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qualcosa a qualcuno. Ma un sì che fosse uno, lo avessi mai ricevuto. Eppure molti<br />
di quei progetti sono poi andati in porto, spesso con esito del tutto positivo, ma<br />
questo l’ho dovuto alla mia capacità – venuta col tempo – di stracciare la letterina<br />
di cortese rifiuto e rispondere (con la dovuta diplomazia) “del vostro no adesso vi<br />
dico che cosa ci dovete fare”. Gli eredi Gershwin scrivevano chiaro e tondo: “non<br />
ci pensate nemmeno”. Oggi so che spesso è un inizio consueto in quella sorta di<br />
trattative, e mira a rialzare il costo dei diritti; ma nel caso del capolavoro in questione<br />
il veto veniva da ragioni più sostanziali. Porgy and Bess, nella sua forma completa<br />
teatrale, è a tutt’oggi qualcosa di assolutamente intoccabile. A noi, feriti e<br />
messi nei guai da quel rifiuto, sembrò improvvisamente che l’esperimento di quel<br />
grande precursore della pop music – un esperimento operistico – avesse preso poi<br />
dell’Opera anche gli aspetti peggiori: chiusura, conservatorismo, musealità, routine,<br />
e tutto ciò improvvisamente usato contro di noi. Ma noi chi eravamo per<br />
pensare di scardinare queste barriere?<br />
Eravamo dei disperati, ecco chi eravamo. Ce ne tornammo al vecchio juke-box<br />
di un baretto del Lungotevere, Angelo ed io, luogo abituale delle nostre meditazioni<br />
più gravi. Su quello stesso juke-box proprio Angelo, anni prima, mi aveva fatto<br />
ascoltare a forza Bob Dylan, cambiando così la mia vita nel giro di una canzone.<br />
Ora la mia vita rischiava di cambiare di nuovo, e molto in peggio, dunque eccoci di<br />
nuovo seduti a quel baretto, fissi nel vuoto.<br />
Il fatto assurdo non consisteva tanto nel rifiuto incassato, ma nella surreale<br />
situazione di trovarci con il Teatro Sistina in mano, noialtri sbarbati, e non avere<br />
nulla da rappresentarci. Chi glielo andava a raccontare a Garinei & Giovannini?<br />
Come giustificavamo la leggerezza di avere – ancora un volta, a guardar bene,<br />
dopo il veto di Dylan all’“Opera Beat” – fatto i conti senza l’oste? Alla compagnia<br />
cosa raccontavamo? E soprattutto: come fare a non perdere il teatro? Generazioni<br />
di attori e registi avevano sognato invano di metter piede su quel palcoscenico, a<br />
noi veniva praticamente regalato, e dovevamo girare i tacchi, “arrivederci, abbiamo<br />
scherzato”? Chiesi a Angelo: “Se domattina ti fornisco un progetto alternativo,<br />
ci vai tu a presentarglielo?”.<br />
“Quale progetto alternativo? Dev’essere alternativo un sacco, per cavarci da<br />
questo casino”.<br />
”Non ho la minima idea. Penserò qualcosa. Devo pensare qualcosa”.<br />
Quella notte, passatemi l’ovvietà, io non la dimenticherò mai. Ero solo. Non<br />
pensatemi in una famiglia: dall’età di sedici anni vivevo praticamente in autonomia<br />
completa, con una tata e una cagnetta, niente genitori da cui rifugiarsi, nessun<br />
papà celebre vivente a cavarmi dai guai. Ero solo. E da solo nella mia camera, con<br />
la mia fantasia unico strumento a disposizione per risolvere un problema che a<br />
raccontarlo adesso può anche sembrare eccitante, ma che a viverlo lì e allora era<br />
di un’angoscia straziante, mi presi la testa fra le mani e mi persi in un vortice di sì<br />
e di no, di pro e di contro su qualsiasi cosa mi passasse per la testa. Credo di aver<br />
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