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Quando siamo a dieci minuti dall’inizio convoco la compagnia in palcoscenico<br />
e tenendoci per mano urliamo il più colorito e multiaccentato scaramantico “merda!”<br />
che sia mai risuonato tra quelle quinte. Poi ognuno prende il proprio posto di<br />
combattimento. Il mio è in cima alla cassa più alta e lontana, dove me ne starò<br />
sdraiato e pressoché invisibile fino a quando Orfeo non si risveglia. Nella versione<br />
filmata che qualcuno di voi conosce il tempo che precede quel momento sarà di<br />
una decina di minuti, ma qui in teatro è ancora di venti abbondanti, e mi toccherà<br />
vivermelo senza vedere niente, sperando che tutto vada bene ma completamente<br />
impossibilitato a qualsiasi tipo di intervento. Comincio a degustare i tormenti di<br />
essere insieme regista e interprete.<br />
23 gennaio 1970, ore 21. È tutto pronto, il pubblico scalpita e reclama, cosa<br />
aspettiamo? Già, devo essere io a dare il via. Ora dipende tutto da una mia parola.<br />
Mesi e mesi di lavoro, anni di preparazione, una vita di future conseguenze: ci<br />
giochiamo tutto a dadi nei prossimi minuti. Guardo Romeo e una rullata di batteria<br />
segna l’inizio dei nostri anni Settanta. Il preludio invade il palcoscenico, Romeo<br />
canta (“Se vuoi venire con noi...”) e io incrocio le dita perché nessuno ha avuto il<br />
tempo di testare il sistema di amplificazione, tanto meno le spie di palcoscenico<br />
che, orribile a dirsi, sono fuori dal sipario ancora chiuso, ossia noi non abbiamo il<br />
minimo controllo sull’effetto in sala di quello che il gruppo sta facendo, un vero<br />
terno al lotto. Sdraiato al mio posto, supino, tengo gli occhi socchiusi. Ho in mano<br />
un microfono acceso, quindi non posso fare un gesto, non posso dire una parola.<br />
Se guardo in alto, oltre l’abbaglio dei riflettori, intravedo altissima la graticcia della<br />
soffitta, su cui Tullio passa ogni tanto come il fantasma del palcoscenico. Mi<br />
sforzo di fissare nella coscienza quegli istanti e mi chiedo che ricordo ne avrò mai<br />
in futuro. Poi la mia attenzione si concentra spasmodica sulle reazioni del pubblico,<br />
ma con quell’inferno di suoni sul palco, chi può averne la minima percezione?<br />
Torna un’immagine che mi perseguiterà tutta la vita: sono come una polena sulla<br />
prua di un nave che davanti a sé ha un mare gonfio, scatenato e ammaliante, mai<br />
esplorato da nessuno. Procediamo creando il cammino che percorriamo. Siamo la<br />
prima cosa mai vista e mai passata. Formiamo la nostra vita mentre la viviamo, e<br />
con lei lo spazio e il tempo in cui prende forma. Le Colonne d’Ercole perpetue. E<br />
la terra sognata è una spiaggia di riposo dove il rumore della risacca è quello di un<br />
applauso. Dove l’ho già provata, questa cosa? Al Piper, quella sera di maggio del<br />
1967.<br />
(All’ultimo momento, la sera della prima di Then an Alley, l’interprete del<br />
ruolo antagonista, il cattivo della storia, mi si ammala. A poterlo sostituire ci<br />
sono soltanto io. Ed ecco il primo di un’infinita serie di debutti dove non potrò<br />
avere il bene elementare di vedere le cose dalla platea. Il preludio dura solo tre<br />
minuti, e io mi sto cambiando a velocità frenetica. Devo infilarmi una parrucca,<br />
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