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Scalabrini - Induismo Buddismo.pdf - Webdiocesi

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L’INDUISMO<br />

a) I grandi periodi dell’induismo (e sviluppo dei testi)<br />

L‟induismo è come un grande fiume in cui confluiscono elementi molto diversi, quasi contradditori.<br />

Vanno allora individuati i periodi fondamentali.<br />

1. Il periodo delle origini<br />

1.1.1. Si tratta del periodo vedico (India del Nord) o dravidico (India del Sud), che abbraccia il<br />

periodo dal 2000 a.C. al 600 a.c. Presso le popolazioni ariane o arianizzate si elabora una letteratura in<br />

sanscrito indicata globalmente come i Veda (Sapere). È il periodo della cosiddetta „rivelazione<br />

vedica‟. La religione ivi espressa potrebbe essere chiamata più propriamente brahmanesimo, ossia la<br />

religione dei brahmini per usare il termine indiano del Sanatana Dharma (= legge eterna). Questa<br />

religione, che ha subìto importanti evoluzioni nel corso dei secoli, è nata da quella degli indo-europei<br />

primitivi, di cui noi siamo lontani parenti; si ritrova, infatti, nel nome brahmino, quello dei sacerdoti<br />

della Roma antica, i Flamini (br è foneticamente equivalente a fl).<br />

Ovviamente il periodo vedico è preceduto da uno pre-vedico, che ha lasciato tracce nei Veda. Il<br />

periodo vedico è davvero al cuore del brahamanesimo, perché è considerato quello della rivelazione,<br />

della śruti (ciò che è udito/ascoltato). In quest‟epoca le forme di religiosità sono diverse, per cui può<br />

parlare di politeismo, panteismo, monoteismo, enoteismo, panenteismo, monismo. Questa fase della<br />

religione indù è contrassegnata dalla grande importanza del sacrificio rituale, e dal rapporto che<br />

questo ha con l‟ordine cosmico. È il<br />

centro e l‟ombelico del mondo, per cui da esso dipende il rinnovamento dell‟intero universo, persino<br />

degli dèi e degli uomini. L‟enfasi è perciò posta sull‟azione sacra, sacrificale, liturgica. In genere la<br />

vittima di questo sacrificio è il cavallo.<br />

1.1.2. Un filone mitico dei Veda racconta la creazione proprio a partire dal sacrificio dell‟Essere<br />

pri<br />

nascono le caste o, meglio, i „colori‟ (in sanscrito ), dove la differenziazione cromatica è<br />

simbolo delle diverse stratificazioni sociali. Dal sacrificio pri<br />

- dalla bocca i bramini, i quali tramandano i valori religiosi, morali e culturali;<br />

- dalle braccia i guerrieri, che hanno la forza per difendere la comunità;<br />

- dalle cosce i produttori di beni di consumo;<br />

- dai piedi i servi, cioè la parte più disprezzabile.<br />

Questa è la fondazione teologica della divisione in caste, che riflette in realtà anche le stratificazioni<br />

avvenute con l‟incontro dei dominatori e i popoli pre-indoeuropei.<br />

1.1.3. Verso la fine del periodo vedico vi è una triplice reazione: una interna all‟induismo, con la<br />

formazione delle Upanis ; altre due sono invece nuove realtà religiose che si allontanano<br />

dall‟induismo e precisamente: il Giainismo del Mahavira e il buddismo di Siddharta Gautama.<br />

Si reagisce, in sostanza, contro una ritualità troppo magica e legata alla temporalità; il fulcro di tale<br />

reazione è da collocarsi nella seconda casta, e punta sull‟interiorità dell‟uomo e sulla sua possibilità di<br />

poter essere artefice della propria liberazione personale.<br />

È in sostanza un risveglio antropocentrico che caratterizza l‟epoca assiale dell‟umanità, per dirla con<br />

Karl Jaspers.<br />

1.1..4. Venendo alle Upanis (sedere accanto, in posizione un po‟ inferiore, cioè l‟atteggiamento<br />

del discepolo con il guru), esse fanno emergere una ricca esperienza mistica e una tensione<br />

soteriologia. L‟attenzione non è più tanto sul sacrificio, che pure continua, ma sul samsara, cioè il<br />

ciclo delle rinascite, e di conseguenza sulle vie per uscire da questa ruota mossa dal karma.<br />

In questo periodo di anelito soteriologico si diffondono correnti ascetiche, dove l‟ideale è andare a<br />

vivere nella foresta, cioè lontano, anzi l‟opposto della città e del villaggio. Alla determinatezza si<br />

1


contrappone perciò l‟indeterminatezza, che è una caratteristica del Brahman; questi asceti ricercano il<br />

Brahman, l‟intimità e l‟unità con esso. Si tratta di essere illuminati fino a scoprire l‟unità profonda tra<br />

l‟Atman e il Brahman. Per Atman si intende lo spirito divino che è in ciascuno di noi, una scintilla del<br />

divino; l‟Atman è uno per tutti e non è l‟io empirico che è uno per ciascuno.<br />

Il Brahman invece corrisponde all‟Atman, ma dal punto di vista del divino. Esso costituisce la punta di<br />

diamante della religiosità indù, ed esprime il distacco assoluto per raggiungere la liberazione (moksa).<br />

In questo periodo c‟è una corrente, e cioè la Jnana-Yoga (o marga), la quale dice che il divino (e non<br />

un dio personale con nome - nama e volto – rupa) non può essere individualizzato, altrimenti<br />

ripiomba nell‟essere fenomenico. Questa corrente insiste sull‟unità mistica dell‟anima con il divino, e<br />

perciò l‟uomo si deve spogliare del dio personale. L‟ideale è questa unità ideale tra divino e spirito<br />

immortale. È immergersi, perdendo la propria identità, nell‟infinito, nella gioia beatificante,<br />

annientando l‟io esperienziale, fenomenico.<br />

Sta qui il vertice della spiritualità delle Upanis , con una “radicalità totale”. In seguito la teologia<br />

brahminica cercherà una mediazione tra la vita quotidiana della moltitudine indù e quella radicalità<br />

possibile solo a pochi.<br />

2. Secondo periodo (epico) (600 a. C. – 200 d. C.)<br />

È il periodo detto „epico‟, in cui i costumi sociali, le pratiche religiose e la legislazione assumono una<br />

struttura che diventa la base della società indù. Vedono la luce i due grandi poemi epici, il<br />

Mahabharata e il Ramayana che costituiscono un intreccio di storia, di mitologia, di filosofia. Risale<br />

a quest‟epoca anche la Bhagavad-Gita, che è stata definita il testo evangelico dell‟induismo ed è il<br />

punto di riferimento per la bhakti (devozione). Emergono, in questo periodo, le dottrine destinate a<br />

diventare, nel periodo successivo, il fondamento dei grandi sistemi filosofici, cioè i Darśana e i grandi<br />

sistemi eterodossi del buddismo e del Giainismo.<br />

In questo periodo il pensiero indù raggiunge il suo massimo livello di creatività e di apertura alle varie<br />

interpretazioni del reale. È stato scritto che questa è l‟epoca in cui in modo massimo si sono<br />

intrecciate magia e scienza, scetticismo e fede, licenziosità ed ascesi.<br />

Questo periodo è caratterizzato anche dai Sutra, cioè le grandi composizioni brahminiche, scritte in<br />

stile aforistico, tra il 200 a. C. e il 300 d. C. Inoltre vengono redatti alcuni tra i Purana più importanti,<br />

che contengono miti, leggende, dottrine filosofiche, redatte però in una forma popolare, adatta alla<br />

divulgazione; ovviamente vi sono poi le spiegazioni dei riti, anch‟esse redatte in forma divulgativa.<br />

Anche negli ambienti popolari vi è la ricerca di un dio personale; tale ricerca si fissa sul dio vedico<br />

Rudra. Rudra : è, nel periodo vedico, luce e fulmine come personificazione del Brahman e viene<br />

rappresentato con un aspetto orrendo, pelle rossa, capelli attorcigliati e conchiglia. Esso viene, poi,<br />

assimilato a Shiva (dio tribale non ariano) e accostato al dio vedico Vishnu. Vincono, quindi, il culto<br />

di Shiva e il culto di Vishnu che ha un‟importanza capitale. I culti di Shiva e di Vishnu appaiono<br />

unitamente a quelli di Krishna e di Rama.<br />

La crescita di questa religione popolare aveva bisogno di una ben profonda messa a punto da parte<br />

degli ambienti brahmanici. Essa prese la forma di una razionalizzazione e di una sistematizzazione<br />

della religione in sistemi filosofici, o dharsana, di cui in quel periodo si vedono i primi lineamenti.<br />

3. Terzo periodo (300 – 700 d. C.)<br />

È il periodo in cui, sulla spinta del periodo precedente, fioriscono i grandi sistemi filosofici, i Darśana<br />

o Siddanta. Si arricchisce così l‟<br />

filosofici, ma bisognerebbe ricordare che non si tratta mai di speculazione filosofica pura, bensì di un<br />

intreccio di teologia, di spiritualità e di cammino esistenziale di salvezza. Su questo tema si veda<br />

quanto diremo più avanti a proposito delle vie della salvezza o liberazione.<br />

Si mettono a punto e si sistematizzano vie diverse, offerte all‟uomo che vuole giungere alla piena e<br />

totale liberazione, al moksa. Sul piano estetico e liturgico vediamo elaborate immagini divine di<br />

grande bellezza classica, costruiti i templi di enorme importanza architettonica e composti inni di<br />

notevole valore lirico. Nello shivaismo e nel vishnuismo sorgono grandi rappresentanti della<br />

devozione della mistica, specialmente nel sud dell‟India.<br />

2


Altri indù mettono, poi, in primo piano la potenza attiva degli dèi, la loro sakti personificata nella<br />

forma della loro sposa, e che ha sul piano umano personale il corrispondente nella sakti o energia<br />

divina, che si nasconde nell‟uomo, ma che si può risvegliare o sviluppare come sadhana, o “virtù”<br />

fondamentale. I testi che contengono queste vedute penetranti della realtà sono i tantra o testi esoterici<br />

e il movimento corrispondente è chiamato tantrismo o anche saktismo. Questa forma particolare<br />

dell‟induismo è penetrata in numerosi gruppi religiosi ortodossi e non ortodossi. Tra questi ultimi<br />

bisogna citare anche il buddismo nella sua forma evoluta del Mahayana, o “Grande Veicolo”, quando<br />

penetrò nel Nepal e nel Tibet.<br />

4. Quarto periodo (700 – 1750 d. C.)<br />

È il periodo delle grandi costruzioni filosofiche e delle scuole di vita sviluppate da maestri come<br />

Sankara, Ramanuja, Madhva, Nimbarka. Continua a svilupparsi il misticismo della bhakti, soprattutto<br />

nell‟India del sud. Intanto crescono e assumono connotazioni distintive le correnti religiose dello<br />

shivaismo, visnuismo, saktismo, tantrismo.<br />

Al 1400 al 1750 sorgono molti e vasti commentari a carattere popolare. Pertanto la religiosità popolare<br />

diventa il substrato che caratterizza poi il mondo indù fino ad oggi.<br />

Questa è l‟epoca dell‟incontro-scontro con l‟Islam (1200-1750). L‟invasione musulmana non ha<br />

impedito l‟evoluzione del pensiero indù sul piano religioso, ma l‟ha certamente fermata e piegata in<br />

alcune regioni. Il culto di Rama, in questo periodo, prende ampiezza nel nord dell‟India, grazie a<br />

Turasidasa. Alcuni indù cercano, poi, una risposta al conflitto religioso insanabile tra induismo e<br />

Islam, e la esprimono nella poesia mistica, come kabir o nella religione monoteista di tipo indù, di tipo<br />

sincretico, che è quella dei sikh, fondata dal guru Nanak (sikhismo).Tra gli imperatori mogol, Akbar si<br />

distingue per la sua tolleranza e la sua apertura.<br />

5. L’epoca moderna (1750-2000)<br />

Giungiamo così all‟era moderna e contemporanea, l‟era dei grandi movimenti religiosi di riforma,<br />

sollecitati anche dall‟incontro traumatico con l‟Occidente.<br />

È l‟incontro con la cultura occidentale, che penetra poco a poco negli strati intellettuali indù.<br />

Appaiono ora movimenti di riforma, in cui il primo promotore è Ram Moham Roy, fondatore del<br />

Brahmosamai. Altri indù reagiscono diversamente a questo impatto con l‟occidente e con il<br />

Cristianesimo, e rafforzano la propria ortodossia, oppure propongono risposte di tipo sincretistico,<br />

come Ramakrishna (1834-1886), oppure Vivecananda (1862-1902) e Aurobindo Ghose (1872-1950).<br />

Una rinascita della cultura indiana, partendo dalle basi tradizionali, si ha, poi, con il grande poeta<br />

Rabindranath Tagore. Sul piano sociale e politico, fino al secolo XIX, si fanno strada profonde<br />

riforme, che sboccano nell‟abolizione totale di certi usi come la sati, cioè il sacrificio volontario della<br />

vedova sul rogo funebre del marito, il matrimonio dei bambini, ecc. La lotta non violenta fu, poi,<br />

inaugurata da Gandhi (1869-1948). È certamente la più famosa personalità del nostro tempo e il padre<br />

della patria indiana. È il Mahatma. È divenuto per il mondo intero un maestro di saggezza, una sorta<br />

di profeta o apostolo della non-violenza. L‟uso dei metodi non violenti durante le campagne per la<br />

conquista dei diritti civili e politici, l‟alta moralità della persona, che stava alla base di ogni azione<br />

rivendicativa, la solidarietà effettiva con tutti gli uomini, specie con gli „intoccabili‟, la sua tolleranza<br />

religiosa, la sua ricerca della verità, hanno fatto di Gandhi un punto di riferimento per coloro che<br />

credono nella possibilità di migliorare le condizioni sociali e spirituali del mondo moderno. Egli era<br />

legato al più rigido moralismo della tradizione indiana, influenzata non solo dal vishnuismo, ma anche<br />

dal credo del Giainismo.<br />

La figura di Gandhi è certamente una delle figure più alte dell‟induismo moderno. Tale figura segnala,<br />

però, anche lo scossone forte che l‟induismo ricevette dal contatto col Cristianesimo.<br />

È su questo incontro epocale con l‟Occidente e il Cristianesimo che vogliamo soffermarci un<br />

momento. Comunità cristiane esistevano anche in alcune parti dell‟India fin dai primi secoli, ma il<br />

loro influsso sull‟induismo fu piuttosto trascurabile. Infatti erano gruppi ristretti e più o meno chiusi.<br />

L‟induismo li tollerava come delle caste a parte.<br />

3


Con l‟avvento del dominio britannico la situazione cambiò profondamente. Infatti la nuova<br />

legislazione mise in risalto anche i vari abusi, ingiustizie e immoralità, che da tempo si erano insinuate<br />

nella mentalità induista. La cultura occidentale, pervasa, più o meno ipocritamente, da princìpi<br />

cristiani, impartiva un‟educazione, attraverso i missionari protestanti, che comprendeva la lettura della<br />

Bibbia. Tutto questo, messo a confronto con le condizioni dell‟induismo, creò negli intellettuali<br />

indiani un certo imbarazzo. Molti di essi si sentirono attratti dal Cristianesimo.<br />

Di conseguenza nacque un movimento culturale che va sotto il nome di neoinduismo. In questo<br />

neoinduismo possiamo riconoscere tre fasi.<br />

La prima fase è l‟impulso che si diresse verso una profonda riforma dell‟induismo mediante<br />

l‟adozione di princìpi morali cristiani. La seconda fase è la reazione all‟incontro con il Cristianesimo<br />

concretizzata con il richiamo al vedismo puro e insieme con l‟abbandono delle forme posteriori<br />

dell‟induismo stesso, e l‟opposizione dichiarata ad ogni influsso di Cristianesimo. La terza fase, che<br />

continua tuttora, è una totale difesa dell‟induismo, una sua reinterpretazione, con l‟intento di<br />

dimostrare che, se rettamente inteso, esso non avrebbe nulla da correggere o da modificare e niente da<br />

mutuare dall‟esterno.<br />

b) Alcuni concetti fondamentali dell’induismo<br />

1. Brahman e Atman<br />

Come nella maggior parte delle religioni, l‟universo nell‟induismo è immaginato in modo molto<br />

variabile, a seconda del livello di istruzione degli individui. L‟essenziale è che l‟induismo non sente<br />

l‟universo come creato, nel senso dell‟Ebraismo, del Cristianesimo e dell‟Islam. Esiste, piuttosto, un<br />

essere supremo, una sorta di Dio assoluto e impersonale, al di là di tutte le apparenze sensibili. Lo si<br />

chiama Brahman. L‟universo procede da lui, un po‟ come l‟aria esalata dalla respirazione; può anche<br />

sparire come se fosse di nuovo aspirato. Questo soffio è l‟essenza della vita ed è sovente identificato<br />

con l‟ “io” di ciascun essere, l‟Atman il cui destino è di tornare all‟assoluto del Brahman. Così il<br />

divino esiste in tutte le creature e la sua anima, l‟Atman, è indistruttibile. Ciò nonostante Brahman,<br />

l‟inaccessibile, si personifica, in qualche modo. Il Brahman, radice e Fondamento dell‟Essere, Spirito<br />

e Guida interiore, Centro e Fine del Ritorno, si personifica in Brahma, spirito universale e principio di<br />

immortalità, sempre inscindibile da Kama, lo spirito dell‟amore e della fedeltà. Brahma, che ha i<br />

caratteri del “deus otiosus”, assume in sé la funzione di alcuni dèi vedici (Brhaspati, Prajapati, il<br />

“Germe d‟oro”). Ma il Brahman non si personifica solo in Brahma, ma in una Trimurti cioè una terna<br />

di dèi tra loro complementari, in cui oltre a Brahma ve ne sono altri due più alla portata degli uomini,<br />

più attivi. Sono Shiva e Vishnu. Il primo, Shiva, è un dio dinamico e che è come il dinamismo della<br />

vita, che crea e distrugge successivamente. Vishnu è, al contrario, un dio statico, incaricato di<br />

mantenere l‟ordine del mondo. Per semplificare, trascurando numerosi punti di vista, che sono<br />

notevolmente divergenti tra loro, si può parlare di una trinità indù, comportante Brahma che è il<br />

creatore, Vishnu il protettore e Shiva il distruttore. Questo schema non deve farci dimenticare che<br />

Brahma ha un ruolo più astratto e che è all‟origine di tutto, ma resta sullo sfondo, come occultato da<br />

Vishnu e da Shiva. Per questo il Brahma non è che raramente onorato. I suoi templi, i più celebri, sono<br />

quelli di Khajuraho e Pushkar. Invece, vi sono numerosi complessi templari induisti, che mettono<br />

Vishnu e Shiva in primo piano e costituiscono, esattamente, le sette vishnuite e shivaite. Per esse il<br />

Brahma non è che un dio secondario. Niente impedisce, d‟altronde, di limitare il numero degli dèi ai<br />

tre principali.<br />

Una quantità di altri esseri, più o meno importanti, vivono in cielo e sono anch‟essi l‟emanazione<br />

del Brahman. Come tali essi sono egualmente esseri transitori, ma la loro durata di vita è<br />

incomparabilmente più lunga della nostra.<br />

Di fatto storicamente dobbiamo registrare il passaggio dal politeismo vedico al politeismo classico,<br />

che è il panteismo indù. Uno dei risultati dell‟offuscarsi delle distinzioni originarie tra gli dèi è che<br />

nessuno di essi riuscì ad assurgere alla suprema posizione di creatore e sostenitore dell‟universo.<br />

4


Nessun dio venne identificato con l‟Essere unico, che si pensava emanasse e sostenesse la<br />

molteplicità.<br />

In ogni caso resta l‟antico dualismo, tra materia caotica e informe e un agente intelligente che le dà<br />

forma sensibile. Il passaggio dal politeismo vedico al monismo panteistico delle Upanisad appare già<br />

nel decimo libro dei Rigveda e praticamente nell‟inno 10.90; 10.121; 10.129. Ma certamente è l‟inno<br />

del Rigveda 10.129 il più interessante, il più pieno di contemplazione del mistero dell‟essere.<br />

“Allora non esistevano né l’essere né il non-essere, né l’atmosfera né il firmamento e neppure<br />

quanto gli è al di sopra. Che cosa racchiudeva? Dove? Sotto la protezione di chi? Che cosa era<br />

l’acqua, profonda, insondabile? Allora non c’erano né la morte né l’immortalità, nessun segno della<br />

notte o del giorno. L’uno respirava senza fiato, per forza propria. Null’altro esisteva allora se non<br />

questi. In principio c’era la tenebra avvolta nella tenebra: tutto ciò era soltanto acqua indistinta.<br />

Qualunque cosa fosse, l’unità, incominciando ad esistere, celata nel vuoto, fu generata dal potere del<br />

calore.Al principio il desiderio che fu il primo germe del pensiero la ricoperse interamente.Saggi<br />

profeti, cercando nei loro cuori trovarono nel non-essere il legame dell’essere. La loro corda era tesa<br />

da parte a parte. V’era qualcosa al di sopra, v’era qualcosa al di sotto? C’erano portatori di seme e<br />

potenze? Al di sotto c’era energia e al di sopra istinto. Chi sa veramente? Chi può qui dichiarare: Da<br />

dove nacque, da dove proviene questa emanazione? Dall’emanazione di tutto questo gli dèi ebbero<br />

origine soltanto più tardi. Chissà da dove è sorto?<br />

Soltanto colui che veglia su di essa nel più alto dei cieli sa donde sorse questa emanazione<br />

(=visrsthi), se la creò o non la creò. Egli solo lo sa o forse non lo sa neppure».<br />

Emergono due concetti destinati a venire, in seguito, molto sviluppati: innanzitutto, la generazione<br />

della creazione per mezzo del calore, e poi la supremazia del desiderio nel processo creativo. Il<br />

termine calore (tapas) è quello stesso adoperato, nel linguaggio successivo, per indicare l‟austerità, le<br />

pratiche ascetiche; in tutta la storia dell‟induismo le pratiche ascetiche, sovente portate a limiti<br />

grotteschi, sono state considerate con la massima riverenza e timore, perché si pensa che determinino<br />

poteri soprannaturali, applicabili sia ad usi buoni, sia cattivi. Esse possono creare e possono<br />

distruggere. L‟altro elemento è quello del desiderio (kama) come la spinta fondamentale che mantiene<br />

in vita il mondo fenomenico; è la potenza che si cela dietro il samsara. Per l‟induismo classico il<br />

samsara, questo mondo, era - se non proprio il male in se stesso- così poco buono da fare della<br />

liberazione o fuga dal mondo (moksa) l‟unica vera salvezza di tutte le cose esistenti. Il desiderio, poi,<br />

anche se meno che nel buddismo, viene generalmente disapprovato perché creativo e, quindi, perpetua<br />

la catena dell‟esistenza. Tuttavia né negli inni dei Veda sulla creazione e neppure nelle noi<br />

troviamo questo rifuggire dalle forze della vita: in questo stadio l‟induismo non è una religione che<br />

nega il mondo. Sta ancora in bilico tra l‟affermazione del mondo e la sua negazione, incerto da che<br />

parte volgersi.<br />

Infine, una parola sulla cosiddetta grande conquista delle e cioè la sintesi Brahman-<br />

Atman, ossia l‟identificazione dell‟anima individuale col fondamento dell‟universo.<br />

2. Moksa (Mukti)<br />

Ciò che soprattutto diversifica l‟<strong>Induismo</strong>, come pure il <strong>Buddismo</strong> suo derivato, dalle religioni<br />

semitiche è la cieca accettazione della dottrina della rinascita, della reincarnazione- trasmigrazione<br />

delle anime. Nelle Samhita e nei Brahmana non ve n „é traccia. È soltanto nelle Upanis<br />

incontriamo per la prima volta questa dottrina, che doveva diventare poi fondamentale per tutto il<br />

pensiero indù. Nel Rigveda l‟anima del defunto è portata in volo dal dio del fuoco Agni nell‟empireo,<br />

dove si diverte con gli dèi in perfetta beatitudine, priva di affanni. Le gioie dell‟anima sono concepite,<br />

come nella tradizione persiana, in termini materiali. C‟è anche una specie di inferno in cui saranno<br />

gettati, al di sotto delle tre terre, coloro che agiscono male.<br />

È già nella prima delle Upanisad la Brhadaraniaka Upanisad (6.2.15-16) che appare per la prima<br />

volta l‟idea della dottrina della rinascita. Si distinguono tre classi di anime: l‟anima che fa affidamento<br />

sulla fede, e cioè presumibilmente nell‟eternità dell‟Atman ; l‟anima che adempie i doveri vedici del<br />

sacrificio e dell‟elemosina e delle pratiche ascetiche ; e l‟anima che ignora drasticamente queste due<br />

5


vie. La prima si libera della ruota delle rinascite, la seconda ritorna su questo mondo, ma in forma<br />

umana, la terza, invece, è condannata alla vita subumana di insetto o di rettile.<br />

La rinascita, allora, non è soltanto un fenomeno fisico, perché gli induisti vi aggiungono una<br />

componente morale: il peso dei nostri atti (il karma), che condiziona strettamente la qualità di ciò che<br />

sarà la nostra prossima vita su questa terra. Secondo il modo con cui noi avremo svolto il nostro<br />

compito nella società, rivivremo una condizione sociale brillante o miserevole. I meno meritevoli<br />

possono rivivere, addirittura, la vita di un animale più o meno impuro! Il karma viene, pertanto, ad<br />

indicare gli atti appropriati alle quattro grandi classi, cioè la classe dei brahmana, i sacerdoti, dei<br />

ksatrija, o guerrieri, dei vaisia, che sono i commercianti, e i sutra, che sono, in qualche modo, quelli<br />

che devono seguire le altre tre caste. Vi sono, infine, i fuori casta, i paria, gli intoccabili. Così un‟altra<br />

versione del passo della Upanisad sopra citato ci dice che coloro la cui condotta è piacevole<br />

entreranno nel grembo di una donna brahmina, ksatrija, vaisia, ma coloro la cui condotta è puzzolente<br />

entreranno nel grembo di un cane, di un porco, di una cosa sporca e spregevole, di un fuori casta, di un<br />

intoccabile! Questa dottrina, che doveva diventare presto l‟elemento più caratteristico dell‟induismo,<br />

al tempo delle più antiche Upanisad era ancora oggetto di segreto gelosamente conservato.<br />

Ora, poiché ogni azione produce un effetto o frutto o karma nel mondo temporale, ne segue che, a<br />

meno di rompere questa catena di causa e di effetto, non vi sarà fine alla ruota delle rinascite. Le<br />

Upanisad insegnano, però, che l‟anima umana nella sua essenza più profonda è, in qualche modo,<br />

identica al Brahman, quel qualcosa di immutabile che malgrado tutto è la fonte di ogni cambiamento.<br />

L‟anima, perciò, deve essere distinta dal solito “io” empirico, che trasmigra di corpo in corpo<br />

portando con sé il carico di karma.<br />

Dal tempo dell‟Upanisad in poi, la consapevolezza religiosa indù ha affrontato il problema cruciale<br />

del rendersi conto di quest‟anima eterna, del liberarla dal rapporto immaginario reale con il complesso<br />

psicosomatico che pensa, che vuole e agisce. Si tratta, in altre parole, di riconoscere come l‟anima<br />

continui un faticoso cammino, accumulando sempre più karma, buono e cattivo, e scaricandolo nel<br />

rispettivo cielo e inferno, per rinascere ancora e addossarsi nuovamente quel carico.<br />

Allorché l‟universo è assorbito ancora una volta nella sua fonte e ha inizio la notte di Brahma,<br />

l‟anima non è ancora libera, anche se sono passati venti milioni di anni, ma è soltanto inconsapevole,<br />

dimentica del suo carico karmico. Infatti, allorché i venti milioni d‟anni dello stato di dissoluzione<br />

sono passati, essa deve nuovamente sobbarcarsi questo carico di incubo. E si noti che gli stessi dèi non<br />

vanno esenti dalla legge del karma; anch‟essi sono soggetti alla legge di causa e di effetto; e verrà un<br />

giorno nel quale il karma buono, a cui devono la loro condizione privilegiata, si esaurirà. Allora<br />

diventeranno uomini, perché soltanto attraverso l‟incarnazione umana si può raggiungere veramente<br />

quel moksa o liberazione finale.<br />

Questo ciclo di continue reincarnazioni è esattamente il Samsara. È descritto per la prima volta in<br />

modo particolareggiato nella Maitri Upanisad (1,3-4), che è probabilmente la più tardiva di tutte le<br />

Upanisad classiche e la descrizione non è certo una descrizione piacevole. Si vede il mondo come in<br />

uno stato perpetuo di suppurazione e di decadimento. Gli oceani si prosciugano, le montagne crollano;<br />

ogni cosa è vanità e soltanto l‟uomo è talmente folle da poter desiderare questa vanità! L‟uomo è<br />

assetato di vita, tanto da non capire che è proprio questo amore per la vita che lo rende schiavo dei due<br />

mali, del karma e del samsara.<br />

Il samsara è descritto come un pozzo senz‟acqua, mentre l‟uomo è una rana che disperatamente vi<br />

si dibatte. Il mondo appare all‟induismo come peggiore di una valle di lacrime, una giungla spietata,<br />

piena di bestie feroci e di serpenti velenosi. L‟uomo allora, infelice, cerca vanamente una via di<br />

scampo, ma si smarrisce nella giungla e cade in una buca con l‟apertura ricoperta da vermi che<br />

strisciano. Questi gli si attaccano agli arti, mentre egli resta sospeso a testa in giù nella fossa. Ma<br />

questo è soltanto l‟inizio dei tormenti, poiché i suoi occhi, allorché riescono a distinguere il fondo<br />

della buca, scorgono un gigantesco serpente che è in paziente attesa della sua caduta per poterlo<br />

divorare. E all‟imboccatura della fossa sta un altro enorme serpente pronto a calpestarlo nel caso egli<br />

volesse raggiungere la sommità della fossa. Per fortuna sul margine della voragine cresce un albero in<br />

cui c‟è un favo di miele; e questo favo, benché attiri molti insetti fastidiosi, lascia cadere del dolce<br />

miele, di cui egli, se è fortunato, può gustare alcune gocce. Il miele gli dà un grande conforto e lo<br />

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distrae dagli orrori della fossa, glieli fa dimenticare ; ma il sollievo è di breve durata perché le radici<br />

dell‟albero sono continuamente rosicchiate dai topi, topini bianchi e topini neri, che ricordano il tempo<br />

che tutto consuma. E si accorge che l‟albero deve inevitabilmente crollare, trascinandolo con sé nel<br />

fondo della buca, dove è appostato il serpente bramoso di sbranarlo.<br />

È questa la parabola del samsara, che gli indù hanno in comune con gli Jaina. Questa parabola è<br />

una posizione estrema, ma rende bene il sentimento d‟orrore che il mondo ispira ai cuori degli indù<br />

classici. E se il mondo è così, ecco perché non si può che desiderare una liberazione dal samsara.<br />

Ecco che allora si cercano le varie vie per la liberazione. In questo l‟induismo mostra tutta una serie di<br />

soluzioni con alternative, qualche volta tra loro possibili.. Tutte sono ispirate da un comune fine: la<br />

liberazione dal samsara, l‟eliminazione del karma.<br />

3. Le tre grandi vie della liberazione<br />

Il termine sanscrito mārga, che significa via, cammino, deriva dalla radice mrg o marg, che vuol<br />

dire cercare, tendere, anelare, domandare. Nel contesto salvifico si tratta di conseguire un fine che è la<br />

liberazione totale, percorrendo un certo sentiero. Spesso, invece di mārga, viene adottato il termine<br />

yoga, la cui radice yuj significa legare insieme, unire, riunire, congiungere. Il verbo latino “iungere”,<br />

il francese “joug”, l‟inglese “yoke” e l‟italiano “giogo” si rifanno alla stessa matrice linguistica.<br />

Ci sono tre vie di salvezza, cioè tre sentieri, tre cammini che si possono percorrere per raggiungere<br />

la meta. Esse sono il karmamārga o karmayoga, il jnānamārga o jnānayoga e il bhaktimārga o<br />

bhaktiyoga.<br />

Il karma-mārga è la via dell‟azione, delle opere. Questa via esige che l‟azione etica sia totalmente<br />

disinteressata. Il sacrificio, inteso nel suo significato più profondo e più vasto, ne è la categoria<br />

fondamentale.<br />

Il jnāna-mārga è la via della conoscenza spirituale, della contemplazione, della gnosi. In questa via<br />

la liberazione consiste in una mistica della conoscenza, che permette all‟uomo di prendere coscienza<br />

dell‟identità dell‟Ātman e il Brahman immortale.<br />

Il bhakti-mārga è la via della devozione amorosa. È il sentiero dell‟abbandono e del dono di sé al<br />

Dio personale, il Bhagvat, il quale ama l‟anima del suo devoto e richiede da lui obbedienza<br />

incondizionata.<br />

4. Alcuni aspetti della spiritualità induista odierna<br />

È certo che l‟induismo contemporaneo rilegge tutti i testi del passato, dai Veda, all‟Epica, ai<br />

Purana, ai Tantra, fino alle composizioni della bakti medioevale, in chiave profetica e mistica; tutto è<br />

visto come il convergere verso un fine, verso un unico scopo e precisamente l‟immortalità, la<br />

beatitudine al di là del tempo e dello spazio. Tutto viene convogliato a questo fine: le arti figurative, la<br />

danza, la drammaturgia, la musica, la letteratura. Infatti, per l‟induismo vi sono quattro fini dell‟uomo:<br />

il kama, che è l‟amore o desiderio, l‟artha, che è l‟utile, il dharma, che è il dovere etico o religioso e il<br />

moksa, cioè la salvezza. Quest‟ultimo, però, è certamente il più importante perché è la verità dei primi<br />

tre, è l‟autenticazione del loro significato reale. L‟uomo, infatti, nella vita può esercitare tutti gli<br />

strumenti che ha a disposizione per poter vivere secondo le categorie del piacevole, dell‟utile, ma solo<br />

nei limiti consentiti dal dharma, cioè dalla legge morale. Questo vuol dire non prevaricare, essere<br />

moderati, non abusare di nulla e di nessuno.<br />

Lo scopo ultimo, però, di tutto questo rimane la salvezza. Coloro che hanno rinunciato a tutto ciò<br />

che è nocivo a se stessi e agli altri sono i santi, cioè i sadhu. Infatti, su tutte le vie dell‟India, in<br />

particolare nei luoghi religiosi e di pellegrinaggio, si incontrano dei curiosi personaggi, quasi nudi,<br />

che sembrano quasi folli, chiamati dagli arabi “fachiri”, cioè poveri. Sono persone distaccate dal<br />

mondo, che portano il nome di sadhu, cioè di puri, idea che esprime contemporaneamente virtù e<br />

santità. L‟India conta, secondo delle stime forse un po‟ azzardate, almeno cinque milioni di sadhu.<br />

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Essi hanno rinunciato volontariamente all‟illusione dell‟esistenza per assicurarsi la liberazione<br />

personale, per raggiungere, esattamente, la moksa.<br />

Benché le tecniche praticate varino da un sadhu all‟altro, si tratta sempre di un‟ascesi del corpo e<br />

dello spirito destinata ad unire l‟anima con l‟Assoluto, con il Brahman. Queste tecniche portano il<br />

nome generale di yoga. La ricerca della perfezione spirituale nell‟ascesi è normalmente l‟ultimo stadio<br />

della vita, innanzitutto, del brahmino. Egli, dopo avere avuto una famiglia, dopo avere assicurato che<br />

la sua presenza non è più indispensabile nella famiglia, può diventare un sannyasin, (sanniasa= stato<br />

di rinuncia) ossia una sorta di sadhu (= uomo santo e virtuoso/ monaco mendicante), che lascia il<br />

mondo per vivere nel più puro distacco, solo con Dio, e diviene per gli altri il segno indicatore di una<br />

direzione verticale, verso cui ognuno, più o meno, prima o poi, è chiamato ad elevarsi. Certamente,<br />

però, non vi sono soltanto dei sadhu brahmini ; infatti, gli indù di tutte le caste possono scegliere la via<br />

della rinuncia, la via del distacco.<br />

Per chi resta nel mondo e si impegna nel vivere quotidiano, esiste invece il distacco, come lo<br />

insegna, ad esempio, la Bagavadgita, che, però, è il contrario del disimpegno; è, anzi, il massimo<br />

dell‟impegno, poiché riguarda un interesse che va al di là dell‟immediato, dell‟individuale e<br />

dell‟egoismo del gruppo. Costui cerca di compiere il proprio dovere fino in fondo, senza trascurare<br />

nulla per ottenere il fine desiderato; bisogna, però, non angustiarsi se, nonostante tutto l‟impegno,<br />

questo fine non è conseguito: infatti, il fine ultimo rimane sempre il moksa, cioè la liberazione.<br />

Inoltre, la salvezza, comunque sia concepita in termini teologici, può essere anticipata anche<br />

quaggiù da colui che sa riconoscere il divino in sé e intorno a sé. In tal modo la salvezza si attua nella<br />

misura in cui l‟uomo si fa libero, in cui agisce liberamente, in cui si svincola dai condizionamenti, che<br />

sono espressi, appunto, dal concetto di karma. L‟azione libera è quella disinteressata, non egoistica e,<br />

quindi, non condizionata. Ci si salva man mano che ci si libera dal peso del passato, che grava su di<br />

noi, e dall‟azione strumentalizzante che noi facciamo degli altri, per raggiungere i nostri fini. Tale<br />

libertà è anche al di là dello stesso dharma, perché non risponde più al senso del dovere morale, ma<br />

diviene spontaneità rispetto al dovere. Alcune scuole indiane esprimono la condizione dell‟uomo<br />

salvo già in questo mondo con il termine di “liberato in vita” (jivanmukta).<br />

Ed ora, a conclusione, una parola sullo yoga.<br />

Nello yoga sono comprese le varie discipline mediante le quali è possibile raggiungere il controllo<br />

del corpo e della mente, e pervenire all‟esperienza interiore dello spirito e alla conoscenza liberatrice.<br />

Così nello yoga confluiscono sia le religioni ortodosse sia quelle eterodosse, anche se nella sua<br />

formulazione sistematica esso è considerato come uno dei sei dharsana, cioè dei sei sistemi filosofici.<br />

Evidentemente gli altri sistemi filosofici possono, comunque, avvalersi delle tecniche yoga.<br />

In particolare, è strettamente legato allo yoga il sistema più antico dell‟induismo, il samkhia.<br />

Nell‟induismo troviamo lo yoga diffuso in molte opere della tradizione etico-puranica e in specie nella<br />

Baghavadgita. Vi è lo yoga sutra di Patanjali che codifica un insieme di pratiche e di norme, le quali<br />

possono essere di origine assai antica, prima della stessa civilizzazione ariana.<br />

Per accedere allo yoga bisogna evitare gli impedimenti che sono, praticamente, la ricerca del<br />

piacere, l‟ira, la cupidigia, l‟ansia, il torpore del sonno. Sul piano etico è necessaria l‟osservanza della<br />

non-violenza, la sincerità, l‟onestà, l‟astinenza sessuale, la povertà. Seguono, poi, gli obblighi positivi<br />

che si chiamano purezza, frugalità, ascesi, studio e devozione al Signore. In altre parole, se vi è un<br />

impedimento dovuto a inclinazioni contrarie è necessario coltivare la virtù opposta. Senza dubbio<br />

nello yoga sono importanti le posizioni del corpo, che devono essere stabili ed agevoli, dopo uno<br />

sforzo iniziale. Diversi tipi di posizione variano, in numero e forma, a seconda di diverse scuole di<br />

yoga. Una volta scelta la posizione confacente si procede al controllo della respirazione, e il tutto è<br />

volto ad ottenere il dominio completo dei sensi, la concentrazione della mente, la meditazione e,<br />

infine, l‟estasi (samadhi). I poteri straordinari che possono derivare agli yogin, coloro che praticano lo<br />

yoga, non hanno cause di ordine magico, ma soltanto derivano dall‟ estasi. Lo scopo dello yoga non è<br />

di ottenere una performance fisica, ma di sottomettere il corpo al potere dello spirito, dominando, così,<br />

le varie facoltà naturali, ottenendo la possibilità di superare il mondo naturale e di giungere alla<br />

assolutezza dello spirito. L‟Occidente, allorché vede nello yoga una tecnica di rilassamento mentale e<br />

corporeo, e ne ignora invece la dimensione eminentemente religiosa, mostra una sostanziale<br />

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incomprensione della vera natura dello yoga. Nel suo insieme lo yoga cerca la padronanza del<br />

comportamento del corpo e in particolare della respirazione, per raggiungere quell‟attenzione e quella<br />

concentrazione intellettuale, necessarie per giungere alla liberazione. Praticando esse lo yogin<br />

acquisisce una capacità di contemplazione, che può applicare con la volontà a un oggetto, a un‟idea o<br />

persino al nulla. Si può constatare, quindi, una certa parentela tra la meditazione buddista dello zen e<br />

lo yoga induista.<br />

IL BUDDISMO<br />

1) La figura del Buddha<br />

Il Buddha è un personaggio storico e insieme leggendario, fino ad essere divinizzato e<br />

„moltiplicato‟.<br />

1.1. Il suo nome è Siddharta Gautama; nasce verso il 560 a.C. nell‟India settentrionale, in uno Stato vicino al<br />

Nepal. Egli è il contemporaneo di Mahavira, il fondatore del Giainismo.<br />

Come Mahavira, Gautama apparteneva alla casta dei guerrieri e suo padre governava un piccolo regno ai<br />

piedi dell‟Himalaya, 170 chilometri a nord di Benares. Sul luogo della sua nascita fu eretta, nel III secolo d.C.,<br />

una colonna che si vede ancora oggi, con l‟iscrizione: “Il benedetto è nato qui”.<br />

Si sposò molto giovane e oltre alla moglie ebbe tre concubine. Ma una notte abbandonò la famiglia e i<br />

privilegi della sua casta con gli agi della corte, per farsi uno dei tanti asceti che vagabondavano, presi dalla<br />

ricerca di una verità superiore. Condusse una vita così rigorosa nell‟ascetismo, che giunse a trovarsi in pericolo<br />

di morte. Per questo l‟iconografia buddista rappresenta spesso il Buddha penitente, nella sembianza di un<br />

cadavere, seduto in posizione yogin. Consapevole di questo rischio corso, cerca una via di mezzo tra lo sfarzo<br />

della corte e il rigorismo dell‟asceta, dedicandosi alla meditazione. Raggiunse così quell‟illuminazione, in<br />

seguito alla quale venne chiamato “Buddha” o lo svegliato, cioè l‟illuminato.<br />

1.2. Vi sono su di lui moltissime leggende; in particolare sulla sua nascita, più che sulla nascita di qualsiasi<br />

altro capo religioso. Anche queste leggende, comunque, esprimono delle intenzioni simboliche ben precise! Sua<br />

madre era una donna di affascinante bellezza e ebbe un sogno: quello di portare in grembo un elefante bianco.<br />

Alla nascita del Buddha ci furono prodigi nel cielo, terremoti, fiori fuori stagione, musica celeste, guarigioni<br />

miracolose. Quattro dèi lo deposero in una rete d‟oro, ma il neonato si rizzò subito in piedi, fece sette passi e<br />

disse con la voce forte come ruggito di leone: “Io sono il capo del mondo. Questa è la mia ultima rinascita. Non<br />

ci sarà alcun‟ altra esistenza”. (Queste leggende sono dovute in gran parte alla tradizione vicina al “Grande<br />

Veicolo” o <strong>Buddismo</strong> mahayana). Tale corrente, infatti, giunse ad una divinizzazione del Buddha, e vide nel<br />

Buddha una manifestazione del Buddha celeste, del divino.<br />

1.3. Successivamente Gautama Siddharta visse alla corte, felice, e passò in un vortice di piaceri e di distrazioni<br />

sempre diverse. Il padre, però, era a conoscenza di un oscuro vaticinio, per il quale il figlio sarebbe stato o un<br />

prode guerriero, dominatore di tutte le nazioni, oppure un asceta, “mezzo per migliorare il benessere e i meriti<br />

dei mortali”. Ovviamente il padre desiderava che il figlio fosse un prode guerriero e, da rispettoso delle dottrine<br />

brahmanico-indù, compiva tutti i doveri della propria casta, quella dei guerrieri. Il padre si sarebbe, allora,<br />

adoperato per impedire che il figlio vedesse la miseria umana, mettendo delle guardie in ogni lato della corte, a<br />

non più di una lega l‟una dall‟altra, con il solo compito di tenere lontano dalla vita del figlio i segni fatali della<br />

miseria umana.<br />

1.2. Un giorno, però, il figlio vide una persona canuta, che si aggirava curva sotto il peso degli anni. Allorché il<br />

padre lo venne a sapere, si allarmò e rese ancora più rigida la sorveglianza. Intanto, ordinò di distrarre il figlio<br />

con le più belle e brave danzatrici, così che, sprofondato nei piaceri, non venisse neppure sfiorato dall‟idea di<br />

farsi asceta. Ma le previsioni del padre naufragarono, allorché un giorno Siddharta Gautama uscì dalla reggia e<br />

vide i quattro segni: i segni della malattia, della vecchiaia, della morte e della rinuncia ai piaceri della vita.<br />

Infatti, nello stesso giorno, trovandosi sul carro, Gautama vide un vecchio, un malato, un cadavere e, infine,<br />

incontrò un asceta, che gli indicò l‟unico genere di vita al quale doveva aspirare il saggio.<br />

Fu la vista del monaco che lo fece riflettere sulla rinuncia ai piaceri della vita e sulla pace che si prova nel<br />

cercare la perfezione. In ogni caso, è chiaro che egli fu sconvolto dalla sofferenza incontrata nel mondo e fu<br />

spinto a cercarne le cause e i rimedi.<br />

1.5. Si alzò in piena notte, si allontanò di nascosto da sua moglie, giunse ai confini del regno del padre.<br />

Abbandonò tutto ciò che aveva, tranne una veste, e cominciò a fare una vita errante, la vita dell‟asceta, andando<br />

da un maestro all‟altro e cercandone uno che risolvesse il problema del dolore del mondo. Ma non trovò<br />

nessuno che potesse dare una risposta a tale problema. Quando in un villaggio vide un giorno cinque bramini,<br />

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che stavano facendo un rigoroso digiuno, si unì a loro e digiunò talmente da diventare pelle ed ossa e da<br />

rischiare la morte. Le costole sporgevano - dice la leggenda - come travi in una capanna che sta rovinando. E<br />

cadde a terra svenuto. Quando rinvenne si accorse che non era quello il modo di cercare la verità; riprese,<br />

perciò, a mangiare e a sentirsi di nuovo in forze, ma i cinque bramini lo abbandonarono disgustati.<br />

1.6. Gautama continuò la sua ricerca finché giunse all‟antica città santa di Gaya, sulle rive di un affluente del<br />

Gange. Non si fermò nei templi della città, ma sotto l‟albero, che da allora in poi fu chiamato l‟”albero Bo”,<br />

cioè l‟albero dell‟illuminazione, decise di restarvi finché non avesse scoperto la verità decisiva. Fu il momento<br />

più difficile e importante della sua vita. Uno spirito maligno, Mara, cioè la morte, venne a tentarlo, ma dopo un<br />

giorno e una notte brillò finalmente la luce, e Gautama divenne il Buddha, l‟illuminato.<br />

1.7. La leggenda buddista abbellisce, con interventi preternaturali, la lotta interiore di Gautama e descrive,<br />

anche, la ripercussione cosmica della sua vittoria: terremoti, piogge di fiori, ecc. Fu in questa “notte”, quindi,<br />

che l‟asceta Gautama assunse l‟appellativo di Buddha, mentre in precedenza era chiamato Bodhisattda, cioè<br />

“essere destinato all‟illuminazione”. Questa illuminazione egli la espose, poi, nel cosiddetto sermone di<br />

Benares (che sembra essere uno dei pochi dati storicamente certi), detto anche il discorso su “la messa in moto<br />

della Ruota della Legge”. Questo percorso è redatto secondo lo schema stereotipato della retorica indù e della<br />

medicina indiana: la scoperta della malattia, la causa della malattia, l‟eliminazione della malattia, i mezzi per<br />

ottenerla. Questo discorso è davvero uno dei grandi testi religiosi e sapienziali dell‟umanità.<br />

1.8. Il discorso di Benares viene dopo che il Buddha superò la tentazione di non rivelare a nessuno la sua<br />

illuminazione. Infatti, egli incontrò per strada i cinque bramini che lo avevano abbandonato e che cercavano,<br />

ormai, di ignorarlo. Furono, però, così colpiti dalla sua dottrina e dalla bellezza di tale dottrina, che divennero i<br />

suoi primi discepoli. La tradizione buddista ci tramanda i nomi di costoro, e sono: Saridutta, Moggallana,<br />

Ananda, il discepolo prediletto, Kassapa e Anuruddha. Costoso chiesero e ottennero dal Buddha la<br />

consacrazione; nacque così la prima comunità buddista, detta Sangha.<br />

1.9. Abbiamo così, accanto alla figura del Buddha e alla sua Dottrina salvifica, la comunità, che si pone come<br />

terzo gioiello del <strong>Buddismo</strong>. Il primo è il Buddha, il secondo è la Dottrina, il terzo, appunto, è la comunità!<br />

1.10. Il Buddha poté insegnare circa quarant‟anni nel nord dell‟India, predicando il suo messaggio di speranza,<br />

di felicità, di una via possibile di salvezza. Tale salvezza non giunge come dono della grazia di Dio, ma come<br />

conquista del proprio intelletto e della propria volontà. Su Dio Buddha preferì, normalmente, tacere.<br />

1.11. Non mancarono, ovviamente, le resistenze e le difficoltà al compimento della sua missione, ma in punto<br />

di morte, all‟età di circa ottant‟anni, fu circondato da numerosi suoi seguaci, fra cui il fedele Ananda, al quale<br />

affidò le sue ultime disposizioni. Ben presto nella sua comunità monacale entrarono a far parte anche i laici, che<br />

adottavano la morale buddista e che ancora oggi sovvengono ai bisogni materiali dei bonzi. Dopo una lunga<br />

resistenza, Buddha acconsentì anche al desiderio della suocera di vedere ammesse alla comunità anche le<br />

donne. In tal modo, il <strong>Buddismo</strong>, da monachesimo, si converte a religione aperta a tutti.<br />

1.12. Ecco un testo buddista sulla morte di Siddharta Gautama:<br />

«Giunta la stagione delle piogge, il Beato (“beato e maestro” sono i titoli tradizionali di Buddha) fu colpito<br />

da grave malattia. Ebbe dolori così forti che lo portarono sulla soglia della morte... Il Beato, rivolto al<br />

venerabile Ananda, disse: “Le forze mi vengono meno, Ananda. Sono vecchio, sono un anziano che ha<br />

percorso la via della vita e ha toccato la sua età. Ho ottant’anni. Come un carro sconnesso si mantiene unito<br />

solo con molta difficoltà, così, Ananda, si mantiene unito con grande difficoltà il corpo di chi ha compiuto la<br />

sua missione... Procurate, dunque, di essere luce a voi stessi, e rifugio; null’altro sia il vostro rifugio che la<br />

dottrina che adesso o in futuro, dopo la mia morte, procurano di essere luce e rifugio...<br />

Ananda, quei bonzi che adesso o in futuro, dopo la mia morte, procurano di essere luce e rifugio a se stessi,<br />

coloro che in null’altro trovano rifugio, coloro che trovano luce e rifugio nella dottrina, costoro, Ananda,<br />

staranno nella sublimità, perché si sforzano di percorrere la via retta...”.<br />

Il Beato parlò anche ai bonzi e disse loro: “Potrebbe darsi, o bonzi, che uno di voi, magari soltanto uno,<br />

nutra un dubbio, un’incertezza su Buddha, sulla dottrina, sulla congregazione, sul sentiero o sull’esercizio.<br />

Chiedete, o bonzi, per poi non avere pentimenti e non essere costretti a dire a voi stessi: Abbiamo visto il<br />

Maestro faccia a faccia, ma non abbiamo osato fargli domande mentre era in mezzo a noi”.<br />

Finito che ebbe, i bonzi continuarono a tacere. Solo il venerabile Ananda disse al Beato: “Magnifico<br />

signore! Mirabile signore! Questo è quanto io credo, signore. Nella comunità di bonzi non ve n’è uno, uno<br />

solo, che nutra un dubbio, un’incertezza su Buddha, sulla dottrina, sulla congregazione, sulla via o<br />

sull’esercizio...”.<br />

Riprese il Beato, rivolto ai bonzi: “Bene, o bonzi, ecco ciò che vi dico: Ogni cosa è destinata a perire:<br />

lottate con impegno!”. Queste le ultime parole del Perfetto» (dal Mahaparinibbanasutta che fa parte del<br />

Dighanikaia).<br />

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Le spoglie del Buddha vennero cremate e le ceneri distribuite in varie località, dove, più tardi, furono<br />

costruite le cosiddette stupa, che sono monumenti reliquiari.<br />

2) Il canone buddista<br />

Il canone, redatto nel secolo I° a.C. sotto Vattgamani, re dello Sri Lanka, è denominato i tre canestri<br />

(tripitaka o in sanscrito tipitaka), perché gli scritti di pergamena sono raccolti entro tre canestri.<br />

Questo vuol dire che il canone è una triplice raccolta di scritti, ognuna delle quali viene chiamata<br />

canestro. Già l‟idea del „canestro‟ fa comprendere come il canone buddista sia potenzialmente sempre<br />

aperto, e quindi la dottrina buddista sia suscettibile di continue evoluzioni.<br />

1) Il primo canestro è il canestro della disciplina monastica (Vinaya-pitaka), contiene le 227 regole per il<br />

monaco e il commento ad esse, frammischiate a stralci leggendari sulla vita del Buddha. Il trattato è diviso in<br />

due parti: la prima riguarda le violazioni gravi della regola, che comportano l‟esclusione dall‟ordine, la seconda<br />

le violazioni leggere. I brani più antichi risalgono al 400 a.C. e, quindi, sono relativamente vicini all‟epoca del<br />

Buddha.<br />

2) Il secondo canestro è il canestro dei Sutra, ovverosia dei discorsi didascalici (Sutta-Pitaka). Sono<br />

raccolte che comprendono i discorsi didascalici tenuti dal Buddha o a lui riferiti da qualche discepolo, che li ha<br />

ricevuti in visione durante la meditazione. È certamente il canestro più importante, redatto in forma di discorsi,<br />

poesie e dialoghi. È diviso in cinque raccolte (Nikaya):<br />

3) Il terzo canestro è quello della dottrina superiore della salvezza, o anche il canestro della dottrina<br />

astratta (Abhidhamma-Pitaka). È il canestro meno antico ed è redatto sotto forma di catechismo, contenente<br />

domande e risposte. La raccolta è divisa in sette trattati sui poteri psichici, sulle virtù ascetiche, sulle eresie,<br />

sull‟individualità differenti, sui fenomeni fisici, sul metodo logico e sul problema della causalità.<br />

4) Data la molteplicità delle lingue parlate in India, gli scritti buddisti sono redatti in lingue differenti. La<br />

loro diffusione fuori dall‟India ebbe come conseguenza un enorme lavoro di traduzione. Su tutte queste<br />

traduzioni emerge, certamente, per la sua mole, la raccolta cinese. Il Canone buddista risulta così immenso, ma<br />

ha un senso diverso da quello che può essere, ad esempio, il Canone ebraico o la Bibbia cristiana, o il Corano<br />

musulmano. Infatti, il <strong>Buddismo</strong> non ha mai considerato chiuso, nel tempo e nel contenuto, il suo Canone.<br />

Questa scrittura è, in qualche modo, una testimonianza del <strong>Buddismo</strong> più che la sua norma; è una grande<br />

raccolta, dalla quale le singole correnti e i singoli gruppi scelgono come canonici i libri per essi più importanti,<br />

mentre considerano solo subordinatamente gli altri, quando addirittura non li rifiutano.<br />

5) I buddisti settentrionali del mahayana hanno libri sacri più numerosi di quelli del piccolo veicolo. In<br />

particolare, ricordiamo la Scrittura del diamante, che ci è stata preservata nel libro più antico che sia mai stato<br />

stampato, non solo in Cina, ma nel mondo intero. Risale, infatti, al IX secolo d.C. e si trova ora al British<br />

Museum.<br />

6) Ancora più importante è “La scrittura del Loto” o “Loto della legge meravigliosa”. È un libro scritto in<br />

sanscrito verso il II secolo d.C., ma è molto più popolare nella traduzione cinese. Il Loto è il simbolo del<br />

Buddha e del suo insegnamento. Il Buddha, glorificato, vi appare sulla cima di un monte, un monte<br />

dell‟Himalaya, circondato da migliaia di altri Buddha, da dèi e discepoli. Lamenta che la via percorsa dai<br />

monaci è troppo stretta e che conduce alla salvezza solo pochi privilegiati; egli vuole, invece, annunciare una<br />

via larga, un grande veicolo di salvezza per tutta l‟umanità, cioè una via di fede e di grazia. Chiunque invochi il<br />

Buddha con fede sarà salvo, perché il Buddha e gli altri esseri celesti sono pieni di compassione per gli uomini<br />

e li aiuteranno a trovare il Nirvana.<br />

3) La ‘via di mezzo’ del Buddha: una sapienza auto-soteriologica<br />

3.1. La polemica con il brahmanesimo<br />

Per comprendere la dottrina del Buddha bisogna partire dalla sua polemica con il brahmanesimo. Nel dialogo<br />

della “rete di Brahma”, egli mette l‟accento proprio sulla posizione polemica nei confronti delle distorcenti e<br />

infruttuose dottrine speculative, che lo avevano preceduto: “O monaci, quanti esseri viventi di una certa<br />

grandezza si trovano in questo stagno, tutti si trovano impigliati in questa rete, circondati strettamente da essa<br />

e in essa prigionieri», così, o monaci, son tutti quegli asceti e brahmani, chiusi in una rete, e se fanno salti ne<br />

fanno solo nella rete, stretti da essa e presi in essa” (Brahma-jalasutta III, 72).<br />

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3.2. I tre gioielli<br />

Il monaco zen, il giapponese Dogen (1200-1253) spiega così la formula del triplice gioiello: “Noi ci<br />

rifugiamo nel Buddha perché egli è il nostro grande maestro; nella Legge perché è buona medicina; e<br />

nell’Ordine perché è formato da eccellenti amici,<br />

3.3. Il Dhamma<br />

Per quanto riguarda la dottrina, cioè il Dhamma, essa coincide, in definitiva, con la “Via di mezzo”. Infatti, il<br />

Buddha inizia il sermone di Benares, rivolto ai cinque asceti, contestando i due estremi ai quali egli era giunto<br />

attraverso un movimento pendolare, e scartando tali estremi. Ai suoi cinque compagni propone come ideale la<br />

“Via di mezzo”, la Via delle quattro nobili verità. Illustriamo qui le quattro nobili o sante verità.<br />

a. La prima verità:<br />

“È questa, o monaci, la Santa Verità circa il dolore: la nascita è dolore, la vecchiaia è dolore, la malattia è<br />

dolore, la morte è dolore; l’unione con quel che dispiace è dolore, la separazione da ciò che piace è dolore, il<br />

non ottenere ciò che si desidera è dolore...” (Mahavagga 1,6,10). Questa verità, che riguarda il dolore nel<br />

<strong>Buddismo</strong>, è vista in rapporto alla non permanenza delle cose. La sofferenza, il dolore, è un concetto<br />

amplissimo, che implica il dolore fisico come la malattia, la vecchiaia, la morte e i fenomeni psichici<br />

concomitanti, come solitudine, angoscia, tristezza. Tutto questo include, però, anche i fattori della non<br />

permanenza, della transitorietà e della limitatezza delle cose. Nel nostro linguaggio filosofico chiameremmo<br />

questo lo scandalo della contingenza.<br />

b. La seconda verità:<br />

“Questa, o monaci, è la Santa Verità circa l’origine del dolore: essa è quella sete che è causa di rinascita,<br />

che è congiunta con la gioia e con il desiderio, che trova godimento or qua, or là; sete di piacere, sete di<br />

esistenza, sete di estinzione.<br />

c. La terza verità:<br />

Questa, o monaci, è poi la Santa Verità circa la soppressione del dolore: è la soppressione di questa sete,<br />

annientando completamente il desiderio, è il bandirla, il reprimerla, il liberarsi da essa, il distaccarsi”.<br />

d. La quarta Nobile Verità:<br />

È quella della via allo spegnimento del dolore e consiste nel nobile ottuplice sentiero. Scrive il Dhammapada<br />

191-192: “Colui che invece cerca rifugio nel Buddha, nella Legge e nella Comunità, scorge con retta<br />

cognizione le quattro nobili verità: il dolore, l’origine del dolore, la cessazione del dolore e il nobile ottuplice<br />

sentiero che conduce all’ acquietarsi del dolore.<br />

1. La retta fede: la vista e l’opinione e la comprensione giusta e adesione incondizionata alle quattro verità.<br />

2. La retta risoluzione, o volontà pura con retto proposito, oppure pensiero ed intenzione giusta.<br />

3. La retta parola, ovverosia la parola giusta, l’astensione dalla falsità e dalle false azioni.<br />

4. La retta azione, con l’astenersi dall’uccidere, dal rubare e da ogni impudicizia. È l’attività giusta!<br />

5. Il retto comportamento, ovverosia retta condotta di vita, cioè retto modo di procurarsi il sostentamento e i<br />

modi di esistenza giusti.<br />

( Questi tre sentieri riguardano il comportamento morale (retta parola, retta azione, retto contegno).<br />

6. Il retto sforzo, cioè la volontà di incrementare le qualità buone, orientate ad evitare ciò che è nocivo e a<br />

rafforzare ciò che è salutare.<br />

7. Il retto ricordo, l’attenzione giusta rivolta all’osservazione e al controllo del corpo, delle sue percezioni,<br />

del pensiero e delle presunte realtà del mondo.<br />

8. La retta concentrazione, ovverosia la meditazione giusta cui si tende attraverso lo sprofondamento dei<br />

vari stati meditativi, che rendono possibile la conoscenza perfetta.<br />

3.4. Il Sangha<br />

Il terzo gioiello è costituito dal Sangha, termine che significa gruppo, congregazione, e indica propriamente<br />

la comunità dei monaci buddisti. È una comunità in cui è possibile vivere l‟accentuazione che caratterizza<br />

l‟etica buddista, non fatta solo di rinunce, ma di attenzione ai sentimenti di amicizia, di compassione. Il<br />

<strong>Buddismo</strong> si presenta come la prima religione, in ordine di tempo, che abbia predicato la fratellanza umana. Per<br />

questa apertura universale della sua predicazione il Buddha non può accettare il sistema sociale delle caste<br />

indù…<br />

12


3.5. L’escatologia buddista: il Nirvana<br />

In pali (detto nibbana) significa letteralmente estinzione, cessazione, e indica l‟estinzione assoluta<br />

di quella brama di vivere che si manifesta con l‟avidità, con l‟odio, con lo smarrimento, ecc. La sete di<br />

vivere trattiene l‟essere prigioniero del samsara. Questa sete viene estinta da un atto di sapienza<br />

(prajña) che libera l‟uomo dall‟ìillusione dell‟esistenza di un „io‟ (anatta). Così il karma si dissolve e<br />

l‟uomo è liberato da ogni rinascita futura. Il nirvana è dunque l‟uscita definitiva da un mondo di<br />

illusione di contingenza, il dukkha. Il buddismo esprime il nirvana in linguaggio puramente negativo,<br />

perché ogni affermazione sarebbe un limite. Questo, in definitiva è affermare che il nirvana è<br />

l‟assoluto. Vi è un profondo apofatismo del buddismo circa la possibilità di dire il nirvana quale fonte<br />

di beatitudine infinita. D‟altra parte se si tiene presente che il buddismo non si appoggia su nessuna<br />

rivelazione di ordine soprannaturale, si capisce la scelta di astenersi, di fronte alla possibilità di parlare<br />

positivamente del nirvana come assoluto.<br />

Una variazione nella concezione del nirvana, però, si registra tra il Theravada e il „Grande Veicolo‟<br />

(vedi sotto). Nel primo , poiché gli elementi che compongono il mondo fenomenico vengono ritenuti<br />

reali, bisogna uscire dal samsara per accedere al nirvana. Nel secondo, in quanto gli elementi sono<br />

ritenuti illusori e vuoti, in sostanza non esistono distinti dalla realtà assoluta, se presa nella sua<br />

vacuità. Ne consegue che per il „Grande Veicolo‟ nirvana e samsara sono due facce della stessa<br />

medaglia, e non è necessario uscire dal samsara per accedere al nirvana. Grazie ad una illuminazione<br />

(bodhi; satori nel linguaggio zen) che fa vedere la realtà come è, si trova già il nirvana all‟interno del<br />

samsara.<br />

4) Il culto buddista<br />

Per il culto dobbiamo distinguere, in particolare, tra le due grandi correnti del <strong>Buddismo</strong>, tra il il<br />

Theravada (cioè la dottrina dei padri) e il Grande Veicolo (Mahayana).<br />

4.1. Nel Theravada non vi è il sacerdozio, sia per ragioni dottrinali, sia per ragioni storiche. Infatti,<br />

il piccolo veicolo è più vicino alla predicazione originaria del Buddha, con il suo atteggiamento<br />

antibrahmanico, antiritualista e antisacerdotale. Si ignora l‟esistenza di un Dio personale, e, pertanto,<br />

non si ha bisogno di chi svolga funzioni sacerdotali, o si ponga come intermediario tra i fedeli e<br />

l‟essere divino. I monaci del piccolo veicolo non sono sacerdoti, non esercitano funzioni sacerdotali,<br />

non compiono atti di ministero sacerdotale o di culto. Il culto buddista per il Theravada non è<br />

organizzato, pubblico, ma è soltanto privato. Il culto sopravvive a livello di generosità popolare da un<br />

affare puramente personale del credente, il quale, direttamente, senza alcun intermediario, offre le sue<br />

preghiere e i suoi doni al Buddha. Il popolo non viene mai invitato a radunarsi e non si riunisce mai<br />

per compiere un atto di culto pubblico. E così i monaci, da parte loro, non benedicono matrimoni, non<br />

assistono moribondi, non esercitano alcun ufficio che abbia lo scopo di condurre i fedeli alla salvezza.<br />

Non hanno neppure il dovere di istruire i fedeli. Quando un fedele porta al monaco un‟offerta, costui<br />

ripete delle formule in lingua pali, non comprensibili per il popolo. Allorché si legge che un monaco<br />

ha insegnato la legge preziosa, si deve intendere che ha recitato alcuni passi delle scritture, che quasi<br />

nessun fedele comprende. Raramente qualche monaco istruisce il popolo usando la lingua volgare ed<br />

esortando il popolo a seguire i precetti del Buddha. Questo comportamento non è dovuto a mancanza<br />

di impegno, ma è coerente con la dottrina del piccolo veicolo, secondo il quale il problema della<br />

salvezza è strettamente individuale.<br />

Nei paesi buddisti dell‟Asia meridionale vi sono certamente molti templi, detti pagode; sono edifici<br />

a forma di cono, che richiamano alla mente le piramidi e, si dice, che custodiscano reliquie degli<br />

antichi Buddha. I fedeli non possono entrarvi, ma di fronte al tempio vi è un piccolo santuario con<br />

l‟immagine del Buddha e qui la gente si può fermare a meditare. Gli uomini e le donne vi si recano<br />

per allontanarsi dal rumore della città, per godere un po‟ di pace e per mettere ordine nella propria vita<br />

personale. Alcune pagode sono molto celebri per la loro bellezza, quali la Pagoda Dorata, che è più<br />

alta di San Pietro e che si trova a Rangoon. Come già accennato, in questo <strong>Buddismo</strong> non vi sono<br />

cerimonie o rituali fissi; di tanto in tanto, però, si celebrano delle feste stagionali ed allora si radunano<br />

folle enormi per commemorare gli avvenimenti della vita del Buddha o per celebrare l‟inizio o la fine<br />

13


della stagione delle piogge. Intorno ai cortili delle pagode vi sono piccoli santuarietti, con immagini e<br />

statue da venerare ed anche stanze dove i fedeli possono riposarsi e riflettere sui testi sacri.<br />

4.2. Ben diversa è l‟importanza, invece, che attribuisce al culto il <strong>Buddismo</strong> Mahayana, in<br />

conseguenza della sua identificazione del Buddha con l‟Assoluto e della fede nella potenza mediatrice<br />

dei Bodhisattva. Nel Mahayana il bonzo svolge funzioni decisamente sacerdotali, con una liturgia<br />

solenne, spesso non dissimile per quanto riguarda l‟aspetto esteriore dalle nostre liturgie cattoliche!<br />

Ornamenti sacri, non di rado magnifici, che ricordano casule, stole, altari ornati di fiori e candelieri,<br />

uso abbondante dell‟incenso, salmodia dei Sutra, processioni rituali. Per i fedeli, però, non c‟è obbligo<br />

di frequentare la pagoda in giorni determinati; tuttavia alla gente piace andarvi, se non altro per la<br />

bellezza del luogo, per i tesori d‟arte che vi si possono ammirare. Non dimentichiamo che, comunque,<br />

la caratteristica principale anche di questo <strong>Buddismo</strong>, per quanto riguarda il culto, rimane sempre la<br />

meditazione (cfr. lo Zen).<br />

Nei paesi dell‟Asia settentrionale si venerano molti Buddha e nobili personaggi sconosciuti ai<br />

buddisti meridionali; celebre è specialmente Amida, “il Buddha della luce infinita”, che invita gli<br />

uomini a riposare nella pura terra o nel paradiso occidentale. I devoti lo invocano ogni giorno con le<br />

parole: “Amida, t‟adoriamo!”.<br />

Il <strong>Buddismo</strong> del Grande Veicolo adora anche Kwanyin, la dea della misericordia o, meglio ancora,<br />

colei che guarda con compassione. La compassione di questi esseri santi, la loro bontà con gli uomini<br />

e la fede che suscitano, non si limitano, però, a preghiere e meditazioni, perché i devoti sono invitati a<br />

mostrare la loro compassione verso il prossimo, a servire chi soffre, a ritardare la propria salvezza fino<br />

a quando tutti gli esseri potranno essere salvi.<br />

Nel <strong>Buddismo</strong> settentrionale le pagode, i monasteri sono come quelli del <strong>Buddismo</strong> meridionale,<br />

anche se sono costruiti in stile cinese o giapponese. Purtroppo, nei paesi comunisti molti templi e<br />

monasteri sono stati distrutti e trasformati in scuole e caserme; altri, però, specialmente quelli di<br />

notevole importanza artistica, sono stati restaurati. In Giappone il culto ha, poi, un motivo particolare<br />

ed è il fatto che la pagoda, praticamente, monopolizza il culto dei defunti, le cui ceneri sono deposte<br />

nei cimiteri annessi. I parenti vi si recano per la festa dei morti nei loro vari anniversari. Quando il<br />

Bodhisattva, onorato nel tempio, ha una particolare reputazione di taumaturgo, si organizzano ogni<br />

anno, ad un epoca fissata, pellegrinaggi, oltre che visite individuali. Ricordiamo, poi, qui che una<br />

varietà, particolarmente diffusa in Giappone, del <strong>Buddismo</strong> è lo Zen, che non usa tutti i testi sacri<br />

delle altre forme del <strong>Buddismo</strong> e che si basa essenzialmente sulla meditazione.<br />

4.3. Infine, una parola sul <strong>Buddismo</strong> tibetano. Il Tibet è un paese completamente buddista e,<br />

sebbene aderisca al <strong>Buddismo</strong> settentrionale, ha, però, molti caratteri del <strong>Buddismo</strong> del Diamante. Il<br />

Dalai Lama, capo spirituale dei tibetani, è ritenuto reincarnazione di Kwanyin o Cenresi. Come tutti i<br />

buddisti settentrionali tibetani venerano come libro sacro la scrittura del Loto. La dottrina che vi è<br />

esposta è chiamata gioiello; per questo la preghiera ripetuta continuamente dai tibetani, facendo<br />

scorrere tra le dita i grani del rosario, è: “Salve, gioiello del Loto!”.<br />

Nel Tibet, poi, si incontrano spesso le cosiddette “ruote della preghiera”. Alcune sono in mezzo ai<br />

fiumi e girano come le ruote dei mulini ad acqua, altre sono sistemate nei templi e vengono mosse dal<br />

vento, oppure vengono mosse dai monaci. Vi sono, inoltre, le cosiddette bandiere della preghiera, cioè<br />

lunghe strisce di tela attaccate ad alti pali, le quali recano scritti i testi sacri e preghiere che<br />

ondeggiano al vento. Vi sono, poi, i muri della preghiera, su cui sono scritti i testi sacri, mantra, letti e<br />

recitati dai fedeli. Oltre a questo sono numerosi i templi e le pagode che custodiscono reliquie sacre.<br />

Fino all‟invasione comunista, nel 1959, vi erano nel Tibet grandi monasteri, frequentati da molti<br />

ragazzi, dove si svolgevano solenni cerimonie con luci, profumi d‟incenso, suono di campane, liturgie<br />

solenni. Il regime comunista ha distrutto molti monasteri, ma il <strong>Buddismo</strong> continua ad essere la<br />

religione dei tibetani e il Dalai Lama, ora vivente da esule in India, rimane il loro capo spirituale. Il<br />

futuro, comunque, del <strong>Buddismo</strong> tibetano è affidato ai 100.000 esuli che vivono fuori del Tibet.<br />

4.4. Alla luce di quanto abbiamo detto, la differenza fondamentale tra il Mahayana e l‟Hinayana per<br />

il culto deriva dalla diversa concezione della salvezza. Per il Piccolo Veicolo (o Theravada) ciascuno<br />

deve operare la salvezza da solo. Non solo, ma nessuno può fare alcunché per la salvezza degli altri.<br />

Nel Grande Veicolo, invece si persegue la via di una più ampia, superiore ed universale salvezza. Il<br />

14


Mahayana afferma un rigoroso monismo, molto simile alla dottrina professata dagli induisti. Di<br />

conseguenza, il grande veicolo vede la salvezza non solo come un problema dei singoli, individuale,<br />

ma come un problema collettivo, universale. La redenzione non può essere raggiunta con sforzi isolati<br />

e indipendenti, ma ha bisogno di reciproco aiuto dei fedeli. “Sàlvati, salvando gli altri”, è il precetto<br />

fondamentale del grande veicolo.<br />

Perciò, l‟ideale religioso non è più l‟arhat o monaco perfetto, che si chiude in sé nella ricerca della<br />

via della salvezza, ma il Bodhisattva, cioè l‟aspirante Buddha, il Buddha in potenza. Come il Buddha<br />

rinunziò alle delizie del Nirvana e restò nel mondo per salvare tutti gli uomini, così il Bodhisattva, o<br />

imitatore del Buddha, deve rinunziare al possesso immediato del Nirvana finché ci saranno altri esseri<br />

da condurre alla liberazione. Siamo ben lontani, quindi, dall‟individualismo soteriologico del<br />

Theravada. E tra le virtù che il Bodhisattva deve esercitare occupa, al primo posto, allora, l‟amore del<br />

prossimo, che lo spinge a fare un dono disinteressato non solo dell‟aiuto materiale, ma anche<br />

dell‟aiuto spirituale.<br />

15


IL SIKHISMO<br />

1) Rilevanza del discorso sul sikhismo, data la significativa presenza dei Sikh nella pianura padana,<br />

spesso impegnati nell‟agricoltura e in particolare nell‟allevamento.<br />

2) La parola Sikh è la forma in lingua panjabi della parola sanscrita „shishya‟, che significa<br />

„discepolo‟. Essi sono i discepoli del guru Nānak e dei suoi nove successori spirituali. Si ricordi qui<br />

che tutti i Sikh sono panjabi, ma non tutti gli abitanti del Panjab sono Sikh.<br />

3) Dal punto di vista della storia delle religioni, esso si presenta come una religione di transizione,<br />

in quanto accoglie in sé elementi significativi dell‟induismo e dell‟islamismo. Eppure non è un<br />

semplice fenomeno di sincretismo, come se fosse una setta uscita dall‟induismo e contaminata<br />

dall‟islamismo. La fenomenologia del sikhismo mostra invece una realtà più complessa e con elementi<br />

di singolarità, di originalità.<br />

4) Il guru Nānak (1469-1539) entra in contatto con poeti e mistici visnuiti, per cui è necessario<br />

l‟amore o la devozione amante per il dio supremo (bhakti), che è l‟Uno, privo di ogni attributo. Questa<br />

era per loro la via della liberazione ( ; mukti). Fu anche influenzato dalla corrente shivaita, in<br />

particolare dagli yogin.<br />

5) Sul versante dell‟incontro con i musulmani, egli si ispira non tanto alla tradizione della sharia,<br />

ma alla mistica dei sufi.<br />

6) Egli inizia una valutazione critica dell‟induismo e dell‟islam cercando di tenere ciò che è il<br />

meglio di queste religioni, ma rigettando ciò che gli sembrava nuocere all‟armonia universale; ma vi<br />

aggiunge poi ciò che deriva dalla sua esperienza più profonda. Infatti egli, senza un grande sforzo<br />

deliberato di riconciliazione, nutriva un amore uguale per tutte e due le religioni e una simpatia reale<br />

per loro.<br />

7) Chi è dunque un Sikh? Un discepolo del guru Nānak crede<br />

- in Dio (Akāl Purakh),<br />

- nei „dieci guru‟ (da Nānak al guru Gobind Singh),<br />

- nello Sri Guru Granth Sāhib, cioè nel Venerato Maestro Libero dei Guru,<br />

- negli altri scritti, e negli insegnamenti dei Dieci Guru,<br />

- nella cerimonia di iniziazione al Khālasā,<br />

- e non crede (anche se non esclude) in nessun altro sistema e in nessun‟altra dottrina religiosa (così<br />

Sikh Rahit Maryāda).<br />

8) Nānak ha insegnato l‟unicità di Dio secondo un rigido monoteismo (cfr. Islam); chiama l‟Essere<br />

Supremo semplicemente l‟Uno, il senza secondo, l‟eterno, l‟infinito, il penetrante tutto. Non vi è<br />

incarnazione né alcuna immagine può contenerlo.<br />

9) Il fine supremo è la liberazione (mukti). Si ricordi che il sikismo accetta dell‟induismo l‟idea del<br />

ciclo delle rinascite. Bisogna liberarsi dal samsara attraverso la devozione amorevole, il ricordo<br />

costante del Nome divino. Attraverso questa devozione l‟uomo si libera dall‟asservimento<br />

dell‟egoismo e dalla preoccupazione di sé che lo separa dalla fonte originale, la scintilla divina.<br />

10) Superando l‟egoismo (haumai) si realizza la verità, cioè la via che conduce all‟unione completa<br />

con l‟Eterno.<br />

11) Le forme esteriori della pietà sono da Nānak rifiutate per mettere l‟accento sulla comprensione<br />

della verità, accompagnata da un intenso amore di Dio, un completo abbandono in lui, alla sua<br />

volontà.<br />

11) A differenza di tendenze religiose dominanti nell‟epoca di Nānak, tendenze portanti<br />

all‟evasione, al disinteresse per il mondo sociale, il sikhismo ha invece attenzione al sociale, mosso da<br />

un ottimismo di fondo, per cui l‟uomo, come creazione di Dio, è partecipe della sua luce, ed è<br />

essenzialmente buono, non malvagio. La realtà è la dimora propria di Dio, unico e vero, perciò la fede<br />

sikh considera la felicità materiale dell‟uomo tanto importante quanto la sua liberazione spirituale.<br />

12) Nānak attribuisce grande importanza alla condotta morale, decisiva almeno quanto la dirittura di<br />

pensiero (ortodossia). Mette l‟accento sul sevā, cioè sul servizio umile ed assiduo. Egli insiste poi<br />

sulla necessità di promuovere, attraverso il servizio, il benessere della comunità. Così, alla fine dei<br />

16


suoi giri di predicazione, si stabilì a Kartāpur, un villaggio da lui fondato, dove si stabilì la prima<br />

comunità dei discepoli. Questa insistenza sulla comunità dei discepoli è affine a certe correnti del<br />

buddismo…<br />

13) A questa comunità si partecipa senza distinzione di casta, ma mossi soltanto dallo spirito del<br />

sevā. E questo è un chiaro superamento dell‟organizzazione in caste della società indù, così<br />

fortemente radica nella visione religiosa dell‟induismo.<br />

14) La comunità del guru Nānak, già durante la sua vita, aveva in deposito la parola del guru<br />

attraverso i suoi bānī, cioè le sue parole, la sua scrittura – la gurmukhī –, il suo stesso stile musicale<br />

con cui le sue parole venivano cantate e memorizzate.<br />

15) Il consolidarsi del sikhismo come istituzione comunitaria si ha già con Nānak, quando egli<br />

designò tra i suoi discepoli il suo successore, rendendolo uguale a sé, dandogli la sua luce,<br />

chiamandolo Angad, cioè membro del suo corpo, parte di se stesso.<br />

16) Il processo di trasmissione fu ripetuto fino al tempo del decimo guru, Gobind Singh (1666-<br />

1708). L‟idea è che i dieci guru furono „uno nello spirito‟, anche se diversi nel corpo. Tutte e dieci,<br />

quindi, sono partecipi della stessa liberazione. Tra questi guru va segnalato guru Rām Dās, nato nel<br />

1534 e morto nel 1581, che costruì un centro che sarebbe stato poi chiamato Amritsar. Il guru Arjun vi<br />

costruì, in mezzo al lago, il Tempio d‟oro (Harimandir). In questo tempio venne installato il Granth<br />

Sahib (Libro Maestro)<br />

17) Guru Gobind Singh istituì come guru proprio il Libro Sacro. La stirpe dei guru-persone<br />

terminava. La successione passò al „guru Granth‟ per sempre. Esso diventava così, per i sikh l‟autorità<br />

perpetua, spirituale e storica. Il suo ruolo per garantire la coesione della comunità è stato<br />

fondamentale. Cominciato come fede spirituale, monoteista ed etica, il sikhismo divenne<br />

progressivamente, con la rivelazione del guru Nānak, un ordine unito, ben specifico, con forte<br />

preoccupazione sociale e, dopo la morte dell‟ultimo guru, divenne sempre più forza politica, fino a<br />

coincidere con uno stato. Si ricordi che Gobind Singh concepì la comunità come un ordine marziale,<br />

costituito dagli eletti di Dio, i Khalsa. Il sikh riceve il nome di Singh (leone), se è un uomo, oppure di<br />

Kaur (principessa), se è una donna. Dal punto di vista dell‟abbigliamento, vi sono anche segno<br />

esteriori dei sikh: capelli non tagliati e raccolti nel turbante, pettine nella chioma, braccialetto di<br />

acciaio, pantaloncini corti (e, a quell‟epoca, un pugnale caratteristico).<br />

18) I territori sikh indipendenti furono uniti fra loro nel potente stato di Khālsā da parte di Ranīet<br />

Singh (1780-1839). Furono le guerre con gli inglesi a far finire, verso la fine del XIX secolo, il<br />

governo sikh del Panjab.<br />

19) Una corrente di riforma tenta di ritrovare l‟essenza e la purezza dell‟insegnamento, sommerso<br />

prima dallo splendore del potere, e poi dalla sua rovinosa fine. Il sikhismo dovette poi affrontare la<br />

sfida del proselitismo cristiano inglese e dell‟educazione occidentale. Questo movimento di riforma è<br />

il Singh Sabhā, che è la forza vitale della riscoperta dell‟identità sikh, sempre tentata però di<br />

identificare indipendenza politica con identità religiosa. Molti sikh non hanno accettato la spartizione<br />

del Panjab, che divide la popolazione sikh in due parti pressoché uguali.<br />

20) Sottolineiamo alcuni aspetti rituali. Si diventa pienamente sikh attraverso un rito di iniziazione<br />

alla comunità (khalsa = pura). Egli riceve poi il nome di Singh (leone), se è un uomo, oppure di Kaur<br />

(principessa), se è una donna. Si noti che questa comunità „pura‟ è caratterizzata dall‟assenza di<br />

barriere sociali, come voleva l‟insegnamento di Nānak, ma come concretamente realizzò Gobind<br />

Singh.<br />

21) Si ricordi qui che i due sessi hanno diritto all‟iniziazione, che la regola di non tagliarsi i capelli<br />

vale per entrambi, e che contravvenire a questa regola è considerato diventare come dei decaduti,<br />

degli immorali. Questo, del resto è un dei cinque K (in punjabi ognuna di queste parole inizia con il k)<br />

obbligatori. Il più problematico per noi è il pugnale (kirpan). Kirpan deriva dalle parole Kirpa (che<br />

significa: atto di gentilezza, benedizione o un favore) e Aan (che significa: onore, rispetto o<br />

autostima). Così, per i sikh , il Kirpan è rappresenta l‟impegno per il rispetto di sé e per la propria<br />

libertà di spirito. Il sikh che lo indossa è simbolicamente un soldato dell‟Armata di Dio, e lo utilizza<br />

per proteggere i deboli e i bisognosi e come difesa personale, ma un Kirpan non è mai da utilizzare per<br />

scatti di ira.<br />

17


22) Dopo la costruzione del primo tempio fino ad oggi, il luogo di riunione e di preghiera è il<br />

Gurdwara, in cui si deve entrare con il capo coperto, a piedi scalzi e precedentemente lavati. Esso è<br />

individuabile dalla gialla bandiera triangolare che sventola al di sopra del tetto. È lo spazio sacro della<br />

vita religiosa, alla cui bellezza i sich tengono molto. Ciò che rende santo questo spazio è la presenza<br />

del Libro Sacro (il Guru Granth Sahib), che viene venerato come una divinità. Il tempio non ha nessun<br />

orientamento particolare, per cui si entra e si esce da qualsiasi porta. Ovviamente nel Tempio d‟oro il<br />

Maestro Libro è oggetto di un culto particolare, con processioni su portantina d‟oro, con canti. Anche<br />

quando il Libro viene riposto, vi è una cerimonia con cui lo si „pone a riposo‟ sotto una coperta. Vari<br />

di questi riti vengono compiuti in ogni gurdwara, dove si va per ascoltare e per leggere il Libro sacro,<br />

per cantare la lode del Nome, fino ad accedere al suono fondamentale. La lettura del Libro è assicurata<br />

ogni giorno da un sacerdote, il granthi, che agita continuamente una specie di ventaglio<br />

scacciamosche in segno di rispetto.<br />

23) Gran parte della loro vita sociale si svolge attorno ai gurudwara, Ma i gurudwara dei sikh<br />

servono anche da scuola, luogo di riunione, casa di riposo per i pellegrini, centri di formazione e di<br />

lavoro sociale. Qui ogni fedele è invitato a rendersi utile ai suoi fratelli aiutando nelle pulizie dei<br />

locali, servendo acqua fresca ai visitatori assetati o cibo agli affamati, lavorando in cucina, e così di<br />

seguito. L‟aspetto forse più tipico della religione dei sikh sono i langar, “cucine gratuite” annesse ad<br />

ogni tempio. I “refettori comuni” sono aperti a tutti, sikh e non-sikh, brahmini e paria, senza<br />

distinzione. L‟affermazione teoretica dell‟uguaglianza di tutti gli uomini di fronte a Dio trova qui una<br />

concreta applicazione. I langar sono anche un modo di vivere in pratica la “fratellanza umana”. A<br />

sostegno di questo servizio reso ai fratelli ci sono dei sani principi teologici.<br />

24) Guadagnarsi il proprio pane con un lavoro onesto; dividere i propri profitti con gli altri e<br />

meditare sul nome santo del Signore”: è la sintesi di ciò che il sikh crede e pratica. Il far partecipi gli<br />

altri dei propri averi è fonte di gioia e di merito.<br />

25) La parte essenziale della regola giornaliera è la preghiera, in cui si pratica la disciplina del<br />

Nome (secondo le tre ore: il mattino presto, il vespro, la notte prima di coricarsi). Tra tutte le<br />

preghiera la più importante e la più benefica è quella dello japji, composta dal Guru Nānak.<br />

26) Una preghiera sikh: Il tuo nome e la tua gloria siano sempre trionfanti, Nānak, e nella tua<br />

volontà la pace e la prosperità vengano a ciascuno.<br />

27) Diffusione del sikhismo. Oltre che in India esistono numerose comunità sikh nel Regno Unito,<br />

negli USA e nel Canada. C‟è anche un‟importante minoranza sikh in Malesia e a Singapore. Negli<br />

ultimi anni comunità sikh si sono insediate anche in Italia, in particolare nell‟Agro pontino e nella<br />

pianura padana. I più importanti Gurdwara, edifici dedicati al culto sikh, in Italia si trovano a<br />

Novellara, Martignana di Po in provincia di Cremona, Castelgomberto, Maccarese e Piacenza<br />

(Fiorenzuola D‟Arda) e anche a Flero e Borgo San Giacomo.<br />

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