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ORFEO 9. - Zona Editrice

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Fallimentonia? Il britannico matto irrompe nella stanza con una capriola, non chiedetemi<br />

come, scavalcando in volo l’ammasso di coristi che ha sulla traiettoria. Poi<br />

riscatta in piedi come una molla e prende posizione. Allungo solo un dito verso<br />

Romeo e quello non se lo fa ripetere.Si scatena il finimondo. I ragazzi urlano,<br />

fischiano, entrano in convulsioni. Simon cammina ancheggiando a tempo di musica<br />

nella miglior clonazione possibile di Mick Jagger, sapete, quando esprime ecco-mi-qua!<br />

Usa il microfono come un aspersorio, un lazo, un boomerang, si porta<br />

naso a naso con chiunque incontri, compreso Lucherini, e lo provoca con degli<br />

sberleffi sfrontati. Il complesso, bisogna ammetterlo – e Romeo in particolare – fa<br />

scintille, mette l’ambiente a ferro e fuoco. È esattamente quello che avevo chiesto.<br />

Volevo la settima potenza delle ritmiche young blood, con in più la ferocia del<br />

suono metallaro, uno Shaft con Isaac Hayes in delirium tremens. Panoramico con<br />

lo sguardo verso i nostri giudici-spettatori e trovo labbra pendenti, espressioni suonate.<br />

Stanno vedendo per la prima volta quello che vedo per la prima volta io stesso:<br />

una creazione che evidentemente ha un senso per qualcuno, in mano a qualcuno che<br />

le dà un senso. La cosa che mi stravolge è che quella creazione è la mia.<br />

I tre minuti passano come in un sogno, Marco raccoglie l’occhiata convenuta<br />

di Bill e abbatte il manico della chitarra come una scure. È il segnale. Si fermeranno?<br />

Perdìo, si fermano come un sol uomo. Resta sospeso nell’aria il conto mentale<br />

delle due battute vuote. Poi, con forte accento inglese, risuona “Sento dei canti<br />

dalla strada...”. È fatta. Non importa cosa e quanto canterà Simon, la piccola<br />

battaglia è vinta, lo capisco perché ho già abbastanza mestiere da saperlo capire.<br />

Me lo conferma la prima frase che risuona nell’eco e nella polvere dopo che<br />

l’ultimo strappo delle chitarre si è dissolto in eco. È Lucherini che parla, rivolto<br />

allo sconosciuto, verso il quale evidentemente aveva garantito per noi alla cieca:<br />

“Visto? Che ti avevo detto?”.<br />

Gli stanzoni del grande sotterraneo si fanno silenziosi, dopo una cert’ora. La<br />

sera ci riposiamo tutti, dopo quella giornata campale. Candele si accendono dovunque.<br />

I locali accolgono l’orda nel suo riposo, molti vivono addirittura lì. Insieme<br />

ai pasti offerti a generoso forfait dalla trattoria Bonafede (come aveva fatto il<br />

buon Olindo nella fase trasteverina), la possibilità di risiedere nella cantina è per<br />

molti l’unica paga sicura del lavoro in corso. Siamo “unplugged” per forza di cose:<br />

lo scantinato è un prezioso omaggio, ma i contatori non reggono che un paio di<br />

stufette, e Dio sa se ci servono. Restano le chitarre acustiche, i flauti, le fiammelle.<br />

La musica si fa sottile e pacata, la musica ci accompagna dalla meditazione all’amore<br />

al sonno, la musica non cessa mai. Io me ne sto da una parte a guardare<br />

i miei ragazzi (di cui sono ormai follemente innamorato) e ripenso all’indescrivibile<br />

sensazione del pomeriggio, quando ho scoperto, in pratica, cosa significa in realtà<br />

essere un autore. Per la prima volta da quando abbiamo cominciato ho visto le mie<br />

intenzioni superate dalla realtà. Tutto merito mio, nessun merito mio.<br />

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