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Quasi una moralità di Urbano Urb<strong>in</strong>ati È il titolo di una poesia di Umberto Saba che mi affasc<strong>in</strong>a anche per il suo splendido attacco, di quelli che non lasciano scampo neanche alle memorie più labili: “Più non mi temono i passeri. Vanno/vengono alla f<strong>in</strong>estra <strong>in</strong>differenti/al mio tranquillo muovermi nella stanza.” Il titolo non mi piace, conv<strong>in</strong>to come sono che toccare un qualsiasi argomento di costume, sia pure del più semplice quotidiano atteggiarsi, significhi attirarsi l’avversione che <strong>in</strong> noi sempre suscita ogni supposto moralista. Non se ne esce: Saba, che avverte il pericolo, lo attenua con un quasi. Ritorno a quel mirabile verso <strong>in</strong>iziale, fatto di nulla con le parole più comuni, eppure semplicemente stupendo. Mi è tornato <strong>in</strong> mente mentre osservavo un giorno mia moglie che, armeggiando <strong>in</strong> giard<strong>in</strong>o, sembrava parlasse con qualcuno. Non vedendo nessuno le chiesi <strong>in</strong>curiosito a chi si rivolgesse. “Guarda!”, mi rispose sottovoce <strong>in</strong>dicando un pettirosso sem<strong>in</strong>ascosto dal fogliame, che ciarliero e impettito stava attentamente seguendo il suo lavoro. “Non ha paura di nulla, puoi parlargli”. Non osai farlo, né avvic<strong>in</strong>armi, sentendomi troppo rustico, quasi un pachiderma nella cristalleria. In quel momento quell’angolo di mondo <strong>in</strong>cantato, <strong>in</strong> cui regnava il più fiducioso dialogo tra creature viventi, mi appariva un eden irraggiungibile alle nostre latitud<strong>in</strong>i, occupate dal regno della malagrazia e della rozzezza. Perché mai, mi chiedo, siamo f<strong>in</strong>iti così <strong>in</strong> basso nei nostri costumi, nei nostri rapporti <strong>in</strong> società, nel l<strong>in</strong>guaggio che usiamo, <strong>in</strong> certi film dell’orrore, sadismo, violenza o altro che pur ci mettiamo <strong>in</strong> fila per poter vedere, <strong>in</strong> trasmissioni televisive che mostriamo di apprezzare e che ci vengono presentate come la qu<strong>in</strong>tessenza della realtà; perché mai adoperiamo una gestualità che def<strong>in</strong>ire rozza è men che un eufemismo, o alziamo spesso la voce da far <strong>in</strong>vidia all’Urlo di Munch per <strong>in</strong>contri che tra persone civili dovrebbero rappresentare dialoghi normali? O ci vestiamo come pezzenti, al colmo della trasandatezza e del malgusto (penso a certi orribili jeans a toppe, strappati ai cani, disperatamente aggrappati ai fianchi, con lunghe frange <strong>in</strong> servizio spazzatura permanente)? Perché, dunque, perché? Il problema non riguarda solo la nostra epoca, se è vero che già Menandro, commediografo greco vissuto circa trecento anni prima di Cristo, se ne usciva con la seguente constatazione: “Com’è piacevole l’uomo, quando è uomo” e il suo coetaneo e grande filosofo Epicuro, sosteneva che “l’uomo sereno procura serenità a sé e agli altri”. L’uno e l’altro battevano l’accento sul term<strong>in</strong>e uomo, sott<strong>in</strong>tendendo e implicitamente richiamando la qualità sua propria che lo dist<strong>in</strong>gue dal rozzo selvaggio. Al quale Rotary<strong>2090</strong> - l’op<strong>in</strong>ione 13 anche fisicamente ormai f<strong>in</strong>iamo per assomigliare se penso, ad esempio, alla moda di certe ispide barbacce e alle dis<strong>in</strong>volte capigliature che hanno <strong>in</strong> odio il pett<strong>in</strong>e e – a torto o a ragione - procurano <strong>in</strong> chi guarda una sensazione di selvaticume (ma escludo, ovviamente, i cultori di ben curate e… legittime barbe). Se si è appannata la qualità uomo, a quella bisognerà rifarsi per risalire la ch<strong>in</strong>a, quella occorrerà perseguire con ogni mezzo a nostra disposizione, a partire dal nostro personale esempio (che ritengo la soluzione più rapida e più efficace), ma attuando soprattutto una persistente azione educativa <strong>in</strong> famiglia e nella scuola naturalmente (senza tanti timori per il c<strong>in</strong>que <strong>in</strong> condotta) e poi ancora nelle associazioni (la nostra <strong>in</strong> prima fila, se non si vuole disperdere il credito f<strong>in</strong>ora accumulato), <strong>in</strong>f<strong>in</strong>e nei partiti politici e per essi anche <strong>in</strong> Parlamento, dove troppo spesso si annida il germe della discordia distruttiva a danno del robusto buon senso che aiuta a comprendere spesso le ragioni degli altri. Si dirà che tutto questo è facile a dirsi, ma che le esortazioni lasciano il tempo che trovano. Lo so bene, purtroppo, non mi è consentito essere <strong>in</strong>genuo alla mia età. Ma, mi chiedo, il non far nulla, il lasciare che tutto vada per il suo verso, è alternativa migliore? Penso, ad esempio, che la violenza verbale e fisica (ma più la seconda che la prima), possa essere efficacemente combattuta. Benedetto Croce sosteneva che “la violenza non è forza, né mai può essere creatrice di cosa alcuna ma soltanto distruggitrice”. Ricordo en passant che qualcuno ha ironicamente fatto notare il lieto esito della vicenda dei sessantott<strong>in</strong>i, scivolati tranquillamente dalla strategia della tensione alla strategia della pensione. Oggi, a scuola, i moderni violenti - i cosiddetti bulli - non hanno neanche una strategia, rompono e scassano solo per v<strong>in</strong>cere la noia, pover<strong>in</strong>i… In questi casi, poiché non mi reputo un buonista, la tentazione di mandare queste amabili creature a riflettere al fresco (galera o ri<strong>formato</strong>rio secondo l’età) è forte e non riesco proprio a scrollarmela di dosso. Buon per loro che non spetti a me decidere. Noi purtroppo, noi <strong>in</strong> generale buonisti e <strong>in</strong>decisi a tutto, la peste f<strong>in</strong>iamo per tenercela <strong>in</strong> casa, cullandola con la più scandalosa tolleranza. Rivolgendosi a un ipotetico fanciullo Umberto Saba gli ricorda che “ancora esiste la Grazia (con la maiuscola nel testo) e che il mondo – TUTTO IL MONDO – ha bisogno d’amicizia”. E’ la sua piccola-grande moralità. Che fare, dunque, o gentile poeta, di fronte alla scorza ruvida di tanti <strong>in</strong>dividui (troppi!) che l’amicizia la rifiutano, e anche la grazia, esigenza primaria oggi di questo nostro sgangherato mondo?