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40% dei nuovi crediti ipotecari, e <strong>il</strong> 13% del totale. Bisogna<br />
far entrare nel gioco le famiglie povere e <strong>il</strong> lavoro<br />
precario, che non sarebbero in condizione di indebitarsi.<br />
La sussunzione reale del lavoro al debito promette<br />
l’accesso fac<strong>il</strong>e alla proprietà. Nessuno si curerà di chi<br />
resta sul terreno. Ma quando le cose vanno male per <strong>il</strong><br />
debitore, <strong>il</strong> creditore non riesce a disfarsi <strong>della</strong> casa se<br />
non a prezzi inferiori ai suoi impegni. E si avvia la crisi<br />
che abbiamo descritto.<br />
Non si capisce nulla del capitalismo contemporaneo se<br />
non si ragiona dentro questo quadro (in Italia Luciano Gallino<br />
è, di nuovo, chi sembra avere più coscienza di questa<br />
dinamica). Né si capisce nulla di quel che succede e succederà<br />
in Europa o in Italia se non legandolo a questo discorso.<br />
Le politiche sul lavoro e sulle pensioni, per esempio,<br />
nascono di qui. Il «keynesismo» reale è questo, osc<strong>il</strong>lante<br />
tra <strong>il</strong> bellico e <strong>il</strong> finanziario. Il capitalismo è questo virus, e<br />
lo si affronta solo con politiche che mettano davvero in<br />
questione questo meccanismo unico. L’appello al «conflittualismo»<br />
incompatib<strong>il</strong>ista, beh, fa sempre bene ma<br />
lascia <strong>il</strong> tempo che trova. Come la discussione governo sìgoverno<br />
no. Con Halevi non ci facciamo <strong>il</strong>lusioni su quello<br />
che porterà questo governo. La soluzione non sta però in<br />
un’opposizione pura e semplice. Una controversia che di<br />
nuovo oppone un politicismo a un altro. Sta, semmai, in<br />
un’opposizione che sia in grado di avere anche una cultura<br />
da classe dirigente, che ambisca a governare i processi.<br />
Oppure si dimostri coi fatti e con i risultati, non con le parole<br />
o le promesse, di poter ottenere che qualche punto essenziale<br />
del proprio programma venga realizzato. E la si<br />
smetta con una contrattazione continua e uno scontro<br />
ideale esasperato che non porta a niente.<br />
EMILIANO BRANCACCIO<br />
La semplice dicotomia concettuale tra stab<strong>il</strong>ità e instab<strong>il</strong>ità,<br />
tra equ<strong>il</strong>ibrio e crisi del capitalismo, non mi ha mai particolarmente<br />
convinto. Di solito <strong>il</strong> concetto di «crisi» viene<br />
dalle nostre parti declinato come un sintomo dell’instab<strong>il</strong>ità<br />
e quindi <strong>della</strong> debolezza sistemica del capitale. E invece,<br />
soprattutto ai giorni nostri, accade spesso che la crisi agisca<br />
paradossalmente da fattore di riequ<strong>il</strong>ibrio del sistema.<br />
Pensiamo ad esempio alla crisi valutaria italiana del 1992.<br />
La vendita in massa di titoli pubblici nazionali mise nell’angolo<br />
i sindacati, e li costrinse ad accettare una compressione<br />
<strong>della</strong> spesa e dei salari di tali proporzioni da rimediare<br />
al deficit nei conti esteri. La crisi, insomma, può agire sul<br />
grado di sfruttamento assoluto e relativo dei lavoratori, può<br />
ridurre questi ultimi a variab<strong>il</strong>e residuale del sistema e può<br />
consentire, per questa via, di ripristinare l’ordine nelle<br />
RIVE GAUCHE<br />
condizioni di riproduzione del capitale. Si badi bene che<br />
questa «crisi disciplinante» può riproporsi, anche in Italia.<br />
Se <strong>il</strong> deficit nei conti esteri continua a crescere, potrebbe<br />
diffondersi <strong>il</strong> timore di un’uscita del nostro paese dall’euro<br />
e di una conseguente svalutazione. Il solo diffondersi<br />
di un tale sospetto potrebbe attivare una massiccia<br />
vendita di titoli pubblici, e di conseguenza anche i sindacati<br />
più combattivi potrebbero esser messi alle strette, così da<br />
ridurre <strong>il</strong> deficit estero attraverso una compressione dei salari<br />
unitari ancor più violenta di quella del 1992. La prospettiva<br />
è funesta, ma se si volesse davvero evitarla bisognerebbe<br />
forse cimentarsi nel recupero e nell’aggiornamento<br />
di una vecchia lezione di Lenin, a mio avviso non del<br />
tutto obsoleta: imparare ad anticipare la crisi, per annunciarne<br />
i rischi e per saperla poi sfruttare politicamente.<br />
Personalmente ho cercato di approfondire la questione (11<br />
e 22 luglio, «Liberazione»), ma riflessioni di questo tipo<br />
mi sembrano ancora poco diffuse. C’è addirittura un certo<br />
imbarazzo nell’affrontarle. Eppure la loro attualità è evidente,<br />
così come è evidente che fino a quando non ci si attiverà<br />
per anticipare le crisi, queste piegheranno sempre in<br />
una direzione disciplinante e normalizzatrice.<br />
GIORGIO GATTEI<br />
La crisi di Borsa che si è aperta in agosto sarà per <strong>il</strong> capitale<br />
appena un «turbamento» oppure <strong>il</strong> suo «crollo»?<br />
Credo nessuna delle due. Certamente la crisi è gravissima<br />
e avrà ricadute sull’economia «reale», proprio come è<br />
stata la Grande crisi che nel 1929 ai commentatori appariva<br />
appena finanziaria e circoscritta (poi s’è visto cos’è suc-<br />
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