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44<br />

quentata vuole che la classe operaia ci sia ancora ma non<br />

nei paesi avanzati: ne segue che i paesi emergenti producono<br />

tutta la ricchezza e noi gliela sottraiamo. Ciò è vero<br />

solo in parte e perciò è necessario riflettere su cosa significhi<br />

produrre e lavorare oggi. Non dimentichiamo che<br />

non c’è più la macchina termica ma quella informatica,<br />

che richiede un lavoro molto diverso.<br />

Marx era stato molto netto a questo proposito. Non questo<br />

o quel lavoro, ma lavoro tout court: è lavoro produttivo<br />

<strong>il</strong> lavoro che produce profitti, punto. L’impianto teorico<br />

alla base è sempre lo stesso: si tratta di mezzi di produzione<br />

gestiti da proprietari capitalistici che assorbono<br />

lavoro. Nella società industriale, <strong>il</strong> capitalista produce ricchezza<br />

appropriandosi del lavoro dei nuovi proletari, nucleo<br />

storico di classe operaia. Il nuovo lavoratore industriale<br />

perde così la sua virtuosità ed è ridotto ad appendice<br />

di una macchina che è di proprietà del capitalista.<br />

Lo stesso vale per <strong>il</strong> sapere. Anche qui dopo un lungo processo<br />

storico, <strong>il</strong> capitale conquista un’altra sfera dell’attività<br />

umana, l’arte di vendere cognizioni: oggi <strong>il</strong> capitale<br />

«produce e vende cognizioni come qualsiasi mercante che<br />

venda cibi e bevande». Queste cognizioni sono oggi la<br />

merce più venduta, come mezzo di produzione o di godimento,<br />

«valanga di informazioni minute e divertimenti<br />

addomesticati». Questo processo va di pari passo con<br />

l’alienazione, la separazione del nuovo lavoratore mentale<br />

da questa universalità delle conoscenze, divenuta la<br />

nuova ricchezza sociale «che cerca di far sua e dalla quale<br />

viene ingoiato». Prodotta, scambiata, consumata dalle<br />

nuove macchine, la conoscenza ormai gli si contrappone<br />

come condizione oggettiva <strong>della</strong> produzione che appartiene<br />

ad altri, dalla quale è stato separato e <strong>della</strong> quale è ridotto<br />

ad appendice quale lavoratore precario.<br />

Insomma, sta succedendo alla produzione di conoscenze<br />

ciò che successe alla produzione artigianale. Il vecchio proprietario<br />

fondiario aveva bisogno dell’aratro ma, per arricchirsi,<br />

doveva portarlo sulla terra; allo stesso modo <strong>il</strong> capitalista<br />

industriale aveva bisogno di conoscenze, ma, per arricchirsi,<br />

doveva portarle in fabbrica e far lavorare gli<br />

operai. Oggi, <strong>il</strong> capitale, con le nuove macchine informatiche,<br />

può realizzare profitti producendo, gestendo e distribuendo<br />

conoscenze. Dunque <strong>il</strong> nuovo lavoratore mentale<br />

E’ necessario riflettere su cosa<br />

significhi produrre e lavorare oggi.<br />

Non dimentichiamo che non c’è più la<br />

macchina termica ma quella<br />

informatica, che richiede un lavoro<br />

molto diverso<br />

tende a sostituire da un lato l’operaio e dall’altro <strong>il</strong> vecchio<br />

intellettuale, ridotto a servitore di un complesso di macchine<br />

che ne incorporano la virtuosità. Ecco perché non è<br />

vero che nella società <strong>della</strong> conoscenza <strong>il</strong> cervello umano<br />

diventi <strong>il</strong> nuovo mezzo di produzione, come hanno sostenuto<br />

certi ex operaisti. Anzi, <strong>il</strong> cervello umano ne è escluso:<br />

nessuno usa più i calcoli del cervello di un ingegnere<br />

per costruire un ponte! Così impostata, la questione <strong>della</strong><br />

produzione lascia del tutto in piedi le categorie marxiane,<br />

indispensab<strong>il</strong>i per capire chi sono i nuovi lavoratori addetti<br />

alle macchine informatiche. Non c’è lavoratore oggi che<br />

non sia diventato in qualche modo un lavoratore mentale<br />

perché in qualunque ramo d’industria ha sempre a che<br />

fare con una macchina che manipola segni.<br />

GIACCHÉ<br />

Il «mio» Marx è vicino a questa interpretazione. In primo<br />

luogo, <strong>il</strong> processo appena descritto è un processo storico. Il<br />

momento dell’ideazione c’è sempre stato ed è stato valorizzato<br />

già nella teoria economica classica. La novità odierna<br />

consiste semmai nella reductio ad unum (dove quest’unità<br />

è <strong>il</strong> mercato capitalistico) di tutto ciò che è riconducib<strong>il</strong>e<br />

alla vita e quindi la distruzione sistematica dell’ambiente<br />

naturale e <strong>della</strong> vita sociale. La pericolosità <strong>della</strong> situazione<br />

può essere intesa se si comprende che <strong>il</strong> capitale, per<br />

definizione, ha un orizzonte di breve periodo e non è capace<br />

di pensare strategicamente: <strong>il</strong> suo unico obiettivo è la<br />

massimizzazione dei profitti a beneficio dell’accumulazione.<br />

Mi riesce diffic<strong>il</strong>e prescindere, nel cercare cosa ci serve<br />

delle teorie marxiane oggi, dagli sv<strong>il</strong>uppi successivi dati<br />

alle sue teorie dai teorici dell’imperialismo. Anche rispetto<br />

a questo la realtà attuale è abbastanza stupefacente.<br />

Negli stessi anni in cui la figura di Lenin è ridotta a una<br />

sorta di «tirannello orientale», non si può fare a meno di<br />

constatare che i cinque contrassegni dell’«Imperialismo,<br />

fase suprema del capitalismo» costituiscono la rappresentazione<br />

più corretta di ciò che sta succedendo. Il primo è la<br />

concentrazione tra imprese (monopolio), arrivata a un livello<br />

mai conosciuto nella storia del capitalismo: basti ricordare<br />

che i profitti <strong>della</strong> Exxon, 36 m<strong>il</strong>iardi di dollari,<br />

sono pari al PIL di 125 paesi. Il secondo è la finanziarizzazione<br />

dell’economia: la crescente importanza del capitale

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