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ORFEO 9. - Zona Editrice

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profondamente calate nella consapevolezza sociale e politica, tutti e due erano<br />

avviati verso un destino da intellettuali e uomini di lettere impegnati in prima linea,<br />

campioni di passione civile seppure su linee diverse, e tutti e due mi si erano<br />

presentati giovanissimi, poco più che bambini, chiedendomi l’opportunità di fare<br />

un’esperienza che li affascinava, lontanissima da quello che sarebbe poi stato il<br />

loro destino. Tutti e due, infine, si erano dimostrati sul lavoro animati da una<br />

specie di fuoco sacro, una volontà di apprendere, di rendere al massimo, in un<br />

certo senso di ubbidire, che in entrambe le occasioni ne faceva i più perfezionisti,<br />

i più maniacali del gruppo. Dev’essere la prova che un antico detto sull’obbedire<br />

prima, comandare poi, ha un buon fondo di verità.<br />

Mentre la vita avrebbe portato Giuliano Ferrara verso una carriera politica e<br />

giornalistica di prima grandezza, Giovanni Forti, in arte Giovanni Rosselli, fu molto<br />

sfortunato. Ma aveva un coraggio e una determinazione estremi, già dimostrati<br />

quando lo misi a salutare il sole in cima a quel traliccio, durante l’alba di Orfeo. Lì<br />

non solo le sue labbra sono sincronizzate alla perfezione con quelle di Santino<br />

Rocchetti, ma ogni suo colpo sui bonghi nel visivo replica esattamente quello di<br />

Tullio De Piscopo nel sonoro. Giovanni insistette, provò e riprovò per settimane,<br />

pretese di riuscire a fare così. La stessa testarda forza d’animo lo portò negli anni<br />

Ottanta ad affrontare la sua battaglia con l’Aids a viso aperto, primo coraggioso<br />

uomo pubblico italiano a sfidare la malattia e a trascriverne la cronaca sulle pagine<br />

dell’importante periodico per cui lavorava. Oggi il giornalismo italiano lo ricorda<br />

come una dei suoi migliori. Anche noi.<br />

Le riprese si articolarono nell’arco delle canoniche quattro settimane, massimo<br />

consentito per un film a basso costo. E il nostro lo era, oh se lo era. Le strutture<br />

gigantesche della fornace di Saxa Rubra mantennero quasi completamente il loro<br />

aspetto originale. Con Giovanni Agostinucci intervenimmo solo in piccola parte<br />

sulla scenografia naturale aggiungendo dettagli e complementi quanto bastava a<br />

darle appena un tocco del sapore di un sogno.<br />

Il corpo centrale del complesso industriale divenne per noi la chiesa sulla collina.<br />

Era un capannone enorme parallelo al Tevere, già di per sé diviso in tre lunghe<br />

navate come un tempio, quelle laterali sovrastate da grandi soppalchi per<br />

l’essiccazione dei mattoni su cui immaginammo il dormitorio dei ragazzi. Per suggerire<br />

un’antica cattedrale bastò aggiungere all’ingresso un profilo di portale romanico<br />

realizzato in vetroresina e appendere all’estremo opposto, sopra l’immagine<br />

dipinta (e incompiuta) di un Budda in meditazione, un grande rosone fatto di<br />

gelatine colorate per riflettori. È con questo rosone in costruzione che giocano i<br />

ragazzi in Terra della mente chiara, e ne prendono in viso i densissimi riflessi.<br />

Giovanni Agostinucci, contaminando gli ambienti reali con altri elementi leggeri<br />

aggiunti con molta grazia, ne ricavò una scenografia semplice e perfetta. La sua<br />

creazione più bella in questo film mi pare il carretto del Venditore, sia nella versione<br />

miniaturizzata con cui Renato Zero entra in scena, sia nell’interno ampliato dove<br />

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