di milioni di uomini e donne, le cose andarono<br />

diversamente e il folle sogno di Hitler, il sanguinario capo della Germania nazista, fu<br />

sconfitto!<br />

La guerra, mie <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>, è sempre una bruttissima cosa, soprattutto per i bambini,<br />

perciò bisogna sempre darsi da fare per impedire lo scoppio di nuove guerre, mantenere<br />

la pace e risolvere i contrasti tra i popoli con l’arma della politica e del dialogo.<br />

Ma quando c’è chi ti costringe a ricorrere alla forza, ad accettare la sfida della guerra,<br />

come è accaduto con il fascismo e il nazismo per scongiurare l’incubo di una vita da<br />

schiavi, non bisogna tirarsi indietro, altrimenti i prepotenti avranno sempre ragione e<br />

l’avranno sempre vinta.<br />

Certo, la cosa migliore è prevenire e lavorare con tenacia e convinzione perché i<br />

prepotenti e i malintenzionati siano costretti a rigare dritto, purtroppo però non sempre<br />

un tale obiettivo viene raggiunto e allora succedono i disastri.<br />

Tuttavia, anche in queste circostanze non bisogna rassegnarsi facilmente, occorre al<br />

contrario insistere finché è possibile nella ricerca del dialogo, e solo quando non vi sono<br />

più altre strade da percorrere imboc<strong>care</strong> quella del ricorso alla forza.<br />

La politica, checché ne pensino o dicano gli ignoranti e coloro che speculano<br />

sull’ignoranza, è l’unico, reale strumento che può imbrigliare e sconfiggere chi lavora<br />

contro la pace e si propone di rendere schiavi gli altri uomini.<br />

Ritorniamo così a Tucidide: il cittadino che si interessa agli affari politici fa cosa utile<br />

per sé, per la città e per il mondo e contribuisce in questo modo ad aprire nuovi orizzonti<br />

di progresso alla civiltà umana.<br />

In fondo, questa è la morale, non tanto piccola poi, che si può trarre da un momento<br />

così altamente drammatico della storia più recente del mondo contemporaneo: la<br />

democrazia, a guardar bene, è la vera, grande risorsa del nostro tempo che può aiutare<br />

gli uomini a sconfiggere i prepotenti e a costruire un futuro di pace e di giustizia per gli<br />

individui e i popoli, facendo vivere il dialogo tra di loro e non lo scontro; ed è proprio<br />

nella democrazia la garanzia della pace e della solidarietà tra gli uomini.<br />

Ma che cos’è la democrazia (e la politica) se non soprattutto, assieme a regole e<br />

istituzioni, proprio questo interessarsi, come dice Tucidide, da parte di ogni cittadino<br />

dei problemi del proprio paese e del mondo?<br />

36


CAPITOlO II<br />

I miei primi rapporti con il PCI risalgono all’estate del 1952, a distanza quindi di appena<br />

qualche mese dal mio ritorno a Orsogna, dopo l’abbandono -nel marzo di quell’anno-<br />

del seminario.<br />

Le circostanze che portarono a questo incontro furono per la verità del tutto casuali e<br />

anche, se volete, banali, esso tuttavia segnò una svolta profonda e definitiva nella mia<br />

vita.<br />

Per l’età che avevo, poco più di diciassette anni, ma anche per la estraneità della vita di<br />

seminario rispetto alle vicende politiche e sociali del Paese che pure in quegli anni si<br />

presentavano spesso con risvolti assai drammatici e coinvolgevano in termini di forte<br />

passione politica tantissima parte della società italiana, mai avrei pensato che il mio<br />

approdo, dopo l’esperienza del seminario, sarebbe stato il PCI.<br />

Negli anni del seminario, infatti, di ciò che avveniva all’esterno appena qualche eco,<br />

molto ovattata, arrivava a volte fino a noi.<br />

Ad esempio, ricordo che giunse anche a noi, all’interno dei grandi e chiassosi cameroni<br />

nei quali vivevamo la nostra adolescenza, l’eco della vittoria della DC nel ’48 sul Fronte<br />

popolare, ma si trattava di un fatto del tutto eccezionale a cui comunque noi ragazzi non<br />

demmo alcuna importanza: normalmente, la nostra giornata (o meglio: la nostra vita)<br />

era fatta di preghiera, studio, gioco.<br />

In fondo, eravamo solo una frotta, assai numerosa allora, di ragazzini il cui sogno era<br />

quello di diventare sacerdoti e che a ciò che avveniva fuori del grande palazzone che ci<br />

ospitava, addossato alle mura della cattedrale, non pensavamo neppure lontanamente;<br />

né forse ce ne importava molto!<br />

L’episodio che produsse una simile svolta nella mia vita accadde, tra la fine della<br />

primavera e l’inizio dell’estate, all’interno dello stanzone parrocchiale nel quale<br />

si trovava il tavolo da ping pong dove i ragazzi che frequentavano la parrocchia si<br />

trattenevano a gio<strong>care</strong>.<br />

In quei giorni anch’io passavo molto del mio tempo a gio<strong>care</strong> a ping pong.<br />

Dopo l’uscita dal seminario avevo, infatti, continuato a recarmi regolarmente in<br />

parrocchia, anche se non partecipavo più alle funzioni religiose.<br />

Non si trattava di una scelta quanto piuttosto di un fatto, per così dire, inerziale. Diciamolo<br />

francamente: anche se di ciò non ricordo che avessi una particolare consapevolezza,<br />

in realtà c’era in questo la mia difficoltà a intessere, in un breve giro di tempo, altre<br />

relazioni, fare nuove conoscenze fuori dall’ambiente che era stato fino a quel momento<br />

il mio, imparare a impiegare diversamente il mio tempo.<br />

Negli anni del seminario, anche quando durante i mesi estivi tornavamo in paese per<br />

le vacanze, la nostra giornata se ne andava in pratica tra la casa e la chiesa madre di S.<br />

Nicola: la mattina, a partire da un’ora quasi antelucana, impegnati a servire messa fino<br />

a mezzogiorno, nel tardo pomeriggio di nuovo in chiesa per le funzioni della sera.<br />

Uso il plurale, perché all’epoca i seminaristi, a Orsogna, erano un bel numero: almeno<br />

cinque che io ricordi, forse sei.<br />

Ancora oggi, appesa al muro del mio studio, conservo una fotografia nella quale siamo<br />

37


tutti raccolti attorno a don Vincenzo. Manca solo Nandino che era il più grande della<br />

compagnia. Tra i chierichetti, poi, c’è Ruccucce che entrò in seminario qualche anno<br />

più tardi e si fece davvero prete: don Ferdinando e don Rocco furono, anzi, gli unici a<br />

raggiungere il sacerdozio, mentre tutti gli altri, uno dopo l’altro, presero altre strade.<br />

Insomma, non c’era proprio molto tempo per fare altre cose, e passavamo così la gran<br />

parte dell’estate quasi sempre in compagnia delle stesse persone.<br />

Continuare a frequentare la parrocchia, anche dopo l’abbandono degli abiti da<br />

seminarista, fu per me quindi del tutto naturale, frutto di un’abitudine ormai antica; e<br />

sinceramente non mi sarei mai aspettato che qualcuno, a partire dal parroco, potesse un<br />

bel giorno eccepire sulla mia presenza in quei locali e che mi sarebbe potuto accadere<br />

quel che poi mi accadde.<br />

Ma che cosa avvenne esattamente quel giorno, tra la primavera e l’estate del 1952?<br />

Una cosa per me davvero singolare, che mi prese alla sprovvista e mi lasciò senza<br />

parole, e cioè che don Vincenzo, che era già divenuto il nuovo parroco di S. Nicola e<br />

con il quale avevo una certa dimestichezza sin da ragazzino, mi cacciasse letteralmente<br />

dalla parrocchia proibendomi di rimettervi piede.<br />

Non ricordo affatto che cosa avesse scatenato in quel momento la sua ira, ricordo solo<br />

che mi aggredì in un modo violento e che non ammetteva obiezioni di sorta: sembrava,<br />

nella sua furia, l’arcangelo, che vediamo raffigurato in tante pitture, che caccia, con la<br />

spada sguainata e fiammeggiante, Adamo ed Eva dal paradiso terrestre!<br />

Ricordo ancora che io me ne andai senza fiatare e che da allora non rimisi più piede né<br />

in chiesa né nei locali della parrocchia. Neppure don Vincenzo mi rivolse, da allora, più<br />

la parola, anzi quando gli capitava di incontrarmi per il paese si girava puntualmente<br />

dall’altra parte, con uno scatto imperioso e collerico della testa! Fu, insomma, una<br />

separazione con inimicizia, che è durata fino al 1985, quando venni eletto sindaco di<br />

Orsogna.<br />

Quell’anno, già nel corso della campagna elettorale, don Vincenzo, che non si era mai<br />

preso molto con il candidato sindaco della DC, si atteggiò nei confronti miei e della<br />

lista che capeggiavo in maniera non ostile, atteggiamento che, dopo la nostra vittoria, si<br />

tramutò, sia pure a distanza di qualche mese, in una ripresa di rapporti e di amicizia che<br />

non sono poi mai più venuti meno, fino alla sua morte.<br />

Non dimenticherò mai anzi, a questo proposito, un episodio che allora mi colpì molto.<br />

A Orsogna c’è l’usanza che la sera del 31 dicembre il sindaco, assieme alla giunta e ai<br />

consiglieri comunali, partecipi con il gonfalone del Comune portato dai vigili urbani in<br />

grande uniforme al Te Deum di ringraziamento celebrato nella chiesa di S. Nicola.<br />

Molti si aspettavano che io non andassi (i pregiudizi nei confronti dei comunisti, ancora<br />

in quegli anni, erano davvero duri a morire), io invece stetti alla tradizione e mi recai in<br />

chiesa con la giunta e il Consiglio comunale.<br />

Assistemmo alla funzione religiosa in prima fila, tra la curiosità della grandissima<br />

folla presente, ma quando ormai essa volgeva al termine avvenne qualcosa che colse<br />

di sorpresa un po’ tutti ma soprattutto me: don Vincenzo lascia l’altare, scende i gradini<br />

che separano l’altare dallo spazio riservato ai fedeli e viene a stringermi la mano!<br />

Lo fece, tra l’altro, in maniera piuttosto plateale e anche calorosa, come era d’altra parte<br />

nel suo carattere.<br />

38


Dopo di allora l’andai a trovare diverse volte in parrocchia, così come mi recai in<br />

ospedale a salutarlo quando fu assalito dal male che doveva portarlo alla morte; e nel<br />

periodo in cui io fui sindaco trovammo anche il modo di fargli avere dal Comune un<br />

cospicuo contributo (che la Regione gli aveva negato) per lavori di restauro della chiesa<br />

e dei locali parrocchiali.<br />

In realtà, quello che spinse don Vincenzo a cacciarmi dalla parrocchia nel 1952 e poi, nel<br />

1985, a ritrovare con me un rapporto di amicizia era, in tutte e due le circostanze, quel<br />

suo carattere fortemente passionale che si esprimeva a volte in grandi atti di generosità e<br />

altre volte invece lo rendeva preda di furie improvvise e violente e anche di risentimenti<br />

profondi e duraturi.<br />

Don Vincenzo aveva scommesso molto sulla mia vocazione e sul fatto che io arrivassi<br />

fino al traguardo, e quando ciò non avvenne egli si sentì come tradito.<br />

La sua reazione non fu immediata, ma questo non fece che rendere ancora più esplosivo<br />

il rancore nei miei confronti che intanto si andava accumulando dentro di lui e che,<br />

alla prima occasione, non poteva non deflagrare, e proprio nel modo assordante che ho<br />

ricordato.<br />

In seminario io ero uno dei seminaristi più promettenti: mi impegnavo sempre con<br />

scrupolo e intelligenza nelle cose da fare, avevo buoni rapporti con gli altri ragazzi e<br />

andavo bene negli studi, vinsi anzi quando passai nel seminario regionale, all’inizio<br />

del primo liceo, addirittura un concorso di poesia con una lunga canzone di tipo<br />

petrarchesco ispirata nel titolo al Faust (il titolo era infatti Margherita all’arcolaio)<br />

e nei contenuti, oltre che al monologo disperato di Margherita davanti all’arcolaio,<br />

sola nella sua stanza, alla canzone alla Vergine del Petrarca. Ricordo ancora la sera<br />

in cui avvenne la premiazione per la conquista dell’alloro poetico: eravamo nell’aula<br />

magna del seminario, ed erano presenti tutti, i seminaristi che frequentavano il liceo, gli<br />

studenti di teologia, i professori e anche molti ospiti esterni!<br />

La sua delusione quindi fu, per questo, ancora più cocente.<br />

Ma io non potevo farci proprio niente, quel che mi spingeva sia pure in modo molto<br />

confuso a lasciare il seminario aveva messo ormai radici così profonde dentro di me<br />

che neppure per un istante, quando decisi di andarmene, fui toccato dal dubbio circa la<br />

giustezza della scelta che stavo compiendo, una scelta tra l’altro, a ripensarci oggi con<br />

il senno del poi, anche azzardata, visti i tempi, che poteva finire anche col perdermi.<br />

Quando mi risolsi a un passo così impegnativo, non pensai anzi neanche per un momento<br />

a queste cose e neppure mi preoccupai di come avrebbero reagito i miei genitori o la<br />

gente, anche perché a quell’età si ha, per fortuna, sempre una grande fiducia in se stessi<br />

e nel proprio avvenire, almeno io l’avevo.<br />

La mia decisione obbedì soltanto alle mie ragioni più profonde, molto legate all’età ma<br />

anche ad alcuni interrogativi che già allora, dopo l’inizio dello studio della filosofia,<br />

cominciavo a pormi, e a porre anche agli altri: interrogativi che mettevano in discussione<br />

tante certezze, compresa la scelta di entrare in seminario, compiuta cinque anni prima<br />

quand’ero poco più che un bambino.<br />

Dopo la mia cacciata dall’Eden, cominciai a frequentare il gruppo dei comunisti di<br />

Orsogna, che non era particolarmente numeroso e non godeva a quel tempo neppure di<br />

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un grande consenso elettorale.<br />

In paese, i più forti a sinistra erano allora i socialisti, continuando una tradizione che<br />

risaliva a prima del fascismo, poi vi era una notevole presenza repubblicana che sul<br />

piano amministrativo si faceva addirittura maggioritaria rispetto alle altre forze politiche<br />

locali, tanto è vero che il PRI ha amministrato il Comune dal 1946 (in questa occasione,<br />

in coalizione con la DC) fino al 1960, i comunisti invece venivano al terzo posto e<br />

ancora alle elezioni per la Camera dei deputati del 1953 essi superavano di poco i 200<br />

voti, mentre i socialisti erano oltre i 1000 voti e i repubblicani oltre i 700.<br />

Nonostante questa evidente debolezza rispetto al PSI e persino al PRI che, salvo alcune<br />

isole (come Lanciano e, fino alla fine degli anni ‘50, appunto Orsogna), era altrove<br />

debolissimo, la presenza dei comunisti era tuttavia ugualmente una presenza vivace che<br />

però non riusciva a trasformarsi in consenso elettorale, principalmente per la mancanza<br />

nelle loro fila di un leader locale forte e riconosciuto.<br />

In genere, a quei tempi, la forza organizzata dai comunisti nelle sezioni, e di conseguenza<br />

la composizione dei loro organismi direttivi sezionali e delle liste per le elezioni<br />

amministrative, era fatta di contadini e lavoratori generici (rappresentavano la grande<br />

maggioranza degli iscritti), artigiani, qualche commerciante e solo raramente qualche<br />

professionista.<br />

Certo non stava soltanto in questo la ragione degli scarsi consensi elettorali raccolti dai<br />

comunisti a Orsogna come in tantissimi altri comuni dell’Abruzzo e del Mezzogiorno:<br />

pesavano molto anche altri motivi, che in parte dovevano venir meno negli anni<br />

successivi, in particolare pesava la forte chiusura settaria che allora li distingueva,<br />

indotta anche dall’asprezza dei contrasti politici e sociali del tempo.<br />

Bene, fu proprio con loro comunque che mi ritrovai a quel punto della mia vita. E non<br />

nascondo che anche quel loro settarismo, almeno nei primi tempi, aveva su di me un<br />

forte fascino perché lo consideravo come la necessaria espressione del rigore, della<br />

coerenza e della determinazione indispensabili per portare a compimento una grande<br />

impresa di trasformazione del mondo come, ai tempi della rivoluzione francese, era<br />

avvenuto con Robespierre e Saint-Just (ho sempre avuto, anzi, una grande ammirazione<br />

soprattutto per Robespierre, fino al punto da chiamare Massimiliano il nostro primo<br />

figlio, con grande disappunto -ce lo confessò mia madre molti anni dopo- di mio padre<br />

che si aspettava Domenico, com’era d’uso a quei tempi, mentre il secondo figlio lo<br />

chiamammo Stefano perché era un nome che suonava bene e mi piaceva il suo significato<br />

principale in greco: corona, serto, ghirlanda).<br />

Per la verità, l’incontro con i comunisti di Orsogna non fu una mia scelta: furono<br />

invece alcuni di loro, che avevano saputo dell’episodio accaduto in parrocchia, che mi<br />

avvicinarono; ma io accettai subito e volentieri, così d’istinto, la profferta di amicizia<br />

che essi mi fecero.<br />

I comunisti all’epoca non godevano di buona fama, non solo tra i ceti bene dei nostri<br />

paesi ma anche tra tanta parte del popolino, i peggiori da questo punto di vista erano<br />

anzi i più poveri e i più ignoranti.<br />

Tra i ceti popolari, a dire il vero, c’era anche molta gente in buona fede, convinta<br />

tuttavia che comunque i comunisti andavano evitati e tenuti lontani, tanto che -poco<br />

tempo dopo i fatti che ho ricordato- una brava donna che conosceva mia madre e che mi<br />

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vedeva spesso assieme a noti comunisti del paese, un giorno incontrandola le si rivolse<br />

tutta scandalizzata (e anche preoccupata) dicendole: A Marì (Maria era il nome di mia<br />

madre), ma come! Chi lu bone fijje (che ero io) mo’ z’à messe ‘nghe li comuniste!, quasi<br />

mi fossi lasciato intrappolare in una compagnia particolarmente pericolosa. Per fortuna<br />

mia madre non si scompose e le replicò a tono: Mio figlio sa bene quello che fa.<br />

In realtà però, da un certo punto di vista, quella compagnia era davvero pericolosa.<br />

A quei tempi (e ancora, bisogna dire, nei decenni successivi, fino all’inizio degli anni ‘70)<br />

le discriminazioni di ogni genere nei confronti dei comunisti facevano, senza scandalo<br />

alcuno per la maggioranza della gente, parte del normale panorama dell’epoca.<br />

Pio XII aveva perfino provveduto a scomuni<strong>care</strong> i comunisti e chiunque fosse loro alleato,<br />

per cui è accaduto anche che qualche (rarissimo) parroco di paese, particolarmente<br />

zelante, non ne ammettesse i figli alla cresima o alla comunione, riscuotendo però in<br />

genere una diffusa disapprovazione perché allora si verificava anche questo, e cioè che<br />

la repulsa nei confronti dei comunisti non si traduceva di solito mai in una disistima<br />

verso i singoli. Spesso, anzi, capitava di sentir dire: E’ un bravo lavoratore; oppure: E’<br />

un buon padre di famiglia, peccato che sia un comunista! Eh sì, anche questo erano<br />

quei tempi…!<br />

Fino a qualche anno prima, tuttavia, le cose in Italia non stavano in questo modo.<br />

Durante la Resistenza e la lotta contro il fascismo e negli anni seguiti alla liberazione<br />

dell’Italia dai tedeschi, c’era collaborazione tra le forze antifasciste e tutte assieme esse<br />

erano al governo del Paese.<br />

Le cose cambiarono all’indomani della rottura tra Stati Uniti e Unione Sovietica, con la<br />

crisi dell’alleanza contro il nazi-fascismo che aveva consentito di sconfiggere Hitler e di<br />

riportare la pace e la libertà in Europa e nel mondo. Era l’inizio della guerra fredda che<br />

doveva portare alla divisione in due dell’Europa e del mondo per quasi mezzo secolo,<br />

fino alla sconfitta dell’URSS e alla sua dissoluzione dopo la caduta del muro di Berlino<br />

nel 1989.<br />

Gli effetti di questa rottura seguirono a catena anche in Italia: i comunisti e i socialisti<br />

furono cacciati dal governo, su sollecitazione degli Stati Uniti, e si determinò un clima<br />

di contrapposizione frontale che ebbe il suo culmine nelle elezioni politiche del 1948.<br />

Nel ‘48, a fronteggiarsi erano da un lato il Fronte popolare (socialisti e comunisti uniti),<br />

con la testa di Garibaldi come simbolo, e dall’altro la DC, con quello dello scudo<br />

crociato. La partita finì con la vittoria della DC, ottenuta soprattutto al Sud e grazie a<br />

una mobilitazione straordinaria della chiesa, e la sconfitta del Fronte popolare che però<br />

non solo non fu umiliato ma riuscì a raccogliere una messe di voti pari a oltre un terzo<br />

dell’elettorato e che era maggioritaria in alcune grandi regioni del centro-nord.<br />

I veleni del ’48, quando dei comunisti si diceva perfino che mangiavano i bambini (guarda<br />

caso, si tratta della stessa accusa che tra i romani circolava nei confronti dei cristiani, ma<br />

anche dei seguaci di altre religioni, nei primi tempi della diffusione del cristianesimo),<br />

continuarono tuttavia ad agire in profondità anche nei decenni successivi.<br />

Più in generale, poi, l’asprezza della lotta politica e sociale di quegli anni -le lotte per<br />

il lavoro, gli scioperi a rovescio, la repressione scelbiana e i lavoratori ammazzati dalle<br />

forze dell’ordine durante le lotte per rivendi<strong>care</strong> il lavoro o la terra-, a cui si aggiungeva<br />

anche la violenza dello scontro a livello internazionale tra Stati Uniti e Unione Sovietica,<br />

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non faceva che rendere ancora più incandescente il clima del Paese.<br />

Tutto questo naturalmente non poteva non inoculare in strati larghi della popolazione,<br />

anche tra persone del tutto aliene da simili eccessi, se non odio quanto meno una<br />

diffidenza profonda e diffusa nei confronti dei comunisti. L’anticomunismo di quegli<br />

anni è, anzi, penetrato così addentro nelle viscere della società italiana che esso per<br />

molti aspetti agisce ancora oggi contro la sinistra, quando il PCI non esiste più e l’URSS<br />

è ormai scomparsa da tempo.<br />

L’incontro con il PCI significò naturalmente, in primo luogo, che cambiò la gente<br />

che frequentavo e che nuove furono le mie amicizie come anche il modo di passare il<br />

mio tempo: molte discussioni, soprattutto con Bonaldo, l’unico studente universitario<br />

iscritto alla sezione, molte passeggiate per il bellissimo viale alberato che attraversa<br />

longitudinalmente Orsogna (è la sede del vecchio tratturo, all’epoca della transumanza<br />

delle greggi), molte partite a scopa e a tressette al bar di Casullo o alla cantina di<br />

Staccone; e, tra passeggiate discussioni e partite a carte, incominciai pure a imparare le<br />

cose, anche spicciole, della politica e del modo di far politica.<br />

Il bar di Casullo, che oggi non c’è più (come anche la cantina di Staccone), si trovava<br />

all’inizio del viale intitolato a Raffaele Paolucci, sulla destra per chi va verso la<br />

stazione, a ridosso della grande piazza centrale di Orsogna, e affacciava direttamente<br />

sul larghissimo marciapiede che accompagna il viale; ed era a quei tempi il luogo di<br />

ritrovo dei comunisti e dei socialisti, mentre i democristiani e in genere la gente bene<br />

frequentavano altri bar o l’Enal, il vecchio dopolavoro fascista, che disponeva di locali<br />

ampi e accoglienti e che, per democratizzarsi e divenire un punto d’incontro per tutti, a<br />

prescindere dal censo e dagli orientamenti politici di ciascuno, dovette aspettare ancora<br />

più di un decennio.<br />

All’epoca, infatti, ognuno aveva i suoi locali pubblici. E anche per questo i bar erano<br />

molto frequentati, come anche alcune cantine (a Orsogna, oltre a quella di Staccone,<br />

c’erano anche quelle di Ciccone e di Bacane) che resistevano ancora all’ondata<br />

modernizzatrice del dopoguerra: anche perché non c’erano altri punti di ritrovo e, poi,<br />

non era ancora arrivata la TV a rinchiudere la sera la gente in casa.<br />

La TV da noi fece la sua comparsa tra il ’55 e il ’56 e, poiché solo pochissimi potevano<br />

permettersi di avere un televisore in casa, il suo arrivo nei primi anni accentuò ancora di<br />

più il ruolo dei bar trasformandoli in luoghi di ritrovo collettivi, con la presenza qualche<br />

volta anche delle donne in occasione di programmi molto popolari.<br />

Proprio per questa loro funzione, nei paesi i bar avevano quindi una grande importanza<br />

anche dal punto di vista della politica locale: lì si veniva a conoscenza e si discuteva dei<br />

fatti, pubblici e privati, accaduti in paese, lì si formavano opinioni e posizioni politiche<br />

che poi giravano tra la popolazione, lì si decidevano molte volte anche le cose da fare<br />

da parte dei partiti.<br />

Dal punto di vista politico, parecchia importanza aveva a quei tempi anche quello che un<br />

compagno di spirito, un po’ bizzarro ma simpatico, chiamava il controllo della piazza.<br />

In genere, in piazza, soprattutto la domenica e i giorni di festa, si formavano numerosi<br />

capannelli dove si discuteva di tutto, assai spesso anche di politica; e di solito, quando<br />

era la politica a tenere banco, ai capannelli si accodavano molti curiosi che ascoltavano<br />

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soltanto, senza partecipare alla discussione.<br />

La piazza diventava perciò anch’essa, come i bar, uno dei punti cruciali per propagandare<br />

le proprie idee e conquistare consensi, se si sapeva stare nei capannelli. A Orsogna,<br />

anzi, il compagno spiritoso e bizzarro che ho prima ricordato teorizzava addirittura<br />

come essenziale questa presenza per vincere le elezioni e comunque per tenere botta<br />

nei confronti degli avversari: presidiare la piazza, insomma, come metafora di una delle<br />

casematte da cui far partire e far arrivare messaggi tra il grosso pubblico!<br />

I comizi in piazza erano naturalmente un’altra cosa; e spesso essi avevano veramente<br />

una grandissima influenza sul risultato elettorale e nella formazione degli orientamenti<br />

dell’opinione pubblica.<br />

I comizi, infatti, all’epoca richiamavano quasi sempre un pubblico assai numeroso,<br />

soprattutto durante le campagne elettorali, e la ragione era semplice: i comizi<br />

rappresentavano una delle poche occasioni per la grande maggioranza della gente di<br />

venire a conoscenza di fatti e cose che altrimenti avrebbe ignorato o attorno ai quali non<br />

avrebbe saputo diversamente formarsi alcuna opinione.<br />

Noi comunisti (non così gli altri partiti, soprattutto la DC che preferiva utilizzare altri<br />

canali nel rapporto con la gente) ne tenevamo spesso anche durante l’anno, perché per<br />

noi il comizio era uno strumento davvero fondamentale, così, ogni volta che vi erano<br />

avvenimenti di grande rilievo nazionale o internazionale, si convocava il comizio; e di<br />

solito c’era sempre una buona presenza di pubblico.<br />

L’incontro con il PCI non cambiò soltanto le mie amicizie e i miei modi di vita. Esso<br />

incise anche, e profondamente, sulla mia formazione, assieme agli studi che avrei<br />

ripreso di lì a qualche mese frequentando il secondo anno del liceo classico a Lanciano,<br />

e mutò alla radice i miei orizzonti culturali e di vita.<br />

In altre parole, cominciai allora a percepire e comprendere cose che, pur avendole prima<br />

ugualmente sotto gli occhi, tuttavia non avvertivo o non comprendevo, di conseguenza<br />

una trasformazione radicale subì anche il mio rapporto con la vita di tutti i giorni e i<br />

problemi della gente.<br />

A provo<strong>care</strong> questa mia diversa sensibilità ebbe naturalmente la sua importanza<br />

la vicinanza e anche la comunanza con gente che quotidianamente si scontrava con<br />

problemi assillanti come quelli del lavoro o con condizioni di vita difficili per sé e la<br />

propria famiglia.<br />

A questa realtà intessuta fondamentalmente di miseria e fatica, ma anche di subalternità<br />

culturale e politica nei confronti dei ceti dominanti, non sfuggiva del resto la mia stessa<br />

famiglia e neppure quella dei miei parenti, ma solo adesso iniziavo a percepirla e viverla<br />

in maniera diversa dal passato.<br />

Cominciò così a maturare dentro di me, sia pure in modo assai vago e approssimativo,<br />

un forte sentimento di protesta e di rifiuto di una società e di uno Stato che producevano<br />

disuguaglianze e ingiustizie profonde e diffuse, soprattutto nel Mezzogiorno, di cui<br />

all’epoca anche i nostri paesi portavano ben evidenti le stimmate: qui la secolare<br />

arretratezza non solo economica e sociale ma anche culturale rispetto al resto dell’Italia<br />

e la persistente incapacità delle masse popolari di sottrarsi al dominio dei gruppi<br />

dominanti rendeva questo stato di cose ancora più intollerabile.<br />

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Insomma, sia pure confusamente, cominciavo ad avvertire, come una esigenza morale<br />

prima che politica, la necessità di combattere queste disuguaglianze e ingiustizie e<br />

lottare per una società fondata su nuovi valori di uguaglianza e di libertà per tutti e non<br />

solo per pochi; e man mano che si allargava la mia conoscenza, anche attraverso nuove<br />

letture, delle idee di fondo che muovevano i comunisti e del ruolo che essi stavano<br />

giocando nella vita del Paese e del mondo, a partire dalla rivoluzione russa dell’ottobre<br />

1917, mi convincevo sempre di più che l’unica forza in grado di cambiare in maniera<br />

radicale e definitiva questo stato di cose era appunto quella comunista.<br />

La verità è che il ruolo e l’influenza dei comunisti nella vita dell’Italia andavano, in<br />

quegli anni, crescendo sempre di più; e sempre di più essi diventavano il punto di<br />

riferimento, oltre che delle masse operaie e lavoratrici, anche delle forze più vive e<br />

innovative della cultura italiana: stavano diventando insomma, sia sul piano politico e<br />

culturale che delle grandi battaglie civili e sociali che segnarono la storia dei primi anni<br />

‘50 in particolare nel Mezzogiorno, i protagonisti principali e più determinati di quel<br />

vasto movimento che si batteva per trasformare e rendere più moderna e giusta l’Italia.<br />

La stessa storia elettorale di quegli anni, che vede il sorpasso, divenuto poi stabile e<br />

definitivo, dei comunisti rispetto ai socialisti, ne è la testimonianza.<br />

All’indomani della liberazione, nelle prime elezioni del dopoguerra, il Partito socialista<br />

riscuoteva ancora un consenso elettorale assai più elevato di quello che andava ai<br />

comunisti, ma già con le elezioni del ’48 il rapporto di forza tra i due partiti della<br />

sinistra, alleati tra di loro attraverso il patto di unità d’azione, era mutato a vantaggio<br />

dei comunisti; e ciò fu solo l’inizio di un processo che doveva portare il PCI a diventare<br />

di gran lunga il più forte partito della sinistra italiana e anche il più forte dei partiti<br />

comunisti dell’Occidente.<br />

Tutto questo non avvenne naturalmente per caso, ma fu il frutto sia del ruolo svolto<br />

dai comunisti nella lotta contro il fascismo e durante la Resistenza sia, all’indomani<br />

della liberazione, della grande coerenza, ma anche realismo, che contraddistinse il loro<br />

impegno nella battaglia per la conquista della Repubblica e della Costituzione e per la<br />

costruzione di uno Stato fondato sulla democrazia e sulla partecipazione.<br />

Questo ruolo dei comunisti fu possibile grazie alla riflessione di Antonio Gramsci negli<br />

anni del carcere e, poi, per le scelte compiute, anche (e forse soprattutto) grazie a questa<br />

riflessione, da Palmiro Togliatti, dopo il suo rientro in Italia, a partire da quella che fu<br />

chiamata la svolta di Salerno.<br />

Togliatti, sta qui forse il suo merito più grande, fece del PCI un partito profondamente<br />

nazionale, anche se legato nello stesso tempo all’URSS e al movimento comunista<br />

internazionale; e ne fondò la peculiare funzione nella vita dell’Italia moderna puntando<br />

essenzialmente sulla prospettiva della costruzione di una democrazia avanzata e<br />

partecipata, assai lontana -anzi in contrasto- dai modelli che si erano imposti nei Paesi<br />

controllati dall’Unione Sovietica, con una caratterizzazione della presenza del PCI anche<br />

come grande movimento culturale, oltre che politico, le cui radici risalivano fino alle<br />

migliori tradizioni delle correnti progressiste e di sinistra del Risorgimento italiano.<br />

La scoperta del PCI da parte mia avvenne dunque in una temperie culturale e politica<br />

sempre più fortemente segnata dalla presenza dei comunisti e nel contesto di una realtà<br />

difficile e anche per certi aspetti drammatica quale era allora quella del Mezzogiorno e<br />

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dello stesso Abruzzo; e tutto ciò non poteva non portarmi a compiere, in primo luogo,<br />

la scelta di militare attivamente nel partito e successivamente le altre scelte, ancora più<br />

impegnative, che poi ho compiuto.<br />

Sono convinto che, a spingermi in questa direzione, ha avuto la sua importanza anche<br />

quella tensione morale che mi portò, essendo poco più che un bambino, a entrare in<br />

seminario e che segnò comunque la mia esperienza di seminarista, esperienza che<br />

mi è sempre rimasta dentro come un aspetto nient’affatto marginale del mio modo di<br />

essere.<br />

La stessa decisione di diventare funzionario di partito o, meglio, per usare l’espressione<br />

del tempo, rivoluzionario di professione, ha probabilmente anch’essa il suo punto di<br />

partenza proprio in questa esperienza, soltanto che questa volta il terreno scelto per<br />

il mio impegno totale a servizio di una grande idea di trasformazione della società<br />

riguardava non più un mondo fuori del tempo e della storia ma il concreto mondo degli<br />

uomini, con tutte le loro aspirazioni e i loro problemi anch’essi molto concreti.<br />

Giorgio Amendola, in un suo libro molto bello del 1976, definì nel titolo stesso del libro,<br />

Una scelta di vita, il senso più profondo della duplice scelta che un grande intellettuale<br />

come lui ebbe il coraggio di fare negli anni difficili della clandestinità: la scelta del PCI,<br />

lui figlio del liberale Giovanni Amendola morto a seguito di una aggressione subìta dai<br />

fascisti, e quindi quella di funzionario del PCI clandestino, nell’Italia ancora sotto il<br />

tallone del fascismo.<br />

Quella definizione fa emergere appunto, con grande forza, il senso di un impegno che<br />

coinvolgeva, in tutti i suoi aspetti e in modo totale, la vita di chi la compiva, votandola a<br />

una causa collettiva a scapito di una prospettiva tutta individuale, e che richiedeva perciò,<br />

proprio per questo, una grande tensione morale, oltre che una grande consapevolezza<br />

politica e ideale.<br />

Negli anni più recenti qualche intellettuale, anche di sinistra, ha rilanciato, nei confronti<br />

dei funzionari di partito, polemiche per la verità non nuove tentando di rappresentarli<br />

come uomini votati solo a difendere in ogni modo il potere e individuando in essi uno<br />

degli ostacoli principali al rinnovamento della sinistra.<br />

L’accusa è profondamente ingiusta e caricaturale. Anzi, credo di poter rivendi<strong>care</strong> con<br />

orgoglio il valore politico e ideale di questa scelta della mia gioventù, proprio alla luce<br />

del grandissimo contributo dato dai comunisti al progresso civile e sociale dell’Italia,<br />

e come me possono farlo quei tanti che in ogni parte del Paese compirono una identica<br />

scelta.<br />

Certo, oggi non ha più senso un partito con le caratteristiche avute dal PCI, perché i<br />

tempi richiedono un partito più agile e flessibile, ma ciò non inficia in nessun modo il<br />

grande ruolo svolto dai funzionari di partito -che costituivano l’ossatura fondamentale<br />

dei gruppi dirigenti del PCI- sia nella storia del comunismo italiano che in quella<br />

dell’Italia negli ultimi cinquanta anni del XX secolo.<br />

Senza di loro, difficilmente il PCI sarebbe diventato il grande partito che è diventato e<br />

altrettanto difficilmente il suo ruolo nella storia dell’Italia moderna e nella promozione e<br />

rinnovamento della democrazia italiana sarebbe stato dell’importanza che conosciamo.<br />

Ostacoli al rinnovamento della sinistra?<br />

Finché le condizioni storiche nazionali e internazionali ne hanno consentito la esistenza,<br />

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è innanzitutto ad essi che il PCI deve la sua capacità di rinnovare via via i contenuti,<br />

anche culturali, della sua politica e del suo rapporto con il popolo italiano. Se poi, però,<br />

com’è probabile, per rinnovamento della sinistra si intendono prospettive politiche e<br />

culturali che volta a volta, nei cinquanta anni trascorsi, hanno agitato pezzi della sinistra<br />

ma che la storia stessa ha puntualmente sconfitto, è chiaro allora che il discorso diventa<br />

un altro!<br />

Ma poi, chi erano veramente i funzionari di partito?<br />

Essi erano, allo stesso tempo, impiegati, dirigenti politici, agitatori sociali, propagandisti,<br />

ecc., insomma intellettuali organici, come si diceva una volta, che mettevano a<br />

disposizione del partito e della causa per la quale lottavano tutte le proprie capacità<br />

intellettuali e di lavoro e la propria cultura.<br />

Per giunta, essi conducevano una vita assai grama dal punto di vista della loro condizione<br />

economica, anzi fino a quasi l’inizio degli anni ’60 molte volte non disponevano neppure<br />

dei soldi necessari per soddisfare le esigenze più elementari proprie e delle loro famiglie<br />

(chi lo farebbe oggi?), sobbarcandosi fatiche enormi di notte e di giorno per far crescere<br />

l’Italia e migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle classi più deboli e per costruire<br />

e consolidare la presenza del partito sul territorio, rischiando qualche volta anche la<br />

galera per ragioni politiche, come ad esempio accadeva ai tempi di Scelba.<br />

Tutto questo poteva nascere solo da una carica morale e ideale non comune e forse, a<br />

ripensarci bene, essi oggi avrebbero diritto a qualche ringraziamento sia per ciò che<br />

hanno dato alla sinistra italiana sia per quel che hanno dato all’Italia!<br />

Questo radicale cambiamento nella mia vita e nella mia visione del mondo non si<br />

verificò naturalmente nel giro di qualche giorno.<br />

Esso fu il risultato di un processo lungo, anche segnato da spinte e aspirazioni a volte<br />

confuse e contraddittorie, alimentato e scandito sia dall’esperienza fatta giorno per<br />

giorno a contatto con i problemi, anche minuti, della gente e successivamente nel<br />

concreto dell’attività politica, sia dallo sforzo compiuto per cer<strong>care</strong> di chiarire e dare un<br />

senso anche teorico alle ragioni che mi avevano portato a compiere la scelta del PCI.<br />

All’epoca, nelle sezioni del PCI era possibile trovare piccole biblioteche, nelle quali<br />

erano presenti soprattutto edizioni della Universale Economica e delle Edizioni<br />

Rinascita (di esse, io conservo ancora oggi molti volumi, un po’ ingialliti e qualche<br />

volta anche malridotti dal tempo).<br />

C’erano anche opuscoli provenienti direttamente da Mosca, si trattava in genere<br />

di scritti di Lenin e Stalin e altri marxisti russi, stampati a Mosca nelle varie lingue<br />

appositamente per l’estero.<br />

Le Edizioni Rinascita erano invece direttamente legate al PCI e pubblicavano testi<br />

di Marx, Engels e di dirigenti del movimento comunista internazionale, mentre la<br />

Universale economica pubblicava autori di cultura progressista e rivoluzionaria; in<br />

particolare nella serie rossa, dedicata alla storia e alla filosofia, era possibile acquistare<br />

a prezzi bassissimi opere fondamentali nella storia della moderna cultura rivoluzionaria<br />

e progressista dell’Europa.<br />

Naturalmente non è che fossero in molti, nelle sezioni del PCI, quelli che approfittavano<br />

della presenza di queste piccole biblioteche, perché la quasi totalità degli iscritti a quei<br />

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tempi poteva vantare sì e no la quinta elementare e, poi, c’erano comunque la durezza<br />

del lavoro che ti aspettava il giorno dopo e la fatica di doversi alzare all’alba, solo<br />

qualcuno perciò, tra i più giovani, ogni tanto si riportava un libro a casa e tentava di<br />

leggerlo, scontando grosse difficoltà.<br />

Io fui comunque tra quelli che approfittarono subito della esistenza di queste piccole<br />

biblioteche, perché avevo il tempo per farlo, spinto tra l’altro da un’ansia di conoscenza<br />

che era stata sempre molto forte dentro di me: i libri mi hanno sempre incuriosito, sin<br />

da piccolo, anche se non potevo comprarli, poterne disporre ora senza avere il problema<br />

di acquistarli rappresentava per me una vera fortuna.<br />

A soddisfare questa mia esigenza, potei anche giovarmi della generosità di un compagno<br />

romano, il geometra Raffaele Rossi, approdato proprio in quegli anni a Orsogna, dove<br />

poi si stabilì con la famiglia, al seguito della ditta edile con la quale lavorava.<br />

Rossi mi regalò in pratica tutti i libri “politici” che possedeva: ne erano parecchi, debbo<br />

dire, ed essi rappresentarono il primo nucleo, sia pur ridottissimo, di una mia personale<br />

biblioteca al quale si aggiunsero via via i libri che cominciai a comprare proprio in<br />

quegli anni (tra questi, anche molti libri di letteratura pubblicati dalla BUR a prezzi<br />

accessibili), e che incrementai poi in maniera costante nel tempo fino a mettere in piedi<br />

una biblioteca ragguardevole quale quella che oggi mi ritrovo.<br />

Mi potei accostare così a testi che per me erano del tutto nuovi e che di fatto hanno<br />

costituito il punto di partenza e la base della mia formazione culturale successiva,<br />

assieme al nutrimento che mi è venuto dall’incontro negli anni del liceo, sempre poi<br />

rinnovato nel tempo, con la grande cultura classica greca e latina e quella italiana<br />

naturalmente, ma anche con altre culture, europee e non, soprattutto antiche.<br />

Quelle letture mi spalancarono un mondo nuovo, inedito per me che avevo alle spalle<br />

la esperienza del seminario.<br />

Negli anni del seminario, l’insegnamento che avevo ricevuto era in realtà un insegnamento<br />

molto chiuso e povero di contenuti.<br />

Che io ricordi, non esisteva nel seminario diocesano, dove avevo frequentato le scuole<br />

medie e ginnasiali, una biblioteca; e i libri a nostra disposizione erano solo quelli di<br />

scuola.<br />

Tra questi, ricordo che prediligevo in particolare le antologie di poeti e scrittori italiani<br />

che mi permettevano di avere una qualche conoscenza diretta della nostra letteratura,<br />

mi piacevano poi l’Iliade (tifavo, come tutti, ovviamente per Ettore, lo sfortunato<br />

difensore di Troia) e l’Odissea della quale mi ha sempre affascinato il fondamentale<br />

tono favolistico, per il resto ci dovevamo accontentare delle nozioni che ci forniva<br />

l’insegnamento scolastico.<br />

Io ho cominciato, ad esempio, a leggere -ma di nascosto- un romanzo quando frequentavo<br />

ormai non rammento bene se il primo o il secondo ginnasio.<br />

Si trattava de L’innocente di D’Annunzio, una lettura proibitissima e che io avevo<br />

acquistato, approfittando di una delle nostre solite passeggiate in gruppo per la città,<br />

alla libreria Minerva che allora si trovava in piazza della Trinità a Chieti: lo tenevo<br />

naturalmente sotto il materasso e ne leggevo qualche passo nelle ore più diverse ma<br />

sempre stando attento a non farmi cogliere sul fatto, aiutato in questo anche dalla<br />

complicità dei compagni di camerata.<br />

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Anche sul piano dell’insegnamento religioso, non è che le cose andassero meglio.<br />

In realtà non avevamo un insegnamento specifico, tutta la nostra formazione religiosa era<br />

affidata alla partecipazione giornaliera alle varie funzioni liturgiche e, all’ora di pranzo<br />

e di cena (durante i pasti, si restava in silenzio, salvo la domenica e i giorni festivi),<br />

alla lettura di passi del vangelo, delle vite dei santi e del martirologio che raccontava<br />

la vicenda tragica ma esemplare dei martiri cristiani caduti sotto le persecuzioni degli<br />

imperatori romani.<br />

Io personalmente possedevo, e tuttora posseggo, una bellissima edizione latina del<br />

Nuovo Testamento.<br />

Essa mi era capitata tra le mani appena dopo, con la fine della guerra, il nostro ritorno<br />

in paese, rovistando per caso tra i libri sparsi per terra (dai tedeschi, prima di scappare?<br />

O da qualcuno, alla caccia non certo di libri, che aveva pensato bene di approfittare del<br />

caos che c’era in quelle settimane a Orsogna?), nell’atrio di un palazzo signorile del<br />

paese, il palazzo Parladore, che si trovava a due passi dalla scalinata della chiesa di S.<br />

Nicola, sul lato opposto della strada.<br />

I libri erano tanti, probabilmente solo una piccola parte di una biblioteca molto ricca<br />

soprattutto di testi di argomento religioso, ma io mi limitai a raccogliere soltanto quel<br />

piccolo volume che mi sembrava, ed era, di particolare interesse.<br />

(Ne La vergine Anna, una delle Novelle della Pescara, D’Annunzio accenna due o tre<br />

volte a un arcivescovo di Orsogna: probabilmente si tratta di Livio Parladore, vissuto<br />

nell’Ottocento, che fu vescovo di S. Marco e Bisignano in Calabria; il nome dei Parladore<br />

è poi legato a una cappella mortuaria nella quale erano sepolti il vescovo e altri preti<br />

della famiglia, conosciuta da tutti in paese come lu casine di Munsignore: prima della<br />

guerra, la cappella si stagliava tutta sola nel bel mezzo della campagna, lungo la statale<br />

per Ortona e a poche decine di metri da essa, ma la guerra l’ha letteralmente cancellata<br />

e oggi non ne rimangono che pochi resti informi).<br />

Il mio Nuovo Testamento era una edizione di fine ‘800, di formato tascabile, così me<br />

lo potevo portare dietro quando andavamo in chiesa e leggerlo durante le funzioni<br />

religiose.<br />

Amavo in particolare leggere i vangeli dei quali mi è sempre piaciuto lo stile semplice,<br />

diretto, immediato e comprensibile a tutti, ma ero molto sedotto anche dall’Apocalisse;<br />

dei vangeli poi mi affascinavano soprattutto alcuni passi come, ad esempio, l’inizio del<br />

vangelo di S. Giovanni e le bellissime parabole.<br />

Ma queste letture, che ho coltivato anche dopo l’uscita dal seminario e l’abbandono di<br />

ogni credenza religiosa, erano tuttavia un fatto mio personale, non un obbligo, frutto<br />

innanzitutto della grande curiosità che mi portava a leggere tutto quello che trovavo.<br />

Anche il fatto che la vita che conducevamo da seminaristi si svolgesse sostanzialmente,<br />

anche quando eravamo in vacanza, fuori di un rapporto con la vita reale della gente, non<br />

contribuiva certo a stimolare in noi la esigenza di formarsi una visione più ampia del<br />

mondo; e nessuno del resto, che io ricordi, ci spinse mai a letture che andassero fuori<br />

dei tradizionali testi scolastici.<br />

Qualche sollecitazione in questo senso mi parve di coglierla all’inizio del liceo, quando<br />

iniziammo lo studio della filosofia, non so dire però quanto questa mia impressione<br />

fosse fondata perché non ebbi neppure il tempo di verificarla.<br />

48


La nostra giornata, in sostanza, si svolgeva tutta dentro il seminario, sia fisicamente che<br />

intellettualmente; e i nostri orizzonti culturali e religiosi non ne ricevevano certo un<br />

arricchimento, come anche il nostro rapporto con la realtà.<br />

Ricordo, ad esempio, che ogni giorno, il pomeriggio, facevamo una passeggiata per<br />

la città, ma tutti in gruppo naturalmente e senza alcun contatto con i ragazzi che<br />

incontravamo per strada, seguendo di solito percorsi scarsamente frequentati; di<br />

domenica e negli altri giorni festivi si stava invece fuori più tempo e spesso andavamo<br />

a gio<strong>care</strong> a calcio nella vecchia caserma Berardi, in quegli anni utilizzata per ospitare i<br />

senza tetto, ma anche in quel caso i contatti con l’esterno erano inesistenti, giocavamo<br />

solo tra di noi.<br />

Di quel periodo, anzi, ricordo solo, come un avvenimento davvero straordinario e fuori<br />

dalla routine a cui eravamo abituati, il giorno che fummo portati ad assistere a uno<br />

spettacolo teatrale nel piccolo teatro, di proprietà del seminario, che si trovava lungo<br />

il Corso Marrucino, a poca distanza dall’incrocio con Via Arniense. Non so più di che<br />

spettacolo si trattasse, ricordo però che esso mi colpì particolarmente, soprattutto mi colpì<br />

la giovane attrice la cui immagine mi tornava frequentemente alla mente nelle settimane<br />

successive (era l’adolescenza che reclamava i suoi diritti), sia pure accompagnata da<br />

molti sensi di colpa.<br />

Il primo libro che lessi, tra quelli dei quali ora potevo disporre, forse solo per caso o forse<br />

anche perché spinto da una voglia inconscia di fare i conti con un aspetto decisivo della<br />

mia precedente esperienza, fu L’essenza del cristianesimo di L. Feuerbach, pubblicata<br />

dalla Universale Economica.<br />

A dire il vero, già nei mesi immediatamente precedenti il mio abbandono del seminario<br />

erano andati maturando in me dubbi molto forti circa i fondamenti stessi delle mie<br />

convinzioni religiose, la lettura di Feuerbach trovò così un terreno già in parte arato e<br />

disposto a ricevere la nuova semente.<br />

Di questi dubbi ricordo anche che parlavo apertamente con gli altri ragazzi, la cosa anzi<br />

preoccupò a tal punto i responsabili del seminario che, quando dissi loro che non mi<br />

sentivo più la vocazione e pensavo di andare via, non mi invitarono neppure a riflettere,<br />

come di solito accadeva in questi casi.<br />

Mi intimarono invece -senza alcuna possibilità di ripensamenti- di lasciare subito il<br />

seminario, non dandomi neanche il tempo di avvertire i miei genitori. Penseremo noi a<br />

questo, mi dissero, e così avvenne: tramite il parroco di Orsogna, informarono i miei del<br />

mio ritorno e, quando scesi dal pullman, trovai mio padre che mi aspettava in piazza e<br />

mi aiutò a riportare a casa le mie poche cose.<br />

Insomma, già nelle ultime settimane della mia permanenza in seminario non ero più<br />

quello di un tempo, e di questo fatto si erano resi conto anche quelli che mi stavano<br />

attorno, innanzitutto i miei compagni; e forse fu proprio questo, e il fatto che certamente<br />

se ne parlò anche dopo la mia andata via, che mi rese addirittura protagonista di un<br />

romanzo, scritto qualche anno dopo, da un mio compagno di vocazione, Cesarino Di<br />

Giovanni, che però aveva lasciato il seminario prima di me, alla conclusione del quinto<br />

ginnasio.<br />

Il romanzo si intitolava Un ateo in seminario, e di esso appunto io avrei ispirato il<br />

49


personaggio principale, come mi disse non ricordo bene se l’autore stesso che poi ho<br />

perso completamente di vista o qualche altro che aveva letto il romanzo.<br />

Io purtroppo, pur avendolo cercato anche in tempi recenti, non sono mai riuscito a<br />

entrarne in possesso e quindi a leggerlo, la cosa anzi mi incuriosisce ancora oggi, spero<br />

comunque che il mio compagno di un tempo, rimasto legato agli ambienti ecclesiastici<br />

anche dopo la crisi della sua vocazione, non mi abbia trattato molto male.<br />

Dopo Feuerbach, ho letto naturalmente anche gli altri opuscoli che si trovavano<br />

nella bibliotechina della sezione o che mi erano stati regalati dal mio amico romano,<br />

soprattutto Marx, Engels, Lenin, Stalin, ecc., ma anche Voltaire, Diderot e altri autori<br />

del periodo dell’illuminismo come delle correnti rivoluzionarie pre-marxiste.<br />

Tra gli autori che ho letto in quel periodo non c’era però Gramsci: solo negli anni<br />

seguenti ho potuto leggere i Quaderni del carcere (come anche le bellissime Lettere dal<br />

carcere), nella edizione tematica fattane da Einaudi.<br />

Tra i volumetti a mia disposizione e che lessi in quel periodo c’era invece, ma non sono<br />

molto sicuro del ricordo, La questione meridionale, una raccolta di scritti di Gramsci<br />

sulla questione meridionale risalenti a prima del 1926, a prima cioè del suo arresto<br />

da parte dei fascisti e la condanna al carcere che lo portò alla morte nel 1937, il più<br />

importante dei quali -Alcuni temi della questione meridionale- lasciato incompiuto<br />

proprio a seguito dell’arresto.<br />

Ad accostarmi negli anni successivi alla riflessione di Gramsci, compiuta durante gli<br />

anni terribili della prigionia, una particolare sollecitazione mi venne dagli esiti dell’VIII<br />

Congresso nazionale del PCI.<br />

Il Congresso, che si svolse nel dicembre del 1956, appena dopo i tragici fatti d’Ungheria,<br />

partendo proprio dalla riflessione gramsciana seppe trarre da questi fatti forse l’unica<br />

lezione possibile in quegli anni di netta divisione del mondo in due blocchi contrapposti:<br />

il rifiuto dello stalinismo da un lato, la scelta della strategia della via italiana al socialismo<br />

dall’altro.<br />

Ma fu soprattutto la partecipazione, nel 1958, a un corso di formazione politica -presso<br />

la scuola centrale per quadri del PCI- a spingermi a conoscere meglio e in modo più<br />

approfondito il pensiero di Gramsci, uno dei più grandi pensatori italiani del ‘900.<br />

In queste mie letture non c’erano, per la verità, né un metodo né delle priorità, come<br />

sicuramente sarebbe stato utile; per ragioni anche facilmente comprensibili, sono<br />

stato anzi piuttosto un autodidatta, nonostante questo però quel mio primo contatto<br />

con il pensiero marxista, nelle sue varie espressioni e peculiarità, e in genere con la<br />

cultura progressista e rivoluzionaria soprattutto europea, ha comunque rappresentato<br />

un momento fondamentale della mia formazione intellettuale e culturale, che si è poi<br />

consolidata e arricchita negli anni successivi.<br />

Oggi è difficile trovare, tra i giovani, qualcuno che abbia, non dico la passione che<br />

abbiamo avuta allora noi, ma quantomeno la curiosità per un complesso di idee così<br />

ricco e storicamente fecondo, che ha influenzato e orientato le scelte, non solo di singoli<br />

e di grandi gruppi, ma anche di popoli e addirittura di Stati nel corso di tutto il XX<br />

secolo.<br />

Il tracollo, sul finire del ‘900, dell’URSS e degli altri paesi del cosiddetto socialismo<br />

50


ealizzato hanno travolto non solo una esperienza storica quale quella aperta, in Russia,<br />

dalla rivoluzione d’ottobre del 1917 e successivamente, nei paesi dell’est europeo, dalla<br />

conclusione vittoriosa della seconda guerra mondiale che vide l’URSS tra le potenze<br />

vincitrici, ma anche quei movimenti, come il comunismo italiano, che avevano cercato<br />

e percorso strade diverse, e lo stesso pensiero di Marx e tante delle idee che ci vengono<br />

dall’illuminismo e da altre correnti progressiste del pensiero europeo.<br />

Eppure, ancora oggi, in un mondo globalizzato nel quale le ingiustizie e le disuguaglianze<br />

hanno raggiunto livelli inediti e colpiscono la grande parte del pianeta, quelle idee, se<br />

sfrondate da ciò che in esse vi è di caduco e di sbagliato, possono tornare ancora utili<br />

per capire ciò che accade e quale strada imboc<strong>care</strong> per uscirne.<br />

In ogni modo, per me come per le tante generazioni del ‘900 che a quelle idee si sono<br />

accostate, esse hanno avuto il merito enorme di averci aiutato a conquistare diritti e<br />

tutele che i nostri nonni e i nostri padri neppure si sognavano, contribuendo così in<br />

maniera decisiva a farci vivere in una Italia più moderna e civile.<br />

L’esito catastrofico del comunismo sovietico non cancella perciò in nessun modo il<br />

fatto che tanta parte dei progressi conosciuti dalle masse lavoratrici nel XX secolo, così<br />

come la liberazione di interi popoli dal giogo del colonialismo, si deve proprio a quelle<br />

idee e alle lotte di emancipazione, che ne sono nate, di popoli e individui.<br />

A voler essere onesti, anche la esperienza sovietica, che da quelle stesse idee è nata, in<br />

realtà non era sbagliata nei suoi obiettivi di fondo: la incapacità di coniugare democrazia<br />

e uguaglianza, ecco il punto debole, e il tarlo che ne ha provocato la rovina, di questa<br />

esperienza grandiosa e tragica del XX secolo che ha visto l’URSS e altri paesi tentare di<br />

costruire società e Stati che ispirassero la propria esistenza e la propria ragion d’essere<br />

al bisogno di libertà e uguaglianza di grandi masse di sfruttati e di oppressi.<br />

Da questo punto di vista, anzi, è avvenuto qualcosa di particolarmente paradossale,<br />

la trasformazione cioè nel loro contrario di quelle stesse idee di libertà e uguaglianza,<br />

con la conseguenza di tragedie inenarrabili che non possono certo essere dimenticate o<br />

taciute.<br />

Ma, ciò nonostante, io resto convinto che la sinistra non può non ripartire ancora una<br />

volta da esse, liberandosi naturalmente con coraggio e in modo chiaro e definitivo degli<br />

errori e delle storture che l’hanno portata nei decenni che stanno alle nostre spalle ad<br />

approdi non solo fallimentari ma anche pericolosi.<br />

Mi rendo conto che queste considerazioni possono suonare un po’ estranee e anche,<br />

forse, un po’ troppo interessate, le cose di cui parlo sono state infatti la mia vita. Ma non<br />

è così, o meglio non è solo così, c’è bisogno che, prima o poi, una sinistra che voglia<br />

tornare al centro della storia dell’Italia e, oggi, dell’Europa, ripercorra con spirito di<br />

verità questo suo passato e sappia utilizzarlo anche per il futuro.<br />

L’idea, ad esempio, che ha mosso alcuni dei protagonisti, molto vicini ad Occhetto,<br />

della trasformazione del PCI in PDS, che l’unico modo per rilanciare la sinistra era<br />

quello di ricominciare da capo, facendo tabula rasa non solo della ideologia comunista<br />

ma anche della stessa esperienza storica del PCI, non è stato solo un suicidio politico<br />

che ha disperso gratuitamente un patrimonio di lotte e di diritti conquistati di cui i<br />

comunisti italiani sono stati protagonisti ma anche il modo peggiore per fare i conti con<br />

la propria storia e aprire un capitolo nuovo.<br />

51


Con lo stesso spirito credo che la sinistra, e in generale le forze progressiste, debbano<br />

guardare ad altri aspetti del proprio passato, ugualmente importanti per una nuova<br />

crescita democratica dell’Italia. Parlo soprattutto del ruolo avuto dai partiti di massa<br />

nella costruzione di una Italia democratica e moderna.<br />

La storia dei partiti di massa, se ci si riflette bene, in realtà fa tutt’uno con la storia di<br />

progresso conosciuta dall’Italia nella seconda metà del ‘900.<br />

Eppure, anch’essi sono finiti nel mirino di chi -compresi anche certi settori della<br />

sinistra- ha pensato di poter costruire sulle rovine del sistema politico italiano uscito<br />

dalla Resistenza e sancito dalla Costituzione repubblicana le proprie fortune.<br />

In discussione non è il fatto che i partiti di massa, che sono stati un fenomeno tipico del<br />

‘900, abbiano ormai esaurito la propria funzione storica, a causa non solo di un mondo<br />

profondamente cambiato ma anche dei vizi e delle interne contraddizioni che ne hanno<br />

minato la credibilità dal di dentro.<br />

Il fatto inaccettabile è che si tenti di negare il ruolo grandemente positivo che essi hanno<br />

avuto, sia pure da versanti politici diversi e anche contrapposti, nel fare dell’Italia un<br />

paese moderno e progredito, con l’obiettivo, financo proclamato, di rendere marginale<br />

nella situazione attuale il ruolo che ancora una volta, sia pure in condizioni diverse<br />

e in forme rinnovate, solo i partiti possono svolgere per difendere e consolidare la<br />

democrazia italiana.<br />

Dietro questi tentativi c’è poi, oltre che una visione sbagliata e pericolosa delle forme di<br />

organizzazione della democrazia e della partecipazione dei cittadini alla politica, anche<br />

una mistificazione sul piano più strettamente storico.<br />

Che cosa, infatti, sono stati veramente i partiti del ‘900, dei quali molti oggi parlano con<br />

disprezzo e sufficienza cercando di identificarli e di ridurli a puri strumenti di potere e<br />

di corruzione come se il segno distintivo della loro presenza nella vita del Paese fosse<br />

tutta e solo racchiusa dentro la stagione di Tangentopoli?<br />

In realtà, essi sono stati molto di più che la semplice rappresentanza, dentro le istituzioni,<br />

di interessi e aspirazioni dei ceti che organizzavano. Se fossero stati solo questo, il loro<br />

ruolo ne sarebbe risultato assai meno importante di quel che storicamente è stato.<br />

I partiti di massa, almeno fino all’inizio degli anni ’80, quando si avvertono i primi<br />

scricchiolii di una crisi che doveva poi esplodere in maniera violenta e distruttiva negli<br />

anni ’90, hanno rappresentato il motore e l’architrave della democrazia italiana, lo<br />

strumento decisivo non solo per il riscatto di grandi masse oppresse e sfruttate ma<br />

anche per la formazione di una coscienza civica e democratica degli italiani che, non<br />

dimentichiamolo, uscivano dall’esperienza del fascismo.<br />

Essi, anzi, sono stati anche altro, con ricadute anche da questo punto di vista non meno<br />

rilevanti e positive per la crescita dell’Italia.<br />

Parlo innanzitutto del fatto che i partiti di massa del ‘900 hanno rappresentato il luogo<br />

privilegiato per la formazione, fuori di ogni selezione affidata al censo e all’appartenenza<br />

a ceti benestanti, delle nuove classi dirigenti del Paese e, inoltre, il tramite principale<br />

per l’apertura dell’Italia al mondo e a una visione non meschina e ristretta dell’interesse<br />

nazionale.<br />

Parlo anche del fatto che essi sono stati il vero punto di coesione e di raccordo di un<br />

Paese sempre percorso da contraddizioni profonde e da una dialettica vivace e qualche<br />

52


volta anche da scontri violenti tra idee, posizioni e interessi assai divergenti tra loro.<br />

Naturalmente, a questo ruolo primario e complesso nella storia italiana più recente i<br />

singoli partiti hanno corrisposto in maniera diversa l’uno dall’altro, e sta alla ricerca<br />

storica individuare e definire i modi e i contenuti del contributo specifico che ciascuno<br />

di essi ha portato allo sviluppo economico sociale e civile dell’Italia nell’ultimo mezzo<br />

secolo.<br />

Ma, è questo il punto irrinunciabile, nessuno -pur nella ricerca di limiti ed errori anche<br />

gravi- può cancellare questo ruolo, sia per onestà verso il passato sia nell’interesse del<br />

futuro stesso dell’Italia.<br />

Credo, tra l’altro, che, in quel che hanno rappresentato i partiti nella storia nazionale<br />

degli ultimi cinquant’anni, vi sia anche un aspetto forse meno rilevante dal punto di<br />

vista politico ma sicuramente molto importante sul piano della vita individuale e di<br />

gruppo di tanta parte del popolo italiano.<br />

Gli iscritti ai partiti in Italia sono stati milioni, certo per molti l’impegno politico non<br />

andava al di là della semplice iscrizione, per tutti però il partito era, oltre che un punto di<br />

riferimento elettorale, anche una rete che ha consentito e favorito l’intrecciarsi di storie,<br />

rapporti, solidarietà e l’affermarsi del senso di una comune appartenenza a un mondo<br />

di valori condivisi, a una comunità solidale la cui importanza andava ben al di là della<br />

politica e che ha inciso profondamente sul grado di coesione della società italiana.<br />

Questo è stato vero, poi, soprattutto per il PCI che, più degli altri partiti di massa del<br />

‘900, anche per le sue caratteristiche di forza fortemente ideologizzata, ha esaltato questa<br />

sua funzione di comunità solidale dove si sono intessute amicizie, relazioni personali e<br />

di gruppo, amori, ecc.<br />

Se debbo essere sincero, io ho molto sofferto per lo scioglimento del PCI e di ciò che<br />

poi ne è seguito. Non che non fosse giusta e necessaria quella scelta che io ho condiviso<br />

e per la quale anzi mi sono battuto, era una scelta inevitabile, imposta dalla storia.<br />

Il modo però come essa è stata fatta e portata avanti grida ancora vendetta; e le lacerazioni,<br />

le rotture e persino le scissioni che ne sono derivate, oltre a favorire la dispersione<br />

silenziosa di una grande massa di iscritti ed elettori, ha avuto effetti davvero devastanti<br />

anche sulla nuova immagine della sinistra, ben distante nel suo modo di essere attuale<br />

dalla caratteristica di comunità viva e solidale che è stata incarnata dal PCI.<br />

Ognuno di noi, semplici iscritti o dirigenti, a un certo punto si è ritrovato come orfano:<br />

scomparivano i luoghi e le tante occasioni di incontro che il PCI aveva sempre saputo<br />

creare, tanta gente si perdeva definitivamente di vista, soprattutto si rompeva quel<br />

legame di solidarietà che è sempre stato un grande punto di forza del PCI e dei suoi<br />

gruppi dirigenti.<br />

E’ capitato anche a me di dover ricostruire una rete di amicizie, fuori dell’ambiente<br />

-quello del partito- che per decenni era stato quasi il mio unico punto di riferimento,<br />

perché i vecchi rapporti o si erano definitivamente logorati o si erano come volatilizzati,<br />

c’era chi aveva preso strade diverse o semplicemente si era tirato fuori dalla politica ed<br />

era tornato a casa.<br />

A volte, quando penso alla dissipazione insensata che è stata fatta, oltre che di un<br />

grande patrimonio politico e ideale qual è stato quello del PCI, anche di tante energie e<br />

intelligenze e della straordinaria rete di solidarietà e relazioni costruita nel corso di circa<br />

53


un cinquantennio, mi vengono alla mente i bellissimi versi della Dedica, soprattutto<br />

alcuni suoi passaggi, che Goethe premette al Faust (attingo alla bella traduzione in<br />

prosa, del 1835, che ne fece il patriota e letterato italiano Giovita Scalvini).<br />

Mi assale allora la stessa struggente nostalgia che pervade quei versi, quel senso della<br />

perdita e della impossibilità del ritorno di ciò che non è più che di essi costituisce la<br />

trama essenziale. E così anch’io allora mi sento preso da rimpianti e malinconie, mentre<br />

mi passano davanti agli occhi tantissime immagini di quegli anni della mia vita che si<br />

sono strettamente intrecciati con la storia del PCI:<br />

Voi mi tornate innanzi aeree immagini, già un tempo apparse al turbato<br />

mio sguardo. Tenterò ora di rattenervi? Propende ancora il mio cuore a<br />

quella illusione? Voi vi stringete intorno a me…Spira da voi un’aura<br />

incantevole che riaccende nel mio petto il fervido senso della giovinezza.<br />

Voi riconducete i fantasmi dei giorni felici; e oh quante amabili ombre<br />

mi sorgono intorno! Come un fatto per antica fama mal ricordato,<br />

mi rivive nell’anima il primo amore e la prima amicizia;<br />

i miei dolori si rinnovano: mi ripercuote il lamento<br />

che suona lungo l’avviluppato, fallace cammino della vita,<br />

e mi reca all’orecchio il nome dei buoni che,<br />

dalla fortuna defraudati dell’ore serene,<br />

sparvero dinanzi a me per sempre…<br />

Lo stuolo degli amici è disperso, e, ahi, muta è l’eco che reiterava la mia voce…<br />

Naturalmente, il modo inaccettabile con cui si è scelto di porre fine a una storia gloriosa<br />

come quella del PCI non può far passare sotto silenzio il fatto che comunque, ancora<br />

prima del suo scioglimento, nel partito i segnali di affievolimento di certi valori c’erano<br />

già tutti, sin dall’inizio degli anni ’80.<br />

Ricordo a questo proposito alcuni episodi che ho vissuto direttamente, e sulla mia pelle,<br />

proprio negli anni ’80.<br />

Il primo risale all’indomani della mia elezione a deputato, nel 1983.<br />

Quando gli organismi dirigenti della federazione di Chieti decisero la mia candidatura<br />

alla Camera dei deputati, io ero ancora nel Molise con l’incarico di segretario regionale<br />

di quella organizzazione.<br />

La decisione di candidarmi fu una decisione perfettamente in linea con la tradizione del<br />

PCI, che tra i suoi punti fermi ha sempre avuto anche quello di non abbandonare per<br />

strada chi aveva rivestito nel partito ruoli importanti e impegnativi.<br />

Dopo le elezioni, però, mi dovetti rendere conto, mio malgrado, che le cose nel partito<br />

avevano cominciato a prendere una piega inconsueta, e che il conflitto e la concorrenza<br />

all’interno dei gruppi dirigenti tendevano sempre di più a prevalere sulla solidarietà<br />

e che alla saggia pratica del rinnovamento nella continuità propugnata da Togliatti si<br />

sostituiva in modo sempre più frequente quella della emarginazione di forze ancora in<br />

grado di dare un contributo rilevante per fare spazio, si diceva, a forze nuove...<br />

54


L’occasione fu piuttosto banale, tuttavia non meno significativa.<br />

Avendo lavorato, fino all’inizio della campagna elettorale del 1983, in Molise, io non<br />

facevo parte naturalmente degli organismi dirigenti della federazione di Chieti, Comitato<br />

federale e Comitato direttivo (quest’ultimo era l’organismo, più ristretto, che aveva in<br />

mano l’effettiva direzione della federazione).<br />

Il buon senso, oltre alla logica, avrebbe voluto che, appena tornato a Chieti, io fossi<br />

reinserito negli organismi di direzione del partito senza frapporre indugi del tutto inutili<br />

e incomprensibili, io però fui subito cooptato nel Comitato federale, per il Comitato<br />

direttivo di federazione invece dovetti aspettare ben nove mesi, eppure ero il nuovo<br />

deputato della provincia...!<br />

In più, i nuovi gruppi dirigenti provinciali, in nome di un malinteso rinnovamento<br />

che faceva premio sull’età e assai poco sulle capacità, evitavano di mandarmi nelle<br />

sezioni, salvo che non fosse indispensabile la presenza del parlamentare, mentre potevo<br />

impegnarmi tranquillamente nei tagli di nastri e cose simili perché qui nessuno poteva<br />

sostituirmi.<br />

Insomma, sembrava che la nuova parola d’ordine già in quegli anni fosse, nei rapporti<br />

interni ai gruppi dirigenti, con tutti i riflessi negativi che questo provocava sull’attività<br />

del partito, quella, fondamentalmente estranea alla storia del PCI, del mors tua vita<br />

mea!<br />

Una parola d’ordine che, purtroppo, ebbi modo di sperimentare in termini ancora più<br />

terribili qualche anno dopo, quando non fui rieletto in Parlamento, pur essendo candidato<br />

e indicato per la elezione.<br />

Un simile esito fu certamente per grande parte il frutto di logiche e scelte regionali<br />

sbagliate, anche perverse per certi aspetti; ma anche, bisogna subito aggiungere, di una<br />

assoluta incapacità di direzione dei nuovi gruppi dirigenti della federazione.<br />

Quel che, tuttavia, più contraddistinse la vicenda elettorale del 1987, quando non fui<br />

rieletto, e che più mi colpì sia politicamente sia moralmente, fu la volontà non più<br />

dissimulata di questi nuovi gruppi di farsi spazio a colpi di spada, senza alcun riguardo<br />

per nessuno.<br />

Poté così accadere in quella occasione qualcosa che non mi sarei mai aspettato, e cioè<br />

che una parte dell’apparato della federazione fosse impegnato durante la campagna<br />

elettorale -soprattutto a Chieti- a dirottare le preferenze su candidati, più amici di altri,<br />

di altre zone della regione, anziché orientarle sul mio nome come sarebbe stato logico<br />

e corretto vista la scelta unanime fatta dagli organismi dirigenti del partito e dalle<br />

sezioni!<br />

Il risultato naturalmente non poteva essere che quello annunciato (e ricordo ancora oggi<br />

la rabbia e l’amarezza di quei giorni, lenite appena dalla solidarietà di tanti compagni):<br />

la non elezione, per la prima volta nella storia politica ed elettorale della provincia di<br />

Chieti, anche se soltanto per una manciata di preferenze, del parlamentare del PCI,<br />

pur avendo il nostro partito in provincia un consenso elettorale tale in cifre assolute,<br />

rispetto alle altre province abruzzesi, da poter eleggere da solo il deputato, mentre altre<br />

federazioni non erano in grado di farlo!<br />

Nei Quaderni del carcere c’è una nota di Gramsci sui rapporti tra generazioni che mi<br />

sembra colga molto bene il modo come, nella fase conclusiva del PCI, una parte della<br />

55


generazione più giovane si è riferita alla generazione che l’ha preceduta, anche se il<br />

problema non riguarda solo il PCI ma vale anche per l’atteggiamento di grande parte dei<br />

nuovi gruppi dirigenti del Paese nei confronti delle forze di governo e di opposizione<br />

che hanno guidato la cosiddetta Prima Repubblica.<br />

“Una generazione -scrive Gramsci- può essere giudicata dallo stesso giudizio che essa<br />

dà della generazione precedente, un periodo storico dal suo stesso modo di considerare<br />

il periodo da cui è stato preceduto. Una generazione che deprime la generazione<br />

precedente, che non riesce a vederne le grandezze e il significato necessario, non può<br />

che essere meschina e senza fiducia in se stessa, anche se assume pose gladiatorie e<br />

smania di grandezza. E’ il solito rapporto tra il grande uomo e il cameriere. Fare il<br />

deserto per distinguersi. Si rimprovera al passato di non aver compiuto il compito<br />

del presente: come sarebbe più comodo se i genitori avessero già fatto il lavoro dei<br />

figli. Nella svalutazione del passato è implicita una giustificazione della nullità del<br />

presente”.<br />

La trasformazione del PCI, per il modo in cui avvenne, non fece che acutizzare e rendere<br />

più rapido questo processo, sono così svaniti nel nulla valori di solidarietà, di rispetto<br />

della storia di ciascuno, dell’ascolto reciproco, della ricerca di un ruolo utile e adeguato<br />

per tutti, sono emersi invece con prepotenza modi di pensare e comportamenti che poco<br />

hanno a che vedere con la tradizione del PCI e che sono tuttora presenti nella vita dei<br />

DS, e i danni sono ben evidenti.<br />

In tempi recenti, sembra riemergere la consapevolezza della necessità di recuperare<br />

alcuni di questi valori, a cominciare da quelli della solidarietà e della responsabilità<br />

collettiva e individuale di fronte al Paese, ma sono segnali ancora molto flebili e, com’è<br />

noto, una rondine non fa primavera!<br />

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CAPITOlO III<br />

Cominciai a impegnarmi concretamente nell’attività politica, e in modo non più<br />

episodico, solo qualche tempo dopo il mio primo incontro con il PCI.<br />

Non che mi mancasse, come dire, la vocazione alla politica. Anzi, è una vocazione che<br />

mi sono scoperto molto precocemente, ancora prima del mio ingresso in seminario, ne<br />

è testimonianza un episodio di cui fui protagonista proprio qualche mese prima della<br />

mia partenza per Chieti.<br />

Siamo nella tarda primavera del 1946, al tempo del referendum istituzionale repubblicamonarchia.<br />

In giro c’è molto fermento, i comizi in piazza sono tanti e tra la gente si fa<br />

un gran parlare di monarchia e repubblica.<br />

Io allora frequentavo, ormai già da diverso tempo, la parrocchia e mi stavo preparando<br />

agli esami di ammissione alle medie in previsione appunto del seminario.<br />

Naturalmente, anche in parrocchia si parlava del referendum, non ricordo cosa ci<br />

dicessero don Vincenzo e il vecchio arciprete, ma non c’erano dubbi: la parrocchia<br />

era schierata con la monarchia, e di conseguenza anche noi chierichetti lo eravamo,<br />

anche se nessuno di noi era in grado di capirci granché in tutta la faccenda. Ma, ecco il<br />

fatto nuovo rispetto all’atteggiamento degli altri ragazzini: io decisi che bisognava fare<br />

qualcosa per far trionfare la causa della monarchia!<br />

Non ricordo affatto se fosse don Vincenzo a spingerci a questo o se addirittura lui non<br />

ne sapesse niente, sta di fatto che un bel giorno io presi con me un mio amichetto, più<br />

piccolo di me (non ne rammento neppure il nome: di lì a qualche anno egli emigrò negli<br />

Stati Uniti o, forse, in Argentina, comunque da allora non l’ho più rivisto e non ne ho<br />

saputo più niente), preparammo il materiale necessario per scrivere sui muri -allora<br />

si poteva- e attac<strong>care</strong> i pochi manifesti scritti a mano da noi che invitavano a votare<br />

monarchia, e così la sera sull’imbrunire uscimmo per compiere la nostra impresa.<br />

La cosa tuttavia non si concluse bene, almeno per me.<br />

Il giorno dopo infatti, mentre mi recavo in parrocchia, nel passare davanti alla<br />

bottega del sarto che si trovava proprio all’angolo della chiesa di S. Nicola e dove<br />

si davano convegno abitualmente alcuni giovani di orientamento socialista, vidi a un<br />

certo punto alzarsi dalla sedia il figlio, socialista, della proprietaria della campagna<br />

condotta a mezzadria da mio padre e dirigersi verso di me in atteggiamento minaccioso,<br />

rivolgendomi anche un po’ di male parole.<br />

Da quello che diceva, capii subito che ce l’aveva con me per ciò che avevo fatto la sera<br />

prima, così cominciai immediatamente a correre per paura di prenderle, perdendomi poi<br />

nelle strette stradine del quartiere di S. Giovanni; lui cercò di rincorrermi, ma fu tutto<br />

inutile, io ero molto più veloce di lui.<br />

La mia campagna pro-monarchia durò così appena un giorno e, per fortuna, non solo<br />

in Italia ma anche a Orsogna non giovò molto ai Savoia: Orsogna, assieme alla vicina<br />

Ortona, fu uno dei pochissimi comuni in provincia di Chieti dove vinse la repubblica!<br />

Insomma, sin da piccolo era presente in me una certa propensione alla politica attiva,<br />

non mi era mai piaciuto infatti tirarmi fuori dai problemi o fare da spettatore, al contrario<br />

ho sempre sentito il bisogno di dire la mia. Del resto, per me è sempre stato così: anche<br />

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nel gioco che è uno specchio assai veritiero del modo di essere delle persone.<br />

Ma il problema ora non era di avere la vocazione, né mi trovavo di fronte a un gioco<br />

come quand’ero solo un ragazzino.<br />

Scegliere di impegnarsi a tempo pieno dentro una prospettiva di trasformazione della<br />

società e dello Stato non poteva essere né il frutto di un gioco né di una scelta dettata<br />

dall’istinto, sentivo al contrario prepotente dentro di me il bisogno di consapevolezza,<br />

di dare a questo impegno fondamenta solide, di capire meglio come, dove e attorno a<br />

che cosa portare avanti la mia attività.<br />

Da questo punto di vista, di grande aiuto mi furono innanzitutto le letture che intanto<br />

andavo facendo.<br />

Oltre a offrirmi nuove e più efficaci chiavi di comprensione della realtà nella quale<br />

vivevo, mi consentirono anche di dare via via risposte agli interrogativi che mi portavo<br />

dentro e di chiarire a me stesso anche il senso e la portata delle scelte che stavo<br />

compiendo.<br />

Ma di non minore utilità fu l’impatto, in un’ottica nuova, con la vita concreta degli<br />

uomini in carne e ossa, con quello insomma che andavo allora giornalmente imparando<br />

nel rapporto sia con la gente che con i compagni.<br />

Tuttavia, fu soprattutto un punto quel che mi fece decidere a compiere senza riserve la<br />

mia scelta di vita: la lettura dell’ultima delle tesi marxiane su Feuerbach.<br />

Secondo Marx, “i filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta però<br />

di mutarlo”: questo fu per me illuminante e decisivo.<br />

Non solo mi fece comprendere come la politica è necessaria e ha senso se si propone un<br />

cambiamento radicale della società e dello Stato, per costruire un mondo migliore per<br />

tutti; ma anche di quale tensione morale e ideale c’era bisogno per corrispondere a un<br />

tale compito: in una visione del mondo, che ha come suo obiettivo di fondo appunto la<br />

trasformazione rivoluzionaria dell’esistente, è possibile collocarsi a questa altezza solo<br />

se dentro di te, a un certo momento, si incontrano passione, capacità di conoscenza dei<br />

processi storici, forte senso morale e ideale.<br />

I comunisti, proprio per questa loro concezione della politica, hanno sempre avuto<br />

una visione alta dell’impegno politico, diversa da quella di altri, affine per certi aspetti<br />

alla concezione, propria di un certo mondo cattolico democratico, della politica come<br />

servizio; e questo spiega anche perché tra i comunisti l’impegno politico ha sempre<br />

assunto un carattere totalizzante, fino a prevalere molte volte su aspetti ed esigenze della<br />

propria vita privata, anzi rendendo pubblico e subordinando ad esso anche il privato!<br />

La decisione a cui alla fine approdai, con la scelta di un impegno crescente nella<br />

politica attiva, fu quindi il risultato di una riflessione non breve e anche molto sofferta<br />

e contrastata: sapevo bene infatti che, anche per il mio modo di essere e di vivere le<br />

scelte, quella decisione avrebbe avuto inevitabilmente un carattere irreversibile e totale,<br />

come di fatto poi avvenne.<br />

Naturalmente, questa mia esigenza di riflessione non significò affatto che intanto io<br />

mi estraniassi da quanto mi accadeva intorno e mi ritraessi dal partecipare all’attività<br />

politica.<br />

Cominciai, anzi, subito a fare le mie prime esperienze. Solo che non ne ero io il<br />

protagonista; e poi, si trattava di esperienze modeste che però, debbo dire, sono state<br />

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ugualmente molto importanti per me: esse, anzi, sono state per me come i primi mattoni<br />

di quel cospicuo patrimonio di conoscenze e di penetrazione della realtà che via via si è<br />

poi andato stratificando dentro di me e che mi è stato sempre assai utile nel mio lavoro<br />

di dirigente di un partito grande e complesso come il PCI.<br />

La mia prima esperienza politica di un certo interesse risale alle elezioni per il Parlamento<br />

del giugno del 1953.<br />

Avevo allora poco più di diciassette anni, e naturalmente non disponevo ancora del<br />

diritto di voto che maturava all’epoca, per la Camera, solo a 21 anni e, per il Senato,<br />

addirittura a 25.<br />

Al centro dello scontro elettorale c’era la cosiddetta “legge truffa”, una legge elettorale<br />

cioè che, in forza di un sistema di apparentamenti tra partiti, avrebbe consentito alla<br />

lista o al gruppo di liste apparentate che avesse conquistato il 50% più uno dei voti di<br />

usufruire di un consistente premio di maggioranza.<br />

Si trattava insomma di una legge di tipo maggioritario che oggi non provocherebbe<br />

grandi contrasti, salvo discuterne convenienza, efficacia, meccanismi, ecc., ma che a<br />

quei tempi, se fosse passata, avrebbe avuto effetti dirompenti sugli equilibri e la tenuta<br />

stessa della democrazia italiana.<br />

Ricorda Celso Ghini, che fu uno dei dirigenti del PCI in quegli anni, nel suo libro Il voto<br />

degli italiani, 1946-1974 (Editori Riuniti, 1975), che “lo scopo della legge -dicevano<br />

i loro padrini democratici cristiani, liberali, socialdemocratici e repubblicani- era di<br />

garantire una maggioranza parlamentare ed un governo stabili. L’obiettivo inconfessato<br />

era di assicurare ai partiti governativi la perpetuazione del monopolio del potere e una<br />

maggioranza sufficiente ad emendare la Costituzione in senso limitativo delle libertà,<br />

senza tenere conto della volontà degli elettori e delle ragioni dell’opposizione”.<br />

Le affermazioni di Ghini, che erano poi il succo della posizione del PCI e di altri settori<br />

politici di destra e di sinistra, acquistano un senso ben preciso se riferite da un lato a<br />

ciò che significò lo scelbismo in quegli anni, in termini di repressione anche sanguinosa<br />

delle grandi lotte per la terra e il lavoro e di limitazione arbitraria di libertà costituzionali,<br />

dall’altro a ciò che nel rapporto maggioranza-opposizione avrebbe comportato la legge<br />

truffa se non fosse stata sconfitta.<br />

In Italia, una delle conseguenze principali della guerra fredda sulla nostra vita<br />

democratica è stata rappresentata dal fatto che il PCI poteva essere forte e governare<br />

regioni e comuni ma mai diventare governo del Paese!<br />

Questa è stata una delle leggi non scritte dell’Italia repubblicana, fino alla caduta del<br />

muro di Berlino nel 1989 e alla trasformazione del PCI in PDS, Partito democratico<br />

della sinistra, qualche anno dopo, dalla quale a nessuno era consentito derogare; ed è a<br />

tutti noto quale sorte fu riservata a Moro che, negli anni ’70, pensò che era ormai giunto<br />

il momento di riportare i comunisti nel governo del Paese (ne erano stati già parte<br />

appena dopo la Liberazione, fino al maggio del 1947) per ridare respiro e vigore a un<br />

sistema politico sempre più asfittico e in difficoltà!<br />

In sostanza, la legge truffa, se fosse risultata vincente, avrebbe alterato profondamente<br />

per legge e non per scelta degli elettori, a favore della DC e dei suoi alleati, la<br />

rappresentanza politica nelle istituzioni, in un contesto internazionale peraltro nel quale<br />

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la divisione del mondo in due blocchi contrapposti riservava già di per sé un destino<br />

diverso alle forze in campo: da un lato la DC non poteva non governare, dall’altro alla<br />

sinistra, in particolare al PCI, era preclusa ogni possibile alternanza di governo.<br />

Una tale rottura rischiava naturalmente non solo di mettere in pericolo la normale<br />

dialettica democratica tra maggioranza e opposizione, ma anche di aprire la strada a<br />

conflitti sempre più aspri e pericolosi per la stessa democrazia.<br />

All’approvazione della legge truffa in Parlamento si arrivò dopo una dura battaglia<br />

da parte delle opposizioni sia di destra che di sinistra, ma la partita vera si giocò nella<br />

campagna elettorale alla quale parteciparono anche liste e movimenti messi in piedi<br />

proprio per l’occasione, nel tentativo di sottrarre voti alla DC e agli altri partiti con essa<br />

apparentati e impedire così a quella che fu la sola coalizione presente alle elezioni il<br />

raggiungimento del 50% più un voto.<br />

Come in tutta Italia, anche ad Orsogna lo scontro fu aspro e violento, e sui balconi che si<br />

affacciavano sulla piazza, dai quali si tenevano i comizi, si alternavano in continuazione<br />

gli oratori dei diversi partiti.<br />

Ogni partito aveva naturalmente il suo balcone e, quando i comizi si susseguivano<br />

l’uno all’altro, era un vero e proprio spettacolo vedere la folla -di solito sempre molto<br />

numerosa- sciamare da un lato all’altro della piazza, solo i più pavidi o quelli ai quali<br />

era stata fatta qualche promessa in cambio del voto e avevano bisogno perciò di farsi<br />

vedere solo al comizio della DC, pur ascoltando ugualmente i comizi degli altri partiti,<br />

si tenevano tuttavia a debita distanza dai balconi avversari.<br />

A Orsogna, anzi, la campagna elettorale fu particolarmente animata, perché tra i<br />

candidati al Senato c’era anche un personaggio assai famoso, sia come medico che<br />

come eroe nazionale, originario del paese e al quale molti orsognesi erano legati per<br />

ragioni anche di riconoscenza.<br />

Parlo di Raffaele Paolucci, chirurgo di fama e direttore della clinica chirurgica<br />

dell’Università di Roma e noto per aver partecipato, con l’ufficiale del Genio Navale<br />

Raffaele Rossetti, all’affondamento della corazzata austriaca Viribus Unitis nel porto<br />

di Pola, durante la prima guerra mondiale. Egli però non era candidato con la DC, che<br />

nel ’48 a Orsogna aveva superato sia pure non di molto il Fronte del popolo, ma con il<br />

Partito nazionale monarchico e quindi anche lui era contro la legge truffa.<br />

La presenza di Paolucci, come del suo partito, contribuì perciò anch’essa a sconfiggere<br />

in paese la DC e i suoi apparentati e, più in generale, il disegno politico che stava<br />

dietro la legge truffa, tuttavia quello che mi colpì, nel risultato elettorale di Orsogna, fu<br />

soprattutto la diversità di voto tra la Camera e il Senato.<br />

Alla Camera, l’elettorato orsognese si orientò sulla base di una scelta politica generale,<br />

infatti i monarchici raggranellarono poco più di 100 voti, al Senato invece quel risultato<br />

ne uscì completamente stravolto: i monarchici raccolsero quasi 1800 voti, e cioè oltre<br />

il 50% dei voti validi, pur avendo gli orsognesi nel referendum istituzionale del ‘46<br />

dimostrato di preferire largamente la repubblica, e quei voti provenivano addirittura da<br />

gente che alla Camera aveva votato non solo DC ma anche i partiti della sinistra!<br />

Era la prima volta che mi trovavo di fronte a un fenomeno di trasformismo in cui, più<br />

della scelta politica, contava la scelta del candidato.<br />

Oggi un fenomeno di questo genere forse non stupirebbe nessuno, ma allora, quando il<br />

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voto aveva sempre una forte connotazione politica e ideologica, la cosa non poteva non<br />

provo<strong>care</strong> stupore!<br />

E così anch’io rimasi assai sconcertato da quel risultato, ma col tempo dovetti<br />

abituarmi: non solo a Orsogna ma anche nel resto del Mezzogiorno, quel fenomeno era<br />

piuttosto ricorrente e diffuso, anche se esso riguardava soprattutto elezioni di carattere<br />

amministrativo e solo raramente (almeno a Orsogna) elezioni politiche.<br />

A Orsogna, per definire il fenomeno, venne anche coniata una espressione, non<br />

dispregiativa, quanto piuttosto dettata da una certa ironia sdrammatizzante, tanto esso<br />

era dato ormai per scontato, questa espressione era: la licenza, quella appunto che gruppi<br />

di elettori si prendevano in occasione di elezioni amministrative rispetto alle scelte che<br />

normalmente compivano nelle elezioni politiche!<br />

Il 1956 fu un anno davvero denso di avvenimenti, anche drammatici; e anche di nuove,<br />

fondamentali esperienze per la mia formazione politica.<br />

A febbraio, si svolge a Mosca il XX Congresso del PCUS con la denuncia da parte di<br />

Krusciov, attraverso il cosiddetto rapporto segreto reso pubblico in Italia solo nell’estate<br />

successiva, dei delitti di Stalin e dello stalinismo; nella tarda primavera hanno luogo<br />

le elezioni amministrative; a ottobre scoppia in Ungheria la rivolta contro il governo<br />

comunista presieduto da Geroe, un uomo di Stalin, che si conclude nel sangue ai primi<br />

di novembre con l’occupazione di Budapest da parte dell’Armata Rossa; in coincidenza<br />

con i fatti d’Ungheria -dopo la nazionalizzazione del Canale di Suez da parte di Nasser-<br />

prima Israele attacca le truppe egiziane e occupa il Sinai e poi, a distanza solo di qualche<br />

giorno, Francia e Inghilterra occupano Suez; a metà dicembre si apre a Roma l’VIII<br />

Congresso nazionale del PCI che proclama la via italiana al socialismo.<br />

Insomma, un anno davvero da brividi sul piano internazionale ma anche di straordinario<br />

interesse per il futuro del comunismo italiano, se solo si pensa alle grandi implicazioni<br />

che hanno avuto nella successiva evoluzione del PCI la riflessione sullo stalinismo e le<br />

conclusioni di natura strategica dell’VIII Congresso.<br />

Il precipitare degli avvenimenti internazionali, e anche la crisi interna al PCUS, ebbero<br />

naturalmente echi profondi in Italia; e provocarono uno scontro politico violento tra i<br />

contrapposti schieramenti politici, ma anche un dibattito intenso e, anzi, assai aspro<br />

e violento, all’interno dei partiti della sinistra che non giovò certo ad avvicinare le<br />

rispettive posizioni.<br />

Al contrario, alcuni di questi avvenimenti, parlo del XX Congresso e poi dei fatti<br />

d’Ungheria, non fecero che approfondire ulteriormente le crepe già esistenti nel<br />

rapporto tra i comunisti e i socialisti, favorendo una ripresa di rapporti tra socialisti e<br />

socialdemocratici: l’incontro di Pralognan, avvenuto nell’agosto, tra Nenni e Saragat<br />

non fu da questo punto di vista affatto casuale, esso servì a gettare le basi di questo<br />

riavvicinamento che doveva di lì a qualche anno portare agli accordi di centro-sinistra,<br />

con l’obiettivo di contrastare e isolare il PCI.<br />

Tuttavia, l’incombere di questi processi non impedì che alle elezioni comunali e<br />

provinciali di quell’anno continuasse a funzionare il rapporto unitario tra comunisti e<br />

socialisti.<br />

Anche a Orsogna i comunisti e i socialisti si presentarono alle comunali con una lista<br />

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unitaria e, alle provinciali, con un candidato unico per tutti e due i partiti.<br />

Candidato alla Provincia, infatti, fu scelto quello che era allora l’uomo più rappresentativo<br />

di tutta la sinistra orsognese, e cioè l’avvocato socialista Giuseppe Tenaglia il quale<br />

capeggiò contemporaneamente anche la lista per il Comune.<br />

In quelle elezioni io votai per la prima volta, un fatto davvero molto importante per me,<br />

e fui anche indicato dal PCI e dal PSI come scrutatore in una delle sezioni elettorali del<br />

paese, tuttavia le elezioni non andarono affatto bene per noi. O meglio: eleggemmo con<br />

una bella messe di voti, oltre 1500 se non ricordo male, il nostro candidato unitario alla<br />

provincia, ma prendemmo una sonora batosta alle comunali: i 1500 voti delle provinciali<br />

si ridussero ad appena 500!<br />

La famosa licenza aveva funzionato ancora una volta, a danno nostro naturalmente.<br />

Ricordo che ce la prendemmo molto, noi comunisti, con il candidato socialista,<br />

accusato di essersi messo d’accordo sottobanco con i repubblicani -che vinsero le<br />

elezioni comunali- per uno scambio di voti tra provincia e comune: i repubblicani<br />

avrebbero votato alla provincia il candidato socialista, mentre al comune i socialisti<br />

avrebbero votato per la lista della frunnetelle (come veniva chiamata a Orsogna la lista<br />

repubblicana, per via della foglia d’edera che era nel suo simbolo).<br />

E’ difficile dire quanto e se ci fosse qualcosa di vero in questa accusa, con molta<br />

probabilità -come nel ’53, con Paolucci- anche in questa occasione aveva funzionato un<br />

certo trasformismo spontaneo messo in moto e favorito da ragioni anche molto diverse<br />

tra loro: ad esempio, la convinzione presente in settori di opinione pubblica di sinistra<br />

che, contro li macaciuce (vale a dire i democristiani, definiti così forse per assimilazione<br />

agli incappucciati delle confraternite), era più facile che al Comune ce la potessero fare<br />

i repubblicani che già l’amministravano, e non i partiti della sinistra; e in tutto questo<br />

gli intrighi non c’entravano davvero nulla.<br />

Ricordo, quando di queste cose si discuteva nelle nostre riunioni provinciali, che la<br />

spiegazione più gettonata era che a determinare il fenomeno concorresse in maniera<br />

decisiva, assieme al clientelismo, lo scarso spessore dei nostri gruppi dirigenti locali, in<br />

sostanza il PCI si dimostrava più credibile a livello nazionale che non a livello locale.<br />

Dubito che una tale spiegazione fosse fondata, qualcosa di vero c’era sicuramente, più<br />

probabile però è che intervenissero, in zone dell’elettorato, fattori del tutto spontanei<br />

difficilmente controllabili, innescati da motivazioni non sempre comprensibili e<br />

soprattutto in grado di essere arginate, legate a fatti e interessi locali, di singoli o di<br />

gruppi di famiglie, che, in una elezione comunale, hanno sempre un grande peso: non a<br />

caso, del resto, il fenomeno toccava anche il PSI e, in certe circostanze, perfino la DC<br />

che pure disponeva di molte armi di pressione clientelare.<br />

A Orsogna, comunque, la divaricazione tra voto politico e voto amministrativo si è<br />

ripetuta di frequente, in genere a sfavore della sinistra.<br />

D’altra parte, non è un caso che questo fenomeno si sia ripetuto anche nel 1960, quando<br />

candidato per il PCI (non era più tempo di candidature unitarie) al Consiglio provinciale,<br />

nel collegio di Orsogna, ero io.<br />

Anche allora, io presi oltre 700 voti in paese, che tuttavia non furono sufficienti per farmi<br />

eleggere perché nel resto del collegio il risultato non fu altrettanto positivo, mentre al<br />

Comune, dove era presente ancora una volta una lista unitaria di comunisti e socialisti,<br />

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le cose andarono male: molti di quelli che avevano votato per me preferirono votare<br />

per i democristiani che vinsero le elezioni comunali, evidentemente chi ce l’aveva con<br />

l’amministrazione repubblicana uscente (ed erano in tanti) pensò che l’unica possibilità<br />

di cambiare amministrazione era rappresentata dal voto alla lista dc e non alla lista della<br />

sinistra.<br />

In ogni modo, gli strascichi tra i due partiti, provocati dal voto del ’56, si trascinarono<br />

per qualche tempo; e del clima che si era creato il PCI ne trasse anche qualche beneficio,<br />

nel senso che un certo numero di socialisti si spostò verso di noi a causa appunto del<br />

risultato elettorale deludente.<br />

Il rapporto tra socialisti e comunisti, a livello locale, non fu invece molto turbato dalle<br />

notizie che arrivavano da Mosca a proposito della denuncia fatta da Krusciov, nel corso<br />

del XX Congresso del PCUS, dei delitti commessi da Stalin e dei gravi danni provocati<br />

alla società sovietica dallo stalinismo. Che io ricordi, né tra i comunisti e nemmeno tra<br />

i socialisti di Orsogna la cosa fece grande impressione.<br />

Per quanto riguarda il PCI, anzi, in generale la massa degli iscritti e dei gruppi dirigenti<br />

locali, non solo a Orsogna, non cadde affatto in preda a grandi turbamenti.<br />

La coraggiosa iniziativa di Krusciov suscitò piuttosto, più che consenso, stupore e<br />

incredulità e anche polemiche molto aspre, soprattutto alla base, nei confronti del nuovo<br />

capo del Cremlino. E ricordo ancora oggi le cose che si dicevano in sezione a difesa<br />

di Stalin, utilizzando un armamentario ideologico che lo stesso Stalin aveva messo in<br />

circolazione per spiegare e giustifi<strong>care</strong> le scelte tremende compiute nei lunghi anni<br />

del suo potere assoluto e dispotico, che colpirono in primo luogo proprio i comunisti<br />

sovietici.<br />

Quando scoppiarono i moti d’Ungheria, anzi, non furono pochi quelli che addebitarono<br />

proprio a Krusciov, alla sua denuncia degli arbitrii di Stalin e dello stalinismo, la<br />

responsabilità di quei fatti.<br />

In verità, Krusciov avrebbe meritato ben altra accoglienza; e comunque quello che egli<br />

stava facendo era il meno che si potesse fare.<br />

La soffocante realtà dell’Unione sovietica e degli altri paesi socialisti imponevano anzi<br />

che si andasse più a fondo nella ricerca delle ragioni, politiche e teoriche, che avevano<br />

reso possibile lo stalinismo; e non ci si limitasse a una denuncia di tipo tutto sommato<br />

non politico ma moralistico, anche perché solo in questo modo era possibile riprendere<br />

un cammino e imboc<strong>care</strong> con decisione una strada nuova.<br />

Stalin però all’epoca godeva di un grande prestigio internazionale, non solo tra i<br />

comunisti: egli era stato infatti in maniera incontestabile uno dei protagonisti decisivi<br />

della lotta contro il nazismo e della vittoria degli alleati nella seconda guerra mondiale,<br />

aveva trasformato un paese arretrato come la Russia portandola nel novero delle nazioni<br />

moderne e l’URSS per merito suo era assurta al ruolo di grande potenza mondiale.<br />

La leggenda di Stalin era, anzi, penetrata così profondamente nell’animo di grandi<br />

masse popolari, soprattutto degli strati più poveri della popolazione, dei diseredati, che<br />

la sua figura si identificava -nell’immaginario collettivo- con quella del vendicatore dei<br />

torti e delle angherie subìte, perché non era altro che questo il significato della battuta<br />

ricorrente in quegli anni: Addavenì Baffone!<br />

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Del resto, anche il PCI aveva grandemente contribuito a radi<strong>care</strong> tra i ceti popolari<br />

il mito di Stalin, basti pensare alle cose scritte, dette e fatte -da Togliatti al più umile<br />

dirigente di base- in occasione della morte di Stalin, il 6 marzo del 1953!<br />

Il culto di Stalin fu, anzi, coscientemente alimentato, come il mito dell’URSS, per dare<br />

più forza all’idea che la rivoluzione poteva vincere, e avrebbe sconfitto anche i nemici<br />

più accaniti e agguerriti.<br />

Qualche mese fa ho rincontrato in una libreria di Pisa -dove mi trovavo, mie <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>,<br />

assieme alla nonna, per il primo compleanno di Martina- un bel libriccino, che avevo<br />

comprato e letto a suo tempo ma che, non so come, non trovavo più tra i miei libri: si<br />

tratta di un poemetto in versi firmato Anonimo Romano ma il cui vero autore è Maurizio<br />

Ferrara, per tanti anni segretario di Palmiro Togliatti.<br />

Naturalmente, ho ricomprato e riletto il poemetto, con molto diletto debbo dire: non<br />

solo per la godibilità dei versi così pieni di spirito e scritti in un graffiante romanesco<br />

belliano, ma per l’argomento stesso che è al centro della relazzione, quella che appunto<br />

l’Anonimo Romano tiene, nel 1956, davanti agli iscritti al PCI di una sezione romana<br />

su er fatto de Stalin e de Krusciov all’epoca del XX Congresso del PCUS. E, andando<br />

avanti nella lettura, che ti trovo a un certo punto? Questi versi su Stalin, che danno bene<br />

l’idea di che cosa egli rappresentava negli anni ‘50 per i comunisti italiani:<br />

Pe’ noi che d’era Baffo? Un sacramento,<br />

ce serviva a soffià su la passione...<br />

Non c’è quindi affatto da meravigliarsi se la sua figura resse bene, nella coscienza<br />

popolare, alle denunce di Krusciov.<br />

Ovviamente, ciò non toglie nulla alle gravissime responsabilità che pesano su di lui<br />

e che hanno condizionato, in modo profondamente negativo, la storia e la capacità<br />

dell’URSS di reggere alla prova del futuro.<br />

E’ principalmente a Stalin, infatti, che si deve se, dopo la morte di Lenin, il processo di<br />

costruzione del socialismo in Russia assunse caratteri profondamente antidemocratici e<br />

repressivi di ogni forma di libertà, con costi umani e politici elevatissimi.<br />

A guardare oggi all’esito disastroso a cui questo processo è approdato, possiamo anzi<br />

ben dire che fu essenzialmente sua la responsabilità se negli anni del suo potere si<br />

crearono le condizioni di fondo che hanno portato nei decenni successivi prima allo<br />

svuotamento di ogni carica innovativa della rivoluzione d’ottobre e del comunismo<br />

sovietico e quindi, nel 1989, alla dissoluzione dell’URSS e alla fine tragica di un<br />

esperimento politico-ideologico che non ha precedenti nella storia e che pure tante<br />

speranze aveva suscitato tra gli sfruttati di tutto il mondo.<br />

Certo, non tutto è attribuibile a Stalin, molti aspetti del tipo di società e Stato che<br />

emersero sotto la sua direzione si ritrovano già nelle teorie formulate da Lenin, solo<br />

che Lenin dimostrò anche di saper cambiare di fronte alle lezioni della storia come<br />

accadde ad esempio con la Nep, la Nuova Politica Economica, che lasciava spazio al<br />

mercato, all’indomani della conquista del potere; Lenin poi, nonostante le polemiche<br />

violentissime all’interno del gruppo dirigente bolscevico che lo videro più di una<br />

volta in minoranza, non risolse mai i contrasti ricorrendo alla eliminazione fisica degli<br />

avversari, cosa che invece fece sistematicamente Stalin.<br />

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Comunque, quel che in quei giorni prevalse tra i nostri militanti, pur presi dallo sconcerto<br />

per quanto stava accadendo, fu la esigenza di respingere senza tentennamenti l’attacco<br />

scatenato dagli avversari contro il partito, utilizzando le cose dette da Krusciov.<br />

Da questo punto di vista, giocava tra i compagni anche la convinzione, molto diffusa<br />

nel partito e che anch’io sostenevo, che, tutto sommato, i metodi usati da Stalin -pur<br />

essendo sommamente riprovevoli- erano in realtà il frutto di una scelta obbligata per<br />

spezzare, di fronte ad avversari interni ed esterni decisi a tutto, le resistenze opposte<br />

alla trasformazione della vecchia Russia assolutista, come avvenne del resto nel 1793,<br />

quando -per salvare la rivoluzione- Robespierre e Saint Just furono costretti a ricorrere<br />

al terrore e alla ghigliottina!<br />

Questo spiega anche perché, nonostante il XX Congresso, ancora per diversi anni le<br />

opere di Stalin continuarono a essere lette, e io fui tra questi, in primo luogo Le questioni<br />

del leninismo che era l’opera sua più nota e forse anche la più distorcente del pensiero<br />

di Lenin.<br />

C’è una bellissima poesia di Bertolt Brecht, del 1938, significativamente intitolata A<br />

coloro che verranno, che io voglio qui citare perché rende bene questa convinzione<br />

fondamentalmente giustificazionista, assai corrente in quegli anni nelle sezioni: è la<br />

durezza dei tempi, quella stessa denunciata nel Lied dal grande poeta tedesco, a impedire<br />

la gentilezza, a rendere impossibili scelte diverse!<br />

Ma ecco Brecht, nella traduzione di Franco Fortini:<br />

Davvero, vivo in tempi bui!<br />

La parola innocente è stolta. Una fronte distesa<br />

vuol dire insensibilità. Chi ride,<br />

la notizia atroce<br />

non l’ha saputa ancora.<br />

Quali tempi sono questi, quando<br />

un dialogo sugli alberi è quasi un delitto,<br />

perché su troppe stragi comporta silenzio!…<br />

Vorrei anche essere un saggio…<br />

Spogliarsi di violenza,<br />

rendere bene per male.<br />

Non soddisfare i desideri, anzi<br />

dimenticarli, dicono è saggezza.<br />

Tutto questo io non posso:<br />

davvero, vivo in tempi bui!<br />

Nelle città venni al tempo del disordine,<br />

quando la fame regnava.<br />

Tra gli uomini venni al tempo delle rivolte<br />

e mi ribellai assieme a loro…<br />

65


Il mio pane, lo mangiai tra le battaglie.<br />

Per dormire mi stesi in mezzo agli assassini.<br />

Feci all’amore senza badarci<br />

e la natura guardai con impazienza…<br />

Al mio tempo, le strade si perdevano nella palude.<br />

La parola mi tradiva al carnefice.<br />

Poco era in mio potere. Ma i potenti<br />

posavano più sicuri senza di me; o lo speravo…<br />

Ma ecco l’invito rivolto a coloro che verranno:<br />

Voi che sarete emersi dai gorghi<br />

dove fummo travolti<br />

pensate<br />

quando parlate delle nostre debolezze<br />

anche ai tempi bui<br />

cui voi siete scampati.<br />

Andammo noi, più spesso cambiando paese che scarpe,<br />

attraverso le guerre di classe, disperati<br />

quando solo ingiustizia c’era, e nessuna rivolta.<br />

Eppure lo sappiamo:<br />

anche l’odio contro la bassezza<br />

stravolge il viso.<br />

Anche l’ira per l’ingiustizia<br />

fa roca la voce. Oh, noi<br />

che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza,<br />

noi non si poté essere gentili.<br />

Ma voi, quando sarà venuta l’ora<br />

che all’uomo un aiuto sia l’uomo,<br />

pensate a noi<br />

con indulgenza.<br />

Neanche l’esplosione dei fatti d’Ungheria, nell’ottobre, preceduta da una sommossa<br />

operaia in Polonia intorno alla fine di giugno, provocò nel grande corpo degli iscritti<br />

(il PCI superava allora i due milioni, ai quali si aggiungevano i 400 mila aderenti alla<br />

FGCI) conseguenze particolarmente traumatiche dal punto di vista della loro fiducia<br />

nel partito, anche se lo sbigottimento e gli interrogativi sulle cause di avvenimenti così<br />

66


tragici erano molti.<br />

Una crisi seria, che fu però contenuta grazie alla intelligenza e all’abilità di Togliatti e<br />

alle risposte che poi maturarono nell’VIII Congresso nazionale del partito, ci fu invece<br />

nel gruppo dirigente nazionale e soprattutto tra gli intellettuali, con abbandoni anche<br />

clamorosi.<br />

Alla base invece, anche in questa occasione, prevalse -segno a suo modo della grande<br />

vitalità del comunismo italiano- la esigenza di stringersi attorno al partito, difenderlo<br />

dagli attacchi violentissimi cui era sottoposto e tenere ferma la solidarietà con l’Unione<br />

Sovietica vista come il baluardo decisivo per il futuro di ogni processo di trasformazione<br />

dell’Italia e del mondo.<br />

Fu, tutto questo, il frutto di un atteggiamento fideistico? O del fatto che i comunisti italiani<br />

erano inguaribilmente stalinisti, come qualcuno tenta ancora oggi di accreditarli?<br />

Sono sciocchezze, credo che la questione meriti analisi un po’ più attente di quelle<br />

correnti, non prescindendo mai dal concreto contesto storico nel quale i comunisti<br />

agivano.<br />

Le conclusioni alle quali arrivò l’VIII Congresso, che incardinò tutta la strategia<br />

della via italiana al socialismo su “il rispetto, la difesa, l’applicazione integrale<br />

della Costituzione repubblicana”, come si legge nella Dichiarazione programmatica<br />

approvata dal Congresso, affidandone la realizzazione ad “una lotta parlamentare,<br />

politica e di massa che sia sostenuta dagli strati decisivi della popolazione”, sono la<br />

migliore risposta a queste accuse del tutto pretestuose.<br />

Certo, almeno fino a un certo periodo, non sono mancate durezze anche inaccettabili<br />

nella vita interna del partito, ma queste furono un’altra cosa…<br />

Il problema, semmai, è di quanto fu lenta la penetrazione nella base del partito delle<br />

scelte di fondo compiute con l’VIII Congresso, scelte che hanno rappresentato, più che<br />

una svolta, lo sviluppo coerente, reso necessario anche dall’incalzare degli avvenimenti,<br />

di una linea che viene da Gramsci e che era già presente nella impostazione data dai<br />

comunisti alla lotta contro il fascismo e alla Resistenza.<br />

Quello che invece va rimproverato al PCI è piuttosto la reticenza persistente sulla realtà<br />

sovietica e degli altri paesi socialisti, rifiutando su questo aspetto fondamentale una<br />

discussione aperta che avrebbe aiutato, oltre che a capire, anche a dare più forza alla<br />

scelta fatta dai comunisti italiani della via democratica al socialismo.<br />

Questa reticenza fu presente anche nel modo in cui fu affrontata la vicenda ungherese<br />

da parte del gruppo dirigente.<br />

Dovevano passare ancora molti anni, infatti, prima che il PCI riconoscesse l’errore<br />

compiuto nell’avallare l’intervento militare a Budapest e prendesse con nettezza le<br />

distanze da altre scelte aberranti del potere sovietico, con la condanna nel ‘68 della<br />

invasione della Cecoslovacchia decisa da Breznev e dai paesi del Patto di Varsavia,<br />

per stron<strong>care</strong> la rivoluzione democratica guidata dal comunista Dubcek, e, nel ‘79,<br />

dell’invasione dell’Afghanistan.<br />

Ma, detto questo, bisogna anche comprendere bene il clima che si creò, non solo in<br />

Italia ma nel mondo, a seguito degli avvenimenti ungheresi i quali, non lo si dimentichi,<br />

esplodevano in coincidenza con l’occupazione del canale di Suez da parte degli inglesi<br />

e dei francesi e l’attacco da parte degli israeliani all’Egitto di Nasser; e come anche per<br />

67


questa ragione la reazione della base fu innanzitutto di difesa: non era certamente quello<br />

il momento di una discussione aperta su quegli avvenimenti pur così dolorosi e, almeno<br />

per la base del partito, anche inaspettati.<br />

La rivolta d’Ungheria, questo che io ricordi era il giudizio prevalente alla base, era<br />

sicuramente la espressione drammatica di scelte sbagliate, c’era però chi -e la piega<br />

che stavano prendendo gli eventi lo dimostrava ampiamente-, approfittando degli errori<br />

commessi, mestava nel torbido per cer<strong>care</strong> di far andare indietro la storia: bene, questo<br />

qualcuno andava fermato in ogni modo.<br />

In altri termini, la rivolta popolare non era tanto percepita come la spia di un fallimento<br />

quanto piuttosto come la conseguenza, certo di errori, ma soprattutto di un attacco<br />

violento nei confronti della nuova Ungheria da parte delle forze sconfitte con la seconda<br />

guerra mondiale, gli ungheresi infatti si erano schierati con i nazisti durante la guerra e,<br />

all’inizio degli anni ’20, la destra ungherese aveva represso nel sangue la rivoluzione<br />

proletaria guidata da Bela Kun.<br />

Ricordo bene ancora oggi l’angoscia con cui sia io che gli altri compagni abbiamo<br />

vissuto quelle settimane: le preoccupazioni per gli sviluppi possibili della situazione<br />

quando forze potenti premevano in maniera esplicita per sottrarre l’Ungheria al campo<br />

socialista e riconquistare vecchi privilegi (ad esempio, i grandi proprietari fondiari<br />

espropriati e cacciati dal paese), l’orrore per gli ammazzamenti indiscriminati dei quadri<br />

comunisti per le vie di Budapest, i riflessi che la rivolta avrebbe avuto sul futuro del<br />

socialismo...<br />

Contro di noi si era poi scatenata in tutto il Paese, utilizzando ogni arma possibile, una<br />

aggressione di tale violenza e proporzioni, che io non ne ricordo altre simili nei decenni<br />

successivi. I comunisti erano davvero isolati, eravamo proprio rimasti soli a contrastare<br />

l’attacco contro di noi.<br />

Ho ancora oggi negli occhi, ad esempio, le trasmissioni televisive da Budapest di quel<br />

periodo, le guardavo al bar, ed erano trasmissioni agghiaccianti: ogni giorno, vedevamo<br />

apparire sullo schermo, con la sua faccia sorridente e soddisfatta, il famigerato cronista<br />

incaricato dei servizi sulla rivolta, il quale faceva partecipi tutti gli italiani della sua<br />

gioia nel vedere impiccati i comunisti ai lampioni della città!<br />

Questo era il clima che si respirava in quei giorni, c’erano anzi anche manifestazioni<br />

contro il PCI da parte degli studenti, una ce ne fu anche a Chieti, sotto la sede del partito<br />

che allora si trovava a palazzo Tabassi, sul corso Marrucino. Non c’era da stupirsi,<br />

perché, all’epoca, gli studenti erano generalmente di destra o votavano DC ed erano<br />

veramente pochi quelli che sceglievano la sinistra.<br />

Tuttavia i nostri sentimenti, che pure erano di smarrimento e di preoccupazione,<br />

non ci indussero mai, non dico a disertare, ma neppure ad assistere inerti all’attacco<br />

dell’avversario, insomma non ci facemmo prendere dallo scoramento o dalla paura.<br />

Fu questa, anzi, paradossalmente l’occasione per riaprire un dialogo con la gente.<br />

Anche a Orsogna, la nostra reazione fu forte; e il mio contributo fu tutt’altro che<br />

marginale, animato com’ero da uno spirito battagliero e da una determinazione che fino<br />

ad allora non mi conoscevo.<br />

Tra le varie cose che facemmo ci fu anche, su mia proposta, l’invio di un ordine del<br />

giorno discusso e approvato dalla sezione all’ambasciata sovietica di Budapest: in esso<br />

68


non solo esprimevamo solidarietà e consenso all’intervento sovietico in nome della<br />

difesa delle conquiste del socialismo e contro ogni tentativo controrivoluzionario, ma ci<br />

dicemmo anche (udite, udite!) disponibili a dare direttamente una mano, se fosse stato<br />

necessario...!<br />

Mi capitò anche un’altra volta di compiere un gesto simile, all’inizio degli anni ’60,<br />

quando Cuba rischiò l’invasione da parte degli americani.<br />

La rivoluzione cubana esercitava allora sui giovani davvero un grande fascino<br />

tramutatosi, purtroppo, da tempo in una delusione profonda: ebbene, mie <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>,<br />

anche in quella occasione io e un altro compagno scrivemmo all’ambasciata cubana<br />

dichiarandoci pronti a partire per Cuba, e, poiché in quel periodo era in atto nell’isola,<br />

da parte del nuovo potere castrista, la cosiddetta campagna di alfabetizzazione, anche a<br />

questa eravamo naturalmente disposti a dare il nostro apporto!<br />

Eh sì, in gioventù ho avuto anch’io i miei impulsi romantici, era nel mio carattere,<br />

eppure mi è capitato non una sola volta di sentirmi accusare di essere un tipo troppo<br />

controllato e razionale, un’accusa in verità senza senso perché ho sempre considerato<br />

una virtù, non un difetto, la capacità di farsi guidare in ogni circostanza da una visione<br />

razionale…<br />

E poi, perché ci dovrebbe essere un contrasto insanabile tra questo sforzo di autocontrollo<br />

e di autodisciplina, che è solo il frutto di una conquista interiore, e una capacità di slanci<br />

ideali e, appunto, qualche volta romantici? Se ci fosse questo contrasto, avrei fatto<br />

sicuramente scelte diverse nella mia vita.<br />

Ma, tornando alle vicende terribili di quelle settimane, non c’era in noi, comunque<br />

non c’era in me, alcun tentennamento sulla scelta di campo da compiere in una così<br />

drammatica contingenza!<br />

Di quanto stava accadendo si discuteva naturalmente tra la gente, e noi non ci<br />

sottraevamo affatto a questa discussione, così in piazza i capannelli erano frequenti e i<br />

toni diventavano anche assai aspri quando ci si trovava di fronte a persone che stavano<br />

dall’altra parte.<br />

Ricordo che io fui protagonista di uno di questi scontri, mi sembra che fosse di domenica,<br />

sta di fatto che attorno a me e al mio contraddittore si radunò davvero tanta gente che<br />

ascoltava e seguiva con molto interesse le cose che dicevamo.<br />

Il nostro uditorio era formato, in gran parte, da operai e contadini, e il mio avversario non<br />

era neppure un democristiano ma un socialdemocratico (un saragattiano, anzi, come<br />

venivano chiamati allora in Italia i socialdemocratici), animato però da un violento<br />

anticomunismo che non lo ha mai abbandonato neanche in seguito.<br />

Nella singolar tenzone, debbo dire che me la cavai molto brillantemente; grazie a<br />

questo, anzi, il mio credito tra la gente, e anche tra gli avversari, crebbe notevolmente e<br />

non mancai di agghindarmi anche con qualche penna di pavone!<br />

Mi aiutò molto, da questo punto di vista, il fatto che -ormai da tempo- leggevo<br />

regolarmente l’Unità, erano pochi in paese quelli che allora leggevano un giornale tutti<br />

i giorni, e altrettanto accadeva per Rinascita, la rivista mensile di politica e di cultura<br />

fondata da Palmiro Togliatti, potevo così disporre, rispetto agli altri, oltre che di una<br />

informazione accurata sui vari avvenimenti, anche di una visione politica e culturale di<br />

69


un certo respiro che mi consentiva di comprendere meglio e di spiegare anche agli altri<br />

il senso e la natura di ciò che stava accadendo.<br />

La nostra battaglia attorno ai fatti d’Ungheria continuò senza tentennamenti anche nel<br />

momento in cui Krusciov occupò con l’Armata rossa Budapest, che era il cuore della<br />

rivolta, per ristabilire una situazione di normalità.<br />

La reazione della gente non ci era del resto così sfavorevole come si poteva pensare.<br />

Tra le carte del PCI conservate presso l’attuale federazione provinciale dei Democratici di<br />

sinistra, ho ritrovato una mia lettera del 5 novembre 1956, indirizzata all’allora segretario<br />

provinciale del partito, Edoardo Ottaviano, nella quale scrivevo che “a Orsogna…sia i<br />

contadini che gli operai e artigiani non hanno riserve da fare sull’intervento sovietico.<br />

Qualche esitazione c’è fra gli intellettuali, e solo raramente fra gli altri...”.<br />

Negli anni successivi, naturalmente, la mia opinione sulla rivolta ungherese è cambiata.<br />

Grazie innanzitutto all’VIII Congresso del PCI, che ha rappresentato per me un momento<br />

essenziale nella formazione dei miei orientamenti politici di fondo e grazie anche al<br />

dibattito che ci fu nel partito, tra il ‘61 e il ‘62, sulla nuova denuncia da parte di Krusciov<br />

al XXII Congresso del PCUS su Stalin e lo stalinismo. Tuttavia non mi rimprovero<br />

affatto l’impegno profuso in quei giorni così difficili, per difendere le ragioni nelle quali<br />

credevo, assieme a milioni di persone.<br />

E’ vero, in Ungheria era esplosa in maniera violenta, prima che un tentativo<br />

controrivoluzionario che pure era presente, una richiesta di libertà e di democrazia che<br />

andava compresa e alla quale andava data una risposta convincente e nuova, cosa che<br />

non avvenne e sta qui anzi una delle più grandi responsabilità del comunismo sovietico,<br />

è anche vero però che in un mondo così profondamente diviso e pronto ognuno ad<br />

approfittare senza troppi scrupoli degli errori dell’altro non era facile muoversi usando<br />

il fioretto!<br />

La risposta che bisognava dare era quella che poi diede il PCI con l’VIII Congresso, pur<br />

scontando la riconferma del legame speciale con l’URSS.<br />

Ma questa risposta fu possibile anche perché, nel frattempo, eravamo riusciti a fermare<br />

l’attacco avversario e a impedire che parte consistente delle nostre forze venisse<br />

distrutta!<br />

Negli anni che seguirono, il mio apprendistato politico si arricchì di sempre nuove<br />

esperienze, con un ruolo che intanto era anche mutato all’interno della sezione.<br />

Non ricordo più esattamente in che periodo, forse agli inizi del ’57 o già nel ‘56, ero<br />

stato eletto segretario di sezione, mentre prima ero solo membro del Comitato direttivo<br />

nonché corrispondente, per Orsogna, de l’Unità, anche se, in questa veste, non ricordo<br />

di aver scritto alcunché (o forse sì, come mi rammenta proprio in questi giorni un antico<br />

amico democristiano che dice di essersi ritrovato, all’epoca, bersaglio di un mio articolo<br />

intitolato Carnevale in parrocchia?!).<br />

La mia elezione a segretario di sezione è stato il primo passo di un lungo cammino nel<br />

partito, con funzioni dirigenti, che nel corso degli anni mi ha visto ricoprire via via i più<br />

diversi incarichi di lavoro, davvero nessuno escluso, dai più modesti ai più prestigiosi.<br />

Sono stato responsabile di zona, in periodi diversi, prima a Lanciano e poi nel vastese;<br />

ho diretto settori di lavoro, tra i più varii, nella federazione di Chieti e in quella di<br />

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Avezzano; sono stato segretario provinciale dei giovani comunisti e anche membro<br />

del Comitato centrale della FGCI all’inizio degli anni ‘60; ho rivestito la carica<br />

di segretario di federazione, prima a Chieti e poi a Pescara; sono stato responsabile<br />

dell’organizzazione nella segreteria regionale dell’Abruzzo per quasi tutta la seconda<br />

metà degli anni ’70; sono divenuto infine segretario regionale del Molise e membro del<br />

Comitato Centrale del partito.<br />

Per la verità, non ho mai dovuto brigare per avere incarichi; qualche volta, semmai, ho<br />

dovuto darmi da fare per scansarli.<br />

In genere, sono stati sempre gli altri a chiamarmi: da questo punto di vista, anzi, credo<br />

di poter dire che ho sempre avuto dai compagni il riconoscimento, oltre che delle mie<br />

qualità, anche della mia capacità di impegnare sempre, fino in fondo, tutto me stesso<br />

nel lavoro che mi veniva affidato, senza mai tirarmi indietro di fronte alle difficoltà e,<br />

quando c’erano contrasti, cercando sempre di ascoltare tutti pur decidendo alla fine<br />

secondo i miei convincimenti.<br />

Insomma, per dirla in linguaggio aulico, posso vantare un bel cursus honorum, fatto<br />

però, più che di onori, essenzialmente di lavoro e di fatica fisica e intellettuale!<br />

Credo, per esempio, che non sia facile per nessuno percorrere tutti i chilometri che io ho<br />

percorso in oltre quaranta anni di attività (se ci metto anche l’attività che ho continuato<br />

a dare, prima nel PDS e poi nei DS), contare tutte le volte che sono tornato a casa, a ore<br />

molto piccole, da paesi lontanissimi e percorrendo strade allora davvero disagevoli, e<br />

poi le domeniche e tutti gli altri giorni di festa (allora si usava così) passati nelle sezioni<br />

o sulle piazze in comizi, riunioni, ecc.<br />

Accanto al lavoro di partito c’è stato poi quello nelle istituzioni.<br />

Per tantissimi anni sono stato, infatti, consigliere comunale, d’opposizione naturalmente:<br />

prima a Lanciano, per oltre 7 anni, dal ’64 al ’70, poi a Chieti, nel periodo ’70-‘80, quindi<br />

a Pescara, anche se solo per pochi mesi perché mi dimisi appena dopo la mia elezione<br />

a segretario regionale del Molise, infine a Orsogna dove sono stato prima sindaco e poi<br />

consigliere di opposizione: insomma, una specie di globetrotter costretto a macinare per<br />

questo fatica e lavoro!<br />

A conti fatti, anche se la cosa è solo parzialmente veritiera, l’incarico che si è rivelato<br />

per me meno gravoso dal punto di vista fisico è stato quello di parlamentare!<br />

Nel mio nuovo incarico di segretario di sezione, cercai naturalmente di mettermi subito<br />

al lavoro, senza adagiarmi sugli allori; e debbo dire che i risultati non mancarono:<br />

aumento degli iscritti, diffusione domenicale de l’Unità che era allora tra i compiti più<br />

importanti di una sezione e che in precedenza non si faceva, organizzazione di comizi,<br />

riunioni nelle contrade, ecc.: in altre parole, mi diedi da fare seriamente per rendere più<br />

costante e incisivo il ruolo dei comunisti nella vita del paese.<br />

I risultati, qualche anno dopo, arrivarono anche con il raddoppio dei nostri consensi<br />

elettorali, con le elezioni politiche del 1958.<br />

Quelle elezioni erano le prime che si svolgevano in Italia dopo i fatti d’Ungheria,<br />

rappresentavano quindi un appuntamento assai delicato per i comunisti, che mettevano<br />

alla prova anche le scelte fatte con l’VIII Congresso e la via italiana al socialismo.<br />

Esse, inoltre, avevano luogo in una fase nella quale il centrismo, che aveva governato<br />

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fino ad allora l’Italia, era ormai alle sue battute conclusive, ma il centro-sinistra non<br />

riusciva ancora a sbocciare: diventarono così anche il terreno di confronto tra prospettive<br />

politiche diverse che impegnava tutte le forze in campo, compreso il PCI, tenendo conto<br />

che uno degli obiettivi del centro-sinistra, nella strategia dei capi democristiani, era<br />

quello di isolare i comunisti.<br />

Le elezioni, a livello nazionale, andarono bene alla DC e al PSI, che guadagnarono a<br />

spese delle cosiddette forze intermedie e delle destre, ma il PCI tenne con un guadagno<br />

di voti sia pure solo dello 0,1% sul ’53, insomma usciva vincente la prospettiva del<br />

centro-sinistra ma l’indebolimento del PCI non ci fu.<br />

A Orsogna, il risultato fu un po’ diverso: noi raddoppiammo i voti alla Camera rispetto<br />

al ’53 (564 contro 235), mentre al Senato avevamo raggiunto quasi i 450 voti; aveva<br />

perso però molto il PSI che scendeva, alla Camera, dai 1052 voti del ’53 a 678 e i due<br />

partiti assieme avevano addirittura raggranellato una quarantina di voti in meno rispetto<br />

alle precedenti elezioni politiche, mentre la DC recuperava tutti i voti persi nel ’53 e<br />

tornava ad essere il partito più forte!<br />

Tuttavia quelle elezioni non furono importanti per me solo per questo. Fu infatti proprio<br />

in questa occasione che feci i miei primi discorsi in pubblico, da un balcone e con<br />

un microfono davanti: l’emozione era forte, perché in quel momento era come se mi<br />

trovassi solo davanti a un esercito ostile pronto a infilzarti al primo errore, ma non mi<br />

lasciai spaventare...<br />

Tenemmo molti comizi quell’anno, nel corso della campagna elettorale; e fu anche una<br />

campagna, oltre che intensa, brillante. E avemmo a disposizione anche molti oratori.<br />

Tra questi ricordo con particolare simpatia Orialdo Soverini, un emiliano venuto,<br />

credo, da Budrio, in provincia di Bologna, per fare il segretario provinciale della CGIL,<br />

era bravissimo nei comizi con battute fulminanti nei confronti degli avversari che<br />

piacevano tanto alla gente, e così lo facemmo venire addirittura due volte, all’inizio e<br />

alla conclusione della campagna elettorale.<br />

A presentare gli oratori, con brevi interventi, pensavo invece io, come segretario di<br />

sezione; e debbo dire che la cosa fu accolta bene, tanto è vero che, per l’ultima sera di<br />

campagna elettorale, fui invitato dai compagni di Arielli a tenere il comizio di chiusura<br />

nel loro piccolissimo comune, poco più di 800 elettori.<br />

La richiesta mi mise piuttosto in ansia, sarebbe stato un comizio vero e proprio e non<br />

una semplice presentazione, tuttavia accettai.<br />

Mi preparai naturalmente con cura, scrivendo tutto il testo del comizio che poi cercai<br />

di pronunciare senza leggere, le cose stavano andando tutto sommato bene, anche se<br />

quel che dicevo peccava di una certa astrattezza, a un certo punto però mi capitò un<br />

fatto piuttosto singolare, non previsto: il tempo a mia disposizione per il comizio era<br />

ancora parecchio, ma io avevo esaurito gli argomenti che mi ero preparati e non sapevo<br />

come andare avanti. Confesso che mi trovai in grande imbarazzo, anche perché non<br />

utilizzare tutto il tempo che ci era stato assegnato avrebbe significato dare un vantaggio<br />

all’avversario, tenni però duro e così, cercando di arrabattarmi alla meglio, tirai avanti<br />

fino all’ultimo rintocco di orologio!<br />

Tuttavia, in fatto di comizi, mi rifeci ampiamente qualche anno dopo, in occasione delle<br />

elezioni amministrative del 1960.<br />

72


Come ho già ricordato, in quelle elezioni il partito mi candidò al Consiglio provinciale,<br />

per il collegio di Orsogna. E pur se contemporaneamente ero candidato anche a Lanciano,<br />

come capolista al Comune, tuttavia ciò non mi impedì affatto di condurre una vigorosa<br />

campagna elettorale in paese, oltre che negli altri comuni del collegio.<br />

Ricordo che tenni, a Orsogna, addirittura tre o quattro comizi, sempre molto affollati; e,<br />

in più, anche qualche riunione di quartiere e di contrada. E la scelta che compiemmo, sul<br />

piano propagandistico, fu quella di attac<strong>care</strong> senza risparmio di colpi l’Amministrazione<br />

uscente, repubblicana, che si tirava dietro un lungo strascico di malcontenti, senza<br />

graziare per questo la DC che tuttavia si avvantaggiò del nostro attacco.<br />

Il clima nel corso della campagna elettorale si fece davvero rovente; e ci furono scambi<br />

molto duri da una parte e dall’altra. Il fatto, poi, che io martellassi con forza ed efficacia<br />

gli avversari portò non solo gli orsognesi ma anche molti dei paesi vicini a non perdersi<br />

un comizio, così anche in questa occasione tantissima gente si spostava da un lato<br />

all’altro della grande piazza.<br />

A fare spettacolo erano soprattutto le donne, molte delle quali si portavano dietro la<br />

sediolina per assistere sedute ai comizi della serata: di solito si raccoglievano tutte sul<br />

largo marciapiede che si trova a fianco della chiesa di S. Rocco e di lì si godevano fino<br />

alla fine lo scontro, con tanto di rilancio reciproco di cortesie, fra i duellanti.<br />

La campagna elettorale del ’60 è tra quelle che più mi è rimasta viva nella memoria,<br />

anche in una serie di particolari. E non solo per la intensità che la caratterizzò, ma anche<br />

per il fatto che mai tanto calore ho sentito attorno a me.<br />

Sono stato candidato anche altre volte a Orsogna, ancora nel ’64 per la provincia e<br />

poi nel 1985 e nel 1990 per il Comune, un calore simile però l’ho ritrovato solo nelle<br />

elezioni comunali del 1985, quando fui eletto sindaco, e poi nel 1983 e nel 1987, in<br />

occasione delle mie due candidature al Parlamento.<br />

Ricordo ancora i mazzi di fiori che mi portava, alla fine di ogni comizio, una vecchia<br />

compagna, la Scucchie, questo era il suo soprannome, che non aveva paura di nulla<br />

e faceva campagna elettorale per cento persone; come ricordo anche il lungo corteo<br />

festoso di compagni e simpatizzanti che si formava dietro di me quando scendevo dal<br />

balcone dove avevo parlato…<br />

Il ’58 fu anche l’anno nel quale partecipai, presso la scuola centrale del PCI, al corso di<br />

formazione politica, della durata di tre mesi, al quale ho già fatto cenno.<br />

Il corso, se ben rammento, si svolse prima delle elezioni politiche. Nelle fotografie fatte<br />

alla scuola, abbiamo tutti il pullover o la giacca, è probabile quindi che fosse tra la fine<br />

dell’inverno e gli inizi della primavera.<br />

La scuola aveva sede alle Frattocchie, una località non molto distante da Roma, ed era<br />

ospitata in una grande villa (allora di proprietà del PCI, oggi credo che sia stata venduta)<br />

che s’incontra lungo l’Appia, sulla sinistra andando verso Napoli, qualche chilometro<br />

dopo il bivio che porta a Castelgandolfo e prima di Albano. Era tutta immersa nel verde<br />

e circondata dai vigneti che risalgono il pendio della collina ai cui piedi la villa era stata<br />

costruita, insomma un posto bellissimo dove si stava proprio bene.<br />

Era dotata tra l’altro di tutti i servizi, oltre che di una ben fornita biblioteca e delle aule per<br />

le lezioni, e poteva accogliere all’incirca una cinquantina di persone, infatti nel periodo<br />

73


in cui anch’io fui ospite della villa vi si svolgevano contemporaneamente due corsi: uno,<br />

per i più giovani, appunto di tre mesi, e l’altro, per dirigenti periferici già con una certa<br />

esperienza, di otto mesi.<br />

La nostra vita si svolgeva tutta dentro la grande villa, era come stare in un college dove<br />

non solo si dormiva, in camerette che potevano alloggiare ognuna due persone, ma si<br />

mangiava, c’era il bar, si poteva gio<strong>care</strong> a biliardo, a scacchi e naturalmente a carte,<br />

e c’era poi un bel giardino, non grande ma dove era comunque possibile fare brevi<br />

passeggiate.<br />

La nostra giornata era prevalentemente votata allo studio.<br />

In genere le lezioni, che di solito si concludevano con domande ai nostri insegnanti o<br />

l’avvio di una prima discussione sull’argomento affrontato, c’erano la mattina, mentre<br />

il pomeriggio, fino all’ora di cena, eravamo impegnati nello studio individuale; dopo la<br />

cena, invece, passavamo il nostro tempo o a gio<strong>care</strong> o a guardare la TV, solo ogni tanto<br />

accadeva che facessimo una scappata ad Albano, una sola volta ricordo che siamo andati<br />

a Roma: i pochi soldi che ci erano stati dati dalle rispettive federazioni di provenienza<br />

non ci consentivano certamente di darci alla bella vita!<br />

Le lezioni erano tenute normalmente da Luciano Gruppi che dirigeva il corso, ma per<br />

certe lezioni venivano appositamente da Roma dirigenti nazionali del partito (ricordo,<br />

tra questi, in particolare Giorgio Amendola); e avevano al centro fondamentalmente<br />

i documenti programmatici dell’VIII Congresso, anche se contemporaneamente<br />

larghissimo spazio era riservato ad aspetti essenziali del pensiero gramsciano, in primo<br />

luogo il concetto di egemonia, e alla storia d’Italia, in particolare al Risorgimento riletto<br />

attraverso la interpretazione che ne aveva dato Gramsci, cosa che rappresentò per me<br />

una vera novità.<br />

Da questo punto di vista, debbo dire che i tre mesi trascorsi alle Frattocchie mi sono stati<br />

di grande aiuto e di stimolo a scoprire nuovi orizzonti, soprattutto mi hanno pungolato<br />

a conoscere ed approfondire un pensiero come quello di Antonio Gramsci che rimane<br />

ancora oggi un punto di riferimento essenziale per la comprensione dei processi che<br />

hanno portato alla formazione dello Stato unitario e delle sue classi dirigenti e che,<br />

anche sotto altri profili, conserva tuttora a mio modesto avviso una grande attualità.<br />

Ma anche per altre ragioni i giorni passati nel verde delle Frattocchie sono stati<br />

interessanti e, debbo aggiungere, anche piacevoli.<br />

Era la prima volta che venivo a contatto con ragazzi, più o meno della mia età, provenienti<br />

da ogni parte d’Italia, e ciò mi offrì la possibilità di confrontarmi con esperienze e punti<br />

di vista anche molto diversi tra loro, oltre che di stringere amicizie che ricordo con<br />

piacere, anche se si è trattato di amicizie assai labili, durate poco più di una stagione<br />

e fatalmente annegate, col passare degli anni, nell’oblio più completo, infatti dei miei<br />

compagni di corso solo qualcuno ho avuto modo di rincontrare, una o due volte, in<br />

seguito.<br />

Di quel mio soggiorno vi è poi un avvenimento assai particolare, che più di altri<br />

ovviamente è rimasto impresso nella memoria: parlo dell’incontro con Palmiro Togliatti<br />

che per noi giovani era una figura mitica, per me tra l’altro era la prima volta, e rimase<br />

anche l’unica, che mi capitava di trovarmi faccia a faccia niente meno che con il capo<br />

del PCI che sembrava così inavvicinabile!<br />

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Togliatti in quel periodo era venuto a passare un po’ di giorni in una villa, dove usava<br />

recarsi spesso, che si trovava proprio a ridosso della scuola, forse a meno di cento<br />

metri.<br />

La villa, di proprietà anch’essa del PCI, era assai più modesta di quella che ospitava<br />

la scuola ma ugualmente accogliente e riposante, e veniva utilizzata, oltre che per il<br />

soggiorno di delegazioni straniere di particolare rango, da Togliatti e da altre personalità<br />

del partito per ragioni di studio o di riposo.<br />

Un tale uso della villa cessò solo nella seconda metà degli anni ’70, quando anch’essa<br />

venne trasformata in scuola di formazione politica, a disposizione dei Comitati regionali<br />

che vi potevano organizzare propri corsi. E fu proprio per questa circostanza che io ebbi<br />

modo di entrarvi, per la prima volta, tra il ’77 e il ’78, quando anche il nostro Comitato<br />

regionale vi organizzò un corso riservato alle compagne alle quali io tenni una lezione<br />

sulla formazione del gruppo dirigente abruzzese del PCI, il cui testo conservo ancora.<br />

La presenza di Togliatti nella villa in quelle settimane era nota anche a noi, ma nessuno<br />

pensava che lo potessimo incontrare, invece un bel giorno egli venne a trovarci e ci<br />

rivolse anche qualche parola di cortesia chiedendoci notizie sui nostri studi e sul nostro<br />

soggiorno nella scuola: lascio immaginare la nostra emozione e poi tutti che ci demmo<br />

da fare, per la foto di rito in bianco e nero, per stargli il più vicino possibile, io sono<br />

proprio lì dietro a Togliatti, si vede la mia testa che spunta accanto alla sua...!<br />

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CAPITOlO IV<br />

Dopo l’incontro con il PCI, la mia vita non si esaurì naturalmente tutta nella militanza<br />

politica: intanto perché ero impegnato con la scuola, e poi perché, a quell’età, si pensa<br />

anche a tante altre cose, diverse dalla politica.<br />

Mi animavano inoltre anche passioni, che ho coltivato sin dagli anni del seminario,<br />

quali la letteratura e la poesia soprattutto, e che ho continuato a frequentare, in maniera<br />

particolarmente intensa, anche dopo la scoperta della politica.<br />

Sotto questo aspetto, l’impegno politico non ha mai rappresentato un ostacolo.<br />

L’una passione ha sempre marciato accanto all’altra, quasi fossero due mondi distinti<br />

che non s’incontravano ma neppure si intralciavano a vicenda: l’uno era il mondo<br />

delle sensazioni e dei sogni, tutto privato, l’altro quello del mio rapporto col mondo<br />

degli uomini e con la necessità della sua trasformazione, né l’uno era la proiezione<br />

dell’altro, chissà forse c’era in questo (o meglio: avrebbe potuto esserci) una qualche<br />

contraddizione ma io non l’ho mai avvertito.<br />

Qualche giorno fa mi sono messo a rovistare tra le carte di quegli anni che si trovano<br />

ancora raccolte, un po’ alla rinfusa, in uno scatolone non grande, e che sono sempre<br />

riuscito, nonostante i tanti traslochi cui sono stato obbligato, anche da città a città, a<br />

evitare che andassero disperse.<br />

Ho sempre pensato infatti che non disperdere le tante carte che ho via via ricoperto<br />

d’inchiostro nel tempo fosse, anche questo, un modo per lasciare almeno una piccola<br />

traccia di te a chi ti segue nell’incessante cammino della vita, c’è poi da dire che, quando<br />

hai voglia di riguardare fatti e avvenimenti che ti hanno coinvolto in prima persona, li<br />

puoi rileggere meglio se non sei costretto a ricorrere agli altri, puoi anzi farlo quasi con<br />

lo stesso occhio con il quale li hai già visti e vissuti una volta.<br />

Ho trovato di tutto: fotografie, lettere, appunti vari (solo qualcuno di natura politica),<br />

abbozzi di racconti, perfino un diario che poi non era un diario ma una sorta di mio<br />

piccolo zibaldone segreto al quale ho confidato per alcuni anni le mie riflessioni sulla<br />

vita, i miei innamoramenti, i miei sogni, le mie delusioni e anche il contrasto che si<br />

agitava dentro di me tra il desiderio romantico di una vita scandita dal sogno e tutta<br />

vissuta in una dimensione letteraria e poetica e la esigenza morale di non fare da<br />

spettatore rispetto a ciò che accadeva nel mondo.<br />

Ho ritrovato perfino un saggio su R. Tagore, il grande poeta indiano che amavo allora<br />

molto e che avevo cominciato a leggere nelle edizioni Carabba ora introvabili, e poi<br />

i testi di tante poesie composte da me, molte cancellate, altre corrette e ricorrette:<br />

insomma un mare di cose che sono stati come tanti lampi di flash su un periodo della<br />

mia vita molto intenso e ricco, attraversato da sogni, amori, amicizie, giornate luminose<br />

e giornate buie che sono là e alle quali ora posso solo guardare con l’occhio della<br />

nostalgia, ma anche con la consapevolezza che quegli anni così lontani sono stati anche<br />

gli anni della faticosa ricerca di me stesso: come recita un mio verso di allora, erra a<br />

lungo l’uomo nella ricerca di se stesso...!<br />

Tra quelle tante pagine ingiallite, c’è anche un foglio volante con l’inizio di una poesia<br />

poi mai completata, che rende bene il senso di questa nostalgia che è la nostalgia della<br />

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mia giovinezza:<br />

Ora, anche il crisantemo è sfiorito;<br />

e della nostra giovinezza<br />

non restano che questi<br />

pochi fogli ingialliti<br />

che una volta parlavano d’amore.<br />

Di te, di me…<br />

Ho scritto poesie sin dagli anni delle medie, in seminario, e ho continuato a scriverne<br />

fino all’inizio degli anni ’60, credo che l’ultima porti la data del ’63, poi ho smesso<br />

preso da altre esigenze.<br />

La gran parte di esse ha fatto naturalmente la fine che meritavano, ne ho conservate<br />

tuttavia un certo numero che forse, <strong>care</strong> Valentina e Benedetta e <strong>care</strong> Elisa e Martina,<br />

trascriverò a margine di questi ricordi a ruota libera, qualcuna di esse mi pare ancora<br />

oggi non disprezzabile se non addirittura bella, non le ha lette finora mai nessuno, ma<br />

voi sì, le potete leggere, così potrete conoscere proprio bene il nonno e il suo mondo di<br />

tantissimo tempo fa.<br />

Con l’avvio del nuovo anno scolastico, nell’autunno del 1952, iniziai a frequentare<br />

la seconda classe del liceo classico di Lanciano. La sede che l’ospitava, un vecchio<br />

palazzo che si trova proprio sul Corso, oggi è chiusa e fa piuttosto pena a guardarla per<br />

quanto è malridotta, abbandonata a se stessa ormai da molti anni.<br />

Per accedervi, dovetti naturalmente sostenere, come privatista, gli esami di passaggio<br />

dal primo al secondo liceo, il seminario infatti era a tutti gli effetti un istituto privato<br />

(ricordo che anche a conclusione del quinto ginnasio dovemmo sottoporci a un esame<br />

analogo, che si svolse in un istituto scolastico di Vasto, con una commissione esterna).<br />

Le cose andarono bene, salvo che per la matematica.<br />

Non ho mai amato la matematica, così non mi sono mai impegnato seriamente a studiarla<br />

e soprattutto a capirla (forse la colpa è stata anche dei miei insegnanti che non me<br />

l’hanno mai fatta né amare né capire), all’epoca tra l’altro per chi seguiva studi classici<br />

la matematica aveva un valore del tutto secondario.<br />

Così, fui bocciato appunto in matematica e durante l’estate dovetti fare anche delle<br />

ripetizioni per affrontare gli esami di riparazione.<br />

Non è però che imparassi molto di più di quello che sapevo, tuttavia a ottobre me la<br />

cavai ugualmente grazie anche, o forse soprattutto, al sostegno strenuo che ricevetti<br />

dalla professoressa di italiano che poi ebbi come insegnante nei due anni di liceo.<br />

Raccontata così, sembra che la continuazione degli studi da parte mia, dopo l’uscita dal<br />

seminario, sia stato un fatto del tutto scontato, in realtà non fu così.<br />

Fu, al contrario, il risultato molto sofferto di uno scontro anche aspro con mio padre,<br />

il quale, da questo punto di vista, continuava a pensarla alla vecchia maniera: venuto<br />

meno il seminario, non essendoci i soldi necessari per mantenere un figlio agli studi,<br />

cosa fa il figlio di un contadino povero? Fa quello che hanno sempre fatto i figli dei<br />

contadini poveri, e cioè fa il contadino anche lui, al massimo emigra!<br />

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La mia opinione invece era molto diversa. Continuare gli studi era, per me, assolutamente<br />

fuori discussione.<br />

Iniziò così un braccio di ferro con mio padre che durò diverso tempo, intanto mi<br />

preparavo agli esami, ma alla fine fui io che la spuntai, grazie anche a mia madre che<br />

è sempre stata più attenta alle mie aspirazioni e ai miei interessi e ha cercato sempre di<br />

darmi una mano, qualche volta anche di nascosto da mio padre.<br />

Questa non fu l’unica volta che mi scontrai con mio padre: non solo la pensavamo in<br />

maniera diversa su tante cose ma, essendo tutti e due molto ostinati nelle proprie idee e<br />

anche sufficientemente orgogliosi ognuno di proprio, le occasioni di conflitto era quasi<br />

naturale che si presentassero spesso.<br />

Per questa ragione, le ho anche prese spesso.<br />

Lui usava lu cintrine per domare la mia ostinazione e la mia indipendenza, ‘nci mitte<br />

proprie judizie mi ripeteva, anche se all’epoca non era per nulla il solo a servirsi di<br />

metodi tanto duri. Anche a scuola i maestri usavano volentieri e spesso nodose e pesanti<br />

ferule o ti mettevano in ginocchio dietro la lavagna con i ceci sotto le ginocchia, e non è<br />

che i genitori protestassero per questo, la convinzione diffusa (e chissà che non avessero<br />

anche un po’ di ragione) era che mazze e panelle fanne li fijje bbelle!<br />

Ne ricordo parecchi di questi scontri. Uno addirittura quando avevo intorno ai dieci anni<br />

e frequentavo ancora la quinta elementare.<br />

Dalla fine della guerra era passato ormai un anno o poco più e a Orsogna la vita si andava<br />

normalizzando. E tra i segni di questo ritorno alla normalità c’era anche l’apertura in un<br />

grande cortile recintato da mura di un cinema all’aperto che restò in piedi per qualche<br />

decennio, fino alla inaugurazione del nuovo cinema nel vecchio teatro comunale.<br />

Il cinema allora richiamava sempre una grande folla, e tutti, anche i ragazzini, cercavano<br />

in ogni modo di non man<strong>care</strong> lo spettacolo.<br />

Anch’io, ovviamente, avevo una grande voglia di andare al cinema, e così mi diedi da<br />

fare per soddisfare questo mio desiderio: data l’età, non pagavo neppure il biglietto,<br />

c’era bisogno però di un adulto che mi accompagnasse, ma nessuno dei miei andava<br />

mai al cinema.<br />

Finalmente però un bel giorno il mio sogno si avverò.<br />

Tra i miei compagni di scuola, all’ultimo anno delle elementari, c’era il figlio di un<br />

commerciante di Orsogna, Filippo, con il quale sono rimasto amico per molti anni,<br />

finché almeno abbiamo avuto l’opportunità di vederci.<br />

Egli andava al cinema con i genitori tutti i sabato sera, e io per questo lo invidiavo<br />

proprio. Anzi, glielo dissi pure, lui evidentemente ne parlò con i suoi e così un giorno<br />

mi annunciò che, se volevo, potevo andare con lui.<br />

Io naturalmente ne fui molto contento e, senza pensarci troppo, il sabato sera successivo<br />

mi feci trovare puntuale davanti al cinema: così entrai con lui, accompagnato dai suoi<br />

genitori, a godermi lo spettacolo.<br />

Quando il film finì, era ormai passata la mezzanotte; e io, manco a dirlo, mi precipitai<br />

subito verso casa, allora abitavamo ancora in paese: ma con mia grande sorpresa trovai<br />

la porta di casa sbarrata dall’interno, mio padre che non voleva che andassi al cinema<br />

mi aveva chiuso fuori!<br />

Bussai naturalmente, ma non si affacciò nessuno, non mi rimase perciò altro che tentare<br />

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di scalare -cosa che non mi fu difficile- la parete di casa e arrivare al balcone del primo<br />

piano, e quando vi saltai dentro, poiché era chiusa anche la finestra, mettermi a dormire<br />

lì, sul pavimento, per fortuna era estate e faceva caldo.<br />

La mattina dopo, all’alba, ci pensò mio padre a svegliarmi con la solita cinta!<br />

Un fatto analogo mi capitò, sempre d’estate, quando avevo già intorno ai diciannovevent’anni,<br />

allora abitavamo in campagna, finii però questa volta con l’andare a dormire<br />

su un albero di fico, anche perché non c’erano balconi nella nuova casa e a terra non era<br />

proprio il caso, c’era troppa umidità.<br />

Il treno che ci portava a scuola, a Lanciano, era quello che tante volte avevo visto<br />

passare, quand’ero ancora bambino, dalla casa di campagna dove mio padre fu colto<br />

dallo scoppio della guerra, la masseria di Sacchedimbrujie (il significato è chiaro, non<br />

c’è bisogno di spiegarlo, ma non ne conosco l’origine); e ha sempre avuto il nome<br />

con il quale tutti lo conoscevamo: la Sangritana, anche se in realtà questo era il nome<br />

della società che gestiva in concessione, per conto dello Stato, quella linea ferroviaria a<br />

carattere locale, a trazione elettrica ed a scartamento ridotto.<br />

Il nostro treno partiva tutte le mattine da Ortona e correva a fianco della statale Marrucina<br />

fino a Melone, una contrada di Guardiagrele, ai confini con Orsogna, dove svoltava in<br />

direzione di Lanciano, raccogliendo una grande folla di studenti lungo il percorso e<br />

collegando tutti i paesini dell’interno con i due centri maggiori della zona: appunto<br />

Lanciano e Ortona, all’epoca infatti non c’erano altri collegamenti e l’unica corriera che<br />

partiva da Orsogna portava a Chieti passando per Tollo.<br />

Oggi la Sangritana -dopo molti salvataggi, di qualcuno dei quali mi sono anch’io<br />

interessato quand’ero parlamentare: ma i suoi bilanci erano sempre in rosso- è passata<br />

alla regione e continua a funzionare solo per il tratto Lanciano-S. Vito, per il resto<br />

la sede ferroviaria è ormai invasa da un’erba folta e i binari vengono mangiati dalla<br />

ruggine.<br />

Anch’io naturalmente mi imbarcavo ogni mattina sulla Sangritana, ma dovevo<br />

muovermi in fretta da casa per arrivare a tempo alla stazione se il treno, che riprendeva,<br />

da Orsogna, la sua corsa verso Lanciano intorno alle sei e mezza-sette, non volevo<br />

soltanto vederlo passare. Così, tutti i santi giorni, finché non arrivavano le vacanze, ero<br />

costretto ad alzarmi la mattina intorno alle cinque (e, l’inverno, a quell’ora non solo era<br />

buio pesto ma faceva anche un freddo cane) e a fare a piedi, a passo di bersagliere, con<br />

il borsone dei libri in una mano, una bella camminata di quasi tre chilometri: abitavamo<br />

allora in campagna, a Colle S. Giacomo, dove i miei si erano trasferiti qualche anno<br />

dopo il mio ingresso in seminario.<br />

Ricordo che eravamo ogni mattina una bella e chiassosa frotta di ragazze e ragazzi. Tutti<br />

con i visi ancora un po’ insonnoliti quando ci incontravamo alla stazione, appena saliti<br />

però sul treno, nei vagoni si sentivano solo le nostre chiacchiere e le nostre risate.<br />

Erano in molti adesso che mandavano i figli (e anche le figlie) a scuola, a conquistare un<br />

diploma, segno tangibile non solo di un grande passo avanti per tanti nella scala sociale<br />

e nel costume ma anche delle nuove possibilità che si aprivano ai giovani di accedere<br />

a un lavoro leggero, come si diceva allora, e cioè non duro e a volte massacrante come<br />

quello dei padri, preferibilmente alle dipendenze dello Stato o del Comune.<br />

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La quasi totalità delle ragazze frequentava le magistrali, i ragazzi invece le scuole<br />

tecniche.<br />

A frequentare il liceo eravamo invece solo in tre: io, Filippo (sì, proprio quello che mi<br />

aveva dato la possibilità di andare per la prima volta al cinema) e Giovanni, il figlio di<br />

un macellaio, che poi, preso il diploma, si iscrisse all’Accademia Militare e non lo vidi<br />

più. Pur frequentando la stessa classe, ci avevano però assegnati a sezioni diverse, e così<br />

non ci si vedeva molto tra di noi; ma, mentre con Filippo funzionava ancora la vecchia<br />

amicizia, con Giovanni invece non ci fu mai un grande feeling.<br />

Tornavamo da Lanciano in genere intorno alle due del pomeriggio. Dalla stazione allora<br />

era tutto uno sciamare chiassoso di ragazze e ragazzi che si riversavano sul lungo viale<br />

che ci portava fino in piazza, poi ognuno imboccava la direzione di casa.<br />

A noi del liceo non era però sempre possibile tornare assieme agli altri.<br />

Due o tre volte la settimana infatti uscivamo all’una e mezza da scuola, quando ormai il<br />

nostro treno aveva già preso il largo, e dovevamo perciò attendere la corsa successiva.<br />

Un’attesa di oltre due ore, assai stressante per chi, come noi, aveva iniziato di primo<br />

mattino la giornata e saremmo arrivati a casa non prima delle cinque: d’inverno, era<br />

già quasi buio e i compiti per l’indomani bisognava comunque prepararli, per giunta<br />

(almeno per me) a lume di carburo perché ancora in quegli anni da noi, nelle campagne,<br />

non c’era la luce elettrica...<br />

Ma c’era poco da lamentarsi. E così, dopo aver mangiato la nostra stozza, e cioè il panino<br />

abbondante portato da casa, per rinfran<strong>care</strong> le nostre forze, consumavamo l’attesa in<br />

chiacchiere, passeggiando o stravaccati su qualcuno dei tanti sedili disseminati tra i<br />

viali e le aiuole che si trovano ancora oggi attorno alla stazione di Lanciano.<br />

Il momento migliore per noi ragazzi era il viaggio che durava quasi un’ora (un po’ di<br />

più all’andata, perché c’era la salita di Castelfrentano): il trenino si fermava a ogni<br />

paese e imbarcava (o buttava fuori) via via altri ragazzi, quando poi affrontava le salite<br />

cominciava a sbuffare e rallentava, in ogni modo c’era per noi tutto il tempo per ripassare<br />

una lezione, chiacchierare del più e del meno, corteggiare una ragazza…<br />

In genere, sul treno ci si ritrovava sempre con lo stesso gruppo, quindi era normale<br />

che nel corso dell’anno si intrecciassero storie, magari assai fragili e di breve durata;<br />

qualche volta si cambiava gruppo ma era un’eccezione, in ogni modo ci si conosceva<br />

tutti e i rapporti tra noi erano molto liberi, parlo soprattutto del rapporto tra ragazze e<br />

ragazzi.<br />

Da questo punto di vista, la situazione era davvero curiosa, nel senso che quando si<br />

scendeva dal treno ognuno era costretto a riprendere il suo posto, tornando all’antico:<br />

le ragazze con le ragazze, i ragazzi con i ragazzi e quando ci si incontrava per le vie<br />

del paese ci lanciavamo sguardi intensi e ammiccanti ma non ci si fermava neppure a<br />

parlare, così voleva la morale dell’epoca!<br />

Ma era già uno straordinario passo avanti.<br />

Prima della guerra infatti era peggio.<br />

C’era addirittura chi praticava ancora, per prendere in moglie la ragazza che gli piaceva,<br />

il rito del rapimento sia pure soltanto simbolico: era sufficiente scoprire, davanti alla<br />

gente, la testa della ragazza agognata impossessandosi di lu fazzole, la pezzola di stoffa<br />

colorata che la copriva. A quel punto la ragazza era considerata da tutti come rapita e<br />

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perciò compromessa, e difficilmente qualcuno si sarebbe fatto avanti per sposarla. J’à<br />

levate lu fazzole, non c’era proprio rimedio! Anche se bisogna dire che, almeno negli<br />

anni prima della guerra, il rapimento era diventato in realtà (e forse era sempre stato)<br />

solo ammuina: la sceneggiata si rendeva necessaria soprattutto per superare d’un balzo<br />

divieti familiari, quando i ragazzi erano già d’accordo tra loro; o, più spesso, per evitare<br />

di spendere in vestiti e pranzi quel che molti non possedevano.<br />

Tra le rapite per amore c’è stata anche mia zia Linuccia; e ancora oggi essa racconta con<br />

orgoglio come il marito, lo zio Giuseppe, le togliesse lu fazzole, così la madre di lei non<br />

poté più opporsi alle nozze della figlia.<br />

Le cose a scuola andavano bene.<br />

Io ero stato aggregato alla sezione C, mentre la crema della Lanciano bene era tutta<br />

nella A e, in mezzo, c’erano quelli della B.<br />

La nostra sezione, insomma, si collocava all’ultimo gradino della scala sociale scolastica<br />

e raccoglieva, oltre agli ultimi arrivati come me, i ripetenti e quasi tutti quelli che<br />

venivano da fuori Lanciano.<br />

Ciononostante, non eravamo affatto gli ultimi sul piano delle capacità e del profitto.<br />

C’erano naturalmente anche tra di noi alcuni ragazzi un po’ duri di comprendonio, ma<br />

nel complesso eravamo una buona classe che diede una positiva prova di sé in diverse<br />

occasioni.<br />

Ricordo, ad esempio, quando alcuni dei nostri si diedero da fare per mettere in piedi<br />

una iniziativa abbastanza inusuale all’epoca come la pubblicazione di un giornalino di<br />

contenuto non goliardico, al quale anch’io collaborai pubblicando sull’unico numero un<br />

mio racconto dedicato, guarda caso, a una ragazza con la quale viaggiavo tutti i giorni<br />

e che mi piaceva molto.<br />

Anche agli esami di terza liceo le cose andarono discretamente per noi; io poi, pur<br />

essendo della C, non solo aiutai ragazzi delle altre sezioni per i compiti di latino e greco<br />

ma fui tra quelli che ebbero il risultato migliore di tutta la scuola per le materie letterarie<br />

e il mio tema di italiano fu addirittura inviato al Ministero, assieme ai migliori temi<br />

degli altri licei d’Italia.<br />

Insomma, ce la cavammo con onore!<br />

Molti dei miei compagni di scuola li ho persi ovviamente di vista dopo il liceo. Tuttavia,<br />

con alcuni di essi, lancianesi, ho mantenuto anche in seguito dei rapporti sia pure saltuari,<br />

anche perché nel periodo che sono stato a Lanciano come responsabile di zona del<br />

partito e poi, fino al 1970, come consigliere comunale mi accadeva spesso di incontrarli.<br />

Qualche altro invece l’ho risentito solo molti decenni dopo: uno di questi è Basilio<br />

che avevo avuto come compagno di classe e di camerata in seminario, fino al quinto<br />

ginnasio, ed ebbi poi, un paio d’anni dopo, compagno di classe al liceo, a Lanciano.<br />

Con Basilio ci siamo ritrovati un giorno del 1994, era intorno alla metà di agosto,<br />

attraverso una lettera che mi vidi arrivare del tutto inaspettatamente e nella quale egli<br />

proponeva un incontro conviviale tra tutti quelli che avevano conseguito la licenza<br />

liceale nel lontanissimo 1954.<br />

Io gli feci subito sapere di essere d’accordo, tuttavia l’iniziativa non andò in porto: forse<br />

fu giusto così perché a quarant’anni di distanza si confrontano, non più le speranze,<br />

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ma gli esiti, non sempre soddisfacenti (a volte, anzi, c’è proprio da piangere...), del<br />

percorso compiuto da ciascuno.<br />

Quando ci sentimmo per telefono, ci ripromettemmo anche un incontro in tempi brevi,<br />

ma la cosa rimase lettera morta per parecchi anni. Finalmente però, un bel giorno,<br />

l’incontro quagliò e ci demmo appuntamento a Pescara.<br />

Debbo dire che fui molto contento di rivedere il mio antico amico: negli anni del<br />

seminario, ma anche ai tempi del liceo, c’era sempre stato un buon rapporto tra noi.<br />

Ricordo, quando eravamo ancora ragazzini e muovevamo assieme, tra le mura del<br />

seminario, i primi passi sulla via dello studio e della vita, la sua vivacità e la sua allegria;<br />

e come amava scherzare, ogni occasione era buona, mettendoci in questo sempre un<br />

pizzico di ironia e a volte, se così si può definire una certa sua scanzonata strafottenza<br />

nel rapporto con gli altri, anche di cinismo. Né, bisogna dire, gli faceva difetto il gusto<br />

della battuta goliardica.<br />

Ricordo anche che durante gli anni del seminario discutevamo spesso tra noi, a volte<br />

anche animatamente. Qualche volta, invece, ci scontravamo solo per gioco, quasi a<br />

misurare davanti ai compagni le rispettive capacità dialettiche. Come quando, una sera,<br />

dopo cena -eravamo già tornati in camerata e ci stavamo godendo l’ultima ricreazione<br />

della giornata prima che scoccasse l’ora del silenzio e del tutti a letto- ci sfidammo sul<br />

comunismo (dovevamo essere già grandicelli e conoscere qualcosa di più del mondo<br />

esterno): io, le strane coincidenze della vita!, a sostenerne le ragioni, che non conoscevo<br />

affatto; e lui, che ne sapeva quanto me, a contrastarle!<br />

Quando ci siamo rivisti a Pescara, erano passati quasi cinquant’anni dai tempi del<br />

liceo.<br />

Ma non ci fu alcun imbarazzo né da parte mia né da parte sua, ricominciammo a<br />

chiacchierare come se ci fossimo lasciati il giorno prima. E sicuramente, almeno per<br />

quanto mi riguardava, a questo contribuì l’impressione che subito ebbi, e della quale<br />

fui assai lieto, di avere di fronte, nonostante il tanto tempo trascorso, il Basilio di<br />

una volta: non mi sembrava affatto cambiato da come l’avevo conosciuto negli anni<br />

dell’adolescenza e della giovinezza. La stessa impressione, insomma, che avevo<br />

ricavato dal biglietto di auguri che egli mi inviò per le feste di Natale alcuni anni prima<br />

che ci rivedessimo.<br />

Tra le mie carte conservo tuttora quel biglietto; e in esso si possono ancora leggere i due<br />

versi in tardo latino utilizzati per farmi gli auguri.<br />

Sono versi tratti da un antico inno religioso, scritto dal poeta cristiano Celio Sedulio e<br />

adottato, successivamente, dalla liturgia natalizia:<br />

Venter puellae baiulat<br />

Secreta quae non noverat…<br />

Un biglietto, ammetterete, piuttosto singolare. Non tanto per la citazione quanto per il<br />

fatto che i due versi, letti fuori del loro contesto, si prestano facilmente a una lettura<br />

tutt’altro che pia, come se a scriverli non fosse stato il poeta cristiano devoto del V secolo<br />

dopo Cristo, ma un chierico vagante medievale in vena di lascivie: il ventre della<br />

fanciulla porta dentro di sé le dolcezze segrete che non ha conosciuto...<br />

83


E così infatti, sono sincero, io subito li lessi, felice di ritrovare in questo l’amico spiritoso<br />

e allegro di un tempo, lo stesso che ho poi ritrovato a Pescara, con la sua vivacità e la<br />

sua voglia d’ironia e del gioco divertito e divertente, sempre un po’ malizioso e anche<br />

intriso di goliardia, mai musone...<br />

Di quegli anni ricordo con grande piacere anche alcuni professori.<br />

Alcuni di essi non è che mi abbiano dato molto. Parlo, ad esempio, della professoressa<br />

di filosofia che era sempre un po’ legnosa e parsimoniosa nelle sue lezioni, ma anche dei<br />

miei professori di matematica (ne ho avuti più di uno) e di scienze.<br />

Quest’ultimo, ormai vicino alla pensione, ricordo che l’unico sforzo che faceva era<br />

quello di venire a scuola e dettarci i suoi appunti di chimica e storia naturale che<br />

avevano ormai assunto, già da molti anni, la veste di testi canonici immutabili, senza<br />

riuscire naturalmente in nessun modo a suscitare il nostro interesse (ma non ci provava<br />

neppure), pur trattandosi di argomenti davvero meravigliosi, era insomma proprio una<br />

noia assistere alle sue lezioni.<br />

Altra cosa invece erano Lidia P., la nostra giovane professoressa d’italiano (non ricordo se<br />

ci insegnava anche latino, lei comunque era molto brava soprattutto per l’insegnamento<br />

dell’italiano), e don Antonio, il nostro professore di greco.<br />

Don Antonio, che aveva tra le altre cose una non comune conoscenza della metrica<br />

greca che ci spiegava sempre in maniera accurata, ci ha trasmesso soprattutto il suo<br />

grande amore per la poesia greca, principalmente per i poeti lirici, e di questo io gli sono<br />

molto grato ancora oggi.<br />

Lidia P., che mi prese subito, sin dal giorno dei miei esami come privatista per accedere al<br />

secondo liceo, sotto la sua protezione, contribuì moltissimo a rafforzare la mia passione<br />

per la letteratura e a stimolare la mia voglia di cimentarmi con la creazione poetica.<br />

Anche nello studio del latino, non so dire però -lo ripeto- se il merito è suo o invece di<br />

don Antonio, mi ha fatto amare molto i grandi poeti latini, da Catullo a Orazio a Ovidio<br />

e, soprattutto, a Virgilio e Lucrezio.<br />

Don Antonio oggi lo incontro spesso per Chieti, ormai abbastanza vecchio e curvo, ma<br />

non ci siamo mai né salutati né parlati, intanto perché l’ho rivisto a distanza di molti<br />

anni da quando ci teneva le sue belle lezioni di letteratura greca; e, poi, tra noi non c’è<br />

mai stata confidenza, egli per la verità non la dava a nessuno ed era sempre piuttosto<br />

distaccato e severo nel rapporto con gli alunni.<br />

Lidia P. invece non la vedo ormai da decenni, anche se ho sempre chiesto e ancora<br />

oggi chiedo notizie di lei e so che anche lei ha chiesto qualche volta notizie di me,<br />

sia quand’ero ancora consigliere comunale a Lanciano che dopo la mia elezione a<br />

deputato.<br />

Solo qualche anno fa, parlo del 1999, l’ho come rincontrata, sia pure attraverso mio<br />

figlio Stefano, che ha utilizzato il giardino della villa che la sua famiglia possiede a S.<br />

Vito per fare una parte delle fotografie che di solito si fanno nel giorno delle nozze: lei<br />

era al corrente del fatto e incontrandolo, mentre si spostava nel giardino con la moglie<br />

e il fotografo per cer<strong>care</strong> le inquadrature migliori, gli ha chiesto se era mio figlio, oltre<br />

a questo, però, nulla più, mi resta solo il buon ricordo che ho di lei e del suo contagioso<br />

entusiasmo per la letteratura italiana e per la poesia.<br />

84


Concluso il liceo, all’inizio dell’autunno del 1954 mi sono iscritto all’Università, alla<br />

Sapienza di Roma.<br />

Naturalmente per l’iscrizione dovevo recarmi a Roma, dove non ero mai stato, a mie<br />

spese, ma fui fortunato: durante l’estate avevo conosciuto gli zii di Filippo, che mi<br />

ospitarono assieme al nipote nella loro casa, nella zona di Monteverde.<br />

Così potei restare a Roma una quindicina di giorni, provvedere con tutta calma agli<br />

adempimenti necessari alla iscrizione, io mi iscrissi alla facoltà di Lettere e Filosofia,<br />

corso di laurea di Lettere antiche, mentre Filippo si iscrisse a Farmacia, e approfittare<br />

della circostanza anche per conoscere qualcosa di Roma. Ci accompagnava lo zio,<br />

Cesare, e ricordo che ci portò a visitare, oltre al Vaticano, anche il Mosè di Michelangelo<br />

nella chiesa di S. Pietro in Vincolis.<br />

Gli zii di Filippo furono davvero gentili con me, in seguito non ho avuto più l’opportunità<br />

di essere loro ospite, ma ho sempre mantenuto un contatto -sia pure sporadico- con loro,<br />

perché quasi ogni anno venivano a passare le vacanze a Orsogna.<br />

Avevano due figlie, ma la più grande, che aveva tra i dodici e i tredici anni, purtroppo<br />

era malata di tisi (credo) e di lì a qualche anno sarebbe morta. Si chiamava Maddalena,<br />

un viso triste e pallidissimo già quando la conobbi, e la sua morte mi colpì moltissimo<br />

tanto che le dedicai una mia poesia piena di commozione, anche se i suoi genitori non<br />

l’hanno mai letta. Eccola ora, si intitola A una fanciulla morta:<br />

Tu che ora hai nera la bocca<br />

come la terra,<br />

eri un canto sommesso<br />

nella trepida attesa di un sogno.<br />

Con tacito incanto<br />

il tuo leggero passo di danza<br />

si perde nel buio.<br />

A quale intatto sorriso volasti,<br />

a quale stupita fiaba<br />

di colori e di suoni?<br />

La mia vita universitaria, che non si è poi mai conclusa con la laurea, in realtà fu quasi<br />

inesistente.<br />

Essa si esauriva tutta nello studio fatto a casa e nel recarmi a Roma ogni volta che<br />

dovevo dare un esame, anche se questo non era certo il modo migliore per accostarmi<br />

all’insegnamento universitario: mi toccava studiare solo sui testi e sulle dispense, senza<br />

poter mai assistere alle lezioni dei professori, sobbarcandomi poi una fatica improba<br />

quando arrivava il giorno degli esami.<br />

D’altra parte, non avevo altra scelta. Così, ogni volta che dovevo dare un esame,<br />

qualche giorno prima della data fissata, salivo nel tardo pomeriggio sulla Sangritana<br />

che mi portava a Ortona, a Ortona poi aspettavo il treno proveniente dalla Puglia e con<br />

85


esso arrivavo a Pescara dove finalmente, ormai a notte già avanzata, potevo salire sulla<br />

carrozza che alla mattina presto mi avrebbe scaricato nella Città Eterna.<br />

Restavo a Roma naturalmente solo il tempo necessario per fare gli esami, due o tre<br />

giorni al massimo, e poi di nuovo a casa facendo all’inverso lo stesso percorso!<br />

Ho potuto soggiornare a Roma, nel periodo dei miei studi universitari, e fu un soggiorno<br />

addirittura di tre mesi, soltanto una volta, tra gli inizi di gennaio e la metà di marzo del<br />

‘56.<br />

Avevo messo da parte un po’ di soldi facendo ripetizioni tutti i giorni, salvo la domenica,<br />

di italiano e di latino a un gruppo di oltre quindici ragazze e ragazzi rimandati a ottobre;<br />

e i soldi che guadagnavo li usavo per pagarmi tasse e libri.<br />

Per la verità, per il mio soggiorno a Roma, i soldi di cui disponevo non mi erano<br />

sufficienti, ma mi venne in soccorso la mia nonna materna, la Stelline come tutti la<br />

chiamavano (era poi il suo cognome, Stellini, mentre il nome era Concetta), noi <strong>nipoti</strong><br />

invece la chiamavamo mammarosse, alla francese.<br />

La Stelline era davvero una persona straordinaria, dotata di grande energia e<br />

determinazione, che non si lasciava per nulla abbattere dalle difficoltà, e lei ne aveva<br />

dovute affrontare tante, da sola, dopo la scomparsa del marito nel corso della prima<br />

guerra mondiale.<br />

Dopo che i figli andarono via da casa (uno, a 16 anni, era emigrato in Argentina, dove si<br />

trovavano già le sorelle di mia nonna, Giacinta Sabbiuccia e Colomba), è vissuta sempre<br />

da sola, fino a tarda età, e solo quando non ce l’ha fatta più si è trasferita a casa nostra<br />

dove poi è morta a oltre novant’anni; ha avuto sempre molto spirito di indipendenza e<br />

di autonomia e anche in politica aveva le sue idee, votava socialista e poi -quando sono<br />

arrivato io- cominciò a votare comunista.<br />

Con lei, io ho avuto sempre un buon rapporto; e, anche quando sono andato via da<br />

Orsogna, tornando a casa non mancavo mai di farle almeno una visitina, e ogni volta<br />

mi regalava qualcosa.<br />

Non era così con l’altra nonna, Macole (Marianicola), essa era piuttosto fredda e<br />

scostante, e poi -dopo il matrimonio delle mie zie che si erano sposate fuori di Orsogna,<br />

l’una ad Arielli e l’altra a Ortona- i rapporti della mia famiglia con lei, che viveva con la<br />

nuora e il nipote rimasto orfano a causa della guerra, si erano fatti abbastanza radi, di lei<br />

ricordo solo il racconto che una volta ci fece di quando era bambina e aveva conosciuto<br />

i briganti.<br />

Con le mie zie invece no, il rapporto era diverso, soprattutto con zia Rachele, la più<br />

piccola delle sorelle di mio padre, era sempre allegra, le piaceva scherzare e gio<strong>care</strong><br />

con me, a lei è legato anche il mio ricordo più lontano nel tempo: avevo forse intorno<br />

ai due-tre anni, mi vedo sopra ‘nu trajìne assieme a mia madre e alla zia che ha il volto<br />

sorridente e mi prende in braccio, e poi mi ritrovo a Pescara, a correre sotto la pineta,<br />

a poca distanza dal mare, credo che si trattasse di un pellegrinaggio al santuario della<br />

Madonna dei sette dolori che si trova ai Colli di Pescara, fatto appunto sopra un biroccio<br />

trainato dal cavallo (a quell’epoca, siamo prima della guerra, i pullman da noi neppure<br />

esistevano), con una sosta in pineta prima del ritorno a Orsogna.<br />

Il soggiorno a Roma, sia pure solo per tre mesi, fu molto interessante. Non solo frequentai<br />

86


le lezioni di latino tenute da Paratore (se non le si frequentava, con tanto di firma, per<br />

un periodo di due anni non si poteva dare l’esame di latino, che era appunto biennale),<br />

ma ascoltai anche le lezioni di altri professori, soprattutto ebbi l’occasione di assistere<br />

ad alcune lezioni di Giuseppe Ungaretti, di cui conoscevo già e leggevo con passione le<br />

raccolte di poesia più importanti, su Leopardi.<br />

Ungaretti parlava con lentezza ma anche con una certa enfasi, il suo volto mentre<br />

parlava era come trasognato e quando un sorriso lo illuminava diventava come il volto<br />

innocente di un bimbo; inoltre accompagnava sempre con molti e ampi gesti le cose che<br />

diceva quasi volesse, con il suo gesticolare, far cogliere nelle parole che pronunciava<br />

non so quale altro misterioso significato.<br />

Ricordo che, in quei tre mesi, alloggiai in una pensione vicino a Piazza Bologna, tenuta<br />

da una vecchia signora che in gioventù aveva lavorato nel varietà, qualche volta ne<br />

accennava anche, chiacchierando con noi; nella pensione poi ritrovai anche un mio<br />

vecchio compagno di classe, Augusto, iscritto alla facoltà di giurisprudenza: era di<br />

destra già quando frequentavamo il liceo, ma con lui questo fatto non ha mai costituito<br />

un problema e siamo sempre riusciti ad andare d’accordo, in seguito -tra gli anni ‘60 e<br />

‘70- ho avuto modo di incontrarlo spesso e anche oggi, quando capito a Lanciano, non<br />

mi dispiace di vederlo e scambiare qualche chiacchiera con lui.<br />

Nonostante tuttavia le tante difficoltà che ho dovuto affrontare e il non poco tempo<br />

dedicato all’attività politica, oltre che alle mie letture e alle mie velleità di poeta, ho<br />

sostenuto ugualmente quasi tutti gli esami previsti dal mio corso di laurea.<br />

Fino al ’59, anzi, ho dato a volte due a volte tre esami all’anno; non è che i voti fossero<br />

particolarmente brillanti, essi avevano piuttosto un andamento alterno, all’inizio mi<br />

sono beccato anche un respinto in geografia, tuttavia, accanto ad alcuni diciotto e alcuni<br />

venti e ventidue-ventitre, riuscii a rimediare anche diversi venticinque e ventisette e<br />

perfino due trenta.<br />

Dopo il ’59, invece, non ho dato più esami, anche se me ne mancavano solo due: latino<br />

e greco. Avevo troppo da fare. Tuttavia nel ‘62 ripresi in mano i testi universitari e<br />

ne diedi un altro: quello biennale di latino. Ma fu l’ultimo. Feci l’esame, tra l’altro,<br />

all’Università di Urbino, dove mi ero intanto trasferito perché a Roma non potevo farlo<br />

in quanto mi mancavano le firme di frequenza necessarie, quelle del secondo anno.<br />

Per laurearmi avrei dovuto dare quindi solo l’esame di greco, che però non ho mai dato<br />

pur avendolo in parte preparato; avevo oltretutto anche concordato nel frattempo la<br />

tesi con il professore di latino, un argomento (La lingua di Catullo) della cui difficoltà<br />

solo in seguito mi sono reso veramente conto, ma anch’essa, come l’esame di greco e<br />

la mia laurea in lettere antiche, è rimasta lì, in mente Iovis, in attesa di essere scritta e<br />

discussa.<br />

La fine prematura della mia possibile carriera di professore è stata tuttavia l’esito, più<br />

che di difficoltà di vario tipo che pure ci sono state, soprattutto di una scelta politica e<br />

culturale che, all’epoca, non è stata solo mia ma di molti di quelli che, a sinistra, avevano<br />

fatto la scelta di vita di cui parla Amendola: per chi come me era impegnato a cambiare<br />

il mondo e credeva fermamente in questa possibilità, che importanza o utilità poteva<br />

avere una laurea? E poi, parliamoci chiaro, non è che avessi tanto tempo a disposizione<br />

per lo studio.<br />

87


Oltre a stare dietro alla normale attività di partito, all’epoca -se si voleva corrispondere<br />

fino in fondo al proprio ruolo di dirigente di un partito come il PCI- bisognava sempre<br />

tenersi al corrente di quel che succedeva in giro, dai problemi locali a quelli di carattere<br />

generale, approfondire tematiche specifiche, arricchire continuamente la propria cultura<br />

storico-politica e mettersi sempre più in grado di comprendere anche da un punto di<br />

vista teorico i processi in atto nella società italiana e nel mondo.<br />

Non è perciò che leggessi e studiassi poco: solo che non era semplice, ad esempio,<br />

conciliare la preparazione dell’esame di greco, un esame tosto e con tanti testi da<br />

conoscere e tradurre, o della tesi su Catullo con tutto quel che avevo da fare, non perché<br />

l’una cosa non ci azzeccasse molto con l’altra, ma perché il tempo era quel che era.<br />

Della mia mancata laurea, ricordo che mio padre dava la colpa a Rosetta, perché non mi<br />

pungolava a sufficienza; ma, com’è evidente, essa davvero non c’entra nulla…<br />

Cantica gignit amor et amorem cantica gignunt.<br />

Cantandum est ut ametur et ut cantetur, amandum.<br />

Sono due dei pochissimi versi che restano di un oscuro poeta latino della decadenza,<br />

Tucciano, del terzo secolo dopo Cristo.<br />

Mi sono venuti in mente ripensando a quegli anni della mia giovinezza e alle tante volte<br />

che mi sono innamorato e al fatto che sempre questi miei innamoramenti si sono tradotti<br />

in tentativi poetici.<br />

Come scrive appunto Tucciano, l’amore ispira canti e i canti ispirano amore, cantate<br />

per amare e amate per cantare, insomma una specie di cortocircuito lirico-sentimentale<br />

favorito naturalmente dall’età giovanile ma anche dalla dimensione romantico-letteraria<br />

entro cui quegli episodi venivano vissuti.<br />

Sandra, Lavinia, Livia…: sono alcuni dei nomi che hanno scaldato in quegli anni il mio<br />

cuore e sono state anche le mie muse ispiratrici.<br />

Ce n’è stata anche qualche altra, ma nessuna di esse ha lasciato tracce significative nella<br />

mia memoria, eccetto una ragazza di Poggiofiorito, un piccolo comune non distante da<br />

Orsogna, della quale però non riesco più a ricordare il nome: bionda, capelli lunghi,<br />

corporatura esile e ben fatta, mi capitava di vederla spesso la domenica a Orsogna,<br />

oltre che puntualmente in occasione delle feste di mezzo agosto; una volta, io e i miei<br />

amici siamo andati addirittura a piedi a Poggiofiorito, alla festa patronale del paese, per<br />

cer<strong>care</strong> di corteggiarla, ma era sempre accompagnata dai suoi...<br />

Sandra, che aveva un carattere solare, molto espansivo, e alla quale dedicai il racconto<br />

pubblicato sul giornalino del liceo, la incontravo tutti i giorni sul treno e viaggiavamo<br />

sempre insieme, mentre Lavinia l’ho conosciuta all’ospedale di Ortona dove assistevo<br />

mio padre che si era operato di ulcera, doveva essere tra il ’54 e il ’55.<br />

All’ospedale era ricoverata anche mia zia, la zia Rachele che risiedeva a Villa Grande<br />

di Ortona, essa soffriva di cuore, il male che doveva poi portarla alla morte ancora<br />

abbastanza giovane. Ebbene, mia zia si era messa in testa che era ormai arrivata l’ora<br />

che cominciassi a pensare al domani, allora avevo vent’anni o poco più, e lei, manco<br />

a dirlo, pensava di avere per le mani la ragazza giusta, Lavinia appunto, ricoverata<br />

accanto a lei. Così me la presentò, era una ragazza delle ville di Ortona, di famiglia<br />

88


contadina benestante, molto simpatica e di una bellezza semplice e dolce, la cosa però<br />

non durò che tre o quattro giorni, il tempo che rimasi in ospedale, dopodiché non l’ho<br />

più incontrata, ma la sua bellezza e la sua semplicità schietta e spontanea lasciarono<br />

qualche ferita dentro di me testimoniata da una breve poesia che le dedicai qualche<br />

settimana dopo:<br />

Di tanta dolcezza<br />

non resta che un sogno,<br />

fuggevole e stanco.<br />

Leggera vola al mio cuore<br />

la melodia del tuo sguardo sereno.<br />

Livia invece fu una cosa diversa, una passione che durò qualche stagione, una volta<br />

sembrava che le cose dovessero andare per il meglio, altre volte invece…; e questo<br />

andamento alterno mi faceva molto soffrire, e confidavo naturalmente le mie pene<br />

d’amore al mio diario.<br />

Con lei ho passato momenti davvero felici.<br />

Se non ricordo male ci vedevamo spesso nella biblioteca del paese, solo una volta ci<br />

siamo trovati soli, lungo la strada vecchia per il convento; e quando non potevamo<br />

incontrarci ci scambiavamo naturalmente delle lettere, recapitate sempre da qualche<br />

amico comune, allora era così e forse era un vantaggio: io che sono fondamentalmente<br />

un timido, nelle lettere trovavo invece il coraggio di scrivere cose che a voce non avrei<br />

mai detto! Come dice Cicerone, epistula non erubescit...<br />

La cosa più bella di lei era il suo sorriso; e anche quel suo modo molto dolce e intrigante<br />

di guardarti e parlarti mi stregava.<br />

Ricordo ancora la gita che facemmo alla Grotta del Cavallone, a Lama dei Peligni, che<br />

ci consentì di stare insieme tutta la giornata.<br />

La gita, alla quale parteciparono giovani e meno giovani, era stata organizzata da<br />

Zigulare, un simpatico commerciante di Orsogna che aveva una specie di bazar dove<br />

si poteva trovare di tutto; egli aveva anche la passione della musica, in particolare<br />

dell’opera, e possedeva un numero sterminato di dischi e ce ne fece ascoltare parecchi<br />

organizzando ogni tanto, anche per periodi di più settimane, nella sala della biblioteca,<br />

l’ascolto appunto di opere ma anche delle più celebri sinfonie di Beethoven e Schubert<br />

e di tanti preludi e concerti di Chopin.<br />

La memoria di quel giorno, è il 17 luglio del 1955, è ancora molto viva dentro di me<br />

e conservo ancora la fotografia scattata a Torricella Peligna, dove ci fermammo per<br />

il pranzo, mentre siamo a tavola, io e lei siamo di fronte a chiacchierare e lei ha quel<br />

sorriso e quello sguardo che mi avevano conquistato.<br />

Un bel giorno tuttavia l’incanto finì, ricordo ancora la lettera che essa mi mandò per<br />

dirmi che le dispiaceva ma…<br />

Ne ebbi per diverso tempo ma alla fine, come si sa, il tempo guarisce anche le ferite<br />

d’amore: come dice Virgilio, omnia fert aetas!<br />

Oggi che anch’essa è nonna la incontro qualche volta, siamo restati amici, ma di quel<br />

89


tempo che pure fu felice non accenniamo neppure, chissà forse dovrei darle qualcuna<br />

delle poesie che scrissi per lei e che lei allora non lesse: che senso ha disperdere o<br />

ignorare i ricordi della propria giovinezza?<br />

Negli anni del liceo, la mia giornata era assorbita prevalentemente dallo studio.<br />

D’altra parte, soprattutto d’inverno quando faceva buio presto, le ore a disposizione per<br />

preparare i compiti del giorno successivo erano proprio ridotte all’osso e poi, la sera,<br />

bisognava andare a letto a un’ora decente, altrimenti il giorno dopo non mi reggevo in<br />

piedi.<br />

La domenica però era il mio giorno libero, ricordo che la mattina mi affrettavo per<br />

arrivare il più presto possibile in paese dove mi aspettavano gli amici e con loro o<br />

si chiacchierava in piazza o facevamo una passeggiata lungo il viale alberato della<br />

stazione, fino alle prime propaggini della bellissima pineta che si incontra arrivando a<br />

Orsogna da Guardiagrele; allo scoc<strong>care</strong> del mezzogiorno però eravamo di nuovo tutti in<br />

piazza per non perdere lo spettacolo della sfilata delle ragazze che uscivano dall’ultima<br />

messa, tutte belle e agghindate, con il vestito della festa, consapevoli dell’esame attento<br />

a cui sarebbero state sottoposte dai tanti ragazzi in attesa del loro passaggio: un rito<br />

antichissimo che si ripeteva puntualmente tutte le domeniche e negli altri giorni festivi,<br />

con soddisfazione sia dei ragazzi che delle ragazze.<br />

Anche nel pomeriggio il rito continuava. Gruppi di ragazze e di ragazzi, ognuno per<br />

conto proprio, si incrociavano e si lanciavano muti segnali di intesa quando si incontrava<br />

la ragazza dei propri sogni; ma all’ora di cena la sceneggiata si concludeva e lungo il<br />

viale, sia pure ancora per poco, restavamo solo noi ragazzi.<br />

D’estate invece, dopo la chiusura della scuola, quando arrivava il caldo e le giornate<br />

erano belle, ogni giorno era buono per ritrovarsi con gli amici a chiacchierare e a fare<br />

lunghe passeggiate. Discorrevamo di tutto, di politica, di letteratura e naturalmente<br />

anche di ragazze.<br />

Molte delle ragazze che incrociavamo la domenica e negli altri giorni di festa le<br />

ritrovavamo di solito il giorno dopo, sul treno. Vi erano invece gruppi che potevamo<br />

ammirare solo durante le ore del passeggio, soprattutto a primavera e nei mesi estivi.<br />

Tra questi, vi era il piccolo gruppo formato da tre sorelle, le più ricche del paese, che<br />

non si mescolavano con le altre ragazze, una di esse era veramente bella mentre le altre<br />

due erano solo carine.<br />

Le vedo ancora nel mio ricordo passeggiare tutte sole o, al massimo, accompagnate<br />

dalla tata, sempre con lo stesso passo e anche con una certa grazia e tutti che le<br />

sogguardavamo incontrandole.<br />

All’epoca non conoscevo ancora Dino Campana, il nostro geniale poeta maledetto del<br />

primo quarto di secolo del ‘900, ma quando lessi le sue poesie una in particolare mi<br />

colpì riportandomi alla memoria l’immagine delle tre sorelle che passeggiano, parlo<br />

della lirica intitolata Tre giovani fiorentine camminano:<br />

Ondulava sul passo verginale<br />

Ondulava la chioma musicale<br />

Nello splendore del tiepido sole<br />

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Eran tre vergini e una grazia sola<br />

Ondulava sul passo verginale<br />

Crespa e nera la chioma musicale<br />

Eran tre vergini e una grazia sola<br />

E sei piedini in marcia militare.<br />

Erano proprio loro, le tre sorelle, una grazia sola e i sei piedini in marcia militare, anche<br />

se la loro passeggiata procedeva in realtà sempre a ritmo piuttosto lento!<br />

Le feste di mezzo agosto, quando Orsogna festeggia S. Rocco e l’Assunta, erano una<br />

occasione speciale per ammirare le bellezze non solo del paese ma anche dei paesini<br />

vicini.<br />

Ma, al di là di questo, le feste patronali rimangono nella mia memoria come una delle<br />

cose più belle ed eccitanti di quegli anni, esse infatti hanno già di per sé un fascino<br />

particolare.<br />

C’erano i tanti colori delle ban<strong>care</strong>lle, la novità delle giostre, una folla vestita a festa,<br />

di bambini giovani e adulti, che inonda la grande piazza e gremisce il viale dove è<br />

addirittura difficile passeggiare senza urtare qualcuno, e poi, su un lato della piazza,<br />

la cassa armonica tutta illuminata e la banda che suona di solito brani di opere celebri<br />

e i contadini che ascoltano con attenzione, non mancava proprio nessuno, in quei<br />

giorni era raro che qualcuno, anche in campagna, restasse a casa! E a mezzanotte, o<br />

poco più, dell’ultima sera lo sparo, uno spettacolo quasi sempre bellissimo che veniva<br />

accompagnato anche allora da tanti oh! di meraviglia ogni volta che c’era un numero<br />

ben confezionato.<br />

Naturalmente, in quegli anni come del resto in quelli successivi, l’interesse di noi<br />

ragazzi si rivolgeva anche ad altre cose, non solo alle ragazze.<br />

Per me c’erano ovviamente la politica e l’università, ma anche la lettura dei poeti<br />

moderni che a scuola non ci avevano fatto conoscere, e poi le lunghe ore passate a<br />

fantasti<strong>care</strong> e comporre poesie.<br />

C’era, inoltre, la biblioteca comunale nella quale ero di casa e dove non si leggeva<br />

soltanto o si prendevano libri a prestito, di solito romanzi, ma si organizzavano anche<br />

molte e varie attività.<br />

La biblioteca era stata fondata e veniva gestita da Emiliana Zecchini; e si trovava in una<br />

sala del municipio, quella che guarda su Via Roma e dove oggi si svolgono le sedute<br />

del Consiglio comunale.<br />

Emiliana veniva dal Trentino ed era arrivata a Orsogna per conto di una organizzazione,<br />

di cui adesso non ricordo più il nome, legata alla ricostruzione post-bellica; e il centro<br />

della sua attività era proprio qui, nel nostro paese, dove aveva messo in piedi non solo<br />

la biblioteca, ma anche altre iniziative rivolte soprattutto ai giovani.<br />

Era sempre impegnata a organizzare qualcosa: aveva doti davvero eccezionali di<br />

organizzatrice ed era instancabile; sapeva poi parlare con tutti, così che la biblioteca<br />

era diventata il punto di riferimento e di ritrovo di tanti ragazzi e ragazze ma anche di<br />

contadini che vi hanno frequentato i corsi serali, assistito a conferenze e partecipato ai<br />

concerti con i dischi di Zigulare.<br />

91


Nella biblioteca infatti, soprattutto d’inverno, oltre ai concerti, spesso si organizzavano<br />

anche conferenze, le ricordo bene perché anch’io ne tenni una, non so se proprio<br />

inappuntabile nel linguaggio e negli argomenti usati, sul romanzo di J. Steinbeck Al dio<br />

sconosciuto.<br />

Insomma, sono stati anni intensi dei quali conservo davvero un buon ricordo.<br />

Scrive Dante nel XII canto del Purgatorio: …molte volte si ripiagne / per la puntura de<br />

la rimembranza.<br />

Ripensando a quegli anni mi capita ancora oggi di sentirmi preso dalla nostalgia, per<br />

la puntura appunto de la rimembranza. Non vivevamo certo nell’età dell’oro, tutt’altro<br />

anzi, visti i tanti problemi sociali e anche politici dell’epoca, ma la giovinezza è davvero<br />

l’età dell’oro o, almeno, è come se lo fosse!<br />

Il concetto di rimembranza è largamente presente, assieme a quello di lontananza, nella<br />

poesia d’amore provenzale e poi nella lirica d’amore italiana del ‘200 e del ‘300: la<br />

lontananza e la rimembranza rafforzano il desiderio della donna amata, e così, come<br />

canta in una sua lirica Giacomo da Lentini, lo squisito poeta-notaio siciliano del ‘200,<br />

la rimembranza<br />

di voi, aulente cosa,<br />

gli occhi m’arrosa<br />

di un’aigua d’amore.<br />

Anche per la giovinezza le cose non stanno diversamente. La rimembranza di essa,<br />

unita alla lontananza da una stagione ormai finita da così tanto tempo, arrosa ancora i<br />

nostri occhi di un’acqua d’amore...<br />

Dopo la fine del liceo, quasi tutti i giorni all’imbrunire, anche d’inverno, tornavo in<br />

paese, di solito non cenavo neppure, lo facevo solo al ritorno alla luce del lume a<br />

carburo, mia madre o le mie sorelle mi lasciavano la cena sulla tavola.<br />

A volte avevo impegni di partito che spesso occupavano la serata in discussioni fino a<br />

tardi, altre volte invece mi recavo in biblioteca oppure, quando faceva freddo, passavamo<br />

la serata al bar a gio<strong>care</strong> a carte, diversamente passeggiavamo abbandonandoci a lunghe<br />

e seriose chiacchierate.<br />

Avevo un gruppo di amici fissi, più o meno della mia età: Remo, Fausto, Rocco,<br />

Vincenzo e Giovanni, erano i più intimi, poi naturalmente ogni tanto si aggiungeva<br />

qualche altro.<br />

La nostra amicizia in quegli anni non conobbe incrinature, ma dopo che lasciai Orsogna<br />

ci siamo persi completamente di vista, ognuno ha preso la sua strada; qualcuno, come<br />

Rocco, ha abbandonato anche prima la nostra compagnia finendo addirittura in Argentina<br />

dove già da tempo viveva il padre, per qualche tempo ci siamo anche scritti ma la cosa<br />

naturalmente non durò.<br />

Passavo una parte del mio tempo anche con gruppi di compagni ormai di una certa età,<br />

iscritti al partito, e spesso con loro si finiva in cantina, a Staccone o a Ciccone, dove di<br />

solito si chiacchierava bevendo vino, tre quarti e ‘na gazzosa.<br />

Tra questi compagni, c’era un quintetto che si ritrovava spesso assieme ed erano tutti di<br />

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uno spasso e di una simpatia incredibili.<br />

Erano ‘Ntonie di Mezzafemmine, muratore, Rocche di Baffone, contadino, Ciammette,<br />

anche lui contadino, un altro muratore, Duminiche di Mauselle (il soprannome gli<br />

derivava dal possesso di una Mauser, abbandonata da qualche tedesco e finita nelle sue<br />

mani all’indomani della guerra), e poi Scenna Nicolò, anche lui muratore, conosciuto<br />

da tutti come Cikulinov, egli era stato per diverso tempo segretario della sezione e<br />

durante il fascismo -allora lavorava a Roma- veniva spesso prelevato dalla polizia in<br />

occasione di manifestazioni per essere trattenuto in galera per tutta la loro durata, di lui<br />

si diceva anche che discendesse da uno dei briganti più famosi di Orsogna, Salvatore<br />

di Cuntine.<br />

Erano tutti dei grandi lavoratori, ma quando stavano assieme sembravano tornare<br />

bambini, ed era proprio uno spettacolo sentirli battibec<strong>care</strong> tra di loro o scambiarsi<br />

battute e panzane a tutto spiano, spesso raccontavano episodi boccacceschi o comunque<br />

spassosi accaduti a questo o a quello in paese, e possedevano tutti un fine senso<br />

dell’ironia e, quando capitava loro a tiro qualcuno un po’ sprovveduto, c’era davvero<br />

da divertirsi.<br />

Di due di loro, oggi tutti scomparsi, mi capita di ritrovarmi ogni tanto con i figli, Niculine<br />

di Mauselle che è stato anche assessore con me durante la mia amministrazione ed è<br />

un carissimo amico, e Gianni di Mezzafemmine: hanno tutti e due conservato lo spirito<br />

e l’ironia dei padri, dei quali hanno anche continuato il mestiere, e, come loro, sono<br />

anch’essi delle buone forchette, confermando anche in questo la tradizione paterna!<br />

Gianni poi, che è, come il padre, un cultore di cose rare e curiose delle tradizioni<br />

paesane, mi ha anche fatto partecipe qualche tempo fa di alcuni termini dialettali di<br />

gergo che forse solo lui ancora conosce e che io non avevo mai sentito pronunciare:<br />

la spezzarole, la vaschetta di cemento in cui una volta si lavavano i piatti, lu ìfije, il<br />

sottoscala utilizzato come ripostiglio all’interno delle case, lu uiccette, la finestrella<br />

della porta di casa attraverso la quale si guarda all’esterno, la muscìja, il fagottino di<br />

cibo che ci si portava dietro sul lavoro per il pranzo, le salivastrelle, le salsicce di fegato<br />

sempre così buone da mangiare...<br />

Durante gli anni del liceo e, poi, dell’Università, finché sono restato a Orsogna, ho<br />

trascorso tanta parte del mio tempo in campagna.<br />

I miei infatti, come ho già ricordato, quando io ero ancora in seminario, anche per<br />

ragioni di lavoro, avevano deciso di trasferirsi a Colle S. Giacomo, dove, intanto, un<br />

nuovo immobile in muratura, più accogliente e sicuro, aveva preso il posto della vecchia<br />

masseria di terra.<br />

Vivere in campagna non mi è mai dispiaciuto; e anche oggi, del resto, abito con piacere<br />

in un quartiere che è proprio ai margini della campagna, con la possibilità anche di<br />

godere di un bellissimo panorama fatto di colline coltivate e impreziosito, all’orizzonte,<br />

a nord dal Gran Sasso e dai monti della Laga e, a est, da scorci di azzurro del mare di<br />

Francavilla, alla confluenza della vallata dell’Alento con l’Adriatico.<br />

La vita in campagna ha sicuramente i suoi aspetti poco gradevoli, ma ti offre anche cose<br />

che superano largamente i disagi: grandi spazi che ti chiamano ad approfittarne, almeno<br />

con la fantasia, libertà nella scelta dei tuoi modi di vita e anche tante leccornie a portata<br />

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di mano.<br />

Da quest’ultimo punto di vista, ho ancora oggi l’acquolina in bocca per il siero con frusti<br />

di ricotta e pane che mi aspettava allora quasi ogni mattina, dopo la nascita degli agnelli<br />

nella nostra stalla; e ricordo con nostalgia le grandi abbuffate di pane sotto il coppo con<br />

olio e zucchero o con i fichi, colti direttamente dall’albero, durante l’estate, così come<br />

è viva in me la memoria del tempo passato tra le coltivazioni di fave, ceci e piselli, al<br />

tempo della loro maturazione, per il gusto di assaporarli appena sradicati da terra o<br />

staccati dal gambo, la stessa cosa accadeva anche con le noci e le mandorle assaporate<br />

quand’erano ancora quasi acerbe e, poi, con l’uva, mi piacevano soprattutto l’uva fragola<br />

e la malvasia, che richiamava la tua attenzione occhieggiando tra i pampini folti delle<br />

viti coltivate a filari e sorrette ciascuna da un palo o una canna ficcati nel terreno, mi<br />

vedo, inoltre, ancora sdraiato nel campo così colorato di rosso della lampalupine (l’erba<br />

sulla?), per gustarne -oltre alla frescura- la parte più dolce e tenera dei gambi.<br />

Naturalmente, io non ho mai guardato alla campagna con l’occhio del contadino; e<br />

la cosa era possibile perché io non partecipavo, se non in misura del tutto marginale<br />

e occasionale, al lavoro della mia famiglia, avevo infatti il privilegio di essere uno<br />

studente, mi potevo così tranquillamente dedi<strong>care</strong> ad altre attività e godermi nello stesso<br />

tempo anche i vantaggi e le bellezze della campagna.<br />

Il lavoro dei contadini è un lavoro duro, soggetto per giunta a una sorta di precarietà<br />

permanente legata innanzitutto all’andamento delle stagioni, per il contadino perciò<br />

la campagna non è il luogo dell’idillio poetico, una specie di Eden da vivere con tutta<br />

l’intensità del sentimento, ma è lavoro, fatica a volte anche improba, un reddito non<br />

proprio soddisfacente (almeno allora).<br />

Del resto, bastava guardare alla vita dei miei per rendersene conto: qualunque fosse la<br />

stagione, c’era sempre da fare, anche d’inverno quando pure il lavoro diminuisce.<br />

Spesso, negli anni del liceo ma anche in occasione della preparazione del mio esame di<br />

latino per l’Università, mi è capitato di leggere e tradurre passi delle Bucoliche e delle<br />

Georgiche.<br />

Uno dei passi che più mi colpì allora fu quando, nelle Georgiche, Virgilio esclama<br />

parlando dei contadini:<br />

O fortunatos nimium, sua si bona norint,<br />

agricolas!<br />

E poi, poco più sotto, aggiunge:<br />

at secura quies et nescia fallere vita,<br />

dives opum variarum, at latis otia fundis,<br />

speluncae vivique lacus et frigida tempe<br />

mugitusque bovum mollesque sub arbore somni<br />

non absunt...<br />

In realtà, Virgilio esalta la fortuna dei contadini e i beni di cui essi possono disporre,<br />

mettendo in relazione la vita dei campi con gli affanni che segnano la vita di chi cerca<br />

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icchezza e agi attraverso la corsa affannosa agli affari, e con i pericoli che corre chi<br />

sceglie la vita militare, ai contadini inoltre -nota ancora Virgilio- la terra produce facilem<br />

victum, ad essi perciò non mancano una pace sicura e una vita priva d’inganni, ricca<br />

di beni diversi, un riposo in grandi fondi, grotte e laghi pieni di vita, fresche vallate e<br />

muggiti di buoi e dolci sonni sotto gli alberi…<br />

Com’è evidente, non è questa la vita dei contadini, siamo di fronte a una visione tutta<br />

letteraria (e anche politica, per assecondare il tentativo augusteo di ricostruzione di una<br />

forte presenza di contadini ricchi nella campagna italiana) nella quale però Virgilio<br />

esprime con una intensità straordinaria, nelle Georgiche come nelle Bucoliche, il suo<br />

amore per il mondo agro-pastorale che è il suo ambiente di provenienza, riuscendo a<br />

trasformare questo suo amore e il rapporto profondo che egli intrattiene con la natura in<br />

grandissima poesia, intessuta di una magica bellezza e musicalità!<br />

Virgilio, nell’Ecloga V delle Bucoliche, fa dire a uno dei suoi poeti-pastori:<br />

Tale tuum carmen nobis, divine poeta,<br />

quale sopor fessis in gramine, quale per aestum<br />

dulcis aquae saliente sitim restinguere rivo.<br />

Virgilio parla evidentemente di se stesso, il suo canto è come quello di Orfeo che<br />

soggioga il mondo animato e inanimato: Tale è il tuo canto per noi, divino poeta, come<br />

il sonno per chi, stanco, giace sull’erba, come durante la calura estiva spegnere la sete<br />

ad un ruscello zampillante di acqua dolce!<br />

Anche il mio modo di guardare alla campagna, fortemente influenzato dalla lettura di<br />

Virgilio come di tanta poesia italiana, era dunque l’espressione di una visione letteraria,<br />

comunque mediata dalla letteratura; d’altra parte, al di fuori di questo approccio, è<br />

difficile cogliere e apprezzare le bellezze e le forti sensazioni che provoca la vita a<br />

contatto quotidiano con la terra, chi coltiva la terra coglie innanzitutto la durezza e la<br />

fatica del suo lavoro.<br />

Il podere di Colle S. Giacomo, coltivato a mezzadria dalla mia famiglia, non aveva<br />

una grande estensione, arrivava sì e no ai 4-5 ettari ed era situato lungo il pendio che<br />

si dirama sulla sinistra della strada provinciale, guardando verso Lanciano. La strada<br />

provinciale infatti è posta proprio al culmine della collina e fa così da discrimine tra il<br />

versante, a destra, che volge verso la vallata del Moro e quello, appunto a sinistra, che<br />

si dirige verso il vallone dove scorre il torrente che parte dalla fonte vecchia di Orsogna<br />

e confluisce a un certo punto nel Moro.<br />

Il nostro podere seguiva il pendio verso il vallone, ed aveva una forma all’incirca<br />

triangolare: la base era costituita dal confine che correva a monte, dal lato del paese,<br />

per circa un chilometro in linea quasi retta dalla masseria al pozzo scavato su un<br />

pronunciato rialzo del terreno, che utilizzavamo per adacquare il piccolo orto coltivato<br />

a ortaggi, mentre i lati erano rappresentati l’uno, a sud, da un torrentello tutto ricoperto<br />

di pioppi, olmi e arbusti vari, e l’altro, a nord est, dalla parte di terreno coltivato a vigna,<br />

e tutti e due convergevano verso il basso, in direzione appunto del vallone ma senza<br />

raggiungerlo, si fermavano qualche chilometro prima.<br />

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La masseria si trovava all’inizio della base del triangolo, a ridosso del tratturo, a meno di<br />

cento metri dalla strada provinciale, e aveva davanti uno spiazzo abbastanza largo dove<br />

normalmente razzolavano le galline e il nostro volpino dormiva i suoi sonni tranquilli a<br />

guardia della casa, e ai cui lati svettavano alcuni pioppi e fioriva un albero di gelso.<br />

Dietro la casa, dopo la guerra era stato piantato un noce che si era fatto alto e robusto, e<br />

a poca distanza c’era l’altro pozzo dal quale attingevamo l’acqua per bere; a una diecina<br />

di metri dal fianco della casa invece, verso valle, si stagliava il pagliaio, abbastanza<br />

capiente, nel quale, oltre a provviste varie, veniva accatastato il fieno per il poco<br />

bestiame che i miei allevavano.<br />

Nella campagna, mio padre coltivava di tutto, l’agricoltura intensiva da noi non era<br />

ancora arrivata: c’era l’orto, la vigna che ci forniva a sufficienza il vino per tutto l’anno,<br />

e, sparse per tutto il podere, un buon numero di piante di ulivo; e poi il grano, che<br />

copriva la parte maggiore del terreno, il granturco, l’erba medica e la lampalupine per<br />

le bestie, piccole piantagioni di fave, ceci e piselli, alberi da frutta, ecc.<br />

Oggi, la campagna che ho cercato qui di descrivere ha cambiato completamente volto.<br />

Molte volte negli anni successivi, quando mio padre era ormai andato in pensione,<br />

la famiglia era tornata ad abitare in paese e il terreno che lui aveva lavorato per una<br />

vita era stato venduto dalla proprietaria per raggiungere il figlio negli Stati Uniti, mi è<br />

capitato di percorrere in auto la provinciale per Lanciano e, passando, di lanciare uno<br />

sguardo al vecchio podere: non solo accanto alla masseria i nuovi proprietari avevano<br />

costruito un secondo immobile più spazioso e più rifinito, ma tutta la campagna era<br />

stata ricoperta da un grande vigneto a capanna i cui larghi pampini, in autunno inoltrato,<br />

inondavano di un rosso sfatto e smangiato dalla ruggine il variegato panorama che io<br />

una volta conoscevo.<br />

Bene, mie <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>: questo era dunque il piccolo mondo nel quale passavo di solito<br />

buona parte della mia giornata, e dove, soprattutto negli anni del liceo e in quelli<br />

immediatamente successivi alla mia iscrizione all’Università, ho vissuto sensazioni ed<br />

emozioni il cui ricordo è ancora molto forte in me.<br />

Soprattutto d’estate, quando la stagione era ormai al suo culmine e il caldo si faceva<br />

sentire, mi piaceva scorrazzare per i campi, alla ricerca di oasi di frescura, spesso portavo<br />

con me qualche libro e all’ombra di un albero passavo il mio tempo a leggere, altre volte<br />

invece, disteso su un tappeto d’erba, amavo fantasti<strong>care</strong>, o anche, più semplicemente,<br />

sonnecchiare avvolto dal fresco dell’erba alta: da questa parte, come sempre, la siepe<br />

che segna il confine, dopo che le api Iblee hanno succhiato il fiore del salice, spesso ti<br />

inviterà ad assopirti al lieve sussurro del vento.<br />

E’ ancora Virgilio, nelle Bucoliche:<br />

hinc tibi, quae semper, vicino ab limite saepes<br />

Hyblaeis apibus florem depasta salicti<br />

saepe levi somnum suadebit inire susurro…<br />

Mentre preparavo gli esami di licenza liceale, nel periodo tra maggio e giugno e la prima<br />

parte di luglio, ho passato quasi tutti i giorni a studiare immerso nella tranquillità della<br />

campagna, proprio all’ombra di una siepe come quella cantata da Virgilio, mancava<br />

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solo il salice -lenta salix, lo definisce il grande poeta latino- che però era a non grande<br />

distanza da lì, non c’era il silenzio attorno ma i mille suoni della campagna, eppure quel<br />

luogo mi aiutava a concentrarmi, così potei preparare senza particolari difficoltà esami<br />

che all’epoca erano davvero impegnativi dovendo portare il programma degli ultimi tre<br />

anni.<br />

Durante i mesi estivi, nel tardo pomeriggio, quando la calura si era attenuata, avevo<br />

spesso il compito di portare al pascolo le pecore, era una delle poche cose che facevo<br />

per tacitare mio padre che reclamava in continuazione un mio impegno nel lavoro della<br />

campagna, non c’era granché da fare naturalmente, così mentre le nostre poche pecore<br />

brucavano quete l’erba, io o giocavo col nostro volpino che mi faceva compagnia<br />

mentre guardavo il piccolo gregge oppure mi sdraiavo per terra e mi abbandonavo,<br />

anche qui, alle mie fantasie cercando l’ispirazione giusta per le mie imprese poetiche,<br />

o seguivo nel loro lento viaggio i cirri sparsi nel cielo o mi incantavo ad ammirare i<br />

tramonti mentre di lontano cominciavano a fumare i comignoli delle masserie e più<br />

grandi le ombre della sera scendevano dagli alti monti, i monti raccolti attorno alla<br />

Maiella, e i contadini abbandonavano il lavoro e le mogli accendevano il fuoco nelle<br />

case e preparavano la cena per gli uomini che tornavano stanchi dai campi:<br />

et jam summa procul villarum culmina fumant<br />

maioresque cadunt altis de montibus umbrae.<br />

E’ sempre Virgilio, che questi aspetti della vita contadina conosceva benissimo e sapeva<br />

trarne versi stupendi !<br />

Nelle altre stagioni, parlo in particolare della primavera ma anche dell’autunno, mi<br />

piaceva immergermi nei profumi e nei colori della campagna.<br />

Come non è difficile avvertire, il ritmo delle stagioni in campagna è essenzialmente<br />

scandito dai profumi e dai colori, che variano da stagione a stagione.<br />

Ovidio lo sapeva benissimo, e così nel secondo libro delle Metamorfosi assegna a ogni<br />

stagione i suoi colori e quindi i suoi profumi: la Primavera con la sua corona di fiori<br />

di mille colori e il profumo stordente di ogni fiore che si riversa nell’aria, l’Estate che<br />

sta nuda, esibendo il suo serto di spighe mature che ondeggiano alla brezza estiva, e<br />

diffonde un odore acuto di stoppie già disseccate o bruciate, l’Autunno con il rosso delle<br />

uve pigiate dal contadino a piedi scalzi e l’odore forte del mosto, solo l’Inverno, con i<br />

suoi ispidi capelli canuti, non ha odori, ha solo il bianco infinito della neve che ricopre<br />

la campagna e i luccichii abbaglianti dei rami rivestiti di ghiaccio al sole che fa capolino<br />

tra le nuvole:<br />

Verque novum stabat cinctum florente corona,<br />

Stabat nuda Aestas et spicea serta gerebat,<br />

Stabat et Autumnus, calcatis sordidus uvis,<br />

Et glacialis Hiems, canos hirsuta capillos.<br />

Ascoltare i suoni della notte e osservare il cielo, stando in aperta campagna, era l’altro<br />

mio passatempo che mi concedevo ogni volta che tornavo a casa dal paese e quando la<br />

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notte era dolce e chiara e senza vento.<br />

In campagna, appena annotta, il cielo ti si offre in tutto il suo splendore, con il suo<br />

fitto brulichio di stelle quando non c’è la luna; se invece la luna sta lì, a sol<strong>care</strong> le vie<br />

dell’infinito, soprattutto se è luna piena, una pallida luce diffusa nasconde le stelle e<br />

rischiara le colline e le valli tutt’attorno e di lontan rivela / serena ogni montagna.<br />

La citazione, come la precedente, è da La sera del dì di festa di Giacomo Leopardi, uno<br />

dei grandi poeti che ho sempre amato e letto; e c’è una ragione per questa citazione.<br />

Spesso ci accade di leggere delle poesie bellissime chiusi nella nostra stanza, la poesia<br />

naturalmente non perde nulla della sua bellezza, ma è altra cosa se quei versi noi li<br />

gustiamo vivendo direttamente l’intreccio di sensazioni ed emozioni che il poeta<br />

descrive, quel che si prova ha come il sapore di un rapimento mistico o, piuttosto, della<br />

esplosione di una indicibile festa dei sensi.<br />

Ricordo che, in quegli anni, ognuno di questi diversi momenti del mio rapporto con la<br />

natura vissuto nella solitudine della campagna aveva, tratto dalle mie letture, un suo<br />

riferimento poetico, e ciò mi consentiva sia di vivere più intensamente questi momenti<br />

sia di cogliere meglio il fascino più profondo della espressione poetica.<br />

Ad esempio, una grande emozione mi hanno sempre procurato, nella notte d’estate, al<br />

chiarore della luna piena, i versi di questo frammento di Saffo, li ripetevo in silenzio, in<br />

greco naturalmente, dentro di me e subito mi si stagliava davanti la figura sottile della<br />

poetessa greca che, stupita, ammira con le sue compagne del tiaso uno spettacolo di così<br />

rara bellezza nella notte di Lesbo, mentre lo sciabordare monotono delle onde dell’Egeo<br />

fa da colonna sonora:<br />

Le stelle intorno alla bella luna<br />

nascondono il volto luminoso<br />

quando soprattutto, piena, essa risplende<br />

su tutta la terra…<br />

A fare da colonna sonora alla mia contemplazione del cielo notturno erano invece i<br />

mille rumori della campagna.<br />

Nella campagna, di notte, non c’è silenzio, tutt’altro. E’ invece tutto un rincorrersi di<br />

suoni e di rumori a volte appena percettibili che giungono da tutte le direzioni e si<br />

alternano o si mescolano tra loro.<br />

Ci sono i cani che, all’improvviso, si mettono ad abbaiare e si rispondono da un casolare<br />

all’altro, sembrano come eccitati e impegnati senza esclusione di colpi in una gara a chi<br />

abbaia più forte e con i toni più minacciosi, poi altrettanto all’improvviso essi tacciono<br />

e ritornano i suoni e i rumori che avevano riempito la notte fino a quel momento; così<br />

come ci sono gli scoppi subitanei e brevi del canto di un usignolo dal vicino boschetto<br />

a cui fanno da controcanto il gemito ripetuto di qualche civetta, lo sbattere legnoso<br />

delle ali del pipistrello che si aggira attorno alla casa, la nenia ininterrotta dei grilli o<br />

il mormorio discreto delle foglie degli alberi appena mosse dalla brezza, qualche volta<br />

arriva da lontano, quando c’è aria di pioggia, il gracidare di una rana, e spesso, a fare<br />

da cornice opalescente a un concerto così vario, quando la calura non demorde neppure<br />

di notte, ci sono le lucciole simili a una folla infinita di minuscoli lumini vaganti per la<br />

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campagna.<br />

A primavera e in autunno, invece, spesso le giornate erano piovose, bisognava perciò<br />

restare in casa, a maggior ragione in autunno quando i primi freddi cominciavano a farsi<br />

sentire.<br />

In giornate così, tuttavia, era difficile che mi lasciassi prendere dalla noia, avevo<br />

sempre qualcosa da fare, di solito leggevo o poetavo, poi, quando mi stancavo o finiva<br />

l’ispirazione, mi piaceva, da dietro i vetri della finestra del piano di sopra, dove erano<br />

il mio tavolino da studio, piuttosto sgangherato, e le camere da letto, contemplare il<br />

picchiettare tranquillo e monotono della pioggia sulla campagna, l’acqua scivolava sui<br />

fili d’erba e sulle foglie degli alberi e, quando spioveva, appena si affacciava un raggio<br />

di sole, l’erba per terra era come un tappeto pieno di brillanti, anche le foglie degli alberi<br />

mandavano barbagli improvvisi ai riflessi del sole. A volte, la pioggia continuava anche<br />

durante la notte, e allora era bello coglierne, accucciato nel letto, il bruire ostinato e<br />

sommesso; così come, d’inverno, ascoltare il lamentoso, interminabile ululato del vento<br />

di tramontana, mentre fuori la tempesta imperversava e il canale di gronda rovesciava<br />

a fiotti l’acqua lungo i muri e dai vetri delle finestre, battuti dalla pioggia violenta,<br />

arrivava fino al mio letto un ticchettio incessante.<br />

Giornate così erano sempre piene di malinconia, ma la sera il calore del focolare acceso<br />

e le fiamme che salivano lungo il camino e si accompagnavano alla luce chiara del lume<br />

a carburo stimolavano sia la lettura che la voglia di fantasti<strong>care</strong> ma, anche, di seguire<br />

attento, magari sgranocchiando i ceci abbrustoliti, i racconti di mio padre sulla guerra<br />

o di quando andava in Puglia -nel periodo della mietitura- a lavorare come bracciante,<br />

oppure di ascoltare, e anche trascrivere qualche volta, le canzoni che costringevo mia<br />

madre a cantarmi, non perché essa avesse chissà quale voce ma soltanto perché a me<br />

quelle canzoni, quelle della sua giovinezza, mi affascinavano da morire.<br />

Tra gli avvenimenti che una volta segnavano la vita dei contadini, ve ne erano alcuni<br />

che rivestivano una particolare importanza, e che spesso avevano anche il carattere di<br />

riti collettivi.<br />

Parlo della semina, della mietitura e della trebbiatura, della vendemmia, della raccolta<br />

delle olive; alcuni di essi, poi, avevano come caratteristica di avere una particolare<br />

colonna sonora, fatta di quelle che chiamiamo le canzoni popolari, trasmesse -ancora<br />

alcuni decenni fa- dalle generazioni più anziane a quelle più giovani.<br />

Da noi, che io ricordi, il canto accompagnava il lavoro soprattutto in occasione della<br />

mietitura e della spannocchiatura del granturco, quando venivano a dare una mano<br />

anche parenti e gente del vicinato, allora si faceva a scambiagiornate per aiutarsi a<br />

vicenda quando il lavoro era più intenso e incombente; durante la trebbiatura invece<br />

tutti erano troppo impegnati a star dietro al ritmo della trebbiatrice, per cui era difficile<br />

che qualcuno avesse tempo e voglia di intonare canzoni e altri di tenergli dietro, in<br />

compenso, alla fine del lavoro, ci si rifaceva della fatica con pranzi a quell’epoca<br />

davvero succulenti.<br />

Con la mietitura, invece, e quando ss’ascieve le marrocche, c’era sempre qualcuno, in<br />

genere una donna, che dava inizio al canto.<br />

Durante la mietitura, non era raro che i canti rimbalzassero da una campagna all’altra,<br />

mentre nel periodo della spannocchiatura si stava più raccolti, dietro casa, seduti accanto<br />

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al cumulo delle pannocchie, e il canto, che si inframezzava con i pettegolezzi vari<br />

raccontati da questo o da quella, aveva meno il tono del canto spiegato, a tutta voce.<br />

Già da quand’ero ragazzino, negli anni del seminario, questi momenti collettivi avevano<br />

un grande fascino su di me, era come una festa anche perché non mancavano mai ragazze<br />

e ragazzi del vicinato con cui chiacchierare e passare una giornata divertente, così li ho<br />

sempre attesi con ansia; in queste occasioni anzi, ad esempio quando si trebbiava o<br />

quando, in autunno, si raccoglievano le olive, cercavo sempre di dare una mano, questo<br />

accadeva poi soprattutto quando si trattava di sscije le marrocche.<br />

Debbo dire che, neppure con il passare degli anni, il fascino di questi momenti è venuto<br />

meno, anche perché mi è sempre piaciuto stare assieme agli altri, ma dopo che ho<br />

lasciato Orsogna raramente, purtroppo, ho avuto la possibilità di viverli di nuovo.<br />

Ciò che però, in queste occasioni, mi seduceva più di ogni altra cosa erano appunto le<br />

canzoni.<br />

Ancora oggi ascoltare le canzoni popolari mi dà una emozione particolare, pari a quella<br />

che provo ascoltando, ad esempio, le grandi melodie di Vincenzo Bellini, quelle che<br />

Verdi definiva lunghe lunghe: anche adesso, quando le ascolto, mi si smuove come<br />

qualcosa dentro e mi sento preso da una grande nostalgia, saranno quelle loro melodie<br />

così piene di malinconia, anche quando le canzoni sono allegre e scherzose, o quel loro<br />

cantare continuamente l’amore e la giovinezza, sta di fatto che esse non cessano affatto<br />

di esercitare su di me, come una volta, una straordinaria suggestione.<br />

Cesare De Titta, un grande poeta dialettale oggi quasi sconosciuto, nonché grande<br />

latinista, di Sant’Eusanio del Sangro in provincia di Chieti, ha scritto canzoni in dialetto<br />

abruzzese bellissime, alcune delle quali sono state anche musicate.<br />

Tra le sue poesie, che hanno in genere l’andamento delle canzonette meliche del<br />

Chiabrera, un poeta italiano a cavallo tra il ‘500 e il‘600, ve n’è una bellissima, che<br />

coglie assai bene il senso della nostalgia che ti prende l’anima fin nel profondo quando<br />

ascolti le nostre canzoni nate tra il popolo e dal popolo.<br />

La poesia s’intitola Lu piante de le fojje, è il pianto delle foglie gialle che cadono a una<br />

a una mentre ssi cojje la live, e la campagne / tra la nebbie aresone di canzune…<br />

Ma forse è il caso di trascriverla per intero, tanto essa è bella:<br />

Lu ciel’è cchiuse e cchiuse è la muntagne,<br />

le fojje gialle casche a un’a une,<br />

e ssi cojje la live, e la campagne<br />

tra la nebbie aresone di canzune…<br />

Sempre sta nebbie, amore, gna si cojje<br />

la live, e casch’a ll’arbere le fojje!<br />

S’alz’a lu ciele tant’e ttante scale<br />

gne tra nu sonne che nen sacce dire;<br />

sajje cantenne l’anem’e rrecale<br />

da ‘n ciele ‘n terre e jjette nu suspire…<br />

Puorteme tra la nebbie, tra le rame,<br />

100


na scale, amore, a ll’aneme che cchiame.<br />

‘N cim’a na scale ci sta na fijole<br />

che ‘m mezz’a ll’atre voce fa da prime,<br />

e, gna vuless’aretruvà lu sole,<br />

s’aalz’aalze e sse ne va cchiù ‘n cime…<br />

Ah cchela voce che ffa da suprane,<br />

amor’amore, falle cantà piane!<br />

Le fojje fa nu piante pe’ la vie,<br />

e lu cant’aresone entr’a lu core<br />

gne nu salut’afflitte, gne n’addie<br />

di tante cose bbielle che ssi more,<br />

di tante <strong>care</strong> nuode che ss’asciojje,<br />

amore, tra lu piante de le fojje.<br />

Nella seconda metà del 1959, verso la fine dell’autunno, ho lasciato definitivamente<br />

Orsogna.<br />

La prima tappa di questo mio nuovo cammino fu Lanciano, ma vi sono restato<br />

pochissimo tempo: appena pochi mesi più tardi, il partito mi chiamò a Chieti che, da<br />

allora, è diventata la mia residenza abituale.<br />

Anche quando, per esigenze di lavoro, mi sono trasferito in altre città, parlo di Avezzano<br />

Vasto e Campobasso, il mio punto di riferimento è rimasto sempre Chieti, una sola volta<br />

ho cambiato città portando con me l’intera famiglia, e fu quando andai a dirigere la zona<br />

di partito del Vastese e ci trasferimmo tutti a Vasto dove rimasi per circa tre anni.<br />

Con la mia partenza da Orsogna, si è chiusa una fase della mia vita che, tuttavia, più<br />

di altre continua a restare viva dentro di me e a legarmi a sé e che, ancora oggi, sento<br />

come un momento essenziale della mia formazione non solo culturale e politica ma<br />

anche sentimentale.<br />

Non solo: Orsogna resta per me innanzitutto il luogo delle radici e la espressione più<br />

intensa di una stagione attraversata da sogni, aspirazioni, emozioni profonde, insomma<br />

il luogo dell’infanzia e, poi, dell’adolescenza e della giovinezza, da questo punto di<br />

vista gli anni del seminario -che pure mi hanno portato a vivere a Chieti per quasi sei<br />

anni- non hanno mai avuto il senso della separazione.<br />

A rifletterci, a Orsogna sono vissuto solo pochi anni, molto meno che a Chieti, ma il<br />

rapporto affettivo con il mio paese natio è stato sempre un’altra cosa, non è per nulla<br />

paragonabile con quello che ho con Chieti.<br />

Orsogna è dentro di me, non così Chieti o le altre città dove sono vissuto, anche se<br />

ugualmente tante cose mi legano ad esse.<br />

A volte, al culmine della mia carriera politica, ho pensato (e la cosa è, poi, realmente<br />

accaduta) che sarebbe stato bello se avessi potuto concludere la mia attività con la<br />

elezione a sindaco di Orsogna, a sottolineare appunto quanto forte e radicato è sempre<br />

stato il sentimento che mi lega ad essa; e spesso, quando mi reco in paese, mi capita<br />

101


ancora oggi di sentirmi come preso da un forte turbamento al primo apparire delle<br />

campagne e delle case che conosco da ragazzo, anche se molte cose sono intanto<br />

cambiate.<br />

Ne La canzune de li pahise, Cesare De Titta dedica un simpatico medaglione anche ad<br />

Orsogna:<br />

Luce, Ursogne, dov’appare<br />

sse fijole pignatare:<br />

come ttè s’arechenosce<br />

sse demuonie da lu rosce<br />

è gne ttè rebbielle e ‘ntiste,<br />

è gne ttè sucialiste.<br />

Ci sono molte cose in questa poesiola di De Titta che colgono bene aspetti della vita di<br />

Orsogna e della sua storia, egli non scriveva solo per sentito dire.<br />

C’è innanzitutto l’eco di una canzone popolare molto nota a Orsogna: ti si messe la vesta<br />

rosce / da luntane ss’arichenosce…, c’è poi il richiamo ai socialisti che allora, quando<br />

egli scriveva (siamo negli anni ’20), amministravano Orsogna, c’è infine l’accenno a<br />

Orsogna come a uno dei centri di produzione di terrecotte dell’epoca.<br />

(Orsogna ha continuato a produrre terrecotte ancora per diversi anni dopo la guerra;<br />

la fine è arrivata con la morte degli ultimi artigiani che le lavoravano, uno di questi<br />

era il simpaticissimo e allegro cumpà Tome il cui nome è entrato in un modo di dire<br />

tipicamente orsognese: quando uno chiede la luna nel pozzo, gli si risponde ancora<br />

oggi: cumpà Tome z’à morte!, neppure volendo c’è più qualcuno in grado di fabbri<strong>care</strong><br />

con la terracotta quel che tu agogni).<br />

Quello che però mi ha più colpito in questi pochi ottonari è il riferimento alle fijole<br />

pignatare, sse demuonie, indicate come rebbielle e ‘ntiste, ribelli e intelligenti e anche<br />

piuttosto anticonformiste, vista la preferenza accordata ai corpetti rossi.<br />

Orsogna è sempre stata, nel tempo, aperta a idee di progresso: all’arrivo di Napoleone,<br />

era contro i Borboni; e, agli inizi dell’Ottocento, vi furono preti (in paese allora ce<br />

n’erano parecchi) e galantuomini iscritti alla carboneria, vi fu anche, dopo l’unità<br />

d’Italia, una forte opposizione al brigantaggio.<br />

Anche nel corso del ‘900 questa disponibilità verso idee di progresso non è mai venuta<br />

meno, come testimoniano la vittoria della repubblica nel referendum istituzionale del<br />

’46 e la presenza costante, già da prima del fascismo, di una forte sinistra, anche se essa<br />

oggi attraversa momenti di grande difficoltà e non ha capi.<br />

Ed è certamente anche per questa sua caratteristica che Orsogna mi è sempre rimasta<br />

nel cuore.<br />

102


CAPITOlO V<br />

“Palazzo bello. Cane di notte dal casolare, al passar del viandante”.<br />

E’ l’incipit dello Zibaldone di pensieri di Giacomo Leopardi, la prima annotazione che<br />

egli fa di abbozzi poetici che è possibile ritrovare, sparsi qua e là, anche in altre parti<br />

dello Zibaldone e che il poeta ha spesso utilizzato nei Canti.<br />

Ma, tra le mie <strong>nipoti</strong>, sicuramente qualcuna dirà a questo punto: Ma, caro nonno, che<br />

c’entra lo Zibaldone con le cose che ci stai raccontando?<br />

Eppure, c’entra! Perché questo passo, che pure disegna nella sua essenzialità un paesaggio<br />

notturno romantico e di tutto riposo, mi torna tuttavia sempre alla mente ogni volta che<br />

ripenso alle tante scarpinate che mi è toccato sciropparmi, quand’ero a Lanciano per<br />

conto del partito, per tornare, a notte alta e a piedi, nel mio alloggio lancianese, da una<br />

contrada o da uno dei paesini vicini, dopo aver concluso una riunione: salvo il palazzo<br />

bello di cui parla il poeta di Recanati, il resto descrive bene la scena della quale piuttosto<br />

spesso, nei pochi mesi del mio soggiorno in città, sono stato il protagonista, in cui ero io<br />

il viandante al quale i cani abbaiavano dai casolari situati di solito a poca distanza dalla<br />

strada che stavo percorrendo da solo o in compagnia.<br />

A quel tempo non era semplice per nessuno spostarsi in provincia; e questo era vero<br />

ovviamente anche per i funzionari del PCI.<br />

Il partito, all’epoca, disponeva solo di una autovettura, una 1100 rossa, ma la potevano<br />

usare soltanto i compagni che lavoravano in federazione, mentre io dovevo arrangiarmi<br />

come potevo per recarmi ogni tanto nelle contrade (e a Lanciano ce ne sono tante) o<br />

nei comuni del Sangro, almeno in quelli, come dire?, più a portata di piede. Perché, in<br />

realtà, l’unico vero mezzo a mia disposizione era allora il cavallo di S. Francesco.<br />

Ho potuto utilizzare un mezzo motorizzato, più esattamente una vespa (o una lambretta?),<br />

solo alcuni mesi dopo, quando mi sono trasferito a Chieti.<br />

Me lo rammento bene perché debbo proprio ad essa una rovinosa caduta che mi<br />

procurai un giorno, per mia inesperienza, lungo la vecchia nazionale Adriatica, in una<br />

delle tantissime curve che punteggiano ancora oggi il tratto tra Fossacesia e S. Vito:<br />

per fortuna, la caduta fu senza conseguenze, e a rimetterci furono solo la mia pelle, con<br />

escoriazioni diffuse su tutto il corpo, e la camicia e i pantaloni che indossavo ridotti a<br />

stracci. Anche se, ad essere sincero, il colpo per me più duro fu quello della perdita della<br />

camicia e dei pantaloni, una mazzata ben più pesante delle ferite riportate.<br />

In quegli anni anch’io facevo parte della larghissima schiera dei truscianti, una tipica<br />

espressione lancianese per indi<strong>care</strong> i morti di fame, e non potevo quindi permettermi,<br />

non dico un qualunque mezzo motorizzato, ma neppure un solo capo di vestiario in più<br />

dell’indispensabile.<br />

Ricordo anzi che, per questa ragione, proprio nei primi anni ‘60 sono stato costretto ad<br />

andare in giro nei mesi freddi, non so bene più per quanto tempo, con un impermeabile<br />

che di giorno in giorno si faceva sempre più unto e liso e il cui miserevole stato non<br />

poteva certo sfuggire all’occhio anche distratto delle persone con le quali avevo a che<br />

fare.<br />

A dire il vero, non è che questo mi creasse particolari problemi nel rapporto con gli<br />

103


altri. Tuttavia, mi è sempre rimasto ben vivo nella memoria, e ricordo che mi fece anche<br />

un po’ vergognare, il consiglio che, a proposito di questo impermeabile, mi venne, un<br />

giorno che ero stato a casa sua, tramite il figlio, dalla madre di Enrico Graziani che avevo<br />

conosciuto proprio in quegli anni: non era il caso, mi fece sapere, che lo tenessi infilato<br />

quando incontravo gente, mettendo così in mostra, coram populo, tutta la tavolozza<br />

di colori che vi si era ormai stampata sopra col tempo ed esibendo innanzitutto le così<br />

tante e sempre più corpose sdruciture del collo, era meglio se lo portavo arrotolato sul<br />

braccio, a conti fatti poteva anche fare più chic...!<br />

La signora Graziani, morta ormai da qualche anno, era una donna di spirito e si è sempre<br />

dimostrata nei miei confronti una persona simpatica e disponibile e, debbo dire, anche<br />

discreta, ma in quella occasione non mancò certo di metterci un po’ di sale nel suo<br />

consiglio.<br />

Ma non c’era solo il problema della macchina, per gli spostamenti nei comuni della<br />

zona. Anche potendo disporre di qualche lira (e non era davvero il mio caso), in genere<br />

non c’era all’epoca nei paesi neppure l’ombra di un alberghetto dove fermarsi la notte e<br />

ripartire la mattina dopo con il pullman.<br />

Mi è capitato così più di una volta di dover tornare a piedi a Lanciano, per giunta da<br />

solo. Tutte le volte, ad esempio, che sono stato a tenere riunioni con i mezzadri di<br />

Marcantonio, che si svolgevano di solito nella casa di Giovanni Di Nucci, anche lui<br />

mezzadro del grosso latifondista.<br />

La masseria del compagno si trovava in contrada Romagnoli, nel comune di<br />

Mozzagrogna, quasi a mezza costa lungo la collina che digrada verso il Sangro, quindi<br />

fuori del percorso seguito dai pullmans; e così, quando dovevo recarmi da lui per una<br />

riunione, partivo da Lanciano il pomeriggio, utilizzando fino al bivio di Romagnoli il<br />

pullman, per proseguire poi a piedi verso la masseria che distava di lì almeno un paio<br />

di chilometri.<br />

Non si trattava comunque di una gran fatica.<br />

Da questo punto di vista ero ben allenato visti i tanti chilometri macinati, quando vivevo<br />

ancora a Orsogna, per arrivare fino alla stazione a prendere la Sangritana o anche soltanto<br />

per recarmi in paese; avevamo oltretutto l’abitudine, io e i miei amici, di spostarci ogni<br />

tanto a piedi, in occasione di feste, nei paesi vicini: ricordo, ad esempio, quando -dopo<br />

la fine del liceo- partimmo una notte da Orsogna, era più o meno l’una, per assistere<br />

la mattina successiva, poco dopo il sorgere dell’alba, all’apertura (con sontuosi fuochi<br />

d’artificio) delle feste lancianesi di settembre.<br />

Il problema era il ritorno: all’ora in cui la riunione finiva, non c’erano più mezzi per<br />

raggiungere Lanciano, dovevo così servirmi per forza del cavallo di S. Francesco,<br />

rassegnato a qualche ora e passa di cammino solitario e notturno.<br />

Ma a impensierirmi non era neppure questa volta la distanza, era invece l’ansia che<br />

al momento di mettermi in viaggio si impadroniva di me e non mi lasciava per tutto<br />

il tragitto, dalla masseria di Di Nucci fino alle porte di Lanciano, mentre affrontavo a<br />

passo svelto la strada che portava in città. Un’ansia che minacciava continuamente di<br />

trasformarsi, se non in paura, comunque in un certo qual timore di non so bene che cosa,<br />

un timore insomma vago, indistinto, indefinito.<br />

Sembrerà strano, ma era proprio così, anche se non so ancora oggi spiegarmene bene<br />

104


il perché!<br />

Chissà, forse era lo scenario nel quale mi muovevo, a quell’ora ormai avanzata della<br />

notte, uno scenario di totale solitudine, non si scorgeva infatti proprio anima viva in<br />

giro. O era perché mi trovavo ad attraversare, tutto solo, luoghi per me affatto nuovi e<br />

sconosciuti e a percorrere sentieri circondati da ogni lato dalla campagna deserta nella<br />

quale si rincorrevano soltanto l’abbaiare dei cani dai casolari addormentati e i mille<br />

rumori della notte. O forse, piuttosto, perché, con i rumori che salivano dalla campagna,<br />

mille fantasie si destavano e si agitavano dentro di me, fantasie che certo nascevano<br />

e si alimentavano dei tanti racconti dell’infanzia sedimentati nella mia memoria più<br />

profonda, senza senso quindi e tanto meno fondamento, ma che tuttavia riuscivo con<br />

difficoltà a tenere a bada, si sa bene d’altronde che le paure immaginarie sono molto più<br />

coinvolgenti sul piano emotivo di quelle provocate dal presentarsi di pericoli reali!<br />

Ricordo che per sentirmi più sicuro, quando salutavo i compagni e stavo per imboc<strong>care</strong><br />

la strada del ritorno, prima di lasciare la casa del buon Di Nucci mi munivo di un<br />

bastone che, chissà!, poteva sempre tornare utile lungo il cammino, e poi via, gambe in<br />

spalla, per arrivare quanto prima a casa.<br />

Ma era poi davvero così strana e inusitata una tale ansia, e le paure che<br />

l’accompagnavano?<br />

Leopardi, fine conoscitore dell’animo umano, scrive che “le cose ignote fanno più<br />

paura che le conosciute”, egli cita poi in un passo della sua opera giovanile sugli errori<br />

popolari degli antichi quei versi del De rerum natura in cui Lucrezio “paragona i timori,<br />

che bene spesso concepiscono gli uomini per cose vane e da nulla, alle angustie che i<br />

fanciulli provano nelle tenebre...”.<br />

Paure fanciullesche, dunque.<br />

Pueri trepidant, atque omnia caecis / in tenebris metuunt, solo che queste paure -afferma<br />

Lucrezio- possono assalire anche gli adulti che temono le stesse cose quae pueri in<br />

tenebris pavitant finguntque futura (anche Voltaire, nota Leopardi nel suo saggio,<br />

“quel banderaio degli spiriti forti, quell’uomo sì ragionevole”, com’egli lo definisce,<br />

“tremava nelle tenebre come un fanciullo...”).<br />

Ricordo che mi accadeva ogni tanto di lasciarmi prendere da simili paure anche quando,<br />

quasi ventenne, dal paese tornavo a casa, a notte alta e naturalmente a piedi, nella<br />

masseria di Colle S. Giacomo.<br />

Anche allora mi ritrovavo in mezzo all’abbaiare dei cani e ai rumori della campagna<br />

avvolta dalle tenebre o, se c’era la luna, tutta punteggiata di chiazze d’ombra a causa<br />

degli alberi e dei cespugli che la popolavano; e anche allora, nonostante conoscessi<br />

bene i luoghi, avvertivo l’emergere prepotente, dentro di me, di timori indefiniti, irreali<br />

appunto, che in nessun modo però mi abbandonavano finché non arrivavo a casa, era<br />

come se dai mille anfratti di rovi che popolavano i margini della strada o dai boschetti che<br />

si intravvedevano nelle campagne adiacenti dovesse all’improvviso sbu<strong>care</strong> qualcosa<br />

d’insolito, di strano e naturalmente tale da incutere terrore!<br />

Ricordo anche che in quelle occasioni il mio modo per esorcizzare l’ansia era quello<br />

di accelerare il passo, qualche volta avevi anche la sensazione che qualcuno ti stesse<br />

seguendo, ti sembrava addirittura di sentirne il passo, e dovevi fare un grande sforzo su<br />

te stesso per convincerti che era tutto frutto della tua fantasia, tuttavia ti voltavi sempre<br />

105


con una certa apprensione e acceleravi ancora di più il passo o ti mettevi a cantarellare,<br />

come se questo potesse farti compagnia o comunque distrarti, ed era forse invece solo<br />

un modo inconscio per “dare a intendere a noi stessi di non temere”, come sottolinea<br />

molto acutamente Leopardi in un passo dello Zibaldone.<br />

Insomma, anche se poi andando avanti negli anni sono -come dire- migliorato, ero<br />

anch’io allora preda come tanti, pur non essendo più un bambino, di quelle “ombre,<br />

larve, spettri, fantasmi, visioni…, gli oggetti terribili che facevano tremare i poveri<br />

antichi, e che, convien pur dirlo, ispirano ancora a noi dello spavento”, di cui discorre<br />

Leopardi nel saggio citato parlando dei terrori notturni degli antichi!<br />

Ciò non mi impediva naturalmente, anche se le paure non scomparivano mai del tutto<br />

e l’orecchio rimaneva sempre vigile e gli occhi bene aperti, di apprezzare e gustare lo<br />

spettacolo che la campagna ti offre anche di notte, soprattutto nelle notti di luna, la luna<br />

ti viaggia sopra la testa, accompagnando il tuo cammino, e scodella intanto davanti<br />

ai tuoi occhi le innumerevoli bellezze di un paesaggio davvero unico che ti invita ad<br />

abbandonarti ad altre fantasticherie, più dilettevoli e appaganti.<br />

In occasione di altre riunioni nei comuni della zona, sono stato invece più fortunato.<br />

Non ero costretto, in quei casi, a infor<strong>care</strong> il cavallo di S. Francesco, ma potevo contare<br />

sul buon cuore di qualche compagno che mi caricava sul suo mezzo (al massimo,<br />

una motocicletta, le automobili all’epoca erano davvero merce rara, soprattutto tra i<br />

lavoratori) e mi portava a casa.<br />

Mi è capitato diverse volte, ma ricordo in particolare una sera, a Fossacesia, quando il<br />

compagno Rotondi (questo, se la memoria non mi tradisce, il suo cognome), finita la<br />

riunione, mi prese sulla sua moto e si avviò sulla strada per Lanciano.<br />

Rotondi, che aveva potuto comprarsi la motocicletta grazie ai risparmi accumulati con<br />

la sua vita da emigrato, abitava a Villa Scorciosa, una contrada di Fossacesia, e per<br />

tornare a casa doveva fare comunque un pezzo della attuale provinciale che porta verso<br />

il capoluogo frentano; e poi, Villa Scorciosa non era lontana da Lanciano.<br />

Salii così sul sellino posteriore della moto e via a tutto gas verso la città, ma il diavolo<br />

ci mise proprio la coda: avevamo percorso appena qualche chilometro ed ecco arrivarci<br />

addosso il diluvio. Saggiamente a quel punto, senza pensarci troppo, Rotondi prese<br />

la strada di casa sua, dove quella notte fui suo ospite, eravamo naturalmente affamati<br />

e fradici di pioggia ma la moglie ci preparò subito qualcosa da mettere sotto i denti<br />

e soprattutto accese un bel fuoco che ci consentì di asciugarci i panni che avevamo<br />

addosso.<br />

Il mattino dopo, per tornare a Lanciano, presi anch’io il pullman che portava le tabacchine<br />

di Villa Scorciosa, tra le quali c’era anche la moglie di Rotondi, all’ATI (l’ATI, che oggi<br />

non esiste più, era l’azienda statale che lavorava il tabacco coltivato nelle campagne del<br />

Sangro e occupava circa un migliaio di tabacchine provenienti, in genere, dalle contrade<br />

di Lanciano e dai paesi limitrofi).<br />

Sono arrivato a Lanciano nel 1959, quando ormai l’inverno era quasi alle porte; ma vi<br />

sono restato solo pochi mesi, più o meno fino alla primavera inoltrata del 1960, un tempo<br />

comunque sufficiente per fare una esperienza che considero ancora oggi di grande utilità<br />

per la mia formazione politica: anche perché è stata la mia prima esperienza esterna.<br />

106


Essa, inoltre, fu così intensa che mi consentì di stabilire legami assai forti con i compagni<br />

tanto che essi mi chiesero di capeggiare la lista del PCI nelle elezioni comunali del<br />

1960 e mi rielessero poi, sempre come capolista, consigliere comunale ancora nelle<br />

amministrative del 1964, dandomi la possibilità di restarlo addirittura fino al 1970,<br />

nonostante che nel frattempo non vivessi più in città e avessi altri rilevanti impegni di<br />

partito prima a livello provinciale e successivamente nel vastese.<br />

Lanciano fu importante per me anche dal punto di vista del mio incontro con le istituzioni<br />

e con la necessità nella quale mi venni a trovare di impadronirmi rapidamente di una<br />

serie di conoscenze di natura istituzionale: infatti, fu proprio a Lanciano che entrai per<br />

la prima volta, come consigliere, in un’aula di Consiglio comunale, ignorando però<br />

tutto del suo funzionamento!<br />

La frequentazione del Consiglio comunale mi abituò presto a stare al merito dei<br />

problemi nel confronto con le altre forze politiche e amministrative della città, fuori di<br />

ogni propaganda generica o demagogica; a impegnarmi inoltre in uno sforzo continuo<br />

di messa a punto e di approfondimento dei problemi attraverso un rapporto costante e<br />

positivo con il partito in primo luogo ma anche con l’opinione pubblica a noi più vicina;<br />

e a cer<strong>care</strong> di intrecciare, ogni volta che se ne presentava la possibilità, la battaglia nelle<br />

istituzioni con la iniziativa politica rivolta all’esterno, alla gente comune.<br />

A Lanciano ero stato mandato dalla federazione con l’incarico di responsabile di<br />

zona, anche se con compiti puramente organizzativi, le zone all’epoca non avevano<br />

alcuna funzione di direzione politica, tuttavia finii per occupare gran parte del mio<br />

tempo facendo di fatto il segretario della sezione, se ben ricordo anzi fui anche investito<br />

formalmente di questa responsabilità da parte dei compagni.<br />

D’altra parte, era forse anche la cosa giusta da fare, vista la difficoltà di arrivare negli<br />

altri comuni del Sangro.<br />

A Lanciano, il partito era proprio debole, sovrastato a sinistra sia dal partito socialista<br />

sia, soprattutto, dal partito repubblicano che aveva in Francesco Paolo Memmo un<br />

dirigente di grande caratura.<br />

All’epoca, il PCI non riusciva neppure a esprimere consiglieri comunali locali; e il<br />

suo gruppo dirigente era composto fondamentalmente da compagni ormai di una certa<br />

età, bravi, volenterosi, ma non più di tanto, e parecchi di essi non erano neppure di<br />

Lanciano, ma provenivano dai paesi del Sangro.<br />

L’unico giovane era Nicolino Stella, lancianese doc, che veniva da una famiglia molto<br />

povera, nella quale la truscia, come teneva a sottolineare lui stesso, era di casa.<br />

Lo ricordo ancora oggi con molto affetto; e mi dispiace di non aver avuto più, ormai<br />

da molto tempo, occasione di incontrarlo: è da tantissimi anni, infatti, che ha lasciato<br />

Lanciano e si è trasferito a Teramo, nella città della moglie.<br />

Quando l’ho conosciuto, ricordo che lavorava già alla Camera del Lavoro locale, della<br />

quale divenne in seguito segretario: a causa della sua provenienza sociale, non aveva<br />

certo fatto grandi studi ma la sua naturale intelligenza gli consentì di diventare un<br />

dirigente non solo sindacale ma anche politico, egli fu infatti, per un periodo di tempo,<br />

anche responsabile della zona del partito nel Sangro; Nicolino poi era una persona seria,<br />

posata, scrupolosa, di cui ci si poteva fidare a occhi chiusi. E non a caso fu proprio lui la<br />

prima espressione autoctona del PCI lancianese nel Consiglio comunale della città, nel<br />

107


quale fu eletto per la prima volta, assieme a me, nelle amministrative del 1964.<br />

Il PCI elesse, infatti, in quelle elezioni appena due consiglieri, sui trenta che ne contava<br />

il Consiglio comunale: davvero pochini, ma fu ugualmente una vittoria perché fino ad<br />

allora ne avevamo sempre eletto uno solo!<br />

A partire dagli anni ’70, la situazione invece cambiò radicalmente.<br />

La nostra rappresentanza nelle istituzioni locali cominciò a essere non solo tutta<br />

lancianese ma anche abbastanza numerosa e qualificata, era arrivata infatti al partito,<br />

sulla fine degli anni ‘60, una folta schiera di giovani intellettuali e di lavoratori, artigiani,<br />

piccoli commercianti e anche contadini, il PCI inoltre in quegli anni poté capitalizzare<br />

anche la crisi che nella seconda metà degli anni ’60 aveva investito alle radici il PSI<br />

lancianese, spostando una grossa fetta dell’elettorato socialista verso di noi.<br />

Una spinta decisiva a questa crescita del PCI venne certamente dalle lotte delle<br />

tabacchine costrette, nella primavera del 1968, a scendere in piazza e anche a scontrarsi<br />

duramente con le forze di polizia fatte affluire in grande numero da Foggia, per difendere<br />

la sopravvivenza dell’ATI; ma decisiva fu forse la nascita anche in città di un forte<br />

movimento studentesco, assieme al nuovo clima culturale e politico che già allora si<br />

respirava in tutto il Paese.<br />

Negli anni ‘70, anche i riferimenti sociali del PCI lancianese si fecero più ampi e robusti.<br />

Non era così invece all’inizio degli anni ‘60.<br />

Da questo punto di vista, balzava subito agli occhi la strutturale debolezza dei nostri<br />

rapporti con gli strati fondamentali della popolazione.<br />

Non solo essi erano assai fragili, ma si limitavano sostanzialmente a pezzi di<br />

sottoproletariato, all’epoca assai consistente in città, e ad alcune realtà operaie: in<br />

particolare eravamo forti tra le tabacchine, sempre molto combattive e determinate a<br />

far valere i propri diritti, non a caso del resto proprio tra di loro emersero in quegli anni<br />

alcune forti figure di compagne che giocarono poi un ruolo di primo piano nelle lotte<br />

(ricordo per tutte Ersilia Cascinelli, una vera capa sindacale e politica in fabbrica, la cui<br />

casa ho avuto modo di frequentare spesso durante i pochi mesi della mia permanenza<br />

a Lanciano).<br />

Per il resto, zero o quasi.<br />

Era così per i rapporti con i ceti urbani legati in particolare al commercio (il commercio<br />

rappresenta da sempre, a Lanciano, una parte fondamentale ed estesa dell’economia<br />

cittadina, e per questa ragione i commercianti hanno sempre esercitato un ruolo sociale<br />

e politico di primo piano nella vita della città) e alle professioni.<br />

Ma era così anche tra i contadini che, all’epoca, erano quasi la metà della popolazione.<br />

In realtà, il partito di Lanciano era un partito molto chiuso e settario e vi era persino,<br />

tra i compagni, chi faceva, ad esempio, ai contadini (meglio: ai cafoni) questo discorso:<br />

Quando arriveranno i comunisti, porteranno la luce elettrica in campagna per farvi<br />

lavorare anche di notte!, insomma i contadini -per molti comunisti lancianesi- erano<br />

l’equivalente dei kulaki durante la rivoluzione bolscevica e, per questo, essi non<br />

potevano meritare altro che l’annientamento, come in Russia!<br />

A Lanciano comunque mi sono trovato bene; e credo di aver dato sia nei pochi mesi del<br />

mio soggiorno che negli anni successivi un qualche contributo a svecchiare il partito,<br />

facendo emergere forze nuove, e a emarginare e neutralizzare le spinte più settarie,<br />

108


legando sempre di più la presenza dei comunisti ai problemi della città e alle battaglie<br />

necessarie per risolverli.<br />

Da questo punto di vista, anzi, il PCI lancianese fece un bel passo avanti rispetto alle<br />

sue tradizioni di chiusura e di settarismo. Riuscendo, ad esempio, a fare politica, e<br />

quindi a non farsi isolare, nel periodo in cui, siamo ai primi anni ‘60, su iniziativa della<br />

sinistra dc, si costituì in città la prima giunta di centro-sinistra (tra le primissime, se<br />

non la prima, in Italia); e anche quando si avviò, tra il ‘65 e il ‘66, nel Sangro, sotto la<br />

spinta sempre di settori della DC, un dibattito intenso e diffuso in tutta la vallata sulle<br />

prospettive di Lanciano e della zona.<br />

Nella seconda metà degli anni ‘60, Lanciano e il Sangro si sentivano fortemente frustrati<br />

a causa della loro esclusione dai programmi d’investimento e di sviluppo definiti, per<br />

la regione, dal governo nazionale e dalla DC abruzzese. Così, cominciarono a farsi<br />

sentire i primi mugugni tra gli stessi democristiani, innanzitutto tra i sindaci (quasi tutti<br />

dc) della valle, e a fiorire le prime iniziative per la creazione di un movimento per la<br />

rinascita della vallata. L’obiettivo era certo, in primo luogo, di premere sul governo e su<br />

Gaspari (che era già allora il padre-padrone della DC abruzzese), ma anche di governare<br />

il malcontento e volgerlo a favore della stessa DC e degli altri partiti di governo, in<br />

modo da impedire all’opposizione (in altre parole, al PCI) di fare della battaglia contro<br />

l’arretratezza e per lo sviluppo della città e della zona un’arma contro lo strapotere<br />

democristiano.<br />

Ma il PCI fu capace di reagire in maniera efficace a questo disegno e alla situazione<br />

che si stava creando; e costruì a sua volta, con diverse iniziative tra la gente e negli enti<br />

locali, una propria proposta alternativa che ci consentì poi di crescere sia in consensi<br />

elettorali che in influenza politica e, nei primi anni ‘70, di essere noi alla testa della<br />

battaglia decisiva per aprire le porte dello sviluppo a Lanciano e all’intera vallata:<br />

la battaglia contro l’insediamento della Sangrochimica e per l’arrivo della FIAT nel<br />

Sangro.<br />

Anche in questa fase naturalmente, nella mia qualità e di consigliere comunale e di<br />

dirigente provinciale della federazione, io fui tra gli animatori principali delle iniziative<br />

e delle proposte che il PCI mise in campo.<br />

Insomma, mie <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>, un fatto è certo: il ruolo del PCI è stato essenziale per dare<br />

un futuro diverso a Lanciano e al Sangro, e proprio per questo un po’ di merito va anche<br />

al nonno!<br />

Quando giunsi a Lanciano, ricordo che, proprio per le caratteristiche che aveva allora il<br />

partito in città, non fu per nulla facile mettere in moto la sezione. Costava, anzi, sempre<br />

una gran fatica e spesso, pur avendo deciso assieme ai compagni le varie iniziative, alla<br />

fine mi ritrovavo da solo a cer<strong>care</strong> di tradurle in fatti.<br />

Rammento, a questo proposito, un episodio che mi fece molto arrabbiare e che, debbo<br />

dire, mi colse anche un po’ di sorpresa, perché francamente non me l’aspettavo...!<br />

Eravamo nel 1960, forse all’inizio della primavera, nel periodo comunque in cui a<br />

Lanciano si svolgeva all’Iconicella, una contrada appena fuori della cinta urbana, sulla<br />

provinciale per Fossacesia, la tradizionale fiera dell’agricoltura alla quale accorreva<br />

sempre una grandissima folla di contadini e di commercianti di bestiame e di altri prodotti<br />

109


agricoli sia del posto che della zona.<br />

Ebbene, anche in considerazione della situazione di malcontento che c’era allora<br />

nelle campagne, decidemmo in sezione che quella occasione andava utilizzata per far<br />

conoscere ai contadini il punto di vista, che era molto critico, dei comunisti, sintetizzato<br />

in un volantone, sulla politica agricola del MEC (il Mercato Europeo Comune),<br />

concordando contemporaneamente che saremmo andati io e un giovane compagno,<br />

apprendista barbiere, a distribuirlo agli interessati.<br />

Ma il compagno, quando la mattina ci incontrammo sul corso cittadino per recarci<br />

insieme alla fiera, trovò una scusa per allontanarsi: mi assicurò tuttavia che comunque<br />

ci saremmo ritrovati più tardi all’Iconicella, ma io sono ancora lì ad attenderlo, si guardò<br />

bene infatti dal farsi vedere e il volantone fui costretto a distribuirlo da solo...<br />

Di lì a qualche mese il giovane compagno si trasferì in Inghilterra, dove credo abbia<br />

scelto di vivere definitivamente la sua vita: da allora, infatti, non mi è più capitato di<br />

incontrarlo. E chissà: forse la ragione per cui quella mattina decise di scomparire era<br />

proprio legata a questa sua scelta, ebbe paura cioè di esporsi a possibili e prevedibili<br />

-anzi normali, all’epoca- rappresaglie da parte della DC, che gli avrebbero impedito di<br />

partire o, in ogni modo, sicuramente creato dei problemi.<br />

Tuttavia, nonostante questi contrattempi, riuscimmo ugualmente a portare avanti una<br />

serie di iniziative sia in città, tra le tabacchine e gli studenti, che nelle campagne.<br />

Ricordo anche che riuscimmo a mettere in piedi un Comitato cittadino per la costituzione<br />

dell’Ente Regione, con la partecipazione nostra, dei socialisti, dei repubblicani e anche<br />

di qualche frangia democristiana. In quegli anni era molto forte in Abruzzo la battaglia<br />

regionalista, che si sviluppò con caratteri largamente unitari; la presenza in diverse parti<br />

della provincia di consulte regionaliste giocò, tra l’altro, un ruolo importante anche<br />

nelle lotte per il metano dell’inizio degli anni ‘60.<br />

Il fatto poi che avessi amicizie tra gli ex studenti del liceo, ora universitari, mi diede<br />

anche modo di partecipare a qualche iniziativa, di natura politico-culturale, organizzata<br />

dal circolo universitario cittadino.<br />

A Lanciano mi sono trovato comunque bene: anche dal punto di vista, come dire,<br />

umano.<br />

Lanciano è una città aperta, accogliente, colta, nella quale anche l’ironia dei suoi<br />

abitanti, pure a volte un po’ greve e sboccata e con una certa tendenza al pecoreccio,<br />

risulta sempre piacevole. E poi, è anche una città bella (almeno lo era allora, oggi non<br />

so) sul piano urbanistico e architettonico, con un centro storico davvero invidiabile.<br />

Io, tra l’altro, ebbi la fortuna di trovare casa proprio in una zona molto suggestiva<br />

del centro storico, presso una famiglia artigiana (moglie e marito, lui era falegname)<br />

davvero ospitale.<br />

La casa si trovava a Largo dei Frentani, una piazzetta deliziosa tutta chiusa dalle<br />

abitazioni e alla quale accedevo dalla salita Fenaroli, attraverso una antica porta, a poco<br />

più di un centinaio di metri dal palazzo municipale; e la mia stanza dava proprio sulla<br />

piazzetta, così dalla finestra, quando non ero fuori, potevo osservare quel che accadeva<br />

giù, soprattutto ammirare le ragazze che entravano e uscivano di casa andando a prendere<br />

l’acqua alla fontana che si trovava in un angolo della piazza.<br />

Nei pochi mesi che ho abitato a Lanciano mi sono ritrovato spesso anche con parecchi<br />

110


dei ragazzi che avevano frequentato con me il liceo; e ciò mi consentì di non dover<br />

passare il mio tempo libero solo con i compagni e quindi di vivere la vita cittadina quasi<br />

come un lancianese.<br />

Quando, tra la primavera e l’estate del 1960, arrivai a Chieti, il mio primo impatto con<br />

la città non fu certo dei più felici; e l’impressione che ne ricavai non fu davvero molto<br />

lusinghiera.<br />

All’epoca, Chieti non aveva ancora registrato un grande afflusso di popolazione dai<br />

paesi della provincia. Ciò avverrà nei mesi e negli anni seguenti, in coincidenza con la<br />

industrializzazione della vallata dello Scalo e l’avvio dei primi corsi universitari liberi.<br />

Era quindi ancora una città essenzialmente impiegatizia e, dal punto di vista culturale e<br />

politico, piuttosto chiusa e sonnacchiosa, alla camomilla insomma.<br />

Ma che cosa accadde esattamente, in occasione di questo mio primo, o forse meglio,<br />

tenendo conto degli anni del seminario, secondo incontro con Chieti?<br />

Com’era normale che facessi, prima di trasferirmi nel capoluogo di provincia da<br />

Lanciano, con le mie poche e sbrindellate masserizie, mi preoccupai di trovare un<br />

alloggio dove stare come pensionante, e mi raccomandai per questo a Mario Palombaro<br />

che allora lavorava ancora in federazione.<br />

Mario si diede subito da fare e mi trovò in pochissimi giorni una famiglia che abitava<br />

in una casa popolare di Madonna degli Angeli, nella zona vicina alla scuola elementare,<br />

così appena misi piede in città potei andare a prendere possesso del nuovo alloggio.<br />

Ricordo che era il primo pomeriggio quando conobbi la mia nuova padrona di<br />

casa (il marito era al lavoro) e che, appena sistemate le mie cose, mi recai subito in<br />

federazione.<br />

Ma quale non fu la mia sorpresa la sera quando, tornando a casa per la cena, mentre stavo<br />

ancora salendo i gradini della scala esterna di ingresso all’abitazione, vidi, arrotolate sul<br />

pianerottolo su cui si affacciava la porta di casa, le mie povere suppellettili?!<br />

Suonai allora il campanello e tentai di avere delle spiegazioni, ma tutto fu inutile: il<br />

marito della donna, che evidentemente non era stato informato dell’arrivo del nuovo<br />

inquilino o aveva cambiato idea e che comunque non sembrava gradire la presenza di<br />

un estraneo in casa, mi aprì appena la porta e mi cacciò via in malo modo.<br />

Insomma, fu un incontro piuttosto traumatico che, proprio per questo, mi è rimasto nella<br />

memoria.<br />

A Chieti, avevo vissuto da seminarista per molti anni, ma questo non comportò mai, in<br />

realtà, un rapporto vero con la città, e i suoi abitanti perciò non li conoscevo affatto.<br />

In fin dei conti, eravamo solo dei ragazzi il cui ambiente di vita non era mai andato al di<br />

là delle mura del seminario, e quindi la gente la incontravamo soltanto.<br />

Conoscevamo certo le strade e i palazzi della città ma solo perché vi passeggiavamo in<br />

gruppo, nell’ora della nostra libera uscita quotidiana. Come, in occasione del Venerdì<br />

Santo, percorrevamo Corso Marrucino in processione, con indosso le cotte bianche e<br />

recitando ad alta voce le preghiere di rito e c’era tanta gente lungo il percorso, devota<br />

o semplicemente curiosa; o servivamo messa in cattedrale nelle ricorrenze liturgiche<br />

solenni, quando la cattedrale era piena e a officiare le funzioni religiose era l’arcivescovo:<br />

la settimana santa, la Pasqua, le feste di Natale, il Corpus Domini e altre feste comandate<br />

111


importanti. Ma la gente vera non era quella che vedevamo!<br />

La giornata finì così, dopo una tale bella accoglienza, nella stanza squallida di un<br />

alberghetto di quint’ordine, Scatenato, che si trovava proprio a fianco della Cassa<br />

di risparmio e che oggi non esiste più; e lì fui costretto a restare ancora nei giorni<br />

successivi, in attesa di una nuova sistemazione.<br />

Naturalmente, una tale singolare disavventura non mi diede certo di Chieti l’idea di<br />

una città pronta ad accogliere, non dico a braccia aperte, ma comunque con una certa<br />

disponibilità, i nuovi arrivati.<br />

Per chi come me veniva dalla provincia e conosceva le storie raccontate anche da<br />

gente di Orsogna su come Chieti aveva accolto, durante la guerra, la massa di profughi<br />

proveniente da tanti comuni dell’ortonese nell’inverno del 1943, e aveva modo<br />

di ascoltare quasi ogni giorno le lamentele di chi, venendo magari anche da paesi<br />

lontanissimi, si ritrovava a subire i continui rinvii o la strafottenza e il menefreghismo<br />

della burocrazia del capoluogo, era inevitabile che in qualche modo fosse prevenuto nei<br />

confronti della città. Ebbene, dopo quel che m’era capitato, un tale pregiudizio ne uscì<br />

rafforzato!<br />

Tra l’altro, nei primi tempi del mio nuovo soggiorno in città, anche le prime conoscenze<br />

che feci fuori del partito (ricordo che con Licio Bevilacqua ogni tanto passavo qualche<br />

serata all’Enal, all’imbocco del viale che porta alla villa comunale, che allora funzionava<br />

ancora come sala da giochi, sempre affollatissima) non mi aiutarono certo a superare<br />

questo pregiudizio.<br />

La prima idea che ti facevi delle persone con le quali ti incontravi era in genere di gente<br />

abituata a guardare gli altri dall’alto in basso, con una alterigia tutta piccolo-borghese,<br />

quella tipica appunto dei ceti burocratici che allora dominavano la città.<br />

Col tempo, ho maturato una idea un po’ meno severa nei confronti della città e dei<br />

suoi abitanti, non tanto però da farmi dimenti<strong>care</strong> quel primo incontro. Anche perché<br />

il comportamento politico della città è stato sempre molto conservatore e, in alcune<br />

frange, al limite della reazione. E anche i cambiamenti che negli anni l’hanno segnata<br />

positivamente, modificandone dati di costume e culturali e consentendo addirittura<br />

l’approdo di una giunta di centrosinistra al Comune, non hanno cancellato le tante<br />

stimmate negative lasciate dalla storia.<br />

In ogni modo, già la famiglia presso la quale mi sistemai dopo i giorni passati a Scatenato<br />

mi offrì una immagine un po’ diversa di Chieti: una famiglia povera ma dignitosa, molto<br />

ospitale (non solo perché era pagata) e pronta a darti una mano se occorreva, che aveva<br />

casa nel quartiere di Santa Maria, a Via dei Tintori.<br />

Nella mia nuova abitazione ebbi anche la fortuna di ritrovarmi in compagnia di alcuni<br />

studenti, che frequentavano i due istituti tecnici della città (il commerciale e l’industriale);<br />

inoltre, qualche mese dopo, fui raggiunto da un compagno di S. Salvo (fummo messi a<br />

dormire nella stessa stanza), Michelino Raspa, chiamato dal partito a lavorare alla FGCI<br />

provinciale.<br />

Michelino era un compagno assai gioviale e disponibile, anche generoso quando le<br />

circostanze lo richiedevano, ma a volte anche piuttosto ingenuo, con lui comunque si<br />

stava bene, ma rimase a Chieti sì e no un anno e mezzo o poco più, poi dovette andare<br />

militare, e quando si concluse il suo turno di leva, se ne tornò a Vasto dove cominciò a<br />

112


lavorare alla CGIL.<br />

Anch’io non mi fermai troppo a lungo a Chieti. Vi restai poco meno di due anni, fino al<br />

mio nuovo trasferimento, questa volta ad Avezzano, nella Marsica.<br />

In quei due anni, lavorai naturalmente in federazione, era il mio primo incarico a<br />

carattere provinciale, e mi fu affidata la propaganda; contemporaneamente seguivo<br />

anche la FGCI, la organizzazione dei giovani comunisti.<br />

Il gruppo dirigente della federazione era costituito in quel periodo ancora dai compagni<br />

che provenivano dall’esperienza della guerra e, per alcuni di essi, dalla partecipazione<br />

alla guerra di liberazione.<br />

Ma già allora cominciavano a esserci inserimenti di forze più giovani: uno di questi ero<br />

io, che infatti al VI Congresso provinciale del 16 e 17 gennaio del 1960 (a quel tempo<br />

ero ancora di stanza a Lanciano) venni eletto nel Comitato Federale.<br />

Ricordo bene quel Congresso, soprattutto per una ragione, chiamiamola così,<br />

climatica.<br />

Il Congresso si svolse a Chieti, al cinema Eden, dove però faceva un freddo cane: questo<br />

particolare ce l’ho ancora ben presente nella memoria perché, in quella occasione, io e<br />

Graziani, i due giovani intellettuali emergenti della compagnia, io con gli occhialetti alla<br />

Gramsci e l’aria un po’ patita, lui con quel suo linguaggio assertivo e sempre tendente<br />

all’enfasi, fummo messi a verbalizzare il dibattito congressuale, seduti a un tavolino<br />

che stava proprio sul palco, e questo ci impediva di muoverci liberamente nonostante il<br />

bisogno di sgranchire ogni tanto le gambe e di riscaldarci.<br />

La situazione in federazione, quando io vi cominciai a lavorare, era nel complesso<br />

buona, anche se il partito scontava all’esterno un isolamento che era iniziato con<br />

la sconfitta subìta nel ’48: c’erano Ottaviano, segretario provinciale, Bevilacqua,<br />

responsabile di organizzazione, Tina (la moglie di Ottaviano) che seguiva le questioni<br />

dell’amministrazione anche se c’era poco da amministrare, io naturalmente, Michelino<br />

Raspa, Mario Palombaro e qualche altro compagno che poi lasciò il partito.<br />

Nel gruppo c’erano anche due compagne, tutte e due molto giovani. E una di esse,<br />

Rosetta Spaziani, era quella che, qualche anno dopo, sarebbe diventata mia moglie e poi,<br />

mie <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>, vostra nonna: era da tempo che lavorava al partito, battendo a macchina<br />

e in generale svolgendo lavori di segreteria, e veniva da una famiglia di comunisti di<br />

antica data. Ricordo che essa, al contrario dell’altra compagna che amava vestirsi in<br />

modo vistoso, preferiva invece vestiti semplici e sobri; e forse fu anche questo, assieme<br />

al suo carattere riservato e senza grilli per la testa, che mi portò nel giro di qualche mese<br />

dal mio arrivo a Chieti a innamorarmi di lei.<br />

A quell’epoca, la federazione era in Via della Liberazione, sotto la villa comunale,<br />

quasi all’altezza della clinica Spatocco; e si trattava di un normale appartamento, al<br />

primo piano sotto il livello della strada, con un salone non molto grande ma in grado<br />

comunque di ospitare le riunioni del Comitato Federale.<br />

In pratica la federazione, rispetto alla mia abitazione e a quella di Rosetta, si trovava<br />

dall’altra parte della città e bisognava attraversare perciò tutto il corso per arrivarvi,<br />

io da Santa Maria e lei dalla discesa del gas dove allora abitava, a qualche decina di<br />

metri prima del grosso piazzale che ospitava l’impianto di decompressione del gas di<br />

113


città gestito dalla Camuzzi: un bel po’ di strada, insomma, che allora facevamo spesso<br />

assieme, soprattutto per tornare alle rispettive abitazioni.<br />

In quei due anni, ebbi modo di intrecciare rapporti con alcuni ragazzi, rappresentanti<br />

delle diverse organizzazioni politiche giovanili della città, c’era allora una certa vivacità<br />

a Chieti sul terreno della politica giovanile da parte dei partiti (si tentò anche di arrivare,<br />

con un accordo tra le varie forze giovanili, alla costituzione di una Consulta comunale<br />

della gioventù, ma la DC teatina non ne volle sapere, così il progetto naufragò) e noi<br />

comunisti facevamo naturalmente la nostra parte.<br />

Di quegli anni ricordo anche gli incontri politico-culturali, ai quali anch’io partecipavo<br />

intervenendo spesso nel dibattito.<br />

Essi erano organizzati da vari gruppi, con la proiezione di cicli di film, in genere si trattava<br />

di film impegnati come usava all’epoca, e di solito si svolgevano al cinema Enal, allora tra<br />

le sale cinematografiche più attive della città (ne esistevano tre, se ben rammento: l’Enal<br />

appunto -o, meglio, Gardencine- e poi l’Eden, un pidocchietto in Via De Lollis molto<br />

frequentato dagli studenti in cerca di qualche pomiciata d’occasione con le ragazze, e<br />

un’altra sala a metà corso, appunto il cinema Corso che si trovava sotto i portici, di fronte<br />

al bellissimo Palazzo De Mayo).<br />

Ovviamente, andavo spesso a tenere riunioni in provincia, nelle sezioni, inforcando la<br />

vespa che mi era stata messa a disposizione dal partito; e fu proprio in occasione di una<br />

di queste uscite, mie <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>, che rimasi vittima della pericolosa caduta di cui vi ho<br />

già raccontato.<br />

La mia più importante esperienza di quei mesi fu tuttavia quella legata alle lotte per il<br />

metano, nell’estate e nell’autunno del 1961.<br />

Di solito, infatti, ero io a tenere le riunioni che si svolgevano a Cupello e negli altri<br />

comuni del vastese, per cer<strong>care</strong> di costituire Comitati di agitazione e mettere in piedi<br />

le varie iniziative, a scrivere articoli su l’Unità e ad essere incaricato di organizzare le<br />

manifestazioni, sia di partito sia unitarie, che si sono svolte in quel periodo a Vasto e<br />

nella zona.<br />

Le lotte per il metano hanno rappresentato un discrimine fondamentale per la storia<br />

del vastese e dello stesso Abruzzo. E’ da esse infatti che parte il processo, fatto di<br />

industrializzazione modernizzazione dell’agricoltura e diffusione di strutture e servizi<br />

civili fino a quel momento quasi del tutto assenti non solo nei paesi ma anche nelle città,<br />

che porterà negli anni successivi la nostra regione a fuoriuscire dal Mezzogiorno.<br />

L’Abruzzo era allora terra di miseria, analfabetismo, emigrazione, isolamento culturale<br />

e civile. Non è certo l’Abruzzo che voi oggi conoscete, ma se le cose non stanno più<br />

così, ebbene è perché quelle lotte hanno contato moltissimo.<br />

Esse avevano un obiettivo semplice ma decisivo: costringere il governo a utilizzare<br />

il metano scoperto nella zona dall’ENI anche per lo sviluppo del vastese e dell’intera<br />

regione, ed evitare che si ripetesse ancora quel che negli anni ‘50 era accaduto con<br />

l’energia elettrica prodotta dalle acque delle nostre montagne ma portata altrove, senza<br />

alcuna ricaduta positiva per le popolazioni.<br />

Il pericolo, da questo punto di vista, non era per niente frutto di immaginazione:<br />

nell’aprile del 1961, il governo aveva detto sì all’ENI che puntava a utilizzare a Roma<br />

114


e Terni la preziosa risorsa racchiusa nelle viscere del vastese.<br />

Di qui la rabbia della gente, la nascita di Comitati di agitazione e il fiorire, anche fuori<br />

della zona, di manifestazioni e iniziative di varia natura, che in qualche momento<br />

(penso soprattutto alle manifestazioni che si ebbero a Cupello) assunsero anche caratteri<br />

tipicamente ribellistici, meridionali.<br />

Ma alla fine la battaglia la vinsero gli abruzzesi; e fu proprio ciò che rese possibile<br />

l’avvio di quel cambiamento profondo che ha trasformato via via il volto del vastese e<br />

dell’Abruzzo.<br />

Ebbene, mie <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>, io ho vissuto direttamente quel periodo così intenso e cruciale;<br />

e di quelle lotte, alle quali ho dato anch’io il mio piccolo contributo, ho naturalmente<br />

molti ricordi.<br />

Ricordo i dibattiti nelle sezioni, gli scontri anche assai vivaci con posizioni di compagni<br />

e di parte anche del nostro elettorato -circa i contenuti e gli obiettivi da dare alle lotte-<br />

che noi consideravamo subalterne alla DC e inefficaci a raggiungere risultati reali e<br />

duraturi, la difficoltà a volte di far capire a pezzi del partito l’importanza di quelle lotte<br />

e del ruolo che in esse il PCI poteva e doveva gio<strong>care</strong>, la fatica anche fisica di girare<br />

come una trottola per i vari comuni...<br />

Vi assicuro, mie <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>, non fu una passeggiata, ma di pazienza e ostinazione ne<br />

avevo anche allora; e così, tutto sommato, me la cavai abbastanza bene, imparando<br />

nello stesso tempo anche molte cose.<br />

Ma quella esperienza non fu, per me, soltanto questo: fu anche altro, soprattutto sul<br />

piano umano.<br />

Più di una volta, in quei mesi, mi è capitato di dovermi fermare per alcuni giorni, in<br />

qualche caso anche per più di una settimana, a Vasto.<br />

Di solito andavo in albergo (conservo ancora sui miei block-notes del tempo gli appunti<br />

delle spese affrontate, per il rendiconto da fare in federazione), alcune volte invece<br />

sono stato ospite di Nicola e Nicoletta Di Bussolo, due compagni non più tanto giovani<br />

ormai, che non avevano avuto figli e dedicavano il loro tempo al lavoro e al partito.<br />

Ebbene, di essi ricordo ancora oggi con piacere la disponibilità e la generosità, anche se<br />

le vicende della politica (che spesso, purtroppo!, non concedono nulla ai sentimenti) mi<br />

hanno portato, alcuni anni dopo, a scontrarmi con Nicola, rompendo così un’amicizia<br />

che si era rinnovata anche all’indomani del mio arrivo a Vasto nella primavera del ‘67.<br />

Nicola Di Bussolo finì infatti espulso dal PCI, per vicende connesse con l’Amministrazione<br />

comunale Faro-PCI, proprio nel periodo in cui ero io il responsabile della zona del<br />

Vastese: egli era un bravo artigiano (lavorava il marmo) e, soprattutto, una persona<br />

simpatica e allegra, al quale piaceva molto cantare, me lo ricordo bene, ad esempio,<br />

quando, alla fine degli anni ‘50, si esibiva, con grande successo, nelle feste de l’Unità di<br />

Comino, la contrada rossa di Guardiagrele, e il suo cavallo di battaglia era Vasto, terra<br />

d’oro…, cantata naturalmente in un dialetto vastese molto stretto.<br />

Al periodo delle lotte per il metano e a una delle mie permanenze a Vasto per più giorni<br />

appartiene anche il ricordo che ho di un altro compagno, questa volta però arrivato dalla<br />

Lombardia, più esattamente da Pavia, dove era stato segretario di federazione. Parlo di<br />

Marinoni (non ne rammento più il nome), che la Direzione nazionale aveva inviato a<br />

Chieti con l’intenzione non del tutto recondita di proporlo più in là come segretario di<br />

115


federazione, in sostituzione di Ottaviano che incontrava difficoltà sempre maggiori nel<br />

suo rapporto con i compagni del gruppo dirigente provinciale.<br />

Marinoni, che da operaio era diventato funzionario di partito, era una persona squisita,<br />

con cui si chiacchierava e si discuteva volentieri, e che, almeno con me, si dimostrò<br />

sempre molto amabile e disponibile, mentre era assai critico nei confronti di altri<br />

compagni; e proprio a lui debbo una piccola lezione che non ho mai dimenticato e che<br />

mi risultò assai utile negli anni successivi.<br />

La ricordo come se fosse ora, come ricordo anche il mio imbarazzo di fronte al suo<br />

commento quando non seppi rispondere a una sua domanda su Cupello, credo che mi<br />

chiedesse notizie sulle tradizioni religiose del paesino che era allora al centro della<br />

battaglia per il metano e noi dovevamo decidere delle iniziative in quei giorni che<br />

riguardavano proprio Cupello: ti sei scordato, mi fece tra il serio e il faceto, di quel che<br />

dice Gramsci a proposito della necessità di operare sempre una attenta ricognizione<br />

del terreno di lotta prima di decidere una strategia? Se vuoi dirigere il partito, devi<br />

conoscere anche queste cose!<br />

Una battuta un po’ da lana caprina, ma in fondo non del tutto fuori luogo...<br />

Marinoni non resistette a lungo a Chieti, non solo perché chi doveva farsi sostituire<br />

resisteva.<br />

Egli era certamente un uomo capace, intelligente, in grado quindi di assolvere a incarichi<br />

di un certo livello, ma non era questo il punto come non lo erano alcune spigolosità del<br />

suo carattere. C’era soprattutto in lui una certa visione schematica delle cose che gli<br />

derivava, oltre che dalla sua esperienza di operaio del Nord, anche dalla sua cultura<br />

di autodidatta, e che non gli avrebbe mai permesso di comprendere fino in fondo una<br />

realtà contadina e, per tanti aspetti, meridionale quale era allora la nostra, decise così di<br />

andare via, e mi dispiace di non aver più avuto modo, in seguito, di incontrarlo ancora,<br />

se non, sì e no, un paio di volte.<br />

116


CAPITOlO VI<br />

Inde genus durum sumus experiensque laborum<br />

et documenta damus qua simus origine nati.<br />

Sono gli esametri che concludono il racconto di Ovidio, nelle Metamorfosi, sul diluvio<br />

provocato da Giove per punire la malvagità degli uomini e sul ripopolamento della terra<br />

da parte dei due superstiti, Deucalione e Pirra: seguendo il consiglio della dea Temi,<br />

ossa…post tergum magnae iactate parentis, essi si gettano dietro la schiena le pietre, le<br />

ossa della grande madre, la terra, ed avviene il miracolo, dalle pietre nascono uomini<br />

e donne e prende forma un nuovo genere umano definito, dalla sua stessa origine,<br />

appunto duro, petroso, temprato alle fatiche e che ogni giorno di questa sua origine dà<br />

testimonianza.<br />

Ma ecco, a questo punto, ancora una volta l’osservazione delle mie <strong>nipoti</strong>: Ma, nonno,<br />

continui a divertirti con le citazioni, raccontaci invece senza tanti giri di parole le cose<br />

che ti sono capitate!<br />

Voi avete ragione, rispondo, solo che non sapete ancora che il vero, condito in molli<br />

versi, / i più schivi allettando ha persuaso; e che a volte le parole di un poeta colgono<br />

meglio l’essenza delle cose che tu vuoi dire, e così mi permetto ogni tanto una citazione,<br />

compresa l’ultima che è del grande Torquato Tasso.<br />

Ma torniamo a Ovidio.<br />

Conoscevo da tempo questo passo delle Metamorfosi, ma mi è accaduto di rileggerlo<br />

recentemente, nella prima quindicina di settembre del 2004, a Sciacca, in Sicilia, dove<br />

io e la nonna siamo stati, con Enrico e Mariangela Graziani, per le cure termali.<br />

Così oggi, mentre mi accingevo a rimettere assieme i ricordi e le esperienze che ho fatto<br />

nel corso del mio breve soggiorno, di poco più di un anno, nella Marsica, tra l’estate del<br />

1962 e i primi di settembre del 1963, questi versi mi si sono presentati spontaneamente<br />

alla mente.<br />

E la ragione è semplice: essi mi pare che rendano bene alcuni aspetti, appunto duri<br />

petrosi difficili, del carattere dei marsicani con i quali mi è accaduto di scontrarmi<br />

più di una volta durante la mia permanenza in questa zona interna dell’Abruzzo, se<br />

penso, ad esempio, all’andamento di certe riunioni in sezione con i compagni di Celano,<br />

di Trasacco o anche di Pescina e di S. Benedetto dei Marsi e, in alcune circostanze,<br />

dello stesso Comitato Federale (ad esempio, in occasione della discussione sulle<br />

candidature per le elezioni politiche del 1963, quando aspirazioni ad ascendere al<br />

soglio parlamentare di qualche compagno del posto, come Giancarlo Cantelmi, o di<br />

compagni come Attilio Esposto, che era un personaggio nazionale e aveva diretto in<br />

anni precedenti la federazione di Avezzano, cozzavano con le scelte fatte dal partito<br />

a livello regionale a favore di organizzazioni elettoralmente e organizzativamente più<br />

forti di quella marsicana).<br />

Del resto, anche Virgilio nelle Georgiche -quando parla degli antichi Marsi- li definisce<br />

…genus acre virum; e i moderni Marsi, i marsicani di oggi, quando ho avuto a che<br />

fare con loro, non mi sono apparsi un genus meno acre, con una forte inclinazione alla<br />

117


polemica, al contrasto duro, allo scontro e spesso anche al litigio spicciolo e magari<br />

immotivato: sembrava a volte di avvertire, nel corso delle riunioni, in certi scontri<br />

personali e politici, la stessa durezza dei colpi scambiati, durante le lotte del Fucino, tra<br />

i braccianti e i contadini poveri da un lato e gli uomini di Torlonia dall’altro.<br />

Naturalmente, i marsicani con i quali ho avuto a che fare erano anche altra cosa:<br />

intelligenza, cultura, generosità, capacità insomma di far valere, oltre alla forza, anche<br />

l’arte della persuasione!<br />

Anche i Marsi avevano fra gli antichi, come ricorda Virgilio, la fama di saper<br />

addormentare le vipere e le idri dal velenoso respiro, di addolcirne l’ira col gesto e il<br />

canto e di guarirne con l’arte i morsi utilizzando l’erbe raccolte sui monti circostanti.<br />

Da questo punto di vista, quelli che più mi colpirono furono i compagni di Luco dei<br />

Marsi.<br />

Non dimentico mai, ad esempio, la festa de l’Unità di Luco a cui mi capitò di partecipare<br />

per la prima volta (e di parlare anche, tenendo il comizio di chiusura) nell’estate del<br />

1962, ricordo che nel corso della festa lo spettacolo di maggior rilievo, a cui assisteva<br />

una gran folla di contadini e di donne, fu la recita delle poesie di Garcia Lorca.<br />

A recitarle era Giannino Venditti (che poi divenne sindaco della cittadina, restandolo<br />

per moltissimo tempo) e il suo pezzo forte, con quell’inizio così altamente drammatico<br />

e pieno di suspense, era il Lamento per Ignazio Sanchez Mejias, il torero caduto<br />

sotto i colpi del toro, che ormai dorme senza fine..., del quale ormai i muschi e le erbe /<br />

aprono con dita sicure / il fiore del teschio... e che la morte ha coperto di pallidi zolfi /<br />

e gli ha messo una testa di scuro minotauro...:<br />

Alle cinque della sera,<br />

eran le cinque in punto della sera.<br />

Un bambino portò il lenzuolo bianco<br />

alle cinque della sera.<br />

Una sporta di calce era già pronta<br />

alle cinque della sera.<br />

Il resto era morte e solo morte<br />

alle cinque della sera...<br />

La gente ascoltava con attenzione e partecipazione, assetata di quella cultura che a loro,<br />

in grande parte ex braccianti e contadini poveri, era stata negata quand’erano ragazzi.<br />

Quando misi piede nella Marsica, era più o meno la metà di luglio del ‘62, mi trovai di<br />

fronte a un mondo che per me si poteva definire semplicemente ignoto: a parte qualche<br />

vago ricordo letterario, per il resto non avevo nessuna idea di chi fossero i marsicani o<br />

di che cosa fosse il PCI marsicano.<br />

Anche perché all’epoca, ancora all’inizio degli anni ’60, i rapporti tra la costa e la<br />

Marsica erano piuttosto difficoltosi.<br />

E’ vero, c’era la ferrovia e c’era la Tiburtina Valeria, per chi poteva usare l’auto, solo che<br />

il percorso in treno era molto lento e si svolgeva tutto lungo le pendici delle montagne,<br />

con le mille giravolte imposte dalla natura dei luoghi attraversati, mentre la strada<br />

118


seguiva ancora il percorso tracciato dai romani e perciò era parecchio impervio e pieno<br />

di curve non solo nei tratti di montagna ma anche lungo la vallata del Pescara; d’inverno<br />

poi era una vera impresa percorrerla quando cadeva la neve, e superare il valico di<br />

Forca Caruso rischiava continuamente, senza che neppure te ne rendessi del tutto conto<br />

mentre l’attraversavi, di precipitarti nel bel mezzo di una improvvisa e violenta bufera<br />

di vento e di neve.<br />

Imparai tuttavia presto a conoscerli.<br />

La Marsica oggi è una realtà abbastanza marginale nella vita dell’Abruzzo, anche<br />

perché lo sviluppo della regione si è fondamentalmente concentrato lungo la costa; e lo<br />

stesso partito marsicano erede del PCI, parlo dei DS, ha ormai anch’esso un ruolo molto<br />

periferico, lo stesso PCI del resto aveva perso molto del suo peso precedente nella realtà<br />

regionale già sul finire degli anni ‘50.<br />

Non era così però né durante il fascismo né nell’immediato dopoguerra, almeno dal<br />

punto di vista del ruolo che i comunisti marsicani hanno giocato all’interno del PCI<br />

abruzzese.<br />

Durante il fascismo, nella Marsica, a contatto con gruppi di comunisti romani presenti<br />

a La Sapienza di Roma, si era formata, intorno alla fine degli anni ’30 e l’inizio degli<br />

anni ’40, una discreta pattuglia di intellettuali e di lavoratori che aderì al PCI clandestino<br />

(pagando in alcuni casi con il carcere le proprie scelte) e riuscì a stabilire anche contatti<br />

con il centro estero del partito.<br />

Ebbene, fu proprio questo gruppo che costituì, nel dopoguerra, il nucleo dirigente<br />

fondamentale del PCI in Abruzzo, alcuni di essi anzi finirono per inserirsi in maniera<br />

(quasi) stabile in altre realtà di partito della regione, in particolare a Pescara e a Chieti;<br />

ed espresse, assieme al gruppo dei più giovani che si formò successivamente con le<br />

lotte del Fucino, i segretari regionali che hanno diretto il PCI abruzzese sia nel decennio<br />

successivo alla guerra che in periodi più recenti, mi riferisco a Giulio Spallone e<br />

Umberto Scalia, ma anche a Domenico Tarantini e Luigi Sandirocco, che appartenevano<br />

al secondo gruppo e sono stati anch’essi ai vertici del partito, Tarantini nei primi anni<br />

‘60 e Sandirocco nella seconda metà degli anni ’70.<br />

Le lotte del Fucino per la cacciata dei Torlonia, che erano divenuti i padroni assoluti<br />

delle ricche terre emerse dopo il prosciugamento del lago sulla fine dell’Ottocento, e<br />

per il passaggio di queste terre ai braccianti e ai contadini poveri, lotte che si conclusero<br />

con l’approvazione, da parte del Parlamento, di una legge di riforma agraria che, pur<br />

non essendo del tutto soddisfacente, avviò tuttavia processi produttivi e sociali nuovi<br />

nelle campagne meridionali, proiettarono il partito marsicano sulla ribalta nazionale e<br />

ne rafforzarono il ruolo che già svolgeva a livello regionale.<br />

Siamo nei primi anni ’50, e in quelle lotte fecero le loro prime esperienze, oltre al<br />

gruppo di giovani marsicani cui ho prima accennato, anche tanti altri giovani comunisti,<br />

provenienti da altre zone dell’Abruzzo.<br />

Quando arrivai ad Avezzano, il processo di marginalizzazione del partito marsicano<br />

era già a buon punto, il partito anzi era in forte crisi: si era ristretto il gruppo dirigente,<br />

il PCI perdeva iscritti e voti, non si avvertivano segni di ripresa né s’intravvedeva<br />

all’orizzonte l’apparizione di forze nuove.<br />

119


In realtà, era anche per arginare un tale stato di cose, oltre che per far fare una esperienza<br />

di una certa complessità e responsabilità a un quadro giovane, che ero stato spedito nella<br />

Marsica, con il contemporaneo invio nella provincia di Chieti (a Vasto, per l’esattezza)<br />

di Antonio Rosini, che aveva al suo attivo la partecipazione alle lotte del Fucino e<br />

alcuni anni di direzione del movimento contadino marsicano ma del quale, tuttavia, non<br />

si giudicava opportuna la utilizzazione direttamente in federazione perché non faceva<br />

unità, come si diceva allora, e si preferì perciò che il suo passaggio dalle organizzazioni<br />

di massa al lavoro di partito avvenisse fuori della Marsica.<br />

I mesi passati nella Marsica non furono affatto facili.<br />

Non tanto sul piano personale. Sotto questo profilo, anzi, debbo dire che mi trovai bene<br />

e che fui ben accolto dai compagni i quali, pur non conoscendomi affatto, mi diedero<br />

subito fiducia.<br />

Ciò non significò naturalmente che, anche da questo punto di vista, qualche problema<br />

non l’abbia avuto.<br />

Intanto, ad esempio, mi riusciva solo raramente, nel fine settimana, di tornare a Chieti<br />

dove mi aspettava la ragazza e, non avendo la patente (la presi solo nei primi mesi del<br />

‘63, proprio ad Avezzano), dovevo utilizzare il treno o aspettare che si tenesse qualche<br />

riunione del Comitato Regionale a Pescara per farlo; ad Avezzano poi non è che ci<br />

fossero svaghi, per cui in genere la mia giornata si svolgeva tra il lavoro in federazione<br />

e le riunioni nelle sezioni o i giri, la domenica mattina, nei comuni del Fucino per<br />

distribuire le copie de l’Unità nel tentativo di rianimare l’impegno dei compagni, che<br />

era venuto meno, nell’opera di diffusione del nostro giornale.<br />

Solo qualche volta, la domenica, quando non potevo fare una scappata a Chieti, ho<br />

avuto la possibilità di godermi un pomeriggio diverso, grazie a un gruppo di ragazzi<br />

che, a distanza di qualche mese dal mio arrivo nella Marsica, avevano cominciato a<br />

frequentare il partito, e ogni tanto, la domenica pomeriggio appunto, organizzavano<br />

dei balli nel salone, abbastanza ampio, della federazione, ai quali partecipavo anch’io<br />

(anche se, come sa bene Rosetta, sono stato sempre un pessimo ballerino).<br />

Anche il clima in qualche modo rappresentava un problema: d’inverno nella Marsica fa<br />

un freddo cane, d’estate invece c’è umidità e afa.<br />

La piana del Fucino infatti, com’è noto, è circondata da ogni lato dalle montagne, i<br />

Marsi montes sulle pendici dei quali il sacerdote-guerriero, il fortissimo Umbone,<br />

alleato di Turno contro Enea, cercava le erbe che usava nella sua arte medica ma che<br />

tuttavia non servirono a guarirne le ferite che lo portarono alla morte nello scontro con<br />

i troiani, e così d’inverno la neve e, d’estate, l’assenza delle brezze refrigeranti delle<br />

nostre parti non aiutano certo a mitigare il clima; incide negativamente in questo senso<br />

anche la scomparsa del Fucino, il lago di cui Virgilio ricorda nell’Eneide la vitrea unda,<br />

che, assieme al bosco sacro di Angizia, piange la morte di Umbone:<br />

Te nemus Angitiae, vitrea te Fucinus unda,<br />

te liquidi flevere lacus…<br />

Per il resto, mi trovavo abbastanza bene. Abitavo, tra l’altro, in un ambiente amico,<br />

120


in casa di Romolo Liberale, un compagno che ha dato un notevole contributo alla<br />

ricostruzione della storia delle lotte del Fucino e degli altri movimenti contadini che nel<br />

tempo hanno agitato la vita dell’Abruzzo.<br />

E poi c’erano ogni tanto gli incontri, la sera, a casa di Sandirocco, a cui di solito<br />

partecipavano anche giovani compagni di Luco dei Marsi.<br />

Durante quegli incontri si chiacchierava, si raccontavano barzellette e avventure di vario<br />

genere, si ascoltava Gigetto che si esibiva alla chitarra e cantava, accompagnato a volte<br />

anche dagli altri, una delle tante canzoni che facevano parte del suo vasto repertorio, o<br />

si applaudiva Giannino che recitava le poesie del suo amatissimo Garcia Lorca oppure<br />

si rideva alle battute a volte abbastanza estemporanee di Pupetta, la compagna di<br />

Sandirocco.<br />

Ho rivisto Pupetta appena qualche mese fa. Anche se un po’ acciaccata a causa degli<br />

anni, è rimasta tuttavia una donna allegra, estroversa, sempre con quel suo carattere<br />

forte e anche un po’ prepotente (ma di una prepotenza in fondo simpatica) e sempre<br />

fornita di una parlantina assai sciolta e talora irrefrenabile, e credo che ancora oggi<br />

rimangano apprezzabili le sue doti di padrona di casa e di cuoca quando sei suo ospite.<br />

Sandirocco era allora il segretario della federazione, oltre che sindaco di Luco dei<br />

Marsi; e aveva già alle spalle, nonostante la sua ancora giovane età, una vita abbastanza<br />

avventurosa e ricca di esperienze davvero uniche.<br />

Giovane ufficiale, egli fu tra le decine e decine di migliaia di soldati italiani travolti<br />

dalla tragedia dell’Armir in Russia, con un numero enorme di poveri cristi reciso senza<br />

pietà dalla guerra e dal gelo quando i sovietici sconfissero il nostro esercito che aveva<br />

invaso il loro paese.<br />

Ma, per sua fortuna, egli fu tra quelli che finirono prigionieri; e durante la prigionia ebbe<br />

modo di frequentare uno dei corsi di formazione politica tenuti da Edoardo D’Onofrio<br />

per i prigionieri italiani, aderendo così al PCI mentr’era ancora in Unione Sovietica, al<br />

ritorno in Italia fu poi tra i giovani che diressero, in prima fila, le lotte del Fucino, come<br />

dirigente sindacale.<br />

Gigetto è sempre stato uomo colto, aperto, generoso e anche molto gioviale, un buon<br />

compagnone insomma con cui si sta volentieri, al quale è sempre piaciuto conversare,<br />

suonare la chitarra, cantare e raccontare barzellette che spesso avevano come protagonisti<br />

personaggi incontrati nelle sezioni o durante le lotte del Fucino, così mi trovai subito<br />

bene con lui, si portava dietro però già da allora un difetto dal quale non ha mai cercato<br />

né voluto liberarsi, come potei constatare anche a distanza di molti anni quando tornai<br />

a lavorare con lui, a Pescara, nella segreteria regionale: se poteva, scansava volentieri<br />

gli impegni e te li ripassava, in particolare quando c’erano di mezzo problemi spinosi o<br />

bisognava litigare con i compagni, gli piaceva insomma la vita tranquilla!<br />

Comunque, non mi è mai sembrato il caso di lamentarmi per questo. E’ vero, ho dovuto<br />

spesso sobbarcarmi una quantità di lavoro maggiore, quando ho lavorato con lui, ma ciò<br />

mi ha consentito anche di maturare una esperienza più ampia e impegnativa e di avere<br />

un ruolo più significativo nel partito.<br />

Assai problematica (per usare un eufemismo) era invece la situazione organizzativa e<br />

politica della federazione.<br />

121


In quegli anni, il PCI era ancora un partito isolato, l’isolamento per certi aspetti tendeva<br />

anzi ad accentuarsi a seguito della scelta del PSI di cer<strong>care</strong> l’accordo con la DC per<br />

l’avvio di quella che fu poi la politica di centro-sinistra, rompendo contemporaneamente<br />

il patto di unità d’azione che lo legava al PCI.<br />

Questo, naturalmente, si faceva sentire ancora di più in periferia e, soprattutto, in una<br />

realtà come quella della Marsica dove il partito era in ritirata dopo le grandi lotte degli<br />

anni ’50.<br />

Avevamo diverse amministrazioni comunali: se il mio ricordo è esatto, amministravamo<br />

allora nella Marsica Luco dei Marsi, Cerchio, S. Benedetto, Lecce dei Marsi e Celano.<br />

Ma non è che a questa presenza amministrativa corrispondesse la presenza di un partito<br />

forte e attivo (salvo che a Luco); in generale, poi, le sezioni erano vuote, si teneva una<br />

sola festa de l’Unità, quella di Luco, la iniziativa politica delle sezioni era pressoché<br />

inesistente e, fuori del Fucino, la presenza organizzata del partito si limitava solo a<br />

qualche comune.<br />

In questa situazione, resa più grave anche dal disordine organizzativo che regnava in<br />

federazione e da un rapporto non buono del gruppo dirigente con le sezioni, bisognava<br />

reinventare tutto: una linea politica e programmatica in grado di cogliere le modificazioni<br />

che si stavano producendo anche nella Marsica come nel resto del Mezzogiorno (ad<br />

esempio, l’avvio della politica dei poli industriali spostava il discorso sui problemi dello<br />

sviluppo e delle nuove figure sociali che cominciavano ad emergere, con la nascita di<br />

nuova classe operaia e il formarsi di ceti tecnici e professionali nuovi), nello stesso tempo<br />

si faceva sempre più pressante la necessità di una più puntuale politica organizzativa<br />

in grado di recuperare iscritti, rilanciare un minimo di capacità di iniziativa politica del<br />

partito sul territorio, conquistare forze nuove, forze giovani.<br />

Fu insomma una vera fatica.<br />

Ricordo, ad esempio, che, per spingere le sezioni a stare seriamente dietro al tesseramento,<br />

mi toccò parecchie volte di andare personalmente in alcuni comuni del Fucino, non per<br />

fare la solita riunione, ma per girare, assieme a qualche compagno volenteroso, casa per<br />

casa, nel tentativo di recuperare iscritti o fare nuove tessere.<br />

In genere questo richiedeva molto tempo e lunghe e defatiganti discussioni con i<br />

compagni che avevano sempre mille lamentele da fare nei confronti della federazione o,<br />

più in generale, sulla politica del partito, ma assai spesso accadeva che tutto si esaurisse<br />

in chiacchiere!<br />

Pochi giorni fa Giannino Venditti, che era con me in quella occasione, mi ha ricordato un<br />

episodio che dà bene il senso e la misura delle difficoltà con le quali ci scontravamo.<br />

Quel giorno avevamo scelto Trasacco come meta delle nostre fatiche.<br />

A Trasacco, la sezione ormai non c’era più: né fisicamente né organizzativamente,<br />

avevamo solo un piccolo numero di iscritti la cui presenza però in paese si avvertiva<br />

poco o nulla; e l’unico modo per tentare di riprendere un cammino era appunto quello<br />

di rimettere in piedi un rapporto con i tanti compagni che nel frattempo si erano tirati<br />

fuori dell’impegno politico organizzato.<br />

Ricordo che quel giorno anche il tempo non fu benevolo con noi: eravamo in pieno<br />

inverno e faceva un freddo cane, inoltre durante il giro nelle case dei compagni cominciò<br />

anche a nevi<strong>care</strong>, insomma un tempo quasi da lupi...!<br />

122


Ciononostante, facemmo il nostro giro. Ci ritrovammo così a un certo punto nella casa<br />

di un bracciante, ancora giovane, che aveva partecipato alle lotte del Fucino ma che, se<br />

non ricordo male, era stato a suo tempo tra gli esclusi dall’assegnazione della terra, e<br />

neanche lui aveva rinnovato la tessera.<br />

Io cominciai subito a spiegargli le ragioni che ci avevano portato a casa sua, ma lui<br />

opponeva con pertinacia alle mie argomentazioni un discorso nel quale si mescolavano<br />

sfiducia e settarismo.<br />

La cosa andò avanti così per un po’ di tempo, a un certo punto però Giannino, non solo<br />

perché preoccupato della neve che intanto continuava a fioc<strong>care</strong> in abbondanza, lui<br />

doveva tornare a Luco e io ad Avezzano, si spazientì e mi disse, piuttosto bruscamente,<br />

di lasciar perdere, io tuttavia non mollai e continuai imperterrito nella mia opera di<br />

convinzione, ma la mia pazienza purtroppo produsse solo un bel niente...!<br />

Da questo punto di vista, neanche quello che accadeva a livello nazionale ci aiutò molto,<br />

nel senso che gli effetti positivi di certi processi politici che pure si stavano mettendo in<br />

moto sul piano nazionale non fecero tuttavia sentire da subito i loro effetti in periferia,<br />

quantomeno nella Marsica.<br />

Sul piano nazionale, infatti, Togliatti, di fronte all’avanzare della prospettiva del centrosinistra<br />

che sostituiva il vecchio centrismo ormai morto e sepolto, ebbe la capacità di<br />

manovrare in modo tale che alla fine non solo la rottura che si era prodotta con il PSI non<br />

provocò danni né all’unità della CGIL né al mantenimento delle giunte di sinistra negli<br />

enti locali, ma alle elezioni politiche del ‘63 il PCI riuscì anche a segnare parecchi punti<br />

a suo favore a spese del PSI e soprattutto della DC, in questo modo veniva spezzato<br />

l’assedio da cui i comunisti erano stretti e tutta la situazione politica italiana cominciò<br />

a rimettersi in movimento.<br />

Nella Marsica, tuttavia, nonostante gli sforzi e qualche risultato positivo (anche nelle<br />

elezioni politiche del 1963), continuammo invece ad andare avanti con fatica, quello che<br />

mancò da parte nostra fu forse la capacità di individuare con la rapidità e la chiarezza<br />

necessarie le nuove figure sociali da mettere al centro di una battaglia di recupero del<br />

ruolo della Marsica nella vita regionale e per il suo sviluppo.<br />

La mia esperienza marsicana si concluse tra l’agosto e il settembre del 1963. E ricordo<br />

che il mio ultimo comizio nella Marsica lo tenni il 15 agosto, alla festa de l’Unità di<br />

Carsoli (si cominciavano a fare feste de l’Unità anche in altri comuni, oltre che a Luco),<br />

ricordo anche che in quel comizio feci un lungo passaggio sulla figura di Giovanni<br />

XXIII, che era morto da poco più di un mese e mezzo, e su ciò che significavano per la<br />

prospettiva anche politica dell’Italia e del mondo le grandi innovazioni da lui volute con<br />

il Concilio Vaticano II e, in particolare, con l’affermazione, contenuta nella enciclica<br />

Pacem in terris, secondo cui bisogna sempre distinguere tra l’errore e l’errante, questo<br />

poteva signifi<strong>care</strong> una cosa sola e cioè che la politica della scomunica voluta da Pio XII<br />

nei confronti dei socialisti e dei comunisti era stata finalmente riposta in archivio e si<br />

apriva ora la possibilità del dialogo tra comunisti e mondo cattolico.<br />

La notizia del mio ritorno a Chieti mi raggiunse all’improvviso e all’ultimo momento,<br />

quando ormai mi ero già rassegnato a rimanere nella Marsica, una prospettiva che<br />

sinceramente non mi allettava affatto.<br />

123


Anche se a Chieti la discussione sul cambio del segretario di federazione, con il<br />

trasferimento di Ottaviano a Roma, si era aperta già da prima delle elezioni politiche<br />

del 1963, evidentemente solo nelle battute finali di questa discussione il mio nome era<br />

stato inserito nel possibile nuovo assetto del gruppo dirigente provinciale, altrimenti ne<br />

avrei saputo qualcosa già prima.<br />

Le cose, insomma, mutarono all’improvviso; e debbo dire che accolsi davvero con molto<br />

sollievo e grande contentezza la comunicazione che mi arrivò non ricordo più se da<br />

Brini, diventato nel frattempo, dopo la morte di Tarantini (che aveva voluto il mio invio<br />

nella Marsica), il nuovo segretario regionale del PCI, o da Tom Di Paolantonio, che<br />

all’epoca aveva un ruolo importante nella vita del PCI abruzzese, e che mi annunciava<br />

la fine della mia avventura marsicana e il mio nuovo impegno di organizzatore nella<br />

federazione di Chieti, con Giuseppe D’Alonzo segretario.<br />

Del ritorno a Chieti fui particolarmente felice anche per un’altra ragione. Questo<br />

mutamento di prospettive avveniva alla vigilia del mio matrimonio fissato già per il 22<br />

settembre di quell’anno: avrei aperto insomma casa a Chieti e non più ad Avezzano, e<br />

poco m’importò di dover disdire in tutta fretta la bella casetta che qualche mese prima<br />

avevamo affittato in città per farne il nostro nido dopo le nozze.<br />

Contenta quanto me e forse più di me, è ovvio, fu Rosetta che, nell’estate del 1961, era<br />

diventata la mia ragazza.<br />

E adesso, mie <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>ne, non ve ne abbiate a male se vi faccio dono di alcune nuove,<br />

belle citazioni.<br />

Si tratta, questa volta, di frammenti di due distinti canti flamenchi che mi sembra rendano<br />

bene la fatica che mi è costata convincere la vostra futura nonna a scegliermi come la<br />

sua metà, e che ho trovato nel bel film del regista spagnolo Carlos Saura, dedicato<br />

appunto al flamenco, canto e ballo, e alla grande varietà delle sue forme.<br />

Il flamenco, che forse, quando leggerete questo lungo e spero non noioso racconto del<br />

nonno, avrete già imparato a conoscere, è un canto tipicamente spagnolo che nasce da<br />

un incontro fortunato tra culture musicali assai diverse tra loro, in un mondo -quello<br />

dell’Andalusia- dove gli spagnoli hanno convissuto per secoli con arabi, ebrei sefarditi<br />

e africani, gitani; e il risultato è stato appunto il flamenco, un canto appassionato,<br />

ardente, dai toni a volte fortemente drammatici a volte invece teneri e delicati o anche<br />

sbarazzini e pieni d’ironia, che vede protagonisti né poeti né musicisti ufficiali ma gente<br />

del popolo, gitani in particolare, al quale si accompagna di solito il ballo tutto ritmo,<br />

spesso indiavolato, e passione e nel quale è importante anche il gesto del braccio e della<br />

mano come nella tradizione della danza indiana.<br />

Nel viaggio che abbiamo fatto in Spagna io e la nonna, nella tarda primavera dell’ormai<br />

lontano 1995, abbiamo avuto modo di assistere a due spettacoli di flamenco, uno in<br />

teatro l’altro in un affumicato locale gitano di Sacramon a Granada.<br />

Tra i due spettacoli non c’è davvero paragone, certamente bello ma paludato, senza<br />

passione quello in teatro, pieno di fuoco, invece, di ritmi scatenati, di colori, di allegria<br />

e sensualità quello del quartiere gitano, con le donne fasciate da vestiti assai sgargianti<br />

e vistosi e gli uomini con abiti sempre molto attillati.<br />

Ma avanti con le citazioni.<br />

124


Lui dice a lei:<br />

La mia vita è mia,<br />

la tua vita è tua.<br />

Perché non le uniamo<br />

per farne una sola?<br />

E lei risponde, con le parole del papavero di campo (amapola, sostantivo femminile in<br />

spagnolo) al frumento (trigo, sostantivo maschile):<br />

Il papavero del campo disse al frumento<br />

non mi sposerò con nessuno<br />

ma con te non lo so.<br />

Con te non lo so, bambino,<br />

con te non lo so<br />

disse il papavero del campo al frumento.<br />

Questa tiritera con la nonna durò diversi mesi, nonostante la mia corte assidua e<br />

pressante. Finalmente arrivò la resa: accadde nei giorni di mezzo agosto, alla festa<br />

dell’Unità di Comino.<br />

Quella sera ballammo io e lei, nonostante le mie scarse doti di ballerino, senza fermarci<br />

un momento, fino alla fine della serata. Ci ritrovammo, poi, il giorno dopo, a Piana delle<br />

Mele, sulla Maiella, dove passammo la giornata assieme alla sua famiglia, per recarci di<br />

nuovo, verso l’imbrunire, a Comino, per la serata conclusiva della festa de l’Unità.<br />

E così da quel momento, voglio dirlo con i versi di una bellissima canzone popolare<br />

toscana, forse di origine rinascimentale, cantata da Caterina Bueno,<br />

cinquecento catenelle d’oro<br />

hanno legato lo tuo cuore al mio,<br />

e l’hanno fatto tanto stretto il nodo<br />

che non si scioglierà né te né io,<br />

e l’hanno fatto un nodo tanto forte<br />

che non si scioglierà fino alla morte.<br />

Il nostro fidanzamento durò all’incirca due anni; e fu segnato da frequenti e, in occasione<br />

del mio soggiorno ad Avezzano, anche piuttosto prolungate separazioni.<br />

Qualche giorno fa sono andato a fic<strong>care</strong> le mani tra le lettere che ci siamo scambiati in<br />

quel periodo.<br />

Sono intanto tantissime. Allora non c’erano né sms né e-mail e il telefono fisso in casa<br />

era ancora una rarità; e quasi tutte, quelle di Rosetta, partono da Chieti e vanno verso<br />

Vasto o Avezzano, sono state spedite insomma nel periodo delle mie permanenze a<br />

Vasto, durante le lotte per il metano, e poi del mio soggiorno nella Marsica, le mie<br />

invece partono sempre da Vasto o da Avezzano e si dirigono a Chieti.<br />

125


Ce ne sono anche alcune che Rosetta mi spedisce da varie località fuori dell’Abruzzo<br />

dove si svolgevano iniziative di partito alle quali essa partecipava e dalle quali mi<br />

inviava cartoline o lettere, mentre tra le mie ce n’è qualcuna, in partenza da Avezzano,<br />

indirizzata a Vasto dove lei si era recata per alcuni giorni (doveva essere la fine del<br />

1962) per dare una mano nel tesseramento sia in città che in alcuni comuni del Vastese,<br />

ospite della famiglia Di Bussolo.<br />

Ne ho rilette anche alcune.<br />

Al di là della ridondanza tipica di lettere tra fidanzati, in esse ho ritrovato soprattutto<br />

la conferma di una mia vecchia convinzione, e cioè che la lontananza, in definitiva,<br />

ha contribuito a rafforzare e consolidare il nostro legame, una lontananza nutrita<br />

naturalmente anche dei giorni nei quali ci siamo ritrovati assieme.<br />

Anche da sposati ci siamo trovati spesso nella stessa condizione e gli effetti non sono<br />

stati diversi.<br />

Il mio lavoro mi ha portato spesso a girare per l’Italia (e anche fuori d’Italia) e, per<br />

lunghi periodi, a muovermi tra Pescara, Campobasso e Roma, e da ciò credo che ne<br />

abbiamo guadagnato qualcosa. La lontananza, come sanno bene i poeti, accresce il<br />

desiderio e lo sottrae alla patina opaca della quotidianità.<br />

In ogni modo, nei mesi del nostro fidanzamento, il ritrovarci assieme, a volte ogni fine<br />

settimana a volte invece ogni quindici giorni, è stato sempre per noi come una festa e<br />

comunque l’occasione di un rapporto sempre più intenso.<br />

Anzi, quando la difficoltà di vederci è stata maggiore, la felicità dell’incontro è stata<br />

forse ancora più grande. Parlo soprattutto del periodo in cui ero ad Avezzano, quando<br />

né il lavoro né i soldi mi consentivano di tornare facilmente a Chieti.<br />

Quando potevo farlo, ero infatti costretto, come ho già ricordato, a spostarmi col treno;<br />

quando poi ho preso la patente, a quel punto avevo certo la possibilità di usare l’auto<br />

della federazione (che però non era sempre a mia disposizione), ma per la macchina ci<br />

volevano ancora più soldi che per il treno e io non ne avevo davvero molti, questa storia<br />

della mancanza di soldi ho visto, anzi, che veniva spesso evocata nelle mie lettere da<br />

fidanzato!<br />

Tra le tante cose che ricordo di quel periodo nella Marsica vi sono anche alcune<br />

disavventure legate a imprevisti del mio lavoro, in particolare ne ricordo una.<br />

Era il carnevale del 1963, io e Rosetta ci eravamo dati per telefono appuntamento, a<br />

casa sua, per il tardo pomeriggio, l’ora giusta per andare poi a ballare, la sera, nel centro<br />

sociale nato a poca distanza dalla sua nuova abitazione di Chieti Scalo; lei naturalmente<br />

si era anche preparata a tempo in modo da essere pronta a uscire appena io fossi<br />

arrivato, ma la sua attesa fu vana, io mi presentai infatti (non per colpa mia, ma per un<br />

contrattempo di partito che non avevo potuto evitare e senza che di questo la potessi<br />

avvertire) quand’era quasi mezzanotte e quando ormai la festa e il ballo volgevano alla<br />

fine, lei ovviamente ci rimase molto male ma io, debbo dire, ci rimasi ancora più male<br />

di lei!<br />

Ma ricordo anche tutti i bei momenti che abbiamo vissuto assieme, ogni volta che<br />

tornavo da Avezzano; e anche di tutte le altre volte in cui abbiamo potuto stare insieme,<br />

dopo periodi più o meno lunghi di separazione.<br />

Ricordo soprattutto i balli che spesso si organizzavano o a casa di Rosetta o presso<br />

126


le abitazioni di sue amiche (all’epoca si ballava nelle case, le discoteche e i locali da<br />

ballo non c’erano ancora), alcune volte invece ci ritrovavamo al ballo che concludeva<br />

la festa di matrimonio di questo o quel conoscente e al quale eravamo invitati: ebbene,<br />

nonostante la mia goffaggine, non ci perdevamo mai un ballo pur rischiando Rosetta<br />

continuamente che le pestassi i piedi.<br />

Ricordo anche che, tra le canzoni che accompagnavano i nostri balli, ce n’era una che<br />

ci piaceva particolarmente.<br />

Parlo de La paloma, una delle tante palome che andavano di moda in quegli anni, con<br />

parole e musica riadattate ai nuovi gusti, ma tutte germogliate da La paloma scritta a<br />

Cuba, in tempo di habanera, a metà dell’Ottocento, dal basco Sebastián Iradier, essa<br />

era anzi diventata un po’ come la nostra canzone, la colonna sonora del nostro fidanzamento<br />

e quando, nel ballo, ci abbandonavamo al suo ritmo, ricordo che ci sembrava di<br />

sentirci come avvolti da una atmosfera magica.<br />

La canzone aveva un tono piuttosto dolciastro, come ce n’erano tante in quegli anni, a<br />

noi tuttavia essa era comunque molto cara forse perché, con il suo ritmo lento, la sua<br />

melodia morbida e piena di malinconia, ci invitava a vagare nei cieli della fantasia e a<br />

farci cullare dall’onda dei sentimenti.<br />

O forse ci piaceva perché il tema della canzone, la lontananza, lo vivevamo come un<br />

tema nostro. Del resto, l’ho già sottolineato più di una volta, il tema della lontananza,<br />

così ampiamente presente nella poesia, si è rivelato sempre capace di grande forza<br />

evocativa, cito per tutti Jaufre Rudel:<br />

Amors de terra lonhdana,<br />

por vos totz lo cors mi dol!<br />

no.n puesc trobar meizina<br />

si non vau al sieu reclam…<br />

L’anno scorso, il 21 settembre del 2003 (e cioè il giorno prima della ricorrenza), abbiamo<br />

festeggiato i quarant’anni di matrimonio. Siamo stati al Tiglio, un ristorante di Rapino,<br />

un paesino alle pendici della Maiella, molto affollato (era di domenica), dove abbiamo<br />

mangiato bene e a prezzi non esosi.<br />

Con noi c’erano mia suocera, Massimiliano, Luisa, Valentina e Benedetta, avremmo<br />

voluto che ci fossero anche Stefano, Teresa ed Elisa (Martina non era ancora nata), ma<br />

la distanza è la distanza, c’è poco da fare.<br />

La giornata era bellissima, così ne abbiamo approfittato per fare una capatina, prima di<br />

pranzo, a Bocca di Valle.<br />

Bocca di Valle, che dista appena qualche chilometro da Guardiagrele, è il punto di<br />

arrivo di una stretta valle che scende dalla Maiella, solcata per tutta la sua lunghezza da<br />

un torrentello che, quando erano piccoli i miei figli, portava ancora parecchia acqua, di<br />

una limpidezza incredibile e anche molto fredda, e oggi invece non ne porta quasi più. E<br />

a congiungere i due lati della valle vi è il ponte che sta come sospeso su uno sprofondo<br />

davvero impressionante, dove si scorge il letto del torrente ricoperto appena da un filo<br />

d’acqua, e a guardare giù vengono quasi le vertigini: un posto, insomma, bellissimo e<br />

molto frequentato d’estate, soprattutto dai turisti della domenica.<br />

127


Un posto comunque che conosciamo molto bene, sia io che Rosetta e i miei figli, perché<br />

proprio lì, nei primi anni ’70, tra la primavera e l’estate, portavamo spesso Massimiliano<br />

e Stefano a passare la domenica o altri giorni festivi.<br />

Avevamo scovato, a poche centinaia di metri dall’imbocco della valle, una specie di<br />

piazzaletto, sulla destra per chi sale, che si poteva raggiungere superando il torrente<br />

attraverso un ponticello di legno; e lì i bambini potevano respirare aria buona e<br />

gio<strong>care</strong> liberamente per tutta la giornata: facevamo una sola, breve sosta, verso l’una,<br />

per consumare il pranzo abbondante portato direttamente da casa, sdraiati all’ombra<br />

riposante del gruppo di alberi che iniziavano in quel punto il folto bosco che risaliva poi<br />

tutta la costa della montagna.<br />

Portammo naturalmente Valentina e Benedetta a gio<strong>care</strong> anche loro, quel giorno, nel<br />

piazzaletto; e anch’esse si sono divertite un mondo, anche se oggi lo spazio a disposizione<br />

dei bambini si è ridotto parecchio e, per giunta, non è neanche granché praticabile, gli<br />

arbusti del sottobosco stanno ormai avendo il sopravvento nella piccola radura.<br />

Quando siamo scesi a Rapino, era ancora abbastanza presto per andare a pranzo, così<br />

abbiamo avuto il tempo di fare un giro per il paese e di ammirare alcune mostre di<br />

ceramica locale (a Rapino c’è una lunga tradizione di produzione della ceramica, ma<br />

essa si è andata un po’ perdendo nel tempo), mentre Valentina e Benedetta erano molto<br />

impegnate a correre per i vicoli che stavamo percorrendo e a gio<strong>care</strong> nello slargo di<br />

passaggio nel quale si trova il ristorante, dove ti inondano di fresco con la loro vasta<br />

ombra gli alberi di tiglio che delimitano il minuscolo parco dedicato ai caduti in guerra<br />

originari del paesino e danno il nome al locale.<br />

Quarant’anni, dunque, dal giorno del nostro matrimonio, durante i quali a giorni lieti<br />

e luminosi si sono alternati giorni difficili e comunque piuttosto opachi; e abbiamo<br />

percorso il nostro cammino ora con pioggia, vento e freddo ora con l’azzurro del cielo<br />

sopra le nostre teste e in mezzo ai colori, ai suoni e ai profumi delle belle giornate: come<br />

accade, del resto, nella vita di tutti!<br />

Ma un cammino così lungo e a volte anche accidentato, mie <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>ne, non ha<br />

imbalsamato ancora la nostra vita, svuotandola di ogni sentimento e di ogni interesse,<br />

né ci ha fiaccati o trasformati in piccole bellezze morte raccolte nel museo dei ricordi e<br />

della nostalgia, anche se i ricordi sono sempre un dono della vita.<br />

La vita è ancora tutta davanti a noi, con le sue incertezze, i brutti colpi che magari<br />

ti arrivano all’improvviso ma sempre pronti a fronteggiarli; e però anche con le sue<br />

bellezze, sia pure diverse da quelle di una volta!<br />

C’è, nel film di Carlos Saura, un altro canto flamenco che mi ha particolarmente<br />

affascinato, non solo per la sua melodia ma soprattutto per la storia, assai triste e un po’,<br />

come dire, venata di rassegnazione, che esso racconta.<br />

E’ la storia di una farfalla, la mariposa blanca,<br />

e che<br />

che era la regina<br />

di tutte le farfalle dell’alba<br />

128


si posava nei giardini<br />

sui fiori più belli<br />

e sussurrava storie<br />

al garofano e alla violetta.<br />

La mariposita era felice e,<br />

superba e civetta,<br />

sembrava il fiore d’un mandorlo<br />

cullato dalle fresche brezze.<br />

Ma un giorno accadde una cosa terribile:<br />

mentre<br />

arrivò un collezionista,<br />

una mattina di primavera,<br />

e sopra ad un gelsomino in fiore<br />

imprigionò la nostra regina.<br />

E la fissò con spilli<br />

a cartoncini neri<br />

e la portò al suo museo<br />

di piccole bellezze morte,<br />

le farfalle dell’alba<br />

piangevano nella foresta.<br />

Noi, per fortuna, non abbiamo ancora incontrato il nostro collezionista, il tempo che<br />

è il nostro collezionista deve ancora pazientare; e non ci siamo fatti perciò ancora<br />

imprigionare e fissare, come la povera mariposita blanca, con spilli su cartoncini neri!<br />

Da sempre ormai, sono alle viste di chi viene a casa nostra due belle fotografie in bianco<br />

e nero, una nel corridoio di casa e l’altra nella cameretta che è stata la stanza dei figli<br />

quando vivevano ancora con noi ed oggi è diventata la stanza dove Rosetta vede di<br />

solito la televisione e le mie <strong>nipoti</strong> giocano quando stanno dai nonni, ma che, quando<br />

occorre, si trasforma anche in stanza degli ospiti.<br />

Si tratta di due foto del bellissimo album, tutto in bianco e nero, che conserviamo del<br />

nostro matrimonio, e sono state scattate subito dopo la fine della cerimonia, io ho ancora<br />

parecchi capelli, che sono ancora neri, e sono tutto assorto nel mio nuovo ruolo di<br />

marito innamorato, sono magro e non c’è traccia ancora di pancetta, Rosetta invece ha<br />

un viso allegro, sorridente, con sopracciglia e capelli folti e neri che sono rimasti tali<br />

ancora oggi, ed indossa il suo abito da sposa, abito lungo e rigorosamente bianco, con<br />

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coroncina di stoffa sulla testa dalla quale parte il velo a strascico che si trascina dietro<br />

con l’aiuto di una o due damigelle, adesso non ricordo bene.<br />

Rosetta è sempre stata innamorata del suo abito bianco da sposa e ad esso non ha<br />

mai rinunciato, anche dopo che pure lei ha accettato di sposarsi non in chiesa ma in<br />

municipio.<br />

Stava bene comunque così vestita, pur in uno scenario che era quello, assai modesto,<br />

della sala del Consiglio comunale di Tollo.<br />

Ci siamo sposati infatti a Tollo, la mattina del 22 settembre del 1963, Rosetta aveva<br />

poco più di ventiquattro anni mentre io ne avevo già quasi ventinove.<br />

Quel giorno, nella piazza davanti al municipio c’era, quando siamo arrivati con la<br />

nostra auto da cerimonia (la guidava Licio Bevilacqua, e non ricordo più chi ce l’aveva<br />

prestata) e le altre auto dei parenti, una grande folla di curiosi, forse perché era una<br />

bella giornata di sole ma forse anche perché era la prima volta che a Tollo si celebrava<br />

un matrimonio civile; e a unirci in matrimonio fu Guido Di Mauro, allora sindaco del<br />

Comune e deputato appena da qualche mese, testimoni furono invece Gigetto Sandirocco<br />

e Mirka Liberale (la Marsica era ancora presente nella nostra vita).<br />

Ci siamo sposati, dunque, con rito civile.<br />

All’epoca erano davvero rari i matrimoni civili, e chi lo sceglieva era destinato<br />

inevitabilmente a incorrere negli strali delle malelingue del vicinato che, per esempio,<br />

come nel nostro caso, avevano annunciato ai miei futuri suoceri che il matrimonio<br />

non avrebbe avuto alcun valore e che comunque potevo lasciare mia moglie quando<br />

volevo!<br />

Ci fu perfino, tra i parenti dalla parte di mio padre, chi prese a pretesto questo fatto<br />

per non partecipare al matrimonio, mentre i miei aspettavano in mezzo alla strada<br />

con l’auto presa a noleggio per imbarcarli e portarli a Tollo: un modo, insomma, per<br />

risparmiarsi il regalo (anche se, in quegli anni, i regali non erano granché, ricordo che<br />

noi collezionammo una lunga serie di servizi di bicchieri che un bel giorno, alcuni anni<br />

dopo, abitavamo a Vasto, andarono in frantumi quando il bar incassato nella libreria un<br />

po’ sgangherata che avevo allora si staccò e finì rovinosamente a terra!).<br />

La decisione di sposarci in municipio fu in realtà solo mia: ma dopo un lungo braccio<br />

di ferro anche Rosetta si fece convincere, a condizione però che potesse indossare<br />

ugualmente l’abito lungo da sposa che piaceva a lei.<br />

Non fecero invece molte storie i suoi genitori, anche se soprattutto mia suocera,<br />

sottoposta di continuo a critiche e pressioni da parte di alcune vicine di casa, avrebbe<br />

preferito anche lei la chiesa.<br />

Non se la presero neppure i suoi parenti di Sora, che pure erano molto religiosi e<br />

praticanti, essi anzi rimasero assai contenti della cerimonia: Di Mauro aveva fatto<br />

sistemare la sala del Consiglio, abbastanza capiente, con molti fiori e fatto preparare un<br />

bel rinfresco per gli invitati.<br />

Qualche problema ci fu, al contrario, con mio padre.<br />

Ho ancora davanti agli occhi la scena di quel pomeriggio a Orsogna, nella masseria di<br />

Colle S. Giacomo: siamo seduti fuori sull’aia, all’ombra del gelso, la giornata infatti era<br />

calda, e stiamo discutendo della data del matrimonio, dei preparativi, ecc.<br />

Quando però annunciai ai miei che non ci saremmo sposati in chiesa, mio padre reagì<br />

130


piuttosto male e mi disse: Allora io non vengo, e io subito di rimando: A me, non me ne<br />

importa niente (a quel punto mi arrivò, sotto il tavolo, un calcio agli stinchi da parte di<br />

Rosetta per richiamarmi alla calma, debbo dire che è un’abitudine che non ha affatto<br />

perso con gli anni).<br />

Non è che mio padre fosse religioso, anzi, lui in chiesa ci entrava solo raramente, al<br />

massimo a Natale e Pasqua, la stessa cosa mia madre, probabilmente quello che lo<br />

preoccupava è di come avrebbe reagito la gente del paese, la discussione comunque fu<br />

breve e il problema si risolse rapidamente.<br />

Nel 1963, una festa di matrimonio non si poteva che organizzarla in casa.<br />

In giro non c’erano i tanti e ben attrezzati ristoranti di oggi, c’erano solo trattorie,<br />

piuttosto anguste per giunta, ma soprattutto non c’era ancora la mentalità, e poi,<br />

diciamola chiaramente, la gente non se lo sarebbe neppure potuto permettere.<br />

Anche il nostro pranzo di nozze si tenne così in casa, in quella di mia suocera. La casa,<br />

naturalmente, era stata svuotata di tutto, sistemando la mobilia negli appartamenti degli<br />

altri assegnatari della nuova palazzina di proprietà dell’Istituto Case Popolari, a Chieti<br />

Scalo, nella quale la famiglia di Rosetta si era trasferita da poco più di un anno.<br />

Bisognava provvedere ovviamente anche alle cibarie, ma a questo pensò mio suocero,<br />

che, per molte settimane, si fece pagare in natura dai contadini di Casalincontrada dove,<br />

da ambulante di casalinghi, si recava la domenica a vendere alle massaie utensili per<br />

la casa.<br />

Quando, dopo la cerimonia, tornammo a Chieti per il pranzo, trovammo mia suocera<br />

che ci aspettava all’ingresso della palazzina, essa infatti non si era mossa di casa proprio<br />

per farci trovare tutto pronto al nostro ritorno.<br />

Al pranzo parteciparono all’incirca una settantina di persone, piuttosto stipate nelle<br />

poche stanze disponibili, quasi tutti parenti, e a cucinare e servire in tavola provvidero<br />

le donne del palazzo che si erano prodigate durante tutta la settimana per dare una mano<br />

alla buona riuscita dell’evento: all’epoca, la solidarietà -come i pettegolezzi tra vicini,<br />

naturalmente- esisteva davvero!<br />

La sera, dopo il pranzo che fu abbastanza lungo, ci fu anche il ballo, al quale erano stati<br />

invitati anche i compagni della federazione e alcuni amici, ma noi non ci fermammo a<br />

lungo: partimmo invece per Pescara appena dopo che buona parte dei parenti era andata<br />

via, anche perché eravamo parecchio stanchi, e lì alloggiammo la notte, in un albergo<br />

che si trovava proprio di fronte alla vecchia stazione centrale da dove, il giorno dopo,<br />

iniziammo il nostro viaggio di nozze.<br />

In quegli anni, se ben ricordo, in Italia era ancora molto popolare il film Poveri ma belli,<br />

della metà degli anni ‘50: noi ovviamente, anche se soltanto poveri e non belli (almeno<br />

io!), facevamo parte della categoria.<br />

Tuttavia, potemmo fare anche noi il nostro viaggio di nozze, un viaggio di nozze tutto<br />

in treno, reso possibile dal regalo che ci fece la federazione in occasione del nostro<br />

matrimonio: ci erano stati regalati due biglietti parlamentari che ci permisero di arrivare<br />

addirittura fino a Trieste, passando per Firenze e Venezia, e, al ritorno, per Padova e<br />

Bologna.<br />

Fu un viaggio di nozze che ricordo con grande piacere, anche se esso si rivelò, strada<br />

131


facendo, un po’ avventuroso dal punto di vista finanziario e, per me, anche piuttosto<br />

faticoso dovendo, a ogni scalo, caricarmi i due pesanti valigioni preparati da mia moglie<br />

(anche oggi non ha perso il vizio, si porta sempre dietro cose che poi non indosserà mai,<br />

ma per fortuna adesso si va in automobile...)!<br />

La prima tappa fu Firenze, dove arrivammo attorno alla mezzanotte.<br />

Eravamo davvero spossati e cascavamo dal sonno. Sia per il viaggio interminabile<br />

(eravamo partiti nella tarda mattinata da Pescara, passando per Roma) sia per lo stress<br />

dei giorni precedenti, e questo ci fu fatale, assieme al fatto che il nostro giro di nozze non<br />

era affatto organizzato: così, appena un taxista di una certa età -che aveva evidentemente<br />

l’occhio clinico per riconoscere a prima vista sposini inesperti come eravamo noi- si<br />

offrì di accompagnarci in una pensione non lontana dalla stazione, noi gli dicemmo<br />

subito di sì, senza informarci né del prezzo né di altro.<br />

La pensione era accogliente, si trovava proprio nei pressi di Piazza della Signoria, e la<br />

signora che la gestiva, assieme alla figlia poco più che adolescente, si dimostrò subito<br />

carina con noi e premurosa nei confronti di ogni nostro desiderio.<br />

Ricordo, ad esempio, che mia moglie, un pomeriggio, fu presa, poco prima che uscissimo<br />

per fare un giro nel centro storico di Firenze, da forti conati di vomito. La signora fu<br />

tutta gentile, ci fece, anzi, anche gli auguri per l’evidente annuncio di gravidanza e<br />

preparò subito un tè per Rosetta che ci ritrovammo però, allo scadere dei tre giorni della<br />

nostra permanenza a Firenze, sul conto a nostro carico, assieme alla docce fatte e ad<br />

altre cose che mai avremmo pensato di dover pagare, ma tant’è, così stavano le cose e<br />

non ci fu altro da fare che pagare la grossa somma che ci venne richiesta.<br />

Per noi, che non avevamo certo molti soldi a disposizione, fu un colpo; e nei giorni<br />

successivi, sia a Venezia che a Trieste come anche, sulla strada del ritorno, a Padova e a<br />

Bologna, cercammo di rimettere in equilibrio le nostre finanze contentandoci del panino<br />

per il pranzo e andando in trattorie a poco prezzo la sera.<br />

Ma non fu sufficiente, tanto che, quando -alla fine del nostro viaggio- arrivammo ad<br />

Avezzano per recarci poi da lì a Sora, dove avremmo trascorso, presso gli zii di Rosetta,<br />

zì Peppino e zì Antonietta, gente simpatica e che amava la buona tavola, gli ultimi giorni<br />

della nostra vacanza nuziale, fummo costretti a passare da Mirka, ad Avezzano, che ci<br />

diede qualche lira: insomma, eravamo rimasti proprio a secco.<br />

Nonostante queste disavventure, il nostro giro di nozze fu comunque bellissimo. Tra<br />

l’altro, era la prima volta che ci capitava di visitare città di così rara bellezza e gustare<br />

paesaggi nuovi e di grande fascino, assistiti anche, per nostra fortuna, da un tempo<br />

splendido durante tutto il viaggio; e di esso ricordo ancora oggi tante cose, anche se<br />

sono soprattutto i giorni passati a Trieste che mi sono rimasti nel cuore.<br />

A Trieste, e al suo bianco panorama, come lo definisce Umberto Saba, avevamo pensato<br />

di tornare in occasione del nostro quarantesimo anniversario di matrimonio, ma per<br />

una serie di circostanze anche questa volta (era già accaduto altre volte, negli anni<br />

precedenti) il viaggio è saltato, prima o poi però ci torneremo...<br />

In quei giorni, a Trieste la stagione era mite e le giornate si presentavano con la morbida<br />

e chiara luminosità del cielo di settembre, che invitava ad andare in giro a conoscere le<br />

bellezze della città e a godersi le sue strade, i suoi palazzi, le sue chiese; ed ho ancora<br />

negli occhi la splendida e immensa Piazza Unità d’Italia, che è come un grande balcone<br />

132


sul mare, e poi S. Giusto, il Castello, Miramare: quest’ultimo si staglia solitario sulla<br />

costa, proprio a ridosso del mare, con le sue bianche torri / attediate per lo ciel piovorno<br />

(ma quel giorno il cielo era limpido), come canta Carducci nella bella ode barbara<br />

Miramar, sulle quali vaga ancora oggi l’ombra tragica di Massimiliano d’Austria.<br />

Dopo il nostro ritorno dal viaggio di nozze, tornammo ovviamente -sia io che mia<br />

moglie- al nostro consueto lavoro, anche se in realtà, con il matrimonio, iniziava per<br />

me come per lei una nuova vita, ma di questo, <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>, parleremo nel prossimo<br />

capitolo.<br />

133


134


CAPITOlO VII<br />

E così, finalmente, eccomi di nuovo dinnanzi al computer, alla pagina bianca del<br />

computer, pronto a riprendere il mio racconto.<br />

Nelle settimane scorse, coinvolto anch’io dai mille contorcimenti e giravolte che hanno<br />

sfiancato i partiti del centrosinistra nella scelta dei candidati a sindaco e a presidente<br />

della Regione in vista delle prossime elezioni regionali e per il rinnovo del Consiglio<br />

comunale di Chieti, me ne sono tenuto piuttosto discosto.<br />

Ma ora, l’ora del tempo e la dolce stagione...<br />

Dolce stagione, per modo di dire. Stanotte, non ha smesso un minuto di nevi<strong>care</strong>.<br />

D’altra parte, siamo alla fine di gennaio di questo 2005 appena iniziato; e quest’anno, al<br />

contrario di quel che è accaduto negli anni scorsi, l’inverno ha deciso di fare l’inverno<br />

anche a quote basse e sembra promettere di durare a lungo.<br />

A me l’inverno non piace, sono un appassionato delle stagioni di mezzo: la primavera<br />

e l’autunno, anche se la loro durata e consistenza si sono fatte ormai sempre più<br />

impalpabili, inafferrabili.<br />

Non mi piace soprattutto il freddo, e in questi giorni il freddo è veramente intenso e le<br />

previsioni non sono rassicuranti. Da noi, quando uno soffre il freddo, si dice: sembre na<br />

ciammajica nude! E’ così, sembro proprio una lumaca nuda e non ci posso fare niente.<br />

Tuttavia, nonostante questa mia idiosincrasia per l’inverno, mi è sempre piaciuto lo<br />

spettacolo della campagna innevata, dei tetti delle case con le tegole rosse o marrone scuro<br />

spruzzate di chiazze diffuse di bianco, delle strade e dei vicoli senza più margini.<br />

Più o meno, insomma, lo spettacolo che ho potuto ammirare questa mattina quando<br />

mi sono alzato dal letto, a ora molto tarda debbo dire: le colline di fronte, che sono il<br />

panorama consueto che mi godo ogni giorno dalla mia veranda o dalla finestra dello<br />

studio, tutte coperte di un grande manto bianco rotto qua e là da macchie più scure di<br />

filari di piante; e, tra le palazzine del quartiere, gli alberi che le circondano con i rami<br />

carichi di neve, parecchi di essi sono spezzati e in qualche caso sono finiti in mezzo alla<br />

strada sotto il peso della neve e l’urto del vento di questa notte.<br />

Naturalmente, della neve che finalmente è arrivata sono soprattutto contente Valentina e<br />

Benedetta; e, tutte felici, questa mattina si sono sbizzarrite a gio<strong>care</strong> nella piazzetta che<br />

è davanti la loro casa e hanno costruito il pupazzo tanto atteso! E, visto che continua a<br />

nevi<strong>care</strong> con molto impegno, probabilmente avranno più di un giorno per dedicarsi ai<br />

loro giochi in mezzo alla neve, senza la preoccupazione dei compiti da fare per Valentina<br />

e chissà che anch’io non le aiuti a modellare qualche altro pupazzo...<br />

La loro contentezza mi riporta alla mente le grandi nevicate di un tempo, quando<br />

anch’io, con i miei amici, mi divertivo a gio<strong>care</strong> con la neve pur non avendo già più<br />

l’età delle mie <strong>nipoti</strong>.<br />

Ricordo, ad esempio, quella del 1956.<br />

Quell’anno le scuole rimasero chiuse per circa un mese e anche gli studenti di Orsogna,<br />

che frequentavano le scuole superiori a Lanciano, rimasero bloccati in paese perché la<br />

Sangritana non ce la faceva a garantire le sue corse verso la città frentana, tanta era la<br />

neve che si era accumulata lungo i binari.<br />

135


Anche Orsogna era sepolta dalla grande coltre bianca. Vi erano, nei punti più battuti dal<br />

vento, cumuli di neve che superavano perfino i due metri di altezza e chi abitava nei<br />

vicoli doveva munirsi di pala e darsi da fare a forza di braccia se voleva uscire di casa.<br />

Anche per noi che abitavamo in campagna, la situazione non era proprio delle<br />

migliori.<br />

Molte piante di ulivo avevano ceduto sotto il peso della neve e tanti rami erano spezzati<br />

o a terra, era come se quelle piante fossero state sottoposte di proposito a un massacro,<br />

e non c’era proprio nulla da fare per rimediare al danno.<br />

C’è un vecchio proverbio contadino che dice: Anno di neve, anno di bbene, ma non<br />

sono sicuro che in quelle circostanze i contadini fossero proprio convinti della sua<br />

fondatezza.<br />

Oltre a questo, poi, era davvero difficoltoso recarsi in paese. Le strade erano coperte<br />

di uno spesso strato di neve indurita, e questa situazione sarebbe durata non qualche<br />

giorno ma intere settimane.<br />

All’epoca, infatti, le strade di campagna e in genere le strade esterne rimanevano a<br />

lungo sotto la neve, non c’erano ancora gli spazzaneve che in pochi giorni le riportano<br />

alla normalità come accade oggi, al massimo il sindaco chiamava un po’ di disoccupati<br />

per aprire dei passaggi nel centro cittadino mentre per il resto del paese ci si affidava<br />

all’azione benefica, anche se piuttosto lenta, del sole.<br />

Tuttavia, io mi divertivo lo stesso a correre durante il giorno per la campagna innevata<br />

assieme al nostro volpino e a tornare la notte nella casa di Colle S. Giacomo camminando<br />

sulla neve alta il cui biancore rendeva meno buia la notte.<br />

Anche i miei figli si sono sempre divertiti all’arrivo della neve.<br />

Ricordo, ad esempio, quella mattina della fine degli anni ‘70 a Villalago quando,<br />

svegliandoci, trovammo il paesino tutto ricoperto dalla neve alta. Fu davvero una bella<br />

sorpresa per tutti, ma soprattutto per i ragazzi, anche perché nulla lasciava presagire una<br />

tale nevicata.<br />

Quell’anno avevamo deciso di passare il Natale a Villalago, insieme ai parenti di<br />

Rosetta; così ci ritrovammo tutti nella nostra casa di montagna: i miei suoceri, noi e i<br />

miei cognati, con i relativi figli, una bella compagnia insomma, eravamo addirittura in<br />

quattordici, ci fu naturalmente qualche problema per la notte ma alla fine tutto andò per<br />

il meglio.<br />

La notte di Natale la passammo naturalmente giocando a tombola e a sette e mezzo; e<br />

con noi c’era anche un amico pes<strong>care</strong>se, che aveva acquistato e ristrutturato da poco una<br />

vecchia casetta vicino alla nostra, con la moglie e le due figlie.<br />

Era già molto tardi quando andammo a dormire, e tutto fuori sembrava tranquillo: il<br />

cielo era sereno, non c’era vento che annunciasse bufere di neve, anche la temperatura<br />

non sembrava particolarmente rigida.<br />

La mattina invece la bella sorpresa. I ragazzi si precipitarono subito fuori, seguiti a<br />

ruota da noi grandi, e a casa non restò che mia suocera a preparare il pranzo per tutti,<br />

compresi i nostri amici.<br />

Fu una giornata davvero divertente: con i ragazzi che si rotolavano in mezzo alla<br />

neve, gli slittini guidati dai più piccoli che scivolavano lungo il pendio a ridosso della<br />

montagna, e naturalmente tanti capitomboli e tante risate e fotografie per immortalare<br />

136


il momento...!<br />

Ma ora basta con la neve e andiamo al nostro racconto. E dunque: io dico, seguitando...,<br />

come Dante, all’inizio dell’VIII canto dell’Inferno, che riprende il racconto della sua<br />

discesa agli inferi.<br />

Alfred de Vigny, che amava i paesaggi invernali e si sentiva ispirato da essi, in un<br />

poema della raccolta Poemi Antichi e Moderni, intitolato La Neve, canta che è dolce<br />

ascoltare delle storie, / storie del tempo passato, / quando i rami degli alberi sono neri<br />

/ e la neve è spessa e preme sul suolo ghiacciato!<br />

Può darsi, mie <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>, che anche a me questa volta la neve abbondante che è caduta<br />

tra la notte scorsa e questa mattina porti ispirazione e renda piacevole il racconto, e che<br />

un giorno anche a voi la neve lo renda gradito e vi renda benevole nei confronti del<br />

nonno e delle cose che egli scrive per voi.<br />

Gli anni immediatamente successivi al nostro matrimonio furono anni assai intensi da<br />

tutti i punti di vista: di lì a meno di un anno nacque il nostro primo figlio, mentre sul<br />

piano politico, grazie certamente al risultato molto positivo delle politiche del 1963 ma<br />

anche al nostro lavoro, il partito riprese un cammino di crescita e di sviluppo della sua<br />

forza organizzata e della sua capacità di essere tra la gente e di affrontarne i problemi.<br />

Cominciamo però col dire che, intanto, l’inizio di quella stagione politica non fu affatto<br />

promettente, anzi...<br />

Il 21 agosto del 1964, infatti, una grande tragedia si abbatté sul PCI. Colpito da una<br />

emorragia cerebrale, Togliatti muore a Yalta, in Crimea, dove si era recato agli inizi<br />

di agosto, assieme a Nilde Iotti, per un periodo di riposo ma anche per incontrarsi<br />

con Krusciov e discutere con lui dell’aspra controversia che opponeva in quegli anni<br />

l’Unione Sovietica e la Cina diretta da Mao Tse Tung.<br />

All’annuncio della morte di Togliatti, che prese tutti alla sprovvista, l’emozione in Italia<br />

fu grande; e i funerali che si svolsero qualche giorno dopo a Roma registrarono una<br />

partecipazione di popolo mai vista.<br />

Non c’era solo il mare di gente che seguiva il feretro con le bandiere rosse delle varie<br />

organizzazioni venute da tutta l’Italia, c’era anche la folla sterminata che salutava il<br />

capo dei comunisti italiani dai lati delle strade attraversate dal corteo funebre o anche<br />

dai balconi delle case, chi con il pugno alzato chi facendosi il segno della croce chi<br />

gridando il proprio dolore chi piangendo silenziosamente: insomma un tributo d’affetto<br />

senza precedenti, sembrava davvero che tanta parte del popolo italiano fosse rimasta<br />

orfana.<br />

Anch’io quel giorno, con Peppe D’Alonzo e molti altri compagni della provincia, ero<br />

ai funerali; e seguimmo con le nostre bandiere il feretro fino all’immenso piazzale di S.<br />

Giovanni, già stracolmo di gente al momento del nostro ingresso nella piazza.<br />

Eravamo partiti la mattina presto da Chieti per arrivare a tempo ai funerali, l’autostrada<br />

infatti non c’era ancora e di solito per andare a Roma si passava per L’Aquila e poi per<br />

Rieti, percorrendo una strada tortuosa e piena di curve come la Salaria, e ci volevano<br />

perciò non meno di quattro ore per giungere a destinazione. Ma la fatica non ci pesava:<br />

non solo perché eravamo giovani, ma soprattutto perché tutti, di fronte alla scomparsa<br />

di Togliatti, ci sentivamo attanagliati da un sentimento, che prevaleva su ogni altra cosa,<br />

137


che era insieme di grande dolore ma anche di grande sgomento e preoccupazione.<br />

Per capire quel che ognuno di noi provò in quei giorni, quel che provarono milioni di<br />

uomini e di donne del nostro Paese bisogna pensare a quel che rappresentava Togliatti,<br />

non solo per i comunisti ma per i lavoratori italiani.<br />

Togliatti era l’uomo che aveva costruito il nuovo PCI, forte di una presenza di massa<br />

tra i ceti popolari, l’aveva radicato nella storia dell’Italia e ne aveva fatto il principale<br />

riferimento delle speranze di progresso e di giustizia sociale dei lavoratori sia del Nord<br />

che del Sud.<br />

La sua scomparsa non poteva perciò non suscitare dolore ma anche preoccupazioni per il<br />

futuro: dopo di lui e senza una guida forte e di grandissima autorevolezza quale era stata<br />

appunto la sua, quale sarebbe stato il futuro del PCI, non solo, ma anche dell’Italia?<br />

Bisogna dire però che Luigi Longo, che lo sostituì alla direzione del partito, si dimostrò<br />

già nei primi suoi atti all’altezza del compito: certo non era Togliatti, ma la sua guida<br />

apparve subito saggia e anche innovativa.<br />

La prima cosa infatti che fece fu di pubbli<strong>care</strong>, contro il parere dei sovietici e di una<br />

parte del gruppo dirigente del partito, il cosiddetto Memoriale di Yalta.<br />

Il Memoriale di Yalta, che giustamente fu considerato in seguito il suo testamento<br />

politico, erano in realtà gli appunti che Togliatti aveva preparato per l’incontro con<br />

Krusciov, anche se non si trattava di una semplice scaletta; e sono proprio i suoi contenuti<br />

a spiegare la contrarietà dei sovietici.<br />

In quegli appunti Togliatti mette a fuoco alcuni problemi che, già nei mesi precedenti,<br />

erano stati oggetto della sua riflessione, approdando a posizioni particolarmente critiche<br />

sulla politica sovietica e la realtà dell’URSS e degli altri Paesi socialisti e ulteriormente<br />

sviluppando alcune tematiche proprie della politica togliattiana di quegli anni come il<br />

rapporto con i cattolici.<br />

A ben vedere, sono posizioni che segnarono il cammino successivo del PCI e portarono<br />

un contributo decisivo al consolidamento e allo sviluppo della strategia della via<br />

italiana al socialismo e, in questo quadro, del rapporto del PCI con il mondo cattolico,<br />

innanzitutto attorno ai problemi epocali della guerra e della pace, delineando così nei<br />

fatti la traccia su cui si incardinerà dieci anni dopo la strategia del compromesso storico<br />

di Enrico Berlinguer.<br />

Non è qui il caso di riportare i passaggi del Memoriale che toccano i vari punti di crisi<br />

che investivano in quel momento il movimento comunista internazionale, la vita interna<br />

dei Paesi socialisti e dell’URSS in primo luogo, i rapporti tra i partiti comunisti, le<br />

strategie da mettere in campo per battere le posizioni cinesi e ridare slancio alla lotta<br />

per il socialismo nei vari paesi e sul piano mondiale.<br />

Mi limito a sottolinearne soltanto alcuni, quelli che più di altri mi sembrano abbiano<br />

segnato il futuro del PCI e il suo rapporto con i comunisti sovietici e gli altri partiti<br />

comunisti al potere. A cominciare dall’affermazione secondo cui non era giusto parlare<br />

dei Paesi socialisti come se “in essi le cose andassero sempre bene”, marcando così, per<br />

la prima volta, una netta presa di distanza dalla realtà di quei paesi e dal modo in cui<br />

essa veniva raccontata all’estero.<br />

Togliatti richiamava poi la necessità che nell’Unione Sovietica si andasse rapidamente<br />

al “superamento del regime di limitazione e soppressione delle libertà democratiche e<br />

138


personali che era stato instaurato da Stalin” e quindi al recupero di una “larga libertà<br />

di espressione e di dibattito, nel campo della cultura, dell’arte, e anche nel campo<br />

politico”, sollecitando contemporaneamente un approfondimento delle “origini del<br />

culto di Stalin e come esso diventò possibile”, anche perché in Italia “non si accetta di<br />

spiegare tutto soltanto con i gravi vizi personali di Stalin”.<br />

Com’è noto, Togliatti non aveva mai apprezzato molto l’approccio di Krusciov al<br />

problema delle degenerazioni staliniane, ritenendolo superficiale e poco fecondo al fine<br />

di evitare nel futuro il ripetersi di fenomeni analoghi, indicando invece la necessità di<br />

“indagare gli errori politici che contribuirono a dare origine al culto” e informando come<br />

in Italia fosse già in atto, tra storici e quadri qualificati di partito, una tale indagine.<br />

Inoltre Togliatti sottolineava, dopo gli esiti del Concilio Vaticano II, la esigenza che i<br />

partiti comunisti al potere abbandonassero “la vecchia propaganda ateistica”, come<br />

una delle condizioni fondamentali per far vivere la ricerca di un rapporto nuovo con<br />

le masse cattoliche, aggiungendo anche come “lo stesso problema della coscienza<br />

religiosa, del suo contenuto, delle sue radici tra le masse, e del modo di superarla,<br />

deve essere posta in modo diverso che nel passato”: si trattava insomma di sgombrare<br />

il campo della zavorra “ateistica”, per cogliere fino in fondo le opportunità offerte dal<br />

Concilio Vaticano II e dal fatto, come egli aveva scritto già qualche tempo prima, che<br />

l’aspirazione al rinnovamento socialista della società può trovare “uno stimolo nella<br />

coscienza religiosa stessa” (la religione, insomma, non più oppio dei popoli).<br />

Anche nel campo della cultura Togliatti chiedeva scelte nuove, coraggiose, “liquidando<br />

vecchie formule”, se si voleva uno sviluppo ulteriore del movimento comunista<br />

internazionale: “Dobbiamo diventare noi i campioni della libertà della vita intellettuale,<br />

della libera creazione artistica e del progresso scientifico. Ciò richiede che noi non<br />

contrapponiamo in modo astratto le nostre concezioni alle tendenze e correnti di diversa<br />

natura, ma apriamo un dialogo con queste correnti e attraverso di esso ci sforziamo<br />

di approfondire i temi della cultura, quali oggi essi si presentano”. Ma, com’è noto,<br />

anche qui le sue indicazioni non ebbero di fatto alcun seguito in URSS e nei Paesi<br />

socialisti...<br />

Sulle questioni internazionali, infine, e il contrasto con i comunisti cinesi, egli<br />

avanzò l’idea di un nuovo rapporto tra i partiti comunisti, fondato sull’autonomia e la<br />

sovranità di ciascun partito, con la costruzione di un sistema policentrico di relazioni<br />

dove la necessaria ricerca dell’unità si sposasse con il riconoscimento della diversità<br />

di ciascuno: in altri termini, era il primo tentativo non solo di allentare il legame di<br />

ferro che univa il movimento comunista internazionale al partito sovietico, al quale<br />

era da tutti riconosciuto un ruolo guida, ma anche di dare uno spazio maggiore alle vie<br />

nazionali al socialismo.<br />

Togliatti in questo modo apriva una strada che altri avrebbero percorso, segnando<br />

ulteriormente la originalità del comunismo italiano e rendendo possibile la evoluzione<br />

socialista del PCI, dopo la caduta del muro di Berlino e il successivo scioglimento<br />

del partito nato nel 1921 dalla scissione di Livorno; e nessuno può contestargli questo<br />

merito, nonostante i tentativi ricorrenti di rimuovere la sua figura e il ruolo decisivo che<br />

egli ha giocato nel costruire in Italia una sinistra moderna, all’indomani della sconfitta<br />

del nazifascismo.<br />

139


Anche recentemente, in occasione del terzo Congresso dei democratici di sinistra, che<br />

si è svolto a Roma agli inizi di febbraio del 2005, si è levata da parte di qualcuno la<br />

richiesta di buttare nel mondezzaio Togliatti.<br />

L’occasione è stata fornita dal richiamo fatto da Piero Fassino, nel discorso di chiusura<br />

del Congresso, alla figura di Craxi come a uno dei padri della sinistra riformista.<br />

Ho qualche dubbio sulla utilità del richiamo. E’ vero che Craxi ha avvertito, prima<br />

di Berlinguer, i cambiamenti in atto, nella fase ultima del secolo scorso, nella società<br />

italiana e nel mondo, e ha dimostrato anche capacità di innovazione nell’analisi e<br />

nella proposta per la modernizzazione dell’Italia, è anche vero però che la pagina di<br />

Tangentopoli scritta dal craxismo è destinata a restare ancora a lungo nella memoria<br />

della gente, oltre che nella storia del Paese e del socialismo italiano che ne è uscito<br />

distrutto.<br />

Quanto a Togliatti, al di là dei suoi limiti, errori e contraddizioni e la famosa doppiezza<br />

che ha caratterizzato il suo rapporto con Stalin e i sovietici, egli resta l’artefice di un<br />

comunismo democratico, del tutto originale nel panorama del comunismo mondiale, e<br />

nello stesso tempo nessuno può negargli di essere tra i padri della Repubblica e della<br />

Costituzione e tra i maggiori costruttori della democrazia italiana.<br />

(A proposito di doppiezza: non è curioso che la si rimproveri a qualcuno proprio in Italia<br />

dove, negli anni della Controriforma, è stata teorizzata la cosiddetta doppia verità, per<br />

evitare i fulmini dell’Inquisizione? O se ne deve dedurre che Stalin era meno pericoloso<br />

della Santa Inquisizione?).<br />

Ma, tornando alle nostre preoccupazioni di quell’agosto del 1964, esse si rivelarono<br />

ben presto infondate: il PCI riprese subito e con slancio, anche grazie al lascito politicoculturale<br />

contenuto nel Memoriale di Yalta, il suo cammino, raggiungendo appena<br />

qualche decennio dopo l’apice del suo sviluppo.<br />

L’arrivo a Chieti di Giuseppe D’Alonzo, come segretario di federazione, e il mio ritorno<br />

da Avezzano, con l’incarico di responsabile di organizzazione, segnarono di fatto un<br />

passaggio di gruppi dirigenti nella direzione provinciale del PCI, anticipato già in parte<br />

dalla elezione qualche mese prima, nelle politiche del 1963, alla Camera dei deputati di<br />

Guido Di Mauro in sostituzione di Raffaele Sciorilli-Borrelli.<br />

Un tale passaggio fu caratterizzato, sin dall’inizio, da una maggiore capacità di lavoro<br />

e di iniziativa del nuovo gruppo dirigente e, forse, anche da una sua più elevata qualità<br />

politica e culturale.<br />

Del resto, i risultati cominciarono ad arrivare in poco tempo. Ad esempio, già nel<br />

1964 il numero degli iscritti al partito raggiunse la ragguardevole cifra di 5.488 unità,<br />

superando largamente il numero di iscritti degli anni precedenti.<br />

D’altra parte, quando assumemmo la direzione del partito, una delle nostre prime<br />

preoccupazioni fu appunto quella di puntare a una espansione della nostra forza<br />

organizzata tra ceti nuovi, innanzitutto urbani, a partire dalla classe operaia che si andava<br />

formando proprio in quegli anni sia nel vastese che nella vallata dello Scalo, una classe<br />

operaia che già allora aveva assunto dimensioni di massa e nelle cui prime manifestazioni<br />

di lotta era già possibile avvertire la presenza di una nuova consapevolezza politica o,<br />

come si diceva allora, di classe.<br />

140


Naturalmente, non bastava per questo solo uno sforzo organizzativo, c’era bisogno<br />

anche di una nuova elaborazione e di una iniziativa politica nutrita di una più puntuale<br />

analisi della realtà economica e sociale della provincia.<br />

Ricordo, a questo proposito, una riunione del Comitato Federale dedicata appunto a<br />

questo problema, e anche il succo del mio intervento in quella occasione, come nuovo<br />

responsabile dell’organizzazione: dovevamo proporci di costruire anche in provincia<br />

di Chieti il partito nuovo di Togliatti, il partito di massa capace di aderire a tutte le<br />

pieghe della società, in grado quindi di cogliere tutte le novità della situazione e di<br />

intervenire su di essa attraverso sia un adeguato sforzo organizzativo che una forte<br />

iniziativa politica, superando antiche asprezze e chiusure settarie.<br />

Com’è noto, nel PCI politica e organizzazione sono sempre andate a braccetto: l’una<br />

senza l’altra non aveva senso, era questa una delle prime cose che ti veniva insegnata<br />

quando entravi nel PCI; e il senso principale di quel mio intervento stava appunto in<br />

questo, nel sollecitare e impegnare i compagni a rendere concreta questa verità attraverso<br />

il nostro lavoro di tutti i giorni.<br />

Oggi di questa impostazione nella sinistra italiana c’è appena qualche traccia, così<br />

spesso l’attività del partito si riduce solo a manovra politica e a rapporti tra gruppi<br />

dirigenti, e questo non di rado impedisce di entrare in contatto con i problemi più<br />

profondi della gente, facendone il terreno di una iniziativa politica e culturale più legata<br />

alla vita delle persone, e di dare contemporaneamente risposte più puntuali anche sul<br />

piano del governo.<br />

Tanta antipolitica in questa stagione della vita del nostro Paese, dominata da Berlusconi,<br />

passa del resto anche di qui!<br />

Ma, per tornare alle scelte compiute in quel periodo, ci impegnammo anche a rendere<br />

più intenso e continuo il rapporto tra sezioni e federazione.<br />

Anche qui, questo rapporto oggi è pressoché inesistente a sinistra, in nome di una<br />

malintesa autonomia delle sezioni, allo stesso modo in cui, ad esempio, le Unioni<br />

regionali (come si chiamano oggi i Comitati regionali) si disinteressano di quel che<br />

accade nelle federazioni.<br />

Il risultato è solo una gran confusione, con una caduta verticale della iniziativa politica<br />

sul territorio e il farsi avanti di gruppi dirigenti molto rinchiusi nella loro piccola realtà o<br />

nei propri campi di competenza. E non credo che questo stia aiutando la nostra capacità<br />

di governo e tanto meno l’affermarsi di una visione politica che faccia venire in primo<br />

piano l’interesse generale di cui pure c’è tanto bisogno in Italia.<br />

In ogni modo, all’epoca, non c’era per noi fine settimana, in genere dal venerdì alla<br />

domenica, che non andassimo nei paesi; e volta a volta si trattava di riunioni dei direttivi<br />

delle sezioni, di assemblee di iscritti, di manifestazioni pubbliche (di solito, comizi): era<br />

un modo per informare, ascoltare e capire gli umori presenti nel partito e tra la gente,<br />

cogliere i problemi, stimolare il formarsi di un orientamento comune e condiviso sulle<br />

grandi questioni al centro dello scontro politico e sociale.<br />

Si discuteva di tutto naturalmente: problemi locali, di zona o provinciali, questioni<br />

organizzative, politica nazionale e internazionale.<br />

Una delle caratteristiche del PCI è stata, anzi, proprio questa: non ci sono mai stati<br />

temi di cui la sezione non dovesse discutere, considerati estranei rispetto agli interessi<br />

141


dei compagni e riservati a quelli più addentro a quei temi, cosa che invece oggi accade<br />

normalmente.<br />

Questo ha fatto sì che i militanti del PCI, in genere lavoratori e di solito senza<br />

un’istruzione adeguata (molti, in quegli anni, non avevano neppure finito le elementari)<br />

fossero tuttavia in grado di farsi una opinione di quel che accadeva in Italia e nel<br />

mondo, magari anche elementare, ma che li poneva comunque su un gradino più alto di<br />

conoscenza e di consapevolezza rispetto a tanti comuni cittadini.<br />

Credo, anzi, che questo sia stato il contributo più importante che i comunisti italiani<br />

hanno dato alla crescita civile e democratica dell’Italia, che ha reso più solida la nostra<br />

democrazia e spinto milioni di cittadini ad assumere verso i problemi del Paese un<br />

atteggiamento responsabile che ha consentito in momenti cruciali della nostra storia di<br />

evitare lo sfascio e di aprire strade nuove al futuro dell’Italia.<br />

A quel tempo, in federazione eravamo pochini; nonostante questo però, ci davamo tutti<br />

ugualmente da fare per girare nelle sezioni, sobbarcandoci un lavoro enorme e anche<br />

molto faticoso.<br />

Naturalmente c’era bisogno di impegnare in questo lavoro anche i compagni del<br />

Comitato Direttivo provinciale non funzionari (che erano di gran lunga la maggioranza);<br />

e nessuno di essi si è mai tirato indietro.<br />

Questa presenza costante nelle sezioni, che si è mantenuta anche in seguito, fino allo<br />

scioglimento del PCI, ha avuto anche un altro effetto: e cioè che si consolidasse sempre<br />

più nel tempo il rapporto dei singoli dirigenti provinciali, funzionari e non, con la<br />

massa dei compagni delle sezioni; e io ho potuto essere candidato ed eletto alla Camera<br />

dei deputati grazie proprio a questo legame, nonostante mancassi da anni da Chieti,<br />

impegnato -sia pur sempre nel partito- prima a Pescara e poi addirittura fuori regione,<br />

nel Molise.<br />

Anche l’utilizzo nell’attività del partito di compagni non funzionari è stata una<br />

caratteristica costante del PCI.<br />

Non si trattava soltanto di una necessità.<br />

In realtà, il PCI non è mai stato una organizzazione fatta solo di apparati, questa è una<br />

descrizione caricaturale di un partito nel quale invece i gruppi dirigenti sono sempre<br />

stati molto larghi e diffusi sul territorio, animati tra l’altro da un disinteresse e da una<br />

visione delle cose che ha sempre posto in primo piano il bene comune -del partito o del<br />

Paese- rispetto agli interessi individuali e di gruppo.<br />

Da questo punto di vista, anzi, il PCI poteva vantare una ricchezza straordinaria di<br />

compagni non funzionari impegnati nella quotidiana attività politica e organizzativa del<br />

partito rispetto a tutte le altre organizzazioni politiche di quella che è stata chiamata, in<br />

termini ingiustamente dispregiativi, la prima Repubblica.<br />

Oggi, anche a sinistra, le scelte sono spesso frutto di interessi e convenienze che<br />

sfuggono a ogni visione generale delle cose e a un rapporto solidale all’interno dei<br />

gruppi dirigenti, il partito anzi è divenuto in molti casi il luogo nel quale convivono tanti<br />

spezzoni del gruppo dirigente, nessuno dei quali è portatore di quella visione generale<br />

cui ho prima accennato, e dove quindi le decisioni sono non di rado il risultato di spinte<br />

molto parziali.<br />

La tendenza in definitiva è quella di coltivare ognuno il proprio orticello e farlo valere<br />

142


nei confronti dei vari altri orticelli con l’obiettivo di perpetuare quanto più a lungo<br />

possibile il potere che ci si è ritagliati nel partito o nelle istituzioni. E capita anche<br />

che a qualcuno, quando non gradisce qualche decisione, faccia difetto anche quel<br />

“concetto... di responsabilità che genera la disciplina” cui fa cenno Gramsci in una<br />

nota dei Quaderni del carcere.<br />

“Al concetto di libertà, scrive Gramsci, si dovrebbe accompagnare quello di<br />

responsabilità che genera la disciplina e non immediatamente la disciplina, che in<br />

questo caso si intende imposta dal di fuori, come limitazione coatta della libertà.<br />

Responsabilità contro arbitrio individuale: è sola libertà quella “responsabile”, cioè<br />

“universale”, in quanto si pone come aspetto individuale di una “libertà” collettiva o<br />

di gruppo, come espressione individuale di una legge”.<br />

Ma tant’è: in tempi in cui il berlusconismo ha chiamato a raccolta gli istinti ferini del<br />

peggiore particolarismo e quando il trasformismo non turba più ormai i sonni di nessuno,<br />

con salti della quaglia dall’uno all’altro schieramento non certo frutto di ripensamenti<br />

profondi, perché ci si dovrebbe stupire di chi pensa che è del tutto naturale utilizzare<br />

i privilegi che possono derivare dall’appartenenza a una libera associazione quali<br />

sono appunto i partiti ma dimenticarsi nello stesso tempo dei doveri che quella stessa<br />

appartenenza dovrebbe comportare?<br />

Ma bando ormai a questi paragoni con l’oggi (che, tra l’altro, mi provocano, ogni volta<br />

che ho modo di riscontrare, nella realtà effettuale, cose che non mi piacciono, dei veri e<br />

propri versamenti di bile), e procediamo con il racconto. Anche perché, mie <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>,<br />

altrimenti rischio con queste mie osservazioni di finire nella schiera dei laudatores<br />

temporis acti, cosa che non sono né mi piace essere: ogni tempo ha le sue logiche e<br />

le sue ragioni, ma è chiaro anche che, quando esse non mi convincono, nessuno può<br />

togliermi il diritto di criticarle e combatterle, se necessario.<br />

Altro momento importante della ritrovata presenza del partito tra la gente, anche solo<br />

come fatto di propaganda, fu rappresentato dalle feste de l’Unità.<br />

Non più, quindi, solo la festa di Comino, che uscì di scena peraltro, se la memoria non<br />

m’inganna, forse già nell’estate del ‘63 quando venne meno l’impegno diretto della<br />

federazione.<br />

Ma tante feste in tanti comuni, piccoli e grandi, della provincia, sia pure solo di un<br />

giorno ma che costituivano comunque una presenza politica e portavano anche un po’<br />

di soldi nelle malandate casse del partito, indispensabili, assieme ai soldi versati dalle<br />

sezioni per il pagamento delle tessere e ai contributi mensili che arrivavano dal centro<br />

(scarsi anche quelli), per garantire ogni mese ai compagni il misero stipendio che si<br />

erano assegnati.<br />

Un altro merito che mi pare di poter rivendi<strong>care</strong> a quegli anni è l’avvio di una politica<br />

di effettivo decentramento politico e organizzativo dell’attività della federazione: prima<br />

con iniziative per la elaborazione e definizione di piattaforme di zona nel Vastese e nel<br />

Sangro, poi con il mio trasferimento dalla federazione a Vasto per fare il responsabile<br />

della zona del Vastese.<br />

Probabilmente, questa nostra scelta contribuì in maniera decisiva alla ripresa e al rilancio<br />

della iniziativa del partito e anche all’allargamento dei gruppi dirigenti, anche se i suoi<br />

frutti più abbondanti questa scelta doveva darla negli anni ‘70.<br />

143


Questa scelta aiutò chiaramente anche una nostra maggiore presenza politica sui<br />

problemi delle diverse zone della provincia.<br />

Ricordo, ad esempio, che fu proprio questa scelta che ci offrì, nella seconda metà degli<br />

anni ‘60, l’opportunità di avanzare e far arrivare alle popolazioni del Sangro nostre<br />

specifiche proposte sui temi dello sviluppo del comprensorio, nel momento in cui si era<br />

fatto più acuto, tra la gente, il malcontento per la marginalità a cui la vallata era stata<br />

costretta dalle scelte regionali e nazionali della DC e del centro-sinistra.<br />

Per la stessa ragione, anche nel Vastese il nostro impegno sui problemi della zona,<br />

principalmente sui temi legati all’utilizzo del metano e alla nascita della nuova classe<br />

operaia della SIV, si fece più intenso e incisivo.<br />

Questo, naturalmente, non fece in nessun modo venir meno la nostra iniziativa attorno<br />

a tematiche di natura nazionale e internazionale: si moltiplicarono anzi, ad esempio,<br />

proprio a seguito della scelta del decentramento, le manifestazioni per l’indipendenza<br />

del Vietnam e per la libertà della Grecia soffocata dal golpe sanguinoso dei colonnelli!<br />

Le cose, insomma, filavano in modo abbastanza soddisfacente sul piano politico.<br />

E questo non solo faceva crescere il prestigio del gruppo dirigente provinciale presso le<br />

sezioni, ma faceva anche emergere forze nuove, una parte delle quali venne immessa, in<br />

occasione dei due Congressi di federazione che si tennero nella seconda metà degli anni<br />

‘60, negli organismi dirigenti provinciali. Anche se in genere si era sempre molto parchi<br />

nel fare queste operazioni: intanto perché, pur essendo il Comitato Federale l’organismo<br />

nel quale erano rappresentate tutte le zone più significative della provincia, tuttavia esso<br />

non ebbe mai, se non a partire dalla seconda metà degli anni ‘70, dimensioni molto<br />

ampie; c’era poi una selezione dei compagni sempre piuttosto severa, non si era affatto<br />

(come invece oggi) di manica larga.<br />

Anche la unità del gruppo dirigente provinciale si dimostrò abbastanza solida in quegli<br />

anni.<br />

Ovviamente non mancarono scossoni, legati soprattutto, più che a contrasti di natura<br />

locale, a scontri di carattere nazionale.<br />

Ricordo, ad esempio, il Congresso di federazione dell’inverno del 1965, in preparazione<br />

dell’XI Congresso nazionale del PCI che si svolse a Roma nel gennaio del ‘66, e il<br />

dibattito politico che l’accompagnò.<br />

Al centro della discussione congressuale vi erano i temi del nostro rapporto con il<br />

centro-sinistra e, più specificamente, con il PSI.<br />

Una discussione dunque su temi di importanza strategica, che si intrecciava tra l’altro<br />

con il dibattito, di natura più squisitamente culturale ma che aveva tuttavia un rapporto<br />

evidente con le scelte politiche che il PCI si apprestava a fare, incentrato sul cosiddetto<br />

neocapitalismo, un termine che ambiva a definire la natura dei cambiamenti economici<br />

e sociali che stavano interessando in quegli anni anche l’Italia.<br />

Segretario del PCI era allora Luigi Longo, si trattava perciò del primo Congresso senza<br />

la presenza di Togliatti morto poco meno di un anno e mezzo prima.<br />

Longo si mosse su una linea che, pur riaffermando una critica aspra alle scelte fatte dal<br />

centro-sinistra e alla strategia che lo ispirava, tuttavia rifiutò ogni giudizio liquidatorio<br />

nei confronti del PSI confermando -come già aveva fatto in precedenza Togliatti- la<br />

144


nostra tradizionale politica unitaria nei confronti dei socialisti e, sul piano più generale,<br />

contestando l’idea -affermata da alcuni settori del partito, che facevano derivare tutto<br />

questo dall’analisi che essi facevano del neocapitalismo- che si era ormai alle soglie di<br />

una sconfitta della sinistra e che ogni possibilità di reale cambiamento era preclusa se<br />

non si combatteva fino in fondo la socialdemocratizzazione del PSI.<br />

Ma su questa linea non ci fu la unità del gruppo dirigente nazionale.<br />

Ingrao imboccò subito la strada dello scontro frontale con il PSI, indicato come ormai<br />

socialdemocratizzato e quindi irrecuperabile a un impegno unitario nella battaglia per<br />

la trasformazione socialista e democratica dell’Italia, una posizione, questa, che portava<br />

inevitabilmente con sé anche la liquidazione dei rapporti unitari tra i due partiti che<br />

pure continuavano a esistere e a dimostrarsi stabili nelle amministrazioni locali e nelle<br />

organizzazioni di massa, nonostante la diversa collocazione politica dei comunisti e dei<br />

socialisti a livello nazionale.<br />

Lo scontro nel partito si fece quindi molto aspro, e investì inevitabilmente anche le<br />

federazioni; soprattutto esso si caratterizzò per la contrapposizione tra Pietro Ingrao e<br />

Giorgio Amendola, il quale sosteneva con molto vigore posizioni del tutto antitetiche a<br />

quelle di Ingrao e più vicine alla impostazione data da Longo.<br />

Le posizioni di Ingrao, che furono poi sconfitte al Congresso nazionale, infiammarono<br />

il dibattito anche da noi.<br />

Sulle posizioni di Ingrao si schierarono Di Mauro e il gruppo di Tollo e, di rincalzo,<br />

Graziani e i compagni di Paglieta, anche Brini, che era allora il segretario regionale del<br />

partito e partecipò al nostro Congresso, si muoveva sulla stessa linea; tuttavia anche da<br />

noi la maggioranza si ritrovò sulle posizioni di Longo.<br />

Uno scontro analogo si ebbe qualche anno dopo, nel 1969 (in quel periodo io ero a Vasto),<br />

attorno alla vicenda del Manifesto le cui posizioni erano in qualche modo figlie di quelle<br />

sostenute da Ingrao nel ‘66, sia pur nutrite di una maggiore radicalità rivoluzionaria<br />

(uno dei riferimenti politico-culturali del gruppo era, infatti, la cosiddetta rivoluzione<br />

culturale cinese).<br />

Anche in questa occasione lo scontro fu molto duro.<br />

Ricordo a questo proposito ancora oggi la lunga e combattuta riunione del Comitato<br />

Federale con, all’ordine del giorno, appunto la decisione assunta dal Comitato Centrale<br />

di espellere dal PCI il gruppo del Manifesto: com’era prevedibile, in federazione gli<br />

schieramenti furono gli stessi del Congresso del ‘66 e identico fu l’esito dello scontro<br />

con l’approvazione da parte della maggioranza dei compagni della decisione assunta a<br />

livello nazionale.<br />

L’unità del gruppo dirigente provinciale tuttavia non risentì di questi scossoni, né nel<br />

1966 né nel 1969.<br />

La ragione fu semplice: lo scontro politico non solo non degenerò in scontro personale,<br />

ma le posizioni sostenute dalla minoranza non furono mai considerate dalla segreteria di<br />

federazione una discriminante in base alla quale valutare il ruolo che i singoli compagni<br />

potevano gio<strong>care</strong> sia nel partito che nelle istituzioni.<br />

Contò molto, da questo punto di vista, l’equilibrio con il quale tutti si mossero, a partire<br />

appunto dalla segreteria di federazione.<br />

D’altra parte, anche a livello nazionale ci si mosse con la stessa ottica, almeno nel<br />

145


1966.<br />

Il Congresso nazionale, infatti, respinse la richiesta di chi pensava che lo scontro di<br />

natura strategica che si era avuto durante il dibattito dovesse portare all’esclusione<br />

dagli organismi dirigenti dei compagni che si erano battuti per posizioni risultate poi<br />

minoritarie; inoltre, anche se sul piano della vita democratica interna non si arrivò a<br />

considerare normale la contrapposizione di linee politiche alternative, tuttavia fu<br />

ammessa e riconosciuta la legittimità del dissenso, cosa che rappresentò un passo avanti<br />

importante sulla via di una maggiore democrazia nel partito.<br />

Nel caso del Manifesto, sul piano nazionale la vicenda si concluse invece diversamente,<br />

con la esclusione dal partito del gruppo che aveva dato vita alla rivista. Quello che<br />

venne considerato inammissibile non fu, neppure questa volta, il diritto al dissenso,<br />

ma piuttosto la organizzazione del dissenso, in altri termini la possibilità che nel PCI si<br />

potesse arrivare alla formalizzazione delle correnti.<br />

Agiva qui un riflesso che era insieme ideologico e politico, legato quest’ultimo al timore<br />

del PCI di esporsi a rotture irreversibili che ne avrebbero minato la forza e la capacità<br />

di incidere nella vita del Paese, in realtà fu persa l’occasione per aprire la strada a un<br />

pluralismo e a una maggiore dialettica interna che, forse, potevano dimostrarsi fecondi<br />

per il futuro.<br />

E’ vero, nel PCI c’erano sempre state diverse anime o sensibilità, come le chiamava<br />

Togliatti, che si confrontavano e si scontravano tra loro al riparo del centralismo<br />

democratico, ma la condizione perché esse potessero esistere e convivere era che<br />

nessuno agisse in modo organizzato.<br />

Solo molti anni più tardi si aprì una discussione più esplicita e aperta attorno a questo<br />

tema, senza tuttavia approdare neanche allora a nulla di nuovo.<br />

Nella nostra federazione la rottura invece ci fu nel 1970, in occasione delle prime<br />

elezioni regionali nella storia della Repubblica.<br />

Le prime crepe si avvertirono già nella fase delle cosiddette consultazioni, il meccanismo<br />

che il PCI aveva inventato per saggiare le reazioni della base del partito rispetto a<br />

possibili proposte di candidatura.<br />

Ricordo infatti che nelle sezioni, mentre non c’era discussione sul nome di D’Alonzo,<br />

indicato come nostro capolista alle regionali per la provincia di Chieti, c’era invece una<br />

contrapposizione per il secondo nome da indi<strong>care</strong> per la elezione.<br />

Il PCI, nel 1970, pensava di poter eleggere solo due consiglieri regionali in provincia; e<br />

lo scontro fu tra Elio Monaco, maestro elementare di Tornareccio, e Vincenzo Terpolilli,<br />

responsabile regionale della Lega delle cooperative.<br />

Alla fine, nella consultazione delle sezioni, prevalse, sia pure non di molto, Monaco,<br />

che venne così scelto come il secondo da eleggere, mentre Terpolilli fu indicato come<br />

terzo possibile outsider, se le cose fossero andate bene.<br />

Ma la ciambella, ahinoi!, non riuscì col buco, come si vide a risultato elettorale<br />

acquisito.<br />

I consiglieri regionali eletti furono tre, non due; ma il terzo eletto non fu Terpolilli, come<br />

il Comitato Federale aveva deciso, bensì Perantuono collocato, nella distribuzione delle<br />

preferenze in provincia, solo al quarto posto. Insomma, aveva fatto tilt la pur celebrata<br />

macchina organizzativa del partito che i nostri avversari avevano sempre considerata<br />

146


impeccabile e che, anzi, ci invidiavano!<br />

Si aprì così nel partito una ferita che contrappose pezzi importanti del gruppo dirigente,<br />

appartenenti a generazioni diverse tra loro per cultura e formazione; e solo un lavoro<br />

paziente di circa due anni -in cui fu molto prezioso il contributo di Renzo Trivelli,<br />

nuovo segretario regionale del PCI- consentì di approdare a una conclusione positiva di<br />

tutta la vicenda, con le dimissioni di Perantuono da consigliere regionale e la elezione<br />

di Terpolilli al suo posto.<br />

Ciò che rese particolarmente pericolosa questa frattura fu il fatto che essa si sommava a<br />

una situazione di più generale difficoltà del partito in provincia in quella fase, i cui segni<br />

si erano andati accumulando mano a mano che ci si avvicinava alla fine degli anni ‘60.<br />

Ad esempio, si assottigliava sempre più il numero dei nostri iscritti: dai 5.488 del 1964<br />

eravamo scesi nel ‘69 a 4.280, con una perdita di oltre mille iscritti, e nel 1970 non<br />

riuscimmo a toc<strong>care</strong> neppure i 4.000 iscritti, fermandoci a 3.763.<br />

Del resto, anche nelle elezioni politiche del 1968 le cose in provincia non andarono<br />

al meglio: scendemmo dello 0,3% rispetto al risultato del ‘63, mentre eravamo andati<br />

avanti, e bene, sia in Abruzzo che a livello nazionale.<br />

Eppure, anche nelle città della nostra provincia c’era stato il ‘68: anche a Chieti, come<br />

a Vasto e Lanciano, gli studenti si erano messi in movimento e le loro lotte si erano<br />

intrecciate con quelle di cui fu protagonista in quegli stessi mesi e per tutto il 1969 la<br />

classe operaia di quelle città, gli operai dello Scalo a Chieti, le tabacchine a Lanciano,<br />

gli operai della SIV a Vasto.<br />

C’era evidentemente qualcosa che si era logorato nella capacità del partito di intercettare<br />

i cambiamenti in atto e di trasformarli in nuove opportunità, in terreno di una nuova,<br />

diffusa iniziativa politica su tutto il territorio della provincia.<br />

La federazione, all’inizio degli anni ‘70, affrontò alla radice queste questioni, con la<br />

convocazione della Conferenza provinciale di organizzazione che si svolse nel cinemateatro<br />

di Orsogna. Fu questo, anzi, il primo atto della mia segreteria, che pose le basi per<br />

una nuova fase di sviluppo del partito in provincia.<br />

Ma non precorriamo i tempi, devono passare ancora alcuni anni prima che si concluda<br />

la mia esperienza di responsabile di zona nel vastese e venga eletto segretario di<br />

federazione.<br />

Nel ‘67, infatti, mi trasferii a Vasto, mentre il mio posto in federazione -come<br />

organizzatore- venne preso da Mimmo Bafile che, ormai da oltre un anno, aveva<br />

cominciato a lavorare nel partito.<br />

Ero stato io stesso a chiedere di andare nel vastese, come responsabile di zona.<br />

A Vasto, la situazione era difficile.<br />

Nelle amministrative del 1966, i comunisti avevano dovuto incassare un brutto colpo<br />

sul piano elettorale, cedendo molti voti al Faro (e anche, sia pure solo in qualche zona<br />

di campagna, alla stessa DC); inoltre, di fronte alla spinta della industrializzazione e dei<br />

cambiamenti che essa aveva provocato nella realtà economica e sociale della zona, non<br />

si poteva certo restare inerti, e solo una nostra forte presenza politica poteva trasformare<br />

i processi in atto in una opportunità e non in un rischio.<br />

C’era dunque, dietro la mia richiesta, un ragionamento politico del quale ero convinto,<br />

147


era presente però anche un certo logoramento dei miei rapporti con Peppe D’Alonzo;<br />

e fu proprio questo che, alla fine, mi fece decidere di tentare una nuova avventura che,<br />

per me, si rivelò poi molto importante.<br />

Il mio rapporto con Peppe è stato sempre improntato ad amicizia, nonostante le<br />

spigolosità del suo carattere, anche se essa non si è però mai trasformata in intimità;<br />

d’altra parte, per carattere e per scelta il mio rapporto con i compagni non ha mai<br />

superato una certa soglia, anzi ho sempre pensato che questo rappresentasse una delle<br />

condizioni fondamentali per salvaguardare la mia autonomia di giudizio nelle vicende<br />

politiche e di partito.<br />

Ci siamo trovati, inoltre, quasi sempre su posizioni politiche identiche o comunque<br />

assai vicine; e in genere il nostro rapporto non ha mai conosciuto contrasti vistosi.<br />

Tuttavia, alcuni anni dopo l’inizio di questa nostra positiva collaborazione, dei problemi<br />

si aprirono tra noi e questo mi spinse a chiedere di lasciare la federazione e andare a fare<br />

un’altra esperienza.<br />

Comunque con Peppe mi sono trovato sempre bene, anche quando c’erano posizioni<br />

differenti tra noi: per lui, come per me, la lealtà reciproca è stato sempre un punto<br />

fermo!<br />

Quando arrivò a Chieti nel 1963, egli aveva già girato mezzo Abruzzo e fatto anche una<br />

lunga trasferta fuori regione perché anche lui, come me e tanti altri nel PCI, è stato una<br />

specie di globetrotter della politica.<br />

Pescara, Teramo, la lontana Campobasso, nel Molise, di nuovo Pescara e poi Chieti:<br />

ecco le varie tappe della sua attività di funzionario del PCI, che io sappia gli mancò<br />

solo l’Aquila. E sempre con incarichi diversi, prima nelle organizzazioni di massa e poi<br />

nel partito.<br />

Il suo girovagare si concluse a Chieti, dove fu eletto prima nel Consiglio comunale<br />

della città (dal 1965 al 1970) e poi nel Consiglio regionale dove chiuse, nel 1980, la sua<br />

carriera di rappresentante del PCI nelle istituzioni.<br />

Nel partito invece continuò a dare la sua attività fino a pochi anni prima della morte,<br />

nella primavera del 2001. La mancanza di un polmone, che gli era stato tolto a seguito<br />

di un tumore, gli rendeva difficile partecipare alle riunioni, non solo perché lunghe e<br />

faticose (come di norma) ma soprattutto a causa dell’aria perennemente ammorbata dal<br />

fumo delle sigarette, allora fumavamo quasi tutti, Peppe stesso del resto è stato sempre<br />

un infaticabile fumatore, anche quando era già malato.<br />

In pratica, quindi, Chieti lo rese stanziale e divenne la sua città.<br />

Quando lo incontrai la prima volta io ero ancora di stanza ad Avezzano, mentre egli aveva<br />

concluso da poco la sua esperienza nel Molise e lavorava a Pescara, come responsabile<br />

di organizzazione della federazione.<br />

Ma la sua permanenza a Pescara non durò a lungo. Vi restò solo pochi mesi, per<br />

approdare appunto, subito dopo le elezioni politiche del ‘63, a Chieti.<br />

Quando egli arrivò da noi, aveva dunque alle spalle una esperienza ormai consolidata<br />

e di lungo corso, aveva insomma una buona conoscenza del mestiere; e questo gli<br />

consentì, subito, di districarsi abbastanza bene in una realtà che era per lui nuova e in<br />

una situazione che si presentava abbastanza complicata e complessa per le discussioni<br />

e le rotture che si erano prodotte nel gruppo dirigente provinciale nel corso dei primi<br />

148


anni ‘60.<br />

Egli aveva dalla sua anche una intelligenza istintiva e la capacità di entrare rapidamente<br />

in relazione con i suoi interlocutori, ricorrendo magari alla battuta e comunque non<br />

chiudendosi mai, in genere, al rapporto con gli altri, anche se a volte si lasciava andare<br />

a scatti bruschi e non sempre opportuni.<br />

C’era infatti in lui una certa tendenza all’autoritarismo che gli era valso il soprannome,<br />

tra i compagni della sua generazione, di sergente di ferro (anche perché da militare<br />

aveva rivestito il grado di sergente) che egli cercava normalmente di tenere a freno, ma<br />

non sempre riuscendovi.<br />

Peppe aveva alle spalle anche altre fondamentali esperienze, oltre a quella del partito e<br />

delle organizzazioni di massa. La guerra, innanzitutto, come del resto tutti quelli della<br />

sua età costretti a indossare la divisa e a partire per il fronte, a lui toccò il fronte greco; e<br />

poi la lotta partigiana, nelle file dei partigiani greci, che ebbe grande importanza per lui<br />

anche dal punto di vista della sua vita privata: a guerra finita, egli tornò infatti in Italia<br />

con una moglie greca, anche se negli anni in cui io l’ho conosciuto si era già separato<br />

da lei.<br />

Ricordo a questo proposito un episodio assai singolare, che mi è rimasto particolarmente<br />

vivo nella memoria perché la scena a cui assistetti si svolse tutta in lingua greca<br />

moderna.<br />

Dalla Grecia, quando Peppe era già a Chieti, venne a trovarlo, credo fosse la primavera<br />

o l’estate del ‘64, il fratello della moglie, per discutere evidentemente con lui della<br />

situazione che si era creata con la sorella.<br />

Ricordo che era un bell’uomo: alto, dal fisico asciutto, dai folti capelli neri e dai baffi<br />

piuttosto vistosi e un carattere che mi apparve subito deciso e, per essere sincero, anche<br />

piuttosto arrogante, ma non antipatico.<br />

Peppe non voleva andare da solo all’incontro, che avvenne in Piazza S. Giustino, e<br />

così mi chiese di accompagnarlo. Io andai, ma la cosa contrariò molto il cognato che<br />

tuttavia, nonostante la mia presenza, non rinunciò affatto a far valere, e in maniera<br />

anche molto animata, le sue ragioni ma appunto lo fece in greco, salvo il primo scambio<br />

di battute, costringendo così anche D’Alonzo a repli<strong>care</strong> in greco.<br />

A Peppe mancava invece una formazione culturale in grado di affinare e rendere più<br />

feconde le sue indubbie qualità.<br />

Un certo aiuto in questo senso gli venne sicuramente dalla frequentazione di uno dei<br />

tradizionali corsi organizzati dal PCI a Frattocchie, nel suo caso quello della durata di<br />

otto mesi; ma questo non poteva in nessun modo rimediare all’assenza di una formazione<br />

di base, così egli cercò di supplire a questa sua difficoltà, di cui era consapevole, con<br />

la lettura.<br />

Il suo piatto forte erano i romanzi contemporanei; e ricordo che non si lasciava mai<br />

sfuggire le novità.<br />

Di questa difficoltà comunque egli soffriva; e lo si vedeva, ad esempio, quando doveva<br />

preparare la relazione per il Congresso.<br />

In quel caso, non poteva fermarsi solo a dei semplici appunti, doveva stendere per<br />

esteso il testo; ma ciò lo rendeva nervoso perché scrivere gli risultava ostico. Così,<br />

in quelle occasioni mi chiamava puntualmente a dargli una mano: ci chiudevamo per<br />

149


diversi giorni in una stanza, di solito a casa mia, con Rosetta che ogni tanto ci portava<br />

un caffè, e assieme mettevamo in piedi la relazione, andando avanti magari tutta la notte<br />

fino a qualche ora prima dell’inizio del Congresso (una volta, credo che si trattasse del<br />

Congresso provinciale della fine del ‘65, finimmo di scrivere e battere a macchina la<br />

relazione alle otto di mattina, a qualche ora quindi dall’inizio del Congresso stesso).<br />

Questo suo limite tuttavia non solo non toglie nulla alle sue capacità, ma sottolinea<br />

anche ciò che il PCI ha rappresentato nella storia personale di Peppe come di tanti<br />

altri dirigenti comunisti il cui mondo di provenienza era quello della fabbrica o della<br />

campagna, spesso senza scuola e senza cultura nel loro curriculum d’origine. E’ il PCI<br />

che li ha trasformati in classe dirigente, in intellettuali (nel senso che dava Gramsci<br />

a questo termine), dando in tal modo anche un contributo enorme alla crescita e al<br />

rinnovamento dei gruppi dirigenti del Paese!<br />

150


CAPITOlO VIII<br />

La mia attività a Vasto come responsabile di zona iniziò ai primi di aprile del 1967,<br />

dopo naturalmente che i direttivi delle sezioni della zona -in una riunione congiunta<br />

tenutasi a Vasto- avevano discusso e approvato la proposta fatta dagli organismi dirigenti<br />

provinciali; e subito mi trovai alle prese con i problemi legati alla riorganizzazione del<br />

partito in città, in vista delle elezioni amministrative dell’autunno.<br />

Prima però di raccontarvi, mie <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>ne, i quasi tre anni e mezzo passati a Vasto,<br />

fino a oltre la metà del 1970, mi sembra il caso di richiamare la vostra attenzione su<br />

quello che era intanto accaduto o stava accadendo nella mia vita privata e che riguarda<br />

anche i vostri papà quando anch’essi usavano, come scrive Dante, l’idioma / che prima<br />

i padri e le madri trastulla. E cominciamo da una data: il 16 giugno del 1964 che fu,<br />

per me e la nonna, un giorno pieno di emozioni ma, anche, di grandi preoccupazioni e<br />

timori.<br />

Lo ricordo molto bene perché proprio quel giorno nacque Massimiliano, il nostro<br />

primo figlio. Solo che, prima che accadesse il lieto evento, le cose stavano rischiando<br />

di mettersi per il brutto.<br />

Le doglie, infatti, erano iniziate poco dopo mezzogiorno, ma, nonostante il passare<br />

delle ore, il bambino di uscire proprio non voleva saperne. Era andato via così tutto il<br />

pomeriggio ed eravamo ormai alla sera, ma ancora niente...<br />

All’epoca non si partoriva in ospedale, al massimo le donne che vivevano in città<br />

andavano a farsi fare qualche visita specialistica dal ginecologo ma nulla di più, a<br />

tutto provvedeva la mammine, cioè l’ostetrica che, soprattutto nei paesi, era di fatto la<br />

mitis e potens Lucina, la benevola e miracolosa Lucina, che le antiche matrone romane<br />

invocavano per avere un parto tranquillo e sotto il cui controllo e la cui assistenza si<br />

nasceva ancora nei primi anni ‘60.<br />

Così, anche in occasione della nascita di Massimiliano, il parto avvenne in casa e con la<br />

presenza della Lucina di turno.<br />

In casa era arrivata intanto, appena qualche ora dopo l’inizio delle doglie, mia suocera<br />

e, per farsi dare una mano da una donna esperta, si era fatta accompagnare da una sua<br />

amica di lavoro e vicina di casa (quando abitava ancora lungo la discesa del gas), io nel<br />

frattempo avevo chiamato l’ostetrica.<br />

All’inizio, non sembrava che ci dovessero essere difficoltà.<br />

Ma di lì a poco fu chiaro che c’era qualche problema: il cordone ombelicale era<br />

attorcigliato attorno al collo del bambino e questo gli impediva di uscire (lo stesso<br />

problema si presentò in occasione della nascita di Stefano, ma eravamo in ospedale e<br />

non ci furono perciò complicazioni di sorta, nel caso di Stefano, anzi, si presentò anche<br />

il cosiddetto fattore RH negativo ma l’ospedale rappresentò una garanzia anche rispetto<br />

a questo rischio).<br />

Cominciammo naturalmente tutti a preoccuparci, una preoccupazione che si faceva<br />

sempre più angosciante mano a mano che passavano le ore; a un certo punto arrivò<br />

anche il nostro medico di famiglia, ma le cose non sembrarono migliorare di molto.<br />

Io, tra l’altro, non potevo assistere al parto (questa era allora la consuetudine) e dovevo<br />

151


quindi tenere a bada il mio nervosismo passeggiando qua e là per la casa, che per fortuna<br />

era molto ampia, l’unica cosa che mi era permesso di fare era di bussare ogni tanto alla<br />

camera da letto per cer<strong>care</strong> di capire come si stava mettendo la situazione, ma ottenevo<br />

solo di far affacciare mia suocera alla porta e farmi rispondere in maniera piuttosto<br />

brusca, nervosa anche lei.<br />

Insomma, il parto fu molto laborioso; ma alla fine, erano ormai le nove di sera, mitis et<br />

potens Lucina, come recita Ovidio nelle Metamorfosi, admovit manus et verba puerpera<br />

dixit, la mite e miracolosa Lucina accostò le mani e pronunziò le parole che propiziano<br />

il parto.<br />

Rosetta era stremata, ma tutti eravamo felici e a quel punto anch’io potei entrare,<br />

finalmente!, nella camera da letto.<br />

L’appartamento nel quale allora abitavamo si trovava al secondo piano della prima<br />

scala di quello che ancora oggi è conosciuto a Chieti come il palazzo Mezzanotte, nel<br />

quartiere di Santa Maria, a poca distanza quindi dalla famiglia presso la quale avevo<br />

alloggiato come pensionante qualche anno prima, fino alla mia partenza per Avezzano.<br />

E’ un palazzo piuttosto mastodontico che si sviluppa, oltre che in altezza, anche in<br />

lunghezza, una specie di semicerchio la cui base verso l’esterno segue l’andamento di<br />

Via Federico Salomone, e che, sorgendo ai limiti del colle che ospita la città vecchia nella<br />

sua parte orientale, è l’edificio che cattura ancora oggi, subito e da lontano, lo sguardo<br />

del viaggiatore che sale da Francavilla verso Chieti, nonostante che nel frattempo gli si<br />

siano affiancati alcuni brutti e colorati palazzoni.<br />

Abitavamo lì solo da qualche mese, fino ad allora eravamo stati ospiti obbligati dei miei<br />

suoceri in quanto, nel breve tempo intercorso tra il mio ritorno da Avezzano e le nozze,<br />

non ci era stato possibile trovare un appartamento tutto nostro.<br />

Non è che ci trovassimo male con loro, tuttavia avevamo bisogno di avere la nostra vita<br />

e Rosetta perciò non passava giorno che non andasse in giro a cer<strong>care</strong> appartamenti da<br />

affittare finché la sua insistenza non fu premiata.<br />

La ricerca per la verità non fu affatto breve, durò anzi parecchi mesi.<br />

In quegli anni a Chieti c’era <strong>care</strong>nza di case a causa dell’afflusso di un gran numero di<br />

famiglie dai paesini dell’interno, spinte a trasferirsi in città dalla nascita delle fabbriche<br />

allo Scalo; e anche l’avvio dei corsi di laurea della Libera Università D’Annunzio<br />

cominciava a richiamare proprio in quel periodo studenti dalla provincia e, sia pure in<br />

misura molto modesta, da fuori regione (in particolare dal foggiano).<br />

L’appartamento di palazzo Mezzanotte ci piacque subito; e l’abbiamo lasciato qualche<br />

anno dopo solo perché ci dovevamo trasferire a Vasto.<br />

Era al centro, e andare da lì in federazione era una passeggiata. All’interno, poi, c’era<br />

tanto di quello spazio, molto più di quanto a noi occorresse anche dopo la nascita di<br />

Massimiliano.<br />

Ricordo ancora oggi il giorno in cui ne prendemmo possesso, perché ci capitò un episodio<br />

che non avevamo messo nel conto e che aveva a che fare proprio con l’ampiezza del<br />

nostro appartamento.<br />

Che accadde, dunque?<br />

Accadde, mie <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>ne, che, dopo aver sistemato alla bell’e meglio le nostre cose,<br />

152


a una certa ora io dovetti partire per una riunione in provincia, mentre la nonna rimase<br />

in casa; ma essa non ne approfittò per andare subito a riposarsi dopo le tante fatiche<br />

della giornata, aspettò invece sveglia il mio ritorno che avvenne, come al solito, a notte<br />

piuttosto inoltrata.<br />

Perché?, direte voi.<br />

Beh, la nonna non era riuscita a liberarsi da certe suggestioni che le provocava, oltre<br />

all’ambiente nuovo, la esistenza di tante camere, per giunta quasi tutte vuote, dove però<br />

la fantasia immagina sempre qualche presenza ostile e così, invece di andarsene a letto,<br />

si rifugiò in cucina, aspettando tutta insonnolita e stanca (era già incinta di cinque o sei<br />

mesi) il mio ritorno.<br />

Pur piacendoci molto, l’appartamento aveva tuttavia i suoi difetti.<br />

Ad esempio, i diversi locali non erano ben distribuiti. Erano lì, tutti in fila, l’uno dietro<br />

l’altro, come si usava una volta, ed erano perciò quasi tutti di passaggio e quindi poco<br />

utilizzabili.<br />

D’inverno, poi, il riscaldamento era un problema.<br />

Noi avevamo sistemato all’angolo di un salottino, situato tra la camera da letto e lo<br />

studio, una stufa di ghisa alimentata a carbone, ma, a parte la polvere di carbone che<br />

aveva dipinto di nero tutto il pavimento e pezzi di parete, in realtà non riuscivamo mai<br />

a riscaldare se non una piccola parte della casa; la stufa, poi, rappresentava un rischio<br />

continuo per Massimiliano, soprattutto quando cominciò a muovere i primi passi, prima<br />

con il girello e poi da solo.<br />

C’erano però quei soffitti così alti e a cima di carrozza che mi affascinavano e non<br />

ti facevano sentire la sensazione di oppressione che a volte ti prende in presenza di<br />

volte basse; inoltre, dai balconcini, delimitati da eleganti ringhiere in ferro battuto e che<br />

affacciavano tutti verso est, si godeva un panorama straordinario!<br />

Avevamo poi dei vicini simpatici, anche se una certa amicizia c’era solo con la famiglia<br />

Pratesi.<br />

I Pratesi venivano da Livorno e, come in genere i toscani, era gente spiritosa, cordiale,<br />

simpatica e, quando se ne presentava l’occasione, anche piuttosto mordace ma in<br />

maniera non sgradevole, buoni amici insomma.<br />

La ragione che li aveva portati a Chieti era legata all’attività del capofamiglia. Peppino,<br />

infatti, era un sindacalista della CGIL, e la CGIL nazionale l’aveva mandato appunto<br />

a Chieti, alla Camera provinciale del Lavoro dove rappresentava, come segretario<br />

aggiunto, la corrente socialista.<br />

Con loro siamo stati veramente bene.<br />

La moglie, Marisa, era poi proprio una pasta di donna; e anche i figli, Roberto e Manuela,<br />

poco più che adolescenti, erano ragazzi simpatici.<br />

In particolare ricordo Manuela, innamorata di Massimiliano, che veniva perciò spesso a<br />

casa nostra per gio<strong>care</strong> con lui; e, se trovava il bambino che ancora dormiva, puntualmente<br />

non riusciva a trattenersi e lo svegliava per prenderlo in braccio e giocarci.<br />

Dopo il nostro trasferimento a Vasto, anche loro, appena qualche anno dopo, sono andati<br />

via da Chieti per tornare in Toscana, e da allora non li abbiamo più né visti né sentiti.<br />

Qualche anno fa, in occasione di un viaggio a Pisa a casa di Stefano, li abbiamo anche<br />

cercati a Livorno facendo alcune telefonate ma, purtroppo, senza alcun risultato, li<br />

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avremmo rivisti volentieri.<br />

L’appartamento di palazzo Mezzanotte fu naturalmente il teatro delle prime avventure<br />

di Massimiliano.<br />

Massimiliano aveva un carattere molto vivace, e lo si vide subito, appena poté godere di<br />

un po’ di autonomia: prima con il girello e poi quando cominciò ad andare in giro con le<br />

sue gambe. E ne combinò davvero di tutti i colori, oltre a scorrazzare in continuazione<br />

per le numerose stanze del nostro appartamento seguendo gli spostamenti della madre.<br />

Io lo chiamavo pizzingrille, che da noi significa appunto bambino che non sta mai<br />

fermo, proprio come lu vinnele, l’altro vezzeggiativo usato nei paesi per bambini vivaci,<br />

anch’essi sempre in movimento come l’arcolaio appunto.<br />

Ricordo, ad esempio, quando, correndo dietro la madre con il girello, andò a inciampare<br />

contro il binario in ferro nel quale scorrevano le persiane di uno dei balconcini che<br />

davano sulla vallata dell’Alento: l’urto fu tanto violento che finì con il viso infilato<br />

dentro la ringhiera e per tirarlo fuori ci volle proprio la mano di Dio, come si dice da<br />

noi!<br />

Un’altra volta si fece crollare addosso l’armadietto, che faceva da appendiabiti, che<br />

avevamo sistemato nello stanzone di ingresso.<br />

L’armadietto non valeva granché, ma era carino a vedersi, soprattutto attirava subito<br />

l’attenzione dei bambini perché aveva lo sportello che si apriva a organetto sui due lati<br />

e, su una delle due ante, una vistosa maniglia colorata.<br />

Aveva però anche alcune caratteristiche che lo rendevano pericoloso, ma di questo ci<br />

rendemmo conto solo quando ne vedemmo le conseguenze. Non solo non si dimostrò<br />

stabile, ma sulla parte superiore era posato, con un attacco a ventosa e una funzione solo<br />

ornamentale, una grossa lastra di vetro che francamente nessuno avrebbe mai pensato<br />

che potesse finire addosso a un bambino, mettendone seriamente a rischio l’incolumità,<br />

e invece accadde...<br />

Quel giorno Massimiliano, che aveva già cominciato a girare per casa da solo, vedendo<br />

la madre che dalla cucina si dirigeva verso le stanze più interne, subito, come al solito, le<br />

si precipitò dietro; ma non sarebbe successo nulla se, appena all’altezza dell’armadietto,<br />

non avesse afferrata la maniglia colorata, che era diventata uno dei suoi oggetti del<br />

desiderio e, continuando a correre senza lasciarla, non avesse provocato la caduta<br />

rovinosa del mobile.<br />

Per fortuna, dentro l’armadietto c’erano dei cappotti e lui finì sotto di essi senza subìre<br />

danno alcuno, altrimenti la lastra di vetro, che finì anch’esso a terra frantumandosi,<br />

cadendo l’avrebbe potuto colpire, chissà con quali conseguenze...!<br />

Ancora un episodio: in un giorno di festa, adesso non ricordo più di che ricorrenza si<br />

trattasse, eravamo tutti seduti a tavola per il pranzo nello stanzone d’ingresso che fungeva<br />

anche da sala da pranzo quando avevamo ospiti. E quel giorno, infatti, c’erano con noi<br />

anche i miei fratelli, Rocco e Peppino (il più piccolo, non aveva allora che poco più di<br />

otto o nove anni), e non ricordo bene se anche i miei genitori, ma che ti fa Massimiliano,<br />

mentre tutti siamo tranquillamente impegnati a mangiare e chiacchierare?<br />

Egli era seduto sul suo seggiolone e aveva in mano un mandarino sbucciato con il quale un<br />

po’ giocava e un po’ lo succhiava, niente di strano dunque, solo che contemporaneamente<br />

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prendeva i semi del mandarino e se li ficcava negli orecchi. Quando ce ne accorgemmo,<br />

tentammo di tirarli fuori ma inutilmente, così fummo costretti a correre al pronto<br />

soccorso del vecchio ospedale dove un giovane medico, nostro amico, che quel giorno<br />

era di guardia, con molta pazienza e dopo aver cacciato la madre troppo pietosa col<br />

figlio e messo il bambino tra le gambe per tenerlo fermo, con una pinza glieli tolse<br />

tutti.<br />

Di monellerie Massimiliano fu protagonista anche negli anni seguenti, sia quando<br />

eravamo ancora a Vasto e lui era ancora un bambino sia quando divenne più grandicello<br />

e ormai aveva cominciato ad andare a scuola.<br />

Ne ricordo una che eravamo già tornati a Chieti e lui aveva appena iniziato le<br />

elementari.<br />

Credo che fossimo nella settimana di Pasqua, e Rosetta si stava preparando, per uscire,<br />

davanti alla specchiera della camera da letto. Massimiliano le stava vicino e le girava<br />

attorno, giocando con una bacchetta rotta di un vecchio ombrello che chissà come<br />

era finita nelle sue mani: si stava divertendo molto con quella bacchetta, soprattutto<br />

provandola ogni tanto sulla mensola di vetro situata ai piedi dello specchio, dove di<br />

solito alloggiavano i vari cosmetici di mia moglie che proprio allora li stava usando.<br />

Rosetta naturalmente gli dice di stare attento perché il vetro si potrebbe rompere, ma per<br />

tutta risposta lui che ti combina?<br />

Passano pochi secondi, e vibra con forza la sua bacchetta sulla mensola di vetro e la<br />

rompe. Giustificazione? Volevo vedere se davvero si rompeva! Insomma, era proprio nu<br />

pizzingrille.<br />

Ma la sua vivacità si manifestava anche in modi diversi e spesso davvero singolari.<br />

Ricordo, tra i tanti episodi di quegli anni, quando mi chiese chi aveva rotto la luna:<br />

eravamo ancora a palazzo Mezzanotte, quindi era proprio piccino, e non sapeva<br />

spiegarsi che cosa era accaduto alla luna quando lui la vide, dai nostri balconcini,<br />

apparire all’orizzonte dimezzata.<br />

Un’altra volta, sempre a palazzo Mezzanotte, ci diede la sua definizione della felicità:<br />

Io, mamma e papà, a cui qualche anno dopo aggiunse anche il fratello (la stessa cosa<br />

fece anche nei suoi disegni), dopo la nascita di Stefano la cui gestazione lui aveva<br />

seguito passo passo e ne aveva sentito i calci che tirava dentro la pancia della madre e i<br />

palpiti del cuore in formazione.<br />

Massimiliano poi era anche molto curioso, e non smetteva mai di fare domande; e<br />

amava molto il gioco. E aveva carattere. Ricordo a questo proposito quel che accadde<br />

quando decidemmo di mandarlo alla scuola materna.<br />

Eravamo allora a Vasto, e pensammo che potesse essere utile fargli frequentare appunto<br />

la scuola materna.<br />

All’epoca non esisteva ancora la rete delle scuole materne comunali, così ci rivolgemmo<br />

a quella gestita dalle suore che non era molto distante da casa nostra e si trovava lungo<br />

la statale che porta verso il centro della città e poi prosegue per Cupello e S. Salvo.<br />

Lui, sia pure con qualche resistenza, non disse di no e andò, ma la cosa non durò che<br />

appena qualche giorno e, bisogna dire, non certo per colpa sua.<br />

Siccome era d’inverno, non potendoli far gio<strong>care</strong> fuori, le suore facevano fare ai bambini<br />

il gioco del silenzio: tutti seduti attorno a un grande tavolo, proprio nella grande stanza<br />

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d’ingresso, e tutti in silenzio e con le braccia conserte!<br />

Ricordo che, quando il primo giorno andai a riprenderlo, lo trovai seduto attorno al<br />

grande tavolo, impegnato appunto, assieme a tutti gli altri bambini, nel gioco del<br />

silenzio.<br />

Quello spettacolo, a essere sincero, mi sembrò subito piuttosto surreale, ma non gli<br />

diedi peso, Massimiliano invece no.<br />

Figurarsi, abituato com’era a scendere giù da solo, davanti casa, ogni volta che voleva<br />

gio<strong>care</strong> con gli altri bambini del vicinato! E poi il silenzio: non ho ancora incontrato<br />

bambini che lo amino molto!<br />

Così quel primo impatto rappresentò un trauma per lui.<br />

Conclusione: il giorno dopo già non voleva andare più alla scuola materna, noi<br />

naturalmente insistemmo e prese anche qualche schiaffo da me, ma non ci fu niente<br />

da fare: dopo tre-quattro giorni dovemmo rassegnarci, perdendo anche l’anticipo di tre<br />

mesi dato alle suore.<br />

Negli anni seguenti, quando eravamo già tornati a Chieti e Stefano frequentava la scuola<br />

materna del Sacro Cuore, gestita anch’essa dalle suore, Massimiliano che aveva iniziato<br />

le elementari (a Sant’Anna) spesso, uscendo da scuola, non aspettava che arrivasse la<br />

madre e da solo si incamminava verso casa, con una sosta però al Sacro Cuore dove<br />

raggiungeva il fratello e si metteva a gio<strong>care</strong> con lui e lì lo trovava poi la madre: aveva<br />

scoperto una scuola materna dove non c’era il gioco del silenzio!<br />

Stefano invece aveva tutt’altro carattere: meno capriccioso, più riservato e meno<br />

espansivo del fratello, anche se altrettanto curioso e vivace ma in un modo tutto sommato<br />

tranquillo. Caratteri diversi, insomma, ma tra di loro i due fratelli si sono subito intesi.<br />

Stefano è nato il 15 ottobre del 1967, a tre anni e qualche mese di distanza da<br />

Massimiliano; ed eravamo a Vasto ormai già da più di un anno.<br />

Il nuovo lieto evento si verificò tuttavia a Chieti, nella vecchia sede del SS. Annunziata,<br />

perché mia moglie, quando cominciò ad avvicinarsi il momento del parto, preferì, per<br />

ragioni facilmente comprensibili, tornare a Chieti, presso i suoi genitori portando con<br />

sé anche Massimiliano.<br />

Io naturalmente non la seguii, ma rimasi a Vasto. Ed essendo solo e non sapendo<br />

cucinarmi un bel niente, ricordo che in quel periodo, che durò circa un mese, andavo<br />

quasi tutti i giorni a pranzo, a prezzi assai morigerati, da Peppino Zaccaria (Peppino,<br />

assessore durante l’Amministrazione Faro-PCI, non era solo un compagno ma anche<br />

un amico), al ristorante Olimpo che egli gestiva allora assieme alla moglie, una donna<br />

bella e simpatica, la sera invece mi accontentavo di qualche mozzarella o di un po’ di<br />

prosciutto e formaggio. Così capitò che io apprendessi della nascita di Stefano solo,<br />

come dire, a cose fatte.<br />

D’altra parte, di quel che accadeva a Chieti in quei giorni io non potevo sapere che poco<br />

o nulla.<br />

Solo ogni tanto, infatti, ricevevo nella sede del Comitato di zona qualche telefonata da<br />

parte di Rosetta, fatta in federazione, perché in casa né io né i miei suoceri avevamo<br />

il telefono e perciò, se pure fosse accaduto all’improvviso qualcosa di importante, era<br />

difficile che io ne venissi subito a conoscenza.<br />

156


E così quel giorno, solo dopo la mezzanotte, al mio ritorno dalla riunione in una delle<br />

tante sezioni del vastese, venni a sapere della nascita di Stefano: trovai, infilato sotto la<br />

porta, un biglietto del nostro padrone di casa che abitava nella nostra stessa palazzina e<br />

al quale mia suocera aveva telefonato dall’ospedale, in cui mi avvertiva che il bambino<br />

era nato, era andato tutto bene ed era un maschio.<br />

Io, rassicurato, andai naturalmente a dormire tranquillo e me la presi comoda anche il<br />

giorno dopo, arrivando in ospedale intorno a mezzogiorno.<br />

Questa mia tranquillità non fu però di gradimento di Rosetta. E non vi dico perciò, mie<br />

<strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>, quel che mi disse, al momento del mio arrivo, vostra nonna che si aspettava<br />

invece (forse a ragione) che io corressi da lei di primo mattino!<br />

Massimiliano, che ormai ne aspettava la nascita da tempo, fu tutto contento dell’arrivo<br />

del fratellino. E non diede segni, almeno apparenti, di gelosia.<br />

E’ vero, S. Agostino, in quel libro bellissimo e straordinario che sono le Confessioni,<br />

parlando della sua infanzia avverte i lettori che la innocenza dei bambini risiede solo<br />

nella fragilità delle membra, non nell’anima: “...imbecillitas membrorum infantilium<br />

innocens est, non animus infantium”; e cita tra gli atti non innocenti di quell’età, che<br />

gli adulti tollerano con indulgenza solo perché “aetatis accessu peritura sunt”, sono<br />

destinati a sparire col crescere degli anni, la gelosia.<br />

Tuttavia, Massimiliano e Stefano stavano bene assieme.<br />

Certo, ogni tanto bisticciavano; e neppure mancavano manifestazioni evidenti di<br />

gelosia.<br />

Ricordo, anzi, come una certa gelosia da parte di Massimiliano si manifestasse addirittura<br />

ancora prima che Stefano nascesse. Soprattutto ricordo quel che accadeva ogni volta<br />

che da Vasto tornavamo a Chieti, quando Rosetta era ormai incinta grossa di Stefano.<br />

Viaggiavamo allora con una Fiat 500 piuttosto sgangherata, con spazi a disposizione<br />

quindi già assai ristretti che però si rimpicciolivano sempre di più con l’andare avanti<br />

della gravidanza, a causa proprio di Massimiliano. Il quale si rifiutava di stare solo, sul<br />

sedile di dietro, e pretendeva di viaggiare davanti, in braccio alla madre, nonostante il<br />

pancione già bello grosso...<br />

Era chiaro che non sopportava che il fratellino gli impedisse di viaggiare nelle braccia<br />

della madre. Così Rosetta doveva sobbarcarsi una fatica supplementare, oltre quella di<br />

un viaggio interminabile e di per sé già disagevole su una strada, l’Adriatica, piena di<br />

curve e invasa da un esercito di mezzi pesanti perché all’epoca lungo di essa si svolgeva<br />

tutto il traffico Nord-Sud e viceversa.<br />

Ma dopo la nascita di Stefano manifestazioni così evidenti di gelosia non ne ricordo.<br />

Anzi, sin da piccoli si è stabilita tra loro una solidarietà che non è mai venuta meno nel<br />

tempo, anche quando si sono inoltrati nel “consorzio procelloso della vita umana”, per<br />

riprendere un altro passo delle Confessioni, e che appare salda ancora oggi. Quando,<br />

ad esempio, Stefano torna da Pisa, Massimiliano di solito passa buona parte del suo<br />

tempo a casa nostra, a chiacchierare col fratello, e la stessa cosa fanno Valentina e<br />

Benedetta per stare con Elisa e Martina e gio<strong>care</strong> con loro. E non mancano naturalmente<br />

di telefonarsi spesso durante il resto dell’anno.<br />

Quand’erano ormai grandicelli, eravamo già tornati a Chieti, ricordo che la sera, dopo<br />

essersi ficcati a letto, non riuscivano ad addormentarsi se prima non avevano fatto una<br />

157


lunga chiacchierata tra di loro tanto che a volte, a un certo punto, li dovevamo sgridare<br />

perché si addormentassero subito, nella speranza che, il mattino dopo, avrebbero fatto<br />

meno storie per svegliarsi.<br />

In pratica, l’arrivo di Stefano fu per Massimiliano l’arrivo di un compagno di giochi.<br />

Ma anche per Stefano l’avere un fratellino più grande lo mise in una condizione di<br />

vantaggio rispetto a quando Massimiliano era solo in casa e non aveva compagni di<br />

gioco della sua età.<br />

Forse anche questo contribuì a fare di Stefano un bambino tranquillo. Non che anche<br />

lui non amasse gironzolare per casa prima con il girello e poi con le sue gambe e che<br />

anche lui non combinasse monellerie di vario genere, ma esse non ci hanno mai creato<br />

problemi o apprensioni particolari.<br />

Solo una volta, quand’eravamo ancora a Vasto, Stefano ci mise in grandi ambasce, ma<br />

non per colpa sua, piuttosto per una fatalità che, per fortuna di tutti, si risolse poi senza<br />

grandi traumi né fisici né psicologici.<br />

Era il ferragosto del 1968, la mattina io ero uscito e aspettavo l’ora di pranzo<br />

chiacchierando in Piazza Diomede con i compagni, mentre Rosetta era rimasta a casa<br />

a cucinare.<br />

I bambini naturalmente erano con lei, e Stefano come al solito andava da una camera<br />

all’altra della casa con il girello.<br />

Insomma, una normalissima mattinata di una altrettanto normale giornata di festa di<br />

mezzo agosto...<br />

Ma quel giorno il diavolo decise di rovinarci la festa, e così fummo a un passo dalla<br />

tragedia!<br />

Ricordo ancora oggi lo spettacolo che mi si presentò quando, verso l’una, tornai a casa:<br />

Stefano che s’era rovesciato addosso l’acqua bollente della pentola e che si disperava<br />

per il dolore, mia moglie e Massimiliano spaventati e naturalmente molto preoccupati!<br />

Era accaduto che, mentre Rosetta stava cucinando, il coperchio della cucina a gas si<br />

chiudesse di colpo, facendo così rovesciare a terra tutto ciò che in quel momento si<br />

trovava sopra il piano di cottura: il girello di Stefano, che era entrato di corsa nella<br />

stanza, aveva urtato violentemente contro la porta della cucina che a sua volta era andata<br />

a sbattere contro la cucina a gas situata proprio lì dietro!<br />

Cercammo subito la pediatra che seguiva Stefano dopo il suo ritorno da Chieti, una<br />

signora già piuttosto in là con gli anni che abitava a Vasto marina.<br />

Essa accorse immediatamente, rassicurandoci anche sull’entità delle scottature; e anche<br />

in seguito si dimostrò molto sollecita e brava, seguendo con premura e amorevolezza<br />

il bambino fino alla completa guarigione, per i primi dieci giorni anzi venne tutti i<br />

giorni a casa (l’andavo a prendere io, con la mia 500, a Vasto marina) per le necessarie<br />

medicazioni.<br />

Per fortuna, le scottature non erano molto profonde ed erano circoscritte: l’acqua<br />

bollente aveva colpito Stefano solo di rimbalzo, dopo aver toccato terra; e le scottature<br />

si limitavano in pratica solo ai piedi e ai malleoli, mentre il resto del corpo era rimasto<br />

indenne.<br />

E poi, Rosetta, che in quel momento si trovava in cucina, era intervenuta subito, senza<br />

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lasciarsi paralizzare dallo spavento, spogliando il bambino e liberandolo degli abiti<br />

inzuppati dell’acqua bollente caduta dalla pentola, mentre la signora dell’appartamento<br />

di fronte, accorsa subito, spargeva Foille (un medicinale per le scottature) sui punti<br />

colpiti, era accorso inoltre anche il nostro padrone di casa, medico, a prestare le prime<br />

cure.<br />

Anche Stefano si riprese abbastanza rapidamente dalla paura, l’unico trauma che si<br />

portò dietro fu che ci mise ancora qualche mese per andarsene in giro da solo, quando<br />

invece già in quei giorni sembrava che fosse lì lì per abbandonare il girello.<br />

Negli anni che siamo restati a Vasto, Massimiliano e Stefano poterono godere della<br />

compagnia di parecchi bambini della loro età e anche di qualcuno più grande.<br />

C’erano Silvietta e il fratellino più piccolo che abitavano di fronte, figli di un ingegnere<br />

della SIV arrivato dal Nord (la moglie, una signora gentilissima, che ci ha sempre dato<br />

una mano nelle situazioni di emergenza, era invece romana), c’era poi Rita, la figlia<br />

dello spazzino del primo piano che era la più grande dei bambini della palazzina e<br />

che la faceva un po’ da padrona nei confronti dei più piccoli, non sempre però essi<br />

tolleravano le sue prepotenze e così ogni tanto accadeva che il gioco finisse in lite<br />

e ciascuno si riprendesse i suoi giocattoli e si ritirasse sdegnato nelle proprie stanze,<br />

bastava naturalmente poco perché tutto poi tornasse come prima.<br />

Tra i piccoli della palazzina c’era anche il secondo figlio del medico, qualche mese più<br />

grande di Stefano, raramente però la madre lo lasciava gio<strong>care</strong> con gli altri bambini.<br />

C’erano poi i ragazzini delle palazzine vicine, case popolari, e di una famiglia di<br />

contadini a quattro passi da noi con i quali Massimiliano e Rita scendevano spesso a<br />

gio<strong>care</strong> (Stefano cominciò ad accodarsi appena imparò a camminare da solo).<br />

D’altra parte, abitavamo in una zona nella quale i bambini erano sicuri e potevano<br />

gio<strong>care</strong> tranquilli.<br />

La presenza di bambini nel palazzo e nel vicinato e la possibilità che essi avevano di<br />

incontrarsi e gio<strong>care</strong> tra loro per quasi tutto il giorno senza che i genitori dovessero<br />

continuamente preoccuparsi ed essere presenti aiutò naturalmente sia Massimiliano che<br />

Stefano a crescere più rapidamente.<br />

Da questo punto di vista, anzi, il fatto che Massimiliano avesse qualche anno più del<br />

fratello lo investì, come dire, di una certa responsabilità nei confronti di Stefano; e<br />

Stefano a sua volta aveva in Massimiliano il suo punto di riferimento quando si<br />

trovavano, senza la presenza della madre, a gio<strong>care</strong> con gli altri bambini.<br />

In genere, i bambini più grandi avvertono questa responsabilità. Lo dico anche sulla<br />

base della mia esperienza personale.<br />

Ricordo, ad esempio, di quando avevo fra i tre e i quattro anni e scendevo a gio<strong>care</strong> con<br />

mia sorella, più piccola, nel tratturo di fronte a casa nostra, sotto le enormi e antichissime<br />

querce che oggi non ci sono più.<br />

Allora abitavamo in paese, a lu quart’abballe, nella parte bassa del paese, all’altezza<br />

dell’imbocco della provinciale per Lanciano: i bambini nel quartiere erano tantissimi<br />

e di solito, nelle belle giornate di primavera e d’estate, ci ritrovavamo tutti assieme a<br />

gio<strong>care</strong> sul prato, c’ero anch’io ovviamente e c’era mia sorella e mi toccava spesso<br />

difenderla contro le prepotenze dei più grandi.<br />

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Questa differenza d’età comportò anche che, mentre Massimiliano, all’età di Stefano, le<br />

domande le faceva a me e alla madre, Stefano invece le faceva più spesso al fratello che<br />

a noi. E’ un’abitudine che Stefano ha conservato anche crescendo, e che ha contribuito<br />

certamente anch’esso a rendere più forte il loro legame.<br />

Questo naturalmente non ha mai significato per noi non preoccuparci, non solo della<br />

loro crescita fisica, ma anche della loro formazione intellettuale e psicologica.<br />

Non ho mai dimenticato una cosa che diceva mia madre a proposito dei figli: i figli<br />

sono come gli uccelli, non devono restare nel nido ma imparare a volare e, quando<br />

cominciano a sentirsene capaci, bisogna lasciarli liberi di farlo.<br />

Ho sempre inteso queste parole di mia madre come un invito a edu<strong>care</strong> i figli all’autonomia<br />

e alla responsabilità, fornendo loro però contemporaneamente gli strumenti necessari<br />

per un approccio critico alla realtà e al rapporto con gli altri.<br />

Certo i figli vanno anche protetti, ma è questo certamente il modo migliore per<br />

proteggerli.<br />

Dice un proverbio abruzzese: Chi lu fije sé tropp’ac<strong>care</strong>zze, nin sentirà allegrezze: era<br />

anche questo che intendeva mia madre.<br />

Da questo punto di vista, ho sempre pensato anche che con i figli, come in generale con<br />

i giovani, si deve parlare; ma parlare deve signifi<strong>care</strong> ascoltare, discutere, confrontarsi,<br />

non assecondarli e magari dar loro sempre ragione per tenerli buoni o, quando incontrano<br />

delle difficoltà, attribuire sempre a qualcun altro le cause di queste difficoltà, non c’è<br />

niente di più diseducativo di un atteggiamento del genere.<br />

Lasciarli volare, dunque, anzi incoraggiarli e sostenerli a intraprendere il proprio volo<br />

nella vita. Che non significa ovviamente perderli di vista, abbandonarli al proprio<br />

destino.<br />

Quando, ad esempio, ormai grandicelli, la sera pensavano di tornare piuttosto tardi, non<br />

abbiamo mai chiesto ai nostri figli di non andare, abbiamo sempre preteso invece che ci<br />

dicessero dove andavano e a che ora sarebbero tornati.<br />

Sono, inoltre, andati in vacanza da soli, senza troppe storie da parte nostra, quando<br />

hanno pensato che potessero farlo. Ricordo che Rosetta spesso si preoccupava, per<br />

questo come per altre cose; ma la conclusione era sempre la stessa: debbono imparare<br />

a volare.<br />

Anche le loro amicizie le abbiamo sempre tenute d’occhio, discutendo con loro se c’era<br />

qualcosa che non ci piaceva.<br />

E debbo dire che né noi di questo nostro modo di impostare il rapporto con i figli ci<br />

siamo mai pentiti, né loro se ne sono mai lamentati.<br />

Abbiamo cominciato, tra l’altro, anche presto a dare loro autonomia e responsabilità.<br />

Ricordo, ad esempio, che il regalo che facemmo a Massimiliano quando compì i tre<br />

anni, eravamo a Vasto, fu quello di dargli la chiave di casa; e la stessa cosa facemmo<br />

con Stefano quando già eravamo tornati a Chieti e la situazione si presentava un po’<br />

meno tranquilla che a Vasto.<br />

Ricordo anche che, quando erano più grandi (forse Massimiliano frequentava già<br />

le medie e Stefano le elementari), decidemmo di dar loro una paga settimanale, per<br />

abituarli a calcolare bene le loro spese in modo da non restare senza soldi fino alla<br />

prossima paga. Con quei soldi dovevano comprarci tutto, fatte salve naturalmente le<br />

160


spese di competenza familiare per scarpe, vestiti, scuola, ecc.<br />

Commettemmo però un errore nel quantifi<strong>care</strong> le somme di spettanza di ciascuno: a<br />

Massimiliano, più grande, decidemmo di dare il doppio che a Stefano.<br />

La prima settimana andò tutto liscio: si misero d’accordo tra loro per comprare assieme,<br />

ad esempio, i giornalini o altre cose a cui erano interessati tutti e due, quel che restava<br />

ognuno poi lo spendeva per sé.<br />

Ma non passarono molti giorni da quell’accordo che Stefano, deciso a far valere i<br />

suoi diritti, venne a reclamare: voleva anche lui la stessa paga del fratello perché, per<br />

comprare il giornalino, spendeva come Massimiliano e gli restava poco per il gelato o<br />

altre spese voluttuarie. Non potemmo ovviamente che dargli ragione e rimediare.<br />

Stavamo anche attenti a coinvolgerli nella vita familiare. Ci sembrava giusto che<br />

anche loro si rendessero conto dei problemi, a partire da quelli finanziari, che c’erano<br />

in famiglia, la famiglia doveva essere loro anche in questo senso. Anche perché non<br />

navigavamo certo nell’oro; ed era bene che anche loro lo sapessero, sapessero soprattutto<br />

che la vita è anche fatica e lavoro e non soltanto gioco.<br />

Li abbiamo così sempre seguiti, ma non togliendo mai loro autonomia e libertà di<br />

decisione.<br />

Naturalmente, è stata Rosetta che ha dedicato più tempo alla loro educazione.<br />

La sua presenza da questo punto di vista è stata davvero una presenza quotidiana; ed è<br />

stata lei soprattutto che si è preoccupata dei figli nelle varie circostanze della loro vita,<br />

finché sono vissuti con noi. Anche per la scuola è lei che li ha seguiti, non mancava mai<br />

agli incontri con gli insegnanti o alle varie riunioni organizzate dalla scuola, finendo<br />

così per essere eletta dai genitori degli alunni rappresentante di classe sia alle medie<br />

che al liceo.<br />

A causa del mio lavoro, che non conosceva orari, io invece non avevo tempo per<br />

stare con assiduità dietro i bambini, sapevo però sempre tutto sul loro conto: Rosetta,<br />

quando la sera tornavo a casa (di solito tardi), mi informava sempre di quel che era<br />

accaduto durante il giorno e anche di quello che avevano fatto e detto i figli, magari<br />

raccomandandomi, quando avevano combinato qualche marachella, di far finta di<br />

niente...<br />

Tuttavia, ogni volta che ho potuto, sia quando erano piccoli che quando si sono fatti<br />

ragazzini, ho cercato di stare con loro e di chiacchierare e discutere di tante cose.<br />

Ricordo, ad esempio, che spesso la domenica pomeriggio ci sdraiavamo tutti e tre<br />

sul letto, io Stefano e Massimiliano, e chiacchieravamo. Di solito, mi raccontavano<br />

o chiedevano delle cose, mentre io approfittavo dell’occasione non solo per leggere<br />

o inventare delle favole (il libro che i bambini preferivano erano le Fiabe italiane di<br />

Calvino, lo stesso che piaceva a Valentina quand’era piccola), ma anche per trasmettere<br />

loro la mia visione laica della vita e del mondo o per dare loro la consapevolezza dei tanti<br />

problemi che la gente doveva affrontare e della fatica che costava cer<strong>care</strong> di migliorare<br />

la propria condizione.<br />

Qui, se me lo consentite, un ricordo nel ricordo: nel periodo in cui c’erano le lotte delle<br />

operaie della Marvin Gelber, imbastimmo assieme un giornalino, che restò numero<br />

unico, dal titolo Cipollino (è il nome del piccolo eroe-cipolla di Gianni Rodari), per far<br />

capire loro le ragioni e gli obiettivi di quelle lotte.<br />

161


Discutevamo spesso anche delle grandi questioni, che io cercavo di presentare nel<br />

modo più semplice possibile, tenendo conto della loro età: l’origine della vita, parlando<br />

di Darwin e della teoria dell’evoluzione, l’esistenza di Dio, la religione, la morte...,<br />

avendo sempre la preoccupazione di fornire loro una visione razionale, laica, calata<br />

nella storia, di queste grandi questioni, l’uomo insomma come centro e protagonista<br />

della propria storia.<br />

Ho sempre evitato però che a queste, come ad altre questioni, essi si accostassero con<br />

animo fazioso, settario: fermi sì nelle proprie convinzioni e determinati a farle valere,<br />

ma anche pronti a confrontarle, con spirito aperto, con le opinioni altrui.<br />

Anche per le questioni politiche, ho cercato di insegnare loro a ragionare, a muoversi<br />

sempre con un atteggiamento critico, non pregiudiziale, e proprio per questo mai<br />

abbiamo chiesto loro di iscriversi al partito o di scegliere la via della militanza attiva: o<br />

questo era una loro scelta autonoma e consapevole o niente...<br />

Vedo, mie <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>, che, parlando di quando erano piccoli i vostri papà, dei loro<br />

giochi, delle loro prime avventure, delle loro esperienze e anche della loro educazione,<br />

mi sono lasciato prendere un po’ la mano dimenticando che “li lunghi capitoli, come<br />

dice Dante nel Convivio, sono inimici della memoria”.<br />

Di essi parlerò sicuramente anche in seguito, ma “basti alla presente digressione” quel<br />

che finora ne ho scritto. E’ il caso invece di riprendere il racconto della mia nuova<br />

avventura nel vastese.<br />

Quando siamo arrivati a Vasto, con al seguito il grosso camion che trasportava le<br />

nostre cose, in città imperversavano già le polemiche, a volte anche molto violente, in<br />

vista delle elezioni amministrative dell’autunno che si erano rese necessarie perché le<br />

precedenti elezioni, tenutesi alla fine del 1966, si erano concluse con un pareggio fra la<br />

DC da un lato e il Faro e il PCI dall’altro, con la nomina -di conseguenza- da parte del<br />

Ministero dell’Interno del commissario prefettizio che, com’era prevedibile, si era però<br />

subito messo a disposizione della DC.<br />

La ragione di tante polemiche era semplice. Si presentava per la prima volta in città<br />

la possibilità che la DC venisse estromessa dal governo del Comune, come poi di<br />

fatto avvenne, a favore di una coalizione formata dal PCI e da una lista civica, il Faro,<br />

composta per gran parte di ex-democristiani e spezzoni di altre formazioni politiche<br />

vastesi.<br />

Elezioni importanti, dunque, destinate ad avere riflessi politici anche al di là delle mura<br />

cittadine.<br />

La scoperta del metano e le lotte che ne erano seguite stavano all’origine di questa<br />

situazione.<br />

All’inizio degli anni ‘60, la DC disponeva di un potere assoluto sia a Vasto che nella<br />

zona e davvero non si muoveva foglia che lei non volesse, anche per le fortune dei<br />

singoli oltre che delle varie comunità!<br />

Ma le lotte per il metano avevano smosso profondamente le acque, mettendo in<br />

movimento una situazione che sembrava ormai destinata all’immobilità.<br />

Non solo. Esse avevano anche provocato rotture verticali all’interno dei gruppi dirigenti<br />

democristiani. E questo, in occasione delle elezioni, fu particolarmente evidente, con<br />

162


tutta una parte della DC e dei ceti dominanti cittadini schierata con Ciccarone, l’uomo<br />

che aveva fatto nascere il Faro, contro Gaspari.<br />

La DC vastese, durante le lotte per il metano, aveva scelto non gli interessi della città,<br />

ma quelli di un sistema di potere che faceva perno appunto su Gaspari e i suoi uomini e<br />

che a Vasto non riservava certo un ruolo adeguato all’importanza e alle ambizioni della<br />

città, e per questo gli elettori la punirono.<br />

Per me, non fu difficile ambientarmi rapidamente nella nuova realtà di Vasto; e lo stesso<br />

appuntamento elettorale, con il quale dovetti subito cimentarmi, non rappresentava<br />

affatto un problema.<br />

La città la conoscevo ormai da tempo, già dagli anni delle lotte per il metano; e, quanto<br />

alle imminenti elezioni, l’anno precedente vi avevo soggiornato addirittura per un paio<br />

di mesi, per aiutare la sezione durante il primo round del lungo scontro elettorale che<br />

nella metà degli anni ‘60 infiammò Vasto.<br />

Questa volta però non mi fermai solo il tempo della campagna elettorale. Avevo scelto<br />

invece la strada di un impegno stabile, e questo cambiò subito il mio rapporto sia con i<br />

compagni che con la realtà cittadina, insomma diventai anch’io un po’ vastese, partecipe<br />

quindi anch’io dei problemi di quella realtà e non solo uno che viene da fuori e dà una<br />

mano pronto però a fare al più presto le valige.<br />

I compagni, tra l’altro, mi accolsero bene, c’era ormai tra di noi una dimestichezza<br />

antica che mi fu poi molto utile nel mio lavoro. La stessa cosa accadde con i compagni<br />

della zona, soprattutto dei comuni dove il partito era più forte.<br />

I compagni, insomma, mi espressero una fiducia che si mantenne poi viva nel tempo,<br />

anche dopo il mio ritorno a Chieti; e credo di aver corrisposto sufficientemente a<br />

questa fiducia, aiutandoli ad affrontare i problemi nuovi, dall’industrializzazione alla<br />

modernizzazione dell’agricoltura, che si posero in quegli anni, oltre che a Vasto, in tutto<br />

il Vastese.<br />

A essere sincero, ho passato a Vasto anni molto belli e anche importanti per me.<br />

Innanzitutto dal punto di vista politico: furono, da questo punto di vista, anni straordinari<br />

che mi consentirono anche una maturazione politica e intellettuale particolarmente<br />

intensa.<br />

Ricordo che, quando Claudio Petruccioli arrivò in Abruzzo, a dirigere in sostituzione di<br />

Federico Brini il PCI regionale, mi venne fatta la proposta di andare a lavorare con lui<br />

a Pescara, nel Comitato regionale. Io però rifiutai.<br />

Mi parve più utile concludere quella esperienza che mi metteva a contatto diretto con un<br />

mondo in trasformazione e con i suoi numerosi protagonisti: i sottoproletari, molti dei<br />

quali si trasformarono in quegli anni in operai, e gli artigiani di Vasto, i contadini così<br />

moderni di S. Salvo, la nuova classe operaia della SIV costituita, per tanta parte, anche<br />

da molisani pisani campani romani, gli studenti così vivaci e artefici anche a Vasto di un<br />

‘68 che incise profondamente nella vita della città e della zona.<br />

Assai ricca di insegnamenti fu, per me, la stessa esperienza amministrativa di quegli<br />

anni, segnata -com’essa fu- da alti e bassi e per la precarietà dei numeri (la coalizione<br />

Faro-PCI aveva appena 16 consiglieri contro i 14 della DC) e per i mille bastoni che la<br />

DC mise tra le ruote della Amministrazione comunale, utilizzando il governo nazionale<br />

163


e gli apparati burocratici. E anche di qualche soddisfazione perché se pure, nel ‘72, il<br />

Faro si volatilizzò e noi tornammo all’opposizione, tuttavia quella inedita collaborazione<br />

tra il PCI e una lista civica come il Faro produsse, nonostante tutto, risultati importanti<br />

per la crescita e la modernizzazione della città. Risultati ai quali, tra l’altro, il contributo<br />

del PCI non fu affatto di poco conto, anche se -dopo la morte improvvisa di Laporese-<br />

fummo costretti a utilizzare soprattutto forze giovani, con una assai scarsa esperienza e<br />

politica e amministrativa alle spalle.<br />

Domenico Laporese morì infatti appena qualche mese dopo le elezioni, prima che<br />

venisse raggiunto un qualunque accordo col Faro. Fu per noi e per la città, con la quale<br />

Mimì aveva un legame antico e profondo, una grave perdita. Ma fummo ugualmente in<br />

grado di andare avanti.<br />

Ricordo i suoi funerali.<br />

Quel pomeriggio ci fu una partecipazione di popolo senza precedenti! Anche se la<br />

cerimonia funebre rischiò di venire turbata dalla pretesa arrogante del prete (i familiari<br />

avevano deciso per il rito religioso) di impedire la presenza al corteo delle bandiere della<br />

sezione. Per fortuna quel giorno, non ricordo più per quale motivo, Loris Capovilla,<br />

l’ex segretario di papa Giovanni XXIII e allora arcivescovo dell’archidiocesi di Chieti-<br />

Vasto, era in città: chiedemmo allora d’incontrarci con lui e fu proprio questo incontro<br />

che sbloccò la situazione, così anche le bandiere del PCI, il suo partito, poterono sfilare<br />

e rendere l’estremo omaggio al povero Laporese!<br />

Anche dal punto di vista umano, furono per me anni particolari.<br />

Il mio tempo libero, quand’ero a Vasto, lo passavo di solito con i compagni; con alcuni<br />

di essi poi si era creata un’amicizia che purtroppo non ha resistito al logorio del tempo<br />

e alla lontananza. Ho poi avuto modo di conoscere anche tanta gente fuori del partito,<br />

ma vicina alla sinistra, di cui conservo ancora oggi un buon ricordo.<br />

La vicenda politica di quegli anni mi portò anche a stringere rapporti con un mondo che<br />

era normalmente estraneo al PCI.<br />

Parlo ad esempio del rapporto, sia pure abbastanza occasionale, con Ciccarone, l’uomo<br />

che, fino al ‘72, aveva guidato le sorti dell’Amministrazione comunale.<br />

Silvio Ciccarone apparteneva a quello che era allora il ceto alto cittadino, legato<br />

soprattutto alla rendita fondiaria, nel quale erano ancora presenti certi valori culturali<br />

e civici ai quali sembrava invece del tutto estranea la nascente borghesia cittadina,<br />

impegnata prevalentemente nell’edilizia e nella relativa attività speculativa.<br />

Di Ciccarone ricordo in particolare un episodio che si verificò, se la memoria non mi<br />

tradisce, nel 1973, quando ormai da più di due anni avevo lasciato Vasto.<br />

Quell’anno avevamo deciso, io e mia moglie, di far respirare un po’ d’aria di montagna<br />

ai nostri figli. E così affittammo, da un compagno di Torricella Peligna, una casa per<br />

tutto il mese di agosto, con grande soddisfazione sia di Massimiliano che di Stefano che<br />

si divertirono un mondo (ci tornammo anche l’anno dopo, ma la vacanza si concluse<br />

bruscamente con un cascatone di Stefano che stava facendo le corse in bicicletta con<br />

il fratello su un tratto di strada brecciato non lontano da casa, molte scorticature alle<br />

braccia e alle gambe e la corsa frenetica dal medico del paese).<br />

Un giorno decidemmo di pranzare fuori, all’aperto, viste le belle giornate, nell’area<br />

archeologica di Juvanum, l’antica città preromana all’epoca ancora tutta da scoprire.<br />

164


Ma avevamo appena finito di mangiare e stavamo tutti sdraiati per terra a riposare<br />

quando vedemmo spuntare, a qualche centinaio di metri da noi, un gruppetto di persone<br />

dal quale all’improvviso si stacca un signore di una certa età, dirigendosi verso di noi. E<br />

chi era? Era appunto Silvio Ciccarone che mi aveva riconosciuto e veniva a salutarmi:<br />

davvero un gentiluomo d’altri tempi!<br />

A Vasto, inoltre, i miei figli (e anche noi, per la verità) cominciarono a conoscere e<br />

apprezzare il mare, le gite e le ferie.<br />

Da questo punto di vista, il mare di Vasto era un richiamo formidabile. Un arenile<br />

splendido, la cui bellezza si ammira ancora oggi dal belvedere orientale su cui spicca<br />

la mole massiccia ed elegante di Palazzo D’Avalos, anche se esso è oggi parecchio<br />

deturpato rispetto a quegli anni quando il turismo era pressoché inesistente.<br />

Ricordo anche le gite di quegli anni, con la famiglia di Rita.<br />

Ne ricordo soprattutto una, alla chiesa di Canneto, a ridosso del letto del Trigno, il fiume<br />

che divide l’Abruzzo dal Molise, nel tratto in cui la valle, assai stretta, ha sulla destra<br />

Trivento, antica e decaduta cittadina molisana, e sulla sinistra Celenza, un paesino<br />

appollaiato sulla cima della collina da cui si gode un vasto panorama che abbraccia<br />

anche parte della provincia di Campobasso e nella cui chiesa madre si trova la tomba<br />

dei principi D’Avalos-Pignatelli.<br />

Canneto, dove passammo una bellissima giornata e i bambini si divertirono a gio<strong>care</strong><br />

con l’acqua del fiume (la portata era proprio scarsa), è poco più che un casolare,<br />

alcuni reperti archeologici di un certo interesse e la chiesetta che, se non erro, risale<br />

al Medioevo ed è di un certo pregio architettonico; e mi era noto perché parecchi anni<br />

prima, quand’ero ancora a Orsogna, avevo letto il libro così pieno di fascino di Felice<br />

Del Vecchio, appunto La chiesa di Canneto, che ai suoi tempi aveva vinto il premio<br />

Viareggio, peccato che poi Felice, un compagno, nativo di Castiglione Messer Marino,<br />

che ho conosciuto dopo il mio ritorno a Chieti, non abbia mantenuto le promesse di<br />

quel libro.<br />

Di quegli anni vi sono anche molti altri ricordi legati direttamente alla mia attività<br />

politica. Ricordi di compagne e compagni straordinari dei quali ho potuto apprezzare la<br />

generosità, l’intelligenza, l’acume politico ma anche la saggezza tipica, ad esempio, dei<br />

contadini che allora esprimevano il grosso dei gruppi dirigenti del partito in quasi tutte<br />

le sezioni del Vastese.<br />

Un particolare ricordo di quella stagione della mia vita e della mia attività politica è<br />

quello dei tanti giovani che proprio in quegli anni, anche grazie al mio rapporto con<br />

loro, approdarono al PCI: alcuni di essi mi capita ogni tanto di incontrarli ancora e<br />

naturalmente mi fa piacere il fatto che da parte loro non sono venuti meno, nonostante<br />

gli anni, la stima e l’affetto nei miei confronti.<br />

Quando arrivai a Vasto, i giovani non frequentavano affatto la nostra sezione. Dopo<br />

pochi mesi però qualcuno cominciò ad avvicinarsi.<br />

Si trattò, all’inizio, di un gruppetto capeggiato da Daniele Menna e dai suoi fratelli<br />

più piccoli e alcuni altri ragazzi; e ricordo che il loro debutto politico furono la<br />

manifestazione che organizzammo in città nel maggio del ‘67 per il Vietnam e la Grecia<br />

e poi, qualche mese dopo, la festa de l’Unità.<br />

L’afflusso più consistente di giovani si ebbe invece durante le lotte studentesche che<br />

165


si svolsero a Vasto tra il ‘68 e il ‘69, lotte legate, come del resto in tutta Italia, alle<br />

condizioni concrete di vita degli studenti.<br />

Nel caso di Vasto ad accendere la miccia degli scioperi e delle manifestazioni fu la<br />

situazione dei trasporti urbani che la precedente Amministrazione democristiana aveva<br />

affidato a Tessitore.<br />

Ricordo che, quando ci furono le prime manifestazioni, la DC, costretta all’opposizione<br />

dopo la sconfitta dell’autunno del ‘67, tentò di scagliare la rabbia degli studenti contro<br />

l’Amministrazione comunale di cui noi facevamo parte. Ma il gioco non le riuscì.<br />

L’Amministrazione infatti, anziché chiudersi, aprì subito un dialogo con gli studenti,<br />

con la convocazione di una assemblea pubblica alla quale essi parteciparono in massa.<br />

Il partito, inoltre, non solo non si tirò indietro rispetto agli attacchi che arrivavano da<br />

gruppi fascisti e filodemocristiani, ma avviò anch’esso un suo confronto diretto con<br />

gli studenti: in prima fila i ragazzi che erano già nel PCI, ed essi non si limitarono solo<br />

a distribuire i nostri volantini nel corso delle manifestazioni, ma discussero, anche a<br />

brutto muso se necessario, con quella parte di studenti, assai numerosa, che di solito ci<br />

attaccava da sinistra.<br />

Ricordo che anch’io partecipavo a questi dibattiti per strada, dicendo senza peli sulla<br />

lingua le ragioni dei comunisti, fuori di ogni paternalismo peloso che è presente in tanti<br />

adulti, i quali pensano che in fondo non è il caso di perdere troppo tempo con i giovani,<br />

tanto poi capiranno con l’avanzare degli anni, e tanto meno trattare con loro alla pari,<br />

impegnandosi in una discussione seria e senza concessioni all’età.<br />

Tra i tanti giovani che cominciarono allora a frequentare in maniera stabile la sezione e<br />

a svolgere anche attività nel partito, certamente il più dotato dal punto di vista politico<br />

era Giustino Rossi.<br />

Oltre all’acume politico, egli aveva anche buone capacità organizzative e soprattutto<br />

non gli mancava la voglia di lavorare, non a caso del resto egli assunse in seguito<br />

responsabilità di primo piano sia nella CGIL che nell’Alleanza Contadina; e sicuramente<br />

avrebbe avuto un ruolo importante anche nel partito se un destino crudele non avesse<br />

reciso la sua vita nel fiore degli anni.<br />

Ma, come dice Virgilio, ut fata trahunt...<br />

Giustino, poi, accompagnava a queste sue caratteristiche anche una buona cultura e una<br />

sensibilità rara che ne accrescevano sicuramente il fascino presso i compagni.<br />

Anche quella irrequietezza culturale ed esistenziale che l’ha accompagnato per tutta la<br />

vita era un tratto tutto suo; e ciò ne faceva un dirigente politico diverso dagli altri. Egli<br />

era un po’ come quegli uccelli di passo, dei quali canta Montale in Dora Markus, che<br />

urtano ai fari / nelle sere tempestose, e sono sempre alla ricerca di nuovi stimoli per<br />

rendere viva e feconda l’esistenza propria e degli altri.<br />

Di quegli anni vi sono anche ricordi legati alla mia attività politica ma che coinvolgono<br />

pure mia moglie e i miei figli.<br />

Ho molto vivo, ad esempio, il ricordo della campagna elettorale amministrativa di<br />

Lentella della tarda primavera del 1967, per quel che capitò a Massimiliano il giorno che<br />

io e Rosetta, già incinta di Stefano, salimmo in paese per dare una mano ai compagni.<br />

Lentella è uno di quei comuni che è rimasto nella memoria della gente e nella storia<br />

delle lotte per il lavoro di cui sono stati protagonisti braccianti e contadini poveri del<br />

166


Mezzogiorno nell’immediato dopoguerra, segnate spesso dalla caduta di lavoratori<br />

ammazzati dalle forze dell’ordine (era l’epoca di Scelba) come nel caso dei due<br />

braccianti di questo paesino colpiti a morte dal fuoco dei carabinieri durante uno<br />

sciopero a rovescio, per il lavoro.<br />

In quegli anni, nel vastese tanti piccoli comuni erano politicamente spaccati a metà;<br />

e spesso, come a Lentella, c’era un sostanziale equilibrio delle forze per cui non era<br />

scontata la vittoria di nessuno. Di conseguenza, i toni della campagna elettorale erano<br />

sempre molto accesi, a Lentella anzi, proprio per la sua storia e anche per il carattere<br />

dei suoi abitanti, forse lo erano molto più che altrove. Accadeva poi che, in essi, la parte<br />

della popolazione più impegnata nelle campagne elettorali fosse in genere costituita<br />

dalle donne, anche se le liste erano invece fatte di soli uomini, i pochi scampati<br />

all’emigrazione.<br />

Anche a Lentella, paese di grande emigrazione dopo le sconfitte subìte dai movimenti<br />

per il lavoro nel Mezzogiorno, le donne erano sempre state, come a Comino, le vere<br />

animatrici della sezione e delle campagne elettorali, ma non avevano diritto alla<br />

rappresentanza nelle istituzioni.<br />

Non era la sola realtà in cui questo avveniva, si trattava anzi di una condizione assai<br />

diffusa nel Mezzogiorno. Né, d’altro canto, le donne stesse percepivano questo fatto<br />

come una privazione di diritti, per la grande parte di esse rientrava anzi nell’ordine delle<br />

cose normali; e doveva passarne davvero ancora tanto di tempo prima che anche nel<br />

PCI le donne prendessero coscienza dei propri diritti e si ponessero tra le protagoniste<br />

più decise del movimento per la emancipazione femminile nel nostro Paese.<br />

Ma torniamo al racconto di quella giornata.<br />

Doveva essere una domenica e ricordo che quel giorno, mentre io ero occupato con<br />

i compagni non so per quale iniziativa, Rosetta, portandosi dietro Massimiliano e il<br />

pancione già piuttosto prominente, girava invece con un gruppo di compagne per le<br />

case del paese.<br />

A una certa ora, sul tardo pomeriggio, ci ritrovammo tutti nella casa di una compagna.<br />

Non ricordo più se cenammo anche da lei, ricordo comunque che, mentre si parlava<br />

dei risultati del lavoro fatto e dell’andamento della campagna elettorale, Massimiliano,<br />

che non riusciva a stare fermo un minuto e correva di qua e di là per la cucina,<br />

assai angusta peraltro, tutto preso dal gioco non s’accorse delle scale e finì così per<br />

precipitare rovinosamente lungo la scalinata, una di quelle scalinate ripide e dritte e<br />

anche abbastanza alte da rompervisi la noce del collo.<br />

Rosetta si rifiutò di andare a vedere cos’era successo, ma per fortuna tutto si risolse solo<br />

in un grande spavento.<br />

(Rosetta dà una versione un po’ diversa dell’episodio. Secondo lei, Massimiliano si<br />

dirigeva con insistenza verso le scale per convincerci a ripartire subito per Vasto: non<br />

voleva perdersi Carosello, la rubrica pubblicitaria dell’epoca, divenuta poi mitica dopo<br />

la sua soppressione, che piaceva tanto ai bambini, anche se in chiusura essi venivano<br />

perentoriamente invitati ad andare tutti a letto).<br />

Ma, al di là di tutto questo, il ricordo di quegli anni è ancora vivo in me anche perché la<br />

Vasto di allora era ancora una bella città, nella quale si poteva vivere bene.<br />

Vasto è una città molto antica, come d’altronde quasi tutte le maggiori città abruzzesi<br />

167


(salvo Pescara, che è stata una invenzione recentissima di D’Annunzio e del ministro<br />

fascista Acerbo, e l’Aquila, la cui storia risale appena all’epoca di Federico II di<br />

Svevia).<br />

Fondata probabilmente dai greci (la leggenda ne attribuisce la fondazione a Diomede,<br />

dopo il suo ritorno dalla guerra di Troia), essa fu conosciuta nell’antichità con il nome<br />

di Histonium, assumendo solo nella fase finale della dominazione dei Longobardi il<br />

nome di Vasto, anzi di Guasto di Aymone, dove Guasto indica Wast o Guast, gastaldia,<br />

e Aymone il gastaldo che la governava, al quale la gastaldia fu affidata, nell’anno 803,<br />

da Pipino che Carlo Magno aveva inviato in Italia per reprimere il tentativo del ducato<br />

longobardo di Benevento, del quale Histonium faceva parte, di sottrarsi al dominio dei<br />

Franchi.<br />

Ma in realtà, al di là delle sue origini e del suo nome, Vasto era una città frentana, che<br />

subì prima il dominio di Roma e poi via via dei tanti invasori che nei secoli hanno<br />

percorso il bel paese; essendo poi una città di mare, fu spesso bersaglio anche delle<br />

scorrerie dei pirati saraceni e turchi.<br />

Tuttavia di una storia così lunga e complessa le tracce sono assai scarse, bisogna<br />

arrivare a tempi assai più vicini a noi per avere monumenti come il Castello, di epoca<br />

medioevale ma trasformato e arricchito nei secoli successivi dai Caldora, le numerose<br />

chiese, di periodi diversi ma tutte piuttosto recenti, e il Palazzo D’Avalos, della fine del<br />

‘400.<br />

Forse, tra queste tracce, bisognerebbe includere anche i visi delle persone che spesso<br />

ricordano i tanti incroci provocati dalle varie invasioni.<br />

Ricordo, ad esempio, che rimasi colpito, quando li incontrai per la prima volta, dai<br />

tratti tipicamente saracini di alcuni compagni di quegli anni, frutto evidentemente delle<br />

scorrerie dei pirati, ma questo non vale solo per Vasto, vale in pratica per tutta l’Italia,<br />

terra per fortuna ricca di contaminazioni fra uomini e fra culture.<br />

Ma, se di Vasto non si potevano apprezzare a sufficienza le tracce di un antico passato,<br />

di essa si potevano invece ammirare il golfo bellissimo, la terra fertile anche se all’epoca<br />

coltivata prevalentemente a grano (terra d’oro insomma, come dice una bellissima<br />

canzone dialettale vastese, ma, per questo, anche un po’ Tavoliere), le strade assolate<br />

del centro cittadino, la frescura, la sera d’estate, della brezza marina, la cordialità della<br />

gente.<br />

Vasto era, in quegli anni, ancora un grosso paesone; e dopo un po’ di tempo ci si conosceva<br />

tutti, parlo ovviamente innanzitutto dei compagni, ci si ritrovava così insieme, in piazza<br />

o nei bar, quasi tutte le sere e poi la mattina di domenica, e si chiacchierava in gruppo<br />

del più e del meno. E anche questo, assieme alle sue bellezze, era il fascino della città<br />

ed è parte del ricordo che ho di quegli anni.<br />

168


CAPITOlO IX<br />

Siamo appena tornati dalle cure termali.<br />

Quest’anno, anno del Signore 2005, abbiamo scelto Grado, nel Friuli, una cittadina<br />

tranquilla, ordinata, immersa nel verde, stretta tra la laguna, nella quale i suoi primi<br />

abitanti, fuggendo da Aquileia, si erano rifugiati di fronte all’avanzare degli Unni, e il<br />

mare.<br />

Nonostante lo stress delle alzatacce mattutine per correre alle terme e la frenesia delle<br />

corse fatte (di solito, nel pomeriggio) per visitare Trieste (e Miramare, naturalmente!),<br />

Venezia e centri minori della regione durante i pochi giorni del nostro soggiorno, la<br />

vacanza è stata proprio riposante.<br />

La luce mite e chiara del cielo di settembre, la temperatura gradevole (malgrado qualche<br />

passeggero rovescio temporalesco), la bellezza dei luoghi hanno reso ancora più<br />

piacevole la nostra vacanza. Un solo inconveniente: le zanzare, che hanno tormentato<br />

particolarmente la nonna. Peccato poi che non abbiamo potuto fare neppure un bagno,<br />

pur avendo il mare a non più di cento metri dall’albergo: il litorale è in concessione a<br />

una società privata che, anche soltanto per consentire il passeggio lungo la spiaggia,<br />

pretende di essere pagata profumatamente...!<br />

Insomma, mie <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>ne, ci siamo trovati bene.<br />

Pier Paolo Pasolini, in un inedito del 1959 ora arrivato alle stampe, definisce Grado un<br />

“luogo dell’anima”, grazie a “il grigio-azzurro del suo cielo e il verde dei suoi alberi<br />

friulani, il vermiglio e il cobalto attutiti del suo porticciolo, e l’oro dei capelli della sua<br />

gioventù...”.<br />

Non so dire, naturalmente, se questa piccola e bella cittadina del Friuli era davvero quel<br />

“luogo dell’anima” intravisto da Pasolini nell’anno in cui egli ne scriveva, anche perché<br />

da allora molte cose sembrano essere cambiate, non solo nel paesaggio; né so dire, per<br />

il poco tempo che vi siamo restati, se oggi la si può ancora definire così. In ogni modo,<br />

se pure non ci ha fatto sognare (non abbiamo, del resto, neppure più l’età...), Grado ci<br />

ha certamente aiutato a rilassarci e a mettere in un cantuccio le tante brutte notizie che<br />

anche quest’estate ci hanno portato i giornali, notizie che ti chiudono a volte, per la loro<br />

ferocia, la bocca dello stomaco.<br />

A fare il miracolo è stata l’atmosfera morbida e ovattata che ti avvolge mentre passeggi<br />

lungo la laguna o ti inoltri nelle stradine del centro storico, inondate dai mille odori<br />

della gastronomia locale, o percorri il bel viale che attraversa in lungo tutta la città,<br />

accompagnato, la sera, da una particolare colonna sonora, quella del chiacchierio<br />

ininterrotto, diffuso, impastato di friulano, austriaco e italiano, della gente che cammina<br />

per la strada o siede davanti ai bar.<br />

Per come vanno oggi il mondo e l’Italia, ci voleva proprio questa tregua fatta di un po’<br />

di beata spensieratezza!<br />

Il mondo, mie <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>ne, sta oggi attraversando forse uno dei suoi momenti peggiori<br />

e non so proprio se, nel prossimo futuro, le cose prenderanno una piega migliore o sono<br />

destinate a peggiorare. E anche l’Italia, purtroppo, ha ormai toccato il fondo, grazie a<br />

Berlusconi.<br />

169


Voi vivete ora, mentre scrivo, un’età che in qualche modo vi tiene al riparo da queste<br />

brutture. E, anche se a volte ve ne arrivano gli echi, essi però non sono tali da consentirvi<br />

oggi di comprenderne tutta la gravità e quale minaccia esse rappresentino anche per il<br />

vostro stesso futuro: sono solo come una increspatura di vento sul filo d’erba o la foglia<br />

dell’albero!<br />

Ma le guerre, le malattie, la fame che colpiscono in modo sempre più virulento milioni<br />

di persone in un continente come l’Africa; la natura che si rivolta contro l’uomo che ha<br />

pensato, nella sua lunga storia, di poterla dominare e violentare impunemente; l’infanzia<br />

e la fanciullezza negate a un numero davvero inimmaginabile di bambini in ogni parte<br />

del mondo; l’odio, sempre più profondo, che oppone l’interminabile schiera dei poveri a<br />

chi sta bene: purtroppo, se tutte queste cose non cambieranno rapidamente, segneranno<br />

anche il vostro mondo di domani e si rivolteranno in modo ancora più terribile, fino a<br />

minacciarne l’esistenza, contro l’uomo e la sua civiltà.<br />

E state attente.<br />

Tutto questo non è il frutto del caso, del destino o del fato, come si diceva una volta,<br />

cieco e casuale. Né, dietro, c’è alcuna entità metafisica che ci scaglia contro il suo furore<br />

per le malefatte compiute dagli uomini come la Bibbia e, prima di essa, i testi sumerici<br />

e accadici e i miti greci ci raccontano sia accaduto all’epoca del diluvio universale: se<br />

così fosse, avremmo sempre la possibilità di poterci appellare alla misericordia di un<br />

dio o degli dei!<br />

No, le cose non stanno così. Quel che è certo, invece, è che c’è sempre qualcuno<br />

che ha interesse a far credere a sciocchezze di tal genere, per nascondere le proprie<br />

responsabilità, è accaduto nel passato e, siatene certe, accadrà ancora!<br />

E’ l’uomo l’autore di così tante infamie.<br />

Sono l’avidità e il cinismo di chi vuole accumulare sempre più ricchezze anche<br />

seminando povertà e lutti, è il sostegno che a questa visione del mondo miope e fonte di<br />

ingiustizie e di ineguaglianze sempre più inaccettabili viene da governanti che pensano<br />

che gli interessi vengano prima dell’uomo e delle sue esigenze e aspirazioni, è la<br />

rassegnazione o l’indifferenza di tanti. E ci cono anche le scelte individuali di ciascuno<br />

di noi, lo spirito che anima il nostro rapporto con gli altri uomini e con la natura, la<br />

nostra capacità, per la verità assai scarsa finora, di apprendere e mettere a frutto le tante<br />

lezioni della storia.<br />

Pace, solidarietà tra gli uomini, rispetto dei diritti di ciascuno, cooperazione con la<br />

natura, possibilità per tutti di accedere al sapere e al benessere, volontà di porre il sapere<br />

e il potere a servizio di tutti: di questo abbiamo oggi un disperato bisogno per avere<br />

futuro!<br />

Ma chi può costruire un mondo così? Sempre e solo gli uomini, e nessun altro.<br />

Gli antichi dicevano che faber est suae quisque fortunae, nel senso che l’uomo può, se<br />

lo vuole, fare scelte rivolte al bene comune, contrastando e sconfiggendo quanti, e sono<br />

tanti, forti e ben organizzati, ci hanno portato a questi disastri. Ebbene, questo è vero<br />

anche oggi, il problema è di volerlo davvero e fermamente!<br />

Anche sul piano ambientale e delle applicazioni della scienza, le cose sembrano prendere<br />

a volte una direzione catastrofica; ed anche qui è l’uomo la chiave di volta del futuro.<br />

Scienza, tecnologia sono stati e possono continuare a essere grandi fattori di progresso,<br />

170


ma solo se sono guidate dalla coscienza del limite, dal rispetto della natura e dalla eticità<br />

dei fini, sono messe cioè sempre a servizio dell’uomo e non dell’avidità di denaro e di<br />

potere di pochi.<br />

Eppure, è questo che oggi spesso accade, basta pensare, ad esempio, a quel grandioso<br />

fenomeno rappresentato dalla globalizzazione, che pure potrebbe aprire una finestra sul<br />

futuro a quei tantissimi infelici che, in Africa e in altre parti del pianeta, muoiono ogni<br />

giorno di fame, di malattie, di guerre e, invece, oggi porta soprattutto soldi alle grandi<br />

multinazionali.<br />

Fatica, responsabilità, solidarietà: sono le sole parole che possono aprire nuovi orizzonti<br />

e aprirli per tutti. Ma siatene sicure: non sarà facile iniziare il nuovo cammino che le<br />

cose stesse ormai ci indicano...<br />

Nel passato, gli uomini hanno anche coltivato a lungo l’idea di un mondo fatto,<br />

grazie alla scienza, di magnifiche sorti e progressive, di un progresso certo, lineare e<br />

inarrestabile.<br />

Ma è dimostrato che non è così, che ciò non ha fondamento alcuno nella realtà, è solo il<br />

nostro desiderio, la speranza che si sostituisce alla realtà.<br />

Anche l’Italia, naturalmente, è dentro questo gorgo infernale. In più, essa vive oggi uno<br />

dei periodi più disgraziati della sua storia nazionale ed è, come non mai, nave senza<br />

nocchiero in gran tempesta, per usare le parole di Dante, che si avvita sempre di più<br />

dentro le sue contraddizioni, provocando angosce profonde in chi, come me, nonostante<br />

l’età, continua a vivere il mondo e la politica con la stessa passione, oltre che con gli<br />

stessi ideali, della gioventù.<br />

Voi mi direte, dopo una predica così lunga, come se ne facevano una volta: Ma perché,<br />

nonno, ci parli di queste cose così apocalittiche?!<br />

E’ presto detto, mie <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>ne. Anche voi domani sarete chiamate ad assumervi le<br />

vostre responsabilità di fronte ai problemi del vostro tempo, ed è bene che impariate a<br />

farlo subito, forse così le risposte della vostra generazione saranno migliori di quelle<br />

che abbiamo saputo dare noi.<br />

Purtroppo, l’Italia nella quale ci tocca vivere oggi è un’Italia sull’orlo del baratro, a<br />

un passo da un declino irrimediabile sul piano economico, sociale, civile e morale<br />

perché, in un momento cruciale della storia del mondo, quando sarebbe necessario,<br />

con il contributo di tutti, progettare il futuro, essa è finita nelle mani non certo di<br />

galantuomini e gente disinteressata, aperta al dialogo, lungimirante, assillata non dal<br />

proprio particulare, ma dai problemi e dall’avvenire di tutti.<br />

E’ questa, purtroppo, la realtà di questi nostri anni così tristi e difficili.<br />

L’Italia è alla mercé di un potere arrogante, avido, insofferente di ogni regola,<br />

preoccupato solo dei propri interessi e pronto, per soddisfarli o difenderli, a buttare a<br />

mare quello che una volta si chiamava il bene comune e, se necessario e possibile, la<br />

stessa democrazia!<br />

Gli italiani, per la verità, non sono esenti da colpe per questa situazione. Anzi essi,<br />

anche questa volta, come già altre volte nei momenti di crisi, hanno dimostrato un<br />

particolare fiuto nello scovare e mettersi al seguito del pifferaio magico di turno che,<br />

mentre promette il paese di Bengodi, lavora in realtà con la solita, impegnativa abilità<br />

per incrementare i propri affari e portare l’Italia alla rovina.<br />

171


Quando sarete grandi, forse vi capiterà, qualche giorno, di ascoltare un’opera molto<br />

bella dal punto di vista musicale e spassosa nella sua trama, che si intitola L’elisir<br />

d’amore, e troverete tra i suoi personaggi un certo dottor Dulcamara.<br />

Dulcamara è un gran ciarlatano, che vende e vende bene i suoi mille intrugli ai rustici<br />

del villaggio; e la sua prima vittima è Nemorino, un giovane innamorato di Adina,<br />

al quale rifila la bevanda amorosa della regina Isotta, appunto lo stupendo elisir che<br />

desta amore (ma il magico liquore altro non è che una volgare bottiglia di Bordeaux),<br />

complice lo stesso Nemorino, gran credulone e, per giunta, orbo di tutti e due gli occhi<br />

perché innamorato.<br />

Ma per darvi un’idea un po’ più precisa di chi è Dulcamara, forse è il caso che vi citi<br />

l’attacco della sua straordinaria cavatina quando appunto propone ai villici tutto il suo<br />

variegato campionario.<br />

Ascoltate:<br />

Udite, udite, o rustici;<br />

attenti, non fiatate.<br />

Io già suppongo e immagino<br />

che al par di me sappiate<br />

ch’io sono quel gran medico,<br />

dottore enciclopedico,<br />

chiamato Dulcamara,<br />

la cui virtù preclara,<br />

e i portenti infiniti<br />

son noti all’universo<br />

e... e... e in altri siti.<br />

Come potete notare, il tono è solenne, quello che serve appunto ai ciarlatani per<br />

dare forza e credito alle loro mirabolanti promesse. E’ vero, il gran medico sembra<br />

incespi<strong>care</strong> sull’ultimo verso, e proprio a questo punto la musica, con una specie di<br />

sberleffo, svela l’inganno e la vuotezza che si celano dietro le parole, ma questo non<br />

impedisce a Dulcamara di attirare i contadini nella sua sfera magica e incuriosirli ancor<br />

più sugli effetti miracolosi del suo specifico.<br />

Ma sento già qualche borbottio da parte vostra: Nonno, adesso -dopo averci elencato i<br />

mali del mondo e dell’Italia- ci vieni anche ad annoiare con questo Dulcamara, perché?<br />

E poi: chi è Dulcamara e che c’entra?<br />

Beh, mie <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>, voglio in questo modo invitarvi innanzitutto ad assistere, se ve ne<br />

capita l’occasione, alla rappresentazione de L’elisir d’amore, così potrete bearvi anche<br />

voi della musica bellissima, deliziosa di Gaetano Donizetti e divertirvi alle avventure<br />

comico-sentimentali di Nemorino e Adina.<br />

So che a voi piace un altro tipo di musica, ma chissà, crescendo, forse arriverete anche<br />

ad apprezzare l’opera che tanto piaceva al nonno...<br />

Ma c’è anche un’altra ragione: Dulcamara non è soltanto il personaggio buffo dell’opera<br />

buffa di Donizetti, è anche un personaggio largamente presente nella storia, piccola<br />

172


e grande, dell’Italia, che si è spesso materializzato anche nel campo della politica,<br />

provocando disastri: basta guardare alla nostra storia, a quella più vicina a noi come a<br />

quella più lontana.<br />

Ebbene, oggi viviamo uno di quei momenti in cui i Dulcamara imperversano in Italia,<br />

evocati sulla scena da tutti quegli italiani che pensano che i venditori di fumo siano<br />

meglio delle persone serie.<br />

Negli ultimi mesi, tanti di essi sembrano essersi resi conto della scempiaggine che hanno<br />

fatta, ma non hanno ugualmente scusanti: se Nemorino, che si è lasciato raggirare così<br />

facilmente, può essere compatito perché troppo preso dall’amore che è per definizione<br />

cieco, non altrettanto si può fare con questi nostri concittadini, molti dei quali tra l’altro<br />

pensavano che fosse finalmente venuto anche per loro il momento di arricchirsi a spese<br />

di tutti gli altri.<br />

Ma, mi direte, chi è oggi il Dulcamara che sta portando alla rovina questo nostro infelice<br />

Paese?<br />

Beh, la risposta ormai la conoscono tutti, anche quelli che gli hanno votato e magari lo<br />

sosterranno ancora. E’ Berlusconi, il capo della masnada che ci governa, è lui l’ultima<br />

sua incarnazione, con esiti anche questa volta tragici per l’Italia e la vita (nonché le<br />

tasche) della gente, pur se la recita di questi anni ha toni e contenuti oltremodo farseschi<br />

e spesso surreali.<br />

Quando è sceso in campo, all’inizio degli anni ‘90, nel pieno della bufera di Tangentopoli<br />

utilizzando la stessa azione dei giudici che oggi mette alla gogna, anche lui come<br />

Dulcamara si è presentato come l’uomo che ha in saccoccia il vaso di Pandora, pronto<br />

a garantire a tutti ricchezza e felicità. Ma il suo capolavoro l’ha costruito qualche anno<br />

dopo, nella tarda primavera del 2001, con il televisivo contratto con gli italiani, con<br />

la televisione appunto a certifi<strong>care</strong> la bontà del suo specifico: quel contratto è stato<br />

insomma la sua cavatina, capace anche in questa occasione di irretire i tantissimi villici<br />

di una Italia ben viva ancora oggi e sempre pronta a prestare ascolto a chi ne solletica il<br />

particulare, grande o piccolo che sia.<br />

Se però a Dulcamara le cose sono andate tutto sommato bene, riscuotendo alla fine il<br />

plauso degli stessi villici ingannati (anche perché egli non ha certo provocato sconquassi<br />

nella loro vita e poi, via, siamo all’opera...), e Nemorino ha potuto alla fine conquistare<br />

la sua agognata Adina, Berlusconi invece ha cominciato finalmente a pagare il fio<br />

delle sue strabilianti promesse e del solo, ammorbante fumo che ne hanno ricavato gli<br />

italiani. E così, nel breve giro di un mese, ha subìto una batosta elettorale che, per la sua<br />

ampiezza e portata, non ha davvero precedenti.<br />

Sto parlando del risultato clamoroso delle elezioni regionali e amministrative dell’aprile<br />

scorso, quando il centrosinistra ha conquistato dodici regioni su quattordici e un numero<br />

incredibile di Comuni e Province.<br />

Roba, come si dice da noi, da ogni morte di papa, con tutto il rispetto naturalmente per<br />

papa Wojtyla morto proprio alla vigilia delle elezioni!<br />

Il botto elettorale a favore del centrosinistra ha investito ovviamente anche l’Abruzzo<br />

dove abbiamo riconquistato la Regione, e -udite! udite!- conquistato, per la prima volta,<br />

anche una città conservatrice come Chieti.<br />

E’ chiaro che un tale patatrac del centrodestra porta innanzitutto la firma di Berlusconi,<br />

173


che ci ha messo tanto del suo!<br />

Accade sempre così ai demagoghi, soprattutto quando la realtà delle cose si incarica<br />

di strappare bruscamente la ragnatela di illusioni che essi hanno tessuto dentro la testa<br />

della gente. Molti suoi vecchi elettori, anzi, erano a tal punto incazzati con lui che hanno<br />

deciso di andare a votare, anziché rifugiarsi nell’astensione, e gli hanno rivolto contro<br />

con rabbia il proprio voto: come recita un vecchio adagio, tratto da Esiodo e che trovo<br />

negli Adagia di Erasmo, anche lo stolto si fa saggio dopo che ha patito un danno!<br />

A Chieti, dove il centrodestra è stato sempre largamente maggioritario e ha governato<br />

per ben undici anni di seguito, è accaduto anche di peggio.<br />

Quos Deus perdere vult, dementat prius: è un altro vecchio adagio, mie <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>ne,<br />

anch’esso d’origine greca, che spero mi permetterete di citarvi, senza sbuffi di fastidio<br />

da parte vostra, perché rende bene quel che è accaduto ai partiti del centrodestra in<br />

queste elezioni a Chieti, prima e durante la campagna elettorale.<br />

Per mesi si sono azzuffati e divisi tra di loro, arrivando ognuno per conto proprio<br />

all’appuntamento delle elezioni e facendo di tutto per continuare a sbranarsi a vicenda<br />

anche durante la campagna elettorale. Come quei cani che, spinti dalla fame, si dilaniano<br />

a vicenda con ostinazione e ferocia per contendersi l’unico tozzo di pane ma che alla<br />

fine, come è poi accaduto in queste elezioni, nessuno di loro riuscirà ad afferrare.<br />

Naturalmente, va reso il giusto merito anche al centrosinistra: ha saputo presentarsi<br />

unito alle elezioni e rappresentare una speranza per il futuro.<br />

L’augurio è che un risultato così importante, qui a Chieti e in tutto il Paese, non solo<br />

non venga disperso ma si consolidi visto che il più è ancora da fare per cacciare<br />

definitivamente Berlusconi: le elezioni politiche infatti ci saranno solo l’anno prossimo,<br />

nella primavera del 2006, e lui le giocherà davvero tutte per cer<strong>care</strong> di imbrogliare le<br />

carte ancora una volta, non importa se a costo di trascinare l’Italia in avventure ancora<br />

più rovinose.<br />

Tra l’altro, è bene sapere che il berlusconismo non è qualcosa di cui ci si possa liberare<br />

facilmente. Per la ragione molto semplice che il cuore del berlusconismo è l’idea che,<br />

per arricchirsi, tutto è lecito: non rispettare, ad esempio, anzi abolire, se ci si riesce,<br />

regole e limiti di qualunque tipo, o piegare lo Stato, ogni volta che se ne ha bisogno, ai<br />

propri interessi personali e di gruppo; ed è, questa, un’idea talmente radicata in tanta<br />

parte del popolo italiano da costituirne il vero Dna.<br />

Molti stranieri ci accusano spesso di cinismo e amoralità, purtroppo non è che abbiano<br />

tutti i torti!<br />

Non si può, dunque, stare proprio tranquilli con Berlusconi; e la battaglia decisiva è<br />

tutta da combattere, fino all’ultimo minuto.<br />

Ma veniamo ormai, mie <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>, dopo una così lunga incursione nell’attualità, agli<br />

anni che vorrei raccontare in questo capitolo: gli anni ‘70. Ed entriamo perciò subito<br />

nell’aringo...<br />

Aringo è il termine usato, a indi<strong>care</strong> appunto la difficoltà dell’impresa, da Dante quando<br />

si accinge, nella terza cantica, la cantica più alta per stile e contenuti, a inoltrarsi nel<br />

regno santo, tra le luci e le armonie del Paradiso. Naturalmente, io non invocherò,<br />

come lui, Apollo e amendue i giochi di Parnaso perché mi assistano: io non vidi cose,<br />

174


come il grande poeta, che ridire / né sa né può chi di là su discende. Il mio compito è<br />

molto più modesto, anche se parlare di quegli anni non è poi, a pensarci bene, cosa così<br />

semplice.<br />

Si tratta infatti di un periodo della nostra storia più recente molto complesso e pieno di<br />

contraddizioni, che ha conosciuto progressi decisivi nella vita degli italiani, ma ha anche<br />

visto riemergere dal fondo più oscuro della nostra società forze eversive e reazionarie<br />

che hanno messo seriamente a rischio la democrazia.<br />

In quegli anni, inoltre, si sono a lungo confrontate prospettive politiche contrapposte; e<br />

c’è stato un esplicito tentativo, portato avanti da forze interne e internazionali, volto a<br />

colpire anche con la violenza la modernizzazione democratica dell’Italia e il possibile<br />

ingresso dei comunisti nel governo del Paese.<br />

Non può essere quindi un caso se, grazie anche agli errori commessi dai vari protagonisti,<br />

il decennio si è concluso, non aprendo un futuro migliore all’Italia ma dando forza a<br />

spinte e processi che avrebbero alla fine, negli anni ‘90, portato alla dissoluzione dei<br />

partiti fondatori della Repubblica e della democrazia italiana e alla crisi stessa delle<br />

istituzioni repubblicane.<br />

In quella lunga e tormentata stagione politica, inoltre, il PCI giocò un ruolo decisivo<br />

e raggiunse anche il punto più alto della sua influenza politica e dei suoi consensi<br />

elettorali.<br />

Ma anche per il PCI la fine del decennio rappresentò il crinale dal quale prese avvio il<br />

processo che doveva segnare, non il ritorno al governo, come pure ci si proponeva, ma il<br />

progressivo svuotamento della funzione storica che esso aveva esercitato fino ad allora<br />

nella società italiana, condizionandone gli sviluppi complessivi.<br />

Lo scioglimento del partito all’inizio degli anni ‘90 non fu che la necessaria conclusione<br />

di questo processo, anche se a renderlo inevitabile furono gli sviluppi della situazione<br />

internazionale (innanzitutto la caduta del muro di Berlino).<br />

Un decennio non facile da raccontare, quindi, e davvero di svolta nella storia dell’Italia,<br />

che ha rappresentato per me anche il momento più esaltante e significativo del mio<br />

impegno come dirigente del PCI, sia nel periodo che sono stato segretario della<br />

federazione di Chieti che, successivamente, negli anni in cui sono stato uno dei maggiori<br />

dirigenti regionali del PCI abruzzese.<br />

Ma non vi spaventate, mie <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>ne: non intendo in nessun modo ripercorrere,<br />

nei suoi vari passaggi, né locali né nazionali, la storia così complessa di quegli anni,<br />

non sarei tra l’altro neppure in grado di farlo. Mi limiterò invece soltanto a raccontare<br />

alcuni momenti di questa straordinaria vicenda: insomma, detto tra noi, mi propongo un<br />

compito molto più terra terra...<br />

L’inizio degli anni ‘70 ha coinciso, per me, con la mia elezione a segretario di<br />

federazione.<br />

Sono stato eletto infatti ai primi d’agosto, più esattamente nella riunione del Comitato<br />

Federale dell’8 agosto del 1970, alla quale partecipò anche Gigetto Sandirocco in<br />

rappresentanza della segreteria regionale (segretario regionale era ancora Claudio<br />

Petruccioli).<br />

Assunsi quindi il mio nuovo incarico all’indomani delle elezioni regionali, dopo un<br />

175


dibattito abbastanza lungo e serrato negli organismi dirigenti provinciali dove alcuni<br />

compagni cercarono, in modo scopertamente strumentale, di traccheggiare il più a<br />

lungo possibile sul mio nome nel tentativo di dare una soluzione diversa, da quella che<br />

fu poi raggiunta, alla questione Perantuono-Terpolilli.<br />

Così, dopo gli oltre tre anni passati a Vasto, io e la mia famiglia tornammo ad abitare a<br />

Chieti. Ma anche in questa occasione non fu facile trovare un appartamento da affittare<br />

che fosse anche di nostro gradimento e capace di soddisfare le accresciute esigenze<br />

della famiglia. Ricordo anzi, mie <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>, che proprio per questa difficoltà la nonna<br />

e i vostri papà rimasero ancora a Vasto per quasi tutto il mese di agosto mentre io, che<br />

mi trovai subito alle prese con la sottoscrizione e le feste de l’Unità, dovetti trasferirmi<br />

immediatamente a Chieti, ospite dei miei suoceri.<br />

Alla fine, tuttavia, nel giro di poco più di un mese e sia pure dopo lunghe e faticose<br />

peregrinazioni nei vari quartieri della città, come già dopo il nostro matrimonio, ce la<br />

facemmo. Rosetta riuscì a scovare un bell’appartamento a S. Anna, costruito appena<br />

da qualche anno, ampio, abbastanza ben ripartito, affacciato sulla valle dell’Alento e<br />

perciò con un panorama invitante e, poi, con servizi essenziali a portata di mano, dal<br />

filobus alla scuola materna per Stefano e a quella elementare per Massimiliano che<br />

iniziò proprio quell’anno a frequentare la scuola dell’obbligo.<br />

La nuova sistemazione andava bene soprattutto per Rosetta che non aveva la macchina<br />

ed era perciò costretta, per spostarsi, ad utilizzare i mezzi pubblici quando non anche il<br />

cavallo di San Francesco. Anche per portare e riprendere i bambini da scuola non aveva<br />

grandi difficoltà, perché sia la scuola materna che la scuola elementare erano tutt’e due<br />

lungo la strada che essa percorreva ogni giorno per andare e tornare dal lavoro (dopo<br />

Vasto, la nonna cominciò a lavorare all’Unipol), l’unico problema per lei era fare tutti i<br />

giorni di corsa il tratto dall’ufficio alle elementari di S. Anna per non far aspettare troppo<br />

Massimiliano che usciva da scuola sempre un po’ prima dell’arrivo della madre.<br />

S. Anna era allora una zona di recente sviluppo; e vi abitavano prevalentemente coppie<br />

giovani, e questo consentì ai nostri figli di farsi rapidamente nuovi amici, alcuni dei<br />

quali lo sono ancora oggi.<br />

Nel nuovo appartamento siamo rimasti per ben quindici anni e in esso si sono fatti<br />

grandi i figli, finché non ci arrivò tra il 1982 e il 1983 una lettera di sfratto.<br />

Resistemmo per qualche tempo, anche giudiziariamente, alle richieste del proprietario<br />

grazie alle leggi dell’epoca, ma nel 1985 comunque saremmo dovuti andare via e<br />

metterci alla ricerca di una nuova abitazione se nel frattempo non fossimo riusciti a farci<br />

una casa nostra dove potemmo tranquillamente traslo<strong>care</strong> nel luglio di quello stesso<br />

anno.<br />

L’idea di avere una casa nostra per la verità non ci aveva mai sfiorato negli anni<br />

precedenti, e non tanto per il fatto che non avevamo i soldi necessari per comprarcela<br />

quanto soprattutto perché il mio lavoro, fino a quel momento, mi aveva portato spesso<br />

a cambiare città.<br />

Ma, all’inizio degli anni ‘80, gli sfratti a Chieti si erano fatti piuttosto frequenti, perché i<br />

proprietari preferivano affittare agli studenti con la possibilità di lucrare, in nero, rendite<br />

assai più sostanziose; e il rischio perciò di incappare anche noi in uno dei tanti sfratti di<br />

quegli anni, come poi avvenne, cominciava a preoccuparci seriamente.<br />

176


Rosetta si iscrisse allora, quando io ero già a Campobasso, a una delle tante cooperative<br />

di abitazione nate in quel periodo a Chieti, anche se i soldi di cui potevamo disporre<br />

erano sempre molto pochi (per fortuna le cose sarebbero cambiate di lì a qualche anno,<br />

quando venni eletto deputato); e così, alla fine, anche noi fummo proprietari di una casa,<br />

quella che appunto oggi abitiamo, in una zona, quella di Madonna del Freddo, dove fino<br />

a quel momento c’era solo campagna e che le cooperative hanno invece trasformato in<br />

uno dei quartieri più popolosi della città (una parte del quartiere è stata poi trasformata<br />

dai suoi nuovi abitanti in un posto pieno di verde).<br />

Quando fui eletto segretario di federazione, avevo poco più di trentacinque anni.<br />

Ero insomma, per dirla banalmente, nel pieno della mia vigoria fisica e intellettuale.<br />

E, al contrario di quel personaggio di Spoon River che si accorge solo con la morte che<br />

il genio è saggezza e gioventù, io non solo avevo ali forti e instancabili e conoscevo<br />

le montagne perché alle spalle avevo una esperienza assai ampia e ricca, acquisita in<br />

contesti e periodi assai diversi tra loro, ma ero anche giovane, animato peraltro da una<br />

grande volontà di fare e far bene. E fu tutto questo che mi consentì di affrontare subito<br />

e con decisione, ma anche con il gramsciano ottimismo della volontà, una situazione<br />

del partito che non era certo brillante e che si stava facendo difficile anche sul piano<br />

nazionale e regionale e raggiungere, durante i cinque anni che restai alla guida del PCI<br />

in provincia di Chieti, grandi risultati sia dal punto di vista organizzativo che sul piano<br />

politico ed elettorale.<br />

A mio favore avevo anche il fatto che a primavera, alcuni mesi prima della mia elezione<br />

a segretario di federazione e proprio in previsione di questa circostanza, il partito si era<br />

preoccupato di farmi eleggere nel nuovo Consiglio comunale del capoluogo che veniva<br />

rinnovato proprio quell’anno. In questo modo potevo utilizzare per la mia attività<br />

anche una sede politico-istituzionale che, negli anni successivi, si sarebbe dimostrata<br />

particolarmente importante, non solo per me ma per il ruolo stesso del partito in città, in<br />

occasione ad esempio delle lotte operaie e studentesche che segnarono Chieti per tutti<br />

gli anni ‘70.<br />

Gli inizi della mia attività come segretario di federazione furono piuttosto duri.<br />

La prima grana che mi toccò affrontare fu naturalmente quella legata alla vicenda<br />

Perantuono-Terpolilli. E fosse stata la sola.<br />

Quella vicenda in realtà si intrecciava strettamente con una situazione più complessiva<br />

del partito che, sul finire degli anni ‘60, si era andata seriamente deteriorando.<br />

Che io ricordi, la lamentela più ripetuta nelle sezioni riguardava la nostra vita interna:<br />

secondo i compagni, non c’era sufficiente democrazia.<br />

La cosa era in parte fondata, ma la difficoltà vera non stava qui. Essa stava soprattutto<br />

nella nostra incapacità a comprendere fino in fondo le trasformazioni avvenute nella<br />

realtà economica e sociale della provincia e a individuare quindi le forze sociali e i<br />

terreni di lotta decisivi per mettersi alla testa della battaglia per lo sviluppo dell’Abruzzo,<br />

capace di determinare anche un salto di qualità nelle condizioni di vita e di lavoro della<br />

gente.<br />

Eravamo rimasti, in sostanza, un partito contadino quando invece la industrializzazione,<br />

in zone come il vastese o lo Scalo, era diventato il dato dominante della nuova realtà<br />

177


della provincia; la scuola e l’Università nascente, inoltre, facevano debuttare sulla scena<br />

della politica anche grandi masse giovanili.<br />

La difficoltà a muoverci entro questa nuova ottica ci impediva anche di utilizzare<br />

pienamente, per la nostra iniziativa, l’accresciuta nostra forza elettorale e lo stesso fatto<br />

che noi stessi, ad esempio con le lotte per il metano ma anche con la nostra presenza<br />

nelle lotte degli studenti, avevamo contribuito a determinare quelle trasformazioni.<br />

Ci impediva, in sostanza, di cogliere tutte le nuove opportunità che ci offriva la<br />

situazione.<br />

La vicenda Perantuono-Terpolilli, a rifletterci bene, non aveva fatto altro, in fin dei<br />

conti, che portare allo scoperto proprio questi problemi e proprio da essi ci sarebbe stato<br />

bisogno appunto di ripartire. Accadde invece, nel clima che si era creato nel partito dopo<br />

le elezioni, che di essi si discutesse poco. Anzi, piuttosto che tentare di analizzarli e<br />

comprenderli nella loro vera natura, essi venivano invece strumentalizzati dai due gruppi<br />

che si fronteggiavano all’interno della federazione, nel tentativo di portare ciascuno più<br />

acqua al proprio mulino. Risultato: si rendeva solo più difficoltosa la discussione!<br />

Tuttavia, nonostante ciò e pur tra tensioni ricorrenti e lo scetticismo di molti compagni,<br />

riuscimmo ugualmente a portare avanti in quei mesi la discussione sui problemi di<br />

fondo che angustiavano il partito, raggiungendo così in questo modo anche l’obiettivo<br />

di rilanciare la nostra iniziativa tra la gente e di ricostruire, per questa via, l’unità del<br />

gruppo dirigente.<br />

Non fu semplice, e ci fu bisogno di pazienza, tenacia e intelligenza, ma alla fine la<br />

spuntammo.<br />

Anche gli avvenimenti politici regionali e nazionali che si succedettero in quei mesi, e<br />

la riflessione che si aprì su di essi, ci diedero una mano.<br />

Come, ad esempio, quella sui cosiddetti fatti de l’Aquila del febbraio 1971. Fatti di<br />

una gravità eccezionale, che colpirono profondamente l’opinione pubblica regionale e<br />

nazionale, quando spezzoni di manifestanti, manipolati da settori della DC e da forze<br />

di destra, per protestare contro la soluzione data dal Consiglio regionale, anche con<br />

il nostro concorso, alla questione del capoluogo, incendiarono la federazione del PCI.<br />

O, ancora, come quella sull’esito delle elezioni politiche della primavera del 1972 che<br />

videro un certo rinculo della sinistra e l’avanzata di forze conservatrici e di destra, come<br />

il MSI, soprattutto nel Mezzogiorno.<br />

La stessa riflessione nazionale, che fu molto intensa in quel periodo, attorno al tema<br />

delle trasformazioni che le realtà urbane del Sud avevano conosciuto e a quello delle<br />

alleanze sociali e politiche del PCI nel Mezzogiorno ci fu anch’essa di grande aiuto.<br />

Da questo dibattito venne anche una formidabile spinta a mettere in moto e far camminare<br />

rapidamente un esteso processo di rinnovamento e ringiovanimento dei nostri gruppi<br />

dirigenti sia a livello provinciale che nelle sezioni, garantendo nello stesso tempo la<br />

necessaria saldatura tra il vecchio partito contadino e le nuove leve, fatte soprattutto<br />

di giovani che provenivano dalle fabbriche, dalle scuole e dall’Università. Così, nel<br />

giro di qualche anno, sia nella segreteria provinciale che nei direttivi delle sezioni, ci<br />

fu un ricambio generazionale senza precedenti, e lo stesso accadde anche per il nostro<br />

Comitato Federale, senza peraltro che ciò provocasse rotture di alcun tipo.<br />

Parte di questo processo fu anche la nuova attenzione che il PCI rivolse al mondo<br />

178


femminile.<br />

Anche qui, non c’erano più soltanto le popolane battagliere dei quartieri popolari delle<br />

città o le contadine povere e le braccianti: era nato un nuovo mondo, fatto di operaie<br />

giovani e consapevoli dei propri diritti, di studentesse medie e universitarie animate<br />

da nuovi bisogni e nuove esigenze culturali e di costume, di donne degli stessi ceti<br />

medi urbani alla ricerca anch’esse di un proprio ruolo più autonomo e gratificante<br />

nella società e nella famiglia. E tante di esse disposte anche a un impegno diretto nella<br />

battaglia politica.<br />

Anche su questo terreno, in provincia di Chieti, noi facemmo la nostra parte, ottenendo<br />

risultati di non poco conto e con un ulteriore allargamento e arricchimento dei nostri<br />

gruppi dirigenti.<br />

Ricordo in proposito che, proprio sotto la spinta di questo nostro nuovo impegno, io fui<br />

incaricato, qualche anno dopo la mia elezione a segretario di federazione, di fare (udite<br />

udite!, <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>) il responsabile femminile, in attesa di poter avere una compagna in<br />

grado e disposta a seguire in permanenza il lavoro verso le donne; di questo periodo<br />

ricordo anche la bella manifestazione di donne che organizzammo in piazza a Chieti,<br />

durante la campagna elettorale per le elezioni politiche del ‘72, e il grande convegno<br />

provinciale delle donne comuniste che tenemmo a Tollo nel febbraio del 1973.<br />

Una riflessione analoga, con al centro problemi più o meno simili a quelli emersi nella<br />

nostra realtà provinciale, ci fu in quegli anni anche nel resto della regione, come in<br />

generale nel Mezzogiorno. E anche qui, alla fine, prevalse la spinta verso il rinnovamento<br />

delle nostre politiche e il ringiovanimento dei gruppi dirigenti, facendo così venire in<br />

primo piano sia nelle federazioni che a livello regionale una nuova leva di quadri che<br />

poi diressero il partito per tutti gli anni ‘70.<br />

Da questo punto di vista, fu molto importante il contributo che venne a livello nazionale<br />

da Enrico Berlinguer; e, in Abruzzo, da Renzo Trivelli, che lo stesso Berlinguer, cui lui<br />

era molto legato, sostenne nelle sue scelte.<br />

Trivelli, quando arrivò in Abruzzo all’indomani dei fatti de l’Aquila, trovò un partito<br />

lacerato, attraversato da divisioni profonde e anche da lotte intestine, e non aveva perciò<br />

davanti a sé un compito facile.<br />

Del resto, la precedente esperienza di Claudio Petruccioli era lì a testimoniare quanto<br />

difficile fosse avviare un processo coerente di rinnovamento e ringiovanimento del<br />

partito.<br />

Petruccioli era venuto anche lui in Abruzzo, sul finire del ‘69, con l’obiettivo di sanare le<br />

fratture che già nell’ultima fase di direzione del Comitato regionale da parte di Federico<br />

Brini stavano minando il PCI abruzzese.<br />

Ma fu subito evidente la resistenza a questo processo di pezzi consistenti del vecchio<br />

gruppo dirigente. Così i suoi tentativi di portare una certa aria di modernità nella politica<br />

e nell’assetto del partito e dei suoi gruppi dirigenti naufragarono rapidamente e lui<br />

stesso fu poi travolto dai fatti del’Aquila.<br />

Non che Petruccioli, durante la sua breve permanenza in Abruzzo, non avesse commesso<br />

i suoi errori, a causa soprattutto di una sua visione delle cose a volte piuttosto astratta e<br />

intellettualistica e anche, bisogna dire, per una certa sua disinvoltura e leggerezza nella<br />

179


gestione del partito e delle scelte compiute durante i fatti de l’Aquila, ma onestamente<br />

non si possono addebitare solo a lui tutte le responsabilità di questo fallimento.<br />

A Trivelli capitò invece di riuscire là dove Petruccioli aveva fallito.<br />

In questo, egli fu certamente favorito dall’indebolimento subìto dal vecchio gruppo<br />

dirigente a causa proprio dei fatti de l’Aquila.<br />

Molto di più, tuttavia, contarono le sue notevoli capacità politiche, la lunga esperienza che<br />

egli aveva nella gestione del partito, la sua capacità di muoversi non solo con accortezza<br />

ma anche con il pragmatismo necessario. In più, Trivelli seppe inventare strumenti nuovi<br />

per la battaglia politica del PCI in Abruzzo, strumenti che poi si rivelarono decisivi sia<br />

per svecchiare le politiche del partito nella regione sia per mobilitare un grande numero<br />

di energie e tenere aperto un processo di ulteriore allargamento dei gruppi dirigenti a<br />

forze nuove, soprattutto intellettuali.<br />

Da questo punto di vista, la sua più grande invenzione fu la pubblicazione di Abruzzo<br />

d’Oggi, una esperienza che, dopo la sua conclusione tra il ‘77 e il ‘78, non si è più<br />

ripetuta in Abruzzo.<br />

Per la verità, già in precedenza Petruccioli aveva tentato una iniziativa analoga, con la<br />

pubblicazione di un quindicinale, Nella lotta, diretta da Gianfranco Console. Ma nulla<br />

di paragonabile con Abruzzo d’Oggi: non solo il periodico visse appena pochi mesi, ma<br />

il suo ambito di diffusione non andò mai oltre il gruppo dirigente più ristretto del partito<br />

nelle federazioni.<br />

Abruzzo d’Oggi invece fu tutt’altra cosa. E il suo successo fu grande non solo tra gli<br />

iscritti, ma anche fuori del PCI. E per ben cinque anni giocò un ruolo di rilievo nella<br />

vicenda politica regionale.<br />

Un successo straordinario, quindi, dovuto certo in primo luogo a coloro che lo hanno<br />

diretto e fatto nel tempo.<br />

Da Libero Pierantozzi, già segretario di Togliatti e autore di una pregevole (e anche<br />

piuttosto ponderosa) opera sui cattolici nella storia d’Italia, allo stesso Console che sin<br />

dall’inizio dell’avventura di Abruzzo d’Oggi, fino al suo trasferimento a Roma nel ‘76,<br />

si caricò di fatto il peso della più gran parte del lavoro necessario per fare il quindicinale,<br />

e, nell’ultimo periodo, a Francesco Di Vincenzo.<br />

Ma, oltre che da loro, un apporto fondamentale venne anche dai segretari di federazione,<br />

segretari di zona e di sezione e dalla numerosa schiera di compagni di base che si<br />

preoccupavano di scrivere articoli, pubbli<strong>care</strong> inchieste, far arrivare notizie, curarne la<br />

diffusione.<br />

Abruzzo d’Oggi non era, né voleva essere, un periodico d’élite.<br />

Era al contrario, e lo restò per tutto il tempo in cui fu pubblicato, un quindicinale di battaglia<br />

politica e culturale che stava sull’attualità e portava nel confronto politico regionale i<br />

problemi della gente. Dove, nello stesso tempo, si intrecciavano costantemente cronaca,<br />

riflessione politica, informazione (anche sulle nostre vicende interne), approfondimento<br />

di problemi di natura regionale o di determinati territori, dibattito culturale, confronto<br />

tra i compagni e, naturalmente, con le altre forze politiche abruzzesi.<br />

In questo modo Abruzzo d’Oggi divenne, come possiamo dire?, lo specchio della vita<br />

regionale, con cui anche gli avversari erano costretti a fare i conti, e nel quale in tanti si<br />

potevano ritrovare, con i loro problemi e le loro aspirazioni. A partire dai lavoratori che,<br />

180


su Abruzzo d’Oggi, potevano leggere il racconto delle loro lotte per la difesa dei posti<br />

di lavoro allora minacciati dovunque in Abruzzo e che, anzi, avevano proprio nel nostro<br />

quindicinale uno strumento importante di lotta sindacale e politica.<br />

Abruzzo d’Oggi fu inoltre anche lo strumento che ci permise di portare al PCI tutta una<br />

generazione di intellettuali, non solo per l’attenzione prestata dal quindicinale alle lotte<br />

studentesche di quegli anni nelle scuole e nelle due Università de l’Aquila e di Chieti-<br />

Pescara, ma anche per il fatto che diversi docenti universitari vi avevano rubriche fisse<br />

o comunque vi pubblicavano propri articoli.<br />

Da Abruzzo d’Oggi venne al PCI abruzzese anche un contributo decisivo al superamento<br />

di una mentalità, assai diffusa allora nelle nostre file, ancora largamente legata al<br />

campanile, che faticava a riconoscere la necessità di una visione regionale, e perciò<br />

moderna, delle scelte che s’imponevano per il progresso dell’Abruzzo. E questo consentì<br />

al partito, in anni nei quali il campanilismo (all’origine dei fatti de l’Aquila e utilizzato<br />

largamente dalla DC abruzzese per la sua battaglia politica interna e contro la sinistra)<br />

continuava ad arre<strong>care</strong> danni gravissimi alla regione, di divenire punto di riferimento<br />

anche di ceti che fino a quel momento avevano prevalentemente guardato allo Scudo<br />

Crociato o agli altri partiti suoi alleati.<br />

Ma non ci fu solo la pubblicazione di Abruzzo d’Oggi tra i meriti di Trivelli.<br />

A lui si deve anche il legame particolare che si creò in quegli anni tra molti dirigenti<br />

nazionali del PCI e l’Abruzzo. Fu un fatto importante, che ci aiutò ad avere più fiducia<br />

in noi stessi, a sprovincializzare la nostra cultura politica, a maturare una visione più<br />

alta dei problemi della regione.<br />

Particolarmente importante da questo punto di vista fu il rapporto con Enrico Berlinguer<br />

che restò, anche dopo l’andata via di Trivelli dall’Abruzzo, uno dei più assidui<br />

frequentatori della nostra regione. Tanto intenso, anzi, fu il suo legame con l’Abruzzo<br />

che egli, anche nei comizi, era portato spesso a sottolineare la esistenza di una particolare<br />

affinità tra l’Abruzzo e la Sardegna, la sua regione di origine.<br />

Berlinguer, tra l’altro, non si limitò solo a capeggiare la lista del PCI alla Camera dal<br />

1972 al 1983 (fu appunto il 1983, se non ricordo male, l’ultima volta che lo fece)); o<br />

a tenere comizi nei vari capoluoghi della regione durante gli appuntamenti elettorali o<br />

referendari.<br />

Egli accettava anche di visitare realtà minori nelle varie province e si sobbarcava perfino<br />

lunghi e faticosissimi giri in una serie di paesi e paesini, come accadde ad esempio nei<br />

primi anni ‘80 quando accolse una richiesta di tal genere della federazione di Chieti. A<br />

memoria di tutti una cosa simile non era mai accaduto prima con un segretario nazionale<br />

del PCI, Longo infatti non era mai venuto in Abruzzo (almeno da segretario) e Togliatti<br />

venne solo due volte: una, nella Marsica, in occasione dei morti di Celano e, che io<br />

sappia, l’altra a l’Aquila.<br />

Trivelli diresse il PCI abruzzese fino alla primavera del 1975 quando, all’indomani del<br />

XIV Congresso nazionale, venne richiamato a Roma per entrare nella segreteria nazionale<br />

come responsabile, se ben ricordo, della propaganda. L’Abruzzo, insomma, gli aveva<br />

portato bene.<br />

Del resto, la sua segreteria coincise con la massima espansione conosciuta dal PCI<br />

abruzzese, come numero di iscritti, forza elettorale e influenza politica. Quello, era<br />

181


certo un periodo particolare per il PCI anche a livello nazionale, ma egli, come tutti noi<br />

d’altra parte nelle varie realtà della regione, ci mise molto di suo.<br />

Renzo Trivelli continuò a frequentare l’Abruzzo anche dopo il suo ritorno a Roma:<br />

non solo per partecipare a iniziative di partito ma anche per stare assieme, meglio se di<br />

fronte a una buona tavola, ai compagni con i quali aveva ormai una lunga dimestichezza<br />

e che gli erano diventati anche amici.<br />

Renzo era, come si dice, una buona forchetta, un buongustaio; né si rifiutava in genere<br />

ad altri piaceri della vita, e, se lo si invitava, raramente declinava l’invito.<br />

Ricordo, ad esempio, quando l’invitai, una estate di tanti anni fa, a venirci a trovare a<br />

Villalago: bene, non si fece davvero pregare, anche perché sapeva che avrebbe trovato<br />

dell’ottimo agnello alla brace...<br />

Ricordo anche, quand’era ancora segretario regionale, che le riunioni finivano quasi<br />

sempre in qualche trattoria dove si mangiava bene e a poco prezzo. Questo accadeva,<br />

naturalmente, anche quando arrivava Berlinguer, anche se l’atmosfera (come anche il<br />

ristorante) era un po’ più ufficiale: c’erano di solito, oltre a Trivelli, i cinque segretari di<br />

federazione, qualche altro compagno della segreteria regionale, l’immancabile Tonino<br />

Tatò e ovviamente Berlinguer che mangiava, come sempre, pochissimo, al contrario<br />

degli altri che in genere non si risparmiavano, e partecipava anche molto sobriamente<br />

alla discussione.<br />

A Renzo sono stato legato da una buona amicizia, anche se le occasioni di incontro sono<br />

state quasi sempre quelle ufficiali; e a lui debbo molto sul piano politico e della mia<br />

stessa cultura politica: mi diede fiducia e mi aiutò ad allargare, se così posso esprimermi,<br />

i miei orizzonti di dirigente.<br />

Mi ha dato una mano anche quando fui inviato dalla Direzione nazionale del PCI in<br />

Molise: non solo partecipando al Congresso regionale, che si svolse appena qualche<br />

mese dopo il mio arrivo a Campobasso in una situazione interna di partito non certo<br />

facile, e alle altre iniziative a cui l’invitai, ma anche spendendo i suoi buoni rapporti<br />

a livello centrale con compagni autorevoli perché nella primavera del 1983 potessi<br />

tornare in Abruzzo ed essere eletto in Parlamento: senza il consenso della Direzione<br />

nazionale e segnatamente della Sezione di Organizzazione (cioè di chi allora la dirigeva,<br />

Adriana Seroni, la quale era sempre molto esigente), questo non sarebbe stato possibile<br />

o, comunque, sarebbe stato piuttosto difficile.<br />

Anche in provincia di Chieti il PCI conobbe, durante gli anni della mia segreteria,<br />

un crescente sviluppo della sua forza organizzata e della sua influenza elettorale e<br />

politica.<br />

Ma cosa determinò tutto questo?<br />

Certo, in quegli anni in Italia la spinta a fuoriuscire dalla cappa di piombo che aveva<br />

avvolto l’Italia fino a quel momento si era fatta sempre più forte.<br />

Il Paese aveva bisogno di entrare anche dal punto di vista dei diritti e delle condizioni di<br />

lavoro e di vita della gente nel novero delle nazioni moderne ed avvertiva perciò sempre<br />

di più come un ostacolo sulla via della sua modernizzazione, fondata sull’equità sociale<br />

e sui diritti, l’assenza di un ricambio nel governo nazionale: sempre la DC e ancora la<br />

DC, perno fisso di un mondo sempre più immobile...<br />

182


Cos’altro del resto volevano dire le lotte studentesche del ‘68, al di là dei tanti estremismi<br />

che l’hanno caratterizzato, se non questo? O le grandi lotte operaie del ‘69? O le stesse<br />

lotte che ci sono state nella nostra provincia negli anni ‘60, contro la mancanza di<br />

lavoro, l’emigrazione, i bassi salari e l’assenza di ogni diritto laddove c’era lavoro? O<br />

le lotte degli studenti per avere l’Università anche in Abruzzo, pur nelle forme distorte<br />

imposte dalla DC?<br />

Montava dunque in tutto il Paese una sempre più irresistibile voglia di cambiamento.<br />

Neanche il centro-sinistra, che aveva soppiantato una politica centrista fatta di<br />

immobilismo e di repressione delle lotte dei lavoratori, si era dimostrato all’altezza;<br />

anzi, dopo i primi tentativi di riforma, aveva dovuto cedere alle pressioni che venivano<br />

da destra e si era impantanato entrando in una agonia senza prospettive.<br />

Chi impresse una svolta decisiva a una situazione, quale quella dei primi anni ‘70, che<br />

rischiava di trasformarsi in una rottura profonda tra le esigenze di cambiamento della<br />

gente e quel che offriva la cucina politica della DC e delle forze ad essa alleate, fu<br />

Enrico Berlinguer, con la proposta del compromesso storico.<br />

Essa era in realtà una proposta che puntava non solo a riportare i comunisti al governo,<br />

dopo la loro cacciata nel 1946, ma anche a creare le condizioni, nel futuro, di una normale<br />

alternanza nel governo del Paese, realizzando intanto quella che appariva allora l’unica<br />

possibile alternanza ai governi che si erano succeduti fino a quel momento: un governo<br />

che comprendesse anche i comunisti, fondato sull’accordo tra cattolici e comunisti.<br />

Ma le cose, come sappiamo, sono andate diversamente; e, purtroppo, le speranze che<br />

allora si raccolsero, in modo mai così massiccio, attorno a questa proposta, non solo<br />

naufragarono miseramente, di lì a qualche anno, ma si trasformarono addirittura, dopo<br />

il fallimento della solidarietà nazionale, nel trampolino di lancio, negli anni ‘80, di una<br />

coalizione, che comprendeva anche il PSI di Craxi, che oggi definiremmo di centrodestra.<br />

La svolta fu determinata dalla uccisione di Moro, il 9 maggio del 1978, da parte delle<br />

Brigate rosse che poterono godere di complicità diffuse all’interno degli apparati dello<br />

Stato e, sul piano internazionale, del sostegno di forze oscure ma ben decise ad impedire,<br />

con ogni mezzo, il possibile ritorno dei comunisti al governo dell’Italia.<br />

Moro, infatti, fu, tra i dirigenti della DC, quello che, prima di altri, aveva compreso la<br />

necessità e l’urgenza di una normalizzazione democratica in un paese che non era più<br />

in grado di sopportare un sistema politico immobile e chiuso e fu l’unico, comunque il<br />

più determinato, a dare una sponda alla proposta di Berlinguer, ma fu proprio questa sua<br />

scelta lungimirante e coraggiosa a costargli la vita.<br />

Con la scomparsa di Moro, fu subito evidente che il progetto di Berlinguer non aveva<br />

più futuro e non poteva perciò che andare incontro a una sconfitta cocente e irrimediabile<br />

come difatti avvenne di lì a pochi mesi, con la sconfitta subìta dal PCI nelle elezioni<br />

politiche del 1979.<br />

Tuttavia, al di là del suo esito fallimentare, la proposta di compromesso storico lanciata<br />

da Berlinguer nell’autunno del 1973 rimise in movimento tutta la situazione politica<br />

italiana, rintuzzando anche la controffensiva di natura reazionaria della destra fascista<br />

e neutralizzando il tentativo, messo in atto da forze come le Brigate rosse e gli altri<br />

movimenti estremisti nati dal ‘68, di spostare su un terreno eversivo la spinta al<br />

183


cambiamento che saliva dal Paese; e diede inoltre un punto di riferimento concreto a<br />

chi si batteva per modernizzare l’Italia.<br />

Il merito dei gruppi dirigenti del PCI che lavoravano nelle tante realtà della provincia<br />

italiana fu quello di muoversi con convinzione e coerenza su questa linea, aprendo il<br />

partito a forze nuove e mettendolo in condizione di porsi alla testa di un movimento<br />

diffuso e articolato non solo in difesa del lavoro, ma anche per aprire nuove prospettive di<br />

sviluppo ai propri territori, conquistare più giustizia sociale e diritti, rinnovare l’Italia.<br />

Da questo punto di vista, in provincia di Chieti noi non fummo da meno degli altri.<br />

Anzi, demmo vita a movimenti e lotte assolutamente originali.<br />

Tali, ad esempio, furono le lotte contro l’insediamento della Sangro-Chimica, una<br />

raffineria che si voleva impiantare alla foce del Sangro, che avrebbe avuto effetti<br />

devastanti sull’ambiente e sull’agricoltura della costa e della vallata. Altrove, come ad<br />

esempio a Gela in Sicilia, proposte analoghe vennero accolte perché davano lavoro,<br />

senza preoccuparsi dei guasti che si portavano dietro; e gli effetti col tempo si sono ben<br />

visti...<br />

Togliere di mezzo la Sangro-Chimica non fu semplice. Fu necessaria una battaglia,<br />

lunga diversi anni, fatta di lotte popolari e iniziative nelle istituzioni (enti locali,<br />

Consiglio regionale, Parlamento), animata soprattutto dai contadini della vallata (a<br />

partire da quelli di Fossacesia) ma anche dai ceti cittadini; e alla fine la spuntammo,<br />

propiziando in questo modo anche l’arrivo della FIAT (che non gradiva la presenza<br />

della raffineria), con l’insediamento, sotto Atessa, della SEVEL per la produzione di<br />

veicoli commerciali.<br />

Le amministrazioni locali, guidate dalla sinistra (capofila Paglieta, che avevamo<br />

conquistato proprio nel ‘70, con Enrico Graziani come sindaco) e il PCI in quanto<br />

tale furono gli architravi del movimento, pur nulla togliendo a spezzoni del PSI e di<br />

altre forze politiche e a gruppi e personalità del mondo della cultura locale: senza la<br />

nostra forza e la presenza di questi Comuni non so se quel movimento sarebbe nato e se<br />

soprattutto avrebbe avuto la capacità di durare così a lungo.<br />

(Sia detto tra parentesi: ma a questo punto, <strong>care</strong> Valentina e Benedetta, debbo informarvi<br />

che a queste importantissime lotte partecipava anche l’allora sindaco socialista di Torino<br />

di Sangro che era, indovinate un po’?, nonno Mingo).<br />

Anche le lotte per il lavoro, che interessarono particolarmente lo Scalo di Chieti e il<br />

cui punto più alto fu rappresentato dalle lotte della Marvin Gelber, ebbero un carattere<br />

assai peculiare per il ruolo che in esse svolse il PCI, che fu assai maggiore rispetto<br />

a quello esercitato dagli stessi sindacati; così come le lotte contadine di quegli anni,<br />

particolarmente nell’ortonese, contro l’insediamento di industrie inquinanti come<br />

l’Hortonium.<br />

Non furono perciò dovuti al caso i risultati che riuscimmo ad ottenere sia sul piano<br />

dell’accrescimento della nostra forza organizzata che nel referendum sul divorzio, nel<br />

1974, e poi nelle regionali del 1975 e nelle politiche del 1976. Furono invece il frutto<br />

della nostra fatica, della nostra intelligenza, di una iniziativa diffusa che vide impegnato<br />

tutto il partito. E si trattò di risultati particolarmente importanti, ben più straordinari,<br />

considerati i punti di partenza, di quelli conseguiti in realtà della regione dove la nostra<br />

forza era già significativa.<br />

184


Ci aiutò, in questo, sicuramente anche la presenza, a livello provinciale e nelle sezioni,<br />

di un gruppo dirigente molto unito e solidale e, soprattutto, di buona qualità, all’interno<br />

del quale un particolare contributo di lavoro e di idee venne dai cosiddetti compagni<br />

dell’apparato come Mimmo Bafile, Gianfranco Console, Michele Di Vito e Antonio<br />

Giannantonio.<br />

Alle loro spalle non c’era una lunga esperienza politica, qualcuno come Michele<br />

proveniva dall’esperienza del PSI, qualcun altro come Giannantonio si era formato<br />

nelle lotte studentesche del ‘68 alla Sapienza di Roma, solo Mimmo Bafile e Gianfranco<br />

Console avevano maturato una esperienza di più lunga data nel PCI, Gianfranco<br />

a Pescara e Mimmo con me e D’Alonzo in federazione, ma avevano tutti gioventù,<br />

intelligenza, cultura e voglia di lavorare.<br />

Si deve dunque fondamentalmente a Enrico Berlinguer se, negli anni ‘70, la vicenda<br />

politica italiana prese una certa direzione piuttosto che un’altra; ed è proprio per questa<br />

ragione che la sua figura, assieme a quella di Moro, dominò la scena politica italiana<br />

nel decennio.<br />

Non mi pare però il caso di entrare qui ulteriormente nel merito della politica portata<br />

avanti in quegli anni dal segretario nazionale del PCI.<br />

Sicuramente, dopo la sconfitta subìta dalla politica di solidarietà nazionale, Berlinguer<br />

ebbe difficoltà a delineare un’altra strategia. Le sue scelte, anzi, dalla proposta di<br />

alternativa democratica alla proclamazione della questione morale e della diversità del<br />

PCI che pure coglieva il nodo della moralità della politica e della necessità di una<br />

riforma profonda del ruolo dei partiti nel rapporto con le istituzioni, misero tuttavia<br />

i comunisti in un vicolo cieco che diede spazio alla politica di Craxi e della destra<br />

democristiana. Il rapporto difficile con il PSI aiutò, a guardar bene, più la politica di<br />

Craxi che la nostra e, a conti fatti, contribuì all’avvio della politica italiana su una china<br />

che doveva concludersi con la crisi dei partiti nati dalla Resistenza e l’inizio di quel<br />

declino dell’Italia che continua tuttora e, anzi, oggi si è fatto ancora più minaccioso.<br />

Qui ci sarebbe da discutere anche sulla difficoltà di Berlinguer ad aprire una riflessione<br />

sul ruolo del PCI in una situazione interna e internazionale che, soprattutto sotto questo<br />

punto di vista, stava già mutando profondamente e che di lì a qualche anno sarebbe<br />

precipitata con la caduta del Muro di Berlino e la crisi dell’URSS.<br />

Berlinguer avvertì sicuramente i segni della crisi incombente e si era andato via via<br />

convincendo, non solo della illiberalità del sistema sovietico, ma anche della sua<br />

sostanziale irriformabilità.<br />

Le innovazioni introdotte nella politica internazionale del PCI, con la dichiarazione che<br />

egli si sentiva più a suo agio sotto l’ombrello della Nato che non del Patto di Varsavia; e<br />

nel rapporto con il comunismo sovietico attraverso la proclamazione della democrazia<br />

come valore universale e la presa d’atto dell’esaurimento della spinta propulsiva della<br />

Rivoluzione d’Ottobre, muovevano certamente da queste convinzioni.<br />

Anche il tentativo di lanciare la terza via in Europa, l’eurocomunismo, con la ricerca di<br />

un rapporto con la socialdemocrazia, aveva certamente la stessa origine, ma fu chiaro<br />

abbastanza rapidamente che su questa strada non si sarebbe andati lontano.<br />

C’era bisogno di andare oltre, di far emergere fino in fondo la natura socialdemocratica<br />

185


e riformista del PCI così come essa si era andata modellando nel lungo cammino<br />

fatto durante la seconda metà del secolo scorso, sotto la spinta innanzitutto di<br />

Togliatti, avviando così un processo reale di fuoriuscita del PCI dalla tradizione<br />

terzinternazionalista e tagliando in modo definitivo i residui legami con il comunismo<br />

sovietico e internazionale.<br />

Non credo che Berlinguer non abbia avuto il tempo, a causa della sua morte prematura,<br />

per una scelta così radicale che avrebbe mutato profondamente la storia del Paese, oltre<br />

che della sinistra. Sono convinto invece che una simile eventualità fosse del tutto fuori<br />

dal suo orizzonte politico e culturale, anche se in politica, di fronte all’evidenza dei<br />

fatti, nulla è mai da escludere.<br />

Ma non è di queste cose, mie <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>ne, che qui voglio parlarvi.<br />

Su queste cose rifletteranno gli studiosi e deciderà la storia. Resta comunque il fatto<br />

che Berlinguer è stato, nella storia del PCI, uno dei suoi dirigenti più carismatici e<br />

certamente il più amato, anche tra chi non votava comunista. La sua figura, anzi, a<br />

distanza di tanti anni dalla sua morte, ancora oggi giganteggia nell’immaginario del<br />

popolo di sinistra. Evidentemente, al di là del giudizio sulla sua politica, rimane ancora<br />

salda nel cuore di tanti italiani la sua immagine di politico fuori degli schemi: sobrio,<br />

riservato, disinteressato, animato sempre da una tensione morale altissima, il contrario<br />

insomma di come tradizionalmente gli italiani si raffigurano il politico. Io ho avuto<br />

occasione, nella mia qualità di dirigente sia pur periferico del PCI, di conoscere Enrico<br />

Berlinguer un po’ più da vicino di tanti altri; e capisco quindi le ragioni di un affetto e<br />

comunque di un apprezzamento che non a caso si stanno dimostrando capaci di durare<br />

nel tempo.<br />

Di lui, invece, voglio raccontarvi le piccole cose che hanno a che fare con alcune delle<br />

tante volte che ho avuto modo di incontrarlo, prima come segretario della federazione<br />

di Chieti, poi come membro della segreteria regionale, infine come segretario regionale<br />

del Molise e, dopo il 1983, come deputato.<br />

La prima volta che ho avuto la possibilità di scambiare qualche parola con Berlinguer,<br />

all’epoca egli era ancora il vice di Luigi Longo, fu alla Conferenza nazionale della<br />

scuola indetta dal PCI nel 1971.<br />

Non ricordo la città nella quale la Conferenza si svolgeva, ricordo però che, quando<br />

arrivarono le prime notizie sui fatti de l’Aquila, io (essendo l’unico segretario di<br />

federazione dell’Abruzzo presente) e qualche altro compagno raggiungemmo subito<br />

Berlinguer dietro il palco della presidenza per avere notizie più precise su quel che stava<br />

accadendo e lui non si lasciò affatto pregare per darcele (ricordo anche che, subito dopo<br />

questo breve colloquio, intervenne Alessandro Natta in assemblea per una prima presa<br />

di posizione pubblica del PCI).<br />

Berlinguer, insomma, non era di quelli che non ti sentiva se gli parlavi o, se lo incontravi,<br />

faceva finta di non vederti, e vi assicuro, mie <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>ne, che ce ne sono stati e ne ho<br />

incontrati alcuni anche nel PCI...<br />

La grande statura politica e culturale di Berlinguer avevo avuto però modo di<br />

apprezzarla già qualche anno prima, ascoltando il discorso conclusivo che egli tenne<br />

al XII Congresso nazionale del PCI a Bologna, nel 1969, al quale ero delegato: da quel<br />

discorso rimasi particolarmente colpito, ne fui anzi entusiasta, come d’altronde tutta la<br />

186


platea dei congressisti che, in piedi, l’applaudì lungamente.<br />

Quando egli divenne segretario del partito e cominciò a frequentare l’Abruzzo, ebbi<br />

modo naturalmente di conoscerlo un po’ meglio, anche come persona.<br />

Ma di questi successivi incontri con Berlinguer ne voglio ricordare solo alcuni.<br />

Il primo è quando venne a Chieti per il referendum sul divorzio.<br />

Tra le tante cose di quei due giorni che passò in città, ricordo che mi colpirono in<br />

particolare la passeggiata che fece per Corso Marrucino e alla Villa comunale,<br />

fermandosi a scambiare qualche parola con i cittadini che lo fermavano per strada<br />

(tra questi ci fu anche un sardo con il quale si mise a chiacchierare in dialetto), e poi<br />

l’incontro, in federazione, con le compagne e i compagni impegnati nella campagna<br />

referendaria, quasi tutti allora giovanissimi; a quell’incontro erano presenti anche<br />

mia moglie, molto attiva anch’essa nel lavoro per il referendum, e i miei figli ancora<br />

piccolini (Massimiliano, nel ‘74, aveva 10 anni e Stefano 7) ai quali Berlinguer regalò<br />

qualche parola e una <strong>care</strong>zza.<br />

L’altro incontro che mi è rimasto nella memoria è stato quello di Avezzano, del 18<br />

maggio del 1976, in occasione delle elezioni politiche, quando diede inizio a una<br />

esperienza del tutto originale nel rapporto con il pubblico.<br />

Anziché il tradizionale comizio, egli scelse infatti di rispondere alle domande postegli<br />

da giornalisti, da rappresentanti di altre forze politiche, da persone del pubblico, anche<br />

se poi la gran parte delle domande venne dai giornalisti (erano presenti anche giornalisti<br />

stranieri), mentre da esponenti di altri partiti solo una (fatta dal segretario marsicano del<br />

PSDI) e due o tre da comuni cittadini, tra i quali una studentessa.<br />

L’iniziativa venne grandemente apprezzata, non solo dalla gente che partecipò in massa,<br />

ma anche dalla stampa nazionale ed estera che il giorno dopo le diede molto rilievo: il<br />

partito abruzzese la ripeté poi, con i propri dirigenti, per qualche anno, anche in altre<br />

occasioni elettorali, soprattutto nei paesi.<br />

Ma anche di questo incontro ricordo un particolare che mi colpì. Al ristorante, io ero<br />

tra i commensali in quanto membro della segreteria regionale, non solo Berlinguer,<br />

sempre così schivo e riservato (anche se non era un musone, come qualcuno ha cercato<br />

di dipingerlo), fu più loquace del solito ma acconsentì anche a fare un breve brindisi,<br />

forse la riuscita della serata e un certo ottimismo sul risultato che avremmo avuto alla<br />

prova delle urne lo avevano messo particolarmente di buon umore!<br />

L’ultimo incontro che voglio ricordare si colloca in uno scenario diverso, quello del<br />

Molise, dove mi trovavo come segretario regionale del PCI molisano.<br />

Ricordo, quando arrivai a Campobasso, appena dopo i primi contatti con i compagni,<br />

che mi furono subito chiare le difficoltà che mi attendevano; così, per far fronte meglio<br />

alla situazione e tentare di ricostruire un clima diverso nel partito, qualche mese dopo<br />

il mio arrivo cominciai a pensare a una manifestazione pubblica con Berlinguer nella<br />

regione.<br />

Le cose nel partito molisano non andavano per niente bene. E le rotture interne, che<br />

avevano provocato la elezione di un segretario regionale proveniente da un’altra<br />

regione (anche se per lungo tempo l’Abruzzo e il Molise sono stati un’unica regione),<br />

continuavano ad avvelenare i rapporti tra i compagni, con riflessi assai negativi<br />

naturalmente sulla capacità di mobilitazione e di iniziativa esterna del partito: la presenza<br />

187


di Berlinguer avrebbe certamente dato una mano a superare questa situazione.<br />

Cercai così di contattarlo, anche se, a essere sincero, ero piuttosto scettico sull’esito<br />

dell’impresa. Ma provai ugualmente, approfittando di una riunione del Comitato<br />

Centrale alla quale ero stato invitato come segretario regionale.<br />

Al biglietto che gli feci avere durante il dibattito Berlinguer rispose subito, ma facendomi<br />

sapere che al momento, eravamo agli inizi della primavera, aveva già troppi impegni in<br />

calendario, così anche per l’estate, più in là avrebbe cercato comunque di soddisfare la<br />

mia richiesta.<br />

La risposta non mi parve molto incoraggiante, mi sembrava anzi piuttosto un modo<br />

elegante per dirmi di non sperare molto in una sua venuta in Molise. Ma non fu così:<br />

Berlinguer non era di quelli usi a promettere prima e poi a gabbare i santi e gli uomini<br />

naturalmente.<br />

Quell’anno, siamo nel 1982, la Direzione aveva deciso di organizzare in tutte le regioni<br />

attivi di partito, con la partecipazione di dirigenti nazionali, per il lancio della campagna<br />

di tesseramento 1983. Nel 1982, infatti, effetto certamente del fallimento della politica<br />

di solidarietà nazionale, si era registrato un certo calo degli iscritti rispetto agli anni<br />

precedenti e si voleva dare uno scossone, anche in previsione delle elezioni politiche<br />

che si sarebbero svolte nella primavera dell’anno successivo, a tutto il partito. E a<br />

Campobasso doveva venire Adriana Seroni, che era diventata nel frattempo responsabile<br />

nazionale di organizzazione.<br />

Ma non vi dico quale fu la mia sorpresa quando, credo fossimo ai primi di settembre,<br />

la stessa Seroni mi telefonò per dirmi che all’attivo avrebbe partecipato Berlinguer, per<br />

una scelta decisa dallo stesso segretario che non aveva dimenticata la promessa fattami<br />

alcuni mesi prima.<br />

Così, qualche settimana dopo la telefonata della Seroni, andammo a Roma da Berlinguer<br />

che, come faceva normalmente in queste occasioni, volle essere informato minutamente<br />

sul partito, la vita politica regionale e i problemi della gente, e concordare natura e<br />

tempi della sua presenza. Ricordo anche che volle che gli portassimo documenti che lo<br />

aiutassero a capire meglio le cose del Molise: tra questi, gli facemmo avere ovviamente<br />

anche il documento che avevamo preparato per il Congresso regionale del partito<br />

che si era svolto diversi mesi prima, un documento scritto a più mani e contenente<br />

più di una contraddizione, a causa dei contrasti che dividevano il gruppo dirigente.<br />

Ebbene, ricordo che Berlinguer, che l’aveva letto e non semplicemente scorso, mentre<br />

ci recavamo in auto da Isernia verso Campobasso, non solo me lo fece notare ma volle<br />

anche un supplemento di informazioni sul partito in Molise.<br />

La sua visita durò addirittura tre giorni e fu molto intensa, non sto a ricordare naturalmente<br />

la grande eco che essa ebbe tra i molisani: Berlinguer era il primo segretario nazionale di<br />

un grande partito, oltre che il primo segretario del PCI, che metteva piede in Molise.<br />

La prima tappa fu Isernia, dove giunse il venerdì mattina del 22 ottobre; e lì egli si<br />

fermò a visitare il museo che ospita il cosiddetto homo haeserniensis, un homo erectus<br />

ritrovato nella zona.<br />

Il soggiorno a Isernia fu, tuttavia, assai breve, il tempo appunto della visita al museo e<br />

di un rapido incontro con le televisioni locali e con la stampa, perché nel pomeriggio<br />

di quello stesso giorno era fissato a Campobasso l’attivo regionale del partito: così ci<br />

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dirigemmo subito verso il capoluogo molisano, all’Hotel Scanderberg, dove Berlinguer<br />

consumò velocemente un pasto frugale e si concesse un po’ di riposo prima di partecipare<br />

all’attivo.<br />

L’attivo fu molto travagliato, durò ben cinque ore, e nel dibattito irruppero in modo<br />

piuttosto violento le rotture che da lungo tempo dilaniavano il gruppo dirigente.<br />

Berlinguer, tuttavia, cercò di volgere in positivo lo scontro al quale aveva assistito e<br />

ricordo che, per incoraggiare i compagni, disse che in fondo il consenso elettorale di cui<br />

disponeva il PCI molisano non era inferiore a quello raccolto dai comunisti francesi! Io,<br />

invece, fui molto contrariato dall’andamento dell’attivo: mi sembrava che i compagni<br />

stessero sciupando un’opportunità, cosa di cui sono convinto ancora oggi.<br />

La visita di Berlinguer proseguì, il giorno dopo, con un incontro, la sera, con i cittadini<br />

di un quartiere popolare di Campobasso, il CEP, che si erano organizzati in Comitato<br />

per rivendi<strong>care</strong> la soluzione di numerosi problemi, in particolare quello della mancanza<br />

d’acqua, e l’avevano invitato a recarsi da loro. C’era una grande folla e molta curiosità,<br />

naturalmente, nei confronti del segretario del PCI che Berlinguer non deluse quando<br />

prese la parola, sia pure per un intervento molto breve.<br />

La visita si concluse la domenica mattina, con un grande comizio in piazza al quale<br />

parteciparono cittadini di ogni colore e da tutta la regione: il PCI, insomma, registrò un<br />

grande successo tra l’opinione pubblica molisana, ma all’interno le cose non cambiarono<br />

di molto...<br />

Da deputato, non mi è capitato di incontrare spesso Berlinguer. Non solo egli non era<br />

tra i frequentatori più assidui della Camera, ma anche quando era presente per votazioni<br />

importanti, appena finita la seduta, di solito scappava subito via.<br />

Berlinguer, tuttavia, non era il tipo che snobbava la disciplina di gruppo, di cui invece<br />

era sempre molto rispettoso, per cui non mancava mai alle sedute della Camera per le<br />

quali il gruppo aveva stabilito l’obbligo della presenza.<br />

Ricordo a questo proposito un episodio.<br />

Nel corso di una seduta, dopo che si erano già svolte alcune votazioni, Berlinguer,<br />

convinto evidentemente che non fosse più necessaria la sua presenza, si alza dal suo<br />

scranno di deputato, raccoglie le carte che si portava sempre dietro e fa per andare<br />

via, ma ecco, a quel punto, un fermo! perentorio e quasi gridato di Mario Pochetti, il<br />

segretario del gruppo comunista, un vero mastino, che aveva l’ingrata incombenza di<br />

garantire le presenze dei compagni in aula: Berlinguer si blocca di colpo e si rimette<br />

subito a sedere, senza fiatare.<br />

Berlinguer fu molto presente invece a Montecitorio durante le settimane<br />

dell’ostruzionismo condotto dal PCI contro il decreto del governo Craxi sulla scala<br />

mobile; e nel corso di quella battaglia ascoltammo diversi suoi interventi sia nelle<br />

riunioni del gruppo parlamentare che in aula.<br />

In quel periodo, anzi, si affacciava spesso alla Camera, anche quando non erano previsti<br />

suoi discorsi per confortare, diciamo così, i compagni impegnati a turno, per tutto<br />

il periodo dell’ostruzionismo, a essere presenti o a parlare in aula anche di notte e<br />

durante i giorni festivi. Era difficile però che egli, anche in quelle occasioni, si mettesse<br />

a chiacchierare con i compagni: c’era, da parte sua, la solita riservatezza, che non<br />

incoraggiava cameratismi di sorta, anzi avevamo tutti una certa soggezione nei suoi<br />

189


confronti per cui non accadeva mai, che io ricordi, che qualcuno l’avvicinasse, se non<br />

per una ragione specifica, e si mettesse a chiacchierare con lui di quel che in quei giorni<br />

stava accadendo in Parlamento e nel Paese.<br />

Da questo punto di vista, Berlinguer era l’esatto contrario di Natta che, dopo la sua<br />

morte, l’avrebbe sostituito alla segreteria del PCI.<br />

Natta, uomo molto colto e fine anche come politico, amava invece intrattenersi con i<br />

compagni seduto su uno dei divani del Transatlantico, il cosiddetto corridoio dei passi<br />

perduti della Camera, sia quand’era capogruppo che dopo la sua elezione a segretario.<br />

Com’è noto, Enrico Berlinguer è morto a Padova, ai primi di giugno del 1984, durante<br />

un comizio per le elezioni europee, stremato dalla fatica. Egli non era di quelli che<br />

si sottraevano agli impegni e quell’anno, tra la battaglia contro la scala mobile e gli<br />

impegni elettorali, il suo fisico cedette.<br />

I giorni della sua agonia e poi della sua morte furono giorni tristi per tutti. L’Italia intera<br />

stava col fiato sospeso in attesa di notizie e, quando morì, Sandro Pertini, il Presidente<br />

della Repubblica, espresse per tutti lo sgomento che aveva colto indistintamente gli italiani<br />

per la immatura e tragica scomparsa del capo del PCI, e diede contemporaneamente<br />

voce all’affetto che legava tanta parte del nostro popolo a un uomo che aveva saputo<br />

esprimerne le qualità più alte.<br />

Quanto forte fosse questo legame lo si vide, del resto, nei giorni in cui la sua salma restò<br />

esposta nella camera ardente allestita nell’atrio di Botteghe Oscure, quando interminabili<br />

file di cittadini di ogni convinzione e di ogni ceto sostarono lungo le strade adiacenti<br />

alla Direzione del PCI in attesa di potergli rendere l’estremo omaggio, e poi nel giorno<br />

del funerale a cui partecipò una folla immensa.<br />

Anch’io, assieme a mia moglie e ai miei figli, andai a rendergli omaggio a Botteghe<br />

Oscure ed ebbi anche l’onore, con tutta la mia famiglia, di fare un turno di guardia<br />

davanti alla sua salma; e il giorno del funerale seguimmo anche noi il corteo e fummo<br />

a Piazza S. Giovanni.<br />

Con Berlinguer se ne andò l’ultimo dei grandi dirigenti del PCI; ma con lui scomparve<br />

anche un maestro di vita, rigoroso, coerente, capace di porre tutto se stesso a servizio dei<br />

grandi ideali di libertà e giustizia sociale che hanno animato l’intera sua vita, gli stessi<br />

ideali, come lui volle sottolineare in una intervista alla stampa, della sua giovinezza, ai<br />

quali aveva voluto restare fedele per tutta la vita.<br />

E adesso, mie <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>, spero mi permetterete, prima di proseguire nel mio racconto,<br />

una divagazione un po’ bizzarra che però contiene anche una morale.<br />

Divagazione nel senso comune significa uscire fuori del seminato, ma può anche<br />

signifi<strong>care</strong> svago che, in fondo, è anch’esso un modo di allontanarsi dalla strada maestra,<br />

uscendo dalla solita routine; e a me divagare e divagarmi ogni tanto piace, è come<br />

prendere un caffè quando si è un po’ stanchi o concedersi un intermezzo musicale di una<br />

certa vivacità quando si è sul punto di precipitare nella monotonia.<br />

Ma veniamo alla nostra divagazione...<br />

190


ElOgIO dEllA CICAlA<br />

Quand’ero ragazzo, mi piaceva molto ascoltare il canto delle cicale.<br />

Allora abitavamo in campagna; e, d’estate, c’erano dei giorni, quando la calura si faceva<br />

insopportabile, che tutta la campagna era un concerto di questi piccoli insetti alati dal<br />

corpo bruno: un concerto fatto di suoni striduli, raramente variati, che esprimevano però<br />

assai bene lo straniamento dell’ora quando la canicola ardente ti attira nel suo cerchio.<br />

Se, mie <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>, quando sarete grandi, qualche volta, d’estate, proverete, durante<br />

le ore più calde del giorno, a sdraiarvi all’ombra di un albero e ad abbandonarvi al<br />

frinire roco delle cicale, forse sentirete anche voi allora come qualcosa di indefinibile<br />

impadronirsi di voi, del vostro cervello, della vostra anima, qualcosa che è insieme<br />

sogno e sonnolenza, abbandono e magia.<br />

Il canto delle cicale, dunque, era parte, quand’ero ragazzo e ancora negli anni<br />

dell’adolescenza e della prima giovinezza, di quelle piccole cose che suscitavano<br />

sempre in me un piacere assai intenso, fatto di sensualità e ricerca di purezze ancestrali.<br />

Come anche la nenia lamentosa dei grilli e lo spettacolo delle lucciole sulle colline, la<br />

sera d’estate, oggi del tutto scomparso, o il gracidare delle rane che saliva dal vallone<br />

o, ancora, il tralucere dell’azzurro del cielo tra le foglie degli alberi quando vengono<br />

mosse da una brezza leggera...<br />

Tempo addietro, scartabellando tra le mie carte di tantissimi anni fa, mi è capitato di<br />

ritrovare nel Diario che ho tenuto negli anni ‘54-’58, gli anni della mia maturazione<br />

intellettuale e politica, dei versi che sono l’inizio di una poesia, poi mai portata a<br />

termine, che mi paiono belli ancora oggi:<br />

Gli occhi possono soltanto vedere<br />

la polvere e la terra,<br />

ma sentire ciò con il cuore<br />

è pura gioia...<br />

Proprio così: sentire con il cuore le tante piccole cose che ti offre la natura è dare gioia<br />

alla vita! Ancora oggi del resto, che gli anni non sono più verdi, se pure non provo le<br />

stesse intense emozioni di una volta, mi piace ascoltare il coro delle cicale che arriva<br />

fino a me dai tanti alberi cresciuti, dal 1985, attorno alle palazzine del quartiere.<br />

Ma, ahimè!, mie <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>ne, questo grazioso insetto bruno che impiega anni per<br />

passare dallo stato di larva a cicala e che a me piaceva, ai tempi della ‘gnora Ava, anche<br />

cacciare (ma per lasciarlo libero appena dopo la cattura), non gode di buona fama tra<br />

tanti poeti e letterati; ed è da sempre bersaglio costante dei moralisti.<br />

Tra le tante cose che mi è capitato di leggere in proposito, solo G.B. Marino, un poeta del<br />

‘600 piuttosto ridondante nelle sue metafore ma comunque assai famoso ai suoi tempi,<br />

ricorda, nelle Dicerie sacre, che i greci avevano elevato a geroglifico della musica la<br />

cicala (in realtà, sono stati gli egiziani a farlo). Gli altri poeti o letterati, invece, in<br />

genere della cicala non parlano bene e spesso non apprezzano neppure il suo canto,<br />

come l’Ariosto che sentenzia: sol la cicala col suo noioso metro...<br />

Del resto, basta guardare al significato che hanno parole come cicalare, cicaleccio o<br />

191


cicala riferita a persone (di solito donne) per capire quanto sia estesa e radicata questa<br />

cattiva fama.<br />

Ma voi direte: ci sarà pure un motivo dietro una così poco lusinghiera, e tanto largamente<br />

diffusa, opinione nei confronti delle cicale. Eh, sì! Avete ragione. Dietro c’è sicuramente<br />

la favola narrata tanti secoli fa da Esopo sulla cicala e la formica, poi ripresa e raccontata<br />

di nuovo tante volte nel corso dei secoli. Ricordate?<br />

La cicala, quando arriva l’inverno, va dalla formica e chiede del cibo. E quella risponde:<br />

“Ma perché non hai fatto provvista anche tu, questa estate?”. “Non potevo, si giustifica<br />

la cicala, dovevo cantare le mie melodiose canzoni”. “E tu balla, adesso che è inverno,<br />

le fa di rimando la formica, se d’estate hai cantato”.<br />

Insomma, la formica laboriosa e previdente; la cicala ciarliera e imprevidente. Proprio<br />

come, nel Dittamondo, le descrive Fazio degli Uberti, un poeta trecentesco, ghibellino<br />

ed esule come Dante dalla sua città natale per ragioni politiche:<br />

Tu vedi la formica<br />

che d’affannar la state non cala,<br />

onde poi il verno vive e si nutrica.<br />

E, per contraro, vedi la cicala,<br />

che canta e di sua vita non provede,<br />

trista morir come la state cala.<br />

Ai greci tuttavia, nonostante Esopo, le cicale piacevano.<br />

Le donne usavano mettere cicale d’oro nelle loro pettinature, molti, quelle vere, se le<br />

portavano in casa, dentro piccole gabbie, per sentirle cantare, i bambini poi erigevano<br />

minuscole tombe per le loro cicale rapite da Persefone spargendo polvere su di esse; e il<br />

citarista Eunomo, come racconta in un suo epigramma Paolo Silenziario, un poeta greco<br />

del VI secolo dopo Cristo, offre in dono ad Apollo una cicala di bronzo per la vittoria<br />

riportata in una gara di cetra: fu infatti la cicala, quando la corda si spezzò, a saltare<br />

sulla cetra e con mormorio dolce prese il suono / della corda spezzata. E quella voce /<br />

agreste, che s’udiva strepitare / nei boschi, si mutò in suono di cetra.<br />

Lo stesso Omero non era da meno degli altri nell’apprezzare il canto delle cicale. Egli<br />

paragonava addirittura i saggi raccolti attorno a Priamo proprio alle cicale dalla voce<br />

fiorita, volendo con ciò fare un complimento ai consiglieri del venerando re troiano.<br />

Anche Teocrito, greco di Siracusa e forse il più grande dei poeti alessandrini, amava le<br />

cicale; e nei suoi Idilli fa più di un riferimento ad esse.<br />

Una volta stridono forte sui rami ombrosi / le cicale bruciate dal sole, mentre tutto intorno<br />

profuma dell’opulenta estate e dei suoi frutti; un’altra volta esse spiano dall’alto i pastori<br />

che a mezzogiorno si riposano; un’altra ancora le cicale sono chiamate a testimoni della<br />

grande abilità nel canto di Tirsi che racconta, con versi ispirati, della morte di Dafni<br />

punito da Afrodite perché si era vantato di piegare Eros. Il tuo canto, dice il capraio che<br />

ha insistito con Tirsi perché intonasse la canzone che egli ama più di ogni altra e che non<br />

merita di essere abbandonata all’Ade che tutto fa scordare, è come miele per la tua bocca,<br />

Tirsi, / e i dolci fichi di Egilo: / tu canti meglio delle cicale!<br />

Ma chi di loro ha parlato in un modo tutto speciale è stato Platone.<br />

192


Secondo il grande filosofo greco, che aveva animo di poeta, le cicale partecipano del<br />

mondo divino delle Muse e presenziano all’ora afosa del meriggio, quando il demone<br />

meridiano penetra nella mente sonnacchiosa dell’uomo e la sconvolge, le cicale anzi<br />

sono, con il loro canto che molce chi le ascolta, come le sirene che distolgono gli<br />

uomini dal loro cammino, perciò bisogna stare attenti a non lasciarsi istupefare dalla<br />

loro presenza.<br />

Ma sentiamo Platone, che di loro racconta nel Fedro, il dialogo intitolato alla bellezza.<br />

Il primo accenno alle cicale è di Socrate quando, condotto da Fedro, si ritrova all’ombra<br />

di un platano e di un agnocasto, un arbusto aromatico delle verbenacee.<br />

Per Giunone, dice Socrate usando l’italiano un po’ arcaizzante ma proprio per questo<br />

affascinante di Francesco Acri traduttore del dialogo, bel luogo quieto! Questo platano<br />

distende i suoi rami ed è alto; e questo agnocasto alto anch’esso, co’ la sua ombra,<br />

è bellissimo; ed è in sul rigoglio della fioritura, sì ch’egli è qui tutto un odore. E<br />

vaghissima è la fonte d’acqua che scorre sotto il platano; ed è, come si sente ai piedi,<br />

molto fresca... E, se altro vuoi, questo venticello d’estate piacevole è assai, e dolce; e<br />

risponde con il mormorio suo lieve al coro delle cicale. Ma una bellezza poi è l’erba<br />

che pianamente dechina, sì ch’ella par fatta proprio a ciò che un che ci si sdrai, posi<br />

bene il capo.<br />

Ma Platone, nel prosieguo del dialogo, torna ancora altre due volte, e non solo con degli<br />

accenni, sul canto delle cicale.<br />

Socrate e Fedro sono nel bel mezzo della loro lunga e impegnativa conversazione<br />

sulla bellezza e l’amore e non s’accorgono del passare delle ore, ma ecco! il meriggio<br />

comincia a incombere, la calura estiva è sempre più una cappa di piombo e la voglia di<br />

approfittare, complice il coro insistente delle cicale, della bellezza e della frescura del<br />

luogo, lasciandosi andare a un riposante sonnellino, tenta in modo quasi irresistibile i<br />

due, mettendo a rischio, come dice Socrate, la ricerca della verità.<br />

Ma Socrate resiste alla fascinazione così piena di ammiccamenti magici della stagione e<br />

del mezzodì che sovrasta; e sprona Fedro a non farsi irretire, neanche lui, dal canto delle<br />

cicale e a non abbandonarsi perciò al piacere del sonnecchiare per pigrizia della mente,<br />

piacere servile per il quale le cicale li irriderebbero. Esse ci stanno osservando, fa sapere<br />

Socrate al suo interlocutore, cantando in sul nostro capo e ragionando, pertanto bisogna<br />

che anch’essi continuino a ragionare, non solo per cer<strong>care</strong> la verità ma anche per potersi<br />

guadagnare il premio che le cicale hanno ricevuto dagli dei per darlo agli uomini.<br />

Le cicale quindi, secondo Platone, sono anche filosofe, per la loro capacità di ragionare.<br />

Ma il loro canto ha anche la forza del canto delle sirene e occorre quindi stare sempre<br />

sul chi va là per sottrarsi alla trappola della irrazionalità presente nel canto. Come<br />

Ulisse, che sceglie sì di ascoltare il canto delle sirene che gli uomini / stregano tutti, chi<br />

le avvicina, ma facendosi legare all’albero della nave per non lasciarsi stregare anche<br />

lui, dopo aver tappato con la cera le orecchie dei suoi compagni:<br />

Chi ignaro approda e ascolta la voce<br />

delle Sirene, mai più la sposa e i piccoli figli,<br />

tornato a casa, festosi l’attorniano,<br />

ma le Sirene col canto armonioso lo stregano,<br />

193


sedute sul prato: pullula in giro la riva di scheletri<br />

umani marcenti, sull’ossa le carni si disfano.<br />

Ma perché le cicale hanno un tale posto nel mondo di Platone? Egli ce lo spiega facendo<br />

raccontare a Socrate la nascita delle cicale e il dono che ad esse fecero le Muse.<br />

Si conta, narra Socrate, che un tempo le cicale erano uomini, prima che fossero nate<br />

le Muse; nate le Muse, la prima volta risonando per l’aria il canto, quelli furon<br />

così dal piacer presi, che, messisi a cantare, non curarono di cibo e bevanda, e, non<br />

accorgendosi, si morivano. E allora venne da essi la famiglia delle cicale, le quali<br />

ebbero dalle Muse questo premio, di non aver niente bisogno di mangiare e di bere, e,<br />

così vuote, di cantare non sì tosto che elle son nate infino a che non son morte, e dopo<br />

andare alle Muse a recar le novelle qual di quaggiù a quale di loro fa onore. A Tersicore<br />

contan di quei che onorano lei ne’ cori, e fanno che le sian più cari; a Erato, di quei che<br />

onoran lei nelle cose d’amore, e così simigliantemente alle altre, a ciascuna secondo la<br />

speciale dignità sua; e all’antichissima Calliope, e ad Urania che le vien dopo, contan<br />

di quei che filosofando passano la vita onorando la lor musica... Per molte ragioni,<br />

dunque, s’ha a dire qualche cosa, e non si ha a dormire a mezzogiorno.<br />

Le cicale, dunque, sono, per Platone, anche tramiti tra l’uomo e le Muse, e simbolo<br />

anch’esse, per il loro canto, della bellezza; e questa è la ragione del posto particolare<br />

che esse occupano nella considerazione del filosofo greco.<br />

Ma che dire a questo punto, mie <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>ne?<br />

Dopo aver ascoltato dalla voce di Socrate un mito così bello, non possiamo che far<br />

nostra la conclusione che ci suggerisce lo stesso Platone: la poesia, il canto, la filosofia<br />

appartengono al mondo degli dei e sono sotto la protezione delle Muse e danno senso<br />

e gioia alla vita.<br />

Apprezziamo dunque le formiche, la cui natura, come dice un vecchio poeta, è durare<br />

fatica, quelle formicuzze così diligenti e laboriose, tutte in fila e sempre indaffarate ad<br />

accumulare cibo per l’inverno, che il nonno vi ha fatto conoscere quando eravate ancora<br />

piccoline, mentre vi portava a spasso vicino casa, e voi magari vi divertivate anche a<br />

disturbarle nel loro infaticabile ed eterno andare e venire: è attraverso il lavoro infatti<br />

che l’uomo crea se stesso, la sua vita, la sua civiltà.<br />

Ma se non ci fossero anche le cicale, sia pure con il loro canto roco, come lo definiva<br />

Virgilio, la vita sarebbe grigia e vuota e le nostre emozioni resterebbero inespresse e si<br />

trasformerebbero, anzi, anch’esse in fatica e sudore.<br />

Anche il loro canto, come ogni altro canto, è un dono degli dei, che ci aiuta a sollevare<br />

lo sguardo dalle brutture della vita, a darle un senso e una prospettiva, a migliorare la<br />

condizione dell’uomo e, come scrive Ovidio nelle Metamorfosi, a volgere il viso verso<br />

le stelle e guardare il cielo, guardare il futuro.<br />

Ma ora basta con questa lunga divagazione e torniamo a dipanare il filo dei ricordi...<br />

194


CAPITOlO X<br />

Il mio impegno come segretario di federazione si concluse agli inizi dell’autunno del<br />

1975, all’indomani cioè delle elezioni amministrative e regionali, con la elezione di<br />

Mimmo Bafile al mio posto.<br />

Non è che l’idea di andare al Comitato regionale del partito, con la responsabilità<br />

dell’organizzazione, mi entusiasmasse particolarmente.<br />

Ero convinto infatti che sarebbe stato utile che io continuassi a guidare la federazione<br />

ancora per qualche tempo, in modo da consolidare il gruppo dirigente emerso dalle lotte<br />

sociali e politiche di quegli anni e dal confronto interno. Forse, la mia preoccupazione<br />

era un po’ esagerata; sta di fatto comunque che, a distanza di non molti mesi dal mio<br />

trasferimento a Pescara, cominciarono a manifestarsi crepe di varia natura nel partito,<br />

sia all’interno del gruppo dirigente più ristretto sia nel rapporto della federazione con<br />

alcune sezioni del Sangro, in relazione in particolare alla fase conclusiva della vicenda<br />

Sangro-Chimica.<br />

Era anche vero però che una esigenza analoga di consolidamento si poneva per il<br />

Comitato regionale.<br />

Con l’andata via di Trivelli c’era infatti il rischio che tornassero a prevalere vecchie<br />

logiche particolaristiche e facessero un passo indietro sia il ringiovanimento dei gruppi<br />

dirigenti sia il processo di regionalizzazione nell’orientamento del partito abruzzese che<br />

in quegli anni aveva fatto notevoli passi avanti.<br />

Così alla fine, dopo ripetute sollecitazioni, accettai la proposta che mi era stata fatta<br />

da Gigetto Sandirocco, divenuto a sua volta segretario regionale da pochi mesi; e,<br />

di conseguenza, trasferii a Pescara la mia sede di lavoro, mantenendo tuttavia stretti<br />

legami con Chieti: oltre a restare negli organismi dirigenti della federazione, rimasi<br />

infatti anche nel Consiglio comunale della città.<br />

Iniziò così, con il mio nuovo lavoro al Comitato regionale, una nuova avventura<br />

che, come già in altre occasioni, mi obbligò a rimettere in discussione me stesso e<br />

a confrontarmi con una realtà molto più ampia e complessa qual era appunto quella<br />

regionale. Ma, anche qui come sempre, non mi persi d’animo e mi rimboccai subito le<br />

maniche.<br />

Potevo contare, d’altronde, sulla conoscenza che già avevo dei compagni che più<br />

pesavano nella vita del partito in Abruzzo e sul fatto che, da parte loro, c’era un<br />

apprezzamento non formale nei miei confronti come ebbi poi la possibilità di constatare<br />

nei mesi successivi.<br />

Si rivelò molto importante per me anche la fiducia che mi venne dai compagni di<br />

Pescara, fiducia che, anche qui, ebbi modo di verifi<strong>care</strong> in seguito andando spesso nelle<br />

sezioni della città.<br />

Pescara del resto, per la sua storia stessa, è una città aperta, che non chiude mai<br />

pregiudizialmente le porte a nessuno, anzi... Salvo, ovviamente, a non deludere le<br />

attese.<br />

E’ chiaro che, in tutto questo, mi fu di grandissimo aiuto quel che eravamo riusciti a<br />

fare a Chieti negli anni in cui io avevo diretto la federazione considerata da sempre una<br />

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ealtà assai difficile politicamente, per lo strapotere che avevano Gaspari e la DC in<br />

provincia.<br />

D’altra parte, erano lì, a sottolineare l’importanza e la positività del nostro lavoro, i<br />

grandi successi conseguiti anche in provincia di Chieti prima con il referendum del<br />

maggio ‘74 e poi con le elezioni regionali e amministrative del giugno di quell’anno.<br />

Le elezioni, infatti, si erano concluse con una affermazione del PCI senza precedenti<br />

anche da noi; e anche da noi quelle elezioni segnarono un mutamento profondo del<br />

quadro politico.<br />

Conquistammo un gran numero di Comuni (alcuni anche abbastanza grandi), da soli o<br />

con liste unitarie, aperte alla società civile; si fece più ampia la nostra rappresentanza<br />

nei Consigli comunali delle città maggiori della provincia e nello stesso Consiglio<br />

provinciale e contribuimmo in misura sostanziale a far perdere alla DC la maggioranza<br />

assoluta nel Consiglio regionale (la DC perse la maggioranza assoluta anche nel<br />

Consiglio provinciale e fu lì lì per perderla nella stessa città di Chieti).<br />

Era il risultato di un lavoro che ci premiava, frutto della capacità di un partito<br />

profondamente rinnovato e ringiovanito di raccogliere, grazie alle lotte condotte in<br />

quegli anni, non solo il malcontento ma soprattutto la grande voglia di cambiamento<br />

che animava i ceti popolari e gli stessi strati medi della popolazione.<br />

Un lavoro, d’altra parte, che aveva dato i suoi frutti già l’anno prima in occasione<br />

del referendum sul divorzio, con la vittoria addirittura, a Chieti città, del no alla<br />

cancellazione di una conquista di civiltà come il divorzio (a livello provinciale, il no<br />

andò invece sotto, sia pure per poco).<br />

Alla base di questo successo in città, nel referendum, ci fu soprattutto il lavoro delle<br />

compagne. Infaticabili, armate di materiale di propaganda e di argomenti che nascevano<br />

dalla vita stessa, visitarono quasi tutte le abitazioni della città, senza trascurare le contrade<br />

di campagna, svolgendo un lavoro certosino di informazione e di convincimento davvero<br />

straordinario in particolare nei confronti delle donne.<br />

C’era allora in giro, soprattutto tra le masse femminili, una grande disponibilità<br />

all’ascolto, e questo naturalmente fu tutto a vantaggio dei sostenitori del divorzio,<br />

disponibilità che oggi, almeno su certi argomenti, sembra invece venuta meno.<br />

Dico questo, avendo presente quel che è accaduto in Italia nel referendum sulla<br />

procreazione assistita del giugno 2005: argomento, certo, di grande complessità e che<br />

sicuramente porta ciascuno di noi a porsi tanti interrogativi sul futuro dell’uomo, l’uso<br />

e i fini della scienza, i limiti stessi della ricerca scientifica e tecnologica, ma che tutto si<br />

sia risolto con l’astensione dal voto della grande maggioranza degli elettori, con il rifiuto<br />

cioè di assumersi responsabilità di alcun genere, bene, questo è assai preoccupante.<br />

Non solo per la difesa della laicità dello Stato, visti gli interventi sempre più insistiti<br />

e invadenti su materie di natura etica (e non solo) di una gerarchia ecclesiastica che<br />

continua, con una ostinazione incredibile, a rimuovere dai suoi orizzonti la modernità e<br />

a non farci i conti. Ma anche perché questioni di così tanta importanza non si possono<br />

affidare al discernimento di pochi; né ci si può far paralizzare dalla paura, chiudendo le<br />

porte a un domani che comunque ci sarà e rischia di essere deciso solo dagli altri.<br />

Su tutto questo la sinistra deve riflettere.<br />

Materie così sensibili dal punto di vista della coscienza individuale e collettiva hanno<br />

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isogno della politica e del coinvolgimento di grandi masse, come avvenne a suo<br />

tempo sia per il divorzio che per l’aborto. Così come bisogna, tenendo conto certo della<br />

particolare natura dei problemi di oggi ma anche di un mondo che si è fatto sempre più<br />

plurale, riaffermare con forza la laicità della politica e dello Stato. Sapendo pure che il<br />

contrasto non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi vuole decidere per tutti le cose<br />

da fare e in cui credere e chi pensa invece che sempre va salvaguardata la libertà di<br />

ciascuno e di tutti.<br />

Ma riprendiamo il racconto della mia nuova avventura...<br />

Gli anni passati al Comitato regionale furono segnati, dal punto di vista politico, in una<br />

prima fase da una ulteriore espansione della forza organizzativa ed elettorale del PCI<br />

e dall’accrescimento del suo ruolo nella vita politica regionale, in particolare durante<br />

il periodo delle cosiddette larghe intese; e, successivamente, dopo le elezioni del ‘79,<br />

dalle nostre crescenti difficoltà a contrastare i processi di involuzione politica che si<br />

manifestarono anche in Abruzzo, sia per ragioni legate alla vita regionale che per la<br />

spinta che veniva dalle vicende politiche nazionali.<br />

La seconda metà degli anni ‘70 iniziò infatti con un nuovo, grande successo elettorale,<br />

in occasione delle elezioni politiche del 1976: più 7,2% di voti sul risultato delle elezioni<br />

regionali, già di per sé straordinario, e il raggiungimento, con il 34,4%, del massimo dei<br />

consensi elettorali mai registrato dal PCI nella regione.<br />

Anche nelle lotte per la difesa del lavoro e per un rinnovato sviluppo dell’Abruzzo ci<br />

fu un salto di qualità, grazie alla forza più consistente del PCI nel Consiglio regionale<br />

eletto nel 1975 e, poi, grazie al nuovo ruolo che il PCI ebbe nella vita regionale con le<br />

larghe intese.<br />

La DC tuttavia, finché le fu possibile e nonostante le due sconfitte consecutive del<br />

‘75 e del ‘76 e dello stesso ‘74, si oppose con rabbia e determinazione a ogni idea di<br />

cambiamento nell’assetto di potere regionale che la vedeva da decenni perno di un<br />

sistema sostanzialmente immobile e chiuso, anche se la esigenza del rinnovamento era<br />

ormai nelle cose e si era espressa in maniera chiara e dirompente attraverso il voto:<br />

l’anticomunismo, la difesa del suo sistema di potere fondato largamente sul clientelismo,<br />

il timore di perdere rendite di posizione le impedivano di muoversi.<br />

Ma si trattava di un atteggiamento insostenibile e alla fine fu costretta ad aprire<br />

comunque un confronto con noi che si concluse, tra molte difficoltà, con un accordo<br />

programmatico abbastanza innovativo (anche se il PCI rimase fuori della Giunta) e con<br />

la elezione, nel febbraio del 1977, di Arnaldo Di Giovanni a presidente del Consiglio<br />

regionale.<br />

Un processo più o meno analogo interessò anche molti enti locali, con la sottoscrizione<br />

di accordi programmatici anche da parte del nostro partito, ma neanche in questo caso i<br />

comunisti entrarono a far parte delle giunte.<br />

Si creò insomma una situazione, come del resto in Italia con la costituzione del governo<br />

di solidarietà nazionale diretto da quel fior di conservatore che era Giulio Andreotti, che<br />

rendeva i comunisti corresponsabili delle scelte compiute a livello di governo, ma senza<br />

che essi potessero partecipare in concreto alla gestione di quelle scelte. Il risultato fu<br />

un progressivo logoramento della nostra forza e una ripresa sia della DC che del PSI e<br />

197


degli altri partiti tradizionalmente alleati della balena bianca.<br />

Ricordo, ad esempio, di quegli anni le defatiganti riunioni che periodicamente si<br />

tenevano tra i partiti di maggioranza alle quali ovviamente partecipavamo anche noi,<br />

costretti però spesso a mediazioni al ribasso o a prendere atto della impossibilità di<br />

arrivare a conclusioni accettabili o, ancora, ad approdare a risultati di un certo rilievo<br />

solo dopo molti incontri.<br />

Con questo non voglio dire che la politica delle larghe intese non produsse nulla. Ci<br />

furono risultati anche importanti, ad esempio, sul piano delle scelte programmatiche e<br />

nella ricerca di un terreno comune per dare soluzioni concrete alle lotte di quegli anni.<br />

Quel che non ci fu invece, e che fu all’origine della crisi che poi travolse sia la politica<br />

di solidarietà nazionale che quella delle larghe intese, fu quel mutamento radicale di<br />

prospettive che la gente si attendeva soprattutto nell’economia e nella politica del lavoro<br />

e dello sviluppo, anche se queste esigenze erano presenti nei programmi sottoscritti:<br />

fummo costretti così a tornare all’opposizione e a pagare sul piano elettorale un prezzo<br />

piuttosto salato.<br />

Nelle elezioni del ‘79 perdemmo infatti, sia a livello nazionale che in Abruzzo, intorno<br />

al 4% dei nostri consensi.<br />

Ricordo a questo proposito una chiacchierata con Gerardo Chiaromonte a l’Aquila, in<br />

occasione di una iniziativa del partito in città prima della nostra uscita dalla maggioranza<br />

di governo, a distanza quindi di diversi mesi dalle elezioni del giugno ‘79.<br />

Chiaromonte mi chiese cosa pensavo della piega non positiva che ormai aveva preso la<br />

situazione politica, e quali erano le reazioni della gente; la mia risposta fu che avremmo<br />

perso parecchi voti. Non è che lui non sapesse bene come stavano le cose, ma cercava<br />

semplicemente delle conferme nelle varie realtà del Paese. Si respirava infatti nell’aria<br />

la delusione di tanti nostri elettori e dello stesso nostro partito!<br />

Ricordo anche che di queste questioni cominciammo a discutere anche nel nostro primo<br />

Congresso regionale che si tenne sul finire del ‘76 (o agli inizi del ‘77) e del quale io<br />

stesi il documento posto poi a base della discussione congressuale. L’unica cosa che<br />

però ottenemmo, sotto la spinta del forte malcontento che saliva dalle sezioni, fu la<br />

elezione di Arnaldo alla presidenza della Regione, costretto poi a dimettersi quando<br />

scegliemmo di tornare all’opposizione.<br />

Non è qui il caso di addentrarsi in una analisi dettagliata delle ragioni che portarono a<br />

questo esito la nostra politica.<br />

Oltre alle ragioni nazionali e a quelle internazionali (queste ultime condizionarono<br />

fortemente in quegli anni la politica italiana), ci sono stati certamente anche nostri errori<br />

e inadeguatezze.<br />

Penso, ad esempio, che contò molto la difficoltà nostra a portare l’intero partito a<br />

muoversi come forza di governo e non come forza di opposizione costretta, a causa<br />

delle circostanze, a condividere una politica di governo, con la conseguenza di non<br />

riuscire poi a far valere fino in fondo, né come forza di governo né come opposizione,<br />

il grande consenso che ci era venuto dagli elettori nel ‘75 e nel ‘76.<br />

Del resto, era già presente nel partito, già nel momento in cui ci incamminammo<br />

su questa strada, una resistenza di settori di base abbastanza ampi alla politica della<br />

solidarietà nazionale e delle larghe intese che non tardò a manifestarsi in maniera aperta<br />

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e con più consistenza appena se ne presentò l’occasione.<br />

I compagni poi avevano difficoltà a intrecciare, nella loro azione quotidiana, i due poli<br />

della nostra principale parola d’ordine di quel periodo: partito di lotta e di governo.<br />

Nei fatti, accadeva spesso che o si era troppo di governo o troppo di opposizione,<br />

riducendo così la nostra capacità di incidere sulle scelte concrete e di colpire le resistenze<br />

al rinnovamento che venivano dalla DC. Questo accadeva soprattutto dove avevamo<br />

firmato accordi di programma pur essendo deboli politicamente e organizzativamente,<br />

oltre che come consensi elettorali: la nostra debolezza diventava così essa stessa motivo<br />

di logoramento ulteriore della nostra credibilità.<br />

Ad essere onesti, di queste difficoltà eravamo avvertiti già in quegli anni, tanto è vero<br />

che ponemmo anche questo tipo di problemi al centro del nostro dibattito congressuale<br />

regionale, ma le scelte che allora compiemmo bisogna dire che non si dimostrarono<br />

affatto sufficienti, anche perché c’era qualcosa più di fondo che ci sfuggiva e che doveva<br />

presentarsi in termini più chiari alla fine del cammino che concluse la storia del PCI.<br />

Parlo del nostro ritrarci, di fronte al fallimento della solidarietà nazionale e delle larghe<br />

intese, i cui effetti cominciarono a manifestarsi abbastanza presto, a farci portatori di<br />

una nuova strategia di alternativa alla DC che facesse perno sull’unità delle sinistre.<br />

Parlo ancora dei nostri errori di analisi circa la natura della crisi che stava allora<br />

investendo l’intero mondo capitalistico e gli sbocchi che esso avrebbe avuto con l’avvio<br />

della globalizzazione, oltre che della nostra difficoltà a immaginare una nuova svolta<br />

nella politica del PCI della stessa profondità di quella che Togliatti propose a Salerno,<br />

al suo ritorno in Italia dopo i lunghi decenni di esilio, insomma della incapacità (o<br />

impossibilità?) a compiere scelte nuove, radicali, proprio quelle che gli scenari che si<br />

sarebbero presentati alla fine degli anni ‘80 avrebbero poi imposto.<br />

La cosa paradossale, a guardare oggi le cose con il cannocchiale del tanto tempo<br />

trascorso, è che negli anni ‘80, nonostante la sconfitta subìta nel ‘79, il PCI restava pur<br />

sempre una grande forza, popolare, di massa e con un consenso elettorale altissimo:<br />

questo avrebbe dovuto aiutarci ad aprirci senza reticenze al nuovo che stava maturando<br />

con grande rapidità in Italia e nel mondo, e invece...<br />

E’ dentro questa cornice tormentata e complessa che io svolsi la mia attività di<br />

organizzatore del Comitato regionale, negli anni che vanno dall’autunno del ‘75 all’inizio<br />

del ‘79 quando lasciai la segreteria regionale per assumere l’incarico di segretario della<br />

federazione di Pescara.<br />

In realtà, la mia attività non si limitava solo alle questioni di natura organizzativa, ma<br />

coordinavo tutto il lavoro della segreteria regionale e sovrintendevo, diciamo così, alle<br />

iniziative più diverse del partito.<br />

Di fatto svolgevo funzioni di vice-segretario; e questo mi consentì di girare tutta la<br />

regione, partecipando alla discussione interna del partito nelle varie federazioni, di<br />

tenere comizi e riunioni nelle realtà dove più significativa era la nostra presenza e di<br />

aprire o concludere importanti manifestazioni pubbliche del nostro partito.<br />

Inoltre, era in genere mio compito presiedere e intervenire nelle riunioni delle varie<br />

Commissioni nelle quali si articolava allora l’attività del Comitato regionale e preparare<br />

i documenti più significativi, non solo per la parte che riguardava il partito ma anche per<br />

199


la parte politica: insomma, fu un periodo di lavoro molto intenso, in cui credo di aver<br />

dato un contributo di primo piano alla politica regionale del PCI in quegli anni.<br />

All’epoca, la segreteria regionale era composta solo di tre compagni: Sandirocco,<br />

naturalmente, Di Giovanni, che era il nostro capogruppo alla Regione, e io.<br />

Una segreteria ristrettissima, dunque, ma che era da un lato il frutto della forza politica<br />

e del prestigio del nuovo gruppo dirigente regionale e dall’altro l’espressione di una<br />

volontà di continuare con il processo di rinnovamento e ringiovanimento avviato da<br />

Trivelli. E molti, infatti, furono i giovani che in quegli anni assunsero responsabilità<br />

politiche e di lavoro di sempre maggior rilievo sia nelle federazioni che nello stesso<br />

Comitato regionale. Non sempre le scelte, ovviamente, si rivelarono azzeccate, qualcuna<br />

anzi si rivelò subito inadeguata e fummo costretti a cambiarla rapidamente, ma questo<br />

fa parte del rischio che corre chiunque accetti di scommettere sul futuro...<br />

Una segreteria anche molto unita, debbo dire. Non solo politicamente, ma anche dal<br />

punto di vista dei rapporti personali.<br />

Gigetto ormai lo conoscevo da tempo; Arnaldo, invece, solo da poco, ma non tardammo<br />

molto a entrare in sintonia tra di noi e a fare amicizia.<br />

Arnaldo aveva alle spalle una lunga esperienza sindacale e politica, a cui univa doti<br />

di acutezza e realismo, e sapeva trattare sia con i compagni che con gli avversari; era<br />

poi uomo aperto, gioviale, amante della caccia e della musica classica, soprattutto di<br />

Beethoven, e di modi sempre gentili (ma, quando le circostanze lo richiedevano, sapeva<br />

anche essere di una durezza insospettabile).<br />

Il rapporto, molto forte, che si stabilì tra noi tre ci consentì naturalmente di governare<br />

il partito con fermezza, ma anche con grandi aperture verso i giovani, e di farlo senza<br />

fatica anche quando la situazione cominciò a farsi difficile.<br />

Quanto ai problemi del partito in senso stretto, che erano di mia specifica competenza e<br />

che seguii sempre con molta attenzione, negli anni immediatamente successivi al ‘76 la<br />

nostra forza organizzata continuò a crescere.<br />

Ci avvicinammo addirittura ai 40.000 iscritti, un esercito in una regione piccola come<br />

la nostra!<br />

Non solo: organizzammo anche numerosi corsi di formazione politica, utilizzando<br />

sia strutture nazionali che le sezioni, alle quali parteciparono tanti dei giovani e delle<br />

ragazze venuti al PCI negli anni ‘70.<br />

Un trend così positivo si esaurì però abbastanza rapidamente, dopo il fallimento della<br />

solidarietà nazionale; e i progetti costruiti sull’idea, piuttosto balzana ma che pure<br />

circolava tra le nostre file anche a livello nazionale, di una tendenza all’espansione della<br />

nostra forza destinata a durare per chissà quanto tempo si ridussero presto a cenere.<br />

Avevamo stranamente dimenticato che, come scrive un autore latino di sententiae<br />

dell’età di Cesare, Publilio Siro, fortuna vitrea est, tum cum splendet frangitur, la<br />

fortuna è fatta di vetro e proprio quando essa splende va in frantumi!<br />

Uno spazio particolare, in tutta questa attività, fu riservata alle donne, non solo con<br />

l’intensificazione del reclutamento tra le masse femminili, ma portando anche molte<br />

compagne negli organismi dirigenti regionali del partito e, soprattutto, creando le<br />

strutture necessarie per rendere stabile il nostro lavoro in direzione delle donne su tutto<br />

il territorio della regione.<br />

200


L’esperienza di quegli anni mi portò anche a contatto con molti dirigenti nazionali del<br />

PCI e, soprattutto, con tanti compagni e tante compagne delle varie zone dell’Abruzzo:<br />

ogni tanto mi capita di rincontrarne qualcuno e noto con piacere che egli si ricorda<br />

ancora di me...<br />

Essa inoltre cementò amicizie che hanno resistito al tempo, anche se in molti casi le<br />

traversie personali o l’età hanno via via allentato i rapporti e spesso li hanno anche<br />

interrotti. In ogni modo mi ha consentito di entrare in relazione e spesso in amicizia con<br />

uomini e donne di grandi qualità intellettuali e politiche, che in vario modo, con la loro<br />

attività, dentro o fuori le istituzioni, hanno dato un contributo importante allo sviluppo<br />

della regione.<br />

A questo punto, mie <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>, mi pare chiaro che voi vogliate sapere qualcosa anche<br />

sulla mia vita privata di quegli anni. Ebbene, vi accontento subito, anche se rievo<strong>care</strong><br />

alcuni momenti dolorosi di quel periodo mi procura turbamento ancora oggi.<br />

In generale, le cose di casa andavano abbastanza bene.<br />

Massimiliano, alla fine degli anni ‘70, aveva iniziato il liceo scientifico, mentre Stefano<br />

frequentava ancora le medie. Se la cavavano bene tutti e due, anche se, a ogni cambio di<br />

scuola, Stefano si ritrovava sempre, all’inizio, alle prese con qualche problema.<br />

Stefano, infatti, che per tutte le elementari aveva avuto una sola maestra, cosa<br />

che evidentemente lo aveva abituato a vivere dentro una specie di acquario fatto di<br />

tranquillità e sicurezza, soffriva i cambiamenti. Massimiliano, invece, no: alle elementari<br />

aveva cambiato più volte maestro e non si lasciava perciò prendere dal panico di fronte<br />

ai cambiamenti o anche a mutamenti improvvisi di situazione, era capace anzi di<br />

improvvisare quando, ad esempio, a scuola veniva interrogato e non aveva studiato a<br />

sufficienza, cosa che al contrario non riusciva a Stefano che non a caso si applicava allo<br />

studio più del fratello. In ogni modo sono sempre andati bene sia l’uno che l’altro.<br />

Anche per quanto riguarda le loro amicizie a scuola e fuori della scuola, non ci siamo<br />

mai dovuti lamentare. E questo forse sarà dipeso un poco anche dall’impegno nostro a<br />

renderli responsabili, sin da quando erano piccoli, di quel che facevano.<br />

Ricordo, a questo proposito, che, quando erano ancora piccoli, nei giorni che Rosetta<br />

doveva rientrare al lavoro il pomeriggio, di solito restavano da soli a casa, con<br />

Massimiliano che badava al fratello più piccolo: ebbene, non si sono mai creati problemi<br />

e se incontravano per caso qualche difficoltà telefonavano subito alla mamma.<br />

In quegli anni si ritrovavano spesso anche con me, nei giorni festivi, a un comizio<br />

o a una riunione. Non mancavano poi mai alle feste de l’Unità che si tenevano alla<br />

Civitella; e ricordo che in queste occasioni passavano il loro tempo, fatto di parecchi<br />

giorni, a scorrazzare in bicicletta per tutto il campo, mentre sia io che Rosetta eravamo<br />

impegnati nelle attività della festa.<br />

Ricordo, in fatto di feste de l’Unità, che parteciparono anche alla grande festa de l’Unità<br />

che, nell’estate del 1981, quando ero segretario della federazione di Pescara, si svolse<br />

al Parco D’Avalos.<br />

A quella festa, anzi, Massimiliano, che aveva avuto in regalo un biglietto della lotteria<br />

organizzata dal partito per finanziare la festa e parte della nostra attività durante l’anno,<br />

vinse il primo premio che consisteva in una bella bicicletta da corsa: lo vedo ancora oggi<br />

201


mentre corre tutto trionfante in bici verso lo stand della cucina dove stava lavorando la<br />

madre, con il fratello che gli correva dietro a piedi anche lui molto contento!<br />

Questa abitudine di portarli con noi, d’estate o comunque quando non c’era di mezzo<br />

la scuola, è continuata anche quando si sono fatti più grandicelli. Ad esempio, sono<br />

stati spesso a Roma quando c’era qualche riunione in Direzione o qualche convegno e,<br />

mentre io ero chiuso a Botteghe Oscure per i miei impegni, loro invece, assieme alla<br />

madre, giravano per Roma, nelle zone del centro storico.<br />

Ricordo anche una festa nazionale de l’Unità a Roma, conclusa da Enrico Berlinguer,<br />

alla quale vennero anche loro.<br />

La giornata era trascorsa tranquilla, a un certo punto però, mentre tornavamo dal comizio<br />

verso il pullman, cominciò a piovere a dirotto e ci bagnammo tutti come pulcini, ma<br />

fummo fortunati: nella trattoria nella quale ci fermammo per mangiare qualcosa prima<br />

di ripartire verso Chieti, i padroni di casa furono così gentili da mettere ad asciugare alla<br />

bocca del forno scarpe, calzini e vestiti dei ragazzini.<br />

Nella seconda metà degli anni ‘70, dopo che mia suocera fece ristrutturare e rimettere a<br />

nuovo la sua casa natia, rimasta per decenni nell’abbandono più totale, cominciammo a<br />

frequentare anche Villalago per le vacanze.<br />

La prima volta che andai a Villalago fu, per la verità, all’inizio degli anni ‘60.<br />

Ricordo che Rosetta, il padre e la madre vi arrivarono con l’apetta, un po’ malmessa,<br />

che usava mio suocero per girare nei mercati ambulanti dei paesi, io invece arrivai con<br />

la vespa di cui disponevo allora: eravamo ancora fidanzati e andammo a trovare un<br />

cugino di mia suocera, zi’ Luigi, con il quale essa non si vedeva da tempo, in pratica da<br />

quando, alla fine degli anni ‘30, aveva lasciato Villalago per trasferirsi con il marito,<br />

fresco d’altare, sulla costa.<br />

L’impressione che ricavai dal mio primo incontro con le gole del Sagittario, mentre<br />

mi inoltravo con la mia vespa lungo la strada che da Anversa porta a Villalago, fu<br />

straordinaria.<br />

L’orrido del burrone, in certi tratti anche assai profondo, mi affascinava, ma nello stesso<br />

tempo ero fortemente preoccupato dalle trappole di un percorso stretto e pieno di curve,<br />

in molti punti scavato nella montagna e quindi con grandi speroni di roccia incombenti<br />

sulla testa di chi vi transitava, a ogni curva poi sembrava che il burrone, sempre così a<br />

ridosso della strada e tanto somigliante a un girone dantesco, ti dovesse inghiottire da<br />

un momento all’altro!<br />

Altrettanto emozionante fu l’impatto con Villalago.<br />

Il paesino, che giace come un presepe lungo un costone di montagna a strapiombo sulla<br />

diga artificiale di S. Domenico, mi piacque subito.<br />

Mi piacquero subito anche le stradine strette e incassate tra lunghe file di case basse<br />

e disadorne che si inerpicano verso la parte alta del paese, anche se le scalinate, a<br />

volte assai ripide, che da esse si diramano per raggiungere le abitazioni del centro<br />

storico, ci avvertirono già allora della fatica necessaria per scalarle, una fatica che oggi<br />

naturalmente si fa sentire ancora di più non solo per l’età quanto, soprattutto, per le<br />

troppe cose che, ogni volta che andiamo a Villalago, bisogna scari<strong>care</strong> dalla nostra Audi<br />

80 del ‘92 e portare fino a casa.<br />

202


La casa di mia suocera, invece, allora assai malridotta e utilizzata da un vicino come<br />

stalla per le galline e ripostiglio per la legna, non mi parve granché.<br />

Essa aveva tuttavia una buona posizione panoramica.<br />

Costruita, forse nel ‘700, sul ciglio del grande burrone sul cui fondo scorre il Sagittario,<br />

che proprio all’altezza di Villalago emerge all’aperto dal percorso sotterraneo seguito<br />

fino ad allora, è possibile ammirare da essa dei paesaggi diversi e tutti bellissimi.<br />

Dalla finestrella, che si apre sullo strapiombo, si scorgono le acque azzurrine e<br />

limpidissime della diga lunga e stretta di S. Domenico, mentre dagli abbaini sul tetto ti<br />

si stagliano di fronte, ad est, il massiccio calvo del Monte Genzana tagliato dalla grande<br />

frana che diede origine al bellissimo lago di Scanno e, sul lato opposto, la grande mole<br />

della Montagna Grande dove mia suocera, quand’era ragazza, si recava, assieme alle<br />

sue coetanee, a raccogliere la legna che poi riportava in paese caricandosela sulla testa;<br />

inoltre, davanti casa, dal pianerottolo che interrompe la sequenza di scale che porta alla<br />

nostra abitazione, si può invece allungare lo sguardo verso la parte bassa e più recente<br />

del paese e via via seguire il paesaggio assai brullo e tormentato della valle che sfocia,<br />

dopo qualche chilometro, nel lago di Scanno.<br />

A quella prima visita però non ne seguirono altre, se non una decina di anni dopo, in<br />

occasione del matrimonio di Michele, il figlio di zi’ Luigi.<br />

L’occasione fu buona non solo per rinnovare la sua conoscenza, ma anche per farci<br />

invitare a passare l’estate a casa sua. Noi ovviamente accettammo e così, per un paio<br />

d’anni, fummo prima suoi ospiti e, poi, di una zia di Rosetta con la quale erano intanto<br />

ripresi i rapporti: zia Assunta, che poi emigrò in Canada per raggiungere i figli, essa<br />

ci propose anche di acquistare la sua casa, per un prezzo del tutto accettabile, ma noi,<br />

purtroppo, non avevamo una lira!<br />

Cominciammo invece a frequentare assiduamente Villalago, solo dopo che, finalmente,<br />

avemmo a disposizione, rimessa a nuovo, la casa di mia suocera. Fu, all’incirca, tra il<br />

‘77 e il ‘78, e da allora tutti gli anni, nel mese di agosto, vi passiamo una ventina di<br />

giorni, oltre a qualche fine settimana, quando il tempo è bello, a primavera o agli inizi<br />

dell’estate.<br />

Ogni tanto naturalmente, durante l’anno, soprattutto in occasione delle feste, facevamo<br />

una scappata anche a Orsogna, dai miei.<br />

Ma vi restavamo in genere solo poche ore, il tempo per il pranzo e per scambiare quattro<br />

chiacchiere con i miei genitori e le mie sorelle che di solito, nel pomeriggio, arrivavano<br />

anch’esse da mia madre, e poi, più tardi, con i compagni e gli amici in piazza.<br />

In primavera o d’estate, non mancavamo neppure, prima di ripartire, di fare una tranquilla<br />

passeggiata lungo il bel viale, con ai lati i due filari di pini piantati nell’immediato<br />

dopoguerra dall’Amministrazione repubblicana, che dalla piazza porta alla stazione.<br />

Solo una volta invece, nel 1965, quando i miei abitavano ancora in campagna, abbiamo<br />

passato con loro le vacanze.<br />

Ricordo che era il mese di agosto e Massimiliano aveva solo poco più di un anno, ma<br />

fu un disastro e da allora non si parlò più di vacanze a Orsogna. Il caldo, le zanzare,<br />

l’assenza di servizi, le difficoltà a trovare tutto quel che serviva per il bambino ci<br />

convinsero che era meglio passare altrove l’estate.<br />

Ma di quella vacanza disgraziata ricordo soprattutto un episodio che capitò durante le<br />

203


feste di S. Rocco e che rappresentò la goccia che fece traboc<strong>care</strong> il vaso.<br />

In quei giorni, la sera, tornavamo tutti in paese e Massimiliano era ben contento di<br />

ritrovarsi tra le tante luci della festa. Ma, mentre la sera di ferragosto il bambino rimase<br />

tutto tranquillo nel suo passeggino, fino a ora tarda quando si spengono le luci della festa,<br />

la sera del 16 invece, proprio il giorno dedicato a S. Rocco, a un certo punto attacca con<br />

i capricci del sonno e non riusciva ad addormentarsi. Rosetta allora decide di tornare<br />

subito a casa, e così con la macchina l’accompagno fino davanti alla porta della masseria<br />

e torno di corsa in paese per godermi il resto della festa, mai pensando, mie <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>,<br />

che la nonna si potesse trovare in difficoltà. E invece fu proprio quel che accadde; ed essa<br />

è ancora lì, a recriminare contro mia madre che non le aveva dato la chiave del piano di<br />

sopra dove si trovavano le camere da letto!<br />

Lei, infatti, appena entrata in casa, aveva preso subito la strada delle scale per andare<br />

a mettere il bambino a dormire, ma quale non fu la sua sorpresa quando trovò la porta<br />

sbarrata: mia madre, per paura dei ladri, l’aveva chiusa a quattro mandate, ma si era<br />

scordata di darle la chiave e così quando, a festa finita, tornammo anche noi a casa<br />

trovammo Rosetta che ci aspettava seduta sulle scale, con il figlio addormentato in<br />

braccio e il volto naturalmente rabbuiato e stanco...<br />

Nella seconda metà degli anni ‘70, tuttavia, questo clima di tranquilla normalità fu rotto<br />

da due avvenimenti luttuosi. Prima, dalla morte, nel dicembre del 1977, di Gino, il marito<br />

di Nicoletta, la mia sorella minore; e poi, l’anno successivo, il 7 dicembre del 1978, da<br />

quella di Peppino, il mio fratello più piccolo.<br />

Gino, tornato da non molto tempo dalla Germania, dove era emigrato e aveva lavorato per<br />

parecchi anni, assieme alla moglie, riuscendo così ad accumulare il denaro sufficiente per<br />

costruirsi una casetta in campagna, con un po’ di terreno attorno, morì, ancora giovane,<br />

in un modo del tutto inatteso e improvviso, nell’ospedale S. Camillo di Chieti; e ciò non<br />

fece che accrescere il dolore di tutti e il rimpianto per una morte non solo così immatura<br />

ma forse anche possibile da evitare.<br />

Gino si era ricoverato in ospedale, nell’inverno del ‘77, per una banale quanto fastidiosa<br />

bronchite che sembrava non volesse proprio lasciarlo, ma dopo qualche settimana di cure<br />

la bronchite era scomparsa e i medici avevano fissato la data del suo ritorno a casa.<br />

Ma il destino gli fece un bruttissimo scherzo e si accanì contro di lui. Il giorno prima di<br />

uscire gli venne infatti praticata una iniezione che provocò una reazione anafilattica che i<br />

medici non avevano in nessun modo messa nel conto delle possibilità: risultato, la morte<br />

istantanea, e il compagno di stanza, a cui aveva chiesto pochi minuti prima di comprargli<br />

il giornale, lo ritrovò disteso per terra, ormai senza vita!<br />

Mia moglie, a cui un primario amico aveva comunicato qualche giorno prima, per<br />

telefono, la data della sua uscita dall’ospedale, dallo stesso primario apprese, sempre<br />

per telefono, anche la notizia della sua morte: la sua reazione fu una sola, mettersi a<br />

gridare...<br />

A distanza di appena un anno, la morte di mio fratello.<br />

Anche in quel caso si trattò di una morte improvvisa e inaspettata. Mia madre lo trovò, la<br />

mattina della vigilia dell’Immacolata Concezione, morto nel suo letto, senza che avesse<br />

mai accusato in quei giorni o durante la notte qualche malore. Come ci disse il medico,<br />

204


c’era stato un arresto cardiaco che l’aveva fulminato, attorno al letto del resto non venne<br />

trovato nulla che potesse far pensare alla ripetizione di un gesto che egli aveva tentato<br />

qualche anno prima a Pescara.<br />

Peppino, quando morì, aveva appena 23 anni, era dunque nel fiore della giovinezza.<br />

Ma la morte, bisogna dire, fu per lui come una liberazione a causa delle gravi crisi di<br />

personalità che lo tormentavano ormai da alcuni anni e lo stavano distruggendo a poco a<br />

poco. Che vita avrebbe mai potuto essere la sua?<br />

Egli era nato nel ‘55, quando mia madre aveva già superato la quarantina e i suoi fratelli e<br />

sorelle maggiori avevano preso o stavano per prendere ognuno la propria strada, lontano<br />

dalla casa paterna.<br />

Il parto, gemellare, fu molto difficile, al punto che mia madre, che partorì a casa, venne<br />

colpita da una forte emorragia da cui si salvò solo per miracolo (ricordo che corremmo<br />

a prendere il sangue per la trasfusione all’ospedale di Chieti io e mio zio Antonio che<br />

possedeva allora un furgoncino piuttosto scassato con il quale lavorava): egli sopravvisse,<br />

ma il gemello morì appena nato.<br />

Tuttavia, pur vivendo in casa quasi come un figlio unico e con genitori ormai anziani, la<br />

sua infanzia e la sua adolescenza furono del tutto normali. A scuola andava bene, aveva i<br />

suoi amici in paese e, dopo le medie, si era iscritto a un istituto tecnico di Lanciano, forse<br />

avrebbe preferito fare un altro tipo di studi, ma, pur tra difficoltà nella fase conclusiva<br />

dovute al malessere che lo aveva già colpito, riuscì tuttavia a conseguire il diploma di<br />

perito.<br />

A me e alla mia famiglia egli era molto legato, e veniva spesso da noi già da quand’era<br />

poco più che un bambino.<br />

Ricordo che spesso rimaneva per settimane a casa nostra, sia quando abitavamo a Chieti<br />

sia quando ci trasferimmo a Vasto. Ricordo anche che ce lo portavamo spesso con noi<br />

quando facevamo qualche gita, negli anni in cui avevamo cominciato a frequentare le<br />

varie località della nostra montagna; e, siccome la sua età era più vicina a quella dei miei<br />

figli che alla mia, egli giocava naturalmente con loro.<br />

Un bel giorno però, nell’età che segna il passaggio dall’adolescenza alla giovinezza, la<br />

sua vita cambiò radicalmente. Quel giorno fu come se un demone si fosse impadronito di<br />

lui, trasformando la sua vita in un tunnel senza luce da cui uscì solo con la morte.<br />

Divenne irrequieto, svogliato, incapace di dominare le sue emozioni o di soffermare a<br />

lungo la sua attenzione su qualunque cosa, ossessionato dai suoi fantasmi, come se il<br />

demone che lo possedeva lo stringesse forte alla gola e lo spingesse inesorabile verso<br />

luoghi ignoti, senza ritorno.<br />

Anche quando la malattia lo aveva preso, egli continuò a venire spesso da noi, trattenendosi<br />

anche allora a lungo. La nostra casa era diventata per lui come un rifugio e, forse, come il<br />

luogo dove pensava di poter ritrovare la normalità perduta, ma neppure questo, ahimè!,<br />

lo aiutò a tornare su un sentiero che era ormai smarrito per sempre, a ridiventare padrone<br />

di se stesso e del suo futuro.<br />

Quando mi avvertirono della sua morte, io ero a una riunione di partito a l’Aquila. La<br />

notizia fu come un colpo al cuore; e durante il ritorno a casa, accompagnato dai compagni<br />

de l’Aquila, mi invase come una tristezza mortale per un destino che si era consumato<br />

così rapidamente e con tanta spietatezza.<br />

205


206


CAPITOlO XI<br />

Eh sì, mie <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>ne! Finalmente, dopo un inverno lungo e noioso e anche<br />

particolarmente freddo, la primavera è tornata di nuovo a sbocciare.<br />

E anche se oggi noi non possiamo, come una volta, rallegrarci dell’arrivo della bella<br />

stagione (perché essa, purtroppo, non è più così tanto bella) e inneggiare, come faceva<br />

un antico poeta provenzale, Arnaut Daniel, ai dolci gorgheggi e gridi, / ai lai e ai trilli<br />

e canti degli uccelli; o, seguendo la voce mielata di Jaufre Rudel, stupirci per l’acqua<br />

della fonte che si schiarisce o per l’apparire della rosa di macchia, la rosa aiglentina,<br />

lungo le siepi che costeggiano le strade, mentre l’usignolo in mezzo ai rami / modula e<br />

svaria e dispiega / il suo dolce canto e l’affina, tuttavia possiamo ugualmente allietarci<br />

per quel che ha portato agli italiani questo interminabile aprile del 2006.<br />

Ma già vi sento: Nonno, ma che mai è accaduto di tanto importante da giustifi<strong>care</strong> un<br />

inizio così forbito ed enfatico?<br />

Beh, è accaduto che finalmente, in questo aprile piuttosto incerto e piovoso, sia pure<br />

con un risultato al cardiopalma, il Cavaliere è stato disarcionato e ha perso le elezioni<br />

politiche.<br />

Quando voi sarete grandi, probabilmente il nome di Berlusconi non sarà più che un<br />

semplice flatus vocis.<br />

E solo Valentina forse, che corre ormai verso gli undici anni, di questi giorni così<br />

convulsi e dell’ansia in cui è stato precipitato il popolo del centrosinistra dall’andamento<br />

lento (oltre ogni misura) e gomito a gomito dello scrutinio dei voti nei seggi elettorali<br />

conserverà qualche vago ricordo.<br />

Anche lei, durante quelle lunghe ore, ha sofferto, ma la stagione che oggi essa vive è<br />

rivolta al futuro e quindi le sue preoccupazioni di quel giorno sono destinate presto a<br />

svanire e disperdersi nel penetrale amplum et infinitum della memoria, e chissà se mai,<br />

un giorno, il ricordo di queste preoccupazioni sarà in grado di risalire alla superficie.<br />

Berlusconi è stato invece per l’Italia di sinistra di questi anni un vero e proprio incubo,<br />

anche se spesso dentro le forme arlecchinesche della commedia dell’arte.<br />

La mia speranza oggi è che tutto il centrosinistra, pur scontando le grandissime difficoltà<br />

determinate sia dal risultato elettorale che dallo stato comatoso della nostra economia,<br />

si metta la mano sulla coscienza e sappia governare bene, dimostrandosi all’altezza<br />

del compito di rilanciare il Paese e riaprire la porta del futuro alle giovani generazioni.<br />

E si dimostri capace anche di condurre una grande battaglia culturale per sradi<strong>care</strong> il<br />

berlusconismo che ha radici così profonde nella pancia dell’Italia.<br />

Non è frutto del caso, infatti, che in queste elezioni Berlusconi sia riuscito a portare alle<br />

urne anche quei tantissimi italiani che pure erano rimasti delusi del suo governo ma che<br />

tuttavia sono tornati ugualmente a votarlo perché hanno visto in lui il baluardo contro<br />

quel che questa Italia considera il male assoluto come pagare tutti le tasse, avere tutti<br />

gli stessi diritti e le stesse opportunità, considerare il rispetto delle regole e delle idee ed<br />

esigenze degli altri il fondamento stesso di ogni convivenza civile, non fare del diritto<br />

del più forte la regola del governare.<br />

Non sarà facile, me ne rendo ben conto, né sbarazzarsi di Berlusconi sul piano politico<br />

207


né estirpare il berlusconismo. Ma è un’impresa che vale assolutamente la pena di<br />

tentare, con tutta la determinazione necessaria e facendo appello a tutte le risorse<br />

dell’intelligenza, un’intelligenza flessibile, di cui pure la sinistra in altri momenti ha<br />

saputo dare prova.<br />

Ma torniamo alla nostra usata fatica. E perciò, come Jaufre Rudel, riprendo anch’io<br />

oggi, all’arrivo della primavera, con la mia piccola voce il mio piccolo canto: dreitz es<br />

qu’ieu lo mieu refranha.<br />

I circa tre anni passati a Pescara, alla direzione della federazione, non furono facili; e<br />

le difficoltà nascevano certo, in primo luogo, da ragioni di carattere locale, ma esse si<br />

intrecciavano anche strettamente con i grandi problemi di natura nazionale che si erano<br />

affacciati in quegli anni.<br />

All’epoca, di questo intreccio io stesso non avevo la consapevolezza necessaria.<br />

Sembrava allora che tutte le difficoltà nascessero dal modo in cui era stato diretto negli<br />

anni precedenti il partito. Oggi invece, guardando alla storia di quel periodo con gli<br />

occhi del dopo, la forte incidenza della vicenda nazionale su una realtà di partito già di<br />

per sé in affanno, come era allora quella di Pescara, mi pare fuori di ogni dubbio.<br />

Ma andiamo avanti con ordine.<br />

Il passaggio dal Comitato regionale alla federazione di Pescara avvenne agli inizi del ‘79,<br />

nel mese di marzo, all’indomani del Congresso provinciale che si tenne a Montesilvano,<br />

in uno dei tanti alberghi della riviera.<br />

Era tempo, infatti, di Congressi di federazione quel periodo, per la elezione dei delegati<br />

al XV Congresso nazionale del PCI che si sarebbe svolto a Roma di lì a poco, tra fine<br />

marzo e inizi aprile: un Congresso importante, bisogna dire, perché arrivava appena<br />

dopo la nostra uscita dalla maggioranza di solidarietà nazionale e alla vigilia delle<br />

elezioni politiche anticipate, che si terranno poi nel mese di giugno, provocate appunto<br />

dalla fine del nostro sostegno esterno al governo Andreotti.<br />

Anche se non delegato da nessuna delle sezioni della provincia o della città, io partecipai<br />

tuttavia a pieno titolo al Congresso della federazione, non come semplice spettatore: era<br />

ormai noto a tutti che sarei stato io il prossimo segretario provinciale.<br />

Perciò non solo intervenni nel dibattito in assemblea, ma presiedetti di fatto anche la<br />

Commissione elettorale che decideva della composizione degli organismi di direzione<br />

del partito e della scelta dei delegati al Congresso nazionale.<br />

La elezione a segretario avvenne ovviamente, com’era ormai nella prassi, appena<br />

dopo la conclusione del Congresso provinciale, con la riunione congiunta, nello stesso<br />

albergo nel quale si erano svolti i lavori congressuali, del Comitato Federale e della<br />

Commissione Federale di Controllo.<br />

Ma perché questo mio passaggio dal Comitato regionale alla federazione di Pescara?<br />

Ho già accennato all’esistenza di problemi di carattere locale.<br />

In sostanza i compagni, sia a Pescara che in provincia, erano profondamente insoddisfatti<br />

del modo in cui veniva diretto il partito da parte del gruppo di giovani cui la federazione<br />

era stata affidata nel precedente Congresso.<br />

E non c’era solo, da parte delle sezioni, la richiesta, ricorrente nel PCI quando le cose<br />

non andavano bene, di maggiore democrazia interna. C’era soprattutto l’accusa al<br />

208


gruppo dirigente di aver abbandonato le sezioni a se stesse e di aver portato il partito<br />

allo sbando, sia sul piano organizzativo che politico. Era poi evidente, nella discussione<br />

interna, la contrapposizione che si era creata tra i maggiorenti del partito e i giovani<br />

che avevano nelle loro mani le leve del potere. Tra gli stessi giovani, poi, si coglievano<br />

sempre più spesso rotture e disaccordi che non aiutavano certo a far andare meglio le<br />

cose né ad accrescere la loro credibilità e autorevolezza.<br />

La situazione non era, forse, ancora giunta al punto drammatico denunciato dai<br />

compagni, ma certo essa era ormai fortemente compromessa. E così ero stato chiamato<br />

io a cer<strong>care</strong> di rimettere le cose sul giusto binario.<br />

Non è che di questa chiamata io fossi entusiasta, mi solleticava però la possibilità,<br />

che mi veniva offerta, di cimentarmi in una impresa ben più complessa e difficile di<br />

quelle affrontate fino a quel momento, non si dimentichi infatti che Pescara era allora<br />

(e rimane ancora oggi) l’unica vera realtà urbana della regione, e così accettai, deciso<br />

come sempre a dare il meglio di me anche in questa occasione.<br />

D’altro canto, non avrei potuto fare diversamente.<br />

Pur magari preferendo in più di una occasione scelte diverse, tuttavia, di fronte alle<br />

esigenze che volta a volta il partito mi ha posto, in me è sempre prevalsa la logica (stavo<br />

per dire l’etica) del dover essere, con un senso della disciplina e della responsabilità<br />

oggi sicuramente considerato eccessivo, ma che allora era parte, del tutto scontata<br />

(sarebbe stato strano il contrario), del modo di essere di un militante comunista, tanto<br />

più se funzionario. E, proprio perché animato da questa logica, non mi è mai passata per<br />

la testa l’idea che un simile atteggiamento potesse essere sbagliato.<br />

Oggi, a distanza di anni, pur essendo ancora profondamente convinto che l’etica della<br />

responsabilità, come frutto di una libera scelta e non di imposizioni, è ancora essenziale<br />

in politica, tuttavia mi pare che forse una maggiore laicità in queste cose sarebbe stato<br />

utile anche allora. Ma con il PCI era così: l’etica del bene comune (di cui faceva parte<br />

anche l’interesse del partito) prevaleva sempre su tutto, forse qualche volta più del<br />

giusto...<br />

In ogni modo, mi misi anche questa volta subito al lavoro, senza risparmio. Puntando<br />

innanzitutto a ricostruire una maggiore unità al nostro interno, condizione indispensabile<br />

per far ripartire il partito.<br />

Da questo punto di vista, ricordo che ci muovemmo in più direzioni.<br />

Da un lato dando spazio a forze nuove e confermando (con le eccezioni necessarie,<br />

naturalmente) in posti di responsabilità i compagni giovani che avevano diretto fino a<br />

quel momento il partito, dall’altro mantenendo o anche reimmettendo negli organismi<br />

dirigenti più ristretti i compagni con maggiore storia e forza politica in città che in<br />

precedenza ne erano stati esclusi.<br />

Debbo dire che la cosa complessivamente funzionò e, anche se non schiuse davanti a noi<br />

grandi prospettive, ci consentì tuttavia di affrontare in modo serio, sia pure con grande<br />

fatica, appuntamenti come le imminenti elezioni politiche, le elezioni amministrative e<br />

regionali del 1980 e poi, nel 1981, un referendum importante come quello sull’aborto.<br />

Cercammo naturalmente anche di riprendere subito il rapporto con le sezioni e di dargli<br />

continuità. Rimettemmo inoltre in piedi il Comitato cittadino della città, e costituimmo<br />

anche i Comitati di zona della Vallata del Tavo e della Valpescara, dove era forte la<br />

209


presenza operaia.<br />

Molto più difficile invece si presentò la possibilità di rilanciare la iniziativa politica<br />

esterna del partito, sia in città che in provincia.<br />

Da questo punto di vista, non erano pochi gli ostacoli. A partire da quelli di natura<br />

nazionale. Soprattutto dopo i risultati delle politiche del ‘79 che anche a Pescara non<br />

furono affatto buoni.<br />

In quei mesi non era difficile, del resto, percepire tra la gente il cambiamento di clima<br />

che si era prodotto nei nostri confronti, in particolare in città dove si stava radicando,<br />

come già a livello nazionale, l’asse DC-PSI che dominò poi Pescara, in tutte le sue varie<br />

articolazioni, per tutti gli anni ‘80.<br />

Tutto questo naturalmente influiva in modo negativo sulle nostre sezioni, rafforzando<br />

atteggiamenti di chiusura e settarismo già largamente presenti, d’altronde, nelle maggiori<br />

sezioni della provincia e in alcune grandi organizzazioni di base della città come la<br />

Grieco, la Di Vittorio, la Curiel, la Togliatti. La sezione più aperta era la Gramsci, ma<br />

non aveva lo stesso peso delle altre.<br />

D’altra parte, le stesse scelte nazionali spingevano in questa direzione.<br />

Il fallimento della politica di solidarietà nazionale aveva convinto Berlinguer ad aprire<br />

alle posizioni di Ingrao, e questo non favorì certamente l’apertura del PCI ai nuovi<br />

processi in atto in Italia e nel mondo, anzi...<br />

In questo modo il PCI stesso contribuì ad avviare una fase di sostanziale isolamento,<br />

accentuato anche dal fatto che nel frattempo eravamo in pratica rimasti privi di una<br />

reale strategia capace di tenerci ancora in partita: dal XV Congresso non era uscita<br />

nessuna nuova indicazione strategica; e il compromesso storico, che pur era stato di<br />

fatto riconfermato, non aveva ormai più le gambe per camminare.<br />

Si aprì dunque, in quei mesi, un periodo di grande confusione per noi. E anche il<br />

tentativo di qualche anno dopo, all’indomani del terremoto che colpì in modo disastroso<br />

l’Irpinia, di lanciare la proposta dell’alternativa democratica apparve subito chiaro che,<br />

così come essa era stata costruita e formulata, non aveva proprio alcuna possibilità<br />

di rovesciare le tendenze in atto, con la conseguenza che, per la prima volta forse, il<br />

PCI non era in grado di indi<strong>care</strong> agli italiani, in un momento di grandi cambiamenti e<br />

con una situazione politica completamente mutata rispetto a qualche anno prima, una<br />

direzione di marcia nuova e credibile.<br />

Di questa difficoltà di natura strategica, ricordo che in quegli anni solo in gruppi molto<br />

ristretti, e in modo peraltro assai vago, ci si cominciava a rendere conto, mentre alla<br />

base di queste preoccupazioni arrivava poco o nulla.<br />

C’era malessere certo, ma la grande fiducia in Berlinguer, che restava intatta nonostante<br />

le sconfitte, era sufficiente a rassicurare i compagni. E anche quando, attorno ad alcuni<br />

nodi, il confronto si fece aperto e a volte anche aspro, era difficile però che posizioni<br />

diverse da quelle del segretario del partito trovassero molta udienza in periferia: questo<br />

accadde, ad esempio, sia in occasione delle polemiche che si accesero nel PCI sulla<br />

proposta di alternativa democratica e del rapporto con il PSI sia sull’idea, lanciata da<br />

Berlinguer, della diversità del PCI rispetto agli altri partiti.<br />

Produceva poi i suoi frutti, in termini di settarismi di ritorno, soprattutto il fatto che,<br />

dopo il fallimento della solidarietà nazionale, lo stesso Berlinguer aveva spostato più a<br />

210


sinistra il baricentro della politica del PCI, con riflessi pericolosi anche sul terreno delle<br />

alleanze sociali, dove la tradizionale politica togliattiana di alleanza con i ceti medi<br />

produttivi veniva, ad esempio, messa in naftalina per dare un rilievo privilegiato ai ceti<br />

cosiddetti deboli.<br />

Anche lo scontro che ci fu, sul finire del ‘79 se non ricordo male, tra Giorgio Amendola<br />

e la grande maggioranza del partito, attorno a posizioni come quelle sostenute da<br />

Amendola che, negli anni successivi, dovevano divenire merce corrente e ispirare le<br />

scelte di politica economica e sociale prima del PDS e poi dei DS, è parte di questo<br />

processo di progressivo slittamento del PCI verso una sorta di arroccamento politico e<br />

ideologico.<br />

Lo scontro ebbe origine dalla pubblicazione, su Rinascita, da parte di Amendola, di un<br />

articolo che all’epoca fece scalpore fuori e dentro il PCI.<br />

Amendola metteva sotto accusa la linea dei sindacati, sostenuta anche dal PCI, di<br />

incontrollate rivendicazioni salariali, partendo dall’assioma che il salario rappresentava<br />

una variabile indipendente rispetto sia alla produttività che all’inflazione galoppante<br />

e all’enorme debito pubblico che si stava già allora accumulando; e condannava la<br />

concezione di esasperato egualitarismo che guidava le lotte sindacali come anche la<br />

difesa a oltranza di fabbriche ormai decotte, l’accettazione dei passivi delle imprese<br />

pubbliche e, in ultimo, l’estensione della scala mobile a tutte le categorie e la sua revisione<br />

a scadenza trimestrale che avrebbe avuto effetti sull’inflazione davvero disastrosi. Egli<br />

denunciava anche la pratica, non contrastata né dal sindacato né dal partito e ormai<br />

divenuta sistematica in molti luoghi di lavoro, del ricorso all’assenteismo da parte di<br />

settori operai che non faceva certo bene all’economia e alla stessa immagine del PCI e<br />

del sindacato.<br />

Insomma Amendola, con la sua solita franchezza e lucidità, poneva problemi di fondo<br />

ai quali sollecitava risposte realmente e coerentemente riformistiche e di governo che,<br />

se fossero arrivate, avrebbero dislocato il PCI su un terreno del tutto nuovo e capace di<br />

incidere profondamente sui processi di ristrutturazione in atto nel capitalismo italiano e<br />

forse avrebbero evitato, alcuni mesi dopo, la discesa in campo dei 40 mila camici bianchi<br />

della Fiat contro i sindacati e contro di noi che avevamo appoggiato l’occupazione della<br />

fabbrica conclusasi poi con una sconfitta cocente degli operai.<br />

Lo scontro finì al Comitato Centrale, dove Berlinguer ebbe naturalmente partita<br />

vinta, definendo le posizioni di Amendola come una rinuncia alla necessaria opera<br />

di rinnovamento del Paese e un cedimento verso chi, dall’esterno del PCI, poneva il<br />

problema del risanamento di un’economia malata separandolo appunto da quello del<br />

suo rinnovamento. In realtà, era invece proprio Amendola a porre nei termini giusti<br />

il problema perché, come si vide poi, l’inflazione e il debito pubblico si stavano già<br />

mangiando il presente e il futuro dell’Italia, non solo in termini di reddito, a svantaggio<br />

dei lavoratori e delle masse popolari.<br />

Ricordo che dello scontro che si consumò nel CC si discusse molto anche in periferia;<br />

ma anche qui Amendola, salvo poche voci, rimase isolato, con il risultato che, anziché<br />

fare un passo avanti, il riformismo del PCI fece parecchi passi indietro.<br />

Questo, in sostanza, era dunque lo scenario nel quale, in quel periodo, eravamo costretti<br />

a muoverci, uno scenario che non ci aiutava certo a uscire dalle difficoltà.<br />

211


In più, lo svolgersi stesso degli avvenimenti nei mesi successivi al XV Congresso<br />

contribuì a sua volta a rendere ancora più aggrovigliate le cose e a deprimere lo stato<br />

d’animo dei compagni. A partire dal risultato delle elezioni politiche del ‘79 che, a<br />

Pescara e in provincia, fu addirittura peggiore di quello nazionale: meno 5% in città<br />

e meno 11% complessivamente nella provincia (a livello regionale l’arretramento fu<br />

invece solo del 3,8%), mentre la DC e il PSI si rafforzavano o tenevano, la DC anzi<br />

nella intera provincia toccò il tetto del 51%, una percentuale che non mi pare abbia mai<br />

raggiunto nel passato.<br />

Anche l’appuntamento elettorale del 1980, con le elezioni regionali e amministrative,<br />

non andò meglio.<br />

Conservammo, è vero, i tre consiglieri regionali conquistati nel ‘75 (regionalmente, il<br />

PCI mantenne 12 dei 13 seggi del ‘75) e, per la prima volta, Pescara elesse anche, tra<br />

molte resistenze ovviamente, una donna. Parlo di Giovanna Mancini, una cara amica,<br />

che si era affermata in città, come consigliere comunale, negli anni delle larghe intese<br />

al Comune.<br />

Ma si trattava solo di un contenimento delle perdite. Era chiaro invece il segnale politico<br />

che veniva dalle elezioni che non a caso determinarono, nella regione, un radicale passo<br />

indietro sul piano dei rapporti di forza e politici rispetto al ‘75, con l’affossamento<br />

definitivo delle larghe intese e il ritorno al rapporto privilegiato tra DC e PSI.<br />

La stessa cosa accadde al Comune.<br />

Nel ‘75, alle elezioni comunali, a Pescara il PCI ottenne un risultato straordinario che<br />

ci consentì di avere un ruolo assai rilevante nella vita cittadina negli anni successivi. Si<br />

costituì, tra l’altro, l’Ufficio del Piano, per il governo urbanistico della città, e fummo<br />

proprio noi a presiederlo, con Lino Di Re, un cattolico proveniente dal gruppo Esprit<br />

e originario di Chieti che proprio intorno alla metà degli anni ‘70 si era iscritto al PCI.<br />

Ma anche qui il risultato elettorale, non certo brillante, del nostro partito aprì la strada<br />

a una lunga diarchia DC-PSI.<br />

Insomma, a difficoltà si aggiungevano difficoltà.<br />

A dare la misura del nostro stato di salute in quegli anni, ricordo la fatica che ci costò la<br />

ricerca del capolista per il Comune, nella primavera del 1980.<br />

Tra i maggiorenti del partito furono in diversi a tirarsi indietro. Tutti sapevano che le cose<br />

non sarebbero andate bene e nessuno voleva cucirsi addosso il colore della sconfitta.<br />

Ma, cosa ancora più paradossale, non fu possibile candidare come capolista neppure<br />

uno di quei due-tre compagni che pur erano disposti a farlo, perché subito scattò nei loro<br />

confronti il gioco dei veti incrociati. Così, alla fine, fui costretto a candidarmi io, nella<br />

mia qualità di segretario di federazione, pur essendo chiaro a tutti che il mio rapporto<br />

con Pescara, anche per ragioni di tempo, non poteva certo dirsi esteso e intenso. Ma<br />

credetemi, mie <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>ne: di vicende come questa c’è poco da stupirsi, perché in<br />

tempi difficili la generosità non è mai molto di moda! Per mia fortuna, però, fui eletto<br />

bene, con molte preferenze, anche se poi, come consigliere, non durai a lungo: infatti<br />

mi dimisi subito dopo il mio trasferimento in Molise.<br />

Tuttavia, nonostante tante e così grandi difficoltà e sia pure con molta fatica, alcuni<br />

risultati riuscimmo ugualmente a conseguirli, mettendo ordine nella gran parte delle<br />

sezioni e rilanciando una certa presenza esterna del partito.<br />

212


Ricordo, ad esempio, quel che accadde per le feste de l’Unità, tra il ‘79 e il 1981 quando<br />

lasciai Pescara.<br />

Nell’estate del ‘79, all’indomani della grave sconfitta subìta alle elezioni politiche,<br />

nonostante alcuni nostri timidi tentativi, le sezioni, che erano proprio in ginocchio, si<br />

rifiutarono persino di parlare della organizzazione della festa de l’Unità in città.<br />

Le cose andarono invece diversamente nell’estate del 1980 quando, pur avendo alle<br />

spalle un risultato elettorale ugualmente scadente, ci riuscì tuttavia di allestire la festa<br />

de l’Unità.<br />

Non è che nelle sezioni ci fosse grande disponibilità, ma un certo numero di compagni<br />

disposti a impegnarsi, assieme ai funzionari dell’apparato, li mettemmo ugualmente<br />

insieme. E così organizzammo la festa al Florida, un bel parco al centro della città<br />

ridotto però all’epoca parecchio male e, se ben ricordo, addirittura chiuso al pubblico<br />

ormai da diverso tempo.<br />

Ma fu davvero una grande fatica! Non scorderò mai, ad esempio, i circa quindici giorni<br />

che furono necessari per smontare la struttura utilizzata per la festa, a causa della<br />

scarsissima quantità di forza-lavoro a nostra disposizione; né le tante notti passate alla<br />

serena, io e alcuni altri compagni, per evitare che il materiale -che avevamo avuto in<br />

prestito- venisse rubato o anche solo deteriorato.<br />

Anche durante i giorni della festa furono dolori, sempre per lo scarso numero di<br />

compagni impegnati nelle varie attività della festa.<br />

Ricordo, ad esempio, che alla cucina utilizzammo, come cuoco, un compagno emiliano<br />

in vacanza a Pescara in quei giorni che però si dimostrò subito disponibile e anche<br />

molto bravo. Ci preparò perfino gnocchi all’ortica, grazie anche all’eroismo di mia<br />

moglie che si avventurò di mattina presto nella campagna sotto casa per raccogliere<br />

l’ortica, serbandone poi per diversi giorni il ricordo sulle gambe.<br />

Di quei giorni ho vivo nella memoria anche un altro episodio.<br />

A tenere il comizio conclusivo la Direzione del partito aveva mandato Massimo D’Alema,<br />

che era allora il segretario nazionale della FGCI. Ricordo che, nel primo pomeriggio di<br />

domenica, me lo vidi piombare all’improvviso nel parco dove ero rimasto solo io a fare<br />

la guardia alle strutture della festa, in attesa dell’arrivo di altri compagni. Francamente<br />

ci rimasi un po’ male, avrei voluto fargli un’altra accoglienza...<br />

Ma, nonostante questi intoppi, la festa servì comunque a ridare un certo slancio al<br />

partito.<br />

Le cose andarono molto diversamente con la festa de l’Unità del 1981: fu una delle<br />

più belle feste che io ricordi. Quell’anno facemmo davvero le cose in grande, avendo a<br />

disposizione anche un ambiente eccezionale, quello del parco D’Avalos.<br />

Ci fu, intanto, un mare di compagne e di compagni, della città e della provincia, che si<br />

mobilitò per la organizzazione e le numerose attività della festa; e poi una partecipazione<br />

popolare straordinaria, resa possibile anche dal fatto che lanciammo, lungo tutta la costa,<br />

con un aereo noleggiato per l’occasione, un gran numero di volantini per far conoscere<br />

le tante iniziative in programma. Ricordo che ci fu anche una grande partecipazione di<br />

zingari che si riversarono soprattutto sulla pista da ballo della festa di cui era responsabile<br />

un compagno della Di Vittorio.<br />

Anche il concerto a pagamento che, nell’ambito della festa, organizzammo allo stadio<br />

213


Adriatico con Lucio Dalla, ottenne un grande successo di pubblico e finanziario.<br />

Di quella iniziativa ricordo, tra l’altro, anche qualche episodio curioso.<br />

Il primo riguarda Giorgio Bocca che si presentò allo stadio per assistere allo spettacolo:<br />

ebbene, nonostante si trattasse di un giornalista molto noto (e anche molto bravo), uno<br />

dei compagni addetti ai botteghini si rifiutò di farlo entrare, a meno che non pagasse il<br />

biglietto...!<br />

Che cosa spingesse il compagno a cer<strong>care</strong> di impedire a Bocca l’ingresso allo stadio<br />

francamente non so dirlo, probabilmente egli doveva stargli antipatico perché spesso il<br />

giornalista di Repubblica scriveva articoli assai critici nei nostri confronti, sta di fatto<br />

comunque che non fu facile convincerlo a dargli il via libera.<br />

L’altro riguarda Lucio Dalla; e si tratta della lunga e defatigante trattativa che<br />

ingaggiammo con lui, dopo il concerto, per tentare di fargli abbassare un po’ la cifra<br />

assai elevata che ci aveva richiesto, ma fu fatica vana: da quell’orecchio, Dalla proprio<br />

non ci sentiva!<br />

(Di questo episodio conservo anche una fotografia apparsa qualche tempo dopo<br />

su un opuscolo, pubblicato dagli organizzatori dei suoi spettacoli, che riportava le<br />

performances stagionali dell’allora già celebre cantautore, nella quale si vedono da un<br />

lato Dalla che aspetta di avere i soldi e dall’altro io e l’amministratore della federazione,<br />

Ezio Ventura, che, molto a malincuore, gli mettiamo davanti, sul tavolo, un bel numero<br />

di bigliettoni da centomila lire).<br />

Insomma, nonostante le sconfitte subìte e con uno scenario nazionale come quello<br />

che ho prima ricordato, le cose stavano girando un po’ meglio per noi rispetto ai mesi<br />

precedenti. E la ragione era semplice. Il PCI rimaneva sempre un grande partito, con un<br />

numero di militanti che nessun altro poteva vantare. E poi avevano contato certamente<br />

anche il nostro lavoro e la nostra tenacia.<br />

Tuttavia, l’esperienza pes<strong>care</strong>se non era destinata a durare a lungo; e infatti si interruppe<br />

dopo solo poco più di due anni e mezzo, all’indomani della festa de l’Unità al parco<br />

D’Avalos.<br />

La possibilità di una mia utilizzazione in Molise, come segretario regionale, con<br />

l’obiettivo anche lì di rimettere in sesto una situazione profondamente deteriorata, con<br />

un partito diviso e un gruppo dirigente in preda a feroci lotte intestine, mi fu affacciata<br />

per la prima volta, durante la festa de l’Unità al parco D’Avalos, da Pio La Torre.<br />

Pio dirigeva allora la sezione meridionale del PCI ed era venuto a Pescara per partecipare<br />

a una delle iniziative in programma durante la festa.<br />

Se dicessi solo che la proposta mi colse di sorpresa, un vero fulmine a ciel sereno, non<br />

direi tutto. In realtà, essa mi spiazzò di brutto: era una proposta che avrei preferito non<br />

fosse stata neppure pensata...<br />

L’idea che io potessi andare fuori dell’Abruzzo non mi aveva infatti mai sfiorato,<br />

neppure lontanamente, anche se negli anni precedenti avevo girato mezza regione e mi<br />

ero abituato ormai a non fermarmi troppo a lungo in un posto. Ma fuori regione...! Ecco<br />

un’ipotesi che non ho mai preso in considerazione, neppure per gioco.<br />

Anche perché, a essere sincero, in quel periodo le mie aspettative andavano in tutt’altra<br />

direzione.<br />

214


Mi sembrava ragionevole, infatti, che, dopo Pescara, io potessi aspirare a ricoprire,<br />

in Abruzzo, l’incarico di segretario regionale del PCI; a spingere in questa direzione<br />

c’erano del resto e le tante esperienze positive fatte fino a quel momento, non solo a<br />

Chieti, e la stima nei miei confronti da parte dei compagni.<br />

Anche l’esperienza che stavo compiendo a Pescara mi sembrava che si potesse,<br />

anch’essa, considerare nel complesso positiva.<br />

Non c’era nulla, d’altronde, in quel momento, nel partito pes<strong>care</strong>se, che facesse pensare,<br />

sia pure in modo molto indiretto, che nel gruppo dirigente, o anche solo in una parte<br />

di esso, fosse maturata o stesse guadagnando terreno la convinzione della necessità di<br />

un ricambio ai vertici della federazione; né mi pareva di avvertire ostilità o anche solo<br />

insofferenza verso di me tra i compagni di base, anzi...<br />

Ricordo, infatti, che quando lasciai Pescara furono tante le manifestazioni di affetto e di<br />

apprezzamento che mi arrivarono.<br />

Del resto, se ancora oggi mi capita di trovarmi a mio agio con i compagni di Pescara, e<br />

loro con me, lo debbo proprio all’esperienza di quegli anni. Accade a tutti, naturalmente,<br />

di avere critiche e anch’io, com’è ovvio, ne ebbi: ma questo non aveva nulla a che<br />

vedere con il giudizio complessivo espresso sul mio lavoro.<br />

La mia prima reazione di fronte alla proposta di La Torre fu di attesa. Volevo pensarci<br />

e comunque avevo bisogno di prendere tempo. Anche perché dentro di me, al di là<br />

di ogni altro discorso, si faceva strada una preoccupazione non espressa ma corposa:<br />

che sarebbe accaduto dopo? Capita, infatti, a volte che uno pensa di avere in tasca il<br />

biglietto di andata e ritorno e invece ha solo quello di andata, ma se ne accorge solo<br />

quando è ormai troppo tardi...<br />

Così dissi a Pio che ci saremmo risentiti più in là. Ma le sollecitazioni da Roma<br />

cominciarono ad arrivare già appena dopo qualche settimana dalla nostra chiacchierata<br />

al parco D’Avalos, e non passò molto che lo stesso Giorgio Napolitano, divenuto con il<br />

XV Congresso responsabile nazionale dell’Organizzazione, mi convocò in Direzione.<br />

Con Napolitano il colloquio fu breve e, anche se gli feci presenti le mie perplessità e<br />

preoccupazioni, da esso uscii, com’era del resto prevedibile, accettando la proposta,<br />

con l’accordo che il trasferimento a Campobasso sarebbe avvenuto dopo l’estate, in<br />

autunno. E infatti mi trasferii a Campobasso intorno alla metà di ottobre. Lo feci con<br />

molto rammarico, ma, com’è sempre stato mio costume, facendomi carico anche in<br />

questa circostanza delle esigenze del partito.<br />

Questa mia scelta, l’unica veramente sofferta tra le tante che ho dovuto compiere nel<br />

corso della mia lunga milizia politica, si portò dietro naturalmente anche il rimpianto<br />

per quel che avrebbe potuto essere e non fu.<br />

Sia in quei giorni che dopo mi sono chiesto spesso perché mai e che cosa determinò<br />

una svolta così improvvisa e inopinata in quella che possiamo chiamare la mia carriera<br />

all’interno del PCI.<br />

La risposta che mi sono data dopo un certo tempo, e che all’epoca non riuscii neppure<br />

a intravvedere, è che in realtà quella svolta, se da un lato era certamente il frutto di<br />

circostanze fortuite, dall’altro nasceva anche dal mutamento che vi era stato nella linea<br />

nazionale del PCI.<br />

Vi era sicuramente una situazione difficile in Molise, e, com’era tradizione, si guardò<br />

215


anche questa volta all’Abruzzo per affrontarla. Ma perché io?<br />

Beh, qui ha certo contato la scelta fatta da chi, in Abruzzo, avrebbe potuto autorevolmente<br />

far presente alla Direzione che forse era utile che io rimanessi nella regione, rivolgendosi<br />

in altre direzioni per il Molise, ma preferì invece tirarsi fuori per non essere poi costretto<br />

a toc<strong>care</strong>, nell’immediato o in un futuro prevedibilmente vicino, l’assetto regionale<br />

esistente: forse non aveva ben chiaro che comunque, come dice Ovidio, nulla potentia<br />

longa est e che, in un partito come il PCI, si è rivelato sempre conveniente, per chi ne<br />

aveva la responsabilità, fare a tempo e per propria scelta i cambiamenti necessari, e non<br />

aspettare di farseli imporre!<br />

Ma c’era anche un altro aspetto.<br />

Il cambiamento di alleanze al vertice nazionale del PCI aveva fatto riemergere anche in<br />

Abruzzo una vecchia anima ingraiana, che si era sentita emarginata lungo tutti gli anni<br />

‘70 e che ora, collegandosi anche con le spinte per un avvicendamento generazionale che<br />

venivano dalle generazioni più giovani approdate nel partito proprio in quel decennio,<br />

pensò di poter avere di nuovo in mano i giochi nella regione.<br />

A essere sincero, non so quanto questo abbia concretamente pesato nella circostanza;<br />

ma è un fatto che, di lì a qualche anno, si andò a una soluzione per la segreteria regionale<br />

che portava proprio questo imprint.<br />

A guardare con l’occhio di oggi le cose, quella scelta non fu quindi solo il frutto<br />

del caso. Essa segnò invece l’avvio anche in Abruzzo di un processo che portò a un<br />

mutamento progressivo dei gruppi dirigenti, sia a livello regionale che nelle federazioni,<br />

e all’affermarsi anche nel PCI abruzzese delle forze più marcatamente legate alle<br />

posizioni dell’ultimo Berlinguer e di Ingrao. E furono proprio questi gruppi a dirigere il<br />

PCI negli anni ‘80 e, dopo lo scioglimento del PCI, anche il PDS.<br />

Naturalmente, questo mutamento non fu senza conseguenze sul partito e la sua politica<br />

e, in generale, sul rapporto della sinistra con la realtà regionale e le sue varie componenti<br />

sociali e culturali, anche negli anni successivi alla fine del PCI.<br />

Ci fu sicuramente un certo restringimento della nostra capacità di apertura all’esterno;<br />

e sempre più la propaganda prese il posto della politica, a sottolineare appunto le nostre<br />

difficoltà a trovare sponde nuove sia nel rapporto con le altre forze politiche che nella<br />

società. E anche il richiamo ideologico e moralistico, con la riscoperta di una specie<br />

di antagonismo culturale e politico vecchio stampo, assunse un peso nuovo nel partito<br />

rispetto al decennio precedente, in sintonia peraltro con quel che accadeva in quegli<br />

anni anche a livello nazionale, nel PCI prima e nel PDS poi.<br />

Ricordo, ad esempio, quel che avvenne nei primi anni ‘90 con la fine traumatica della<br />

giunta regionale diretta da Salini, travolta dagli scandali e dagli arresti dello stesso<br />

presidente e di vari assessori.<br />

Si discusse a lungo, allora, nel PDS sullo sbocco da dare a questa crisi. La quasi totalità<br />

del gruppo dirigente, con la benedizione di Occhetto, scelse la linea dello scioglimento<br />

del Consiglio regionale e di elezioni anticipate.<br />

Linea tecnicamente pressocché impraticabile, come poi i fatti si incaricarono di<br />

dimostrare, ma soprattutto politicamente sbagliata.<br />

Se fosse prevalsa la linea dello scioglimento, quasi sicuramente il risultato sarebbe stato<br />

l’alleanza della DC con la destra, anche perché alla proposta dello scioglimento non si<br />

216


accompagnava nulla dal punto di vista della prospettiva politica ed elettorale.<br />

Per fortuna, le cose andarono diversamente.<br />

Rispetto alle posizioni sostenute dal partito, nel gruppo consiliare regionale prevalse<br />

invece largamente l’idea della ricerca di un accordo che portasse alla scadenza normale<br />

della legislatura; e così, nella primavera del ‘94, vide la luce una giunta, che comprendeva<br />

la parte superstite della DC, nella quale noi avevamo un ruolo di primo piano, e che, nel<br />

‘95, spianò la strada a una alleanza organica di centrosinistra e ci consentì di vincere le<br />

elezioni regionali.<br />

Ricordo bene le discussioni di quei mesi nel partito. A sostenere la linea dell’alleanza<br />

con quel che restava della DC dopo gli arresti eravamo in pochi, e io ero tra questi.<br />

Dovevamo proporci noi, di fronte alla società abruzzese, come la forza capace di tirare<br />

fuori l’Abruzzo dal pantano nel quale era stato precipitato e portarlo sulla strada del<br />

rinnovamento: questa era la linea che noi indicavamo.<br />

Ma, a sostenerla, eravamo appunto in pochi. Ricordo, anzi, una riunione del Comitato<br />

Direttivo regionale nella quale a votare contro la proposta di scioglimento anticipato del<br />

Consiglio regionale fui io e (ma non ne sono sicuro) qualche altro.<br />

Io facevo parte allora del gruppo dei riformisti che, sul finire degli anni ‘80, si era<br />

costituito nel PCI a livello nazionale.<br />

Del gruppo facevamo parte in diversi tra i parlamentari abruzzesi; ma ero io quello<br />

che partecipava alle riunioni nazionali della componente e svolgeva funzioni di<br />

coordinamento a livello regionale, ricordo pure che organizzammo diverse riunioni a<br />

carattere regionale e tentammo di mettere in piedi anche qualche iniziativa unitaria con<br />

esponenti del PSI abruzzese, ma non ci furono grandi risultati.<br />

In quegli anni, evidentemente, nel PCI abruzzese il riformismo (coniugato, dalla<br />

maggioranza dei nostri gruppi dirigenti, spregiativamente, come migliorismo) non<br />

godeva di buona fama, come si vide del resto nella crisi regionale che tenne al palo<br />

l’Abruzzo tra il ‘92 e il ‘94...<br />

Ma della piega presa dalle vicende interne al partito dopo il mio trasferimento a<br />

Campobasso non mi pare il caso di ragionare oltre. Bastano questi pochi accenni. E’ il<br />

caso invece di tornare agli avvenimenti legati alla mia nuova destinazione e all’angoscia,<br />

che si era fatta ormai rassegnazione, di quei giorni: giorni che non ho mai dimenticato!<br />

Ma che oggi posso rivivere in modo diverso.<br />

Laetatum me fuisse reminiscor non laetus et tristitiam meam praeteritam recordor non<br />

tristis...<br />

Sono parole di S. Agostino, nelle Confessioni, che mi pare rendano bene il sentimento<br />

con il quale ho rivisitato in questi giorni proprio quel territorio della memoria nel<br />

quale sono depositati i tanti ricordi di questa stagione della mia vita. Secondo il grande<br />

vescovo di Ippona, la memoria contiene dentro di sé, dentro quel santuario immenso<br />

ed infinito che essa è e di cui nessuno conosce il fondo (quis ad fundum eius pervenit?,<br />

egli si chiede) anche i sentimenti, ma questi non li rivive allo stesso modo in cui li ha<br />

provati quando li ha vissuti.<br />

Dunque: rammento con malinconia le ore liete, e ricordo invece non triste la tristezza<br />

trascorsa...<br />

E così, mie <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>, anch’io oggi guardo a quegli avvenimenti ormai tanto lontani<br />

217


senza l’amarezza e i timori di quei giorni difficili. Ma forse è l’esito che quelle vicende<br />

hanno avuto che oggi mi consente questo: qualche anno dopo il mio esilio a Campobasso<br />

ci fu infatti una nuova svolta nella mia vita che mi riportò in Abruzzo e mi consentì di<br />

approdare nel Parlamento della Repubblica. Evitando così di restare confinato a Tomi,<br />

come accadde al povero Ovidio del quale ancora oggi risuona tra noi il canto triste, così<br />

nuovo rispetto a quello suo consueto, nato nei lunghi anni dell’esilio, sotto i colpi della<br />

fortuna e di una terra inospitale, poenae tellus come egli la chiama, bruciata ab assiduo<br />

frigore e dove il mare non riflette le stelle, nell’attesa vana di un mutamento di destino<br />

che mai arrivò.<br />

218


CAPITOlO XII<br />

Del Molise, quando decisi di accettare la proposta della Direzione del partito, conoscevo<br />

poco o niente.<br />

Tutte le mie conoscenze, in fondo, si riducevano a quel che di quelle zone montuose<br />

e a volte inospitali avevo letto nelle Storie di Tito Livio là dove egli racconta delle<br />

guerre dei sanniti contro Roma e, per venire ai tempi nostri, nei racconti e nei romanzi<br />

di Francesco Jovine.<br />

Né, del resto, avevo mai avuto l’opportunità di recarmi in Molise e di entrare in contatto<br />

con i compagni o comunque con gente del posto. Gli unici contatti in proposito, del<br />

tutto occasionali e fugaci, risalivano al periodo in cui lavoravo a Vasto.<br />

Ricordo, ad esempio, che in quegli anni spesso, in estate, portavamo i figli a Termoli<br />

dove, proprio a ridosso della statale Adriatica, era stata attrezzata un’area per i bambini,<br />

ricordo anche che una di queste nostre capatine fu l’occasione per ascoltare per la prima<br />

volta una chiacchierata in albanese di una famigliola che aveva condotto anch’essa i<br />

bambini nel parco giochi. Ma non si era mai presentata l’occasione di intrecciare con<br />

chicchessia una qualche amicizia.<br />

C’era stata poi la gita a Canneto e, in un’altra circostanza, una corsa ad Agnone, la<br />

cittadina molisana nota per le campane che esporta in tutto il mondo, assieme a un<br />

compagno di Castiglione Messer Marino (se non vado errato, era Felice Del Vecchio),<br />

per far stampare i simboli di una lista civica da presentare alle elezioni comunali del<br />

bellissimo paesino dell’Alto Vastese.<br />

Anche del partito non conoscevo in pratica nessuno. Anche qui, quand’ero a Vasto,<br />

avevo avuto degli incontri con qualche sindacalista e dirigente del PCI molisano per le<br />

manifestazioni organizzate davanti alla SIV, dove erano tanti i lavoratori che arrivavano<br />

dal Molise.<br />

Ricordo, in particolare, i pochi incontri che ebbi prima con Nicola Crapsi, deputato del<br />

PCI molisano, e poi con Alfredo Marraffini, all’epoca segretario della federazione di<br />

Campobasso e che ritrovai poi, quando arrivai in Molise, deputato anche lui, già alla<br />

seconda legislatura (nel frattempo Crapsi era morto). Per il resto, nulla.<br />

Ricordo che Peppe D’Alonzo, che aveva svernato per ben quattro lunghi anni a<br />

Campobasso prima di approdare a Chieti, mi raccontava spesso episodi legati al suo<br />

lavoro e mi parlava quindi anche dei compagni che avevano diretto assieme a lui il<br />

partito molisano (all’epoca il Molise aveva una sola provincia, quella di Campobasso,<br />

e faceva regione con l’Abruzzo), ma questo ovviamente non mi metteva affatto in<br />

condizione di dire: beh sì, conosco qualcosa del Molise e dei comunisti molisani!<br />

Verso la fine di ottobre, partii così, senza sapere esattamente cosa mi aspettava, verso la<br />

nuova avventura che doveva coincidere con il mio ultimo incarico di direzione politica<br />

all’interno del PCI.<br />

In seguito, infatti, ho avuto solo incarichi di natura istituzionale: prima deputato e poi<br />

sindaco. E quando sono tornato a essere un semplice militante del PDS e, in seguito, dei<br />

DS, ho solo fatto parte degli organismi dirigenti provinciali e regionali del partito, senza<br />

più impegni di natura esecutiva.<br />

219


E’ quel che io stesso, del resto, ho voluto, per avere così la possibilità di continuare a<br />

dare un contributo di idee e di esperienza al partito, ma anche di fare il nonno, cosa che<br />

mi piace molto, e di dedicarmi ai miei passatempi preferiti: le passeggiate, la lettura,<br />

la musica, i film, lo sport (quello televisivo, è ovvio!), le lunghe chiacchierate con gli<br />

amici sull’universo mondo...<br />

Ricordo che partii per Campobasso con una Golf rossa fiammante, l’auto che avevo appena<br />

acquistata grazie a un sostanzioso contributo finanziario da parte dell’Amministrazione<br />

centrale del partito, che però mi venne rubata, con mio grande disappunto, appena<br />

qualche settimana dopo il mio approdo nel capoluogo molisano.<br />

Ho ancora viva nella memoria l’angoscia che mi prese quando la mattina, arrivando sul<br />

posto dove ricordavo di averla lasciata la sera prima, non trovai traccia della mia povera<br />

Golf: mi misi allora a girare freneticamente di qua e di là nelle strade adiacenti dove<br />

di solito la parcheggiavo, ma nulla da fare, e così alla fine non mi restò che prendere<br />

atto della sua scomparsa e recarmi in questura dove appresi, ma con poca consolazione<br />

debbo dire, che non ero il solo derubato perché quella notte, proveniente dalle Puglie<br />

o più probabilmente dalla Campania, un gruppo ben organizzato di camorristi aveva<br />

imperversato in città e messo insieme un assai ricco bottino di auto...<br />

Ricordo anche lo spettacolo grandioso e audace che mi si presentò quando, lasciata<br />

l’autostrada, imboccai per la prima volta la statale per Campobasso, la Bifernina, che<br />

dalla costa porta verso l’interno della regione.<br />

Avevo percorso appena pochi chilometri ed ecco, all’improvviso, mi ritrovo, come<br />

sospeso nel vuoto, sul grande viadotto che si snoda, per tutta la sua lunghezza, sulle<br />

acque del lago artificiale del Liscione, il grosso invaso, di forma oblunga, realizzato<br />

negli anni ‘60-’70 del secolo scorso.<br />

All’altezza però di Guardialfiera, il paese nativo di Francesco Jovine, il paesaggio muta<br />

di nuovo: la superstrada si restringe e si infila in uno stretto e tortuoso budello che si<br />

inerpica faticosamente e diventa man mano un percorso quasi senza luce, lungo il quale<br />

dei paesi che lo fiancheggiano si intravvedono solo il bivio e la relativa indicazione, e<br />

non anche il profilo, perché tutti situati in alto e verso l’interno, per niente facili quindi<br />

da raggiungere, come potei in seguito constatare direttamente, a causa di collegamenti<br />

viarii rimasti più o meno tali e quali essi erano all’epoca dei Borboni.<br />

Un mutamento inaspettato e radicale di paesaggio, quindi, nello spazio di appena una<br />

manciata di chilometri, che mi colpì, ma che poi compresi, quando, nei mesi successivi,<br />

cominciai a girare un po’ la regione, come esso in realtà non fosse altro che una<br />

metafora del Molise, del suo territorio prevalentemente montuoso, accidentato e votato<br />

all’isolamento, dove la modernità era l’eccezione e l’arretratezza la regola.<br />

Il Molise, com’è noto, è una piccolissima regione, divenuta autonoma dall’Abruzzo<br />

solo nel dicembre del 1963, con una popolazione che supera di poco i trecentomila<br />

abitanti.<br />

Ma, come non lo sono oggi, neppure allora erano questi dati in sé il problema.<br />

Gli handicap veri erano l’isolamento anche rispetto alle regioni vicine, la dispersione<br />

della popolazione in comunità piccole, a volte addirittura minuscole, la presenza di un<br />

sistema viario interno rimasto immutato nel tempo, dove le distanze si misuravano non<br />

220


dai chilometri ma dalle difficoltà del percorso, la diffusa arretratezza.<br />

Il Molise, poi, non aveva città, vi erano solo, all’incirca, una decina di più o meno<br />

grossi agglomerati di popolazione, su un numero complessivo di 136 comuni, che<br />

non contavano neppure granché nella vita della regione, proprio per la difficoltà degli<br />

spostamenti e delle comunicazioni.<br />

Questa difficoltà di spostamento è poi qualcosa che non riuscivi proprio a dimenti<strong>care</strong>,<br />

se ti trovavi a girare anche solo per un po’ nella regione.<br />

Ricordo, ad esempio, di quando mia moglie venne a trovarmi a Campobasso usando il<br />

treno: proveniente da Pescara, a Termoli prese la littorina che dalla cittadina adriatica<br />

porta verso Campobasso, ebbene il viaggio durò un’eternità per un percorso di appena<br />

60-70 chilometri!<br />

Ma non è che fosse meglio spostarsi in auto. Con l’auto anzi, se ti accadeva di essere<br />

vittima di qualche guasto, rischiavi di restare bloccato, non si sa per quanto tempo e non<br />

solo di notte, in zone pressoché deserte, prima di incrociare qualche altro automobilista<br />

che ti prestasse soccorso!<br />

Una regione così conciata è chiaro che difficilmente può attendersi uno sviluppo<br />

ragionevole della sua economia; è nell’ordine delle cose, anzi, che il sottosviluppo<br />

alimenti se stesso. E infatti l’arretratezza era allora la peculiarità del Molise, non solo<br />

economica ma anche, naturalmente, culturale e politica.<br />

Solo qualche zona si salvava. Ad esempio, il Basso Molise, abitato anche dalla<br />

minoranza albanese e croata, dove era evidente, grazie all’insediamento della FIAT a<br />

Termoli, un certo benessere; anche nel Venafrano, con la presenza di piccole e medie<br />

attività produttive che avevano la possibilità di sbocchi commerciali verso il Lazio e la<br />

Campania, si notava un certo sviluppo.<br />

Ovviamente, anche la situazione politica della regione rifletteva, come uno specchio,<br />

quella socio-economica e culturale. Questo, anzi, era particolarmente vero per il PCI<br />

che più di altri pagava lo scotto dell’arretratezza e dell’isolamento.<br />

Nei circa due anni che ho lavorato in Molise, il numero dei Comuni che ho visitato per<br />

riunioni o iniziative esterne del partito è stato ristrettissimo. Ma non perché non avessi<br />

voglia di andare in giro. La verità è che la presenza del PCI sul territorio era molto<br />

limitata e si riduceva di fatto a Campobasso e Isernia, i due capoluoghi di provincia,<br />

al Basso Molise che aveva conosciuto negli anni ‘50 anche la presenza di un forte<br />

movimento bracciantile e per il lavoro, e poi ad alcuni altri comuni sparsi qua e là nella<br />

regione come S. Croce di Magliano, Casacalenda, Venafro.<br />

Per la DC, invece, la situazione era del tutto diversa.<br />

Da tempo immemorabile essa poteva disporre della maggioranza assoluta negli enti<br />

locali e al Consiglio regionale, che le consentiva di ridurre a un ruolo del tutto marginale<br />

i partiti alleati che erano comunque ben poca cosa dal punto di vista organizzativo ed<br />

elettorale; e proprio dell’arretratezza e dell’isolamento essa aveva fatto il predellino<br />

di lancio per la costruzione di un sistema di potere capillare e diffuso sul territorio,<br />

molto prodigo di favori sul piano clientelare ma scarsamente produttivo sul terreno<br />

dello sviluppo economico e sociale.<br />

Un partito strutturalmente debole, quindi, il nostro. Una debolezza alla quale però i<br />

nostri compagni reagivano, di solito, chiudendosi facilmente in uno sterile settarismo e<br />

221


praticando assai di frequente lo sport delle furibonde liti intestine.<br />

Eppure, il nostro consenso elettorale non era, poi, di così poco conto.<br />

Vorrei ricordare, ad esempio, che il PCI molisano, nel ‘76, ha toccato il 26% dei voti;<br />

e, se pure negli anni seguenti ha visto fortemente ridursi la sua dote di consensi, come<br />

avvenne del resto in tutta l’Italia, tuttavia, sia nel ‘79 che nel 1983, il suo voto si è<br />

attestato intorno al 20%. Una percentuale di tutto rispetto, quindi, anche se ben lontana<br />

da quella di altre regioni, anche vicine. E la battuta di Berlinguer, nell’attivo regionale<br />

che tenemmo a Campobasso nell’ottobre del 1982, quando disse che anche i comunisti<br />

francesi avevano più o meno la stessa percentuale di voti del PCI molisano, non aveva<br />

valore puramente consolatorio, era un modo per dire che c’erano spazi su cui lavorare e<br />

ottenere risultati politici e organizzativi migliori.<br />

Ma perché questo avvenisse c’era bisogno di un altro tipo di partito, e anche di un<br />

altro contesto economico, sociale e culturale. Ma il partito era quello; così come il suo<br />

gruppo dirigente. E, ovviamente, anche il contesto.<br />

Quando arrivai in Molise non fu solo la litigiosità senza limiti del gruppo dirigente a<br />

impressionarmi, ogni pretesto era buono, mi colpì anche la tendenza assai diffusa tra i<br />

compagni, soprattutto tra gli intellettuali, a partire non dai problemi concreti della gente<br />

ma dagli schemi ideologici e culturali che ognuno aveva in testa.<br />

Da questo punto di vista, pur avendo alle spalle una lunga e variegata esperienza,<br />

raramente mi è capitato di aver a che fare con un modo di ragionare così farcito di<br />

astrattezze, anche se a volte le nebbie dell’ideologia servivano solo a nascondere<br />

obiettivi assai meno nobili. C’era perfino chi, in una realtà come quella del Molise,<br />

faceva l’operaista a oltranza e su questo misurava le scelte da fare, che si trattasse di<br />

scelte politiche, programmatiche o anche elettorali.<br />

Insomma, ci si trovava a ogni piè sospinto di fronte a settarismi, visioni minoritaristiche,<br />

che non portavano sicuramente il partito ad aprirsi anche in quelle realtà dove<br />

l’arretratezza e l’isolamento pesavano meno.<br />

Non che non ci fossero, nel gruppo dirigente regionale, compagni con posizioni più<br />

aperte e lungimiranti, non a caso con l’arrivo del bipolarismo abbiamo conquistato con<br />

alcuni di essi il Comune e la provincia di Campobasso e governato per un certo tempo<br />

la Regione, ma essi non rappresentavano certamente la maggioranza. E questo era vero<br />

anche nelle sezioni. Anche in quelle dove si registrava una certa presenza operaia: c’era<br />

anzi in genere tra gli operai della FIAT di Termoli (non così tra quelli che lavoravano<br />

nelle fabbriche del vastese) un estremismo quasi endemico che a volte sfociava, anche sul<br />

piano sindacale, in iniziative e comportamenti inaccettabili all’interno della fabbrica.<br />

Per parte mia, pur nei limiti delle mie capacità di comprensione di una realtà che mi<br />

era estranea come quella del Molise, ho cercato tuttavia di portare un contributo che<br />

aiutasse il gruppo dirigente a essere più solidale al proprio interno e, più in generale,<br />

sollecitasse il partito ad avere un progetto politico-programmatico, a fare meno<br />

propaganda e più iniziativa politica, ad aprirsi di più alla società, a superare visioni<br />

astratte e intellettualistiche e a muoversi tenendo conto di più della realtà e soprattutto<br />

dei problemi della gente.<br />

Non so quanto questo mio sforzo sia stato utile e abbia dato frutti, questo possono dirlo<br />

solo i compagni molisani, ma è un fatto che anche questa volta io ce l’ho messa tutta.<br />

222


Mia preoccupazione primaria fu, naturalmente, la ricostruzione della unità del gruppo<br />

dirigente, premessa e condizione anche per tirarmi fuori dal Molise e da un incarico che<br />

non avevo in nessun modo cercato. Ma, debbo dire, purtroppo con scarso successo. E<br />

non furono pochi i momenti in cui lo scontro interno assunse toni anche violenti.<br />

Qualcuno di questi momenti l’ho già ricordato, come quello che si consumò alla<br />

presenza di Enrico Berlinguer. Ma il momento forse peggiore fu in occasione del<br />

Congresso provinciale di Campobasso, al quale era presente anche Antonio Bassolino<br />

in rappresentanza del centro del partito. Eravamo agli inizi del 1983, alla vigilia del<br />

XVI Congresso nazionale.<br />

La discussione nel Congresso provinciale fu infuocata, preceduta da discussioni<br />

altrettanto aspre nei Congressi delle sezioni; e il punto di partenza era il solito: quel che<br />

era accaduto negli anni precedenti, per cer<strong>care</strong> ognuno di arrivare a una resa di conti<br />

definitiva rispetto al gruppo avverso.<br />

La violenza dello scontro fu tale che il Congresso si concluse senza poter eleggere il<br />

segretario di federazione: si decise così che si sarebbe andati in un secondo tempo alla<br />

sua elezione, dopo una approfondita ricognizione della situazione che venne affidata<br />

naturalmente al segretario regionale.<br />

Non fu un momento facile per me, che mi ritrovai in mezzo a un fuoco incrociato, ma<br />

alla fine, dopo una consultazione paziente dei singoli compagni dell’organismo dirigente<br />

provinciale, riuscimmo a trovare un punto di incontro largamente condiviso: no alla<br />

riconferma del vecchio segretario, molto contestato, sì al compagno che io proposi e<br />

che mi sembrava l’unico in grado di imprimere una svolta a uno stato di cose che stava<br />

diventando sempre più drammatico.<br />

Eleggemmo così Norberto Lombardi, professore di filosofia al liceo classico di<br />

Campobasso in aspettativa e consigliere regionale: non era certo un compagno fuori<br />

della mischia, ma con sufficiente equilibrio e autorevolezza, anche all’esterno, aperto e<br />

fortemente legato alla realtà cittadina.<br />

L’altro momento di difficoltà che voglio ricordare fu quando, in procinto di tornare in<br />

Abruzzo per essere candidato dal partito a Chieti alla Camera dei deputati, nelle elezioni<br />

del 26 giugno 1983, dovetti affrontare e risolvere il problema del nuovo segretario<br />

regionale, con tempi peraltro assai ristretti a mia disposizione.<br />

Anche qui, dopo molte consultazioni e confronti defatiganti con i compagni, oltre che<br />

con la Direzione nazionale, alla fine riuscii a trovare la quadra: lo stesso Norberto sarebbe<br />

stato il nuovo segretario regionale, senza lasciare, per il momento, la federazione, a<br />

dirigere la quale avrebbe proposto poi lui stesso, senza fretta, il suo successore.<br />

Per una serie di ragioni il nome di Norberto era, anche questa volta, l’unico spendibile.<br />

Ma trovare prima il suo accordo e poi il consenso degli altri non fu affatto semplice.<br />

Costò anche qualche scontro con alcuni compagni, ma quel che decise della partita fu<br />

il patto non scritto tra i maggiorenti del gruppo dirigente regionale che prevedeva il<br />

deputato a Isernia, in occasione delle imminenti elezioni politiche, e la garanzia per il<br />

nuovo segretario della rielezione, per la terza volta, al Consiglio regionale.<br />

Ho lasciato definitivamente il Molise agli inizi di maggio del 1983. E il giorno che<br />

imboccai la strada del ritorno, in direzione dell’Abruzzo, c’era con me anche Rosetta.<br />

223


Essa era venuta appositamente a Campobasso, proprio per darmi una mano in vista del<br />

rientro a Chieti; e così, mentre lei riordinava le cose da riportare a casa, io mi recai alla<br />

riunione del Comitato regionale del partito per sbrigare l’ultima formalità: il passaggio<br />

delle consegne al nuovo segretario regionale, alla presenza di un compagno del centro<br />

del partito, non ricordo bene se Renzo Trivelli o Gianni Giadresco, ex sindaco di<br />

Ravenna e deputato, che allora lavorava alla sezione di Organizzazione.<br />

Dopo la riunione, che si svolse in modo tranquillo, io e mia moglie non ripartimmo subito<br />

per l’Abruzzo: non solo perché era tardi, ma anche per finire di raccogliere e sistemare le<br />

mie masserizie. Così la notte dormimmo a Campobasso, nell’appartamentino in affitto<br />

che avevo occupato durante i mesi del mio non lungo soggiorno nella regione.<br />

Partimmo il mattino dopo, sul tardi; e debbo dire, mie <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>, che fu una partenza<br />

davvero senza rimpianti. La nonna, anzi, mi ricorda che, al momento di mettere piede<br />

sulla mia nuova Golf, che aveva sostituito quella rubata, esclamai con sollievo, come se<br />

mi fossi liberato da un incubo: Finalmente!<br />

Eh sì, quel giorno fu per me come una liberazione; e in quella esclamazione c’erano i<br />

tanti momenti di sconforto vissuti in solitudine durante i mesi di questa mia esperienza<br />

molisana, la fatica e spesso la impotenza di fronte alla sordità di chi non voleva ascoltare,<br />

ma anche la contentezza per la conclusione positiva di una vicenda che avevo vissuto<br />

male sin dall’inizio.<br />

Con questo non voglio dire che anche in questa mia avventura non ci siano state cose<br />

buone da ricordare. Tutt’altro!<br />

Ricordo, ad esempio, con piacere la grande ospitalità di tanti compagni e compagne,<br />

come la loro buona cucina, non solo a Campobasso ma anche nei comuni più sperduti.<br />

Debbo a loro anche la conoscenza di tradizioni e costumi del Molise che ignoravo e<br />

che sono invece di straordinario interesse, come anche la scoperta di paesaggi aspri ma<br />

belli, il Matese ad esempio, e di luoghi importanti per la storia e la cultura dei popoli<br />

sanniti come Sepino, Boiano, Pietrabbondante.<br />

Anche sul piano politico, vi sono stati momenti che ricordo con soddisfazione: ad<br />

esempio, il Congresso regionale del partito che si svolse poco dopo il mio arrivo, agli<br />

inizi del 1982, con una discussione utile, tutta incentrata sui problemi e non avvelenata<br />

dalle lotte intestine che negli anni precedenti avevano diviso il partito. Così come la tre<br />

giorni con Enrico Berlinguer: fu un momento di grande partecipazione popolare che<br />

fece passare in secondo piano anche la rabbia per lo spettacolo poco decoroso andato in<br />

scena, durante l’attivo del partito, alla presenza del segretario nazionale del PCI.<br />

Vi sono stati anche episodi curiosi e simpatici che ho ancora nella memoria. Come, ad<br />

esempio, quando andai, per una riunione del direttivo, alla sezione di Ururi, un paese<br />

albanese del Basso Molise, per tentare di rimetterla in movimento, visto che era ferma<br />

da tempo e quasi chiusa.<br />

Durante la riunione, i compagni, che avevano evidentemente parecchie cose da chiarirsi<br />

reciprocamente, prima discussero in maniera animata tra di loro in albanese sulle<br />

questioni che io avevo posto e poi, raggiunto un certo accordo, finalmente si rivolsero<br />

a me che intanto aspettavo, un po’ imbarazzato, e misero anche me al corrente di quel<br />

che intendevano fare...<br />

Come ricordo con simpatia diversi compagni di Campobasso e alcuni vecchi compagni,<br />

224


forse oggi scomparsi, di S. Croce di Magliano, un grosso paese amministrato da noi ai<br />

confini con la Puglia, compagni che, nella loro gioventù, erano stati i protagonisti di<br />

grandi lotte per il lavoro e per la costruzione del partito.<br />

In quel periodo, neanche a S. Croce la sezione attraversava un buon momento; ed erano<br />

proprio loro, che non ne avevano molta colpa, i più imbarazzati per il modo come<br />

andavano le cose, ma anche, nello stesso tempo, i più impegnati a cer<strong>care</strong> di rimetterla<br />

in carreggiata pur se con scarsi risultati.<br />

Il PCI molisano mi ha consentito anche di prendere la parola al XVI Congresso<br />

nazionale.<br />

Ho partecipato a tutti i Congressi nazionali del PCI dal ‘60 in poi, ma questo fu l’unico<br />

in cui potei prendere la parola nell’assemblea plenaria; e fu, anzi, anche il Congresso<br />

nel quale venni eletto membro del Comitato Centrale, proprio come rappresentante del<br />

Molise.<br />

Debbo dunque qualcosa anche al Molise, è parte anch’esso (e in termini tutto sommato<br />

positivi) della preziosa esperienza culturale e politica che ho accumulato nei lunghi anni<br />

del mio impegno nel PCI e che ha dato senso alla mia vita.<br />

Quel che di quell’avventura non mi era affatto piaciuto erano, come dire, il modo e il<br />

contesto, oltre che le sue possibili e preoccupanti prospettive.<br />

225


226


CAPITOlO XIII<br />

La campagna elettorale e poi l’elezione al Parlamento della Repubblica, nella tarda<br />

primavera del 1983, furono l’occasione di un rinnovato rapporto con i compagni della<br />

provincia di Chieti.<br />

Anche se questo rapporto, in realtà, non era mai venuto meno. Ma un allentamento,<br />

sì, c’era stato, dovuto principalmente al mio impegno prima nella federazione di<br />

Pescara e poi in Molise. Non fu comunque difficile reintrecciare un feeling le cui radici<br />

affondavano in tempi assai lontani.<br />

Ma andiamo al punto. E il punto è, mie <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>, che ora dovrei raccontarvi della<br />

mia esperienza di parlamentare, credo però di poterlo fare senza spendere molte parole.<br />

Anche se quegli anni sono stati, in realtà, anni molto importanti.<br />

Sono stati, infatti, gli anni delle difficoltà sempre più evidenti che attraversavano il<br />

PCI e dello scontro con il PSI del quale Berlinguer denunciò, a causa della politica<br />

di Craxi, il mutamento genetico rispetto alla sua natura di partito che si richiamava al<br />

socialismo.<br />

Sono stati anche gli anni del trionfo del pentapartito, dell’accordo cioè tra Craxi e la<br />

destra della DC, con l’emarginazione della sua ala sinistra, degli sprechi senza limiti<br />

del denaro pubblico, a fini non solo pubblici ma anche privati, dell’accumulo di un<br />

enorme debito pubblico i cui effetti nefasti sul futuro dell’Italia stiamo scontando ancora<br />

oggi, della corruzione diffusa e della questione morale denunciata da Berlinguer, della<br />

cultura del rampantismo, naturale alimento della corruzione, e dell’affermarsi sfrenato<br />

di egoismi individuali e dei ceti sociali più forti.<br />

Gli anni, insomma, dell’addensarsi di nubi sempre più minacciose sul destino dell’Italia<br />

che, agli inizi degli anni ‘90, doveva trasformarsi in tempesta travolgendo partiti e<br />

istituzioni, con l’esplosione di Tangentopoli e l’avvento, a seguito della discesa in campo<br />

di Berlusconi, di classi dirigenti, come quelle che si sono poi coagulate nel centrodestra,<br />

portatrici di spinte populiste ed eversive dei valori fondanti della Repubblica e della<br />

stessa democrazia italiana.<br />

Bene, <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>: io ho vissuto da un osservatorio privilegiato questi avvenimenti, ma,<br />

per ovvie ragioni, ne sono stato solo una piccola rotella, altri sono stati i protagonisti,<br />

che pure ho conosciuto e avuto la possibilità di giudi<strong>care</strong> in diretta, non sempre<br />

positivamente purtroppo!<br />

Questo non significa che non ho portato anch’io il mio piccolo contributo all’attività<br />

del Parlamento. Ma si è trattato di un contributo legato, da un lato, ai problemi della<br />

provincia di Chieti e dell’Abruzzo, dall’altro, ai settori di lavoro di competenza della<br />

Commissione parlamentare della quale facevo parte.<br />

In aula ho avuto modo di prendere la parola poche volte (l’ho fatto, in particolare, in<br />

occasione della battaglia ostruzionistica sulla scala mobile), mentre la prendevo assai<br />

spesso in Commissione (ho fatto parte della IX Commissione della Camera: Trasporti,<br />

Poste e Telecomunicazioni, nella quale mi sono ritrovato anche dopo il mio rientro in<br />

Parlamento, nell’autunno del ‘90, subentrando al povero Michele Ciafardini).<br />

In Commissione mi interessavo soprattutto ai trasporti, in particolare naturalmente per<br />

227


la parte che riguardava l’Abruzzo (Sangritana e aeroporto di Pescara). Ma seguivo anche<br />

i problemi della pesca marittima che erano allora di competenza del Parlamento.<br />

Da questo punto di vista, sono stato anzi, per parecchi anni, il referente in Parlamento,<br />

per conto del partito, del movimento cooperativo della Lega, che organizzava allora<br />

soprattutto i pescatori della costa adriatica, dalle Marche all’Emilia-Romagna e al<br />

Veneto, con una certa presenza anche in Abruzzo e in qualche altra regione del Sud,<br />

e ho avuto così modo di girare un po’ l’Italia per discutere con i pescatori dei loro<br />

problemi.<br />

Ricordo pure che, per trovare una soluzione al contenzioso antico, tra l’Italia e la Croazia,<br />

sulla pesca in Adriatico, partecipai anch’io all’incontro, a Belgrado, di una nostra<br />

delegazione parlamentare con i dirimpettai yugoslavi, ed ebbi modo, successivamente,<br />

anche di discuterne con l’ambasciatore yugoslavo in Italia.<br />

Sono stato anche tra i proponenti più attivi del cosiddetto fermo di pesca, per la<br />

salvaguardia delle possibilità di riproduzione delle varie specie di pesce messe in grave<br />

pericolo da alcune forme di pesca, assai diffuse in quegli anni, selvagge indiscriminate<br />

e senza regole.<br />

Insomma, ho fatto delle cose anch’io, oltre a vivere una esperienza politica e istituzionale<br />

straordinaria.<br />

Ma, se debbo essere sincero, non è che l’attività parlamentare mi abbia particolarmente<br />

scaldato il cuore.<br />

Ho sempre vissuto invece in modo molto più intenso i compiti di direzione politica che<br />

via via il partito mi ha affidato, anzi è stata proprio su questo terreno la vera sfida della<br />

mia vita, il terreno sul quale ho misurato me stesso, ho misurato, come dice Dante, la<br />

mia nobilitate.<br />

Ricordo che, nel lontano 1956, un compagno autorevole della federazione di Chieti mi<br />

spiegò che dirigere il partito significava dirigere gli uomini, e questo era senza dubbio<br />

il compito più alto, anche se assai arduo, che potesse mai capitare a qualcuno: parole<br />

profondamente vere e che non ho mai dimenticato.<br />

Molto più coinvolgente è stata invece l’altra mia esperienza istituzionale: quella di<br />

sindaco.<br />

Dirigere un Comune, sia pur piccolo, non solo mette alla prova le tue capacità di<br />

mantenere coeso e solidale il gruppo degli amministratori e la tua maggioranza, ma ti<br />

mette a contatto diretto con i cittadini; e lì bisogna dare continuamente risposte, trovare<br />

soluzioni, cer<strong>care</strong> di corrispondere alle attese. E non solo sui problemi del paese, ma<br />

spesso anche su questioni di natura personale e familiare, senza poter dire a chi sollecita<br />

il tuo intervento: queste non sono questioni che riguardano il sindaco, perché non<br />

capirebbe.<br />

Io ho fatto il consigliere comunale d’opposizione per oltre un ventennio; e anche qui il<br />

rapporto con la gente era fondamentale.<br />

Ma amministrare è un’altra cosa, qui la propaganda e i discorsi generici servono a poco.<br />

Ed è proprio per queste ragioni che ricordo ancora oggi la mia esperienza di sindaco, sia<br />

pure per appena un quinquennio, come una delle più interessanti che ho vissuto.<br />

Sono diventato sindaco di Orsogna nella primavera del 1985, ma non per mia scelta,<br />

228


anche se più di una volta, nel mio foro interiore, mi ero detto che mi sarebbe piaciuto<br />

diventarlo a conclusione della mia carriera politica, sarebbe stato come un ritorno alle<br />

origini che mi avrebbe consentito di riprendere un rapporto con un mondo che era<br />

rimasto sempre vivo dentro di me.<br />

E’ accaduto invece a seguito della richiesta di candidarmi a Orsogna come capolista, in<br />

occasione delle imminenti elezioni amministrative, che mi venne da parte di un gruppo<br />

di compagni, comunisti e socialisti, del mio paese natio.<br />

Ricordo che ci incontrammo in federazione, a Chieti, era tutta gente che conoscevo<br />

da lungo tempo ovviamente, e non ci vollero molte parole per farmi convincere ad<br />

accettare: ero già disposto a farlo di mio!<br />

La ragione che li aveva spinti a farmi questa richiesta era, naturalmente, molto semplice<br />

e comprensibile: io ero allora parlamentare e ciò, essi pensarono, avrebbe sicuramente<br />

reso piuttosto alte le possibilità di vittoria. E, infatti, così avvenne.<br />

Vincemmo e vincemmo bene, tornando alla guida del Comune come sinistra dopo ben<br />

sedici anni: da quando cioè, nel ‘69, lo conquistammo per la prima volta nel dopoguerra,<br />

con una lista PCI-PSIUP!<br />

Mi ritrovai così sindaco, a capo di una amministrazione che comprendeva comunisti,<br />

socialisti e indipendenti.<br />

Nei cinque anni successivi non andò naturalmente tutto tranquillo, soprattutto quando si<br />

trattò di mettere mano al Piano regolatore, un argomento che a Orsogna è sempre stato<br />

tabù e ha sempre provocato divisioni e scontri a non finire, e a farla da padrone sono<br />

solo gli interessi, piccoli o grandi che siano.<br />

Ma, nel complesso, lasciammo molte cose buone agli orsognesi.<br />

Non solo servizi più organizzati e moderni, strade di campagna rifatte o aperte ex-novo,<br />

fognature nuove o rimesse in sesto e scarichi a cielo aperto eliminati, la rete del metano<br />

nella zona industriale e turistica e ancora tante altre cose legate alla vita quotidiana della<br />

gente, ma anche partecipazione e tanta cultura.<br />

Non è il caso qui di entrare nel dettaglio. Ma qualcuno dei nostri lasciti agli orsognesi li<br />

voglio comunque ricordare, anche perché, soprattutto per alcune nostre iniziative (come<br />

la ristrutturazione del Teatro comunale e la organizzazione dell’Università della terza<br />

età), quelli venuti dopo di noi, parte dei quali ancora oggi amministra il Comune, hanno<br />

tentato di fare come quel gracchio di cui narra Fedro: viste delle penne di pavone per<br />

terra, le raccatta e se ne adorna, finché non arriva lo splendente corteo dei pavoni che<br />

spoglia il gracchio sfrontato delle penne rubate e lo caccia via a beccate dal branco nel<br />

quale aveva tentato di infilarsi.<br />

Ma quali lasciti ricordare?<br />

Beh, innanzitutto il teatro dialettale che abbiamo organizzato per tre anni di seguito,<br />

grazie alla preziosa collaborazione di una vera amante del teatro, Silvana Baroni, e che<br />

la DC ha poi lasciato morire.<br />

La manifestazione si svolgeva nel mese di luglio, all’aperto, e vi partecipavano<br />

compagnie amatoriali da tutta Italia; e la piazzetta che l’ospitava, Piazza Castello, una<br />

piccola bomboniera circondata dalle case e attrezzata adeguatamente con palco e sedie,<br />

era sempre stracolma, con la presenza in prevalenza di donne di tutte le età e di tutti i<br />

229


ceti, molte delle quali si portavano dietro sedioline e sgabelli per evitare di rimanere in<br />

piedi.<br />

E poi i libri pubblicati grazie all’impegno del Comune: la biografia del musicista<br />

orsognese Domenico Ceccarossi, un cornista famoso ai suoi tempi e autore anche di un<br />

testo per lo studio del corno; e L’Americ’annallà, microstorie delle grandi migrazioni<br />

degli orsognesi verso le Americhe, scritto da Plinio Silverii ma con il contributo decisivo<br />

degli anziani dell’Università della terza età.<br />

E ancora, appunto, l’Università della terza età che mettemmo in piedi con l’aiuto del<br />

povero Francesco Jengo e di sua moglie Eide. Oggi essa è molto frequentata e più di<br />

uno si attribuisce il merito della sua nascita, ma la verità è che all’epoca, quando la<br />

mettemmo su, venivamo presi in giro e la DC sconsigliava la partecipazione alle varie<br />

iniziative organizzate dalla neonata Università.<br />

Voglio inoltre ricordare il Teatro comunale.<br />

Quando conquistammo il Comune, esso era ridotto proprio male e si era trasformato<br />

in un luogo polveroso e chiuso, senza più alcuna funzione: ebbene, faticando le sette<br />

proverbiali camicie per trovare i soldi necessari, noi lo ristrutturammo e ne facemmo un<br />

piccolo gioiello, anche se pure qui alcuni sembrano averlo dimenticato...<br />

Facemmo, insomma, molte cose in quei cinque anni di intenso lavoro.<br />

E’ vero, nel ‘90 perdemmo l’Amministrazione comunale ma fu per appena una manciata<br />

di voti. E non perché avessimo demeritato: se non si fosse rotta l’alleanza del 1985,<br />

avremmo rivinto agevolmente. Accadde invece, ahimè!, qualcosa di poco bello.<br />

Una parte dei socialisti, scontenti del Piano regolatore (l’importanza degli<br />

interessi...), scelse di allearsi con la DC e quelli, tra loro, che avevano già fatto parte<br />

dell’Amministrazione comunale e non si erano allineati a questa scelta, non ebbero il<br />

coraggio di candidarsi di nuovo con noi!<br />

Ma non posso concludere questa breve rassegna di lasciti della nostra amministrazione<br />

senza ricordare una iniziativa che fu insieme culturale e politica e che ebbe grande eco<br />

anche fuori di Orsogna, il cui merito fu essenzialmente quello di far divenire il rapporto<br />

tra Orsogna e i suoi emigrati non più solo un fatto privato, affidato ai singoli emigrati e<br />

ai loro parenti e amici ma anche alle istituzioni: il gemellaggio tra Orsogna ed Everett,<br />

una cittadina alle porte di Boston nel Massachusetts, popolata largamente da orsognesi<br />

emigrati negli Stati Uniti all’indomani della guerra.<br />

Il gemellaggio con Everett si articolò in due tappe: la prima a Orsogna, nel 1988, e la<br />

seconda a Everett, nel 1989, anche se quella di Everett fu solo l’occasione per rinnovare<br />

il legame di amicizia sancito l’anno prima.<br />

La cerimonia del gemellaggio ebbe luogo il 18 agosto, a conclusione delle tradizionali<br />

feste di mezzo agosto; e si svolse in piazza.<br />

Fu una cerimonia indimenticabile. E ricordo ancora oggi lo straordinario spettacolo<br />

della folla raccolta attorno al palco che ospitava il Consiglio comunale e il sindaco di<br />

Everett, una folla sempre molto attenta e reattiva a tutto quello che veniva detto dal<br />

palco.<br />

Avevamo convocato il Consiglio Comunale in piazza, per fare della cerimonia del<br />

gemellaggio qualcosa che coinvolgesse veramente, anche dal punto di vista emotivo, sia<br />

gli orsognesi che i nostri connazionali all’estero. E non si trattò di una cerimonia fatta di<br />

230


solo folklore, con il solito scambio di complimenti, di doni e, naturalmente, delle chiavi<br />

delle due cittadine: cercammo anche di lanciare messaggi capaci di consolidare, come<br />

istituzione, il rapporto con i nostri emigrati e, nello stesso tempo, di parlare di pace e di<br />

amicizia tra i popoli in un momento della storia del mondo nel quale nubi minacciose<br />

cominciavano ad addensarsi all’orizzonte a seguito dello sgretolarsi già allora evidente<br />

del colosso sovietico e di tutto il suo sistema di alleanze.<br />

La cerimonia durò qualche ora, con i discorsi dei rappresentanti dei vari gruppi consiliari,<br />

del presidente dell’associazione “FIGLI DI ORSOGNA” di Everett e, infine, mio e<br />

del sindaco della cittadina americana, fino alla firma, da parte dei due sindaci, di una<br />

dichiarazione di amicizia tra Orsogna ed Everett.<br />

Il verbale della cerimonia di gemellaggio e la dichiarazione che l’accompagna fanno<br />

tuttora bella mostra di sé nella sala consiliare del Comune di Orsogna, sia nella versione<br />

italiana che in quella inglese, mentre ho visto con piacere in questi giorni, su Internet,<br />

che anche la cittadina del Massachusetts esibisce sul suo sito ufficiale il gemellaggio<br />

con Orsogna: Sister City Orsogna, Italy.<br />

Dopo la fine della cerimonia, la serata naturalmente svoltò verso la festa, con la<br />

esibizione del coro “La FIGLIA DI IORIO” di Orsogna che chiuse la serata (il coro<br />

degli orsognesi di Everett si era esibito invece, applauditissimo, la sera del ferragosto,<br />

proponendoci anche qualche antica melodia che da noi è ormai quasi dimenticata e<br />

facendo vivere a tutti quella particolare emozione che solo chi passa i suoi anni lontano<br />

dalla propria terra di origine può mettere dentro i vecchi canti già ascoltati tante volte<br />

ma mai percepiti come fatto di memoria e di identità).<br />

I nostri ospiti erano arrivati a Orsogna agli inizi di agosto, se non ricordo male; e,<br />

quando giunsero in paese direttamente dall’aeroporto di Fiumicino, li accogliemmo<br />

davvero in pompa magna.<br />

Furono in tanti quell’anno a tornare da Everett, aggiungendosi ai tanti altri nostri<br />

emigrati che erano già a Orsogna o stavano per giungervi, molti richiamati anch’essi<br />

dal gemellaggio, sia da altre zone degli Stati Uniti che dai vari Paesi europei.<br />

Con loro arrivò, naturalmente, anche il sindaco di Everett, accompagnato dalla moglie,<br />

una signora svedese molto gentile ma anche molto silenziosa e forse timida, che seguiva<br />

dovunque il marito come un’ombra.<br />

John McCarthy, di origine irlandese, apparteneva al partito democratico ed era già da<br />

molti anni sindaco di Everett, e con lui collaboravano nel governo della città (come<br />

scoprii poi quando, a mia volta, mi recai negli Stati Uniti) diversi italo-americani, alcuni<br />

anche di ascendenze orsognesi.<br />

John era un tipo simpatico, allegro, estroverso e fece subito lega con tutti; e forse fu<br />

proprio questo che gli consentì di cogliere subito la differenza che passa tra gli italiani e<br />

gli americani quanto a concezione di vita: In Italia, questa fu la sua scoperta nient’affatto<br />

scherzosa, si lavora per vivere, in America si vive per lavorare!<br />

L’anno dopo, sempre in agosto, fummo noi a recarci a Everett.<br />

Eravamo in parecchi: la mia famiglia al completo, il gruppo teatrale di Plinio che diede<br />

poi due spettacoli a Everett, alcuni consiglieri comunali e un piccolo drappello di<br />

orsognesi che aveva parenti nella zona.<br />

Anche noi fummo accolti benissimo; e i giorni passati nella bella cittadina del<br />

231


Massachusetts sono stati anch’essi giorni che si sono conservati ben vivi nel mio<br />

ricordo, sia per l’accoglienza riservata a me e alla mia famiglia (di questo debbo<br />

ringraziare in particolare Gabriella, Nicola e i suoi figli che scarrozzarono per tutta<br />

Boston Massimiliano e Stefano e gli altri ragazzi del gruppo teatrale) che per il clima<br />

di entusiasmo che si creò attorno alle manifestazioni organizzate per il rinnovo del<br />

gemellaggio.<br />

Era la prima volta che un sindaco arrivava tra i nostri emigrati non per una semplice<br />

visita; e poi, c’era curiosità, ma debbo dire anche qualche preoccupazione, per la venuta<br />

di un sindaco comunista, era anche questa una prima volta, prima erano sempre arrivati<br />

sindaci democristiani. Ma non ci volle molto per rompere il ghiaccio, anche perché<br />

molti degli orsognesi di Everett mi conoscevano già: o perché erano partiti da Orsogna<br />

quando io cominciavo a fare le mie prime prove in politica o perché erano miei coetanei<br />

e avevamo solo preso strade diverse nella vita.<br />

Riemersero, anzi, in quei giorni antichi rapporti che si erano persi, appunto, per le vie<br />

del mondo.<br />

Come, ad esempio, con Nicola che ci ospitò nella sua casa, con il quale avevo giocato<br />

tante volte insieme quando eravamo poco più che bambini. O con Alceo, più grande<br />

di me di qualche anno e che, negli anni immediatamente successivi alla guerra, tutti i<br />

ragazzini della mia età avevano ammirato perché sapeva gio<strong>care</strong> bene a calcio e faceva<br />

parte della squadra dell’Orsogna ma la cui figura avevo completamente rimossa dalla<br />

memoria anche se a lui mi lega un ricordo lontano, proprio dell’immediato dopoguerra,<br />

che ha a che fare con uno dei nostri giochi pericolosi di quei giorni difficili.<br />

Dopo il nostro ritorno a Orsogna, tutti i ragazzini del paese frequentarono, per un<br />

certo tempo, finché essa non fu riempita di terra, la grande pozzanghera scavata dallo<br />

scoppio di una bomba di aereo nella zona dove oggi si trova la palestra comunale e che<br />

ricordo piena d’acqua ancora all’inizio dell’estate, per farvi il bagno naturalmente pur<br />

se nessuno di quei ragazzini aveva mai visto il mare e mai perciò aveva avuto qualche<br />

esperienza di nuoto.<br />

Ebbene, un giorno vi andai anch’io e mi tuffai come tutti, ma giunto a metà percorso,<br />

dove l’acqua era piuttosto alta, fui preso dal panico e, se riuscii a tornare sull’asciutto<br />

senza danni, lo devo proprio ad Alceo!<br />

In quei giorni, scopersi anche di avere dei parenti a Everett: non so se lo fossero<br />

veramente, non ne avevo mai sentito parlare dai miei, comunque fui lieto di accettare il<br />

loro invito a cena e di passare con essi una bella serata.<br />

Ricordo che anche a New York mi accadde, qualche settimana dopo, di rincontrare tanta<br />

gente che conoscevo: molti amici dei miei genitori, innanzitutto, che avevano casa e<br />

campagna alle Valli, a un tiro di schioppo da Colle S. Giacomo dove ancora abitavamo<br />

quando essi erano partiti per gli Stati Uniti, e diversi coetanei di cui non ricordavo ormai<br />

più nemmeno l’esistenza.<br />

Una esperienza straordinaria, dunque, che ebbe anche un prologo piuttosto spettacolare<br />

già al momento del nostro arrivo all’aeroporto di Boston: io e la mia famiglia infatti<br />

fummo accolti con cartelli che ci davano il benvenuto, ci attendeva inoltre, all’esterno,<br />

una limousine di cerimonia per portarci alla sede del club degli orsognesi di Everett, il<br />

club della Sons of Orsogna Association, ed essa era così mastodontica e arredata che,<br />

232


quando vi montammo sopra, ci sembrò di entrare in un grazioso salotto!<br />

Ci fu però anche un piccolo inconveniente, al momento di uscire dall’aeroporto, che<br />

ritardò il nostro incontro con gli amici di Everett che ci aspettavano al di là delle<br />

transenne<br />

Mentre tutti gli altri passeggeri poterono imboc<strong>care</strong> subito, senza problemi, l’uscita,<br />

io e la mia famiglia dovemmo invece sottoporci, per quasi un’ora, alle attenzioni della<br />

dogana che, chissà perché, rovistò con cura tutte le nostre valige alla ricerca di roba<br />

mangereccia che negli USA è proibito introdurre. Questa, almeno, la spiegazione che ci<br />

fu data, anche se in quel momento mi venne spontaneo pensare che, forse, l’inghippo<br />

aveva anche a che fare con il fatto che io ero un comunista e qualcuno voleva essere<br />

sicuro che non portassi nulla di pericoloso con me...<br />

Oggi un tale problema non si pone più, ma all’epoca ai dirigenti del PCI non veniva<br />

concesso il visto per l’ingresso negli Stati Uniti.<br />

E’ vero, gli americani avevano fatto qualche passo avanti nei nostri confronti già tra<br />

gli anni ‘70 e ‘80, tanto che a Giorgio Napolitano, oggi Presidente della Repubblica<br />

ma allora tra i massimi dirigenti del PCI, fu consentito di tenere conferenze in diverse<br />

Università USA per spiegare le politiche portate avanti dai comunisti italiani, ma erano<br />

sempre possibili colpi di coda.<br />

Pensai perciò, quando decidemmo di accettare l’invito dei nostri amici emigrati di<br />

recarci a Everett per rinnovare il patto di gemellaggio, che fosse il caso di premunirmi<br />

a tempo contro eventuali e spiacevoli imprevisti; e la cosa migliore mi parve quella di<br />

andare a parlare subito, con molto anticipo, con i funzionari dell’ambasciata americana<br />

di Via Veneto a Roma, spiegando la natura e i motivi del mio viaggio e facendo presente<br />

nello stesso tempo anche la mia qualità di parlamentare e dirigente del PCI. Debbo dire<br />

che fu la scelta giusta: il visto mi venne concesso abbastanza rapidamente e potemmo<br />

così partire tranquilli alla volta di Boston.<br />

Il rinnovo del patto di gemellaggio ci fu il 25 agosto, nella sede del club che aveva<br />

organizzato l’evento, anche qui con la partecipazione di tantissima gente di Everett e<br />

dei dintorni.<br />

Ma eravamo approdati a Everett già dal 14 agosto. Avemmo così, prima della cerimonia<br />

per il rinnovo del gemellaggio, tutto il tempo per conoscere Boston, partecipare alle<br />

varie feste organizzate dai soci del club, essere ricevuti ufficialmente al Comune di<br />

Everett, visitare la mostra di pittura organizzata dai pensionati del posto e ricevere da<br />

loro in regalo il quadro che aveva vinto il primo premio (che tuttora fa bello sfoggio di<br />

sé a casa mia), gustare le succulente aragoste offerteci da McCarthy nella cena, sulle<br />

rive dell’Atlantico, alla quale ci invitò come sindaco della città e incontrare le varie<br />

autorità del Massachusetts.<br />

Sì, perché la nostra visita ebbe anche un risvolto istituzionale che andò ben oltre<br />

l’incontro con gli amministratori di Everett. Incontrammo infatti in quei giorni, io e<br />

la mia famiglia, accompagnati da McCarthy, da sua moglie e dai dirigenti del club, il<br />

governatore dello Stato, quel Dukakis che aveva perso qualche mese prima, proprio<br />

nel 1989, la sfida con Bush padre per la Presidenza degli Stati Uniti, lo speaker del<br />

Parlamento statale (che era repubblicano, se non ricordo male) e il sindaco di Boston<br />

che era da poco tornato da Roma dove aveva incontrato il papa.<br />

233


La verità è che il nostro arrivo fece notizia nel mondo dell’emigrazione italiana del<br />

Massachusetts e, in qualche misura, anche oltre di esso. E furono gli stessi nostri<br />

connazionali a darsi da fare per dare il massimo rilievo all’evento: era, in fondo, oltre<br />

che una forma di apprezzamento e di stima nei nostri confronti, anche un modo per<br />

mar<strong>care</strong> il ruolo, ormai già rilevante, giocato dai nostri emigrati nella vita dello Stato!<br />

Del resto, non era un caso se alle iniziative legate al rinnovo del gemellaggio erano<br />

presenti anche italo-americani delle cittadine vicine che avevano ormai conquistato una<br />

posizione di primo piano nel mondo politico ed economico locale.<br />

E così il nostro soggiorno fu anche accompagnato da notizie sulla stampa che informava<br />

sui nostri incontri e sulle iniziative programmate per il gemellaggio; e io conservo<br />

ancora i ritagli di giornali con fotografie mie e della mia famiglia in posa con le autorità<br />

del posto.<br />

Ebbi occasione anche di fare una lunga intervista a una televisione della zona gestita<br />

da italiani, e a intervistarmi fu una straordinaria donna abruzzese, Rosetta Romagnoli,<br />

originaria di Sulmona.<br />

Insomma, furono davvero giorni indimenticabili, resi più gradevoli dalla grande<br />

ospitalità dei nostri connazionali.<br />

In quei giorni ebbi incontri anche con alcuni di quei personaggi italo-americani che<br />

avevo conosciuto in occasione del rinnovo del gemellaggio. Ma, tra questi, voglio<br />

ricordare soprattutto uno che ci invitò poi, su sollecitazione anche di due nostri grandi<br />

amici, Giovanni e Maria Luisa, a visitare il suo Comune.<br />

Parlo dell’allora sindaco di Cambridge, la cittadina che ospita l’MIT, Alfredo Vellucci.<br />

Lo ricordo non solo per l’accoglienza che ci riservò quando ci ricevette a Cambridge e<br />

ci accompagnò a visitare l’MIT, ma soprattutto per la sua grande simpatia umana e per<br />

i versi, dedicati a La Polente, che ci lesse in occasione del pranzo di gala organizzato<br />

in un ristorante inn di Everett dai soci del club, di cui mi regalò poi il testo che tuttora<br />

conservo: erano versi piuttosto sconclusionati e scritti in un dialetto incredibile e<br />

assolutamente non classificabile, ma dai quali si sprigionava con prepotenza tutto<br />

l’attaccamento che lega ancora oggi i nostri emigrati alla loro terra d’origine!<br />

Lasciammo Boston, per dirigerci verso New York, la mattina del 29 agosto, all’indomani<br />

di un picnic divertente e affollato che si tenne, se non erro, a Cap Code, in una tenuta di<br />

campagna di proprietà del sindacato: quel giorno furono organizzati anche molti giochi,<br />

ai quali dovemmo partecipare obbligatoriamente sia io che McCarthy, e potemmo<br />

ascoltare di nuovo il coro degli orsognesi di Everett che ci regalò anche questa volta<br />

delle bellissime melodie.<br />

Il trasferimento nella grande metropoli avvenne in pullman. Ma un pullman noleggiato<br />

appositamente dal club perché i suoi dirigenti avevano pensato bene di approfittare<br />

dell’occasione per organizzare una gita dei soci a New York della durata di tre giorni.<br />

Così la mattina, intorno alle sette e mezzo, ci ritrovammo in parecchi davanti al club; e<br />

da lì, dopo i saluti, gli abbracci e le immancabili promesse di non perdersi di vista (le<br />

solite parole, insomma, scambiate nel vento) con quelli che non partecipavano alla gita,<br />

partimmo. C’era in noi, certo, una certa tristezza per l’addio, ma la nostra attesa era tutta<br />

rivolta a New York, la grande New York...<br />

Il viaggio non fu particolarmente lungo. Arrivammo infatti nella Grande Mela intorno<br />

234


all’una; ma l’incontro con i nostri compaesani della Orsogna M.A.S. avvenne solo nel<br />

tardo pomeriggio, dopo un primo giro in pullman, che si ripeté anche il giorno dopo,<br />

per visitare i luoghi più celebri della città: Time Square, l’Empire State Building, la<br />

cattedrale di St. Patrick, Chinatown, il Greenwich Village, il Rockfeller Center, la sede<br />

delle Nazioni Unite e, naturalmente, la statua della Libertà e il World Trade Center, con<br />

le famose Torri Gemelle ormai conosciute in tutto il mondo dopo la loro distruzione a<br />

seguito del terribile attentato terroristico dell’11 settembre 2001 da parte di Al Qaeda.<br />

La nostra visita a New York non aveva ovviamente niente a che vedere con il<br />

gemellaggio.<br />

A New York, i nostri emigrati celebravano i 50 anni della fondazione dell’Orsogna<br />

M.A.S., il loro club; e, sapendo del mio arrivo a Everett, non si erano lasciati sfuggire<br />

l’opportunità di avere con loro, in questa circostanza, anche il sindaco del loro paese di<br />

origine.<br />

Io fui naturalmente contento di accettare l’invito, innanzitutto perché difficilmente mi<br />

sarebbe capitata una seconda occasione per conoscere New York. E poi: per i nostri<br />

emigrati la ricorrenza era importante ed era giusto quindi che io fossi con loro.<br />

La storia del club, nato nel 1939 su iniziativa della generazione di emigrati arrivata<br />

negli Stati Uniti dopo la guerra del ‘15-’18, si intreccia infatti strettamente con la storia<br />

di molte famiglie di emigrati, anche del secondo dopoguerra, e il nome stesso del<br />

club ne fornisce la spiegazione: Orsogna Mutual Aid Society, qualcosa insomma che<br />

doveva servire agli emigrati per restare uniti e nello stesso tempo garantirsi reciproca<br />

solidarietà in un mondo che, ancora fino ad alcuni decenni fa, non era certo tenero con<br />

la emigrazione italiana.<br />

Ma fui contento di questa visita anche perché, già dal primo incontro, scoprii che molti<br />

soci del club, a partire dal suo presidente, era in realtà gente che conoscevo.<br />

Il nostro soggiorno, che si protrasse per circa quindici giorni, fu occupato solo<br />

marginalmente da manifestazioni ufficiali; per il resto facemmo i turisti, ospiti del club<br />

(io e la mia famiglia venimmo alloggiati in un albergo, della catena Marriott, che si<br />

trovava proprio a ridosso dell’aeroporto nazionale La Guardia).<br />

In pratica, ci furono solo due manifestazioni ufficiali, che si rivelarono però, almeno per<br />

me, di un particolare interesse perché davano, anche visivamente, non solo la misura<br />

del profondo attaccamento di quella comunità al proprio paese di partenza ma anche dei<br />

grandi passi avanti fatti dai nostri emigrati nella loro condizione culturale e di vita dopo<br />

l’arrivo negli Stati Uniti, anche se questa nuova condizione era evidente che essi non<br />

riuscivano a viverla fuori del bozzolo della loro cultura contadina d’origine (a Everett,<br />

invece, si percepiva subito che la nostra emigrazione era più legata a una mentalità<br />

cittadina).<br />

La prima manifestazione fu quella appunto della celebrazione del 50° anniversario della<br />

fondazione del club; e si svolse il 2 settembre all’Astorian Manor, un grande ristorante<br />

di proprietà di italiani.<br />

Ci furono ovviamente i discorsi. Del presidente dell’Orsogna M.A.S., il vecchio Filippo<br />

Di Rico, contadino e nostro vicino di campagna alle Valli, quello della presidentessa del<br />

gruppo femminile del club, e infine quello mio; e poi la cena e il ballo, con le signore più<br />

giovani che sfoggiavano un’eleganza un po’ all’americana, fatta di pizzi e svolazzi.<br />

235


La manifestazione era stata annunciata con un opuscolo che raccontava la storia del<br />

club e dell’emigrazione orsognese nella Grande Mela, ma, cosa che mi colpì, sulla<br />

copertina, anche se non mancava il profilo del ponte di Brooklyn, spiccava tuttavia<br />

soprattutto l’immagine del campanile di San Nicola e, sullo sfondo, della Maiella;<br />

all’interno, poi, catturavano l’attenzione del lettore prima una pagina con su scritto<br />

solo: Orsogna: Paese mio, successivamente altre due pagine che riportavano una fitta<br />

e lunga lista di soprannomi orsognesi: neanche a New York, pur dopo una vita passata<br />

dai nostri emigrati nel Nuovo Mondo, i vecchi soprannomi erano finiti nel buco nero<br />

dell’oblio!<br />

L’altra manifestazione ufficiale fu la processione di S. Rocco che sfilò, nel pomeriggio<br />

del 3 settembre, per le strade di Astoria, nel Queens, la zona di New York dove ha sede<br />

il club e risiedono molti dei nostri orsognesi.<br />

La festa di S. Rocco si celebra il 16 agosto; quell’anno, tuttavia, fu spostata a settembre<br />

proprio per attendere l’arrivo del sindaco di Orsogna.<br />

Com’era prevedibile, la festa fu povera, ridotta all’osso; e non aveva -né poteva avere, del<br />

resto- nulla dello sfarzo che caratterizza normalmente la festa di S. Rocco a Orsogna.<br />

In pratica, la festa consisteva nella sola processione, che si concluse -dopo una sosta<br />

alla chiesa cattolica del quartiere- nella sede del club dove venne riportata la statua del<br />

santo e celebrata la messa, alla fine ci fu anche un piccolo rinfresco che potemmo però<br />

gustare solo dopo l’ascolto della lunga predica ammannitaci dal frate francescano, un<br />

orsognese anche lui, venuto apposta dall’Italia per l’occasione.<br />

Ci fu tuttavia, nella festa, qualcosa che non mi sarei mai aspettato e mi parve anzi<br />

piuttosto grottesco, e che però mi colpì molto e, in una certa misura, mi commosse<br />

anche.<br />

Infatti, in testa alla processione avanzava un’auto sgangherata e assai rumorosa, dalla<br />

quale ogni 100-150 metri scendevano due tipi che fermavano il corteo, ponevano a terra<br />

due grossi bossoli, di quelli che si usano per i fuochi d’artificio, e accendevano poi la<br />

miccia producendo così due grandi botti che facevano rintronare tutto il quartiere come<br />

ad avvertire la gente: passa S. Rocco...<br />

La cosa effettivamente era piuttosto comica, e come tale la commentai subito con i miei<br />

figli.<br />

Ma, a rifletterci bene, questo in realtà era l’unico modo che i nostri amici avevano, in<br />

un mondo così diverso, di riproporre almeno una parvenza degli spettacolari fuochi<br />

d’artificio di una volta che ancora oggi concludono le nostre feste al Sud.<br />

La stessa cosa che si verificava con le donne che sfilavano durante la processione con<br />

la tradizionale conca di rame (quella che, una volta, nei paesi le donne usavano per<br />

raccogliere e portare in casa l’acqua da bere delle fontanelle pubbliche) sulla testa: nella<br />

conca non c’era neanche un chicco di grano e tanto meno i fiori di campo, come accadeva<br />

a Orsogna, ma la conca e i fiori finti che l’adornavano erano di per sé sufficienti a dare<br />

senso al forte bisogno di identità che tuttora è presente nell’animo dei nostri emigrati.<br />

Anche la fanfara, un po’ raccogliticcia, che accompagnava la processione sembrava<br />

fuori posto. I pezzi che suonava erano soprattutto marcette allegre e assai poco religiose,<br />

ma solo così si poteva far riemergere il ricordo delle feste di un tempo quando la grande<br />

banda ne era il centro e molti di loro vivevano ancora a Orsogna.<br />

236


Insomma partecipammo, io mia moglie e i miei figli che, con la telecamera e la macchina<br />

fotografica, si diedero un gran da fare per immortalare i vari momenti, a una festa un<br />

po’ singolare, nella quale si mescolavano tradizione e americanate piuttosto scombinate<br />

e che, però, nascevano tutte da questa insopprimibile voglia di mantenere viva a ogni<br />

costo la memoria e la propria antica identità.<br />

Lo spettacolo fu comunque piacevole e divertente. E davanti agli occhi della memoria,<br />

che si colora ancora oggi di una certa commozione sia pure accompagnata dal sorriso,<br />

vedo di nuovo sfilare i vari protagonisti dello spettacolo: gli strani artificieri davanti<br />

a tutti, subito dopo lo striscione portato da due ragazzine e un bambino su cui spicca<br />

la scritta Viva S. Rocco, e poi la statua del santo, il frate, il sindaco di Orsogna con la<br />

fascia tricolore, il presidente del club, il presidente del Comitato Organizzatore delle<br />

celebrazioni del 50° e la presidentessa delle donne anche loro ciascuno con la propria<br />

fascia di cerimonia, la fanfara, le donne con la conca e i fiori finti e, in fondo al corteo,<br />

il popolo devoto che canta le vecchie cantilene in onore del santo.<br />

Dopo il 3 settembre, non avemmo più impegni ufficiali; ci potemmo così dedi<strong>care</strong> a una<br />

visita più accurata di Manhattan, grazie anche alla grande disponibilità di Giannina e<br />

Maria che ci offrirono anche il pranzo in un ristorante francese nei pressi del Central<br />

Park: ricordo che esitammo un po’ prima di var<strong>care</strong> l’ingresso perché il ristorante si<br />

presentava elegante e di buon livello e noi eravamo tutti vestiti alla turistica, ma poi ci<br />

facemmo coraggio ed entrammo, anche se un po’ imbarazzati...<br />

Cominciammo dal Greenwich Village, facemmo poi un bel giro per Little Italy (dove ci<br />

fermammo anche per una breve colazione), visitammo il Museo di Arte Moderna che ci<br />

impressionò soprattutto per alcune bizzarrie moderne che vi erano esposte, salimmo su<br />

una delle Torri Gemelle, girovagammo a lungo per il Central Park e facemmo anche una<br />

capatina notturna nel cuore di New York, nelle vie attorno alla Grande Mela, dopo una<br />

cena nel ristorante girevole del Marriott. Insomma, facemmo i turisti, non rinunciando<br />

però nello stesso tempo ai diversi inviti a pranzo che, con generosità, ci arrivarono da<br />

più parti in quei giorni.<br />

Ma i nostri amici, nell’ultima settimana di nostra permanenza a New York, ci<br />

organizzarono anche due gite alle quali però non parteciparono né Massimiliano né<br />

Stefano che, per ragioni sentimentali, avevano deciso di rientrare con una settimana di<br />

anticipo in Italia. La prima, messa in piedi da Francesco e Concetta, ad Atlantic City, la<br />

Las Vegas dei poveri, nel New Jersey; l’altra invece, organizzata direttamente dal club,<br />

a Washington passando per Baltimora e Filadelfia.<br />

La gita ad Atlantic City fu particolarmente allegra: eravamo solo in sei, ci potemmo<br />

quindi muovere con una certa libertà. E vivemmo anche noi quel giorno, come le frotte<br />

di pensionati che ogni domenica partono da New York per fare il giro dei suoi dodici<br />

casinò, il sogno della vincita spettacolare, dell’improvviso arricchimento. Ma anche<br />

noi, come loro, la sera riprendemmo il pullman che da New York ci aveva portato ad<br />

Atlantic City, non più ricchi di quanto eravamo prima, tuttavia contenti di aver passato<br />

una giornata diversa e sfottendoci un po’ a vicenda per l’assoluta mancanza di risultati<br />

nel tentare la fortuna.<br />

In compenso, però, riportammo con noi, e sono arrivate fino in Italia, a casa nostra, le<br />

cuccume di plastica che il casinò ti dà appena entri, svuotate però anche di quei pochi<br />

237


dollari che dalle macchinette vi erano scivolati dentro in occasione di qualche giocata<br />

ma subito risucchiati indietro dalle stesse macchinette... Comunque, la gita era stata<br />

proprio divertente; e poi si sa, los sueños, come dice Calderon de la Barca, sueños<br />

son...<br />

Al ritorno però la giornata fu turbata da un episodio sgradevole, anche se non aveva<br />

nulla a che fare con la nostra gita.<br />

Quando il pullman entrò a New York, mentre attraversava un quartiere abitato da neri<br />

(forse Harlem), vedemmo con stupore (almeno io e mia moglie) molte famiglie nere<br />

e le loro masserizie alloggiate direttamente sui marciapiedi. Fu per me uno spettacolo<br />

incredibile e del tutto incomprensibile, segno evidente di una emarginazione e povertà<br />

diffusa tra i gruppi più deboli della società americana che non avevo neppure sospettato,<br />

ma qualcuno, guardando la scena, nella penombra del pullman commentò a voce<br />

piuttosto alta e con tono di derisione: Ecco le scimmie!, alludendo a quei poveri diavoli<br />

neri non proprio toccati dalla affluent society.<br />

(Qualche giorno fa, ho letto sui giornali che i dodici casinò di Atlantic City hanno<br />

chiuso per debiti i battenti: peccato! E sono sicuro che i pensionati di New York non<br />

hanno gradito. La gita settimanale in questo sobborgo della Grande Mela rappresenta<br />

sicuramente per tanti di loro un modo per uscire dalla routine e, certo, anche per tentare<br />

la sorte senza però mettere a rischio i propri risparmi, visto che il biglietto del pullman,<br />

dal costo assai ragionevole, garantisce loro il pranzo, cinque dollari per fare qualche<br />

giocata, il ritorno a casa e poi altri cinque dollari per riprovarci la volta successiva).<br />

La gita a Washington, della durata di tre giorni, ebbe luogo proprio alla vigilia del<br />

nostro ritorno in Italia (che avvenne l’11 settembre).<br />

Eravamo una trentina, o poco più, di persone, quasi tutte anziane e che perciò in gran<br />

parte conoscevo: così la gita si trasformò in una sorta di piacevole rimpatriata, parecchi<br />

dei gitanti, oltretutto, erano partiti già adulti dalla contrada Valli.<br />

Ma, al di là di questo aspetto, la gita fu comunque molto interessante perché mi<br />

consentì di conoscere, sia pure solo di passaggio, città come Baltimora e Filadelfia e,<br />

naturalmente, Washington.<br />

Baltimora e Filadelfia, da quel poco che riuscimmo a vedere, dovevano essere delle<br />

gran belle città: peccato però che il tempo a nostra disposizione fosse così poco!<br />

Così di Baltimora potemmo solo ammirare l’elegante porto commerciale e di Filadelfia<br />

ascendere, facendo a gara tra di noi a chi arrivava primo in cima, la imponente e lunga<br />

scalinata del National Art Museum, resa celebre dal film Rocky, con Sylvester Stallone<br />

protagonista.<br />

Davvero peccato, soprattutto per Filadelfia!<br />

Qui avrei voluto, ma non fu assolutamente possibile, conoscere luoghi che hanno<br />

segnato la storia degli Stati Uniti.<br />

Da quello dove fu firmata la Dichiarazione di Indipendenza dall’Inghilterra nel 1776<br />

a quello dove, nel 1787, si tenne la convenzione che portò all’approvazione della<br />

Costituzione americana e alla formazione del primo governo degli Stati Uniti, e visitare<br />

anche qualcuna delle sue ricche collezioni d’arte.<br />

Com’è noto, Filadelfia, fondata nel 1682 dal quacchero William Penn, che sognava<br />

un mondo fondato sulla fraternità (di qui il nome di Filadelfia dato alla città) e patria<br />

238


di Benjamin Franklin, uno degli artefici della indipendenza del Nuovo Mondo e della<br />

costruzione della democrazia americana, non solo ha giocato un ruolo decisivo per la<br />

nascita degli Stati Uniti ma è stata per lungo tempo anche il più importante crocevia<br />

culturale della società americana.<br />

Di Washington invece visitammo molti luoghi: il Museo dello Spazio (straordinario),<br />

il Memorial dedicato al Vietnam con quella interminabile, e impressionante, lista dei<br />

caduti americani nella famigerata guerra contro la libertà e l’indipendenza del Vietnam<br />

incisa sul marmo, il suggestivo cimitero di Arlington con la tomba di Kennedy e anche<br />

quella di Joe Louis, il grande pugile nero americano degli anni ‘40 del secolo scorso,<br />

e i tanti monumenti e Memorials dedicati agli uomini più rappresentativi della storia<br />

degli Stati Uniti.<br />

Non potemmo però accedere alla Casa Bianca e al Campidoglio, chiusi (non ricordo<br />

bene perché, forse a causa del giorno festivo), così dovemmo accontentarci di guardarli<br />

solo dall’esterno e farci fotografare davanti ai due più importanti centri del potere<br />

mondiale (visitammo invece la Library of Congress, la Biblioteca del Congresso).<br />

Nelle due notti che sostammo a Washington, avremmo voluto anche farci una qualche<br />

idea di ciò che era la vita notturna nella capitale degli Stati Uniti, ma la direzione<br />

dell’albergo ci sconsigliò vivamente di girare di notte per la città: i rischi per la<br />

sicurezza personale erano elevatissimi, a causa soprattutto del gran numero di drogati<br />

che stazionavano per le vie cittadine!<br />

239


240


CAPITOlO XIV<br />

Ma ecco omai l’ora fatale è giunta...<br />

Non vi spaventate, mie <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>. Anche se l’attacco è così solenne e drammatico,<br />

voglio solo dire che è ormai arrivato il momento di mettere la parola fine a questo già<br />

troppo lungo racconto delle mia vita e del tempo nel quale ho condotto le mie battaglie<br />

per l’affermazione delle idee nelle quali ho creduto. E, se ho usato un cotanto esordio,<br />

credetemi: l’ho fatto solo per evitarvi di addormentarvi dopo tanto leggere!<br />

A proposito, il verso che ho utilizzato è il primo dell’ottava che, nel XII canto della<br />

Gerusalemme Liberata, annuncia la morte di Clorinda, l’eroina musulmana che si sta<br />

scontrando, in un duello notturno furioso e senza risparmio di colpi, con il suo innamorato<br />

segreto: Tancredi, cavaliere cristiano. E alla fine dell’ottava Clorinda muore:<br />

Spinge egli il ferro nel bel sen di punta<br />

che vi s’immerge e ‘l sangue avido beve;<br />

e la veste, che d’or vago trapunta<br />

le mammelle stringea tenere e leve,<br />

l’empie d’un caldo fiume. Ella già sente<br />

morirsi, e ‘l piè le manca egro e languente.<br />

Bellissimi versi, no? E certamente converrete con me che mai morte fu descritta con<br />

toni così struggenti e insieme così colmi di sensualità.<br />

Versi cantati in un timbro, dunque, che solo Torquato Tasso conosceva, e del quale voi<br />

fareste bene, qualche volta, a leggere almeno i canti più belli del suo poema più bello,<br />

la Gerusalemme Liberata appunto. Come, credo, fareste bene anche ad ascoltare le note<br />

di cui ha rivestito l’episodio, nel 1624, Claudio Monteverdi, uno dei vertici della musica<br />

europea del ‘600: si tratta del Combattimento di Tancredi e Clorinda, e lo trovate tra i<br />

miei dischi se ne avete voglia.<br />

Vi assicuro che è una musica splendida, dotata di grande efficacia emotiva e di una<br />

forza imitativa tale che sembra anche a voi di assistere, nell’oscurità della notte, allo<br />

scontro mortale che oppone i due guerrieri. E sentirete e vedrete anche voi, dentro la<br />

musica, la concitazione dei combattenti, la furia cieca che li spinge l’un contro l’altro<br />

(quasi la metafora di un amplesso d’amore che si conclude con la morte, l’eterno mito<br />

di Eros e Thanatos) a cozzare non solo con le spade ma anche con gli elmi insieme e<br />

con gli scudi e, dopo una breve pausa dal combattimento, l’ira che torna nei côri ancora<br />

più ferina e che li trasporta di nuovo alla fera pugna, benché debili in guerra. Fino<br />

all’esito fatale quando come una sospensione del suono, così piena di presagi funesti,<br />

avverte della imminenza della fine di Clorinda, subito seguita da un declamato lento<br />

e patetico che descrive la sua caduta a terra, colpita al cuore. E sentirete anche, nella<br />

sapienza dei vari passaggi della musica di Monteverdi ora lenti ora affannosi ora pieni<br />

di trepidazione, il drammatico alternarsi dei sentimenti nell’animo di Tancredi dopo<br />

la caduta della nemica di cui egli né sa il nome né conosce l’identità: prima la gioia<br />

feroce per la vittoria conseguita e poi quel non so che di flebile e soave / ch’al cor gli<br />

241


scende ed ogni sdegno ammorza, / e gli occhi a lagrimar gli invoglia e sforza quando<br />

Clorinda chiede e dà perdono e lo prega di battezzarla, e quindi, come una intuizione<br />

della tragedia incombente, il tremar della mano mentre la fronte / non conosciuta ancor<br />

sciolse e scoprio fino allo sgomento improvviso e alla disperazione che lo travolge nel<br />

momento in cui scopre la verità:<br />

La vide, la conobbe, e restò senza<br />

e voce e moto. Ahi vista! Ahi conoscenza!<br />

Scrivere la parola fine, dunque: questo il mio proposito e la ragione, un po’ banale, di<br />

tanta citazione.<br />

Sermoni iam finem face tuo, dice un personaggio di Plauto al servo che la tira troppo<br />

per le lunghe. Ed è proprio il caso di dargli retta. Non perché non abbia altre cose da<br />

raccontare. Ma si tratterebbe di cose dell’oggi, fuori quindi del mondo che è stato il<br />

mio.<br />

Anche oggi, naturalmente, seguo in maniera attenta gli avvenimenti e vivo spesso<br />

con angoscia questo tempo dell’Italia e del mondo sempre più periglioso e gravido di<br />

minacce, uno dei peggiori che io abbia mai conosciuto, così dominato dall’egoismo<br />

e dalla incapacità di guardare al futuro. E partecipo con speranza al tentativo di dare<br />

vita a un nuovo soggetto politico che, unendo i diversi riformismi della storia italiana,<br />

sia capace di riaffermare in modo nuovo e con nuova forza ed efficacia i valori della<br />

sinistra e tirare fuori l’Italia dalla morta gora dalla quale non riesce a uscire.<br />

Ma non ho più ormai quel ruolo attivo, di protagonista, pur modesto, che ho avuto nei<br />

lunghi anni della seconda metà del secolo scorso; e perciò non ha più, francamente,<br />

senso continuare un racconto che si può nutrire ormai solo (o quasi) di fatti privati.<br />

Tuttavia, non vorrei chiudere così, ex abrupto, e cioè all’improvviso, a precipizio, come<br />

dicono i latini. Vorrei farlo invece, riempiendo ancora qualche pagina con il racconto<br />

dei miei viaggi nei paesi del cosiddetto socialismo reale, e poi con un breve congedo<br />

come usavano una volta i poeti a conclusione delle loro canzoni.<br />

Non è che abbia fatto solo questi viaggi: ne ho fatti tanti altri, sia come parlamentare e<br />

sindaco che come privato cittadino: Hong Kong, il Giappone, gli Stati Uniti, l’Arabia<br />

Saudita (dove ci tennero per diverse ore fermi all’aeroporto di Riad, pur essendo una<br />

delegazione del Parlamento italiano, per verifi<strong>care</strong> se nelle nostre valige non ci fossero<br />

per caso liquori o materiale pornografico e comunque pericoloso per la buona salute<br />

delle anime dei musulmani di quel paese), la Spagna. E quindi anche di questi viaggi<br />

potrei raccontarvi.<br />

(A proposito: solo da qualche anno abbiamo smesso di fare viaggi all’estero per dedicarci<br />

all’Italia ma, chi lo sa?, forse prima o poi riprenderemo a girare un po’ per il mondo.<br />

E’ da tempo, ad esempio, che stiamo pensando di recarci in Argentina dove vivono<br />

parenti del nonno o andare a conoscere la Cina, rimediando così alla possibilità che mi<br />

fu offerta di andarci quand’ero ancora parlamentare, solo che, purtroppo, la proposta mi<br />

arrivò proprio all’ultimo minuto e così non se ne fece niente...).<br />

Ma c’è un motivo nel fatto che io voglia raccontarvi solo di quelli fatti nei paesi<br />

socialisti.<br />

242


Le poche cose che ho visto e conosciuto allora in quei paesi, che sembravano appartenere<br />

a un altro mondo, un mondo nel quale si stava costruendo davvero l’uomo nuovo, mi<br />

hanno consentito, sia pure a posteriori, di capire un po’ meglio le ragioni del fallimento<br />

di una grande esperienza storica, che ha attraversato tanta parte del ‘900.<br />

Qualche notte fa, sfogliando tra le mie vecchie carte, mi è capitato di ritrovare per caso<br />

la lettera che, nel lontano ottobre del 1973, spedii da Gorkij a mia moglie. Una lettera<br />

breve, scritta in fretta e furia utilizzando il pochissimo tempo libero a mia disposizione,<br />

dopo, sono le mie parole nella lettera, “un’altra lunga giornata di visite, riunioni e<br />

pranzi”.<br />

Mi trovavo allora in questa grande città russa, ospite del Comitato regionale del PCUS,<br />

quale membro della delegazione di studio che quell’anno il Comitato Centrale del PCI<br />

aveva inviato in Unione Sovietica.<br />

Naturalmente, preso dalla curiosità, ho riletto tutta la lettera. Ma quale non è stata la<br />

mia sorpresa quando ho letto che “...c’è da rimanere semplicemente ammirati per tutto<br />

quello che hanno saputo fare e che stanno facendo. Quando tornerò ve ne parlerò a<br />

lungo...”.<br />

A rileggerle oggi, queste parole, più che enfatiche, sembrano ingenue.<br />

Possibile, qualcuno potrebbe chiedere, che non vedevate le cose che non andavano? Ma<br />

non credo sia questa la domanda da porre.<br />

In quegli anni, in Unione Sovietica e negli altri paesi socialisti c’era, ad esempio,<br />

un’attenzione particolare all’infanzia e ai giovani, dando a tutti la possibilità di studiare,<br />

come anche alla salute e al diritto al lavoro che non trovava analoghi riscontri da noi.<br />

Da questo punto di vista, le cose erano effettivamente diverse.<br />

Ma non c’era democrazia politica ed economica, mancavano le libertà individuali e<br />

i diritti umani venivano sistematicamente calpestati, facendo così venire meno la<br />

possibilità di un effettivo e duraturo sviluppo di quelle società che, non a caso, a un<br />

certo punto sono implose.<br />

Non erano cose, però, che ignoravamo, anzi è proprio su questo terreno che noi comunisti<br />

italiani eravamo già da tempo assai critici nei confronti dei sovietici e degli altri Paesi<br />

socialisti.<br />

Di tutto questo, però, non abbiamo mai fatto la questione discriminante nel rapporto<br />

con loro. Perché?<br />

Credo sia questa la domanda da porci.<br />

In realtà, il nostro errore stava innanzitutto nella sottovalutazione della gravità di questo<br />

stato di cose: Berlinguer ha proclamato di fronte ai sovietici, riuniti a congresso, il<br />

valore universale della democrazia solo nella seconda metà degli anni ‘70, né si aveva,<br />

inoltre, la necessaria percezione di quel che alla lunga avrebbe provocato l’assenza di<br />

democrazia in quelle società.<br />

C’era poi, nel nostro giudizio, una separazione tra le cose buone che pur si facevano in<br />

questi paesi nell’interesse dei lavoratori e il problema della mancanza di democrazia,<br />

pensando che, prima o poi, anche nell’URSS e negli altri paesi socialisti si sarebbe<br />

prodotta una svolta democratica e quindi finalmente alle conquiste sociali si sarebbero<br />

accompagnate anche democrazia e libertà.<br />

243


Non c’è perciò da stupirsi oggi di quella mia ammirazione: era questo, in verità, il<br />

sentimento di fondo che animava allora grande parte del PCI, compreso il quadro<br />

intermedio delle federazioni e dei Comitati regionali.<br />

D’altra parte, il PCI ha sempre mantenuto rapporti stretti e amichevoli, in pratica fino<br />

alla caduta del muro di Berlino, con quei paesi e quei partiti comunisti. Anzi, nel corso<br />

degli anni è stata messa in piedi una rete così solida ed estesa di rapporti che essa è stata<br />

capace di resistere anche ai momenti più acuti di contrasto tra noi e i partiti comunisti<br />

dell’est.<br />

Ricordo, ad esempio, il ‘68 quando il PCI condannò in maniera chiara e senza riserve<br />

l’invasione della Cecoslovacchia da parte del Patto di Varsavia e la repressione nel sangue<br />

della cosiddetta primavera di Praga, il tentativo fatto dai comunisti cecoslovacchi,<br />

guidati da Dubcek, per una maggiore autonomia da Mosca e una svolta democratica<br />

all’interno del proprio paese; o ancora, nella seconda metà degli anni ‘70, lo scontro<br />

aspro che oppose Berlinguer a Breznev sul valore della democrazia e, nel 1981, dopo<br />

i fatti di Polonia, l’affermazione da parte di Berlinguer dell’esaurimento della spinta<br />

propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre.<br />

Neanche in momenti come questi, tuttavia, i nostri rapporti ne uscirono turbati!<br />

Il PCI, inoltre, era convinto di poter gio<strong>care</strong> un ruolo importante ai fini della evoluzione<br />

in senso democratico di quei partiti e di quei paesi; e perciò, da questo punto di vista,<br />

non aveva proprio senso interrompere tali relazioni.<br />

Non si trattava, del resto, di una convinzione senza fondamento. Davvero il PCI è stato<br />

il punto di riferimento del dissenso interno e dei settori più aperti del PCUS e degli altri<br />

partiti comunisti del blocco sovietico.<br />

Ricordo, ad esempio, che in uno degli incontri, svoltosi a Budapest nel novembre del<br />

1978, tra una nostra delegazione, della quale anch’io facevo parte, e una rappresentanza<br />

del POSU (il partito dei comunisti ungheresi), il dirigente magiaro che introdusse la<br />

riunione ci tenne a dire, e con molta convinzione anche, che i comunisti ungheresi,<br />

che venivano dalla terribile esperienza del ‘56, oltre a sentirsi diversi dagli altri partiti<br />

comunisti dell’est proprio per aver cercato di trarre da quella esperienza la giusta<br />

lezione, erano anche sempre molto attenti a quel che diceva e faceva il PCI e che, anzi,<br />

essi facevano il tifo per i comunisti italiani.<br />

Ricordo anche che cose analoghe nel 1981, in occasione del mio soggiorno sul Balaton,<br />

sempre ospite dei comunisti magiari, mi disse József, uno dei dirigenti della scuola di<br />

partito a Budapest, in vacanza anche lui in quei giorni sul grande lago, discutendo della<br />

politica del PCI.<br />

Purtroppo però la storia ha dimostrato che il comunismo di matrice sovietica era<br />

irriformabile e che quindi, ahinoi, le nostre aspettative erano in realtà mal fondate!<br />

Una rete solida ed estesa di rapporti, dunque, quella che è esistita fino al 1989 tra noi e<br />

i comunisti sovietici e degli altri Paesi dell’est, che si esprimeva in tanti modi.<br />

Uno di questi, ad esempio, era rappresentato dagli incontri tra delegazioni ristrette<br />

composte da dirigenti di medio livello del nostro partito, alle quali partecipavano<br />

compagni dell’apparato centrale ma anche dei Comitati regionali e delle federazioni;<br />

e, in genere, la loro agenda era fitta di incontri, anche se debbo dire che non sempre<br />

244


gli incontri si rivelavano di particolare interesse, spesso anzi essi si riducevano o a uno<br />

scambio molto formale e abbastanza superficiale di informazioni o a un lungo e arido<br />

elenco di dati.<br />

Posso dirlo per esperienza diretta, perché ho fatto parte anch’io di un paio di questo tipo<br />

di delegazioni, quelle alle quali ho già accennato: nel 1973 in Unione Sovietica e poi<br />

nel 1978 in Ungheria.<br />

Meno frequente, ma mai caduto in disuso, era invece l’invio di nostri compagni in Unione<br />

Sovietica per partecipare a corsi politici e di economia politica di livello universitario.<br />

A uno di questi, della durata non ricordo più se di pochi mesi o addirittura di qualche<br />

anno, fui invitato anch’io dalla Direzione del partito: eravamo, ma non ne sono sicuro,<br />

intorno alla fine degli anni ‘60, ma rifiutai, francamente la cosa non mi sembrava molto<br />

utile e debbo dire, sia pure col senno del poi, che feci bene.<br />

C’erano poi i viaggi per ragioni di riposo: un discreto gruppo di compagni, ospiti dei<br />

rispettivi partiti comunisti, si recava per riposo (cioè per passarvi una vacanza) nei paesi<br />

socialisti; e qui non c’era scambio, perché il PCI non era affatto in grado di ricambiare<br />

questo tipo di ospitalità.<br />

All’epoca, questo tipo di viaggi era il più frequente, anzi tutti gli anni se ne organizzavano<br />

diversi, della durata di 20-25 giorni, nei vari paesi dell’Est e nell’Unione Sovietica; e a<br />

usufruirne erano di solito i funzionari del partito, a causa dei loro assai magri stipendi<br />

(ai compagni di base erano invece prevalentemente riservati i viaggi-premio, sempre nei<br />

paesi socialisti, messi in palio da L’Unità e dalla Direzione del partito per la diffusione<br />

del giornale e il tesseramento).<br />

Il mio primo viaggio, per ragioni di riposo, nei paesi socialisti avvenne nel 1967 e la<br />

nostra meta fu la DDR, la Repubblica Democratica Tedesca. Era d’estate, e solo da<br />

qualche mese mi ero trasferito da Chieti a Vasto, per dirigere il Comitato di zona del<br />

partito.<br />

Andai naturalmente con grande interesse, anche perché era la prima volta che facevo<br />

un viaggio del genere ed ero curioso perciò di vedere di persona, per quel che era<br />

possibile, come andavano realmente le cose in un paese dove i comunisti governavano<br />

e si proponevano di trasformare profondamente la società e lo Stato.<br />

Il gruppo col quale mi ritrovai era composto all’incirca di una decina di compagni o<br />

poco più, provenivamo da ogni parte d’Italia ed eravamo, ovviamente, tutti maschi.<br />

Eh sì, perché a questi viaggi non erano ammesse le donne, mogli o compagne che<br />

fossero, con quali conseguenze sulla tenuta della truppa è facile immaginare!<br />

Non ho mai capito se la scelta fosse del PCI o di chi ci ospitava, sta di fatto che solo<br />

nel 1981 alla vacanza in Ungheria, sul Balaton, poté partecipare anche mia moglie, alla<br />

faccia di tutti i bei discorsi che nel frattempo si facevano nel partito sull’emancipazione<br />

femminile!<br />

Il viaggio fu piuttosto lungo e anche, debbo dire, con qualche venatura metafisica.<br />

Eravamo diretti infatti verso un paese fantasma, un paese che per la politica e la<br />

diplomazia non esisteva, tanto è vero che sul mio passaporto non è stato mai apposto il<br />

visto d’ingresso nella DDR!<br />

Oggi è storia finita, ma all’epoca tra l’Italia (e gli altri Stati dell’Occidente) e la<br />

245


Repubblica Democratica Tedesca, non esistevano relazioni diplomatiche. E la DDR,<br />

fu riconosciuta e ammessa all’ONU solo nel settembre del 1973, assieme alla RFT,<br />

la Repubblica Federale Tedesca, che era stata tenuta anch’essa, fino a quella data,<br />

fuori delle Nazioni Unite. Eppure, sia la DDR che la RFT erano nati come Stati già da<br />

oltre venti anni: la RFT nel 1948, sul territorio liberato nella seconda guerra mondiale<br />

dagli americani e dagli inglesi; la DDR nell’ottobre del 1949, sul territorio liberato<br />

dai sovietici, come ritorsione alla costituzione l’anno prima della Repubblica Federale<br />

Tedesca.<br />

Paradossi della guerra fredda!<br />

Perché l’uno e l’altro Stato tedesco, nei quali la Germania uscita sconfitta dalla guerra<br />

si è ritrovata divisa fino agli inizi degli anni ‘90, sono stati appunto il frutto avvelenato<br />

della guerra fredda che si è combattuta per tutta la seconda metà del secolo scorso tra il<br />

blocco sovietico da un lato e il blocco degli Stati occidentali, sotto influenza americana,<br />

dall’altro, dopo la rottura, subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale, della<br />

grande alleanza antifascista che aveva sconfitto il nazismo.<br />

A causa di tali circostanze, fummo perciò costretti a fare il viaggio in treno (e non in<br />

aereo) e ad attraversare prima mezza Italia, da Roma in su verso il Brennero, e poi la<br />

Germania dell’Ovest, con qualche fermata naturalmente: prima a Merano, in Alto Adige,<br />

per prendere a bordo il nostro capodelegazione (un giovane professore di filosofia, di<br />

lingua tedesca) e con lui un vecchio compagno, anch’egli di lingua tedesca, che aveva<br />

fatto la prima guerra mondiale dalla parte degli austriaci; e poi a Monaco di Baviera<br />

dove sostammo per la notte.<br />

Finalmente, dopo due giorni di viaggio, mettemmo piede, passando per Potsdam, a<br />

Berlino est, nella capitale cioè di quello Stato fantasma che era allora la Repubblica<br />

Democratica Tedesca.<br />

La ventina di giorni che restammo ospiti della SED, il partito comunista della DDR,<br />

debbo dire che furono assai piacevoli.<br />

Per buona parte li passammo a Heringsdorf, sul Baltico: per fortuna, il tempo ci assistette.<br />

E’ vero, pioveva tutti i santi giorni, anche se era d’agosto, ma solo nel pomeriggio. Così,<br />

la mattina, potevamo fare il bagno nell’acqua freddissima del Baltico e divertirci a<br />

gio<strong>care</strong> a pallavolo sulla spiaggia.<br />

Prima di andare sul Baltico, però, trascorremmo alcuni giorni in Turingia, in mezzo<br />

alle montagne, non so se dell’Harz o della Foresta Turingia, la Thuringer Wald: luoghi<br />

bellissimi, comunque, dove ricordo che ci fu anche offerto un concerto, a base di lieder,<br />

che si concluse poi con una festa alla quale parteciparono ospiti illustri anch’essi in<br />

vacanza nella zona.<br />

Durante la nostra permanenza in Turingia, avemmo anche modo di visitare città molto<br />

belle e con tanta storia, sia letteraria che politica: Weimar, Erfurt, Dresda, Lipsia.<br />

Visitammo anche Buchenwald, uno dei più famigerati campi di concentramento e di<br />

sterminio nazisti.<br />

Il nostro soggiorno nella DDR si concluse a Berlino dove passammo gli ultimi giorni<br />

della nostra vacanza.<br />

Girammo un po’ la città ma senza allontanarci molto dall’albergo che ci ospitava e che<br />

si trovava nelle vicinanze della Sprea: qui ricordo che, una sera, mentre passeggiavamo<br />

246


lungo il fiume, incontrammo un tipo abbastanza anziano che, sentito che parlavamo<br />

italiano, ci mise al corrente di quel che più conosceva dell’Italia, dove forse era stato<br />

durante la guerra: Italia? Mussolini...<br />

Insomma, fu una vera vacanza.<br />

Di politica, infatti, con i nostri accompagnatori della SED discutemmo poco o nulla.<br />

Solo chiacchierate occasionali, mentre ci recavamo da un luogo all’altro della Turingia<br />

e di altri Lænder o aspettavamo, a Helsingdorf, che spiovesse nei pomeriggi piovosi di<br />

quei giorni. Tanto meno avemmo la possibilità di incontri con organizzazioni di partito<br />

o anche con la gente comune, non solo per la difficoltà della lingua. La nostra, in fondo,<br />

fu solo una visita guidata, tutta nella bambagia, e così tutto quel che potemmo conoscere<br />

del Paese, dei suoi progressi, di ciò che pensava la gente fu quel poco che ci venne detto<br />

da loro in queste chiacchierate.<br />

Una cosa comunque era evidente, girando per le strade: la modestia delle condizioni di<br />

vita, assieme alla pulizia e all’ordine che regnava nelle città.<br />

La DDR ha raggiunto, negli anni della sua esistenza, livelli di sviluppo industriale<br />

notevoli e quindi anche livelli discreti di reddito. Ma il controllo totale dell’economia<br />

da parte dello Stato e l’assenza di libertà e democrazia sia politica che economica<br />

hanno avuto come esito prima la fuga dal paese, anche a rischio della vita, di cervelli e<br />

manodopera specializzata verso l’Ovest e alla fine, nel 1989, il crollo del muro, eretto<br />

proprio per impedire questa fuga, e la fine dello Stato.<br />

Ma, al di là degli esiti di una storia come quella della DDR, tuttavia non mi è possibile<br />

tacere o dimenti<strong>care</strong> la grande ospitalità con cui i comunisti di quel paese che oggi<br />

non esiste più ci accolsero e ospitarono e la loro cordialità. O, anche, la bonomia di<br />

un vecchio comunista, che aveva conosciuto i campi nazisti, dall’aria severa, come<br />

Herbert che era il responsabile del nostro soggiorno, o, ancora, la disponibilità di tutti<br />

i nostri accompagnatori, la dolcezza della bionda e timida Dagmar, probabilmente alla<br />

sua prima esperienza come accompagnatrice di delegazioni straniere per conto della<br />

SED, la bellezza dei luoghi.<br />

Assai interessante invece fu, dal punto di vista politico, il viaggio nell’URSS, nell’ottobre<br />

del 1973.<br />

Per la verità, lo fu anche dal punto di vista turistico: oltre ad avere la possibilità di<br />

visitare Mosca e una città come Gorkij, nel cuore della vecchia Russia, avemmo infatti<br />

anche la fortuna di recarci nell’Asia centrale, in un paese per noi del tutto sconosciuto<br />

da ogni punto di vista, ma anche pieno di fascino, come la giovane Repubblica del<br />

Turkmenistan.<br />

Ricordo che arrivammo a Mosca (eravamo in 7) che nevischiava, ma niente di serio,<br />

anche perché restammo nella capitale sovietica appena qualche giorno, il tempo di<br />

visitare la Piazza Rossa e il Cremlino e assistere a un balletto al Bolscioi, il teatro più<br />

famoso al mondo per i suoi balletti.<br />

Partimmo invece subito per Gorkij, l’antica Nižnij Novgorod che è di nuovo oggi il<br />

nome della città dopo la fine dell’URSS (il nome di Gorkij le venne dato in omaggio<br />

a uno scrittore sovietico della importanza di Massimo Gorkij, l’iniziatore del realismo<br />

socialista).<br />

247


E proprio qui furono subito scintille con alcuni dei dirigenti del PCUS di quella regione.<br />

Ma lo scontro più vivace, con un attacco scoperto e diretto nei nostri confronti, si<br />

verificò, se ben ricordo, qualche giorno prima della nostra partenza o forse proprio<br />

l’ultima sera del nostro soggiorno.<br />

La cosa ci sorprese non poco, anche perché non ce l’aspettavamo.<br />

Quando giungemmo a Gorkij avevamo avuto, infatti, l’impressione di trovarci di fronte<br />

a un gruppo dirigente animato da spirito rinnovatore e di apertura al nuovo, grazie alle<br />

cose che ci disse, al nostro primo incontro, il segretario regionale del partito, un tipo<br />

giovane, efficiente, interessato alle nostre esperienze.<br />

Ma evidentemente le cose stavano in un modo un po’ diverso, come avemmo modo<br />

di capire meglio in seguito, attraverso le numerose chiacchierate, durante il viaggio,<br />

con i nostri accompagnatori: tra di loro, per fortuna, c’erano in prevalenza estimatori<br />

dell’esperienza del PCI e sostenitori della necessità di un rinnovamento della società<br />

e dello Stato sovietici, ma ci fecero capire che non era così nel resto del partito e,<br />

soprattutto, nel suo gruppo dirigente centrale guidato da Breznev.<br />

Ma ecco come andarono le cose.<br />

Quel giorno, l’incontro rituale della giornata era finito e stavamo chiacchierando in<br />

maniera informale in attesa di andare a cena quando uno dei dirigenti del PCUS di<br />

Gorkij presenti espresse giudizi duri sul PCI e la sua politica, ai quali naturalmente<br />

reagimmo in maniera energica.<br />

In particolare, egli mise sotto accusa il cosiddetto parlamentarismo del PCI e la strategia,<br />

propria dei comunisti italiani, di puntare alla costruzione in Italia di una società socialista<br />

e democratica.<br />

In altre parole, l’accusa era di aver rinunciato con questa scelta non solo a qualunque<br />

idea di rivoluzione, ma anche alla costruzione stessa di una società socialista perché<br />

democrazia e socialismo non potevano essere coniugati insieme.<br />

Insomma, venne fuori così, quasi per caso, quella chiusura, così largamente presente<br />

allora nell’URSS, a ogni idea di trasformazione socialista della società usando e<br />

rispettando le regole della democrazia.<br />

Allora a capo del PCUS e dello Stato sovietico c’era Leonid Breznev, succeduto a<br />

Krusciov defenestrato e mandato in pensione nel 1962, del quale venne puntualmente<br />

cancellato anche ogni pur timido e confuso tentativo di rinnovamento della vita<br />

dell’URSS.<br />

Breznev era tutt’altro che un riformatore, era anzi il portatore di una visione neostalinista<br />

e burocratica del potere, che arrivò perfino a teorizzare il diritto dell’URSS a intervenire,<br />

anche militarmente, nella vita interna degli altri paesi socialisti in presenza di fatti che<br />

potessero comportare una qualche minaccia per gli interessi del socialismo (e cioè. a<br />

essere chiari, dell’URSS).<br />

Reca, infatti, proprio il suo nome la teoria della cosiddetta sovranità limitata, che portò<br />

i sovietici prima a stron<strong>care</strong>, nel ‘68, la primavera di Praga e poi, nel ‘79, a invadere,<br />

con esiti assolutamente disastrosi, l’Afghanistan dove l’anno prima avevano preso il<br />

potere, con un colpo di stato, i comunisti del Partito democratico popolare.<br />

A guardare oggi all’indietro le cose, non è difficile vedere i guasti profondi provocati<br />

da Breznev all’Unione sovietica con la sua politica interna e internazionale; e come egli<br />

248


abbia avuto un ruolo determinante nel radicalizzare e accelerare la crisi che, a qualche<br />

anno di distanza dalla sua morte, ha portato alla dissoluzione dell’URSS e dei paesi<br />

socialisti dell’est europeo.<br />

Anche negli anni di Gorbaciov il breznevismo ha fatto sentire pesantemente i suoi<br />

effetti. Quel rifiuto a ogni apertura verso la democrazia è prevalso ancora una volta<br />

nel PCUS, portando così inevitabilmente al fallimento del tentativo gorbacioviano di<br />

bloc<strong>care</strong> la crisi in atto e far diventare un’altra cosa il comunismo sovietico e la stessa<br />

società sovietica.<br />

Il nostro soggiorno a Gorkij, che durò quattro o cinque giorni, fu comunque ugualmente<br />

di grande interesse. E fu con molta curiosità e coinvolgimento che visitammo alcune<br />

fabbriche (Gorkij era una città fortemente industrializzata), visite di solito precedute<br />

o seguite da incontri con i tecnici e i dirigenti interni di partito che ci illustravano la<br />

situazione.<br />

Tra le fabbriche visitate, ci fu anche quella che produceva auto; e ricordo che, mentre ci<br />

inoltravamo nella visita dei vari reparti, il nostro capodelegazione, torinese, notò subito<br />

i bassi ritmi, rispetto a quelli di una qualunque fabbrica italiana, e una organizzazione<br />

del lavoro che non contribuivano certo a tenere alta la competitività dell’azienda.<br />

Avemmo naturalmente incontri anche con organizzazioni di partito; e di questi il più<br />

interessante fu quello con l’Attivo cittadino del PCUS.<br />

Questa volta a parlare fummo noi che a turno, dopo l’introduzione iniziale di Iginio<br />

Ariemma, rispondemmo alle domande dei sovietici sul PCI e sulla sua politica: le<br />

domande furono molte, a testimonianza dell’interesse che comunque suscitava il PCI;<br />

né ci furono polemiche.<br />

Una ricca cena d’addio, alla quale erano presenti molti dirigenti locali, segnò la<br />

conclusione del nostro soggiorno.<br />

La serata fu bella e gradevole. Ma vi assicuro, mie <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>, che mai, come quella<br />

sera, io, e gli altri con me, ho ingurgitato tanto alcool.<br />

La cena, infatti, fu ricca non solo di portate ma anche di libagioni e, in aggiunta, fu<br />

costellata da numerosi brindisi ai quali i sovietici erano abituati e noi no. Alla fine,<br />

eravamo tutti sbronzi; e ricordo che quando, dopo la cena, il nostro gruppo venne<br />

imbarcato sul treno, ognuno nella sua cuccetta, diretto a Mosca, non solo non riuscimmo<br />

a dormire ma più di uno (tra questi io) vomitò anche l’anima.<br />

Del resto, cosa potevamo aspettarci?<br />

Le bottiglie scolate durante la cena erano state tante e anche i brindisi arrivarono a una<br />

trentina e forse più perché la tradizione era questa (e non potevamo certo cambiarla noi<br />

quella sera): ogni commensale, a turno, levava il suo bicchierino di vodka alla salute dei<br />

presenti e a maggior gloria delle sorti del socialismo e dell’URSS e ne mandava poi giù<br />

tutto d’un fiato il contenuto, e non è che qualche volta si poteva fare passo: sarebbe stato<br />

inelegante nei confronti degli altri! A questo punto, fate un po’ voi il conto di quanta<br />

vodka abbiamo mescolato col vino...<br />

Dopo qualche giorno di sosta a Mosca, ci rimettemmo di nuovo in viaggio.<br />

Meta, questa volta, il Turkmenistan, una delle repubbliche sovietiche nate nei primi<br />

anni ‘20 nel cuore dell’Asia centrale, all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre:<br />

quando nacque come repubblica autonoma, il Turkmenistan era solo una periferia<br />

249


arretrata e poverissima della Russia zarista ed ha avuto perciò tutto da guadagnare dalla<br />

rivoluzione.<br />

Debbo dire che il Turkmenistan, che si trova ai confini con l’Iran e l’Afghanistan (non<br />

a caso, una parte del suo territorio era classificata come zona militare), mi impressionò<br />

particolarmente, in qualche modo anzi ne fui affascinato anche per quel che di esotico<br />

c’era nel suo paesaggio brullo e desertico e nei suoi abitanti. Tanto è vero che subito dopo<br />

il mio ritorno in Italia scrissi su quel Paese e le trasformazioni che aveva conosciuto nei<br />

cinquanta anni della sua esistenza come Stato un lungo articolo, pieno di ammirazione,<br />

su Abruzzo d’Oggi.<br />

Ammirazione non infondata, di questo sono convinto ancora oggi quando ormai<br />

l’Unione Sovietica è scomparsa e il Turkmenistan è diventato una delle tante repubbliche<br />

indipendenti del centro Asia, sotto un potere sicuramente più accentrato e autoritario e<br />

probabilmente più corrotto di quanto non fosse ai tempi dell’URSS: non credo, del<br />

resto, sia frutto del caso se, nel ‘99, il Presidente della Repubblica, ex segretario del PC<br />

turkmeno naturalmente, è stato addirittura acclamato dal Parlamento presidente a vita!<br />

Arrivammo ad Ashabad, la capitale, a bordo di un vecchio aereo, un vero e proprio<br />

trabiccolo che però ci portò, senza particolari patemi, a destinazione, a circa tremila<br />

chilometri da Mosca; e venimmo sistemati in un piccolo ma elegante e accogliente<br />

albergo costruito dopo il terremoto del 1948.<br />

I nostri incontri e le visite iniziarono subito, ed è tutto documentato, come del resto il<br />

nostro soggiorno a Gorkij, dalle fotografie scattate dal fotografo ufficiale che il partito<br />

sovietico aveva messo a nostra disposizione sia a Gorkij che ad Ashabad e che io<br />

conservo accuratamente.<br />

Furono, insomma, anche i quattro giorni passati in Turkmenistan assai intensi e pieni<br />

di impegni, come già era accaduto a Gorkij. Con la differenza però che qui le distanze<br />

erano tutt’altra cosa: a Gorkij, in pratica, avevi tutto a portata di mano, qui invece...<br />

Il Turkmenistan infatti, dal punto di vista della sua conformazione fisica, non solo è un<br />

territorio immenso (circa 500 mila Km. quadrati), ma è anche quasi tutto un deserto,<br />

il deserto del Karakum che copre circa il 90% del Paese, dove quindi le strade quasi<br />

non esistono e c’è bisogno dell’aereo per spostarsi da una città all’altra. Per recarci,<br />

ad esempio, a Nebit Dag, la capitale dell’industria petrolifera turkmena sul Caspio,<br />

dovemmo utilizzare l’aereo che ci fu messo a disposizione dalla Presidenza della<br />

Repubblica.<br />

Del resto, proprio per questa ragione, quasi tutte le nostre visite e incontri politici si<br />

svolsero tra Ashabad e i suoi immediati dintorni. L’unica eccezione fu appunto la visita<br />

a Nebit Dag: qui visitammo alcuni impianti petroliferi e pranzammo, con le maestranze<br />

del posto, nel ristorante a loro riservato, in realtà un grosso capannone in pieno deserto<br />

dove il caldo era tanto ma per fortuna si trattava di un caldo secco, che non dava affatto<br />

fastidio.<br />

Ad Ashabad visitammo molti luoghi e avemmo parecchi incontri.<br />

Il nostro primo giorno, all’indomani del nostro arrivo, fu naturalmente dedicato<br />

all’incontro con i dirigenti del Comitato Cittadino del partito e al giro della città.<br />

Ashabad, situata alle pendici del monte Kopet Dag, la vetta più alta del Turkmenistan,<br />

in un’oasi ai margini del Karakum, si presentò subito come una città elegante: ampi<br />

250


viali alberati, edifici e assetto urbanistico moderni. Come ci spiegarono al Comitato<br />

cittadino, la capitale era stata letteralmente rasa al suolo dal terremoto del ‘48; ma le<br />

autorità dell’epoca ebbero la lungimiranza di ricostruirla con criteri moderni e anche<br />

di fornirla di servizi e strutture che, prima, non esistevano affatto come, ad esempio, le<br />

fognature.<br />

Anche i suoi abitanti, uomini e donne, mostravano una eleganza naturale: corpi asciutti,<br />

slanciati, visi dai tratti semplici ma belli; soprattutto le donne, con le loro lunghe tuniche<br />

colorate, il corpo snello e la pelle vellutata e di un colorito appena tendente al bruno,<br />

apparivano dotate di un particolare fascino.<br />

Ashabad ospitava anche importanti attività produttive, scuole di vario ordine e grado,<br />

con una scolarizzazione assai elevata, e istituti di cultura di tutto rispetto. E pensare<br />

che, come ci disse il nostro fotografo, fino ad alcuni decenni prima il Turkmenistan era<br />

ancora largamente abitato da popolazioni nomadi e analfabete, dedite prevalentemente<br />

alla pastorizia e all’agricoltura: lui stesso -che pure era giovane- era nato in una tenda!<br />

Nel corso dei nostri incontri, avemmo modo di visitare una fabbrica di tappeti, in genere<br />

assai colorati, e la mostra che vi era ospitata; e, fuori della città, a non molta distanza<br />

dalla capitale, di passare una mezza giornata con i colcosiani, che ci apprestarono un<br />

succulento pranzo a base di montone e ci illustrarono con dovizia di dati i risultati della<br />

loro attività: allevamento del bestiame (in prevalenza ovini e pollame) e coltivazione di<br />

vigneti e frutteti.<br />

Incontrammo anche, presso il canale Karakum, un’opera gigantesca che attraversa<br />

il deserto e porta fino ad Ashabad, lungo un percorso di 1.100 chilometri, l’acqua<br />

dell’Amur Darja utilizzata poi fondamentalmente per l’irrigazione, le ragazze e i ragazzi<br />

che stavano raccogliendo i bianchi fiocchi del cotone, fu un incontro allegro e ricordo<br />

che facemmo anche diverse fotografie con loro.<br />

In città, poi, visitammo il Museo letterario e il Museo del tappeto e andammo a trovare<br />

i bambini di una scuola materna: i bambini ci accolsero con un piccolo spettacolo e,<br />

prima di andare via, pranzammo con le loro maestre.<br />

Ricordo che visitammo anche una moschea dismessa e utilizzata non so più per che<br />

cosa: ci dissero che a prati<strong>care</strong> l’Islam erano rimasti ormai solo i vecchi mentre i<br />

giovani avevano idee nuove, moderne; in realtà anche in Turkmenistan la religione era<br />

stata bandita e i luoghi di culto chiusi, ma si vide anche lì dopo la fine dell’URSS come<br />

stavano effettivamente le cose: quelle radici la gente le aveva sempre portate con sé e il<br />

divieto della pratica religiosa le aveva perfino rafforzate...<br />

Due giorni prima della partenza andammo invece a visitare, nel deserto attorno<br />

ad Ashabad, la stazione termale collegata al lago sotterraneo di Bacharden, dove la<br />

temperatura dell’acqua e dell’aria è sempre sui 36 gradi e le acque hanno qualità<br />

terapeutiche: un lembo del lago emerge all’interno della grotta di Kovata, e ricordo che<br />

alcuni di noi vi fecero il bagno.<br />

Ultima visita, il giorno prima della partenza, all’ippodromo dove assistemmo alle corse<br />

che vi si stavano svolgendo, con i cavalli montati senza sella.<br />

Ci fu anche, in quella nostra visita in Turkmenistan, una diversione curiosa, direi buffa,<br />

che capitò il giorno del nostro incontro con gli iscritti al partito della capitale, all’Attivo<br />

cittadino, nel quale -come a Gorkij- avremmo parlato noi, rispondendo alle domande<br />

251


dei comunisti turkmeni.<br />

All’incontro non ci fu grande partecipazione, ma non fu questa la cosa buffa. Ricordo<br />

invece che, mentre ci recavamo dall’albergo al luogo dell’incontro, attraversando<br />

il centro della città, a un certo punto, non so se per dare importanza alla nostra<br />

presenza o per recuperare un certo ritardo sugli orari stabiliti, un’auto della polizia<br />

con un altoparlante montato sul portabagagli cominciò a precederci e a ordinare agli<br />

automobilisti di passaggio di fermarsi e darci la precedenza: ma quelli non se ne diedero<br />

proprio per intesa e continuarono tranquilli a sfrecciare veloci per il lungo viale come<br />

se nulla fosse!<br />

Uno spettacolo davvero comico: evidentemente, i turkmeni non dovevano sentire molto<br />

il richiamo dell’ordine e della disciplina...<br />

L’ultimo mio viaggio in un paese socialista è stato, nel 1981, in Ungheria dove tornavo<br />

dopo l’esperienza del ‘78.<br />

Solo che, a differenza di allora, questa volta si trattò di un viaggio di riposo. E a capeggiare<br />

la delegazione ero io: la proposta mi arrivò dalla Direzione del partito quando ormai<br />

avevo già accettato di andare in Molise, non so se come premio per questo o per darmi<br />

invece la possibilità di ristorare a dovere le mie forze per affrontare meglio le fatiche<br />

che mi attendevano.<br />

Eravamo dieci coppie (sì, questa volta c’erano anche le donne) e partimmo per Budapest,<br />

da Fiumicino, all’inizio di agosto, con un volo della Malev, la compagnia di bandiera<br />

magiara.<br />

Il nostro soggiorno in Ungheria si protrasse per quasi tutto il mese. E fu una vera vacanza.<br />

Anche perché quello era periodo di vacanze anche per gli ungheresi, e infatti fu proprio<br />

sul Balaton che incontrai József, il dirigente della scuola del POSU a Budapest, con il<br />

quale ebbi modo di scambiare qualche opinione sulla politica del PCI in Italia.<br />

Niente incontri politici, quindi, solo visite di natura strettamente turistica, in genere<br />

assai distensive e piacevoli. E, infatti, la gran parte della nostra vacanza la trascorremmo<br />

sul Balaton; ma anche quando tornammo a Budapest, dove ci fermammo ancora per<br />

alcuni giorni prima di riprendere la via del ritorno verso l’Italia, tutto il nostro tempo fu<br />

dedicato a conoscere la città.<br />

Sul Balaton, eravamo alloggiati proprio a due passi dal lago in un albergo di proprietà<br />

del POSU, vicino a Siófok, se ben ricordo, uno dei centri maggiori delle diverse località<br />

che fanno corona al grande lago.<br />

Naturalmente, ne approfittammo per passare lunghe ore a rosolarci al sole d’agosto e a<br />

tuffarci nelle acque cinerine e calde del lago, anche perché il bel tempo ci assistette (i<br />

nostri amici ungheresi, scherzando, ci dicevano che eravamo stati noi a portare il bel<br />

tempo: potenza dello stellone d’Italia...).<br />

A essere sincero, per noi che eravamo abituati ai mari italiani, faceva un po’ senso,<br />

almeno le prime volte, mettere piede nel lago.<br />

Il Balaton, infatti, è un lago di origine vulcanica e quindi il suo fondo è fatto di una<br />

mota piuttosto viscida che, quando te la senti sotto i piedi, provoca qualche disagio.<br />

In più, vicino alla riva, ogni tanto si vedevano serpentelli, innocui, sol<strong>care</strong> le acque,<br />

e questo spaventava soprattutto le donne. Nessuno però rinunciava a fare il bagno;<br />

252


passavamo anzi molto tempo nell’acqua a chiacchierare e gio<strong>care</strong> tra di noi. Tra l’altro,<br />

poiché eravamo nella parte meridionale del lago dove, per lungo tratto, i fondali non<br />

superano neppure il metro, potevamo fare anche belle passeggiate, un po’ nuotando e<br />

un po’ camminando, verso l’interno del grande specchio d’acqua, senza correre rischi<br />

di sorta.<br />

Anche sulla riva si stava bene.<br />

Davanti al nostro albergo, infatti, seguendo i bordi del lago, si snodava una larga striscia,<br />

lunga qualche centinaio di metri, fatta di aiuole fiorite, vialetti di ghiaia, piccoli spiazzi<br />

arredati con panchine e sdraio dove si poteva tranquillamente passeggiare o mettersi a<br />

sedere a conversare e leggere.<br />

Ma tutto questo accadeva di solito la mattina, perché spesso il pomeriggio la Direzione<br />

dell’albergo ci organizzava visite nei posti più caratteristici della zona o gite in barca e<br />

in traghetto sul Balaton.<br />

Ricordo a questo proposito una bella gita in barca a vela, la giornata era calda e noi<br />

eravamo tutti in costume: lo vedo da una delle numerose fotografie che ho riportato<br />

dall’Ungheria e che stanno lì, anch’esse, a raccontare il piacere e la spensieratezza di<br />

quei giorni.<br />

Un’altra volta invece, sul far della sera e fino ad una certa ora della notte, facemmo<br />

la traversata del Balaton con un traghetto-discoteca dove cenammo anche: non fu una<br />

traversata proprio gradevole a causa del tipo di musica, un rock metallico assordante,<br />

che ci dovemmo sorbire per tutta la serata ma che piaceva invece assai ai tantissimi<br />

giovani ungheresi imbarcati con noi!<br />

Tra le visite che facemmo ne ricordo bene alcune: Vezsprém, nella parte settentrionale<br />

del Balaton, chiamata la città delle regine perché lì venivano incoronate le mogli dei<br />

re ungheresi; Sándorpuszta, con il suo allevamento di cavalli; Keszthely, la più antica<br />

città del Balaton, già importante centro commerciale al tempo dei romani, con il suo bel<br />

castello barocco della ricca famiglia dei Festetics, trasformato in Museo, all’interno del<br />

quale si trova la Biblioteca Helikon; e soprattutto Tihany.<br />

Tihany è un promontorio che si incunea nel Balaton e che noi raggiungemmo dalla<br />

riva opposta, con il traghetto che parte da Szántód. Dal 1952 è parco nazionale; ed è un<br />

luogo davvero straordinario per la bellezza dei luoghi dove è possibile anche imbattersi<br />

in rarità botaniche e zoologiche.<br />

Nel mio album ho diverse fotografie scattate a Tihany e durante la traversata del lago<br />

per raggiungere la bellissima penisola: anche quel giorno il cielo era pieno di sole e il<br />

paesaggio, così segnato dal verde di una vegetazione fitta che avvolge da ogni lato la<br />

piccola cittadina dove svettano le cuspidi della chiesa barocca del ‘700 che racchiude al<br />

suo interno preziosi intarsi di legno, appariva ancora più splendido e luminoso. Tuttavia<br />

un episodio assai sgradevole accompagnò quella giornata meravigliosa.<br />

Per imbarcarci sul traghetto, a Szántód, eravamo partiti dall’albergo con il pullman.<br />

Ma, quando arrivammo nei pressi della zona d’imbarco, trovammo davanti a noi una<br />

tale fila di auto e di pullman che rischiavamo di perdere l’appuntamento. Momenti di<br />

grande disappunto tra i nostri accompagnatori ungheresi, ma la direttrice dell’albergo<br />

che era con noi risolse d’autorità la situazione: scese dal pullman, dopo aver invitato<br />

perentoriamente l’autista a seguirla con il mezzo, e, forte del fatto che era del POSU e<br />

253


accompagnava una delegazione straniera, costrinse piuttosto bruscamente pullmans e<br />

auto a sgombrare una parte della carreggiata per lasciar passare il nostro pullman.<br />

Potemmo così giungere a tempo all’imbarco, ma non vi dico, <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>, quale non fu<br />

il nostro imbarazzo per la prepotenza di cui eravamo stati testimoni e anche la causa<br />

involontaria. Avevamo anche visto, oltretutto, le proteste della gente, ai cui occhi, certo,<br />

neppure noi facemmo una gran bella figura...<br />

Nell’albergo che ci ospitava non c’eravamo solo noi italiani.<br />

Vi erano anche un piccolo gruppo di comunisti tedeschi della Germania Federale (dove<br />

il loro partito era fuorilegge) e una forte delegazione sovietica, c’era poi anche una<br />

coppia rumena di Bu<strong>care</strong>st con la quale stringemmo subito amicizia e ci scambiammo<br />

anche qualche cartolina dopo il nostro ritorno in Italia.<br />

Con i tedeschi ci fu subito intesa: era gente allegra, giocherellona, che amava stare in<br />

compagnia e divertirsi.<br />

E infatti con loro organizzammo, sia in albergo che sul lago, balli, giochi un po’ bizzarri<br />

come si può vedere dalle fotografie del mio album e gare varie dove ci scontravamo<br />

anche con un certo accanimento ma dove quasi sempre però vincevamo noi.<br />

Non solo eravamo più giovani, ma i nostri ci mettevano anche un particolare impegno<br />

perché erano tedeschi e nessuno voleva dargliela vinta.<br />

Nei loro confronti -anche se comunisti- si faceva ancora sentire tutto il peso della storia.<br />

Ricordo, anzi, che, in una di queste gare, si trattava di saltare degli ostacoli, ci fu perfino<br />

una coppia di nostri vecchi compagni, romagnoli, ex partigiani, che ce l’avevano a tal<br />

punto con i tedeschi da partecipare anch’essi a quel gioco piuttosto rischioso per la loro<br />

età pur di non farli vincere.<br />

Ma, nonostante la loro simpatia, i nostri amici tedeschi avevano un difetto per noi<br />

imperdonabile: quello di andare, di solito, a letto con le galline e alzarsi alle prime luci<br />

dell’alba, mentre noi amavamo tirare tardi. E questo provocò qualche piccolo screzio<br />

tra noi e loro.<br />

Ricordo a questo proposito un episodio che, alla fine, si concluse con tante risate ma che<br />

intanto ci fece arrabbiare tantissimo.<br />

Spesso la sera, dopo la cena, parecchie coppie del nostro gruppo andavano a ballare in<br />

una discoteca appena a un tiro di schioppo dall’albergo. La musica di moda nel locale<br />

era naturalmente il rock, ma noi riuscivamo anche a far suonare canzoni italiane e,<br />

soprattutto, napoletane, così potevamo ballare anche ai nostri ritmi.<br />

Ma un giorno accadde che, tornando dalla discoteca a notte ormai alta e quando i nostri<br />

amici erano già da qualche ora nelle braccia di Morfeo, ci fermammo, un bel gruppo,<br />

davanti all’albergo, mettendoci prima a chiacchierare tra di noi e poi a cantare.<br />

Non l’avessimo mai fatto perché mal ce ne incolse: infatti, nel bel mezzo delle nostre<br />

chiacchiere e dei nostri canti, ci vedemmo all’improvviso piombare addosso, dall’alto,<br />

un bel secchio d’acqua, erano i nostri amici dormiglioni che non ne potevano più di<br />

vedersi interrompere il loro sonno prezioso e avevano deciso di reagire!<br />

Insomma, abbiamo passato parecchie serate divertenti con il gruppo di comunisti<br />

tedeschi della Germania Ovest; e forse con qualcuno di loro avremmo anche potuto<br />

rincontrarci negli anni seguenti se non ci fosse stato di mezzo l’ostacolo della lingua,<br />

oltre che della distanza.<br />

254


Anche qui ricordo un episodio, un po’ comico nel suo svolgimento, ma che testimonia del<br />

buon rapporto che avevamo stabilito con loro ma anche della difficoltà a mantenerlo.<br />

Eravamo tornati in Italia appena da qualche giorno quando arrivò a casa mia una<br />

telefonata di Hermann, uno dei nostri amici.<br />

A casa c’era solo Rosetta, con i ragazzi, io ero invece fuori, sicuramente a qualche<br />

riunione. Così fu lei a rispondere. Ma la conversazione durò solo pochi secondi, il<br />

tempo di dire: Antonio, Antonio..., da parte di Hermann che non conosceva l’italiano e<br />

parlava in tedesco, e da parte di Rosetta, digiuna a sua volta di tedesco, di rispondere in<br />

italiano: Antonio non c’è, Antonio non c’è...!<br />

Quando eravamo sul Balaton, a gesti riuscivamo comunque a capirci ma per<br />

telefono...<br />

Così da quel giorno non ci furono più telefonate, né da parte nostra né da parte di<br />

Hermann!<br />

Con i sovietici invece non ci fu proprio storia.<br />

Era una delegazione composta prevalentemente di coppie anziane, proveniente<br />

probabilmente dal profondo della provincia sovietica.<br />

Se ne stavano sempre per conto loro, ignorando tutti gli altri ospiti dell’albergo, e c’era<br />

nei loro atteggiamenti e nei loro modi di fare anche una certa sufficienza (chissà, era<br />

forse spocchia da grande potenza!). Né ci fu mai neppure l’occasione di scambiare con<br />

loro qualche battuta.<br />

E non è che non davano confidenza solo a noi: lo stesso accadeva con i tedeschi e la<br />

coppia rumena. Atteggiamento davvero incomprensibile!<br />

Le uniche occasioni di contatto con loro ci furono solo al momento del nostro arrivo e<br />

poi della loro partenza.<br />

Come si usava in queste occasioni, a pranzo ci furono i soliti brindisi di saluto (sempre<br />

molto enfatici, naturalmente) da parte mia e del loro capodelegazione, ma a base questa<br />

volta di pálinka (una grappa ungherese fatta di albicocca, mela o ciliegia) e non di<br />

wodka.<br />

Il nostro commiato dal Balaton avvenne con un gesto molto carino da parte nostra.<br />

La bella e bionda Judith, la nostra interprete, stava per sposarsi; e così, prima di partire,<br />

decidemmo di farle il regalo di nozze. Le regalammo cento mila lire, diecimila a coppia,<br />

una bella somma per l’epoca, soprattutto per lei che viveva in Ungheria dove i redditi<br />

pro-capite non erano certo alti!<br />

Gli ultimi giorni della nostra vacanza li passammo, come ho già accennato, a<br />

Budapest.<br />

Budapest è una città splendida, di cui non finisci mai di ammirare l’eleganza architettonica<br />

e urbanistica e i paesaggi urbani e naturalistici di cui è ricca. Come l’isola Margherita.<br />

O la collina di Buda, con il Castello Medioevale, la chiesa di Mattia e il Bastione dei<br />

Pescatori, dalla quale si può godere lo spettacoloso panorama della pianura sottostante<br />

dove c’è il Danubio che divide in due la città fluendo lento e maestoso sotto il Ponte<br />

delle Catene e gli altri ponti che l’attraversano e c’è Pest che dalla riva sinistra del fiume<br />

si dirama verso la pianura con i suoi viali, i suoi monumenti, le sue ville signorili, i suoi<br />

edifici monumentali.<br />

Nei pochi giorni a nostra disposizione non ci fu possibile naturalmente vedere molto.<br />

255


Tuttavia, quel poco che vedemmo fu davvero interessante.<br />

In particolare, di quei giorni ricordo il giro della città, che ci consentì di conoscere i<br />

suoi monumenti più significativi, la visita alla sede del Parlamento nazionale, l’ascesa<br />

alla collina di Buda dove, al Bastione dei Pescatori, potemmo anche fare acquisti di<br />

manufatti dell’artigianato locale approfittando della presenza nella zona di un piccolo<br />

commercio libero consentito dallo Stato, e poi le ore passate nell’isola Margherita e la<br />

gita in battello all’Ansa del Danubio, fino ad Esztergom.<br />

Buda, con Óbuda nata sulle rovine della romana Aquincum, è la parte più antica della<br />

città; ed è stata per lungo tempo la città del potere di cui conserva ancora i simboli, a<br />

partire dal Palazzo Reale, mentre Pest era la città dei mercanti e dei commerci, fino alla<br />

unificazione, nell’ultimo quarto di secolo dell’Ottocento, dei tre centri con la nascita di<br />

Budapest.<br />

Ma a Buda non ci sono solo i simboli del vecchio potere, ci sono anche degli ottimi<br />

ristoranti; e fu proprio in uno di questi che ci ritrovammo qualche giorno dopo la nostra<br />

visita ai suoi monumenti per la cena d’addio, al lume delle candele e al suono dei violini<br />

tzigani.<br />

L’isola Margherita, dove passammo quasi una intera mattinata, favoriti anche questa<br />

volta dal bel tempo, è invece un grande parco di quasi cento ettari, dal quale le automobili<br />

sono proprio bandite, adagiata nel bel mezzo del Danubio.<br />

Anche di questa gita conservo alcune fotografie: siamo lì a passeggiare lungo i vialetti<br />

di ghiaia del parco, in mezzo agli alberi e alla fitta vegetazione di arbusti, e a goderci<br />

l’atmosfera mite e idilliaca della giornata sdraiati sul prato o giocando, circondati dalle<br />

aiuole ricche di fiori, con i nostri amici.<br />

Di interesse anche politico fu, invece, la gita in battello all’Ansa del Danubio. Ma a darle<br />

questa valenza non fu la gita in quanto tale quanto la sosta che facemmo ad Esztergom,<br />

già sede dei re magiari e cuore della Chiesa ungherese da lunghi secoli.<br />

Esztergom infatti, è la sede del primate della Chiesa cattolica ungherese, sede quindi<br />

di quel József Mindszenty che, nella sua qualità di primate, giocò un ruolo di primo<br />

piano nei giorni terribili della rivolta ungherese del 1956 e che fu poi costretto a vivere<br />

per quindici lunghi anni nell’Ambasciata americana dove si era rifugiato al momento<br />

dell’ingresso dell’Armata rossa a Budapest, fino alla sua accettazione, nel 1971,<br />

dell’invito del Vaticano a lasciare l’Ungheria.<br />

Anche se eravamo nel 1981, quel nome era noto anche ai più giovani tra noi; e non<br />

godeva certo della nostra simpatia come di quella dei nostri accompagnatori.<br />

Di orientamento fortemente conservatore e anticomunista, Mindzendy non usò<br />

certamente, in quei giorni, la grande influenza che la Chiesa esercitava sulle masse<br />

popolari ungheresi per aiutare la ricerca di una soluzione politica a una situazione che<br />

rischiava ogni giorno di trasformarsi in tragedia e che come tale poi finì, anzi...!<br />

256


CONgEdO<br />

Bene, mie <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>! Con il nostro ritorno a Roma da Budapest, siamo arrivati<br />

finalmente alla fine del racconto.<br />

Ma vedo che vi agitate un po’: dite che manca ancora qualcosa?!<br />

Ah, sì! Volete sapere dove erano i vostri papà mentre io e la nonna ce la spassavamo in<br />

Ungheria.<br />

Ma semplice, sono restati in Italia, erano già grandi ormai: Massimiliano quasi diciotto<br />

anni e Stefano quindici.<br />

E comunque vi assicuro che si sono divertiti molto anche loro. Hanno infatti passato il<br />

mese di agosto girando un po’ di qua e un po’ di là, tra Villalago Sora Cugnoli e Chieti,<br />

ospiti di nonni amici e parenti vari. Quindi...<br />

Ma non perdiamo altro tempo: è male far chiacchiere al vento, dice Omero. Passiamo<br />

perciò subito al congedo, quello che un tempo serviva ai poeti non solo per chiudere le<br />

loro canzoni ma anche per inviare a volte qualche messaggio.<br />

Nella prima metà di settembre di questo 2006, la nostra scelta per le cure termali è<br />

caduta su Acqui Terme, in provincia di Alessandria.<br />

Dal punto di vista gastronomico, non è stata una grande scelta, peggio anzi non poteva<br />

andare. In compenso però abbiamo avuto la possibilità di conoscere Torino e diverse<br />

altre località del Piemonte molto belle e interessanti e anche di fare una scappata a<br />

Genova che non dista molto da Acqui.<br />

Tra le nostre visite non potevano man<strong>care</strong> naturalmente S. Stefano Belbo, il paese natale<br />

di Cesare Pavese, un poeta che mi è sempre piaciuto, e le Langhe, le dure colline, le<br />

terre di vigne, di prugnoli e di castagneti che Pavese ha cantato nelle sue poesie e nei<br />

suoi romanzi, trasformandole in uno scenario mitico, senza tempo, per le sue opere<br />

letterarie.<br />

Una visita fugace, com’era inevitabile, ma densa ugualmente di emozioni di fronte, ad<br />

esempio, alle tante cose che parlano del poeta raccolte nel Centro Studi a lui intitolato.<br />

Ricordo in particolare l’emozione che mi prese davanti alla teca che contiene la copia dei<br />

Dialoghi con Leucò che egli aveva con sé quel tristissimo giorno e sul cui frontespizio<br />

aveva vergato le sue ultime righe, prima di togliersi la vita.<br />

I Dialoghi con Leucò è il libro che Pavese prediligeva e nel quale forse è possibile<br />

rintracciare le ragioni profonde che l’hanno convinto a superare il limite posto agli<br />

uomini dagli dei di mischiarsi con le presenze vive e multiformi del mondo della natura,<br />

del mondo del mito appunto.<br />

Tornando a casa, ho ripreso in mano il libro e ho scorso di nuovo qualche pagina e,<br />

pensando a questo epilogo del mio racconto, mi è sembrato, mie <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>, che il modo<br />

migliore per concluderlo fosse fare mie le parole dette da Circe a Leucotea, in uno degli<br />

ultimi dialoghi: L’uomo mortale, Leucò, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che<br />

porta e il ricordo che lascia. Nomi e parole sono questo...<br />

Raccontando la mia vita, non solo ho cercato di rispondere alla domanda che Valentina<br />

mi ha fatto alcuni anni fa, augurandomi naturalmente di esserci riuscito. Ho voluto anche<br />

che proprio questo racconto fosse il ricordo che io lascio a voi per i giorni dell’assenza:<br />

257


quelli, inevitabili come le rose a primavera e i frutti in estate, ai quali tutti un giorno<br />

approderemo.<br />

C’è, ovviamente, in questo mio piccolo dono anche la speranza che esso possa esservi<br />

utile almeno un po’ nella costruzione del vostro futuro e possa persino offrirvi qualche<br />

idea per portare anche voi, quando sarete grandi, il vostro contributo, come io ho cercato<br />

di fare nella mia vita, alla realizzazione di un mondo migliore per tutti.<br />

Da questo punto di vista, ho fatto un po’ come gli antichi scribi egiziani che lasciavano<br />

ai figli e ai <strong>nipoti</strong> i loro Insegnamenti. Come diceva uno di loro: Ecco, io ho fatto<br />

l’inizio, tu annoda la fine...<br />

E’ vero, il mondo oggi è già grandemente cambiato, e chissà quanto cambierà ancora<br />

negli anni che vi aspettano. Potrebbe essere diversamente, del resto? La corrente<br />

dell’acqua si è allontanata lo scorso anno, e questa che passa è già un’altra acqua...<br />

Ma non lo dimenticate mai: non solo il futuro nasce anche dal passato, perciò sapere da<br />

dove si viene è un po’ come sapere dove si va.<br />

Ma la memoria di ciò che è stato può essere molto importante anche per capire meglio<br />

quel che accade attorno a voi e per affrontare con lucidità i cambiamenti e non aver<br />

paura di essi.<br />

D’altra parte, è anche questo il modo per dominarli e indirizzarli, sapendo che i<br />

cambiamenti non sono tutti uguali e non hanno sempre tutti un segno positivo: a volte<br />

il cambiamento è in realtà un ritorno indietro antistorico o rappresenta una deviazione<br />

pericolosa da un cammino di progresso.<br />

Guardate in avanti, dunque, ma ascoltate anche il passato. E soprattutto non smarrite le<br />

vostre radici: senza radici, l’albero secca.<br />

Voglio dire che le grandi idee di libertà, democrazia, fraternità e uguaglianza tra gli<br />

uomini sono sempre state la mia bussola; e spero che continuino a essere anche la<br />

vostra. Sono le idee a cui tenere sempre fermo lo sguardo, le idee per le quali battersi<br />

ogni volta che è necessario, le radici appunto...<br />

Comunque, coltivatele con cura. E fatelo sempre con l’impegno e la consapevolezza di<br />

cui siete capaci, ma anche con serenità e quel pizzico di allegria e creatività che ogni<br />

gioco richiede, anche il grande gioco della vita.<br />

Come facevate quando eravate ancora piccole, allorché giocavamo a inventare le favole.<br />

Ricordate?<br />

Ognuna diceva la parolina che voleva fosse la chiave della favola, poi le mescolavamo<br />

tutte assieme e alla fine la favola nasceva davvero.<br />

O, ancora, come facevate quando ci divertivamo a gio<strong>care</strong> con gli scioglilingua.<br />

La vita, mie <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>ne, è anche una favola e uno scioglilingua, perciò datevi sempre<br />

da fare come si deve per avere il risultato migliore; e metteteci sempre tutta la vostra<br />

intelligenza, passione e fantasia, e siate brave ora che anche la vostra vita si fa più<br />

impegnativa come già lo eravate nella vostra verdissima età.<br />

E non lasciatevi prendere dalla impazienza come accadeva quando, la sera della vigilia,<br />

non vedevate l’ora di aprire i regali di Natale: come sapete anche voi, la gatta furiosa<br />

fa i gattini ciechi!<br />

E adesso, dopo tutti questi insegnamenti da vecchio e barboso scriba, provate ancora<br />

una volta a ripetere con il nonno:<br />

258


Supercalifragilistichespiralidoso<br />

oppure, se preferite,<br />

Se l’arcivescovo di Costantinopoli<br />

si disarcivescoviscostantinopolizzasse,<br />

ti disarcivescoviscontantinopolizzeresti anche tu...?<br />

Potete naturalmente, se ve ne viene voglia, anche divertirvi a ripetere col nonno, pur<br />

se non si tratta di uno scioglilingua ma solo di una vecchia filastrocca di quand’ero io<br />

bambino, che però avete ripetuto assieme a me tante volte nella vostra infanzia (e non<br />

dimenticate, mi raccomando, di ripetere due volte il primo verso e poi, alla fine, di fare<br />

con le dita di tutt’e due le mani il solito lieve sberleffo, che voi conoscete bene, sulle<br />

guance del bambino col quale state giocando):<br />

Musce muscia jatte,<br />

che ‘ssi magnate jere sere,<br />

so’ magnate pan’e casce,<br />

frischie frischie ca ‘nni è lu vere!<br />

E c’è anche, lo sapete bene, l’altra filastrocca infantile, anch’essa assai divertente, che<br />

il nonno vi ha insegnato, rivolta alla luna:<br />

Luna luna luna<br />

dammi ‘nu piatte di maccarune<br />

e si tu ni’ mme le dì<br />

ji’ te rompe la chitarrelle<br />

e si ni’ mme ci mitti lu casce<br />

ji’ ti sfasce la rattacasce...<br />

259


Appendice<br />

260


lE POESIE dEl NONNO<br />

(scritte quando era giovane)<br />

Le poesie qui raccolte (non secondo un ordine cronologico) sono state composte dal<br />

nonno quasi tutte negli anni ’50, soltanto qualcuna nei primi anni ’60; e sono naturalmente<br />

solo una parte delle tante partorite durante i suoi empiti poetici, molte per fortuna<br />

vostra sono finite in pasto alla critica roditrice dei topi, come diceva il vecchio Marx.<br />

Il nonno allora aveva molte velleità poetiche, poi col passare degli anni queste sue<br />

pulsioni si sono indirizzate, forse con miglior risultato e comunque con maggiore utilità<br />

per tutti, in altre direzioni.<br />

Non vi nascondo però, rileggendo oggi a distanza di oltre cinquant’anni queste poesie,<br />

che non manca in esse un certo fascino, e lo si sente ancora nonostante il tanto tempo<br />

trascorso.<br />

Spero, mie carissime <strong>nipoti</strong>, che questo fascino possiate avvertirlo anche voi quando le<br />

leggerete; e comunque siate benevole nel giudicarle: esse vogliono essere innanzitutto,<br />

prima ancora che poesia nel senso più alto che ha questa parola, l’espressione di un<br />

mondo di fantasie e di sentimenti che il nonno ha cercato di vivere, negli anni della sua<br />

giovinezza, con il massimo di intensità.<br />

Naturalmente, il modo in cui il nonno sente ed esprime questo suo mondo risente<br />

del clima culturale dell’epoca e anche delle letture che egli andava facendo in quel<br />

periodo.<br />

Così, è possibile ritrovare in queste poesie echi non solo di Leopardi che io ho sempre<br />

molto amato (nelle prime poesie, anche di Pascoli), ma anche ovviamente di Ungaretti<br />

Quasimodo Montale, i poeti che allora dominavano la scena italiana (e non solo); e,<br />

nelle poesie più recenti, anche di Cardarelli e Pavese (quello soprattutto di Verrà la<br />

morte e avrà i tuoi occhi).<br />

Ma, come è facile intuire, vi sono in esse anche altre risonanze, in qualche caso forse<br />

non proprio agevoli da rintracciare: parlo, ad esempio, dei lirici greci e della loro<br />

essenzialità espressiva che don Antonio ci aveva insegnato ad amare negli anni del liceo,<br />

ma anche di R. Tagore, il grande poeta indiano che avevo conosciuto tramite alcune<br />

vecchie edizioni Carabba e che allora leggevo con molto interesse, e, addirittura, anche<br />

di alcuni testi buddistici, sempre pubblicati da Carabba, che allora mi affascinavano<br />

particolarmente; mi piaceva poi la parola preziosa, rara (un pizzico di D’Annunzio,<br />

dunque, ma senza dannunzianesimo credo) e anche la parola che già di per sé evoca una<br />

atmosfera poetica nel senso che dice Leopardi nello Zibaldone quando osserva che “il<br />

linguaggio poetico…consiste, se ben l’osservi, in un modo di parlar indefinito, o non<br />

ben definito, o sempre meno definito, del parlar prosaico o volgare”.<br />

In quegli anni inoltre, ma anche oggi per la verità, mi piaceva molto il grande pittore<br />

francese Paul Gauguin alla ricerca disperata, con la sua grande pittura, di paradisi<br />

perduti; e anche gli echi di questo incontro, così pieno di suggestioni rarefatte e in<br />

qualche modo intrise di misticismo, è possibile ritrovare nelle mie poesie di allora.<br />

Ho voluto fare queste brevi annotazioni, non tanto per darmi una qualche importanza<br />

quanto piuttosto per sottolineare come anche il nonno, nel suo piccolo, era riuscito<br />

261


a costruirsi un suo linguaggio poetico originale, capace di esprimere quel mondo di<br />

fantasie e sentimenti che ho prima ricordato, riuscendo ad assorbire e a far riemergere in<br />

forme nuove e fresche tutte le suggestioni che via via, attraverso la frequentazione della<br />

grande poesia non solo italiana, si erano sedimentate dentro di lui. Forse, ad aiutarlo in<br />

questo, sono state proprio la ricchezza e l’autenticità di quel suo mondo!<br />

Due avvertenze conclusive.<br />

La prima è che diversi di questi componimenti poetici non hanno titolo, potete così<br />

sceglierlo voi per ognuno di essi, ciascuna quel che più le piace; la seconda è che in<br />

qualche occasione il nonno si è preso delle licenze poetiche, è il caso -ad esempio- di<br />

due parole che vi troverete davanti strada facendo e che sono un po’ una invenzione<br />

del nonno: abbrivida al posto di abbrividisce (abbrivida faceva più atmosfera e non<br />

rompeva il ritmo del verso) e ciaulìo che è un termine dialettale italianizzato, con il<br />

significato di cicaleccio, tratto da ciavelijà (appunto cicalare).<br />

Prima del nonno, l’hanno fatto già tante volte autori ben più importanti, quindi non è<br />

proprio una colpa grave...!<br />

262


IL RITORNO DELLA PRIMAVERA<br />

Già torna l’aprile<br />

e primavera tutt’attorno aulisce,<br />

cantan gli uccelli e ridono le gemme<br />

fresche sui rami intatti<br />

e son fioriti i mandorli gioiosi:<br />

e noi fuggirem con dolcezza<br />

sovra l’ali del sogno, che il tramonto<br />

a noi placido e lento<br />

tra sussurri di zefiri ridona<br />

e nimbi di profumi e d’armonie.<br />

263


NOVEMBRE<br />

Piange novembre come una fanciulla<br />

delusa e stanca. Che malinconia!<br />

La nebbia dorme sopra le colline,<br />

le dolci valli pallida intristisce,<br />

e gli olmi hanno deposto sulla terra<br />

umida e fredda il lor festivo ammanto.<br />

L’ammanto imputridisce, e gli olmi nudi<br />

restano intanto. Che malinconia!<br />

264


UOMO<br />

Solo è nel mondo, perché solo è tutto<br />

nel mondo. E ognuno il suo tormento vive<br />

nel deserto mistero del suo nulla.<br />

265


ALLA SOFFERENZA<br />

Bello era allora il nostro focolare!<br />

Come spose novelle<br />

liete fuggian le scintille in alto<br />

e fiorivano i cuori alla speranza,<br />

cantarellava come pesco in fiore<br />

ogni volto ogni sguardo<br />

ché lievemente come una <strong>care</strong>zza<br />

serena e dolce<br />

scorrea la vita.<br />

Or dimesse e cascanti<br />

ombre sospiran presso alla deserta<br />

fiamma che muore;<br />

e sempre,<br />

di forma in forma errando,<br />

fantasmi inseguo<br />

ed il migrante mio cuore<br />

non incontra che te nel suo cammino.<br />

266


Dolce è nel fiore vanire,<br />

vanire nel vento<br />

che rapido odora<br />

d’un mite profumo di tomba.<br />

La vita è silenzio,<br />

d’ombre amare<br />

d’erbe corrose:<br />

come fragile battito d’ali<br />

si perde il mio cuore.<br />

267


ADDIO<br />

Come una soave<br />

immensa fiaba tu fosti,<br />

perduta.<br />

E il mio cuore<br />

è un giardino deserto inondato di pianto.<br />

Nel frascheggiare degli olmi<br />

bisbigliano ora i nostri sogni delusi<br />

come un mormorio<br />

di mille voci lontane.<br />

Addio,<br />

melodiosa<br />

fioritura di sogni e di speranze,<br />

addio.<br />

268


SOLITUDINE<br />

Pensosi colloqui d’amore<br />

intreccia a notte la pioggia<br />

con la siepe dolente,<br />

il canto sommesso del vento<br />

logora il cuore.<br />

269


RIPOSEREMO!<br />

Riposeremo! Che lunga fatica<br />

la vita! E come deserto il cammino!<br />

Seminato di sterpi di sassi<br />

che pungono al cuore. Riposeremo!<br />

270


UN’ALTRA VITA<br />

Un mare azzurro<br />

che s’apra in melodie infinite<br />

e dove nessuna dolcezza è dimenticata.<br />

Una casa smarrita nello spazio<br />

e vibrante dei sogni estivi<br />

che inghirlandano il bosco<br />

e cullano la sera.<br />

E un giovine sorriso<br />

che mi scaldi il cuore<br />

e la primavera danzante<br />

che mi raccolga nelle sue braccia odorose.<br />

271


IDILLIO<br />

Di tanta dolcezza<br />

appena un sogno rimane<br />

fuggevole e stanco.<br />

Leggera vola al mio cuore<br />

la melodia del tuo sguardo sereno.<br />

272


PER UNA FANCIULLA MORTA<br />

Tu che ora hai nera la bocca<br />

come la terra,<br />

eri un canto sommesso<br />

nel trepido amore di un sogno.<br />

Con tacito incanto<br />

il tuo leggero passo di danza<br />

si perde nel buio.<br />

A quale intatto sorriso volasti,<br />

a quale stupita fiaba<br />

di colori e di suoni?<br />

273


Sussurri infiniti<br />

limpidi risi<br />

nella sera d’estate;<br />

e un ricordo ti porta ogni fiore,<br />

ogni filo d’erba<br />

ancora una vecchia favola canta.<br />

274


ALLA LUNA<br />

Sospirano i pioppi, e le stelle<br />

trascoloran d’amore:<br />

aneliti brevi<br />

sussurrano in pianto.<br />

Tu sorgi. S’incantano i pioppi,<br />

di mistica fiaba si vela ogni cosa<br />

nell’aura che tace!<br />

275


ALLA SERA<br />

Come soave<br />

d’aeree solitudini trapungi<br />

azzurre fantasie!<br />

E trepidi incanti,<br />

o sera, sfiorano il pensiero<br />

e languidi abbandoni.<br />

Nel tuo mistero fluisci serena, o sera,<br />

e placida salpi<br />

a dolci isole di pace.<br />

276


SERA D’ESTATE<br />

La rondine bisbiglia,<br />

e trascolora al lieve aprirsi della sera<br />

l’ondulare dell’erba:<br />

e la nuvola silenziosa<br />

trapunge riposi d’ombra e ti raccoglie<br />

se il vento ti sfiora<br />

in un delicato ricamo di foglie e di sogni.<br />

277


SERA DI VILLAGGIO<br />

Bisbigli curiosi<br />

pei viali d’ombre frusciano soavi,<br />

sul fiore argenteo dell’acqua<br />

riposano assorti<br />

incanti sereni.<br />

Languidi e freschi odorano i silenzi.<br />

278


La chitarra fatua evoca la sera:<br />

sospiri di vento disperdono i sogni,<br />

salpa la luna che già lieve trapunge<br />

infiniti silenzi armoniosi.<br />

279


Almeno potersi inebriare<br />

di questa levità serena che infiora ogni silenzio,<br />

ridere e danzare come allodola<br />

leggera al vento,<br />

rinnovarsi e compirsi dove<br />

la vita muore e il silenzio ti sfiora<br />

come ala d’uccello.<br />

280


ALLA NOTTE<br />

I nostri naufraghi cuori<br />

riconduci ai dolci sentieri del riposo,<br />

per noi rinnova i silenzi arcani<br />

dove in serena trasparenza appare<br />

e vive perenne<br />

di luce ognor sorriso<br />

il desiderio dell’uomo,<br />

dove la vita si tramuta in canto<br />

e tace ogni pianto<br />

e fragranze di fiori<br />

e gioia di colori<br />

sorridono in divini abbandoni.<br />

281


Ma quando il giorno<br />

in lenta sera estenua, e delicata<br />

l’erba sussulta, puro<br />

il tuo sogno di rosa e azzurro<br />

dispieghi, o pace,<br />

e la morte ci sfiora<br />

simile a pioggia<br />

che timida bruisce e culla attenta<br />

l’estasi dei prati.<br />

282


SOGNO D’ESTATE<br />

Abbarbicato a nuda roccia, sogno<br />

plenilunii profondi, placidi<br />

abbandoni di cime<br />

tra stupori di perle.<br />

E mi distendo nelle soffici valli.<br />

Tra deliquii d’ombre<br />

abbrivida la foglia<br />

di languido argento,<br />

trasparenze di sogni astrali<br />

incantano il sereno.<br />

283


AUTUNNO<br />

Il vento ci screpola il cuore, ci logora l’acqua<br />

imbrattata di fango:<br />

nella pioggia che impigra<br />

cade ogni voce.<br />

S’addorme il giorno nel suo tranquillo tedio<br />

intriso di nebbia,<br />

e tra i morti uliveti<br />

singhiozza la nostra solitudine.<br />

284


NOSTALGIA<br />

Il fiore che ancora tremola nel giardino<br />

mi porta ricordi<br />

di lontananze indicibili<br />

presentimenti dolci del sangue<br />

nel ritmo di melodie antiche.<br />

Ma se tu entri nel mio pensiero<br />

la febbre amara mi scuote<br />

e scande immutabile<br />

il valzer della tua nostalgia.<br />

285


CANZONE D’AMORE<br />

Un languore di brume<br />

racchiude il nostro silenzio.<br />

E se dolce l’autunno ti sfiora<br />

e lungamente ti morde il cuore,<br />

il vento di settentrione<br />

di foglia in foglia ripete<br />

il nostro pianto segreto;<br />

e nei tuoi occhi estenua<br />

il crepuscolo triste dei ricordi<br />

si sfoglia la sera<br />

nel delicato aroma dei tuoi sogni.<br />

286


IL SALICE<br />

Tu sogni, lento<br />

salice, bisbigli e profumi,<br />

ti dondoli pigro, e non stupisci<br />

se al primo soffio<br />

d’esiti virginali l’erba s’irrora.<br />

Ti chiudi silenziosamente<br />

nel divino labirinto del tuo non senso<br />

e la tua frivolezza è un dolce incubo<br />

nelle sere affaticate.<br />

287


SCENETTA ESTIVA<br />

(di almeno trent’anni fa)<br />

Lo zingaro -sporco alto ricciutogira<br />

in tondo il cavallo,<br />

i fuochi allungano le ombre<br />

e dalle finestre socchiuse<br />

curioso lusingato<br />

scappa un occhiolino di luce<br />

per la dolce serenata<br />

dal castagno buio.<br />

288


I SOGNI DISMESSI<br />

Gli occhi spauriti<br />

scandagliano il silenzio.<br />

Il silenzio arido di là dai vetri.<br />

Fruscio di vento nella stanza buia.<br />

Ma il fruscio del vento<br />

sordamente dilegua nel ronzio del cuore<br />

e dietro, su un’aria languida e triste,<br />

incespicano i sogni<br />

vestiti da arlecchino.<br />

289


FANTASMI<br />

Ma una carta del solitario<br />

scivola improvvisa sulla terra nuda<br />

che ha colore di morto. A fatica<br />

ti pieghi, e gli occhi<br />

fissano la mano che stanca<br />

dondola e ti rammenta<br />

il ramo spezzato dei tuoi giochi di fanciullo,<br />

il ciaulio delle ragazze,<br />

l’ombra accovacciata agli angoli delle case.<br />

Fantasmi. Nulla più<br />

che fantasmi, disseccati dal nulla.<br />

Due rintocchi scuotono il giardino.<br />

290


La tua grazia e la tua delicatezza,<br />

la tua spontaneità, la tua forza interiore<br />

hanno il profumo intenso dei campi<br />

nelle sere di primavera.<br />

Tu sei un dolce respiro d’alba,<br />

la forza silenziosa del vento<br />

quando piega dolci distese d’erba<br />

nelle sere di primavera<br />

e le fa rabbrividire. Il respiro lieve<br />

delle sere di luna<br />

che amo<br />

come la fragile ragnatela dei tuoi sogni<br />

sulla fronte sfumata<br />

disegnata dalla luna.<br />

Ora ascolto le dolci distese d’erba<br />

in questa sera di primavera;<br />

le guardo assorto, mosse dal vento:<br />

e non so dire<br />

che nostalgia mi sale della pace dei tuoi occhi<br />

da esse, del tuo silenzio,<br />

della tua indicibile ansia<br />

di esistenze incontaminate,<br />

del tuo fresco sorriso.<br />

291


MALINCONIA<br />

Ora l’autunno con i suoi silenzi<br />

e l’erbe impigrite<br />

ci porta ricordi<br />

e nostalgie amare<br />

e pianto lungo di vento che scuote il cuore<br />

e piogge senza fine.<br />

292


Alberi assorti<br />

sul ciglio dei sentieri.<br />

L’erba<br />

estenuata riposa<br />

nel cuore del silenzio.<br />

NOTTURNO I<br />

293


NOTTURNO II<br />

Dormono abbandonate<br />

lungo i declivi<br />

appiè degli alberi le ombre;<br />

e un canto le sfiora<br />

cullando i pioppi<br />

nel tranquillo sonno.<br />

294


INVERNO<br />

Ora, a notte,<br />

non c’è che il vento,<br />

e il brivido profondo dei rami nudi.<br />

295


LAMENTATIO IN MORTE AMORIS ET IUVENTUTIS<br />

Forse ripensi ancora<br />

le calde sere d’estate<br />

passate amorosamente<br />

al chiaro romantico della luna<br />

o all’ombra densa degli olmi<br />

quando ancora viva in noi<br />

era la forza feconda della giovinezza;<br />

o il ricordo l’anima t’accende<br />

degli azzurri ricami delle nuvole<br />

sospesi sopra la primavera fiorita<br />

ora che la rosa di macchia<br />

s’immerge nell’ombra<br />

e il tuo viso diventa buio;<br />

o forse ti sollecita la favola amara<br />

narrata dal vento di settentrione<br />

che ti sfiora con le sue dita fredde<br />

e chiude i sogni nel cerchio grigio dell’aridità;<br />

forse altro ancora ti morde il cuore<br />

tanto oggi sembri estranea<br />

e come un’eco lontana<br />

è la tua voce già calda.<br />

Oh! se ricordo il tuo amore<br />

e la tua ansia di vita<br />

e l’affluire ininterrotto di sogni<br />

nel porto della nostra felicità<br />

e il messaggio incomparabile della giovinezza.<br />

Ma la vita non ha messaggio che duri,<br />

e ora noi siamo<br />

non più che la foglia dell’olmo davanti casa<br />

quando giunge l’autunno:<br />

il vento impudico disperde<br />

anche la cenere del nostro amore<br />

e a una a una<br />

sfoglia le rose del tuo sorriso<br />

mentre più buio e lontano<br />

si fa il tuo viso<br />

si fa il mio viso.<br />

296


FRAMMENTO<br />

Ora, anche il crisantemo è sfiorito;<br />

e della nostra giovinezza<br />

non restano che questi<br />

pochi fogli ingialliti<br />

che una volta parlavano d’amore.<br />

Di te, di me…<br />

297


COLLINE<br />

Per la rinnovata dolcezza<br />

di queste colline<br />

ho tanta nostalgia e tanto amore,<br />

ho fame di quest’erba fresca<br />

che mi ristori nel mio lungo errare.<br />

Ma il mio sospiro<br />

fu già l’ansia di mio padre<br />

e il vento che non ha paese<br />

ogni cosa disperde nel suo non senso;<br />

e ancora io sono,<br />

figlio dell’uomo solo,<br />

a sognare<br />

le dolci colline perdute.<br />

298


Ricordo ancora la notte di settembre<br />

così dolce così piena d’ombre<br />

e, quando la spinge il vento,<br />

la luna che disegna ghirigori improvvisi<br />

e scopre l’incanto delle colline<br />

adagiate sul fondo delle valli,<br />

le strade di campagna solitarie<br />

popolate degli incubi lontani<br />

della mia fanciullezza,<br />

le file degli alberi addormentati<br />

lungo il vallone,<br />

i tetti d’argento<br />

delle masserie abbandonate.<br />

Ma non m’inganno, or non è più quel tempo,<br />

e ciò che io sono<br />

non è ciò che avrei voluto essere:<br />

erra a lungo l’uomo in cerca di se stesso<br />

ma chi conosce<br />

la fine del cammino?<br />

299


PICCOLI MOTIVI MUSICALI<br />

Tinniscono le campanule<br />

sospirose,<br />

frusciano l’erbe<br />

e le foglie degli alberi assonnati.<br />

Tacito e solo<br />

il camposanto dorme<br />

nella pace lunare.<br />

Dolce tu sali, o sera,<br />

le mormoranti colline:<br />

appiè dei passi armoniosi<br />

germina il silenzio.<br />

I<br />

II<br />

III<br />

Pallidi ori accendono i tramonti.<br />

IV<br />

Appiè degli ulivi antichi<br />

germina l’ombra.<br />

Trepidano stelle<br />

tra sussurri di foglie.<br />

Sì soave è il tuo pianto,<br />

lontana eco di sogni<br />

in questo deserto;<br />

e stanchi tremano canti<br />

nel mio cuore, o pioggia.<br />

V<br />

300


VI<br />

Dolce è il canto<br />

che dai campi sale<br />

come cuor di fanciulla.<br />

VII<br />

Batti ora, o pioggia,<br />

la tua lenta musica,<br />

e culla mi sia<br />

di tristezza e di morte.<br />

VIII<br />

La nuvola solitaria sogna melodie azzurre.<br />

Il tempo<br />

scivola silenzioso<br />

nel nulla.<br />

IX<br />

301


<strong>Mie</strong> <strong>care</strong> <strong>nipoti</strong>...<br />

prologo<br />

capitolo i<br />

capitolo ii<br />

capitolo iii<br />

capitolo iv<br />

capitolo v<br />

capitolo vi<br />

capitolo vii<br />

capitolo viii<br />

capitolo ix<br />

elogio della cicala<br />

capitolo x<br />

capitolo xi<br />

capitolo xii<br />

capitolo xiii<br />

capitolo xiv<br />

congedo<br />

Le poesie del nonno<br />

il ritorno della primavera<br />

novembre<br />

uomo<br />

alla sofferenza<br />

dolce è nel fiore vanire<br />

addio<br />

solitudine<br />

riposeremo!<br />

un’altra vita<br />

idillio<br />

per una fanciulla morta<br />

sussurri infiniti<br />

alla luna<br />

alla sera<br />

sera d’estate<br />

sera di villaggio<br />

la chitarra fatua<br />

almeno potersi inebriare<br />

Indice generale<br />

302<br />

7<br />

11<br />

37<br />

57<br />

77<br />

103<br />

117<br />

135<br />

151<br />

169<br />

191<br />

195<br />

207<br />

219<br />

227<br />

241<br />

257<br />

263<br />

264<br />

265<br />

266<br />

267<br />

268<br />

269<br />

270<br />

271<br />

272<br />

273<br />

274<br />

275<br />

276<br />

277<br />

278<br />

279<br />

280


alla notte<br />

ma quando il giorno<br />

sogno d’estate<br />

autunno<br />

nostalgia<br />

canzone d’amore<br />

il salice<br />

scenetta estiva<br />

i sogni dismessi<br />

fantasmi<br />

la tua grazia<br />

malinconia<br />

notturno i<br />

notturno ii<br />

inverno<br />

lamentatio in morte amoris et iuventutis<br />

frammento<br />

colline<br />

ricordo ancora<br />

piccoli motivi musicali<br />

Indice<br />

303<br />

281<br />

282<br />

283<br />

284<br />

285<br />

286<br />

287<br />

288<br />

289<br />

290<br />

291<br />

292<br />

293<br />

294<br />

295<br />

296<br />

297<br />

298<br />

299<br />

300<br />

302

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