numero 1/2011 - Collegio Universitario Lamaro Pozzani

Collegio Universitario “Lamaro Pozzani” - Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoro
panorama
per i giovani
Collegio Universitario “Lamaro Pozzani” - Via Saredo 74 - Roma - Quadrimestrale - POSTA TARGET CREATIVE Aut. n. S/SA0188/2008 valida dal 01/07/2008 - anno XLIV - n. 1 - gennaio-aprile 2011
STORIA AMERICANA
DIRITTI UMANI
Schiavitù, segregazione
e libertà
CINA
Il viaggio del
Collegio “Lamaro Pozzani”
ALMALAUREA
I dati sui laureati
in Ingegneria
La Guerra di Secessione

Eccellenza negli studi
Il Collegio “Lamaro Pozzani” ospita a Roma
gratuitamente studenti, di tutte le facoltà e di
tutte le regioni, che hanno superato una selezione
seria e accurata, in cui contano solo la
preparazione e le capacità. A loro chiediamo di
frequentare con successo l’università, laureandosi
in corso e con il massimo dei voti, ma
anche di partecipare alle attività del Collegio.
Più che una laurea
I nostri studenti sono diventati docenti e ricercatori, imprenditori
e dirigenti d’azienda, professionisti, funzionari della pubblica
amministrazione. Lavorano in Italia e all’estero in posizioni di
responsabilità. Questi risultati sono stati raggiunti anche perché
in Collegio hanno frequentato corsi di economia, diritto, informatica.
Hanno viaggiato e imparato a parlare correntemente l’inglese
e altre lingue straniere. E hanno incontrato e conosciuto personalità
politiche, grandi studiosi, manager di successo.
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Un impegno da vivere insieme
Vi troverete a fianco di settanta ragazze e
ragazzi che saranno fra i vostri migliori amici e
vi aiuteranno a considerare il Collegio la vostra
“casa”. Il tempo dello studio, per un giovane
universitario, non può che integrarsi con il
tempo della vita: un’esperienza di libertà e
responsabilità decisiva per il futuro umano, professionale
e culturale di ciascuno.
Collegio Universitario “Lamaro Pozzani”
Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoro

Sommario
panorama per i giovani
n. 1, gennaio-aprile 2011
3. Editoriale
di Stefano Semplici
La Guerra di Secessione
4. Dall’Unione alla Secessione
Come si arrivò alla Guerra di Secessione
americana.
di Manuel Trambaiolli
6. Il peccato originale della
Costituzione americana
La schiavitù nella Costituzione di Filadelfi a.
di Henri Ibi
7. Se la realtà vince la leggenda
Robert E. Lee e Thomas J. Jackson,
gentiluomini d’onore in un tempo
sbagliato.
di Enrico Mantovano
10. Lincoln e il potere della parola
Un grande politico, ma anche un abile
oratore.
di Carlotta Orlando
12. Da Jefferson a Lincoln fi no a Obama
La lunga notte dei neri d’America per
l’uguaglianza.
di Aleksandra Arsova e Angelo Filippi
16. Un paese diffi cile
La Guerra di Secessione non si è
conclusa con la pace del 1865.
di Gianvito Masi
16. L’apartheid
La segregazione in Sudafrica.
di Elena Martini
17. I Cavalieri dell’America bianca
Il Ku Klux Klan.
di Elena Martini
18. Voci dai giorni della schiavitù
Registrazioni dalla Biblioteca del Congresso.
di Francesca Parlati
19. Jefferson-Hemings
La relazione fra Thomas Jefferson e la
schiava Sally Hemings.
di Francesca Parlati
20. Tea Party vecchi e nuovi
Un movimento politico che suscita qualche
preoccupazione negli Stati Uniti.
di Claudia Macaluso
21. Così ci ha unito la Guerra Civile...
Le testimonianze cinematografi che.
di Selene Favuzzi
22. La sporcizia colta
Il jazz non è solo un genere musicale: è
anche uno stile di vita.
di Carmelo Di Natale
25. Quando una legge non basta
Le conseguenze della segregazione.
di Giovanni Benvenuto
28. La secessione nel diritto
internazionale
Tra autodeterminazione dei popoli e
integrità territoriale.
di Gabriele Rosana
30. La schiavitù era cosa buona e giusta
Filosofi e giuristi antichi non si opposero
mai alla schiavitù.
di Nicola Lattanzi e Donato Sambugaro
33. Alcune incongruità della schiavitù
La schiavitù da un punto di vista
economico: un sistema ineffi ciente.
di Giuseppe Grazioso
36. La nuova schiavitù
Prostituzione e lavoro minorile: milioni di
nuovi schiavi sono bambini.
di Natalia Pazzaglia
37. Lo sfruttamento nei campi
e nei cantieri italiani
I fatti di Rosarno hanno portato alla luce
una triste realtà.
di Livio Ghilardi e Chiara Curia
39. Post scripta
di Carlo Lotti
Primo Piano
40. Il Festival della cultura russa
Un’occasione per conoscere un paese
molto vicino all’Italia.
di Claudia Macaluso
42. Il paese dei dragoni
Il viaggio del Collegio “Lamaro Pozzani”
in Cina.
di Selene Favuzzi
46. Finalmente la laurea. E ora?
In Italia la laurea in Ingegneria è ancora
una garanzia per un lavoro a tempo
pieno?
di Lin Strobio Chen
Dal Collegio
48. Incontri
Gli incontri del Collegio “Lamaro Pozzani”.
Un berretto
dell’esercito
dell’Unione (Foto:
iStockphoto.com/
DNY59).
PANORAMA PER I GIOVANI
Periodico della Federazione Nazionale
dei Cavalieri del Lavoro - Roma
Anno XLIV - n. 1 - gennaio-aprile 2011
Direttore responsabile
Mario Sarcinelli
Direttore editoriale
Stefano Semplici
Segretario di redazione
Piero Polidoro
Redazione: Carmelo Di Natale, Selene
Favuzzi, Elisa Giacalone, Nicola Lattanzi,
Claudia Macaluso, Beatrice Poles, Maria
Teresa Rachetta, Gabriele Rosana,
Donato Andrea Sambugaro, Sara Simone,
Andrea Trafi cante.
Direzione: presso il Collegio Universitario
“Lamaro Pozzani” - Via Saredo 74 -
00173 Roma, tel. 0672.971.322 - fax
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Internet: www.collegiocavalieri.it
E-mail: segreteria@collegiocavalieri.it
Agli autori spetta la responsabilità degli
articoli, alla direzione l’orientamento scientifi
co e culturale della Rivista. Né gli uni, né
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dei Cavalieri del Lavoro.
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sul sito: www.collegiocavalieri.it
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Tribunale di Roma n. 361/2008 del
13/10/2008.
Scriveteci
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Collegio Universitario “Lamaro Pozzani” - Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoro
panorama
per i giovani
Collegio Universitario “Lamaro Pozzani” - Via Saredo 74 - Roma - Quadrimestrale - Tariffa R.O.C.: “Poste italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 N° 46) art. 1 comma 1, DCB Modena” - anno XLII - n. 3 - settembre-dicembre 2009
AMBIENTE
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ECONOMIA
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La L storia dell’I
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per i giovani
INTERVISTE
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In questo 2011 l’Italia celebra, con passioni alterne e passo
incerto, la sua unità nazionale. Anche per gli Stati Uniti sono
passati centocinquanta anni dal momento probabilmente più
drammatico della loro storia. Il 17 febbraio del 1861 Jefferson
Davis si insediava come presidente della Confederazione
degli Stati del Sud, mentre a Washington iniziava il suo primo
mandato Abraham Lincoln. Poche settimane dopo, con i
primi colpi di cannone sparati a Fort Sumter, inizierà la guerra
di secessione, che si concluderà dopo quattro anni con diverse
centinaia di migliaia morti sui campi di battaglia e nei territori
attraversati dagli eserciti in lotta, saccheggi, devastazioni e una
“conquista” che è diventata, non solo per gli americani, il sigillo
simbolico di questo dramma: la fi ne della schiavitù. Davis non
avrà successori, ma morirà nel suo letto nel 1889. Lincoln verrà
ucciso a teatro da un attore fi no a quel momento sconosciuto,
subito dopo la resa del nemico. Toccò ad altri il diffi cile governo
della vittoria dell’Unione. Egli entrò in questo modo direttamente
nel mito.
È diffi cile parlare della guerra civile americana senza parlare
di quello che Martin Luther King defi nì il grande “ma” di questa
grande nazione. L’America – così egli scrive-
va – ha offerto al mondo, con la Dichiarazione
di Indipendenza, “la più eloquente e non ambigua
espressione della dignità dell’uomo che sia
mai stata racchiusa in un documento politicosociologico”.
Ha raggiunto le più avanzate e
inimmaginabili frontiere della tecnologia. E
tuttavia “questo ma è un commento ai duecento
e più anni di totale schiavitù e ai venti milioni
di uomini e donne di razza nera privati della
vita, della libertà e della ricerca della felicità”.
Questa fondamentale linea di confl itto non può
naturalmente essere minimizzata. Può però essere
meglio compresa e la rifl essione che proponiamo in questo
fascicolo cerca di farlo seguendo due piste di ricerca.
Una è quella che, partendo dalle radici lontane della schiavitù
e delle tante asimmetrie del riconoscimento, giunge alle nuove
forme di sfruttamento degli esseri umani in un mondo che si era
impegnato con la Dichiarazione delle Nazioni Unite del 1948
alla tutela universale dei loro diritti fondamentali. Il pensiero
corre alla tesi di Aristotele sulla guerra “giusta” condotta contro
coloro che sono nati per essere schiavi e non si sottomettono
spontaneamente. Ma anche, per restare all’America, alla disputa
che vide contrapporsi Bartolomé de Las Casas e Juan Ginés de
Sepùlveda, in pieno Cinquecento, sul modo in cui considerare
e conseguentemente trattare gli indigeni del nuovo continente.
Era stata necessaria addirittura una bolla pontifi cia, qualche anno
prima del celebre confronto fra il domenicano e l’umanista alla
corte di Carlo V, per stabilire il diritto di tutte le popolazioni
Editoriale
È diffi cile parlare
della guerra civile
americana
senza parlare
di quello che Martin
Luther King defi nì il
grande “ma”
di questa nazione.
“che potranno essere scoperte dai cristiani” a esercitare il dominio
sulle cose proprie e a non essere “ridotte in schiavitù” (Paolo
III, Veritas Ipsa).
Il secondo tema, altrettanto importante, è quello del contesto
più ampio nel quale maturarono le cause profonde della secessione
e quindi di una guerra che per lo stesso Lincoln fu prima
di tutto in difesa dell’Unione: solo nel settembre del 1862 il
presidente promulgò il Proclama di emancipazione, decidendosi
infi ne per una rottura radicale sulla quale negli anni precedenti
non si era in realtà espresso in modo altrettanto chiaro e univoco.
È qui che bisogna scavare, anche per capire le ragioni che portarono
alla vittoria fi nale del Nord, che era avanti per popolazione,
industrializzazione, infrastrutture. Si pensi che, alla vigilia della
guerra, gli investimenti industriali al Nord erano quasi nove volte
superiori rispetto al Sud. Questa differenza era ben chiara allo
stesso presidente Davis, che nel suo discorso di insediamento
sottolineò che a reclamare il diritto “a modifi care o abolire i governi
quando essi diventano distruttivi per i fi ni per i quali sono
stati istituiti” era appunto “un popolo agricolo”, che chiedeva
adesso di vivere in pace con la comunità manifatturiera e marittima
degli stati dai quali si era staccato. E
Rhett Butler/Clark Gable cercherà invano di
spiegare ai partecipanti alla grande festa con
la quale si apre Via col vento, il monumento
hollywoodiano all’epica della guerra civile,
che la Confederazione perderà, perché non ha
le fabbriche di cannoni e la possibilità di opporsi
effi cacemente alle navi che, stringendo
le sue coste, renderanno diffi cile scambiare il
Re cotone con tutti gli altri beni, a partire dal
cibo, che il Sud era costretto a importare.
Il compito della “liberazione” degli schiavi
non fi nì nel 1865. Un secolo più tardi, John
Kennedy rilancerà ancora l’interrogativo su un paese “libero per
tutti, fuorché per i neri”, senza divisioni di classe, ghetti o razze
privile giate, “eccetto per quanto riguarda i neri”. La legge sui
diritti civili venne approvata solo nel gennaio del 1964, dopo la
sua morte e dopo la famosa marcia dei 250.000 voluta da Martin
Luther King per avvicinare il suo “sogno” di vedere i fi gli degli
antichi schiavi e quelli dei loro proprietari “sedere insieme al
tavolo della fratellanza”. Non basta neppure che Barack Obama
sia entrato alla Casa Bianca per dire che quel sogno si è davvero
realizzato. Quel che è certo, invece, è che gli Stati Uniti sono
diventati la prima potenza del mondo. I fatti sembrano proprio
aver dimostrato che Lincoln guardava lontano quando diceva di
voler salvare l’Unione a ogni costo. Fosse pure quello di una
guerra contro la secessione, mentre in Italia ancora non erano
fi nite quelle per l’Unità.
Stefano Semplici
panorama per i giovani • 3

La Guerra di Secessione
Dall’Unione alla Secessione
In the 19th century, the economy of the Northern States was based on industry
and commerce, while the South had a settled plantation system, which
depended on slaves. One of the main causes of the American civil war was
slavery and, in particular, the dispute over its expansion into the western
States. The election of Abraham Lincoln in 1860 was the fi nal trigger for the
war: the slave States were afraid of being a perpetual minority in the Senate
and declared their secession from the Union.
di Manuel Trambaiolli
Per un paese grande quanto un continente,
gli Stati Uniti, il periodo dall’aprile 1861
all’aprile 1865 fu funestato dalla più crudele
delle guerre, la guerra civile. Centinaia
di migliaia di combattenti caddero sui
CRONOLOGIA
della Guerra Civile Americana
1861
12-13 aprile: il bombardamento da
parte dei Sudisti di Fort Sumter a
Charleston dà inizio alla
guerra.
21 luglio: l’esercito dell’Unione
viene sconfi tto nella battaglia
presso il corso d’acqua Bull Run
in Virginia.
4 • n. 1, gennaio-aprile 2011
campi di battaglia nel sanguinoso confl itto
fratricida che contrappose gli Stati del
Nord a quelli del Sud. È impossibile fi ssare
con una data precisa le lontane origini
di tale guerra: è necessario un lungo
1862
25 giugno-1° luglio: con le
“Battaglie dei sette giorni” i
Nordisti, che avevano l’obiettivo
di conquistare Richmond, sono
costretti a lasciare la Virginia
settentrionale. Il 30 agosto
subiscono una nuova sconfi tta
presso il Bull Run.
17 settembre: l’invasione Sudista
del Maryland viene bloccata
dall’esercito dell’Unione nella
sanguinosa battaglia di Antietam.
22 settembre: Lincoln approva il
Proclama di emancipazione, che
decreta la liberazione degli schiavi
nei territori degli Stati Confederati
dal 1° gennaio 1863.
1863
1-4 maggio: a Chancellorsville, in
Virginia, i Confederati sconfi ggono
le forze dell’Unione.
1-3 luglio: l’invasione del Nord da
parte delle truppe Confederate
viene fermata a Gettysburg, in
Pennsylvania.
cammino nelle vicende di questa nazione.
La storia ebbe inizio quando le ex-colonie
inglesi, che occupavano solo una striscia
della costa atlantica, dichiararono nel 1776
la loro indipendenza dalla madre patria.
L’espansione territoriale degli Stati Uniti
si attuò nella prima metà dell’Ottocento
secondo due direttrici: verso Ovest e verso
Sud. La corsa all’Ovest fu il risultato dell’iniziativa
dei pionieri, ma fu anche appoggiata
dal potere centrale, soprattutto per quel che
riguardava i confl itti con gli Indiani, mentre
l’espansione a Sud si realizzò attraverso
l’acquisto della Louisiana – un territorio che
comprendeva 15 degli attuali Stati americani
e parti di due province del Canada – e della
Florida. Intorno alla metà dell’Ottocento gli
19-20 settembre: l’esercito
unionista subisce una pesante
sconfi tta in Georgia nella battaglia
di Chickamauga.
19 novembre: a Gettysburg,
durante la cerimonia di
inaugurazione del cimitero
dei caduti, Lincoln pronuncia
un memorabile discorso nel
quale defi nisce le basi su
cui si deve fondare la futura
nazione statunitense: “Che
qui solennemente si prometta
che questi morti non
sono morti invano; che questa
Foto: iStockphoto (RLWPhotos; lillisphotography)

Stati Uniti erano quindi un paese in continua
espansione, grazie anche all’ininterrotto fl usso
migratorio proveniente dall’Europa.
All’eccezionale vivacità economica e
al fermento sociale facevano però riscontro
profonde divergenze interne, legate a
due modelli di società, corrispondenti a
due diverse zone del paese. Il Nord-Est era
la zona più ricca e progredita e vi sorgevano
i principali centri urbani: si trattava
di un ambiente in continua trasformazione,
che aveva conosciuto un rapido sviluppo
industriale ed era profondamente infl uenzato
dai valori del capitalismo imprenditoriale.
Gli Stati del Sud avevano invece una
struttura sociale profondamente tradizionalista
e un’economia basata sulle grandi
piantagioni di cotone, ma anche di tabacco
e di canna da zucchero, dove lavoravano
gli schiavi neri discendenti da coloro che
erano stati portati forzatamente in America
nel Settecento. Per quanto lontano si cerchi
di risalire, nella storia dell’Unione vi sono
sempre state notevoli differenze tra il Nord
e il Sud. Il problema dello schiavismo rappresentò
certamente una delle ragioni principali
del confl itto, ma funse soprattutto
da catalizzatore di tutti i motivi di attrito e
di incomprensione esistenti tra Nordisti e
Sudisti che non avevano trovato soluzione.
Già dall’inizio dell’Ottocento, negli
Stati del Nord la schiavitù aveva lasciato
il posto a una manodopera libera, mobile
e a basso costo, che trovava impiego nelle
industrie, mentre al Sud la presenza degli
schiavi era essenziale per permettere il
mantenimento di un sistema economico
basato sull’agricoltura latifondistica, che
richiedeva una forza lavoro molto numerosa.
Sebbene la maggior parte delle famiglie
del Sud non possedesse schiavi o avesse un
numero esiguo di servitori, vi furono due
fattori di ordine ideologico che spinsero i
Sudisti a difendere la causa dello schiavismo.
Da un lato molti agricoltori aspirava-
nazione, guidata da Dio, abbia
una rinascita di libertà; e che il
governo del popolo, dal popolo,
per il popolo non scompaia dalla
faccia della Terra”.
1864
5-7 maggio: le truppe nordiste
dirette verso Richmond vengono
fermate a Wilderness.
1-3 giugno: le forze dell’Unione,
nonostante la sconfi tta di Cold
Harbor, proseguono la loro marcia
verso sud.
no a migliorare il proprio status sociale, divenendo
un giorno proprietari di un grande
numero di schiavi; dall’altro era radicata
nella popolazione la fede nella superiorità
dell’uomo bianco. Serpeggiava inoltre il
timore delle ritorsioni che l’abolizione della
schiavitù avrebbe potuto determinare in
territori dove la maggioranza della popolazione
lavorava nelle piantagioni di cotone.
La questione dello schiavismo tornò prepotentemente
in auge nel 1819, in seguito alla
richiesta di annessione all’Unione da parte
del Missouri, la cui Costituzione ammetteva
questo istituto
giuridico. L’ingresso
di questo Stato
avrebbe determinato
una perdita
della condizione di
parità numerica tra
Stati “liberi” e schiavisti, con conseguente
sbilanciamento nel Senato tra membri favorevoli
e contrari allo schiavismo. Dopo lunghe
controversie giuridiche, nel 1820 il Congresso
scelse una soluzione di compromesso,
ammettendo il Missouri come Stato schiavista,
con l’obbligo, tuttavia, di non introdurre
nuovi schiavi nel suo territorio e creando, per
ristabilire l’equilibrio politico, il Maine come
nuovo territorio “libero”. Si decise inoltre,
16 giugno: l’esercito nordista
passa a Sud del fi ume James
e raggiunge Petersburg, dove
inizia una guerra di posizione che
durerà dieci mesi.
2 settembre: il generale Sherman
guida le truppe federali alla
conquista di Atlanta, capitale della
Georgia.
1865
4 marzo: in occasione del
secondo insediamento alla carica
di Presidente degli Stati Uniti,
La Guerra di Secessione
Sopra: il cimitero militare di Gettysburg.
Nella pagina precedente: un drappello di
Sudisti in una stampa del 1862.
per le future annessioni, di considerare come
frontiera tra Stati “liberi” e Stati schiavisti il
parallelo di latitudine 36° 30’.
Ad allargare la frattura tra le due parti
dell’Unione contribuì l’approvazione da
parte del Congresso del Fugitive Slave Bill,
la legge che autorizzava la caccia ai servi
fuggiaschi anche negli Stati non schiavisti
e la loro riconsegna ai proprietari. Nel Nord
degli Stati Uniti si scatenò un’ondata di indi-
Lo schiavismo fu una delle
ragioni principali del confl itto,
ma fu anche il catalizzatore di
altri attriti fra Nordisti e Sudisti.
Lincoln ribadisce come l’obiettivo
primario sia quello di restaurare
l’integrità dell’Unione:
“Con malanimo verso nessuno,
con carità per tutti, con fermezza
nella giustizia... lottiamo per
portare a termine l’opera iniziata;
per sanare le ferite del Paese, per
aver cura di chi sostenne il peso
della lotta... per fare tutto quello
che può assicurare e mantenere
una pace giusta e durevole fra noi
e tutte le nazioni”.
3 aprile: i Nordisti entrano
a Richmond, capitale della
gnazione e di collera, che portò all’emanazione
delle Personal Liberty Laws – in netta
opposizione al Bill – e al moltiplicarsi delle
iniziative clandestine per aiutare i fuggitivi
a raggiungere il Canada, dove in virtù delle
leggi inglesi acquisivano di diritto la libertà.
Un altro terreno su cui si consumarono
duri scontri fu rappresentato dalla politica
commerciale. Nel 1828 il Congresso approvò
un dazio sulle importazioni estere con lo
Confederazione.
9 aprile: con la battaglia di
Appomattox l’Armata della Virginia
settentrionale dichiara la propria
resa. Tra aprile e maggio si
arrendono anche le ultime unità
sudiste in Carolina del Nord,
nell’Alabama e nel Mississippi.
panorama per i giovani • 5

La Guerra di Secessione
scopo di proteggere le industrie del Nord
dalla concorrenza europea. A questo atto
fecero però seguito feroci proteste da parte
degli Stati schiavisti. La Carolina del Sud,
in particolare, propose il principio di “nullifi
cazione”, secondo cui uno Stato aveva il
diritto di ritenere non valide le leggi federali
che fossero contrarie allo spirito della Costituzione
e volte a ledere i propri interessi. Il
pericolo di disgregazione dell’Unione venne
però scongiurato dalla minaccia di un intervento
armato da parte del presidente Jackson
in Carolina e dalle successive leggi fi scali,
redatte dai rappresentanti del Sud, che prevedevano
una progressiva riduzione dei
dazi. Se è vero che il dibattito in merito al
regime protezionistico non rappresentò uno
dei motivi che condusse alla secessione, è
però indiscutibile che contribuì ad alimentare
le ostilità e le incomprensioni esistenti tra
il Nord e il Sud dell’Unione.
Ulteriori contrasti derivavano dal fatto
che il Nord era favorevole a una rapida
distribuzione delle terre statali ai piccoli
proprietari, tanto che si andava sviluppando
una forte richiesta di appezzamenti gratuiti
di terreno. Il Sud, invece, voleva che il patrimonio
demaniale fosse mantenuto e che le
terre venissero vendute solo dietro congruo
compenso. Negli Stati del Nord, dove si
chiedeva un effi ciente sistema bancario, si
era inoltre creata una classe media compatta,
più democratica, mentre al Sud, ostile a
un accentramento bancario, l’oligarchia costituita
dai proprietari di schiavi deteneva la
maggior parte della ricchezza e del potere.
Le divergenze tra i due diversi modelli di
società erano in defi nitiva numerose e profonde
e lo scontro sulla questione della schiavitù
faceva sentire i suoi effetti anche in campo
politico. Con l’inizio degli anni Cinquanta
del XIX secolo, i due grandi partiti che avevano
dominato la scena politica nei decenni
precedenti entrarono in crisi. I Democratici,
identifi candosi sempre di più con gli interessi
dei grandi proprietari schiavisti, persero molti
consensi sia al Nord sia all’Ovest, mentre il
partito Whig si dissolse nel giro di pochi anni
a causa di divisioni interne. Da questa crisi
nacque il Partito Repubblicano, che faceva
proprie sia le rivendicazioni protezionistiche
degli industriali del Nord, sia le richieste di
terre dei coloni dell’Ovest, collocandosi su
posizioni antischiaviste.
Alle elezioni presidenziali del 1860 il
Partito Repubblicano propose come candidato
Abraham Lincoln, un avvocato di salde
convinzioni democratiche proveniente
6 • n. 1, gennaio-aprile 2011
dal Kentucky. Nonostante fosse un convinto
avversario dello schiavismo, Lincoln
non era un abolizionista radicale e durante
la sua campagna elettorale negò qualsiasi
intenzione di abolire la schiavitù negli
Stati dove già esisteva. Al tempo stesso era
perfettamente consapevole che attraverso
questa questione si sarebbe giocato il destino
dell’Unione e che pertanto l’obiettivo
primario del Presidente degli Stati Uniti
sarebbe stato quello di preservare l’integrità
della nazione indipendentemente dalle
proprie convinzioni personali. Lincoln
scrisse in una lettera inviata nel 1862 al
NewYork Tribune: “Se potessi salvare l’Unione
senza liberare nessuno schiavo, io lo
farei; e se potessi salvarla liberando tutti
gli schiavi, io lo farei. Quello che faccio
al riguardo della schiavitù, e della razza di
colore, lo faccio perché credo che aiuti a
salvare l’Unione”.
A seguito dell’elezione di Lincoln alla
presidenza, la Carolina del Sud decise di
SCHIAVITÙ
Il peccato originale della
Costituzione americana.
di Henri Ibi
Nel 1776 la Dichiarazione di
Indipendenza degli Stati Uniti
affermava l’uguaglianza e la libertà
di tutti gli uomini, ma la Costituzione
di Filadelfi a del 1787 negava questi
principi, legalizzando la schiavitù e la
tratta di esseri umani.
La Dichiarazione di Indipendenza
degli Stati Uniti d’America del 4 luglio
1776 afferma che “tutti gli uomini
sono stati creati uguali, che essi sono
dotati dal loro Creatore di alcuni diritti
inalienabili, che fra questi sono la vita,
la libertà e la ricerca della felicità”. Si
tratta di diritti riconosciuti formalmente
a tutti, ma che erano effettivamente
tutelati solo per i cittadini bianchi, non
avendo la popolazione nera nemmeno
il diritto di adire l’autorità giudiziaria,
concludere contratti o possedere una
proprietà.
La situazione dei neri restò del tutto
immutata anche con l’entrata in
vigore della Costituzione di Filadelfi a
del 1787 e fi no al 1865, quando,
con la ratifi ca del tredicesimo
emendamento, venne uffi cialmente
abolita la schiavitù nel paese. La
Costituzione, pur ispirata ai valori della
libertà e dell’uguaglianza giuridica
dei cittadini, protesse la schiavitù
perfi no legalizzando la subordinazione
indire nel dicembre del 1860 una convenzione
in cui annunciò la propria secessione.
Il motivo erano le inadempienze degli
obblighi costituzionali da parte degli Stati
del Nord, a causa del mancato rispetto
della legge sugli schiavi fuggitivi e del diritto
dei Sudisti di mantenere la proprietà
sui servi anche in territori non schiavisti.
Dopo la Carolina del Sud, tra il dicembre
1860 e il maggio 1861, altri sei Stati si
staccarono dall’Unione e si costituirono
in una Confederazione indipendente.
Se a provocare la guerra fu un episodio
di modesta portata, la battaglia di Fort
Sumter, le passioni e gli odi che la sostennero
furono violenti e profondi. L’esito
del confl itto fu a lungo incerto, ma anche
dopo la vittoria degli Unionisti e l’abolizione
dello schiavismo, i contrasti tra Nord
e Sud non si placarono, sfociando infi ne,
all’indomani della guerra, nell’assassinio
del presidente Lincoln e nell’occupazione
militare del Sud per più di dieci anni.
razziale. Essa disponeva infatti, alla
sezione 9 del suo articolo 1, che
l’importazione degli schiavi (che la
costituzione chiamava ambiguamente
“persone”, quasi a voler subdolamente
celare la contraddizione in termini
tra la garanzia della libertà e la
legittimazione della schiavitù)
non potesse essere vietata dal
Congresso prima del 1808. La tratta
dei neri provenienti dal continente
africano (pratica che si perpetrava
da più di tre secoli e che può essere
considerata il più grande commercio
di schiavi della storia) continuò
però imperterrita anche dopo l’anno
stabilito nel testo fondamentale dello
Stato, in mancanza di un atto del
Congresso volto a dare attuazione alla
disposizione costituzionale.
Il mantenimento della schiavitù, come
molti studiosi hanno sostenuto, è stato
giustifi cato per lo più da necessità
economiche e di organizzazione
dell’assetto socio-produttivo, che
poggiava quasi sempre, direttamente
o indirettamente, su questa pratica.
Soltanto dopo anni di lotte e una
sanguinosa guerra civile gli schiavi
neri ottennero, con l’emanazione
degli emendamenti degli anni 1865-
1870, i pieni diritti di cittadinanza e lo
status giuridico di uomini liberi, senza
più alcuna distinzione di razza e di
colore. Per la fi ne della segregazione
e per una pari dignità tra bianchi e
neri bisognerà attendere ancora un
secolo…

Se la realtà vince
la leggenda
The strange case of Robert E. Lee and Thomas J. Jackson. Two gentlemen and
men of honour at the wrong time. And on the wrong side...
di Enrico Mantovano
La nebbia fi tta che avvolge i bastioni di
Fort Sumter accompagna il passo marcato
delle sentinelle che si danno il cambio
sulle balaustre, mentre il sole tarda
a rischiarare l’alba di questo 12 aprile
dell’Anno Domini 1861. Sono da poco
passate le 4 del mattino quando l’oscurità
tetra della notte di Charleston viene
squarciata da un lampo in lontananza, un
un episodio tutto sommato
secondario, ma ebbe grandi
ripercussioni sulla storia degli Usa.
tonfo sordo sulle acque della Carolina.
Ognuno dei soldati schierati sugli spalti è
consapevole di ciò che sta per succedere:
da giorni le minacce si susseguono agli
ultimatum, la tensione cresce, i nervi non
sono più così saldi. Ma la luce improv-
Foto: iStockphoto/fotosmania L’assedio di Fort Sumter fu
visa dall’altra parte del porto è qualcosa
alla quale nemmeno la più salda delle
giacche blu assiepate sui merli del forte
è del tutto preparata. Le mura tremano
da cima a fondo mentre il rombo cupo
del cannone si perde nell’oscurità e una
pioggia di polvere e detriti si abbatte sulla
guarnigione attonita. È solo l’inizio. I
43 mortai sudisti vomiteranno fuoco su
Fort Sumter per
le successive 34
ore, senza sosta,
senza tregua. Il
maggiore Anderson,
comandante
della guarnigione
del forte, ammainerà la bandiera dell’Unione
nel primo pomeriggio del 14 aprile:
la sua ritirata verso Nord, con quel
pezzo di stoffa a stelle e strisce, diven-
terà ben preso un simbolo per l’intera
nazione.
La Guerra di Secessione
Sopra: la ritirata sudista a Gettysburg.
È strano come un episodio tutto sommato
secondario come l’assedio di Fort
Sumter abbia avuto ripercussioni così devastanti
sulla storia di quella che sarebbe
diventata la prima democrazia mondiale:
per un curioso scherzo del destino, l’unico
morto di tutta la vicenda fu un artigliere
unionista colpito dalla maldestra
esecuzione del colpo a salve che doveva
certifi care la resa. In seguito alla conquista
sudista del forte, il presidente Lincoln
dichiarerà guerra alla Confederazione degli
Stati del Sud, dando inizio a un confl
itto che segnerà in maniera indelebile la
coscienza e la memoria americana.
John Ford, maestro indiscusso del cinema
yankee, nel fi lm che probabilmente
racchiude in sé l’epitaffi o del western
classico, mette in bocca a uno dei suoi
protagonisti la frase che meglio incarna
l’approccio americano alla storia nazionale:
“Qui siamo nel West, dove se la leggenda
diventa realtà, vince la leggenda”.
Ne L’uomo che uccise Liberty Valance
questo monito è pronunciato dal direttore
di un giornale che si ritrova tra le mani
una notizia scottante, la confessione di
un senatore che deve la propria carriera
all’omicidio di un pericoloso bandito:
peccato che il vero giustiziere non sia lui.
panorama per i giovani • 7

La Guerra di Secessione
Eppure, il rifi uto del giornalista di pubblicare
la realtà, preferendo mantenere intatta
la leggenda, rifl ette appieno il cast of
mind americano. Una catalogazione della
storia che coinvolge le origini rivoluzionarie
degli Stati Uniti e travolge a maggior
ragione anche la percezione odierna della
Guerra di Secessione. A centocinquanta
anni dallo scoppio di quella che è considerata
la prima guerra moderna, i protagonisti
ne escono avvolti dai fumi della
tradizione letteraria più che da una attenta
analisi storiografi ca: questo approccio interessato
e costantemente revisionista è
fi glio anche di una riappacifi cazione mai
realmente compiuta. Gli strascichi del
confl itto civile continuano a ripercuotersi
nell’America odierna in una maniera che
è diffi cile concepire al di qua dell’Oceano:
essere Sudisti (o Nordisti) è oggi molto più
di ciò che appare al pasciuto intellettuale
europeo come una mera e anacronistica
catalogazione fi ne a se stessa. È appartenenza
a tutti gli effetti, è schieramento
inequivocabile e denso di signifi cati pratici
e metafi sici: dal cinema alla letteratura
fi no alla musica, le divisioni della guerra
civile continuano a ripercuotersi sull’anima
di un Paese che all’apparenza viaggia
“obamamente” verso la coesione etnica e
politica. Basti pensare alle numerose e variegate
commemorazioni nostalgiche che
stanno caratterizzando su ambo i fronti
il centocinquantesimo anniversario dello
scoppio del confl itto.
Dal marasma indistinto delle recriminazioni
passate emergono però una serie
di storie che si stagliano nella memoria
collettiva del melting pot americano: fi -
gure di uomini che un tempo comandarono,
lottarono, furono re e caddero, ma
attorno alle cui tombe un’intera nazione
si raccoglie e medita. Dovendosi scrive-
La mitologia americana ha subito
decretato una netta distinzione
fra buoni e cattivi, coincidente
con quella fra vincitori e vinti.
re una tragedia shakespeariana su ciò che
accadde in quei quattro sanguinosissimi
anni, l’imbarazzo della scelta sarebbe
senza dubbio l’unico problema nell’assegnazione
del ruolo da protagonista. La
mitologia americana ha decretato fi n da
subito una netta distinzione tra buoni e
cattivi, coincidente una volta ancora con
8 • n. 1, gennaio-aprile 2011
quella tra vincitori e vinti: per lungo tempo
i Nordisti sono stati considerati “quelli
senza macchia”, incarnazione del bene
assoluto in guerra contro i rednecks, rozzi
e violenti abitanti delle lande meridionali.
E anche i personaggi di spicco delle vicende
belliche hanno risentito di questa
vera e propria damnatio memoriae: la
beatifi cazione civile di Abramo Lincoln
è andata avanti con tempi che avrebbero
fatto impallidire anche la fulminea elevazione
di San Francesco agli altari della
santità e così per tutti gli esponenti di
spicco dell’entourage dei vincitori. Naturale
contraltare di una condanna umana
e sociale per i capi del Sud, rappresentati
nell’iconografi a moderna come emissari
luciferini di un oscuro disegno globale.
Giocare con il sangue dei vinti è uno
sport diffuso nelle democrazie occidentali.
Anche in Italia gli esempi sono sotto
gli occhi di tutti: in un contesto che ha
visto morire oltre 625.000 americani, più
che nelle due Guerre Mondiali messe insieme,
questo vortice malevolo rischia di
tramutarsi presto in una macchina del fango
generalizzata. E a farne le spese sono
fi gure che per la loro statura dovrebbero
giganteggiare nei libri di storia, esempi
immortali per le generazioni future.
Singolare e paradigmatico è il caso
di coloro i quali rappresentarono le guide
supreme dello schieramento sconfi tto:
Robert Edward Lee e Thomas Jonathan
Jackson. Lee rappresenta a tutt’oggi uno
dei simboli della Confederazione, un emblema
tanto venerato negli Stati del Sud
quanto odiato nei territori dell’Unione.
Principale condottiero dell’esercito sudista,
Lee rappresentò il prodotto d’élite
dell’antica nobiltà del Sud, raggiungendo
una fama leggendaria anche fra le schiere
nemiche. Questa popolarità è dovuta
a una serie di
fattori: fi glio di
eroi della guerra
d’indipendenza
americana, il giovane
Robert entra
nella prestigiosa
accademia di West Point e non tarda a
scalare la gerarchia militare grazie a una
intelligenza strategica straordinaria e ad
una personalità affascinante e sofi sticata.
Sono questi i due fattori che lo fanno
emergere dal marasma di “bifolchi” che
nell’immaginario nordista popolava quella
che divenne la Confederazione.
OREGON
CALIFORNIA
WASHINGTON
NEVADA
IDAHO
UTAH
ARIZONA
MONTANA
WYOMING
COLORADO
NEW MEXICO
La fi gura di Lee è determinante
nell’evolversi della guerra che contrappone
gli Stati Uniti al Messico dal 1846:
è grazie al suo fi uto che gli attacchi delle
truppe americane vengono diretti verso
terreni che i Messicani consideravano
troppo impervi, obbligando le truppe
nemiche a subire un logoramento alla
lunga letale. Lee è un fi ne osservatore,
assorbe e fa proprie le tecniche degli indiani
Apache sugli altipiani del Texas.
Ciò che lo incorona come un personaggio
unico nella storia americana è questa
vena aristocratica da uomo della Virginia
fusa con il tocco popolare e umano di un
uffi ciale di frontiera: non è un caso che
il 18 aprile 1861 il presidente Lincoln
gli offra il comando delle forze armate
dell’Unione. Ma la lealtà nei confronti
della propria terra natia lo obbliga al
“gran rifi uto”: particolare non indifferente
nella condanna morale del mondo
intellettuale nord-americano che calerà
sul suo capo come una mannaia nell’immediato
dopoguerra.
Umile nella sua grandezza, Lee si
distingue anche tra le fi la degli uffi ciali
sudisti di alto grado: allo scoppio della
guerra, viene nominato generale comandante
delle forze confederate, ma rifi uta
di indossare le mostrine che ne contraddistinguano
il nuovo rango, preferendo le
NORTH DAKO
SOUTH DAK
NEBRASK
KANSA
TEXAS
La mappa della Guerra
O

TA
A
S
TA
KLAHOMA
MINNESOTA
IOWA
MISSOURI
ARKANSAS
LOUISIANA
WISCONSIN
ILLINOIS INDIANA OHIO
MISSISSIPPI
MICHIGAN
KENTUCKY
TENNESSEE
ALABAMA
di Secessione
NEW JERSEY
MARYLAND
WASHINGTON DC DELAWARE
WEST
VIRGINIA
GEORGIA
NEW YORK
PENNSYLVANIA
FLORIDA
RICHMOND
VIRGINIA
NORTH CAROLINA
SOUTH
CAROLINA
MAINE
NEW
VERMONT HAMPSHIRE
MASSACHUSETTS
CONNECTICUT RHODE
ISLAND
stellette da colonnello che vestiva nell’esercito
degli Stati Uniti e rimandando la
nomina formale al futuro tempo di pace.
Assunto il comando dell’Armata della
Virginia Settentrionale, Lee costringe i
Nordisti a continue sconfi tte e umilianti
ritirate, compensando la scarsità di uomini
e mezzi con geniali mosse strategiche
e con un’accurata conoscenza dei luoghi
e dell’avversario: mentre Lincoln continua
ad ammassare uomini sulla linea del
Potomac, Lee mette in atto un costante
e incessante martellamento ai fi anchi
dell’armata nordista che culmina nel famoso
scontro di Chancellorsville, non a
caso defi nito come “la battaglia perfetta
di Lee”.
Pur fronteggiando il doppio dei propri
uomini, Lee inchioda gli unionisti sul
ponte del fi ume Rappahannock e costringe
l’intero esercito nordista a una cocente
e imbarazzante ritirata. Sul campo rimane
però ferito a morte Thomas Jonathan
Jackson, suo aiutante di campo e fraterno
amico: i due avevano sempre condiviso
la grande religiosità e lo stile di vita
spartano, scevro da ogni lusso o eleganza
legato all’alto grado. Lee piange sommessamente
quando viene a sapere della perdita
del suo braccio destro e la gran parte
degli storici contemporanei ritiene che se
Jackson fosse rimasto in vita, probabil-
Legenda
Stati dell’Unione
Stati schiavisti dell’Unione
Nuovi stati entrati nell’Unione
Territori dell’Unione
Stati della Confederazione
Territori della
Confederazione
mente la guerra avrebbe avuto un esito
diverso.
Emblematico è il soprannome con
il quale Jackson è conosciuto fra le sue
truppe: “Stonewall”, muro di pietra. Nato
il 21 gennaio 1824, Thomas è anch’egli
originario della Virginia: tuttavia, mentre
Lee incarna l’emblema di una ricca
e agiata aristocrazia, Jackson cresce nel
proletariato della provincia americana.
La sua famiglia è funestata da disgrazie
e lutti, costringendolo a un’educazione da
autodidatta pur di lavorare per sostenersi.
Tutte le lacune nell’istruzione si manifestano
palesemente nelle diffi coltà che il
giovane deve affrontare in Accademia,
costretto a recuperare il gap che lo divide
dagli altri cadet-
ti. Ma quello che
contraddistingue
“Stonewall” è una
inesauribile tenacia,
che lo porta
a svettare presto
tra i giovani di West Point e a distinguersi
nella guerra contro il Messico, dove incontra
per la prima volta Robert Lee.
Quella che sorge tra i due è assai più
di una reciproca stima, ma diviene ben
presto una amicizia fraterna. Allo scoppio
della Guerra di Secessione, il colonnello
Jackson si guadagna il sopranno-
La Guerra di Secessione
me “Stonewall” durante la battaglia di
Bull Run, primo grande scontro terrestre
dall’inizio delle ostilità: la sua tenacia
e il suo coraggio sono talmente luminosi
in mezzo al fumo e al sangue dei
combattimenti che i soldati cominciano
a radunarsi intorno a lui, come fosse un
bastione di pietra. Le vittorie si susseguono
e i nordisti indietreggiano sotto la
spinta del generale Lee: Jackson milita
accanto a lui, ne è il braccio destro. L’ironia
della sorte se lo porta via all’apice
della loro vittoria più schiacciante e nella
maniera più beffarda: Chancellorsville
ha retto l’urto e le truppe unioniste sono
ormai allo sbando, in fuga nelle foreste
che circondano la città mentre l’oscurità
avanza. Jackson e il suo stato maggiore
stanno cavalcando verso il comando centrale,
ma vengono scambiati per nemici e
colpiti dal fuoco dei confederati. Nello
sgomento generale, “Stonewall” Jackson
muore pochi giorni dopo per le ferite riportate.
Il generale Lee tenterà una nuova
invasione del Nord nella speranza che
una eventuale vittoria costringa i nordisti
a riconoscere l’indipendenza della
Confederazione: senza il suo braccio
destro, l’offensiva si arenerà sulla piana
di Gettysburg nello scontro più sanguinoso
dell’intera guerra. Questa pesante
sconfi tta segnerà di fatto la fi ne
della Confederazione. Davanti ad un
esercito di molto superiore nei numeri
e nell’organizzazione, il grande merito
di Lee diventa essenzialmente quello di
sottrarre i propri soldati a un massacro
incontrollato, retrocedendo la linea del
fronte e obbligando le sovrastanti truppe
unioniste a una logorante guerra di trincea.
L’ultima disperata resistenza sudista
si consuma lì dove tutto era comin-
Robert Edward Lee era il
prodotto dell’antica nobiltà del
Sud e diventò una leggenda
anche fra i nemici.
ciato, sulle barricate erette per le strade
di Richmond. Accerchiato su tutti i lati,
senza più munizioni, stremato nel corpo
e nello spirito, Lee consegna la propria
spada al comandante delle forze unioniste,
il generale Grant. La resa di un
uomo, la resa di un mondo. È il 9 aprile
del 1865.
panorama per i giovani • 9

Foto: iStockphoto (denisk0; Veni)
La Guerra di Secessione
Lincoln e il potere
della parola
Not only was Abraham Lincoln a great politician, but he also had great
ability as an orator. There are records of his many speeches, all of which
are characterized by logic and clarity of argument. While before becoming
President he was more rational in his reasoning, during the years of the war
he became more emotional and tried to strike a piety chord with the audience.
This is particularly evident in the most famous speech he pronounced, the
Gettysburg Address, in which he appealed to the unity of the American People
and its sense of duty in the defence of the country.
di Carlotta Orlando
“His manner is neither fanciful nor rhetorical,
but logical. His thoughts are strong
thoughts, and are strongly joined together.
He is a close reasoner, and has the faculty
of making himself clearly understood”.
Tra i numerosi riferimenti ai discorsi di
Lincoln che compaiono nei quotidiani
dell’epoca, questo, apparso nella North-
Western Gazette di Galena, Illinois, nel
1856, è uno dei più icastici e imparziali,
essendo scevro da qualsivoglia considerazione
sul contenuto. Quel che degli interventi
di Lincoln, prima e durante la presi-
10 • n. 1, gennaio-aprile 2011
denza, colpiva di più, era la linearità della
sua logica, la sua capacità argomentativa,
la sua satira tagliente.
A parlare più diffusamente del Lincoln
oratore fu William Herndon, suo collega
avvocato e biografo. Egli non gesticolava
esageratamente, ma si atteggiava con disinvoltura,
eleganza e grazia. Aveva pieno
possesso di sé, non risultava offensivo né
aveva fare dittatoriale, ma era piacevole,
bonario, dotato di grande naturalezza di
aspetto e atteggiamento. Lincoln parlava
per convincere gli individui e le masse,
chiaro nelle sue idee, semplice, limpido e
argomentativo nelle sue parole. Era solito
gesticolare con la mano destra, talvolta
puntando l’indice per sottolineare un’idea
o enfatizzare un pensiero.
Qualche quotidiano dedicava stralci
alla descrizione fi sica del presidente, ma
i commenti più interessanti restano quelli
che sottolineano la sua grande abilità di
catturare l’attenzione dell’uditorio e la
sua capacità nel trovare argomentazioni
alle quali risultava impossibile replicare.
Prima della presidenza
Già prima di raggiungere la fama negli
ambienti politici, nell’esercizio della sua
professione di avvocato, Lincoln non
mancò di fare sfoggio di abilità oratoria.
Fu però in seguito all’approvazione del
Kansas-Nebraska Act del 1854 che il futuro
Presidente iniziò a esprimersi con
una serietà nuova, rivelandosi politico
acuto nell’analisi e travolgente nell’argomentazione.
Il progetto di legge del senatore
democratico dell’Illinois Douglas
prevedeva la nascita dei due stati e stabiliva
il rinvio al voto popolare della questione
se ammettere o no lo schiavismo in
questi territori. Sarà proprio il tema della
schiavitù la costante che apparirà in gran
parte dei comizi di Lincoln. In quello che
è divenuto noto come Discorso di Peoria,
egli esprime la sua contrarietà a quan-

to previsto dal progetto di Douglas, che
non prendeva in considerazione il Compromesso
del Missouri del 1820, il quale
proibiva la schiavitù nei territori a nord del
parallelo 36°30’. Rilevata come utopica la
possibilità di “liberare tutti gli schiavi e
mandarli in Liberia, loro terra natia”, sua
prima opzione, segnala l’inammissibilità
della soluzione di liberarli e renderli politicamente
e socialmente eguali agli uomini
liberi. La via da percorrere è quella
della graduale emancipazione. Lasciata da
parte la situazione degli Stati del Sud, il
primo obiettivo era non permettere l’insediarsi
della schiavitù nei territori liberi. La
questione della schiavitù non poteva esser
lasciata all’autogoverno di un territorio,
trascurando che tutta la nazione aveva interesse
a che dei territori si facesse l’uso
migliore. Il che, per gli stati del Nord, signifi
cava popolare Kansas e Nebraska di
uomini bianchi liberi. Oltretutto, poiché
cinque schiavi valevano quanto tre bianchi
nel determinare la rappresentanza al Congresso
e nel fi ssare il numero di elettori
per la presidenza, un aumento nel numero
dei territori schiavisti avrebbe acuito la
disparità nei confronti dei territori liberi,
ampliando contestualmente il potere congressuale
del Partito Democratico.
Non passò molto tempo che Lincoln
si trovò a dover nuovamente replicare a
Douglas, in una serie di dibattiti pubblici
A sinistra: il Lincoln Memorial, a
Washington, costruito in onore di Abramo
Lincoln, sedicesimo Presidente degli
Stati Uniti (sopra il titolo, in una stampa
ottocentesca).
tenuti prima delle elezioni per il Senato
del 1858, nelle quali entrambi erano candidati.
Nel primo di questi scontri verbali,
Lincoln cita ampi passi del Discorso
di Peoria e aggiunge: “Non ho nessuna
intenzione di introdurre l’eguaglianza
politica e sociale tra la razza nera e la razza
bianca. Fra le due vi è una differenza
fi sica che, a mio avviso, probabilmente
impedirà per sempre che esse vivano assieme
in condizioni di eguaglianza perfetta;
e nella misura in cui è necessario
che vi sia una distinzione, io, al pari del
giudice Douglas, sono a favore del fatto
che la razza alla quale appartengo svolga
un ruolo di superiorità. Non ho mai detto
il contrario, ma sostengo che, ciononostante,
non ci sia alcuna ragione al mondo
per la quale i neri non abbiano la titolarità
di tutti i diritti naturali enumerati dalla
Dichiarazione di Indipendenza: il diritto
alla vita, alla libertà e alla ricerca della
felicità. Concordo con il giudice Douglas
nell’affermare che non siano nostri eguali
sotto molti aspetti – certamente non nel
colore, forse non nel bagaglio morale o
nel talento intellettuale. Ma nel diritto a
mangiare il pane che le loro stesse mani
guadagnano, senza il permesso di alcun
altro, essi sono miei eguali ed eguali del
giudice Douglas, ed eguali di ogni uomo”.
La posizione di Lincoln è chiara e in linea
con quella espressa a Peoria: sarebbe stato
inimmaginabile estendere ai neri diritti
tali da assicurare loro l’eguaglianza politica
e sociale con i bianchi, ma dovevano
esser loro garantiti i diritti naturali.
Durante la presidenza e la guerra
Il discorso di insediamento alla presidenza
pronunziato il
4 marzo 1861 presenta
secondo alcuni
storici diverse
ambiguità e appare
sicuramente
più propenso al
compromesso. Lincoln mirava a evitare la
rottura con gli Stati del Sud, che invitò a
tornare nell’Unione in memoria degli alti
ideali di unità che avevano informato i padri
fondatori. Egli ribadì la sua intenzione
150 La Guerra anni di di Unità Secessione
d’Italia
di non voler abolire la schiavitù negli Stati
in cui essa legalmente esisteva, per concludere
metaforicamente con un accorato
auspicio alla fratellanza reciproca intriso
di vacua retorica.
Retorica che non manca in quello che
è il più noto tra i discorsi di Lincoln, quello
pronunciato a Gettysburg il 19 novembre
1863, pochi mesi dopo l’omonima
battaglia, in occasione dell’inaugurazione
di un cimitero di guerra. Pur nella sua brevità,
si tratta del prodotto retorico meglio
confezionato dal Presidente, in grado di
far vibrare le corde della pietà nei suoi
ascoltatori con i suoi riferimenti ai giovani
uomini che avevano perso la vita su
quel suolo a difesa della patria, ma anche
di instillare un nuovo ardore di rinascita
nel segno di libertà e democrazia: “Sta
piuttosto a noi il votarci qui al gran compito
che ci è di fronte: che da questi morti
onorati ci venga un’accresciuta devozione
a quella causa per la quale essi diedero,
della devozione, l’ultima piena misura;
che noi qui solennemente si prometta che
questi morti non sono morti invano; che
questa nazione, guidata da Dio, abbia una
rinascita di libertà; e che l’idea di un governo
di popolo, dal popolo, per il popolo,
non abbia a perire dalla terra”.
I discorsi di Lincoln presidente sono
contrassegnati mediamente da una maggior
carica patetica, vogliono far breccia
nell’emotività dell’uditorio, sono
privi di quell’intrico di argomentazioni
logiche che caratterizzava i discorsi dei
primi tempi. E probabilmente è proprio
questa peculiarità che li ha resi più famosi
e meglio ricordati. Riguardo al discorso
di Gettysburg, osserverà nel 1865
il senatore Sumner: “Il mondo notò all’istante
quel che egli disse, e non smetterà
mai di ricordarlo. La battaglia in sé fu
meno importante del suo discorso”. Se
a quasi centocinquant’anni di distanza
continuiamo a rammentare le parole di
“Non c’è alcuna ragione al mondo
per la quale i neri non abbiano la
titolarità dei diritti enumerati nella
Dichiarazione d’Indipendenza.”
Lincoln, ciò costituisce l’ennesima conferma
che le parole sono pietre e lo sono
a maggior ragione quando pronunciate
con la carica espressiva propria di pochi
grandi oratori.
panorama per i giovani • 11

Da Jefferson a Lincoln
fi no a Obama
rights of life and liberty in the persons of a distant people who never offended
him, capturing and carrying them into slavery in another hemisphere, or to
incur a miserable death in their transportation thither. This piratical warfare,
the opprobrium of infi del powers, is the warfare of the Christian King of Great
Britain. Determined to keep open a market where men should be bought and
sold, he has prostituted his negative for suppressing every legislative attempt
to prohibit or to restrain this execrable commerce” (T. Jefferson).
di Aleksandra Arsova e Angelo Filippi
Gli Stati Uniti d’America si defi niscono
orgogliosamente il paese democratico per
eccellenza, dove ideali come libertà e indipendenza
vengono impressi nelle menti
12 • n. 1, gennaio-aprile 2011
dei cittadini americani sin dalla più tenera
età. Le elezioni del 2008 hanno persino
portato Barack Obama, un senatore
dell’Illinois non molto conosciuto fi no
Foto: iStockphoto/jcarillet “He has waged cruel war against human nature itself, violating its most sacred
ad allora, a varcare la soglia della Casa
Bianca e diventare il primo Presidente
nero della storia americana. Ma qual è
stato il lungo tragitto che ha permesso tali
traguardi? Quali sono state le dinamiche e
i protagonisti di queste conquiste spesso
faticose e travagliate? Abraham Lincoln
avrebbe potuto immaginare un simile
evento, quando si apprestava nel lontano
1862 ad abolire la schiavitù? Quale sarebbe
stato lo stupore di Rosa Parks, colei
che nel 1955 si rifi utò di lasciare il proprio
posto sull’autobus per far sedere un
bianco?
Il tema della schiavitù ci fa immediatamente
pensare alle immense distese di
piantagioni di cotone nel Sud degli Stati
Uniti o alle scene di alcuni capolavori
letterari come La capanna dello zio Tom,
ma la storia della schiavitù in America ha

inizi ben più remoti, che risalgono alla colonizzazione
del Cinquecento. L’esportazione
di schiavi nel nuovo continente ebbe
infatti inizio con spagnoli e portoghesi,
che per primi videro nella sottomissione
di altri uomini la forma ideale per procurarsi
manodopera per le attività agricole
e per le miniere d’oro e d’argento a costo
pressoché nullo. I conquistatori spagnoli
cercarono di ridurre in schiavitù le popolazioni
indigene, ma senza grandi risultati,
dal momento che questi ultimi non riuscirono
ad abituarsi al lavoro duro e molti perirono
per le nuove malattie portate dagli
europei. Fallito il tentativo con gli indios,
si cominciò a guardare all’Africa come
promettente fornitrice di forza lavoro; il
commercio di prigionieri africani acquistò
vera importanza solo dal 1510 e dal 1518
divenne perno dell’economia spagnola.
A sinistra: un uomo di colore vende il
“Washington Times” il 20 gennaio 2009,
giorno del giuramento di Barack Obama
come Presidente degli Stati Uniti.
La vera svolta, però, si ebbe nei due
secoli successivi, fra il XVII e il XVIII secolo,
quando fu sviluppato e perfezionato
il cosiddetto “commercio triangolare”, a
opera soprattutto degli inglesi. Il celebre
iniziatore di tale circuito fu il mercante
John Hawkins, vissuto nella seconda
metà del Cinquecento, che sbarcò sulle
coste della Guinea per poi imbarcarsi
verso l’America col fi ne di rivendere agli
spagnoli, in cambio di zucchero e perle,
i trecento neri che aveva portato con sé
dall’Africa, dopo aver corrotto i capitribù
locali. Questo episodio suscitò grande
indignazione e biasimo da parte di Elisabetta
I, che pochi anni dopo fi nanziò però
personalmente le compagnie per la compravendita
di schiavi e ne condivise addirittura
i profi tti. È proprio in
questo periodo, quando si avvia a
La Guerra di Secessione
padrone, qualora lo ritenesse necessario;
la presunta ratio di un tale diritto veniva
individuata nell’esigenza del padrone di
distruggere una sua proprietà, quando
quest’ultima poteva recargli un qualunque
danno. Provvedimenti e leggi simili erano
all’ordine del giorno in molti stati americani,
in modo particolare nel Sud, dedito
all’agricoltura; basti solo pensare al divieto
per gli schiavi di recare armi con sé,
nemmeno per legittima difesa, o al divieto
di congiungimenti o matrimoni misti.
Nonostante che l’Assemblea della Virginia
sia stata la fautrice di numerose disposizioni
a favore della schiavitù per tutto il
Seicento, nel secolo successivo risulterà
fra le prime istituzioni che si moveranno
per l’abolizione della famigerata tratta.
Non a caso fu proprio lo Stato della Virginia
che nel 1761 si appellò a Re Giorgio
III per ridurre il traffi co di schiavi, ricevendo
però un responso negativo da parte
della corona inglese, contraria a qualun-
a diventare una delle più grandi di Il passo citato in epigrafe, scritto da Thomas
potenze mondiali, che la Gran n Jefferson, era presente nella prima bozza della
Bretagna rivela un atteggiaa- Dichiarazione di Indipendenza americana, ma
mento alquanto ambiguo, che e venne rimosso dalla versione defi nitiva. In esso
l’accompagnerà per almeno o si condannava duramente re Giorgio per aver
tre secoli: da una parte ostenntava uno spirito puritano, connservatore e moralista, dall’all portato la schiavitù in America.
tra esprimeva una capacità industriale e que provvedimento che potesse ledere i
“commerciale” che si traduceva spesso suoi interessi economici.
nella disponibilità a fare qualunque cosa La stessa ambiguità caratterizzò an-
per incrementare i guadagni.
che il processo che portò all’indipendenza
La questione morale della tratta degli dalla corona britannica. Fra le premesse
schiavi non fu un aspetto del tutto margi- della redazione della Dichiarazione d’Innale
dell’epoca e portò anzi a numerose dipendenza si potrebbe in effetti annove-
discussioni e prese di posizione, sia in rare proprio la questione della schiavitù,
Europa sia nelle colonie americane, an- almeno guardando la durissima presa di
che se nel complesso l’interesse economi- posizione di Jefferson citata in epigrafe
co prevalse sull’aspetto morale ed etico. L’aver ottenuto l’indipendenza dalla
Esempio emblematico potrebbe essere madrepatria nel 1783 non signifi cò però
quello dell’Assemblea della Virginia del affatto, per gli Stati Uniti, la defi nitiva
1662, che si interrogò sulla legittimità di
mantenere schiavi
rinuncia al commercio di schiavi e alla
i neri convertitisi
al Cristianesimo;
la risposta fu che
la loro natura di
schiavi dovesse
prescindere dalla
La questione morale della tratta
degli schiavi rimase sempre
aperta, anche se nel complesso
l’interesse economico prevalse.
nuova dimensione spirituale acquisita. Al- schiavitù. Le ragioni sono soprattutto da
tra decisione decisamente grave dell’As- ricercare nella profonda diversità fra Sud
semblea fu quella di considerare l’ucci- e Nord del paese: negli Stati meridionali
sione del proprio schiavo un diritto del lo schiavismo fu ritenuto confacente alle
panorama per i giovani • 13

La Guerra di Secessione
esigenze del sistema economico locale,
basato prevalentemente sulla produzione
agricola di cotone, canna da zucchero e
tabacco, mentre al Nord, maggiormente
incline all’industria, si andava affermando
la fi gura dell’operaio libero, occupato
in attività che richiedevano numericamente
meno forza lavoro, ma puntavano
più sulla specializzazione. Queste differenze
sostanziali portarono a un approccio
completamente opposto nei confronti
della schiavitù: negli anni Settanta e Ottanta
del Settecento molti Stati del Nord,
in primis Delaware, Maryland e Virginia,
si erano già impegnati a limitare e infi ne
eliminare totalmente la compravendita di
schiavi, anche se bisognerà attendere gli
inizi dell’Ottocento, più precisamente
il 1808, perché la tratta di schiavi fosse
abolita; gli Stati meridionali, al contrario,
si mostravano reticenti nei confronti delle
sempre più pressanti proposte del Nord di
sradicare la schiavitù nelle loro sterminate
piantagioni.
All’epoca della Guerra di Secessione
gli schiavi neri sul territorio erano già più
di due milioni. Il divieto all’importazione
degli schiavi, emanato nel 1808, non mutava
una legislazione schiavista che era
comunque affi data ai singoli Stati.
La diversa organizzazione economica
tra Nord e Sud aveva portato altre conseguenze,
specialmente di tipo fi scale e doganale.
Gli Stati del Nord, in virtù della
loro maggiore popolazione, detenevano
la maggioranza al Congresso e si ritrovarono
a imporre una severa fi scalità per
favorire lo sviluppo infrastrutturale necessario
per accompagnare l’emergente
sviluppo economico. Nel novembre del
1860 vinse le elezioni presidenziali il repubblicano
Abraham Lincoln, che dové
confrontarsi con un clima politico particolarmente
teso. L’acceso dibattito tra
Nord e Sud vedeva gli abolizionisti desiderosi
che l’annessione dei nuovi Stati
tredicesimo emendamento per
l’abolizione della schiavitù, che
entrò in vigore nel 1865.
all’Unione fosse accompagnata dal divieto
dello schiavismo, mentre i Sudisti giudicavano
questa pretesa come una subdola
azione del Nord volta a ostacolare il
modello economico e culturale del Sud,
Foto: iStockphoto (PictureLake; toddmedia) Nel 1864 il Senato approvò il
14 • n. 1, gennaio-aprile 2011
per il quale la mano d’opera degli schiavi
era fondamentale. Fu in questo contesto
che si arrivò alla secessione degli Stati
Confederati d’America e al successivo
scoppio del confl itto.
La conclusione della guerra vide il Sud
in ginocchio davanti al Nord vincitore. Nel
1864, il Senato passò il tredicesimo emendamento
per l’abolizione della schiavitù,
approvato dalla Camera nel 1865 con 119
voti a favore e 56 contrari e infi ne entrato
in vigore il 18 dicembre 1865, dopo che
tutti gli Stati membri l’ebbero ratifi cato.
Nel 1866, nonostante il veto dell’allora
presidente Andrew Johnson, fu approvata
la legge federale del Civil Rights Act,
che sanciva il principio della separazione
in condizioni di eguaglianza, ammettendo
la separazione razziale in vari settori
della vita civile, politica e pubblica. Il
periodo che seguì (1865-1877) vide una
serie di iniziative
dell’Unione degli
Stati d’America
volte a liquidare
il ceto imprenditoriale
schiavista
e a elevare lo status
della popolazione di colore. Tuttavia,
l’abolizione della schiavitù nel Sud degli
Stati Uniti non avvenne in parallelo a un
processo di valorizzazione delle energie e
a un’attenta riqualifi cazione della compo-
Sopra: un francobollo commemorativo
della grande manifestazione organizzata
il 23 agosto 1963 da Martin Luther
King a Washington, durante la quale
pronunciò il celebre discorso “I have a
dream”. A destra: Montgomery, la capitale
dell’Alabama; qui la signora Rosa Parks,
un’attivista dei diritti umani, venne
arrestata perché si rifi utò di cedere il posto
in autobus a un uomo bianco: era il 1955.
nente afro-americana. Questo rese il Sud
un terreno fertile per il seme del razzismo,
che generò un secolo di discriminazioni e
di odio.
Il decennio 1870-1880 vide una severa
divisione delle razze, regolamentata
dalle Leggi Crow, che segnarono il periodo
oscuro del razzismo americano. Questi
emendamenti si basavano sul principio
del “separati ma uguali”, permettendo
così di erigere un muro divisorio tra i
bianchi e i membri degli altri gruppi razziali.
Esempio eclatante di questa politica
discriminatoria fu la separazione in tutti i
luoghi pubblici, come le scuole o i mezzi
di trasporto sino ai bagni e ai ristoranti.
Agli inizi del Novecento la maggior
parte dei neri viveva ancora nel Sud ed
era priva di ogni diritto di voto. Seguì un
periodo di violenze e repressione, inaugurato
dalle elezioni presidenziali del 1912,
che presero una piega fortemente contraria
agli interessi degli afro-americani.
Inoltre, nel Sud lasciò una scia di una rab-

ia silente, che trovò sfogo in quella che
dal 1915 divenne una vera e propria “associazione”
fi nalizzata a ostacolare l’integrazione
sociale e razziale degli afroamericani:
il Ku Klux Klan. Quest’ultimo
si impose, nel corso di quegli anni, come
un movimento di protestanti wasp (white
anglo-saxon protestant) che condividevano
l’obiettivo di assicurare all’America
redenzione sociale attraverso la persecuzione
della popolazione di colore, sul
presupposto che i bianchi dovessero continuare
ad avere l’egemonia della società
americana. Il picco delle barbarie perpetuate
dalla confraternita si ebbe negli anni
Venti e Trenta, quando si instaurò un vero
e proprio clima di terrorismo sociale che
terminò solo nel 1944, quando il Ku Klux
Klan fu defi nitivamente sciolto.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli
afroamericani, avendo prestato servizio
militare ed essendosi sacrifi cati per la patria,
ritennero di essersi guadagnati il diritto
di cittadinanza effettiva e a pieno titolo e
presero a sfi dare il sistema di segregazione
in un crescendo di atti di ribellione sempre
più intensi. Si formò il Movimento per i
diritti civili degli afroamericani, che si ap-
pellava ai tribunali federali per denunciare
le leggi della segregazione. Nel 1955 la
signora Rosa Parks di Montgomery, Alabama,
un’attivista della Naacp (National
Association for the Advancement of the
Colored People), venne arrestata e accusata
di aver violato una delle ordinanze sulla
segregazione per essersi rifi utata di cedere
il posto in un autobus a un uomo bianco.
Fu questa scintilla che portò la situazione
americana sulla ribalta internazionale
e condusse un allora sconosciuto Martin
Luther King a organizzare il boicottaggio
pacifi co delle autolinee di Montgomery,
che si rivelò un effi cace strumento di lotta.
Il 28 agosto del ’63 Martin Luther King organizzò
una mar-
cia memorabile
su Washington
contro la discriminazione
razziale,
alla quale parteciparono
le maggiori
associazioni di colore e molti membri
della popolazione bianca. Poco tempo
dopo, nel 1964, si ebbe l’approvazione del
Voting Rights Act e del Civil Rights Act.
Nel 1968, dopo l’assassinio di Martin Lu-
La Guerra di Secessione
ther King, tutte le forme di segregazione
vennero dichiarate incostituzionali dalla
Corte Suprema e nel 1970 ogni forma di
segregazione razziale venne abolita: solo
allora, dopo almeno un secolo di lotte e
sofferenze, gli afro-americani ottennero di
fatto l’uguaglianza.
Il 5 novembre 2008 Barack Obama è
il primo afro-americano a diventare presidente
degli Stati Uniti d’America. È la
rivincita dopo secoli di soprusi, è la voce
del cambiamento che porta con sé i frutti
maturi di anni e anni di speranze e sofferenze
e che esaudisce il sogno condiviso
da generazioni di lotta. Il sogno di Maya
Angelou, di Malcom X, di Rosa Parks,
Nel 1968, dopo l’assassinio di
Martin Luther King, tutte le
forme di segregazione vennero
dichiarate incostituzionali.
come di Martin Luther King, che solo
cinquant’anni prima aveva detto: “Potrò
essere crocifi sso, potrò anche morire, ma
voglio che i miei fratelli dicano: ‘è morto
perché io sia libero’”.
panorama per i giovani • 15

Foto: iStockphoto/Duncan1890
La Guerra di Secessione
Una pace diffi cile
One hundred-fi fty years have elapsed
since the American Civil War broke
out in 1861. This year Italy blows
150 candles out to celebrate its Unity.
On the other hand, America digs into
the hidden depths of its history and
a more mysterious, murky world is
revealed. That peace, signed between
the Union and the Confederate
States, stirs up painful memories
but Barack Obama’s words give
hope and are an inspiration to us all:
We can remake ourselves – and our
nation – to fi t our larger dreams.
di Gianvito Masi
Gli americani ci tengono al loro passato:
quello scritto dai Padri Pellegrini, quello
che racconta la conquista del selvaggio
West o il primo passo sulla Luna. Quello
dei due confl itti mondiali o degli attentati
dell’undici settembre. Eppure, c’è chi
dice che l’anima dell’America vada cercata
sulla strada. Basta guidare l’automobile
oltre l’ultima cintura di asfalto attorno
alle grandi metropoli. Spingersi dove il
profi lo dei centri commerciali suburbani
lascia il posto ai bottegoni orizzontali,
ai banchi dei pegni ingombri di chitarre
elettriche impolverate. Fare, infi ne, tappa
a Charleston, nella Carolina del Sud, per
approdare su un isolotto non distante dal
porto della città.
16 • n. 1, gennaio-aprile 2011
L’apartheid
Il regime sudafricano dell’apartheid, in
vigore fra il 1948 e il 1993, non è stato
l’unico a discriminare fra bianchi e neri,
ma si è tristemente distinto per la sua
sistematicità.
Il termine apartheid – in lingua afrikaans
“separazione” – era il nome uffi ciale del
sistema di segregazione razziale vigente
in Sudafrica dal 1948, quando il National
Party impose il dominio della minoranza
bianca e forti limitazioni ai diritti della
maggioranza “non bianca”, durato
fi no al 1993. Ciò che contraddistingue
l’apartheid in Sudafrica da altri episodi
storici di segregazione è proprio
l’approccio sistematico che il partito di
governo adottò nel formalizzare tale
segregazione a livello giuridico.
La segregazione razziale in Sudafrica
iniziò durante il periodo coloniale.
Tuttavia, la politica uffi ciale di apartheid
venne introdotta in seguito alle elezioni
del 1948, quando una nuova legislazione
classifi cò gli abitanti in gruppi razziali
(“neri”, “bianchi”, “meticci” e “indiani”)
e interi quartieri vennero separati dalle
altre aree residenziali, talvolta attraverso
trasferimenti forzati di popolazione.
Durante il regime, il governo fornì servizi
educativi, sanitari, ecc. separatamente
ai membri dei diversi gruppi, garantendo
alla popolazione nera standard inferiori
rispetto a quelli offerti ai bianchi. Dal
1970 alla popolazione nera venne negato
A sinistra: la bandiera sudista.
Da Fort Sumter, il 12 aprile del 1861,
un colpo di cannone tuonò sordo segnando
il via di quella secessione fra Nord e
Sud, il cui spettro, a distanza di 150 anni,
non smette di fare paura.
Lo ha dimostrato l’imbarazzo diffuso
tra repubblicani e democratici alle elezioni
del 2000, quando John McCain, il
candidato repubblicano numero due dopo
George Bush Jr. ed eroe della guerra del
Vietnam, prima ha denunciato la bandiera
sudista come simbolo di razzismo, poi,
con una clamorosa marcia indietro, l’ha
elogiata come emblema di eroismo.
Oggi, per chiunque visiti il “profondo
Sud”, la bandiera, di tanto in tanto, sventola
ancora. La croce di Sant’Andrea blu che
campeggia su sfondo rosso guida cortei,
adorna auto e palazzi, è issata sull’albero maestro
di qualche nave per ricordare marinai
seppelliti con gli onori militari. Eppure, per
tutti i neri non è che un insulto: quella guerra
il diritto alla cittadinanza sudafricana,
sostituita da quella di una delle dieci
regioni autonome – etnicamente
omogenee – chiamate bantustans.
L’apartheid scatenò signifi cativi moti di
resistenza all’interno, mentre a livello
internazionale un lungo embargo
commerciale veniva imposto al
Sudafrica. Dagli anni Cinquanta in poi
una serie di rivolte popolari e proteste
fu fronteggiata con la messa al bando
dell’opposizione politica e con l’arresto
dei leader dei movimenti anti-apartheid,
ma anche per mezzo di violenze
spalleggiate dallo Stato.
Negli anni Ottanta un tentativo di
riforma del regime fallì e nel 1990 il
presidente F.W. de Klerk diede avvio ai
negoziati che culminarono nelle elezioni
democratiche del 1994, vinte dall’African
National Congress di Nelson Mandela.
L’apartheid sudafricano è stato
condannato dalla comunità
internazionale come regime razzista
e criminale e lo Statuto di Roma della
Corte penale internazionale (2002) ha
incluso nella propria area di competenza
il crimine di apartheid. Il bisogno di
mettere sotto pressione questo tipo di
regime era comunque già stato espresso
nella Convenzione internazionale
sull’eliminazione e la repressione del
crimine di apartheid (Icspca), aperta
alla fi rma e alla ratifi ca dall’Assemblea
generale dell’Onu il 30 novembre 1973.
Elena Martini

– lo ricordano bene – non solo comportò costi
ingentissimi ma, soprattutto, fece strage di
oltre seicentomila uomini. Per molti bianchi,
invece, e non solo tra le fi la dei conservatori,
il vessillo rimane la testimonianza di una
gloria smarrita, un motivo di orgoglio sopravvissuto
alla sconfi tta e al potere erosivo
del tempo. Non a caso le strofe di un motivetto
popolare, When Johnny comes marching
home, sono state intonate da migliaia di
persone per accompagnare i festeggiamenti
in onore del capitano George Dixon, morto
con l’intero equipaggio del sommergibile
Hunley da lui comandato nel terzo e defi nitivo
affondamento dello scafo. Quella notte
del 17 febbraio 1864, il regalo della fi danzata,
una moneta d’oro da venti dollari che gli
aveva portato fortuna sul campo di battaglia
di Shiloh, fermando una pallottola nordista,
non gli fu d’aiuto.
La moneta restò nello scafo insieme alle
ossa del suo proprietario e qualche anno fa,
mentre era in corso il complesso recupero
del trabiccolo colato a picco, molti, nostalgici
delle sue imprese, hanno riscoperto le vecchie
uniformi grigie degli antichi confederati.
Non senza qualche strascico polemico.
Come ha osservato il professor Raimondo
Luraghi, autore di una monumentale
Storia della Guerra civile americana, è
evidente che i traumi di quella pace diffi cile,
stabilita dall’esercito dell’Unione nel 1865,
non sono stati ancora superati. Ci sono Stati,
come il Mississippi, che hanno segnato tristi
primati: record di analfabetismo, persistenza
della segregazione, linciaggi. Persino il
divieto di insegnamento della teoria dell’evoluzione
nelle scuole. Non dimentichiamo
poi che negli anni Cinquanta questo Stato si
è distinto per la ferocia con cui ha combattuto
il movimento dei diritti civili. I neri non
hanno avuto scampo: c’è chi è fuggito verso
il Nord liberal, chi ha continuato a lavorare
nelle piantagioni di cotone, senza o quasi
salario, chi si è azzardato a chiedere il voto
ed è stato ucciso. In questa parte del pianeta
America – è sconcertante – alcuni anziani
bianchi credono ancora oggi che la Guerra
Civile sia appena iniziata. E che i neri siano
fi gli di un dio minore.
È il segno di un retaggio culturale che
fa fatica a essere cancellato e che affonda le
proprie radici in tempi remoti, quando fu avviato
il progetto per la ricostruzione del Sud.
Nel 1870 l’Unione occupò militarmente tutti
gli Stati sconfi tti e non mancò qualche generale
pronto a confortare i soldati che avevano
accettato di buon grado il verdetto, risfo-
derando in loro un senso di orgoglio per lo
sprezzo del pericolo dimostrato in battaglia.
In soli dieci anni, tuttavia, i Redeemers,
così si chiamavano i membri dell’élite
sudista bianca, cominciarono a porre le
basi per un nuovo sistema monopartitico
e presero nettamente il controllo attraverso
l’infl uenza dominante esercitata dal
Partito Democratico sulla politica locale.
In questo infuocato teatro di furore razzista,
emblematica fu l’applicazione delle
Leggi Jim Crow che diffusero pesanti discriminazioni
sociali: si teorizzò il perverso
status di “separati ma uguali”, i matrimoni
misti erano tabù e l’integrazione nelle scuole
esisteva solo sulla carta. Era stato gettato
alle ortiche quanto era avvenuto il 9 aprile
1865 nel corso delle trattative di pace. Quel
giorno, dopo aver sollecitato l’armistizio,
il generale sudista Lee fu imbarazzato nel
vedere tra gli uffi ciali unionisti il colonnello
Ely Parker, scuro di pelle, che scambiò per
un nero. Appreso che Parker era un indiano
della tribù dei Seneca, amico personale del
comandante Grant, gli si avvicinò sorridendo:
“Bene, allora son contento di incontrare
un vero americano”. Il colonnello Parker replicò:
“Siamo tutti americani adesso”.
Ricordare il passato per capire il presente
è, in fi n dei conti, l’esercizio che gli americani
fanno quest’anno. L’Italia spegne le 150
candeline della sua Unità e continua a discutere
il processo attraverso il quale fu raggiunta
e la struttura politico-amministrativa in cui
si è incarnata. L’America, a sua volta, rifl ette
sulla sua guerra in-civile. Lascia da parte per
un momento eroismi, fortini e squilli di tromba.
Scava nella sua storia per cogliere una
rete intricata di luci e ombre. E, di concerto,
il presidente Obama propone una serie in dodici
puntate sulla nascita della nazione e sui
problemi del Nuovo Mondo, dal titolo America.
Ultima frontiera. Un ritratto di grandi
personaggi, uomini e donne straordinari, che
sono il simbolo e l’orgoglio della loro patria.
Perché il mito fondativo di un paese passa
anche attraverso l’immaginario collettivo.
Nelle parole dell’ex segretario di Stato Colin
Powell come nelle battute dell’attrice Meryl
Streep, che detiene il record di nomination al
premio Oscar. Dai fotogrammi di John Lasseter,
direttore creativo della Pixar, ai passi
in assenza di gravità di Buzz Aldrin, l’astronauta
che prese parte al primo allunaggio nel
1969. Sulla terra a stelle e strisce è radicata
una forte e unanime convinzione: “We can
remake ourselves – and our nation – to fi t our
larger dreams” (Barack Obama).
La Guerra di Secessione
I cavalieri dell’America bianca
“Dal 1868 esiste, in molti Stati americani,
un’organizzazione chiamata Ku Klux Klan,
che annovera tra i propri membri larga
parte della popolazione bianca. Lo statuto
del Klan prevede che ogni membro sia
provvisto di una pistola e di una toga. Le
azioni del Klan si svolgono di notte e sono
invariabilmente dirette contro membri del
Partito Repubblicano. Il Klan infl igge vendette
sommarie ai cittadini neri irrompendo
nelle loro case, torturandoli e in molti casi
assassinandoli”. Questo afferma nel 1870 il
Gran Giurì istituito dal presidente U.S. Grant
per indagare sul Ku Klux Klan.
Ku Klux Klan è il nome di tre diverse
organizzazioni di estrema destra sorte negli
Stati Uniti per propugnare correnti di pensiero
reazionarie, nazionaliste e razziste attraverso
il terrorismo.
La prima sezione del Ku Klux Klan naque
a Pulaski (Tennessee) il 24 dicembre 1865
e prese nome dal termine greco kuklos –
“cerchio”. I leader dei Klan locali, molti dei
quali veterani dell’esercito confederato, si
diedero in seguito un’organizzazione centrale
a Nashville nell’aprile 1867. In un primo
momento il loro obiettivo primario era impedire
che la popolazione nera continuasse a
esercitare il proprio diritto di voto. Il presidente
Grant fu quindi sollecitato a prendere
provvedimenti contro il KKK, e il Congresso
approvò il Ku Klux Klan Act il 20 aprile 1871.
L’organizzazione subì a questo punto un
declino, anche grazie al ristabilimento dei
governi bianchi nel Sud, e sparì già nei primi
anni Settanta.
Il KKK fu rifondato nel 1915 da W.H. Simmons,
un predicatore infl uenzato dal fi lm The Birth
of a Nation. Il secondo Klan adottò una
croce infuocata come proprio simbolo e si
contrappose principalmente all’Associazione
nazionale per il progresso della popolazione
di colore (Naacp), ma dopo la Prima Guerra
Mondiale divenne ostile anche a ebrei, cattolici,
socialisti e comunisti. Conquistò posizioni
politiche di rilievo e crebbe rapidamente fi no
a raggiungere i 4 milioni di membri nel 1925,
crollò a 30.000 adepti durante la Grande
Depressione e si sciolse nel 1944.
Già negli anni Cinquanta, tuttavia, l’avvento del
movimento per i diritti civili portò a un revival di
organizzazioni razziste ispirate al KKK, come
i noti Cavalieri Bianchi del KKK di R. Shelton.
Nel profondo Sud i membri del Klan facevano
forti pressioni sui neri perché non votassero e il
linciaggio era ancora utilizzato per terrorizzare
la popolazione. Nonostante le iniziative
legislative federali volte a mettere fuorilegge
il KKK, il fenomeno non poté mai essere
estirpato alla radice a causa del persistere di
una vera e propria mentalità del Klan.
Elena Martini
panorama per i giovani • 17

La La Guerra salute di nel Secessione mondo
Voci dai giorni della
schiavitù
Recordings from the Library of Congress on the Internet: when the slaves tell
us their story with their own voice.
di Francesca Parlati
Ventisei registrazioni poco udibili,
sette foto sgranate. Queste le uniche
testimonianze dirette che rimangono
della schiavitù dei neri d’America.
Questi preziosi documenti sono consultabili
alla Biblioteca del Congresso
con qualche salto durante la
registrazione, questi anziani
raccontano la loro storia.
a Washington D.C. Riscoperte e digitalizzate
nel 2001, queste interviste
furono realizzate negli anni della presidenza
Roosvelt; gli intervistati erano
anziani schiavi che erano bambini
o ragazzi durante la guerra, nel 1865.
Gli ultimi sopravvissuti, coloro che
avevano patito realmente la schiavitù.
L’età degli uomini e delle donne intervistati
va dagli ottantacinque anni
Foto: iStockphoto.com (fstockphoto; Oralleff) Tra rumori di sottofondo e fruscii,
18 • n. 1, gennaio-aprile 2011
Sopra: il Campidoglio, sede del Congresso
degli Stati Uniti. Nella pagina seguente:
George Washington e Thomas Jefferson
nel complesso del monte Rushmore.
fino ai cento, di molti di loro l’età è
incerta. Sono stati rintracciati in tutti
gli Stati del
più profondo
Sud americano:
Georgia, North e
South Carolina,
Texas, Mississippi,
Louisiana.
Sui documenti i cognomi ed i nomi
delle famiglie alle quali appartenevano,
nella vita altri nomi, non da bianchi,
non quelli dei padroni, ma i loro
veri nomi. Tra rumori di sottofondo e
fruscii, con qualche salto durante la
registrazione, questi anziani si raccontano,
un po’ reticenti all’inizio, a
voce bassa, a stento udibile. Parlano e
raccontano, alcuni cantano spiritual e
recitano salmi, perché le parole di Dio
sono più forti, perché il canto libera
più di quello che un semplice racconto
potrà mai fare.
“L’offerta più alta... l’offerta più alta
ti portava nella sua piantagione”. La
voce di Charlie Smith a volte scivola in
un mormorio indistinto, ripete le stesse
frasi, si avviluppa in brutti ricordi, tace
per un po’, fino a quando l’intervistatore
lo incalza con un’altra domanda.
Racconta dello stare su un palco, mentre
la gente ti valuta e offre dei soldi
per te. Quanto varrà mai un uomo? Il
signor Smith non si ricordava il suo
prezzo. Però ricordava il nome che gli
avevano dato i suoi genitori alla piantagione,
prima che venisse venduto:
Mitchell Watkins. Lo dice con un sospiro,
lo mormora come una preghiera.
Probabilmente dove finisce Mitchell
Watkins e dove inizia Charlie Smith
non lo sa neanche lui.
Delle sette registrazioni disponibili sul
sito, questa è l’unica che parla direttamente
di un’esperienza crudele come
la vendita. Le altre sono riflessioni sulla
vita dopo la libertà, ma anche entusiastici
commenti su buoni padroni che
hanno aperto scuole e trattavano gli
schiavi come figli. Le altre registrazioni
o trascrizioni si possono consultare
solo se si visita il sito da un computer
nel territorio degli Stati Uniti d’America.
Da profani non si può dire se questo
sia dovuto a questioni tecniche o no.
Una cosa è certa: le sole sette registrazioni
disponibili sul sito ricordano
molto le condizioni quasi “idilliache”
di schiavitù descritte nel romanzo Via
col Vento, di Margaret Mitchell: schiavi
che adorano i loro padroni nonostante
che vengano costantemente picchiati
e maltrattati.
Come riuscire ad arrivare a qualcuna
delle altre registrazioni? Nel libro L’aquila
e il pollo fritto, di Vittorio Zucconi
(Mondadori, 2008), sono riportate
anche altre testimonianze, in tutta la
loro crudezza. Anche i numeri dei quali
si parla sono molto diversi da quelli
del sito. Non ventisei registrazioni solamente,
ma ben duemilatrecento. Ma
in fondo poco importa. Che le testimonianze
siano poche o tante, la sostanza
di quel che è accaduto non cambia: la
schiavitù c’è stata, l’olocausto nero fu
consumato.

Jefferson-Hemings:
quello che i bianchi non
avrebbero mai voluto sapere
The secret life of an American president: Thomas Jefferson’s affaire with his
slave Sally Hemings and their babies.
di Francesca Parlati
Nell’oppressiva società schiavista della
Virginia era accettato che un padrone avesse
una concubina e fi gli tra gli schiavi. Le
cose si complicavano quando il padrone in
questione era il terzo Presidente degli Stati
Uniti, tra i padri fondatori degli Stati Uniti
d’America, uno dei principali autori della
Dichiarazione d’Indipendenza: Thomas
Jefferson. La schiava in questione, Sally
Hemings, non era neanche lei una semplice
schiava tra tante: era la sorellastra della
legittima moglie del suo padrone, nonché
cameriera privata di sua fi glia. Lo scandalo
scoppiò quando un ex-collaboratore di
Jefferson, Callender, denunciò la storia ai
giornali. Nel registro degli schiavi della
piantagione di Jefferson e nelle sue lettere
sono registrati sei fi gli di Sally Hemings,
padre ignoto. Di questi sei bambini due
morirono in tenera età, due rimasero a vivere
con la madre e altri due fuggirono,
ma non furono mai ricercati. La questione
fu presto vista come una storia per gettare
discredito sul noto personaggio e tutti si
affrettarono a dimenticare. Con delle ecce-
zioni, però: i fi gli di Sally Hemings continuavano
a passare la storia della madre ai
fi gli e ai nipoti. La tradizione restò radicata
nei fi gli Madison ed Eston che rimasero
con la madre fi no alla sua morte, ma si perse
nella discendenza di Beverly ed Harriet,
che, sfruttando il colore chiaro della pelle e
la fuga, si fecero passare per bianchi.
Chiacchiere a pro-
posito di questa
discendenza tendevano
a ricomparire
nel corso
degli anni, mentre
venivano accumulate
prove su prove (come il trattamento
di favore riservato ai fi gli di Sally, mai
obbligati a lavori pesanti), a volte fi ttizie
a volte chiaramente desumibili dai documenti
dell’epoca. Ci sono anche memoriali
pubblicati dagli stessi fi gli della coppia,
ma non furono mai considerati credibili
del tutto, fi no a quando nel 1998 la scienza
non è venuta incontro ai discendenti della
schiava e del Presidente: un test del dna ha
Il futuro della terza età
defi nitivamente provato che un maschio
della famiglia Jefferson è tra gli antenati
della famiglia. Che fosse il Presidente stesso
non è stato detto chiaramente, però ciò
è facilmente desumibile controllando le
date di nascita dei fi gli di Sally e i periodi
che egli trascorreva nella sua piantagione
di Monticello. Per l’occasione sono stati
anche rintracciati i discendenti gone white,
che hanno così scoperto una parte delle
loro origini che non avrebbero mai immaginato.
Numerose sono state le polemiche
con alcuni dei discendenti legittimi del
presidente, che arrogano esclusivamente a
se stessi il diritto di essere defi niti “eredi di
Thomas Jefferson” e non vogliono riconoscere
la parentela; diverso l’atteggiamento
di altri, che sono disposti ad aprirsi a questo
nuovo ramo della famiglia, mostrando
così i due volti dell’America.
Nel registro degli schiavi
della piantagione di Jefferson
sono registrati sei fi gli di Sally
Hemings, padre ignoto.
Ogni anno i discendenti di Sally
Hemings e di Thomas Jefferson si riuniscono,
come una normale famiglia,
ricordando all’America benpensante e
puritana che non sempre la polvere si può
spazzare sotto un tappeto e che non si può
tenere la testa nella sabbia per sempre. La
verità viene a galla, che si tratti di un anonimo
proprietario di piantagione o di un
Presidente.
panorama per i giovani • 19

Foto: iStockphoto.com/sweetandsour Tea
party vecchi e nuovi
The Tea Party Movement raises various concerns and many eyebrows in the
United States for its controversial racial positions and extreme economic
ideas. What will its role be in both Republican party renaissance and American
politics in general? Moreover, is it an exclusively American phenomenon or
should Europeans be worried as well?
di Claudia Macaluso
La storia del Tea Party, movimento statunitense
di ispirazione conservatrice e
liberista, inizia nel lontano 1773 nella città
di Boston, allora capitale della contea
britannica del Massachusetts, allorché un
gruppo di coloni, stanchi di essere vessati
dai mille e più balzelli della madre patria,
gettarono nelle acque del porto l’intero
carico di tè della East India Company.
L’atto di ribellione, rimasto un evento memorabile
nella storia degli Stati Uniti, non
era che il culmine della protesta contro il
Tea Act varato dal governo britannico in
quello stesso anno, legge cui i coloni rimproveravano
l’imposizione di una tassa
illegittima, perché in violazione del loro
diritto a essere tassati solo dai propri rappresentanti.
Dagli eventi del Boston Tea
Party fi no allo scoppio della rivoluzione
americana passarono solo due anni e non
è azzardato sostenere che in quella protesta
contro la tassa sul tè si esplicitò una caratteristica
che sarebbe poi diventata peculiare
della democrazia e del sistema socioeconomico
americani: l’opposizione, più o
meno aspra, verso qualsiasi forma di intervento
del governo nell’economia.
20 • n. 1, gennaio-aprile 2011
La locuzione tea party ha conosciuto rinnovato
interesse nei primi mesi del 2009,
in occasione delle proteste contro la politica
di stimolo all’economia di Barack
Obama e il conseguente inevitabile aumento
della spesa pubblica. Nato, oggi
come allora, in forma quasi spontanea,
il Tea Party odierno non si defi nisce né
viene riconosciuto come un vero e proprio
partito ma piuttosto come una sorta
di gruppo di pressione. Ciononostante,
secondo un sondaggio Gallup del 2010,
una larga maggioranza degli appartenenti
e dei simpatizzanti del Tea Party Movement
attuale si dichiara repubblicana. Fenomeno
composito, oggi come allora, si
nutre da un lato dell’insoddisfazione nei
confronti della leadership repubblicana,
considerata ineffi cace e accomodante,
e dall’altro del crescente disagio che il
combinarsi di crisi economica e riforme
economiche di stampo keynesiano hanno
provocato nella classe media americana,
da sempre restia a che sia lo Stato a governare
l’economia. Classe media, dunque.
Secondo un recente sondaggio del
New York Times i sostenitori del Tea Party
Movement sono per lo più bianchi, di ses-
A sinistra: l’elefante, simbolo del Partito
Repubblicano, il principale riferimento
politico del movimento del Tea Party. Nella
pagina seguente: una croce infuocata,
un macabro simbolo del Ku Klux Klan;
alcuni studiosi sostengono che la pellicola
di David Griffi th Birth of a Nation (1915)
contribuì alla ricostituzione del Klan negli
anni Venti.
so maschile, di età superiore ai 45 anni e
con un reddito e un livello di educazione
superiore alla media. Si dichiarano conservatori
e preoccupati per l’andamento
dell’economia (Washington Post, ottobre
2010), mostrando, rispetto al resto della
popolazione statunitense, un atteggiamento
piuttosto rigido nei confronti dei
cittadini di colore, Barack Obama incluso:
sempre secondo le inchieste del New
York Times e del Washington Post, il 74%
dei sostenitori del Tea Party intervistati si
dichiara d’accordo con la frase “raggiungere
le pari opportunità per i cittadini di
colore o appartenenti a minoranze etniche
è importante, ma non è compito del governo
occuparsene”. In più, il 25% ritiene
che l’amministrazione attuale favorisca
la popolazione di colore rispetto a quella
bianca e solo il 35 sostiene che i lavoratori
di colore sono altrettanto laboriosi
(hard-working) dei bianchi.
Molti commentatori e uomini politici statunitensi
sono stati tentati di archiviare
il Tea Party Movement come fenomeno
sostanzialmente amorfo e tanto rumoroso
quanto passeggero. “It is an amorphous,
factionalized uprising with no clear leadership
and no centralized structure”, scrive
il New York Times. Resta vero, però,
che la forza del movimento sembra crescere,
soprattutto all’interno del Partito
Repubblicano: nelle elezioni di midterm
del 2010, il Tea Party Movement ha infatti
sostenuto alle primarie e poi candidato
con il Partito Repubblicano ben 138 tra
deputati e senatori. Certo sarà una sfi da
non facile per i conservatori statunitensi
e per l’America intera, alle prese con un
nuovo provincialismo dai connotati razzisti
e una insoddisfazione crescente e sempre
più violenta della classe media. Ma si
sa, paese che vai, tea party che trovi. La
tentazione di occuparsi solo del proprio
“particolare” è sempre in agguato. Anche
in Italia a molti sembra opportuna una
profonda rifl essione sul senso dello Stato
e della nazione, in particolare nel 150°
anniversario dell’Unità d’Italia.

Foto: iStockphoto.herlordship
Così ci ha unito
la Guerra Civile...
The images of movies like “Birth of a Nation”, “Amistad” and “Gettysbourg”
show the confl icts and passions that built America throughout history. This
is the great country that became such a melting pot of different cultures and
peoples.
di Selene Favuzzi
È diffi cile scavare nel passato che ci ha
resi come siamo, soprattutto quando ha
lasciato cicatrici che non cessiamo ancora
di portare sulla nostra pelle. È diffi cile
voltarsi indietro e riconoscere i motivi che
ci hanno indotto a disporre i binari in un
certo modo, gli errori che sono stati commessi
da tutti, hanno infl itto sofferenza...
e causato la guerra. Fra le pagine di storia
americana, sempre intrise di grandi ombre
e grandi spinte illuministiche, v’è un
capitolo tanto fondamentale quanto controverso
da leggere, quello che ha portato
il paese a dividersi nella fratricida Guerra
di Secessione. Da quel confl itto sarebbero
nati gli Stati Uniti d’America come noi li
conosciamo. “Liberty and union, one and
inseparable, now and forever!” recita il penultimo
sottotitolo del kolossal in bianco
e nero Birth of a Nation (1915), uno dei
primi fi lm sulla guerra di Secessione. Ne
fu regista, sceneggiatore e produttore David
Griffi th, padre fondatore della cinematografi
a americana, nonché iniziatore del
fi lone del cinema narrativo, reso un genere
pari nella dignità a quello letterario. La pellicola
fu uno dei primi kolossal della storia,
campione d’incassi, e fu persino proiettato
alla Casa Bianca. Le polemiche scoppiarono
subito per il forte contenuto razzista
del fi lm, la cui diffusione fu vietata a Denver,
Chicago, Pittsburgh, Minneapolis e St.
Louis: secondo l’Università di Houston e
lo storico cinematografi co Steven Mintz
Birth of a Nation avrebbe contribuito alla
ricostituzione del Ku Klux Klan negli anni
Venti. La notte della prima proiezione
scoppiarono ri-
volte a Boston,
Philadelphia e in
altre città, ci furono
scontri con
la polizia per tutta
la notte. Ciò dimostra
quanto fragile fosse ancora l’equilibrio
mezzo secolo dopo la guerra civile.
Non c’è bisogno naturalmente di
ricordare come il titolo di gran lunga
La Guerra di Secessione
più famoso resti quello di Via col vento
(Gone with the Wind, 1939), che per
intere generazioni non solo di americani
ha rappresentato il fi lm per antonomasia.
Ci sono però altre pellicole che meritano
attenzione, al di là del loro successo
al botteghino. Il processo di emancipazione
delle comunità africane, con le
sue alterne vicende e le incomprensioni
razziste che in certi luoghi e contesti
durano ancor oggi, sarà rispecchiato,
molti decenni più tardi, nella sofferenza
e nel dolore del protagonista di Amistad
(1997), che svelle uno dei chiodi della
nave per aprire le proprie manette e dare
il via alla rivolta. Le sue mani tagliate e
sanguinanti rappresentano le ferite che
solo la solidarietà e l’integrazione poterono
colmare.
Sono vari i titoli di fi lm sulla Secessione,
ma uno è stato capace più d’altri di
evocare la battaglia cruciale della Guerra:
Gettysburg (1993) di Ronald Maxwell,
che fa rivivere quei tre giorni del luglio
1863 che segnarono una decisiva vittoria
dell’Unione. Da una lettera del regista
agli spettatori dell’odierna cittadina:
“Nessuno di noi è solo per sé stesso, né
lo vorremmo. Il lavoro di generazioni di
studiosi, storici, cronisti, archivisti, giornalisti,
scrittori di romanzi, produttori
di cinema, ricercatori, archeologi, accademici
e puri e semplici appassionati di
storia di vecchia data, hanno fornito un
fondamento, una risorsa, un’atmosfera
e un’ispirazione per la creazione di
questo fi lm. Umilmente prendo posto in
una fi la di cittadini che continuano a fare
domande, che cercano di conoscere, la
cui passione ci conduce alla dedizione e
all’impegno in prima linea. Se questo fi lm
può in qualche minima parte aggiungersi
alla somma della nostra comprensione e
compassione, può aiutare a unirci con un
unico legame come popolo e muovere l’animo
nella contemplazione del fratricidio
e della sua immagine speculare dell’amo-
“Umilmente prendo posto in una
fi la di cittadini che continuano
a fare domande, che cercano di
conoscere.” (R. Maxwell)
re fraterno... e così il mio tempo, e forse
quello di tutti coloro che hanno partecipato
a questo fi lm, come di chi lo vedrà, sarà
stato speso bene.”
panorama per i giovani • 21

Foto: iStockphoto.com/RickLordPhotography
La Guerra di Secessione
La sporcizia colta
Jazz is not only an amazingly interesting music genre, it is a lifestyle. Its
line traces back to the late XVIII century, when black slaves in the large
plantations of the South of USA used to ease their terribly hard work by
striking up songs based on ancient African music. The mixture between black
rhythm and European harmony led to the naissance of jazz. During the XX
century the new genre was infl uenced by both classical and popular music and
now one can fi nd it in the most sophisticated theatres as well as in the dirtiest
dives. This is precisely the great strength of jazz: it is just like men.
di Carmelo Di Natale
L’aveva detto Maurice Ravel a George Gershwin
quando il grande pianista americano
aveva chiesto al genio parigino di impartirgli
lezioni di composizione: perché essere
un piccolo Ravel essendo già un grande
Gershwin? Le parole del maestro francese
erano chiare: il sound di Gershwin, così carico
delle specifi cità, dello slancio modernista,
persino degli eccessi della cultura americana,
ancora poco conosciuta nei salotti
dell’intellettualità europea, costituiva un
prodotto artistico assolutamente nuovo nella
storia della musica, degno di stare accan-
22 • n. 1, gennaio-aprile 2011
to all’opera dei grandi compositori tedeschi,
francesi, russi e italiani del passato e del
presente. D’altra parte, ascoltando la Rhapsody
in blue (1924), il capolavoro dell’artista
di Brooklyn recentemente interpretato
dal maestro Riccardo Chailly alla direzione
dell’antichissima Gewandhausorchester
di Lipsia con la collaborazione dell’eclettico
Stefano Bollani al pianoforte, si può
percepire, con la pelle e la pancia più che
con la mente ed il cuore, che cosa sia il jazz,
quella musique nouvelle di cui Gershwin è
con ogni probabilità l’espressione più alta:
A sinistra: un jazzista di colore con la sua
tromba.
improvvisazione, sensualità, allegria, ma
anche grande complessità armonica e ritmica,
nonché un gusto estetico di non sempre
facile comprensione.
Il maestro Paul Whiteman, il direttore
d’orchestra affettuosamente soprannominato
“King of jazz” che commissionò a
Gershwin la Rhapsody in blue, diceva che
il jazz era arrivato in America trecento anni
prima in catene: il nuovo genere nasce infatti
dall’incontro tra linee ritmiche e melodiche
di origine africana – giunte negli
Stati Uniti insieme agli schiavi comprati e
venduti nell’ambito della tratta dei neri – e
strutture stilistiche europee. Fin dalla fi ne
del Settecento gli schiavi afroamericani
accompagnavano infatti le proprie fatiche
nelle sterminate piantagioni di cotone degli
Stati del Sud con le cosiddette worksong,
forme di musica vocale di tematica
varia basate su una struttura ritmica molto
cadenzata ed eseguite in coro o in assolo.
Parallelamente a esse si svilupparono gli
spiritual, solenni e malinconici, e i gospel,
gioiosi e coinvolgenti: si tratta ancora di
canti modulati su ritmi africani, ma di argomento
religioso. Da queste prime forme
di musica nera nasce tra la fi ne dell’Ottocento
e l’inizio del Novecento il blues, il
fratello maggiore del jazz, allorché worksong
e spiritual iniziarono a essere eseguiti
con il supporto di uno scarno accompagnamento
strumentale. I brani blues traevano
spunto dalle melodie tradizionali afroamericane,
le quali venivano riprodotte in uno
schema ritmico codifi cato in otto o dodici
battute basate su unità temporali inferiori
al semitono, da cui deriva il caratteristico
stile incalzante e ballabile del sound blues.
La struttura compositiva lasciava tuttavia
grande spazio tanto alla fantasia improvvisatrice
delle band di supporto (all’inizio ridotte
alla sola chitarra o al solo pianoforte)
quanto ai virtuosismi dei cantanti, in genere
voci femminili di straordinario spessore
(come non ricordare a tal proposito la
divina Bessie Smith, autentica dominatrice
della black music nei primi decenni del
Novecento).
Contemporaneamente al blues vede la
luce l’altro grande parente del jazz, vale a
dire il ragtime: si tratta di un genere musicale
puramente strumentale di grande
complessità stilistica, eseguito per lo più
da pianisti neri eventualmente accompagnati
da piccole formazioni ritmiche, pro-

genitrici delle big band degli anni Venti e
Trenta. I pezzi ragtime venivano suonati
da una ristretta cerchia di musicisti afroamericani
colti, di cui Scott Joplin era il
maggiore rappresentante: in essi si univano
elementi armonici della tradizione
della musica d’arte europea, in particolare
della scuola francese tardo-romantica e
impressionista, e ritmi tipicamente black.
Dall’incontro tra il blues ed il ragtime nascerà
il jazz, il nuovo genere destinato a
conquistare tanto le bettole dei sobborghi
delle grandi città americane quanto i teatri
della dotta Europa.
Culla del nuovo linguaggio musicale
fu la città di New Orleans; nella capitale
della Louisiana del primo ventennio, centro
economico di grande importanza sul
Mississippi, convivevano infatti commercianti,
avventurieri, emigranti di origine
francese, ispanica e anglofona insieme a
una delle più grandi comunità nere di tutti
gli Stati Uniti: vi era dunque l’humus culturale
e umano ideale per la fi oritura del
nuovo stile. Nascono così le prime jazz
band, costituite da musicisti neri e caratterizzate
in genere da una sezione melodica
che includeva il clarinetto, la tromba (o
cornetta), il trombone e spesso i sassofoni
e da un accompagnamento ritmico costituito
da percussioni, contrabbasso (che
sostituiva il pesante basso tuba), chitarra
e/o banjo. Il pianoforte, quasi sempre presente
in questi complessi, aveva inizialmente
una funzione ritmica, ma presto diventerà
parte essenziale della componente
melodica e armonica. La formazione poteva
essere completata da un vocalist, tipicamente
una famosa cantante blues che
diventava la vera frontwoman della band.
La tessitura dei brani era in genere polifonica
e gli arrangiamenti quasi sempre
defi niti verbalmente, senza l’ausilio della
notazione scritta: l’improvvisazione costituiva
pertanto un elemento imprescindibile
dello “stile New Orleans”. I gruppi
jazz giravano i locali della città frequentati
dalla popolazione nera, oppressa e discriminata:
la loro musica trasudava di sesso
e alcol, di sangue e sudore, di gioia di vivere
e slancio verso il futuro, ma esprimeva
al contempo la rabbia, la malinconia e
la disperazione di un popolo che sapeva
di essere il braccio (sfruttato) di una potenza,
l’America, sempre più consapevole
del proprio ruolo di bussola del mondo.
Appartengono a questo periodo straordinario
autentici miti della storia del jazz,
come il trombonista Edward “Kid” Ory o
i trombettisti e cornettisti Buddy Bolden,
Joe “King” Oliver ed il suo giovane allievo
Louis “Satchmo” Armstrong, destinato
a far parlare molto di sé negli anni a venire.
Accanto alle jazz band nere iniziavano
a costituirsi i primi complessi bianchi che
imitavano il linguaggio della nuova black
music: curiosamente sarà proprio una
formazione bianca di New Orleans, l’Original
Dixieland Jazz Band, a incidere a
New York nel 1917 il primo disco della
storia del jazz, il leggendario Livery Stable
Blues. In omaggio all’importanza storica
di questo complesso tutto il jazz bianco
di New Orleans viene indicato con il
termine dixieland. La prima registrazione
di una band nera arriverà invece solo nel
1923, grazie all’orchestra di “Kid” Ory.
La presenza delle sale di incisione fa
sì che il cuore pulsante del nuovo linguaggio
musicale si sposti da New Orleans a
Chicago e New York. Gli anni Venti e
Trenta sono fondamentali per la sua crescita:
il neonato genere conosce infatti
un’evoluzione
talmente signifi -
cativa da meritare
a questa fase l’appellativo
di “età
del jazz”. Questo
è il periodo della
Great Migration: migliaia di neri lasciano
gli stati meridionali alla volta delle grandi
metropoli a nord del Mississipi alla ricerca
di un lavoro e di un contesto sociale
meno razzista. Il fenomeno coinvolge anche
numerosi musicisti di New Orleans,
che abbandonano la città in seguito alla
repentina chiusura di molti dei locali nei
quali erano soliti esibirsi, cagionando così
la fi ne della gloriosa era del jazz della capitale
della Louisiana. Purtroppo il Nord
non si dimostrò molto più accogliente
del Sud: gli immigrati neri, pur riuscendo
in genere a migliorare la propria condizione
economica, continuarono a vivere
sistematici episodi di discriminazione
e ghettizzazione, che ispireranno di lì a
poco l’attivismo di Martin Luther King e
Malcom X. La stessa black music incontrò
non poche resistenze prima di vincere
le ritrosie degli ambienti più conservatori.
Ad ogni modo, questa resta la vera epoca
classica del jazz: l’emergere di musicisti
particolarmente dotati sotto il profi lo della
qualità tecnica nonché di quello della presenza
scenica dà infatti uno straordinario
La Guerra di Secessione
impulso all’improvvisazione solistica: se
da un lato le jazz band si allargano sempre
di più, arrivando a contare anche più
di quindici strumentisti (nascono così le
big band), il linguaggio orchestrale polifonico
inizia a essere contrappesato da assoli,
improvvisazioni, variazioni da parte
degli interpreti più rappresentativi. Grazie
alla loro maestria Louis Armstrong e
Bix Beiderbecke defi niscono così i canoni
standard della tromba e della cornetta
jazz, Coleman Hawkins e Sidney Bechet
quelli del sassofono, Duke Ellington,
Fletcher Henderson e soprattutto il già
citato, sublime George Gershwin quelli
del pianoforte (avente ormai una funzione
melodica e armonica fondamentale),
della composizione e dell’arrangiamento.
Le innovazioni stilistiche apportate
da Henderson, come l’uso sistematico
del riff e il continuo dialogo tra ottoni
(trombe, cornette, tromboni ecc...) e ance
(clarinetti e sassofoni), portarono in particolare
alla nascita negli anni Trenta dello
swing. Questo nuovo linguaggio, diffuso
Un giorno Maurice Ravel disse
a George Gershwin: “Perché
essere un piccolo Ravel essendo
già un grande Gershwin?”
soprattutto da musicisti bianchi, si caratterizza
per l’andamento dondolante e un
po’ ripetitivo, particolarmente adatto al
ballo. Maestri assoluti del genere furono
il grande Benjamin “Benny” Goodman, il
clarinetto jazz per antonomasia, e il pianista
William “Count” Basie, celebre per
la velocità ritmica e l’uso ostinato dei riff
nelle sue composizioni. Nelle loro big
band si esibivano regolarmente le migliori
cantanti dell’epoca, alcune delle voci
più belle di tutta la storia della musica del
Novecento: in particolare vanno senz’altro
ricordate Ella Fitzgerald e Billie Holiday.
Intanto il jazz varcava l’Atlantico
e raggiungeva l’Europa: in questi anni
infatti il geniale chitarrista belga Django
Reinhardt inizia a diffondere in Francia il
nuovo sound, grazie anche alla sua incredibile
tecnica strumentale (a causa di un
incidente suonava la chitarra con tre sole
dita).
Benché le big band che facevano
swing curassero molto gli arrangiamenti,
le linee armoniche e le strutture ritmiche
dei brani erano tuttavia divenute più cri-
panorama per i giovani • 23

Foto: iStockphoto.com/Jawcam
La La Guerra salute di nel Secessione mondo
Sopra: il sassofono, un altro simbolo del jazz.
stallizzate e meno interessanti di quelle del
jazz della prima ora. Per tale motivo negli
anni Quaranta si assiste, per opera di strumentisti
eccelsi e di grande cultura musicale
come il trombettista Dizzy Gillespie,
Dall’incontro tra il blues e
il ragtime nascerà il jazz,
destinato a conquistare tanto gli
Stati Uniti quanto l’Europa.
il sassofonista Charlie Parker, il pianista
Thelonius Monk e il contrabbassista Charles
Mingus, alla prima grande rivoluzione
interna al jazz, il movimento bebop. Infl
uenzato anche dalla musica di Igor Stravinskij
e di Arnold Schönberg, il nuovo
linguaggio si caratterizza per la spiccata
complessità delle strutture armoniche e
ritmiche, che lo rendono inadatto al ballo,
nonché per la diffi coltà tecnica dell’esecuzione,
che lo avvicina alla musica d’arte
europea. La rivoluzione bebop è di fondamentale
importanza nella storia della
musica afroamericana perché con essa il
24 • n. 1, gennaio-aprile 2011
jazz, rinunciando forse a parte della sua dimensione
popolare, diviene musica colta.
Eredi del movimento bebop saranno il cool
jazz, il modal jazz e il free jazz, caratterizzati
dalla tensione sperimentatrice di geni
assoluti come il trombettista Miles Davis,
uno degli autori più infl uenti del Novecento,
i sassofonisti
John Coltrane e
Ornette Coleman,
il pianista John
Lewis, fondatore e
leader del Modern
Jazz Quartet. Davis
in particolare arricchirà la black music
di nuovi linguaggi e nuove sonorità: grazie
anche alla frequentazione dell’opera del
grande Karlheinz Stockhausen introdurrà
l’elettronica nelle
sue composizioni,
mentre il contatto
con la musica
rock lo condurrà
a esplorare contaminazioni
da cui
scaturirà un genere musicale nuovo, la fusion.
Il suo genio e il suo carisma infl uenzeranno,
direttamente o indirettamente,
tutti i più grandi musicisti legati al jazz del
secondo Novecento, accomunati, pur nelle
loro enormi diversità, dall’incontro con il
grande trombettista: solo per citarne alcuni,
i pianisti Keith Jarrett, Chick Corea e
Herbie Hancock, i chitarristi John McLaughlin
e Al Di Meola e gli eclettici, visionari
compositori Frank Zappa e John Zorn.
In defi nitiva, la musica jazz viene dalla
terra ma la si trova nei teatri, si nutre di
improvvisazione sebbene venga eseguita
dalle più grandi orchestre sinfoniche, porta
con sé l’odore aspro del sangue e del
sudore degli schiavi eppure è intrisa di un
senso di calma, di gioia, di raffi natezza. Il
jazz non è musica colta né popolare e proprio
per questo attira e spaventa sia l’accademia
sia la scena pop contemporanea.
Con la rivoluzione del bebop, il
jazz, rinunciando forse a parte
della sua dimensione popolare,
diventa musica colta.
Forse perché, in ultima analisi, suonare il
jazz non signifi ca solo fare musica: è un
modo di intendere la vita.

Foto: iStockphoto.com/Terraxplorer
Quando una legge
non basta
The human history has been studded by episodes of racial segregation and
the last century was not immune from this appalling phenomenon. What is
most interesting is the extent of the psychological and social consequences
in countries which have known a segregationist past. The United States of
America has not succeeded yet in guaranteeing the same standards for black
and white in many fi elds, while in the southern part of Africa the fi ght of
black people to achieve better social positions mingles with cases of black
supremacy.
di Giovanni Benvenuto
Durante la fase più calda della corsa presidenziale
del 2008, Barack Obama tenne
un discorso al National Constitution Center
di Filadelfi a sulla società americana e
la sua genesi, in cui l’allora senatore mescolava
la propria storia personale a quella
della nazione a stelle e strisce. Nella trattazione
del tema della piena integrazione,
necessaria a suo dire per superare “lo stato
di impasse razziale in cui ci siamo trovati
per anni”, il candidato sottolineò la necessità
di comprendere le cause della rabbia
e del risentimento esistenti nella comunità
nera, rifuggendo dall’idea che il problema
potesse essere considerato defi nitivamente
superato. Obama elencò una serie di questioni
che hanno radici nella discriminazione
razziale – dalle scuole al mancato
accesso alle stesse opportunità economiche
– e che, specie nelle generazioni meno
giovani, si accompagnano a “memorie di
umiliazioni e paure” del passato. La risposta
a questi problemi, che hanno pervaso
per tanti decenni il tessuto sociale americano,
il candidato democratico la individuò
nel fare fronte comune per unire le
richieste della comunità nera per scuole
migliori, assistenza sanitaria migliore, impieghi
migliori, alla più ampia aspirazione
di tutti gli americani a porre le basi per una
società americana più giusta. E concluse:
“Abbiamo una scelta in questa campagna.
Possiamo accettare una politica di divisione,
possiamo affrontare il problema razziale
come uno spettacolo (come abbiamo
fatto col processo a O.J. Simpson) o solo
sulla scia di una tragedia – chiaro il riferimento
all’uragano Katrina – o come merce
per i Tg serali. Oppure possiamo tentare di
fare le cose diversamente, almeno questa
volta, parlando dei tanti problemi comuni
alle comunità di tutte le razze”.
Per quanto
queste fossero le
parole di un nero
d’America che si
candidava a ricoprire
la più elevata
carica pubblica
del proprio paese, quindi certamente non
disinteressate, non si può non fermarsi a
rifl ettere sulla vena allo stesso tempo otti-
La Guerra di Secessione
mistica, ma coscientemente realistica del
loro contenuto. Minimizzare quelle che
sono le falle, peraltro evidenti, nel processo
di integrazione razziale di un paese che
ha conosciuto un passato di vergognosa
militanza nelle fi le dei segregazionisti signifi
cherebbe aggirare l’ostacolo, offrire
una rappresentazione comoda ma distorcente
della realtà.
Il caso americano si presta sicuramente
meglio di ogni altro, per ovvie ragioni
storiche e sociologiche, ad analizzare
quale sia il legame causale fra razzismo e
segregazionismo, ma ugualmente non ci
permette di trovarne la chiave euristica, di
capire cioè se il razzismo sia, allo stesso
tempo, causa ed effetto del segregazionismo.
Il razzismo potrebbe infatti essere visto
come la molla che innesca il regime di
segregazione e che da esso trae alimentazione
e legittimazione in un circolo vizioso
senza fi ne, oppure come un habitus mentale
volto a sanzionare sociologicamente
ciò che il segregazionismo ha già sancito
in via di diritto. Una terza spiegazione, suffragata
da una osservazione dei casi storici
di segregazionismo, delinea tale rapporto
in termini non tanto di causalità quanto,
soprattutto, di interdipendenza.
Possiamo individuare istituti giuridici
volti a porre in essere regimi di segregazione
razziale andando parecchio
a ritroso nel tempo. Nell’Inghilterra dominata
dagli anglosassoni, per esempio,
restrizioni ai matrimoni erano previste
per provocare il decremento della popolazione
dei britanni, a favore di quella di
stirpe germanica. Nella Spagna dei visigoti
vigeva un regime di separazione fra
visigoti e ispano-romani, ciascuno con
propri tribunali e magistrati. In America
Latina, molti secoli più tardi, gli spagnoli
introdussero il sistema delle caste,
da loro già sperimentato in patria prima
dell’espulsione di ebrei e musulmani.
Nonostante molti paesi latino-americani
abbiano da molto tempo dichiarato la divisione
in caste uffi cialmente illegale, il
Il caso americano si presta
meglio di ogni altro ad analizzare
il legame causale fra razzismo e
segregazionismo.
pregiudizio razziale, associato allo status
socioeconomico, rimane un’eco di questo
sistema coloniale.
panorama per i giovani • 25

Foto: iStockphoto.com (MickiWiswedel; markvanovermeire)
La Guerra di Secessione
Gli ebrei hanno rappresentato il caso
forse più noto: costretti dalla legge, oppure
dalle usanze, a vivere nei ghetti in
Europa occidentale, nell’Impero russo
erano obbligati a risiedere in speciali zone
di insediamento alla frontiera occidentale
dell’impero. In Marocco essi furono confi
nati nelle mellah, villaggi separati, dal
XV secolo. Per non parlare delle aberra-
In Sudafrica, nel campo
della sanità e dell’istruzione,
convivono ancora due mondi
separati.
zioni del nazismo perpetrate ai loro danni:
dalle leggi di Norimberga del 1935 alla
“soluzione fi nale” del 1944.
Interessante è poi il caso della Rhodesia
del Sud (oggi Zimbabwe), che sotto la leadership
del governo segregazionista di Ian
Smith dichiarò l’indipendenza dalla Gran
Bretagna e l’uscita dal Commonwealth
nel 1965. Nei quindici anni successivi, la
Rhodesia fu soggetta al governo della minoranza
bianca fi no a quando le sanzioni internazionali
obbligarono Smith a indire ele-
26 • n. 1, gennaio-aprile 2011
zioni multirazziali, dopo un breve periodo
di dominio britannico nel 1979. Nel vicino
Sudafrica il regime di apartheid fu formalizzato
a seguito della vittoria del National
Party nelle elezioni del 1948, riservate ai
soli bianchi, e rimase in vigore fi no al 1993.
Cittadini di serie B?
Più che i casi storici di segregazionismo
de jure o de facto,
sarebbe opportuno
analizzare
come la fi ne del
regime segregazionista
è stata
interiorizzata da
quegli individui che si erano assuefatti a
pensare che i diritti fossero soggetti a restrizioni
per quanti fossero ritenuti, anche
giuridicamente, diversi.
In America la vita parallela e divisa di
bianchi e neri è stata abolita ormai da quasi
sessant’anni, ma per diversi aspetti ancora
esiste. Da uno studio effettuato dalla
Brown University emerge un quadro per
molti versi sconcertante: se ci sono aree,
come Kansas City, dove l’integrazione è
aumentata di oltre il 7%, a New York vige
Sopra: i due volti di Città del Capo, in
Sudafrica; una baraccopoli in periferia
e un quartiere residenziale sulla costa.
Nella pagina precedente: un palazzo
abbandonato nel quartiere di Brooklyn, a
New York.
da un decennio una situazione di stallo e
a Miami siamo addirittura in presenza di
una regressione. L’indice di integrazione
utilizzato funziona su una scala da 1 a
100, ovvero dalla massima integrazione
alla totale segregazione. Filadelfi a, la culla
della Dichiarazione di Indipendenza,
fi gura in questa scala con un 73%, meglio
della Grande Mela che supera il 79%. A
suffragare i dati empirici di questo studio
troviamo gli atteggiamenti di forte matrice
razzista sedimentatisi nella cultura popolare
americana. Ancora oggi i cittadini
americani, specie nel Sud, tendono a defi -
nirsi reciprocamente o ad autodefi nirsi in
termini di razza o etnicità; atteggiamento
questo che trova sanzione nei censimenti
che chiedono al cittadino di defi nire la
razza o l’etnia a cui appartiene.
Agghiacciante è la situazione che le
statistiche evidenziano sullo stato della

scuola americana, oggi più segregata
che mai: nel 2000 il 71% degli studenti
appartenenti a minoranze ha frequentato
scuole dove i neri erano la maggioranza.
Secondo uno studio del governo federale
la preparazione di uno studente nero
o ispanico di quarta liceo è pari a quella
di un bianco che frequenta la terza media.
E, come se non bastasse, nel 2001
gli studenti ispanici, afro-americani e
indio-americani avevano il 50% di possibilità
di arrivare a laurearsi, contro il
75% dei ragazzi bianchi e il 77% degli
asiatici.
Di capitale importanza ai fi ni di questa
trattazione è poi l’analisi del legame esistente
tra colore della pelle e trattamento
giudiziario subito. Secondo gli studi
condotti da Amnesty International sulle
sentenze di morte comminate negli Stati
del New Jersey e della Georgia, l’accusa
ha chiesto la pena di morte nel 50% dei
casi in cui l’accusato era nero e la vittima
bianca e solo nel 28% di quelli in cui sia
accusato sia vittima erano neri.
Sudafrica, paese di eguali?
All’indomani della fi ne del regime di
apartheid in molti credevano che il Sudafrica
avrebbe invertito la rotta negativa
che aveva caratterizzato le sue performance
economiche dagli anni Settanta.
Oggi bisogna registrare che le speranze
dei più sono state largamente disattese
dai fatti. Nel primo decennio di democrazia
il reddito pro capite dei sudafricani è
cresciuto solo dello 0,9% l’anno e la crisi
fi nanziaria globale ha fatto sì che il Pil
nazionale si riducesse di quasi due punti
percentuali nel 2009. Un piccolo passo in
avanti è stato registrato dagli indicatori
della povertà: si calcola una diminuzione
di cinque punti percentuali, nel corso
del decennio 1995-2005, del numero dei
sudafricani che vivono con meno di due
dollari il giorno.
Va constatato però un incremento signifi
cativo della disuguaglianza dal 1994
a oggi: il coeffi ciente Gini (la misura più
comunemente usata per misurare la disuguaglianza)
è salito tra 2000 e 2005 da
0,63 a 0,69. A ciò bisogna aggiungere
che il 10% più ricco della popolazione
dispone del 51% del reddito complessivo,
mentre il 10% più povero ne ha a
disposizione solo lo 0,2%; emblematico
il fatto che i componenti del secondo
gruppo sono qua-
si tutti neri. Se
nel settore privato
bianchi e uomini
dominano ancora
rispetto a neri e
donne, nel governo
e nelle istituzioni pubbliche si è più
vicini a una composizione che rispecchia
quella della società. Va detto tuttavia che
la diseguaglianza non si manifesta solo
nel reddito, ma anche nella tipologia dei
servizi che la gente riceve. Nel campo
della sanità e dell’istruzione in Sudafrica
convivono ancora due mondi separati: a
un settore privato di prima qualità se ne
affi anca uno pubblico scadente e sottofi -
nanziato, che non consente ai bambini di
accedere a buone cure e buona istruzione
La Guerra di Secessione
e, quindi, a posizioni di responsabilità in
futuro.
Nel 2005 il governo ha adottato un
programma di crescita accelerata e condivisa
(Asgisa), col fi ne di dimezzare il
numero dei poveri entro il 2014; il programma
tuttavia ha dovuto fare i conti
con la dura realtà dell’economia sudafricana
che, ancor prima dello scoppio della
crisi nel 2008, ha registrato un preoccupante
disavanzo delle partite correnti che
ha messo in crisi la sostenibilità della crescita.
“Odiate i bianchi”
Questo linguaggio a dir poco colorito è
parte del bagaglio retorico del Presidente
della Repubblica dello Zimbabwe Robert
Mugabe, al timone dal 1980 come primo
ministro e dal 1987 come Capo dello Stato.
Uomo impegnato nella lotta contro il
regime segregazionista di Ian Smith negli
anni Settanta, personaggio eccentrico e
controverso, padrone indiscusso di un paese
falcidiato dal colera e dall’Aids.
Lo Zimbabwe rappresenta un contesto
molto particolare, in cui i retaggi del segregazionismo
post-coloniale si sono tradotti
in un regime che discrimina, oggi,
la componente bianca, discendente dalla
colonizzazione britannica. La manifestazione
più limpida di questo orientamento
è data dalla distribuzione delle terre, un
tempo patrimonio dei coloni bianchi, intrapresa
dal regime in un clima di odio
razziale e clientelismo. L’agenzia sudafricana
Zimonline, a seguito di un inchiesta
condotta nel 2010, ha scritto che al presidente
Mugabe e alla sua cricca è andato il
In Zimbabwe i retaggi del
segregazionismo post-coloniale
si sono tradotti in un regime che
discrimina la componente bianca.
40% delle terre espropriate agli agricoltori
bianchi, per un patrimonio totale che
ora ammonta a cinque milioni di ettari di
terre agricole, ivi comprese quelle dedicate
alla conservazione della fauna e al
rimboschimento. Sempre stando a quanto
riportato dall’agenzia, 150.000 neri sono
entrati in possesso di terre espropriate a
bianchi, in maggioranza fattorie fra i dieci
e i cinquanta ettari, ma alla sola condizione
che potessero esibire la tessera dello
Zanu-Pf, il partito del Presidente.
panorama per i giovani • 27

Foto: iStockphoto.co/SVLumagraphica La
secessione
nel diritto internazionale
Secession means the splitting of an existing State: the old one continues
to exist, but one or more come into existence. International law does not
encourage any action which would dismember or impair, totally or in part,
the territorial integrity or political unity of any sovereign and independent
State, provided it ensures equal rights and its government represents the whole
people belonging to the territory without any discrimination. If not, selfdetermination
justifi es secession in international law.
di Gabriele Rosana
Nella cabina di regia dei dinamici movimenti
del globo terracqueo non si parla
solo la lingua della tettonica delle placche.
Accanto a orogenesi e fenomeni sismici
ci sono strappi e cuciture che poco
hanno a che vedere con i bisturi della geofi
sica, sommovimenti che non rispondono
alla legge di gravitazione universale,
smottamenti che investono l’altra faccia
delle cartine geografi che, quella politica
dalle mille tinte cromatiche. La deriva
dei continenti potrebbe fare il paio con
quella degli Stati? L’interrogativo, beninteso,
è una pacifi ca boutade. Ma con un
pizzico di verità: quella contenuta nella
natura sociale dell’uomo zoòn politikòn,
che rivede e riorganizza i propri processi
aggregativi in nome del principio aureo
dell’autodeterminazione dei popoli.
Un’alchimia, questa, che fa intendere
come la questione della secessione degli
Stati non sia mai stata defi nitivamente
28 • n. 1, gennaio-aprile 2011
consegnata ai polverosi annali storici, al
pari degli ormai esauriti processi di decolonizzazione
(nell’ambito dei quali pure
è nata), ma piuttosto riaffi ori continuamente,
offrendosi come duttile strumento
a disposizione dei popoli che invocano il
diritto di avere un ordinamento interno
rappresentativo e democratico, oltre che
indipendente verso l’esterno.
Nella voce dedicata alla secessione,
la Max Planck Encyclopedia of International
Public Law chiarisce come
conseguenza principale e maggiormente
evidente del fenomeno sia la divisione
dello Stato in due entità, una delle quali
è lo Stato che ha subito il processo e che
continua a esistere. Il diritto internazionale,
diritto di antica foggia consuetudinaria,
non è indifferente alla secessione,
pur qualifi cando questo fenomeno in via
eminentemente empirica. Se, da un lato,
è riconosciuta dalla diffusa opinio juris 1
la facoltà dei governi nazionali al potere
di reprimere un movimento secessionista
che attenti all’unità della nazione, dall’altro,
una volta operatasi la separazione, al
territorio che ha acquisito indipendenza
si applicano da subito le regole del diritto
internazionale, innanzitutto il principio
dell’uti possidetis juris, che investe la
questione dei confi ni. Si tratta di una norma
nata come consuetudine regionale nel
Sud America, ma che ha successivamente
assunto respiro generale proprio per fungere
da freno alle rivendicazioni territoriali
che, in una situazione per defi nizione
in divenire e spesso caotica, potrebbero
aprire un ulteriore vaso di Pandora (è
stata di grande applicazione nei confl itti
che hanno fatto seguito alla decolonizzazione
nel continente africano, ma anche al
crollo della Jugoslavia: applicandosi tale
principio, infatti, lo Stato formatosi dalla
secessione avrà gli stessi confi ni che aveva
quando era una semplice provincia della
madrepatria 2 . L’Osce, peraltro, sin dal
1975 riconosce tra le regole alla base della
sicurezza nel continente europeo il divieto
di mutare le frontiere con l’uso della
forza). Prima di prenderla in considerazione
quando risulta vittoriosa, il diritto
internazionale si preoccupa di inquadrare
la secessione anche nell’ambito di un più
vasto discorso di bilanciamento valoriale,
come si evince guardando alla Dichiarazione
sulle relazioni amichevoli dell’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite
(res. 2625-XXV del 1970), atto di soft law

A sinistra: il Palazzo di Vetro, sede dell’Onu
a New York.
non avente effi cacia giuridica vincolante,
ma di indiscusso rilievo nella valutazione
della opinio juris. La risoluzione citata
mette in guardia circa il fatto che il diritto
internazionale non incoraggia in alcun
modo atti che mirino a minacciare l’integrità
territoriale o l’unità politica di Stati
sovrani, ma ha riguardo per il principio di
autodeterminazione dei popoli, cristallizzato
tra i fi ni della Nazioni Unite, all’art.
1 par. II della Carta dell’Onu (“Sviluppare
tra le nazioni relazioni amichevoli fondate
sul rispetto e sul principio dell’eguaglianza
dei diritti e dell’auto-decisione dei
popoli, e prendere altre misure atte a rafforzare
la pace universale”). Il principio
dell’integrità territoriale, come eccezione
a quello dell’autodeterminazione dei popoli,
è stato invocato dalla Federazione
Russa, già all’indomani della disgregazione
dell’Unione Sovietica (di cui essa
continua la personalità internazionale): la
Corte suprema moscovita, in una discussa
sentenza del 1992 (la n. 671) sul Tatarstan,
ha affermato che il principio dell’integrità
territoriale e il rispetto dei diritti
dell’uomo da parte della Federazione limitano
il diritto all’autodeterminazione.
Si tratta di una lettura, spesso propugnata
dai difensori dell’unità statale, che relega
il principio di autodeterminazione in una
dimensione interna. Ma non si può tacere
la formula che ricorre nella Dichiarazione
sulle relazioni amichevoli, che cala nella
realtà (pur se con il linguaggio ovattato
delle feluche) il contemperamento tra due
principi ontologicamente in confl itto, un
bilanciamento che consente di ponderare
entrambi. L’integrità territoriale, infatti,
non può prescindere dalla dotazione di un
potere pubblico statale che sia rappresentativo
di tutta la popolazione che appartiene
a quel dato territorio, senza distinzione
di razza, credo o colore della pelle. Il profi
lo, spesso nitido, degli ultimi confl itti
sfociati in secessione, è presto delineato.
Se un diritto alla secessione (right to
secession) non può esser compiutamente
invocato (per quanto talora ricompreso in
diverse Carte costituzionali), vi sono però
chiari elementi fattuali che indicano la via
maestra per una lettura delle rivendicazioni
che tenda il più possibile a non essere
faziosa. Movendoci sul solco della qualifi
cazione della secessione quale estremo
sfogo per una self-determination negata e
soffocata, ha fatto scuola la sentenza della
Suprema Corte del Canada sul caso della
provincia francofona del Québec. La Corte
di Ottawa, nel pronunciarsi negativamente
sulla pretesa del Québec di secedere
dalla madrepatria, nel 1998, ha messo
in luce, in magistrale concordanza con
quanto statuito nella Dichiarazione sulle
relazioni amichevoli del 1970, come l’autodeterminazione
spetti alle ex-colonie (si
è già detto, infatti, che proprio nella cornice
della decolonizzazione del Novecento
è nato questo diritto oggi parte indiscussa
dei diritti umani 3 ), ai popoli assoggettati
a una dominazione militare straniera e “a
un gruppo sociale ben defi nito che si vede
rifi utare un accesso effettivo alle autorità
pubbliche, rivolto a ottenere il suo sviluppo
politico, economico, sociale e culturale”
4 . Ecco che la dicotomia tra protezione
dell’integrità territoriale e tutela dell’autodeterminazione
si risolve nella misura
in cui il governo al potere sia rappresentativo
dell’intero popolo; fermo restando
che in una entità statale “in cui coesistono
più popoli, l’autodeterminazione esterna
potrà essere esercitata da quel popolo che
sia discriminato e non si senta rappresentato
dall’autorità pubblica che lo governa”
5 . L’enfasi fi nora annessa al principio
di self-determination deve parimenti essere
tributata a quei soggetti in capo ai quali
l’ordinamento internazionale riconosce
tale diritto. Si è sempre parlato, infatti,
di popolo, mai di individui. Uno snodo
cruciale, questo, che consente di operare
una distinzione rispetto alle minoranze,
in relazione alle quali non può parlarsi di
diritti di una collettività ma di diritti che
vengono in considerazione in capo ai singoli
individui. Non poca confusione, in
termini defi nitori, fu apportata nel 1999,
alla vigilia dell’intervento Nato, dalla risoluzione
1244 del Consiglio di sicurezza
dell’Onu sul Kosovo (allora provincia
jugoslava), che, con formula ricognitiva
di un orientamento ormai consolidato,
da un lato ribadiva l’integrità territoriale
della Repubblica Federale, dall’altro
parlava dei kosovari in termini di “popolo”
e non di minoranza, pur, di contro,
riconoscendo loro solo ampi margini di
autogoverno, non l’autodeterminazione.
Mentre la logica gattopardesca celebrava
i propri fasti nei fraseggi dei documenti
del Palazzo di Vetro, fuori, per strada, si
faceva la Storia. E dal 2008 il Kosovo, se-
La Guerra di Secessione
ceduto unilateralmente, è uno Stato riconosciuto
da numerosi altri paesi (ma non
dalla Serbia), anche di rilievo; il che non
fa che enfatizzarne il profi lo di soggetto
di diritto internazionale. Ma le immagini
di Pristina, che in questi mesi ha defi nito
la propria struttura pubblica, non sono le
più fresche, ai nostri occhi. Tante regioni
invocano indipendenza, in un moto che
spesso scorre via nel sangue e nel silenzio.
Il tira-e-molla sulle regioni georgiane
dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud, per
esempio, è all’origine del confl itto estivo
tra Russia e Georgia nell’agosto 2008.
Nei prossimi mesi, però, il dibattito sulla
secessione sarà monopolizzato dalla
trionfante vittoria dei sudanesi del Sud. Il
responso delle urne ha parlato chiaro ed è
stato un urlo democratico: da luglio, piena
indipendenza da Khartoum.
Si ringrazia il prof. Natalino Ronzitti, Ordinario
di Diritto Internazionale alla Luiss
“Guido Carli” di Roma e consigliere scientifi
co dell’Istituto Affari Internazionali.
Note
1 Elemento che, insieme alla diuturnitas, caratterizza
la consuetudine quale fonte di diritto
primaria. A seconda dell’atteggiarsi dell’elemento
soggettivo rappresentato dalla opinio
juris, la consuetudine può produrre norme
derogabili mediante accordo oppure norme
inderogabili e quindi di diritto cogente (jus
cogens), che si collocano al vertice indiscusso
della gerarchia delle fonti, quali sostrato giuridico
condiviso dall’intera comunità internazionale.
2 Ronzitti, Introduzione al diritto internazionale,
pp. 78 ss.
3 Ma già l’art. 1 comune ai due covenants
delle Nazioni Unite del 1966 sui diritti civili e
politici e sui diritti economici, sociali e culturali
estende il diritto all’autodeterminazione “a
tutti i popoli”, e non solo a quelli sotto dominazione
coloniale. Ulteriori riferimenti in fonti
pattizie si trovano nella Carta africana dei diritti
dell’uomo e dei popoli (Art. 20, parr. I e
II: “Ogni popolo ha diritto all’esistenza. Ogni
popolo ha un diritto imprescrittibile e inalienabile
all’autodeterminazione. Esso determina
liberamente il proprio statuto politico e assicura
il proprio sviluppo economico e sociale secondo
la via che esso ha liberamente scelto. I
popoli colonizzati o oppressi hanno il diritto di
liberarsi dalla loro condizione di dominazione
ricorrendo a tutti i mezzi riconosciuti dalla comunità
internazionale”).
4 Focarelli, Digesto del Diritto internazionale,
pp. 175 ss.
5 Ronzitti, op.cit., p. 325.
panorama per i giovani • 29

La schiavitù
era cosa buona e giusta
Slavery has always represented a constant element in ancient societies, where
it played a fundamental role for their economies. Neither philosophers nor
jurists opposed this phenomenon as it was seen unavoidable. Through the
centuries Roman Law dealt with slavery by adapting it to its complex social
relationship system and never found alternative solutions till the social context
changed and new economic reasons appeared.
di Nicola Lattanzi e Donato Sambugaro
La sottomissione di soggetti al fi ne di
sfruttarne le capacità lavorative affonda
le sue radici nella notte dei tempi. Per
limitarci all’ambito storico greco-latino,
30 • n. 1, gennaio-aprile 2011
l’esistenza della schiavitù ha precedenti
nella civiltà micenea ed è certamente
attestata nei poemi omerici (qui si tratta
soprattutto di donne); le leggi draconiane
nominano esplicitamente gli schiavi e le
testimonianze diventano più certe e fi tte
dal VI secolo a.C. Per prendere coscienza
di quanto questo problema, prescindendo
da qualsivoglia connotazione etica, signifi
casse agli occhi degli antichi è bene
partire dall’analisi del termine stesso che
in greco designa lo schiavo. Anzi, sarebbe
meglio dire dei termini, giacché non vi è
un vocabolo unico, così come molteplici
possono essere le accezioni della schiavi- zepperwing)
tù: andràpodon è “chi ha piedi d’uomo”
e che dunque solo per questo può essere (jpa1999;
distinto dal quadrupede, dall’animale da
soma o da lavoro: così può essere designato
il lavoratore dei campi o la preda di iStockphoto.com
un bottino di guerra. Oikétes è colui che Foto:

abita nella oikìa, nella casa, è il servo domestico.
Doùlos, infi ne, è termine generico
per indicare lo schiavo, attestato trasversalmente
in tutti i contesti letterari e dunque,
ne possiamo dedurre, in molteplici contesti
sociali. Interessante per comprendere la
questione, per entrare in sintonia con una
forma mentis indiscutibilmente tanto lontano
dalla nostra, è notare come la douleia
sia qualcosa di ben più ampio e, parimenti,
altrettanto aborrito dalla mentalità greca. Il
doùlos non è solo lo schiavo in senso stretto
ma anche chi non è libero in un’accezione
più ampia e metaforica, fortemente concettualizzata:
si pensi che uno dei motivi per
cui i greci guardano sprezzanti i “barbari”
persiani all’epoca delle guerre contro Serse
(ne troviamo una formulazione lucida nel
libro VII delle Storie di Erodoto) è proprio
perché nei confronti del Gran Re tutti i
sudditi (e gli stessi ministri) sono sottoposti,
sono per l’appunto dei doùloi.
“E certamente la summa divisio nel
diritto delle persone è questa, che tutti gli
uomini o sono liberi o sono schiavi”. Così
Gaio, giurista romano del II secolo d.C. le
cui Institutiones sono l’unica opera della
giurisprudenza romana classica a esserci
direttamente pervenuta, poneva la principale
distinzione che poteva intercorrere
tra gli individui di fronte all’ordinamento
giuridico. E la Fortuna doveva impegnarsi
affi nché dalla nascita si potesse godere
dello status libertatis e non si fi nisse a
rinforzare la massa di schiavi che, secondo
alcuni storici, arrivava a rappresentare
addirittura il 30% della popolazione
dell’Impero nel I secolo d.C. Sempre
meglio che a Sparta, dove, racconta Erodoto,
la proporzione tra gli iloti, termine
con cui si indicavano gli schiavi, e i liberi
cittadini era di sette a uno! Il fenomeno
schiavistico pervade ogni ambito della
socialità antica, dall’economia al diritto,
ma a Roma assume peculiarità specifi che.
Qui si può, infatti, parlare di “reifi cazione
imperfetta”, in quanto l’assimilazione
dello schiavo a una res non è completa
e subisce numerose deroghe. Tali specifi -
cità tenderanno peraltro ad aumentare nel
momento in cui agli schiavi, divenuti perno
dell’economia romana, andrà assicurata
una sempre maggiore tutela giuridica,
non bastando più ricomprenderli tra le res
mancipi, i beni giuridici cui lo ius civile
riconosceva un particolare valore e la cui
proprietà poteva quindi essere trasferita
solo tramite mancipatio, un negozio giuri-
dico contornato da particolari formalità. Il
servo a Roma, ricompreso tra le personae,
era in grado di compiere atti produttivi di
effetti giuridici, tanto da poter parlare di
una “soggettività commerciale” riconosciuta
agli schiavi. Questi, ad esempio, potevano
ottenere dal padrone l’assegnazione
di un piccolo patrimonio (peculium),
cui conseguiva l’obbligo di rispondere,
entro i limiti dell’assegnazione, dei debiti
che il servo avesse contratto nei confronti
di terzi; essi potevano avere rapporti di debito
e credito verso terzi, che davano luogo
a obbligazioni naturali, e pure rapporti
di debito nei confronti del dominus, per il
quale erano peraltro legittimati a compiere
validamente atti di acquisto di cose, diritti
reali e crediti. L’impossibilità di una sussunzione
dello schiavo sotto il concetto di
cosa è resa ancora più evidente dall’essere
questi destinatario di norme penali, cioè
capace di compiere delitti pubblici.
È nel negozio della manumissio, at-
traverso le cui
varie forme era
garantita la possibilità
per i servi
di acquisire la libertà,
che emerge
prepotentemente
la distanza della disciplina schiavile romana
rispetto a quella che ritroviamo nelle
città greche. Se Aristotele inchiodava lo
schiavo nel “paradigma naturalistico della
schiavitù-merce”, a Roma, per quanto non
si arrivi mai a elaborare una teorica dei diritti
umani, non mancano voci di denuncia
La Guerra di Secessione
Sopra: la Grecia, culla della democrazia
antica, non fu molto tenera con gli schiavi
(nella foto l’acropoli di Atene); ad alcuni
di essi vennero garantiti maggiori diritti in
epoca romana (nella pagina precedente:
una stampa ottocentesca rappresenta una
matrona romana e le sue servitrici). Nella
pagina seguente: una statua di Cicerone.
della contrarietà della schiavitù allo ius
naturale. Tale diversità di approccio si riverbera
nelle conseguenze delle manumissiones,
che non solo consentivano l’acquisto
dello status libertatis, ma anche dello
status civitatis, sicché uno schiavo manomesso
si poteva veder attribuita la cittadinanza
romana, con tutti i privilegi del
caso. Nulla di simile si ritrova nel mondo
greco, dove la separazione tra schiavi e
cittadini rimane netta e incolmabile.
Le cause tipiche della schiavitù, oltre
all’ipotesi di essere nato da una schiava,
erano rappresentate dalla sconfi tta militare
– i prigionieri di guerra, divenuti pro-
Sia in Grecia che a Roma non
c’erano radicali opposizioni alla
schiavitù. Essa era considerata
economicamente indispensabile.
prietà dello Stato, venivano venduti al miglior
offerente – e dall’indebitamento, che
faceva del debitore una proprietà del creditore,
il quale poteva decidere di venderlo
nei mercati trans Tiberim, decretandone
il passaggio alla condizione di schiavo.
Vi era inoltre un certo collegamento con
panorama per i giovani • 31

Foto: iStockphoto.com/PaoloGaetano
La La Guerra salute di nel Secessione mondo
la pratica dell’esposizione dei neonati: i
bambini, per essere accettati nella famiglia,
dovevano essere riconosciuti e accettati
dal pater, altrimenti venivano lasciati
nei boschi, dove potevano morire o essere
adottati e in questo caso avevano da adulti
la condizione servile. Possiamo analizzare
la sensibilità antica anche in questo senso:
il martire San Giustino difendeva la
pratica cristiana di non esporre gli infanti
soltanto per evitare che il bambino potesse
morire o essere avviato alla prostituzione,
non per prevenire in linea di principio che
potesse divenire uno schiavo.
È diffi cile proporre dati certi sull’ampiezza
di questo strato sociale. Analisi
quantitative del fenomeno sebbene imprecise
e opinabili, sono indicative: si è
detto che la percentuale di schiavi presente
a Roma e nell’Impero arrivò ad aggirarsi
attorno al 30%. La presenza di tanti
schiavi poteva causare problemi sociali:
si trattava di una fascia di popolazione numericamente
rilevantissima e abbastanza
instabile. La presenza degli schiavi generava
continui timori in seno alla nobilitas.
La classe degli schiavi, economicamente
necessaria e comunemente accettata, era
però sempre un possibile vespaio di proteste,
un calderone ribollente di sconten-
32 • n. 1, gennaio-aprile 2011
to. Non si può dire che le paure fossero
immotivate. A questo punto è d’uopo analizzare
alcuni fatti, entrambi collegabili
alla fi gura di Spartaco. Da un lato, la spietata
durezza con cui fu represso il suo tentativo
di ribellione, nel 71 a.C.: Crasso,
sconfi tto l’esercito degli schiavi in rivolta
(che aveva riportato diverse incredibili
vittorie sull’esercito romano), fece crocifi
ggere i prigionieri lungo la via Appia, da
Roma a Capua. Dall’altro, il perdurante
ricordo nella memoria dell’aristocrazia di
un tentativo estremo di sovvertire l’ordine
sociale, unito alla consapevolezza che le
braci sempre covavano in seno alla repubblica:
Cicerone, quasi trent’anni dopo gli
eventi, si rivolge al nemico Antonio nella
II Filippica con l’appellativo sprezzante:
“Spartaco! Che è peggio di Catilina...”.
Il fatto che il vanaglorioso politico, sempre
tronfi o della sua vittoria contro quella
congiura, arrivi ad adoperare tali parole
può signifi care una sola cosa: a Roma, per
i ricchi e per i possidenti, i pericoli più
temuti provengono dalla minaccia più vicina
e concreta, dagli schiavi.
Risulta chiaro, a un’analisi sintetica
della storia sociale greca e più ancora di
quella romana, come la schiavitù sia in
prima istanza una fondamentale necessità
economica di una società pre-tecnologica:
gli schiavi sono in primo luogo lavoratori,
forza lavorativa a poco prezzo. Dal
lavoro degli schiavi non si può prescindere.
Oggigiorno parlare di “necessità della
schiavitù” può far gridare allo scandalo da
più parti. Storicamente, dobbiamo riuscire
a comprendere come questa visione sia
semplicemente frutto di un’impostazione
mentale profondamente diversa da quella
antica, generata da premesse sociali ed
economiche altrettanto differenti. È da
sottolineare come non vi sia alcuna, se
non marginale, testimonianza di un autore
o intellettuale dell’antichità che si opponga
alla schiavitù come realtà strutturale
del sistema sociale. Nel corso della storia
possiamo trovare alcune singole fi gure di
schiavi o liberti (gli schiavi manomessi)
che assumono posizioni preminenti all’interno
del contesto in cui vivono, o parallelamente
alla blanda difesa, da parte di un
autore, di porzioni del tessuto della manodopera
schiavile. Ciò che colpisce, però, è
come sia in ambito greco sia romano non
vi siano radicali opposizioni alla schiavitù.
Ad Atene Aristotele e Senofonte trattano
il problema della schiavitù da un punto
di vista prettamente economico: la gestione
ottimale della casa e delle sue risorse.
Né diversamente fa Seneca, che pure dovrebbe
trovarsi su posizioni differenti per
la matrice fondamentalmente stoica del
suo pensiero. Dei primi autori cristiani
non vale quasi la pena di parlare: si è precedentemente
accennato a San Giustino e
consimili esempi non mancano. Anche il
pensiero paleocristiano ha (e non potrebbe
essere altrimenti) una matrice fondamentalmente
classica: dunque nessun autore
propugna (sulla scorta delle pagine fondamentali
e certo socialmente più “rivoluzionarie”
del Vangelo) un’uguaglianza
di diritti totale, che includa tutti gli esseri
umani. Al massimo, potrà includere tutti
gli “uomini”, ma certo gli schiavi pienamente
“uomini” non sono. Se possiamo
ormai ritenere estinta la schiavitù dal nostro
sistema sociale lo si deve anche – se
non principalmente – a ragioni economiche.
Non sono serviti gli sforzi dei giuristi,
né le rifl essioni dei fi losofi , né le parole
dei poeti. È stata solamente l’emersione di
nuove forme di lavoro subordinato che ha
portato a superare la schiavitù per come
era stata intesa nel mondo antico. Ma se
la schiavitù è sparita, ancora oggi si può
essere schiavi...

Alcune incongruità
della schiavitù
Slavery presents some “economic” pitfalls. Maybe, one of the most important
reasons why slavery came to an end was because it was no longer convenient...
di Giuseppe Grazioso
Il fenomeno della schiavitù, fi n dagli albori
delle civiltà più antiche, assunse dimensioni
estremamente rilevanti. Si pensi che,
secondo alcune stime, nelle polis greche
la forza lavoro costituita da schiavi era di
molto maggiore rispetto a quella fornita
da lavoratori liberi. La quasi totalità delle
economie, dalle più primitive fi no a quelle
presenti pochi secoli fa, si basavano largamente
sulla forza lavoro degli schiavi.
Già il codice di Hammurabi prevedeva la
possibilità di esercitare il dominium su un
altro essere umano: la necessità di questa
formalizzazione legislativa, in tempi così
antichi, nasceva anche dall’utilità economica
che lo schiavo rivestiva.
È tuttavia d’obbligo, tralasciando
nella nostra analisi l’indiscutibile negazione
di diritti che esso comporta,
chiedersi fi no a che punto un sistema
di produzione basato sulla schiavitù sia
economicamente valido. La convenienza
di questo modello produttivo si riteneva
risiedere nel fatto che il costo richiesto
allo schiavista risultava grossomodo pari
al necessario per la sopravvivenza dello
schiavo. È pur vero che a quest’onere,
di cui si deve sobbarcare il padrone,
dovevano essere aggiunti ulteriori costi,
quali, ad esempio, quelli connessi al controllo,
necessari affi nché lo schiavo non
fuggisse e svolgesse effettivamente il
lavoro ordinatogli, oppure quelli relativi
all’addestramento, utili affi nché lo schiavo
sapesse come svolgere i propri compiti
e potesse coordinarsi con gli altri
lavoratori. Queste ulteriori voci di spesa
rappresentavano comunque per il padrone
un esborso irrisorio se paragonato alla
quantità di forza lavoro di cui poteva disporre.
Non deve però essere trascurata
nemmeno un’altra importante componente
di costo, quella per acquistare lo
A destra: una stampa del 1881 rappresenta
il momento in cui gli schiavi vengono
caricati su una nave che li porterà
dall’Africa all’America.
schiavo o per allevarlo, se fi glio di schiavi.
Spesso, infatti, la maggior parte della
ricchezza dei grandi proprietari terrieri
era rappresentata dal valore di mercato
degli schiavi da essi posseduti e non dal
terreno di loro proprietà.
L’acquisto di un essere umano –
prescindendo da ogni valutazione etica
che risente dei valori oggi presenti
nella nostra civiltà – poteva anche non
risultare sempre
economicamente
conveniente.
Si tratta del caso
in cui il prezzo
pagato per lo
schiavo si fosse
rivelato eccessivo ex post a causa delle
sue cattive o insuffi cienti prestazioni.
Chiaramente questo rischio andava imputato
alla non corretta valutazione, da
parte dello schiavista, della forza lavoro
che lo schiavo era in grado di assicurargli
o che gli era necessaria per la produzione,
il che accade ancor oggi con
un cavallo da tiro o un asino da soma.
A tal proposito l’economista e fi losofo
La Guerra di Secessione
tedesco Max Weber, nella sua analisi
economica del ruolo della schiavitù,
pose l’attenzione proprio sull’impossibilità,
da parte del padrone, di operare
correttivi all’entità della forza lavoro
schiavizzata, per adattarla alle normali
oscillazioni che il mercato, o l’attività
economica, comporta.
D’altro canto diversi studi, come
quello condotto dall’economista statunitense
Kenneth Milton Stampp, sostengono
la tesi secondo la quale i costi relativi
allo schiavo erano egualmente gravosi
rispetto a quelli necessari per mantenere
un lavoratore libero che svolgesse le
stesse mansioni. L’unica differenza tra
le due situazioni risulterebbe dal divario
temporale su cui i costi stessi sono ripartiti:
nel caso del non libero, sono quasi
totalmente (al netto dei costi di sopravvi-
Nelle città greche la forza lavoro
costituita da schiavi era di molto
maggiore rispetto a quella fornita
da lavoratori liberi.
venza) concentrati nel prezzo d’acquisto
(se lo schiavo è stato acquistato), mentre
nel caso dello stipendiato sono rinvenibili,
diluiti nel tempo, nel salario mensile.
In ogni caso, a questa parità sostanziale
di costi non corrisponde una parità di
produttività-uomo, in quanto il numero
di ore lavorate da uno schiavo è in media
superiore a quelle di un dipendente.
In ultima analisi, per Stampp, il sistema
panorama per i giovani • 33
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La La Guerra salute di nel Secessione mondo
schiavistico, al netto delle evidenti immoralità
che ne sono alla base, risultava
Spesso la ricchezza dei grandi
proprietari terrieri era dovuta più
al valore di mercato degli schiavi
che alle loro terre.
economicamente conveniente, almeno
nelle piantagioni. L’applicazione del lavoro
schiavizzato si è sempre rivelata
inadatta in un settore in cui il lavoratore
deve essere formato e specializzato come
quello industriale.
Molte sono le obiezioni, di carattere
meramente utilitaristico, che possono es-
34 • n. 1, gennaio-aprile 2011
sere mosse contro le tesi dello Stampp.
Ad esempio, non bisogna commettere
l’errore di misu-
rare la produttività
avvalendosi
del solo computo
delle ore lavorate.
Già lo schiavista
americano
Edmund Ruffi n o l’economista irlandese
John Elliott Cairnes contestarono l’effi
cacia dello schiavo come forza lavoro.
A parità di altre condizioni, sarebbe
dimostrabile che la produttività di un
uomo libero è maggiore di quella di uno
schiavo. Il differenziale di resa lavorativa
tra libero e non libero è generato da
tre diverse cause: di ordine psicologico,
tecnico e fi sico. Lo schiavo, in primo
luogo, non ha motivo di lavorare di più
e meglio. Dunque la sua sottocapacità
lavorativa non deve intendersi come sottrazione
allo sforzo, ma piuttosto come
una generale incuranza nello svolgere
il proprio lavoro molto più presente che
negli stipendiati. E arriviamo al difetto
di natura tecnica: lo schiavo non possedeva
nessun tipo di addestramento,
ad eccezione di quello impartitogli dal
suo padrone, che spesso era frettoloso
e impreciso. Nonostante ciò è possibile
rintracciare casi in cui alcuni schiavi
particolarmente abili abbiano dimostrato
le loro capacità in ambito lavorativo. Si

pensi alla costruzione del Campidoglio
a Washington dove intervenne, a sostituzione
di un capomastro libero, uno
schiavo di colore. Da non trascurare è infi
ne l’evidente limite fi sico: i non liberi
avevano un’alimentazione e uno stile di
vita assolutamente diversi da quelli dei
lavoratori liberi (sicuramente in città e
non sempre nelle piantagioni). Alla metà
dell’Ottocento l’alimentazione media
di uno schiavo era molto povera di proteine.
Il suo sistema immunitario era in
genere fortemente debilitato e per giunta
l’incidenza di alcune malattie legate alla
malnutrizione era sensibilmente maggiore
che nei liberi che svolgevano lo stesso
mestiere e percepivano un reddito.
A sinistra: un campo di cotone prima della
raccolta.
La minore produttività, determinata
da tali cause, aveva ricadute fortemente
negative sul sistema economico schiavista
e agiva come elemento frenante per
lo sviluppo: un sistema in cui i lavoratori
erano scarsamente competenti e per nulla
motivati poteva essere soggetto solo a
uno sviluppo forzato generato dal vertice
produttivo (in questo caso lo schiavista),
senza che si generasse il meccanismo positivo
di sviluppo che si produce con la
messa a punto della produzione anche
da parte dei lavoratori. Nelle piantagioni
nordamericane che facevano uso di schiavi
durante la prima metà dell’Ottocento,
per esempio, si registrò esclusivamente
una crescita economica su schemi tradizionali,
ma non si ebbe innovazione nei
sistemi produttivi, che invece costituì il
fulcro dello sviluppo di alcune realtà rurali
europee. Questo è sintomo di un forte
rallentamento nello sviluppo dei processi
produttivi agricoli adottati anche a causa
della presenza della schiavitù. Come
è noto, la schiavitù propriamente detta
scomparve nel vecchio continente già
intorno al X secolo, mentre per quanto
riguarda il Nuovo Mondo bisognerà attendere
i moti abolizionisti della seconda
metà del XIX secolo.
Considerato tutto ciò, la fi ne del sistema
schiavistico rappresentò in molti casi,
oltre che un dovere di civiltà, l’unica soluzione
a uno sviluppo economico basato
sul progresso tecnologico e a una forza
lavoro in grado di rispondere agli incentivi.
Il modello schiavistico non deve essere
considerato di per sé economicamente
svantaggioso o non profi ttevole, al di
là delle evidenti
problematiche di
natura morale. La
sua esistenza, che
si è protratta per
secoli, dimostra
che non era un
sistema completamente ineffi ciente. Sicuramente
in contesti produttivi primitivi
la costrizione al lavoro dei prigionieri di
guerra e di coloro che erano impossibilitati
a pagare i debiti contratti si delineava
come particolarmente fruttuosa. Col
passare del tempo si iniziò a percepire
una sempre maggiore inadeguatezza di
La Guerra di Secessione
questa struttura produttiva. Già nel Basso
Medioevo la sostituzione della schiavitù
con la servitù della gleba rappresentò un
enorme passo in avanti sia dal punto di
vista del riconoscimento di alcuni diritti
(pochi, ma sostanziali per l’epoca), sia
dal punto di vista economico. Con la sua
introduzione si eliminarono alcune limitazioni
che caratterizzavano la schiavitù,
quali la mancanza di motivazione o la
scarsa competenza nello svolgere il proprio
mestiere. Al servo della gleba era riconosciuto
il diritto alla proprietà di beni
mobili e, nonostante il suo destino rimanesse
indissolubilmente legato alla terra
che aveva il compito di coltivare, non
era considerato una merce e quindi non
poteva essere venduto. Il meccanismo di
incentivazione al lavoro era attuato dando
la possibilità al servo della gleba di trattenere
parte del raccolto. La sua sopravvivenza
era più strettamente legata alla
produttività di quanto non lo fosse nello
schiavo. Qualche secolo dopo ritroviamo
ancora la mercifi cazione dell’essere
umano a danno dei nativi americani e soprattutto
dei neri d’Africa. La tratta degli
schiavi e il loro sfruttamento nelle colonie
americane ha comportato grossi vantaggi
per i coloni. È indiscutibile l’esistenza di
questi enormi profi tti, ma si sarebbero potuti
ottenere gli stessi o anche maggiori risultati
con manodopera salariata in luogo
di quella schiavizzata? È particolarmente
diffi cile rispondere a questa domanda, ma
è certo che dal punto di vista strettamente
economico la schiavitù è caratterizzata da
molte ineffi cienze.
Purtroppo, anche oggi assistiamo alla
nascita e allo sviluppo di nuove forme più
o meno celate di schiavitù, esempio di
come spesso gli interessi economici calpestino
profondamente la dignità umana.
Purtroppo oggi assistiamo
alla nascita di nuove forme di
schiavitù, che calpestano la
dignità umana.
Diviene quindi necessario abbracciare
una concezione economica di tipo diverso,
tesa alla creazione di benessere
grazie all’impegno e alla collaborazione
dell’altro e non al suo sfruttamento. Ovviamente
e innanzitutto perché è giusto.
E poi anche perché, alla resa dei conti,
conviene.
panorama per i giovani • 35

Foto: iStockphoto.com/jJacob
La Guerra di Secessione
La nuova schiavitù
Although prohibited almost everywhere, slavery is still practised in many parts
of the world, such as India, Pakistan, southern and eastern Asia, Africa and Latin
America. Among millions of modern slaves, there are also thousands of children.
In Thailand, for example, teenagers from poor villages of the North are forced
into prostitution in order to pay their family debts. Similarly, a huge percentage of
Punjabi children are sold to the furnace owners and employed in making bricks,
together with their family. How to fi ght slavery? Instead of focussing on corrupt
governments or public administrations, we should rely on civil society, local
associations, NGOs and on the power of the international community.
di Natalia Pazzaglia
Che si tratti di scarpe fatte da schiavi pakistani,
di giocattoli oppure di camicie
cucite da schiavi caraibici, un gigantesco
sistema di sfruttamento del lavoro ruota
tuttora attorno alla schiavitù. Come e perché
si manifesta ancora questa vergogna?
Quali sono i volti degli schiavi del XXI
secolo? Quali le dimensioni del dramma?
“La schiavitù è lo stato o condizione di
un individuo sul quale si esercitano gli attributi
del diritto di proprietà o alcuni fra
essi”, stabiliva nel 1926 la Convenzione
internazionale sulla schiavitù della Società
delle Nazioni (art. 1). A rigor di logica,
perciò, di schiavi ne esistono ancora.
In passato la schiavitù era legata a un
diritto di proprietà legalizzato, giustifi cato
da un principio di superiorità razziale e
nell’antichità greca e romana dalla sconfi
tta in guerra. Oggi, invece, non si tratta
più di possedere un essere umano, ma di
ottenerne il controllo e mantenerlo attraverso
la coercizione, inseguendo un’etica
del denaro fondata sulla ricerca del mi-
36 • n. 1, gennaio-aprile 2011
nor costo del lavoro. Nonostante che la
schiavitù sia proibita dalla Dichiarazione
Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948
e dalle legislazioni di quasi tutti i paesi
del mondo, milioni di “schiavi” vivono
ancora oggi in India, Pakistan, nel Sud-
Est asiatico, nell’Africa settentrionale e
occidentale e in alcune zone dell’America
Latina.
Tra le tante forme di schiavitù ancora
esistenti due in particolare meritano
un’attenta rifl essione, con la speranza che
in un futuro prossimo se ne possa fi nalmente
decretare la scomparsa.
Le prostitute bambine
“Tutto si vende, tutto si compra, compreso
il corpo umano”, disse Zaki Laidi
durante una conferenza a Parigi nel
giugno 1998. Il sesso in Thailandia si
vende ovunque. Ciò che è drammatico,
però, è che ci siano più di 35.000
adolescenti ridotte in schiavitù, ragazze
di campagna vendute dai loro genitori
A sinistra: un bambino trasporta un tronco
verso l’ingresso di un villaggio del Vietnam
settentrionale.
ai bordelli, dove vengono avviate alla
prostituzione (dati tratti dal saggio di
Kevin Bales, I nuovi schiavi: la merce
umana nell’economia globale, Milano
2000).
Dietro tale comportamento non c’è,
peraltro, l’inconsapevolezza del futuro
che aspetta le loro fi glie: sono piuttosto
la povertà e la rassegnazione le principali
ragioni socio-economiche che spingono i
genitori verso una scelta apparentemente
incomprensibile.
Tra le cause vanno annoverate le antiche
credenze che guardano alle donne
come a esseri inferiori e la memoria di
un passato dove per centinaia di anni i
figli sono stati considerati delle merci.
A ciò si aggiungono le conseguenze del
boom economico, che ha rapidamente
industrializzato il Centro-Sud, aumentando
i salari di braccianti e operai e
facendo crescere la loro domanda di
prostitute. Nel montagnoso (e più arretrato)
Nord, invece, non sono migliorati
i guadagni dei coltivatori di riso,
ma si è sviluppata una forte domanda
di beni di consumo prima sconosciuti.
Così molte sensali hanno cominciato
a recarsi nei poveri villaggi del Nord,
dove, corrotti i funzionari del posto,
offrono alle famiglie delle bambine
prestiti, da ripagare col “lavoro” delle
figlie.
Le somme prestate sono spesso molto
rilevanti rispetto al guadagno medio
delle famiglie della zona e il tasso
di interesse è esorbitante. Così nasce
un vincolo da debito virtualmente impossibile
da saldare, che costringerà le
bambine a una schiavitù sessuale dalla
quale avranno pochissime speranze di
liberarsi. Il loro è, infatti, quasi sempre
un viaggio senza ritorno, verso un
drammatico destino: resistere, tentare
la fuga può voler dire fi nire ammazzate
dagli agenti di un crimine organizzato
che non conosce pietà.
Venduti alle fornaci
Per quanto riguarda lo sfruttamento minorile,
uno dei casi più eclatanti è quello
del Pakistan, anche se tanti sono anche gli
schiavi bambini che lavorano nei campi
di carbone del Mato Grosso, in Brasile, o

quelli impegnati nella produzione di fi ammiferi
e fuochi d’artifi cio nello stato del
Tamil Nadu.
Nel caso del Pakistan sono ancora
una volta i debiti di famiglia la ragione
della schiavitù che affligge tanti bambini,
segmento importante della forza
lavoro impiegata nella produzione di
mattoni. In un paese dove le famiglie
senza terra sono circa 15 milioni, le
opzioni per chi non ha un tetto sono
poche: così molti contadini si sono
venduti ai proprietari delle fornaci e
si vedono costretti a utilizzare anche il
lavoro dei propri figli per estinguere il
debito.
Alla base del lavoro minorile c’è,
ancora una volta, l’estrema povertà che
affligge milioni di persone in alcune
zone del mondo. A monte, però, ci sono
delle cause “globali” quali l’esplosione
demografica registrata dopo la fine
della Seconda Guerra Mondiale e la
rapida modernizzazione sperimentata
in quegli anni da molti paesi in via di
sviluppo, che ha dato il via al rapido
arricchimento delle classi agiate e a un
drammatico impoverimento, almeno in
termini relativi, della maggioranza della
popolazione.
Si potrà mai mettere davvero fi ne alla
schiavitù?
Che fare? Non bastano, probabilmente,
nuove leggi, che, anche se fossero rispettate,
si troverebbero spesso di fronte
governi pronti a collaborare con gli
schiavisti. Ciò che servirebbe, invece, è
un cambiamento culturale e, soprattutto,
il rovesciamento di un’amorale economia
dello sfruttamento.
Quello che si può fare fi n da ora è
mettere tali abusi sotto gli occhi di tutti,
organizzare campagne mediatiche, esercitare
una pressione fi nanziaria sui governi
corrotti, sostenere i gruppi locali facendo
pressione politica e fornendo loro denaro
e appoggio legale.
A livello internazionale, poi, l’azione
delle Ong e di molte associazioni benefi -
che occidentali, le sanzioni economiche,
l’attività dei tribunali di giustizia possono
fare tanto.
L’importante è non chiudere gli occhi
o, peggio, restare a guardare.
“Se non possiamo scegliere di mettere
fi ne alla schiavitù, come possiamo dire di
essere liberi?” (K. Bales, I nuovi schiavi,
op. cit., p. 247).
Lo sfruttamento nei campi
e nei cantieri italiani
In Italy there are still forms of modern slavery on workplaces, especially in
agriculture and on building sites. Most of the Third-Millenium-slaves are
from abroad. The conditions in which they live are dramatic and mass media
often tend not to give enough space to the subject. In Rosarno a group of
immigrants rebelled against their “caporali” and exposed the scandal of their
exploitation, which should not be allowed in a modern, rich Western Country.
di Livio Ghilardi e Chiara Curia
C’era una volta lo schiavismo in Italia?
Nell’antichità senz’altro. C’è ancora oggi,
però, nonostante gli immensi passi avanti
fatti in materia di diritti, garanzie e tutele
a favore dei lavoratori nel corso del Novecento.
L’art. 4 della Costituzione italiana
recita: “La Repubblica riconosce a tutti i
cittadini il diritto al lavoro e promuove
le condizioni che rendano effettivo questo
diritto. Ogni cittadino ha il dovere di
svolgere, secondo le proprie possibilità e
la propria scelta, un’attività o una funzione
che concorra al progresso materiale o
spirituale della società”. Il principio lavorista
viene così incluso fra quelli cardine
della nostra Repubblica, fondata sul lavoro,
come afferma l’art. 1 in una formula
bellissima, ma spesso disattesa.
Nonostante anni e anni di lotte dei
lavoratori e nonostante l’approvazione
dello Statuto dei lavoratori (legge n. 300
del 20 maggio 1970), ancora oggi nella
nostra penisola c’è chi muore sul lavoro
La Guerra di Secessione
e ci sono tantissimi esseri umani sfruttati
dal mercato nero e dalle mafi e. Tutto ciò
spesso avviene alla luce del sole, senza
che le autorità di competenza riescano a
intervenire in maniera effi cace. Sono passati
quasi cento anni da quando il grande
sindacalista pugliese Giuseppe Di Vittorio
cominciò a denunciare la situazione
drammatica dei braccianti meridionali e a
correlarla alle lotte del proletariato industriale
del Nord, così formando un quadro
ben delineato del lavoro subalterno in
Italia. Oggi molto è cambiato, fortunatamente,
ma ancora imperversa lo sfruttamento
malavitoso della manovalanza, saldamente
in mano alle mafi e, le cui spire
si diramano per ogni settore lavorativo,
andando a colpire soprattutto l’edilizia e
l’agricoltura. Tanti, troppi sono i lavoratori
in nero sottomessi al caporalato, costretti
a percepire una misera paga giornaliera
e a vivere in condizioni indegne
di un essere umano. Come dimostrato, fra
panorama per i giovani • 37
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La Guerra di Secessione
l’altro, da un interessantissimo reportage
di Fabrizio Gatti per L’Espresso, a essere
sfruttati e schiavizzati sono per lo più
extracomunitari, con o senza permesso
di soggiorno, “costretti a subire i ricatti
di uomini grandi ma come coriandoli”,
citando la famosa hit Vieni a ballare in
Puglia del rapper molfettese Caparezza,
che in un’effi cace disamina sui problemi
della sua regione ha dedicato grande spazio
soprattutto alla precarietà del lavoro e
alle morti bianche. Rumeni, bulgari (anche
dopo l’entrata dei loro paesi nell’Unione
Europea), africani sono i protagonisti
di sorti drammatiche lontane dai
rifl ettori dei mass media e dall’attenzione
della società civile, che molto spesso
preferisce non vedere uno sfruttamento
anche troppo evidente, ma comodo per
un popolo che ormai non è più disposto
a svolgere determinate attività e le lascia
ai nuovi “schiavi” del ventunesimo secolo.
Quando questi ultimi si ribellano
e scendono per le strade di un paese a
denunciare le proprie precarie condizioni
di vita e di lavoro, allora la rabbia esplode
e sale alle luci della ribalta. È proprio
quello che è avvenuto a Rosarno agli inizi
di gennaio del 2010. Gli avvenimenti
del 7-9 gennaio hanno radici in anni
passati; nel ventennio che va dal 1950
al 1970, infatti, ci furono diverse proteste
da parte delle raccoglitrici di olive,
numerosissime nella piana di Rosarno,
per ottenere aiuti che migliorassero le
loro condizioni di vita; i sussidi statali
38 • n. 1, gennaio-aprile 2011
e i fondi europei per l’agricoltura hanno
generato ad oggi un numero altissimo
di false braccianti, stimato fra le 5.000
e le 7.000. Con l’apertura delle frontiere
Rosarno iniziò ad ospitare i primi immigrati
come braccianti a basso costo per
l’agricoltura, fi no ad averne circa 1.500
nel 2010, alloggiati in baracche e stabilimenti
industriali in condizioni al limite
della sopportazione e della dignità umana.
A inasprire ancora di più i rapporti fra
gli immigrati e la popolazione locale ha
concorso un clima nient’affatto sereno,
corroso dalla presenza della ’ndrangheta
e dall’immigrazione clandestina. Ogni
pretesto, in un ambiente simile, sarebbe
stato buono per far esplodere una bomba
in preparazione da tempo. Il 7 gennaio
2010 tre immigrati di ritorno dai campi
furono raggiunti da colpi d’arma ad aria
compressa sparati da sconosciuti: è la
chiave che spalanca le porte dell’inferno
a Rosarno. La sera stessa del ferimento,
un numero considerevole di immigrati
si scontrò violentemente con le forze
dell’ordine in segno di protesta, il giorno
seguente circa 2.000 di loro marciarono
per le vie della città scontrandosi più
volte con la polizia; in seguito agli attacchi
a negozi e automobili, la reazione
dei Rosarnesi fu quella di formare ronde
autonome che, armate di mazze, ferirono
gravemente diversi extracomunitari.
Si ebbero diversi agguati da parte degli
abitanti della città e addirittura l’incendio
di un capannone, punto di ritrovo per
A sinistra: un campo di pomodori. Nella
pagina precedente: un cantiere edile.
gli immigrati, prima di poter riportare la
calma in città e avviare il trasferimento
della maggior parte dei migranti ai centri
di identifi cazione e di espulsione di Bari
e Napoli.
Rilevante fu il ruolo che nella vicenda
ebbe la ’ndrangheta: la magistratura,
infatti, dopo gli scontri, iniziò a indagare
sul coinvolgimento delle ‘ndrine.
Signifi cativi furono l’arresto di Antonio
Bellocco, esponente dell’omonimo clan,
il quale investì alcuni immigrati, e quelli
di altri esponenti del clan in seguito a
un’azione giudiziaria parallela avviata
dopo gli scontri. La gravità degli eventi
non poté che scatenare forti reazioni: dal
parroco della città calabrese, don Carmelo
Ascone, che denunciò la situazione
di grave disagio in cui erano costretti a
vivere gli immigrati, fi no a critiche ben
più pesanti giunte anche dall’estero. The
Economist defi nì il comportamento dello
Stato italiano “una pulizia etnica” di una
violenza inaudita, frutto dei disagi sociali
ed economici che attanagliano il Meridione.
In un contesto simile non mancarono
neppure le dure critiche dell’Onu, che in
una relazione sui fatti accaduti accennò a
seri problemi razziali cui le istituzioni dovrebbero
rispondere con il rispetto totale
delle leggi sull’immigrazione e sui diritti
umani.
Dopo i fatti di Rosarno, purtroppo,
poco è cambiato. Lo “schiavismo” continua
a imperversare per i campi di Puglia,
Basilicata, Calabria e Sicilia e in
molti cantieri di tutta Italia, quasi sempre
trascurato e celato se non in occasione
delle drammatiche morti bianche
che, tuttavia, non sorprendono un paese
ormai assuefatto a tali tristi notizie,
incapace di reagire e di porre fi ne allo
sfruttamento. Salvo poi protestare per
la presenza di migranti nelle città e per
l’arrivo dei tantissimi barconi che continuano
a raggiungere le coste italiane,
soprattutto in seguito alla “rivoluzione
dei gelsomini” che sta interessando tutti
i paesi africani e mediorientali che si affacciano
sul Mediterraneo. Appare evidente
la necessità di un deciso cambio
di prospettiva, soprattutto di comportamenti
più che di norme per combattere
lavoro nero e sfruttamento dell’immigrazione.

Questo numero ha come tema la Guerra di Secessione
negli Stati Uniti: cause, svolgimento, risultati. Tema
grave, che viene affrontato in numerosi contributi nei
suoi più diversi aspetti con considerazioni pertinenti
e acute osservazioni.
La dichiarazione di indipendenza dovuta all’alata penna di Thomas
Jefferson dà l’avvio al discorso: fa da prologo alla Costituzione,
che, con il marchio di Montesquieu sull’idea di divisione dei poteri
e di Rousseau sulla libertà e sui rapporti sociali, ha una tale dignità
da essere il più prestigioso documento statuale del tempo e delle
epoche successive e da essere defi nita da Martin Luther King “la
più eloquente e non ambiziosa espressione della dignità dell’uomo
che sia mai stata racchiusa in un documento politico-sociologico”.
E allora vien fatto di domandarsi perché quegli uomini egregi
che costituirono l’assemblea costituente (un’assemblea di semidei,
secondo Jefferson), i Washington, i Jefferson, gli Adam, i
Madison, i Franklin e così via, quegli uomini non regolarono il
tema della schiavitù, ma decisero di non parlarne sino al 1808?
Non vollero porvi mano – a mio avviso – per opportunità:
il rischio di perdere migliaia di braccia nere poteva signifi care
il crollo dell’intera economia del Sud basata sulla monocoltura
del cotone. Così dettero – nel silenzio – il loro avallo a un regime
crudele, che offendeva non tanto e non solo il fi sico, ma la
“coscienza” di milioni di esseri umani che, pur “neri”, questa
coscienza avevano. Fu necessaria la Guerra di Secessione, nata
come ribellione del Sud al sistema delle tariffe che lo impoverivano
e che erano state imposte dal Nord; un Nord che, con Lincoln,
si fregiò anche della ideologia dell’emancipazione.
Questa coscienza offesa dalla schiavitù il popolo africano ce
l’ha; nessuno può metterlo in dubbio.
Posso defi nire la coscienza “africana” un misto di dignità e
di religiosità alleggerite da forme di infantilismo e aggravate da
manifestazioni di ferocia; ferocia, comunque, che non è un’esclusiva
africana, pensando ai massacri fatti dai “bianchi”, anche
in Africa.
Di queste qualità – positive e negative – ho avuto tante prove.
Tanto per fare un esempio, in un colloquio con un religioso africano
di grande umanità, il vescovo di Bamako, ebbi a domandargli
le motivazioni per cui il governo del Mali aveva tagliato
la ferrovia Koulikoro-Daware, unico cordone ombelicale che li
univa con quel porto in Senegal. Sorridendo mi raccontò una
storiella, ora nota anche da noi: a seguito di un incendio nella
foresta si trovarono sulle rive di un fi ume uno scorpione e un
ippopotamo; lo scorpione chiese un passaggio e pur con qualche
dubbio l’ippopotamo accettò, ma giunti in mezzo al fi ume lo
scorpione affondò il suo pungiglione; l’ippopotamo affondando
chiese perché l’avesse fatto; “C’est l’Afrique”, fu la risposta.
Un altro episodio mi accadde alla Conferenza sul fi ume Niger
a Niamey (1963). Ero relatore di un rapporto compilato
post scripta
per le Nazioni Unite sull’utilizzo delle risorse del fi ume Niger.
Responsabile presso le Nazioni Unite era un sacerdote gesuita,
père du Bevery, professore alla Sorbona e poi in Cina da
cui, espulso, approdò alle Nazioni Unite. Père du Bevery aveva
letto il rapporto e suggerito di togliere le conclusioni. Al mio
stupore rispose che gli “africani” non amano sentirsi imporre
soluzioni, ma che queste – opportunamente e ragionevolmente
fatte conoscere – sarebbero state fatte proprie e approvate; e
così avvenne.
Avevamo un piccolo accampamento (tre tende) presso un
villaggio sul fi ume Sankarani (affl uente del Niger) per lo studio
di una diga che fu poi realizzata; avevamo sistemato un grosso
frigorifero sotto un albero e lo avevamo chiuso con un lucchetto
supplementare. Una sera vennero da noi il capo-villaggio con tre
anziani e ci dissero che quel lucchetto li offendeva. Lo togliemmo
e in vari mesi non mancò mai niente.
In Mali abbiamo realizzato più di mille pozzi dando acqua ad
altrettanti villaggi, quale dono della Cooperazione Italiana; ebbene,
la maggioranza di quei villaggi, pur apprezzando il dono,
volle tassarsi per circa 300 euro (cifra consistente per quelle povere
comunità) per realizzare attorno ai pozzi opere complementari
(muretti, pavimentazione ecc.) al fi ne di poter dire che quei
pozzi erano anche loro.
In Ciad abbiamo realizzato altrettanti pozzi, tra cui alcuni
alimentati da foto-voltaico. Per questi ultimi, nei quali si risparmiava
il pompaggio manuale, l’Unione Europea, che fi nanziava
il progetto, impose un pagamento: pochi centesimi per 20 litri
pro capite.
Ebbene, ricordo la dignità con cui le donne, sempre loro adibite
al settore acqua (!), estraevano quelle poche monete e poi si
allontanavano felici non solo di possedere una tanica di acqua
potabile, ma anche di averla pagata!
Popolazioni quindi che sono un misto di umanità, di dignità,
ma anche – come si è detto – di infantilismo e talvolta di ferocia.
E comunque – a mia conoscenza – non soggette a forme di schiavitù,
se non per le donne “schiave dell’acqua”, costrette a lunghe
e faticose corvé per attingere a lontane fonti. E così si espresse il
prefetto di una provincia del Mali, ringraziando per i nostri pozzi
che avevano emancipato le donne da quella schiavitù.
Fu la Guerra di Secessione a sopprimere di diritto la schiavitù:
ma qualche segno rimase. La Capanna dello zio Tom dette
inizio a un’ondata di commozione, ma al Sud rimase la segregazione;
fu talvolta necessario l’intervento della Guardia Nazionale
per consentire l’accesso di afro-americani alle scuole pubbliche.
Oggi il sogno di Martin Luther King sta per avverarsi: un
afro-americano è Presidente degli Stati Uniti.
Agli uomini di buona volontà compete l’obbligo di augurarsi
il meglio per quel grande popolo.
Carlo Lotti
panorama per i giovani • 39

Primo piano
Il Festival
della cultura russa
As an unique chance to come in touch with Russian language and culture,
the 2011 Festival of Russian Culture in Rome fostered cultural and economic
relations between Italy and Russia. Within the framework of the “Italian
year in Russia”, the festival was made up of various initiatives, ranging from
energy policy to music and poetry, and presented the audience with a vivid
image of contemporary Russia. Change and contradictions in modern Russia
were apparent to the audience as traditional songs were played and economic
and social issues were debated.
di Claudia Macaluso
Il Festival della Cultura Russa, tenutosi
tra il Campidoglio, i palazzi del centro
di Roma e l’Università La Sapienza tra il
14 e il 17 febbraio 2011, ha dato un'immagine
chiara della profondità culturale
e al tempo stesso delle contraddizioni
che caratterizzano oggi il gigante russo,
coinvolgendo l’establishment – incluso
il presidente Medvedev – al pari della
comunità russa di Roma e spaziando dai
La fi sica, l’astrofi sica, la
matematica e gli scacchi sono
state fra le passioni russe più
celebrate dal Festival.
temi degli affari, ovviamente concentrati
nel campo dell’energia, a quelli culturali,
con una particolare attenzione alla musica
popolare e alla moderna poesia, fi no all’i-
40 • n. 1, gennaio-aprile 2011
struzione superiore, con la presentazione
di diverse università di Mosca e San Pietroburgo,
culmine dello sforzo per presentare
una Russia moderna, effi ciente e,
soprattutto, ancora culturalmente vitale.
Il Festival della Cultura Russa è stato
innanzitutto una celebrazione della
sua lingua e ha offerto a tutti coloro che
la studiano l’impareggiabile occasione di
sentirla utilizzare come veicolo di cultura
e di esperienze.
La lingua di un
popolo parla della
sua anima, il che è
senza dubbio vero
per la Federazione
Russa. Tanto
per cominciare, il russo non ha dialetti ma
solo infl essioni regionali. Questa sua qualità
granitica non ne intacca tuttavia la ricchezza
lessicale che, dalla Siberia a Mo-
sca al Caucaso, si dispiega in tutto il suo
splendore soprattutto nel lessico gastronomico
e nei testi spirituali – temi entrambi
approfonditi nelle giornate del festival.
Antichissima, parlata fi n dal 1000 d.C.
dalle tribù slave del Principato di Smolensk,
la lingua russa si scrive con caratteri cirillici,
la cui introduzione è tradizionalmente
attribuita ai Santi Cirillo e Metodio nel sec.
X d.C., sulla base di quelli greci. L’alfabeto
originario è stato riformato diverse volte:
in epoca moderna da Pietro il Grande, che
introdusse molti termini tecnici dalle lingue
europee e riformò la sintassi e, poi, in tempi
ancora più recenti, nel 1918 e nel 1964.
La prima delle due riforme, dopo la Rivoluzione
di Ottobre, mirava a semplifi care
l’ortografi a, introdurre i nuovi termini della
propaganda ed eliminare molti arcaismi,
come le lettere ѣ, і, ѵ e ѳ nonché l’uso del
cosiddetto segno forte, ъ, in fi ne di parola.
La seconda riforma, del 1964, si proponeva
un’incisiva azione di semplifi cazione
dell’ortografi a, che non poté essere portata
a termine effi cacemente a causa dell’instabilità
politica di quegli anni. Il russo di oggi
rispecchia il clima culturale del paese: pieno
di parole straniere, soprattutto inglesi e
in particolare nel campo dell’economia, è
arricchito anche da un revival di termini arcaici,
per lo più legati alla liturgia ortodossa.
Permettetemi ora di soffermarmi su
due aspetti strutturali della lingua russa –
uno dei quali citato in precedenza – che
non solo colpiscono coloro che si trovano
a studiarli, ma svelano anche caratteristiche
insospettate di questa straordinaria
cultura. Mi riferisco all’uso degli “aspetti”
dei verbi e alla presenza di “operatori”
linguistici. L’aspetto del verbo, una caratteristica
già del greco antico, distingue
tra verbi processuali e verbi risultativi:
come a dire, una cosa è l’azione del leggere
come passatempo, azione prolungata,
abituale e una cosa è leggere un libro
fi no in fondo e fi nirlo. Così, mentre l’italiano
dice “leggere”, il russo distingue
tra “читать” e “прочитать” (da leggersi
citàts e pracitàts) che hanno il signifi cato
di “leggere” e di “fi nire di leggere”, se vogliamo.
Questa distinzione tra azioni ripetute
e azioni con uno scopo ben preciso,
fi nalizzate, è illuminante della mentalità
russa: prima di essere enunciate le azioni
vengono soppesate e, se necessario, si attribuisce
loro un fi ne e una fi ne. Insomma,
la versione russa dell’adagio delle nostre
mamme “pensa, prima di parlare!”.
Foto: iStockphoto.com (serpla; johnandersonphoto)

Un’altra curiosità riguarda l’utilizzo
del segno forte e debole, ъ e ь. Sono dei
segni, non delle vere e proprie lettere, che
modifi cano il suono della consonante che
li precede. In questo senso, essi sono affi
ni agli operatori matematici, sono dei
simboli di una operazione logica su quel
codice che è l’alfabeto. Insomma, dove
l’italiano ha la “b” e la “p”, il russo può
scrivere “б” e “ бь”: il segno debole addolcisce
la “b” e ne modifi ca la pronuncia
in “p”. L’affi nità del sistema dei segni con
quello degli operatori matematici è fonte
di meraviglia tra gli studenti della lingua
russa e testimonia del carattere peculiare
di questo popolo, che ha sempre fatto
della conoscenza e della scienza la sua
massima ambizione. Non a caso la fi sica,
soprattutto l’astrofi sica, la matematica,
la teoria della probabilità e il gioco degli
scacchi sono state, tra le passioni russe, le
più celebrate durante il festival.
Un’altra delle tradizionali glorie del
popolo russo è la musica, tema che ha
animato la serata fi nale del festival, in cui
alcuni musicisti (giovanissimi) e una cantante
hanno eseguito brani della tradizione
russa, tra cui i celeberrimi Очи чёрныи
(oci ciornìi, “occhi neri”) e Балальайка
(balalaika). Sono stati momenti emozionanti,
in cui rabbia e nostalgia verso il
passato si sono fuse e il ricordo del fasto
zarista e della povertà di sempre hanno
alimentato nei russi presenti sgomento
o scherno, a seconda dell’età. I giovani
studenti venuti da Mosca, infatti, guardavano
a quelle vestigia del passato come a
ciarpame da mettere in soffi tta, per sempre,
per farsi strada senza ulteriori zavorre
nel mondo moderno. “Sono solo vecchie
canzoni.” I più vecchi, invece, con le lacrime
agli occhi, ricordavano бабушка
(babuška, la nonna) che cantava le stesse
nenie, quando faceva così freddo che la
mattina il latte per i bambini era una fetta
solida, ghiacciata, e bisognava farla sciogliere
lentamente sul fuoco. Mi sono commossa
con loro, per la bellezza di questa
Russia arcaica dura a morire, per lo sforzo
di andare nel futuro senza perdere le origini,
sforzo immane e non sempre indolore.
Il Festival della Cultura Russa non è
stato però solo una splendida occasione per
parlare in russo e per avvicinarsi alla Russia
contemporanea. Soffermandoci sulle molteplici
relazioni politico-economiche che
l’Italia intesse con quel paese, da un lato lo
sforzo russo di legittimarsi come potenza
mondiale, dall’altro la grande opportunità
che il mercato russo offre alle imprese italiane,
hanno fatto del Festival un momento
chiave nell’avvicinamento tra i due paesi.
D’altra parte il 2011 è stato dichiarato
dai rispettivi governi “l’anno dell’Italia in
Russia” e sono una cinquantina le istituzioni
italiane coinvolte, tra cui il l’Opera
di Roma, La Scala
di Milano e il San
Carlo di Napoli, il
Coni e la Biennale
di Venezia. Sono
molte anche le
imprese, in prima
fi la ovviamente Eni, Enel e Finmeccanica,
ma anche Terna e Poste Italiane. Le città
interessate nel territorio della Federazione
Russa sono 32, con in testa Mosca e San
Pietroburgo ma anche nomi meno noti
come Samara e Saratov.
L’attenzione è tutta sull’arte e sulle
“eccellenze italiane d’oggi” e il programma
prevede molte iniziative culturali: mostre
di Raffaello, Caravaggio e Botticelli
al Museo Puskin di Mosca, concerti del
Maggio Musicale Fiorentino a Mosca e
San Pietroburgo, rappresentazioni della
Commedia dell’Arte e del Teatro delle
Marionette in moltissime città, sezioni de-
Primo piano
Sopra e nella pagina precedente: due
simboli della cultura russa, la balalaika e la
matrioska.
dicate al design e all’innovazione tecnologica
organizzate dal Cnr e dalla Triennale
di Milano e persino una mostra dedicata
ai presepi napoletani dell’Ottocento, alla
cattedrale di Cristo Salvatore di Mosca.
Il 2011 è stato dichiarato
dai rispettivi governi “l’anno
dell’Italia in Russia”: rifl ettori su
arte ed eccellenze italiane.
Questa collaborazione economica e
culturale non potrà non fare del bene a
entrambi i paesi, poiché aumenta la conoscenza
reciproca tra i popoli e l’integrazione
tra le economie. Non ci resta che augurare
buona fortuna alle imprese del made
in Italy in questa crescente sfi da internazionale
e, perché no?, un augurio di cuore
anche al popolo russo, perché persegua lo
sviluppo economico tenacemente, ma senza
relegare nell’oblio la ricchezza culturale
e la sete di bellezza che gli sono proprie e
perché, magari, coltivi anche l’ambizione
di trasmettere tanto fervore estetico alla
vecchia, disincantata Europa.
panorama per i giovani • 41

Primo piano
Il paese
dei dragoni
Ten days in a country marked by very profound contradictions: Shanghai,
Xi’an and Beijing are the litmus paper of an economic, historical and political
development that seems to be not only unprecedented but also unstoppable.
di Selene Favuzzi
Non ci sono forse paesi che più della Cina
stravolgano del tutto le aspettative con cui
s’era partiti. Prima del decollo sarebbe
fondamentale liberarsene completamente.
Com’è possibile però sfi larsi l’abito di
tutte le cose che abbiamo sentito, immaginato
e pensato prima sull’immensa Cina?
I servizi televisivi, i documentari e le mostre
sulle antiche glorie, le parole accorate
di certi economisti, i fi lm sul kung fu e
quelli alla Ultimo Imperatore di Bertolucci,
i colori delle Chinatown americane,
gli articoli e i libri di Tiziano Terzani e
le immagini dei venditori ambulanti per
le strade delle nostre città... Tutte queste
cose hanno contribuito a formare un’immagine
ben precisa, se pur decisamente
sfaccettata, di quello che avremmo voluto
vedere. L’uomo spesso procede alla
ricerca di conferme; non importa quanto
lontani i paesi, né strane le cose da confermare.
Eppure vi sono talvolta persone o
luoghi che rendono ciò estremamente diffi
cile, sempre che non si voglia scendere
a compromessi al limite della credibilità.
La Cina è uno di questi.
L’attenzione di tutto il mondo è
rivolta alla Cina: il tempo scorre
troppo veloce perché si possa
rifl ettere.
Shanghai
Il nostro aereo fi nalmente decolla da Parigi.
Delle minuscole gocce sul fi nestrino
si cristallizzano in un istante creando un
improvvisato e splendente mosaico in trasparenza,
mentre fuori diminuisce la temperatura
e la quota aumenta; fra qualche
ora, quando il calore le scioglierà nuovamente,
saremo arrivati. Spostiamo di sette
ore in avanti la lancetta corta dell’orologio
(sintonizzandoci sul fuso orario di
42 • n. 1, gennaio-aprile 2011
Pechino, che è legalmente imposto a tutta
la Cina!) per farci accogliere da un pomeriggio
grigio di Shanghai. Impazienti di
uscire aspettiamo il buio e una fi la di taxi
che ci portino in centro, verso il Bund, il
lungofi ume. È un viale dritto e larghissimo,
ben illuminato. Da una parte sfi lano
uno accanto all’altro gli edifi ci storici costruiti
fra gli anni Venti e Trenta in stile
americano, ognuno con la sua targhetta
dorata “Cultural Heritage”, banche, consolati
e alberghi di lusso (fra cui il celebre
Peace Hotel con il suo Old Jazz Bar noto
a livello internazionale); dall’altra l’acqua
scura del fi ume Huangpu rispecchia le
luci scintillanti di Pudong, la parte occidentale
della città, il quartiere sconfi nato
sorto in pochi anni fra grattaceli in gara
uno con l’altro per altezza e splendore. Si
dice che chi desideri capire come i cinesi
vorrebbero il loro paese, non può non
passeggiare all’ombra di questi giganti di
vetro e d’acciaio. La notte i palazzi più
grandi sono schermi accesi senza tregua
e proiettano le loro luci sulle sottili increspature
del fi ume, attraversato ogni tanto
da macchie più
scure dell’acqua:
enormi chiatte
mercantili segnalate
solo da due
minuscole lucine
a prua e a poppa,
giganti scuri lasciati nel buio forse perché
miseri in confronto allo sfavillare delle
navi da crociera ancorate poco più in là.
Più dell’aria fredda ci colpisce il silenzio
del vasto viale; sino a perdita d’occhio
siamo soltanto noi a camminare sul suo
pavimento pulitissimo e perfetto. È una
sensazione strana: per chi sono accese
quelle luci oltre il fi ume? Solo per noi e
qualche altro sparuto turista? Gli abitanti
di Shanghai tornano a casa presto, vanno
Foto: Selene Favuzzi
a dormire subito e lavorano, lavorano tanto;
non c’è l’abitudine di uscire la sera e
così, l’atmosfera è irreale. Meraviglie architettoniche
sorgono dal suolo al ritmo
di sei piani a notte, e colossi s’innalzano
dove un tempo c’erano le tradizionali
case basse. Solo i palazzi lungo il Bund
sono ancora gli stessi in città…tutto il resto
o è stato restaurato e brilla privo della
patina del tempo, oppure non c’è più per

far posto al nuovo che avanza. L’aria è
grigia di giorno per lo smog, tanto che si
vedono come fra la nebbia i grattacieli bucare
la coltre; le strade a cinque corsie impossibili
da attraversare sono sormontate
da grandi cavalcavia ad anello e solo ogni
tanto si vede qualche bici passare: non è
più il paese delle biciclette; solamente a
Shanghai, infatti, ci sono oltre 250 stazioni
della metropolitana (e sono in corso i
lavori per altre decine)! Nel laghetto sul
retro del cortile del Tempio del Buddha
di Giada le carpe dai colori brillanti rimangono
a custodire le monetine gettate
dai fedeli…le campane e l’incenso sono
il velo della tradizione steso su una spiritualità
che nelle megalopoli pare si stia
depauperando, adattandosi alla frenesia
instancabile del tempo della Borsa, che
qui decide l’econo-
mia mondiale. Capitale
del capitalismo,
così si potrebbe defi
nire Shanghai con
un gioco di parole.
Dinamismo e rapidità
del progresso in questa città tutta protesa
verso il futuro ne fanno anche un luogo
importante per tutte le arti: la visita
all’Istituto Italiano di Cultura è infatti un
Passato e futuro: fi no a qualche anno fa
quando si parlava di Cina si pensava alla
Grande Muraglia (a sinistra) o a qualche
altro monumento storico, ma oggi, sempre
di più, l’immagine del paese è legata alla
tecnologia e a città ultramoderne (sopra,
una veduta di Shangai).
Primo piano
momento importante del nostro viaggio.
Saliamo al venticinquesimo piano d’un
imponente grattacielo per incontrare il
Console Italiano a Shanghai e Paolo Sab-
batini, Direttore dell’Istituto e laureato del
nostro Collegio, che ci accoglie con grande
ospitalità e ci illustra con professionalità
e passione l’attività di promozione
della cultura del nostro paese in un luogo
I monumenti sono affollati
da turisti cinesi: è cambiato
il tenore di vita e molte più
persone possono viaggiare.
così lontano da casa. Straordinario luogo
di cultura è anche il Museo Archeologico,
scrigno unico al mondo di arte e tradizioni
millenarie: dalle calligrafi e perfette ai crateri
in bronzo e alle minuziose lavorazioni
della giada; dai costumi tibetani ai disegni
in china e acquerelli; dalla numismatica
all’arredamento delle varie dinastie succedutesi
come stagioni. All’uscita del museo
e dei suoi millenni di storia c’è piazza
Renmin, la Piazza del Popolo, puntellata
panorama per i giovani • 43
Foto: iStockphoto.com/xxz114

Primo piano
di grattacieli, e non si può fare a meno di
notare l’impressionante contrasto che c’è
fra l’interno e l’esterno, specchio della
tensione sempre più forte che anima questa
città e l’intero paese, fra futuro e passato
in un presente diffi cile da interpretare
perché in evoluzione inarrestabile.
Xi’an
Capitale storica dalle origini che sfociano
nella leggenda, la città di Xi’an era il
punto di partenza della Via della Seta e i
suoi fasti ne avevano fatto un importante
luogo di potere e altresì un crogiolo
di fi oritura di religioni differenti: i cristiani
nestoriani dalla Siria, i buddisti
dall’India e in maniera preponderante i
musulmani attraverso la Via della Seta;
tanto che ad oggi la Grande Moschea,
interessante commistione fra canoni architettonici
tradizionali cinesi e peculiarità
islamiche, è un luogo di culto molto
importante della città, nonché punto di
riferimento fondamentale per la numerosa
comunità hui (musulmana) dell’omonimo
quartiere. La sera, fra le luci gialle
che illuminano la Torre del Tamburo e
quella della Campana, camminiamo attraverso
le nuvole di vapore dei grandi
pentoloni in cui si cuociono i ravioli.
Molta gente mangia, ride e cammina per
le strade. L’impressione di vitalità continua
di giorno, mentre contrattiamo secondo
tradizione nelle strette vie coperte
del mercato e piene di piccoli Buddha
di giada, monete, ritratti di Mao, libretti
44 • n. 1, gennaio-aprile 2011
rossi e abbaglianti vestaglie tradizionali
dai colori sgargianti, riproduzioni delle
statue di terracotta e fedelissime contraffazioni
di tutte le marche occidentali:
dagli orologi all’abbigliamento. Il giorno
seguente l’Esercito di Terracotta ci
attende nella sua silenziosa magnifi cenza.
Le migliaia di soldati dell’imperatore
Quinshi Huangdi, che unifi cò la Cina e
diede inizio a un’opera colossale quale la
Grande Muraglia, distrutte in innumerevoli
frammenti, dimenticate e sepolte per
Sopra, in senso orario: una statua di
Budda, pesci in un acquario, una delle
statue dell’Esercito di Terracotta di Xi’an. In
basso: un canale nei pressi di Shangai.
centinaia d’anni, sino al ritrovamento a
opera di alcuni contadini nello scavare
un pozzo, sono il risultato del minuzioso
ricomporre i pezzi d’un puzzle unico al
mondo. Immobili da sempre, stinte nei
colori che ne decoravano la terracotta e
spogliate delle armi di legno e delle stoffe
polverizzate dal tempo, sono arrivate
a noi con la solennità dei secoli che ne fa
una delle Meraviglie del Mondo.
Pechino
Un volo interno ci porta in poco tempo
nella capitale politica e amministrativa
del “Regno di Mezzo”, tempio dello spirito
nazionale e delle sue contraddizioni.
Delle stupende giornate di sole e un cielo
terso come capita raramente qui in città ci
accolgono al Palazzo d’Estate e non c’è
clima migliore di questo per camminare
fra i templi, le sale e i padiglioni del vasto
parco attorno al lago Kunming inframmezzato
di ponti di pietra tanto curvi da
sembrare dorsi di draghi che s’immergono
nelle sue acque fredde. Migliaia e migliaia
di turisti cinesi affollano gli enormi
piazzali della Città Proibita, i suoi saloni
e i padiglioni in legno; per tanti è cambiato
il tenore di vita rispetto al passato
e molte più persone possono viaggiare. I
Foto: Selene Favuzzi

ami secchi dei salici tesi a sfi orare l’acqua,
le enormi pietre provenienti dalle
più lontane estremità del paese che ricordano
la spuma delle onde e gli alberi
“dita di drago”, i portali tondi a Omega
e quelli ottagonali, le geometrie semplici
e lineari rendono l’ambiente un armonioso
integrarsi di forme, così lontano dalla
sensibilità architettonica occidentale,
che solitamente predilige grandi edifi ci
imponenti che risaltino nettamente nel
proprio contesto. L’accesso principale del
palazzo imperiale è la Piazza della Pace
Celeste, in cinese Tiananmen: ne delimitano
i confi ni il Palazzo dove si riunisce il
Parlamento, il Mausoleo di Mao Zedong,
il Gran Teatro, il Museo Nazionale e la
Porta della Pace, sormontata da un ritratto
di Mao al cui sguardo cui nulla sfugge. È
la più grande piazza del mondo e ha visto
la storia della Cina passare sull’immenso
suo lastricato di pietre; dall’esultanza del
1966 alle proteste studentesche represse
nel sangue del 1989. La sera usciamo
per i viali larghi e illuminati a profusione,
attorniati dai neon di mille colori e dalle
fi rme delle più grandi marche internazionali.
Testimonial occidentali alle pareti in
gigantografi e ammiccanti ci vorrebbero
dire che l’Occidente non è poi così lontano.
Nei negozietti di vestiti, Vogue ed
Hermès troneggiano sugli scaffali, fra tulle
e abiti stracolmi di paillette. Un centro
commerciale non ancora aperto già brulica
di vita: sono i lavoratori instancabili
che sino a notte fonda continuano ad allestire
vetrine, tinteggiare le facciate, pulire
i locali sino a farli scintillare. E gli schermi
televisivi sono già accesi e proiettano
le loro pubblicità per un pubblico che ancora
non c’è e fanno da sfondo a una ventina
di operai che, staccando dal lavoro,
s’avviano lenti verso l’uscita... Sembrano
le scure silhouette dei lavoratori di Metropolis,
il fi lm di Fritz Lang. Poi, all’improvviso,
in una via si apre un portale con
le tradizionali lanterne rosse in carta di
riso e siamo proiettati in un universo più
autoctono di quel-
li che sino ad ora
avevamo incontrato:
c’è calca e
a ogni angolo una
bancarella offre
scorpioni e ragni
da fare arrosto... forse più per spaventare
e incuriosire i turisti che per far provare
un’apprezzata specialità locale. I ravioli
nei pentoloni d’acciaio, i dolci dai mille
colori, le strade larghe, i fast food internazionali
e i colori delle insegne, sovrastano
e divertono tutti noi. La Grande Muraglia
coi suoi alti scalini e le montagne
dal panorama suggestivo sono un modo
emozionante di terminare il viaggio. Si
Primo piano
torna in città per le ultime ore... Chi va
al Mercato delle Perle perdendosi nei suoi
banchi pullulanti di merci d’ogni sorta
per gli ultimi acquisti e chi fa un’ultima
passeggiata per gli stretti hutong (vicoli
tradizionali), tutti abbiamo una cartolina
personale da riportare a casa, qualche ora
più tardi.
Il ritorno
L’Expo di Shanghai e le Olimpiadi di Pechino
in questi ultimi anni hanno mostrato
al mondo una Cina capace di organizzare
grandi eventi con perfezione e magnifi cenza,
seppur non esente da polemiche e critiche:
per i piani regolatori incuranti delle
istanze dei più poveri, per la questione tibetana,
per le politiche lavorative differenti
dalle occidentali, per gli hutong abbattuti
senza remore. È diffi cile farsi un’idea di
cosa possa essere davvero una realtà così
diversa e in costante mutamento come
quella cinese in solo dieci giorni, eppure
quest’esperienza ci ha riempito di sensazioni
spesso ardue da raccontare. Un altoparlante
dell’aeroporto di Pechino chiama
il nostro volo che poco dopo decolla. Nel
partire da una terra che ha deciso d’abbandonare
a tappe spesso forzate ogni residuo
d’antico e mostrare il suo volto intraprendente
e deciso al mondo, viene da domandarsi
se abbia ancora senso parlare della
Cina come “Terra dei Draghi”. Long, il
drago che vola nel cielo e fra le nuvole alla
ricerca delle perle, raffi gurato in numerosi
bassorilievi d’impressionante dimensione
(fi no a 15 metri per un’unica lastra completamente
lavorata, nella Città Proibita),
Li il drago del mare e Jiao dei terreni acquitrinosi,
sono solo scolpiti nella pietra o
hanno ancora un posto nella memoria dei
L’expo di Shangai e le Olimpiadi
di Pechino hanno mostrato una
Cina capace di organizzare
grandi eventi.
cinesi quelle mitiche creature che intervenivano
in aiuto del paese nei momenti
bui della storia? È troppo forte oggi la luce
dei rifl ettori del mondo puntati sulla Cina:
il tempo scorre troppo veloce perché ci si
possa fermare a rifl ettere. Forse domani…
chissà. Fra le nuvole, sorvolando la Mongolia,
vediamo un lago ghiacciato dalle
forme sinuose: un ultimo drago saluta il
nostro aereo diretto a casa.
panorama per i giovani • 45

Primo piano
Finalmente la laurea.
E ora?
Is still a degree in engineering a guarantee for a full-time and well-paid job
in Italy? A survey conducted by Almalaurea, focused on the occupational
situation in Italy, gives very interesting answers to our question. The report
defi nes the general occupational trend as “worrying”, even if the economic
conditions are slowly recovering from the recent crisis. The young generations
in Italy are already paying a high price. In fact, in Italy unemployment among
young people has reached 30 per cent. For how long do they still have to bear
the burden?
di Lin Strobio Chen
La situazione economica internazionale sta
tuttora scontando le conseguenze della crisi
che ha colpito pesantemente le economie
più sviluppate del pianeta. Oggi, nonostante
i segnali di ripresa, dal fronte occupazionale
giungono ancora segnali preoccupanti.
Si percepisce infatti un notevole ritardo
nella risalita del livello di occupazione e
l’Italia, purtroppo, non fa eccezione.
Il segmento più colpito è quello dei giovani,
per i quali il tasso di disoccupazione ha
raggiunto il picco dell’8% al culmine della
crisi nei paesi Ocse, mentre per l’Italia tale
dato si impenna, in alcune regioni, fi no a un
pesantissimo 30% e oltre. Con l’eccezione
della Germania, tale situazione permane ancora
oggi in molti paesi, condannando i giovani
a lunghi periodi di ricerca dell’occupazione
prima di ottenere un impiego stabile,
alimentandone il senso di sfi ducia.
In uno scenario segnato dall’incertezza,
quanto si rivela effi cace una laurea
come quella in ingegneria, tradizionalmente
considerata come laurea “forte”?
A sfatare il mito della laurea in ingegneria
come garanzia per un lavoro sicuro e ben
retribuito ci sono i dati del XIII Rapporto
di Almalaurea, che nel 2010 ha intervistato
una popolazione di ben 400.000 laureati, a
uno, tre e cinque anni dal conseguimento
del titolo. Nel sondaggio è stato possibile
per la prima volta raccogliere i dati relativi
ai laureati del biennio specialistico (postriforma
2007) a tre anni dalla conquista del
secondo titolo, facendo luce sull’effi cacia di
quest’ultimo nel medio termine.
I risultati delineano una situazione generale
segnata dall’incertezza. Infatti, nonostante
che per gli ingegneri i tassi di occupazione
rilevati si attestino sopra la media, è da
notare che sono comunque diminuiti rispetto
46 • n. 1, gennaio-aprile 2011
all’anno 2009. Inoltre, tra gli intervistati aumentano
in modo consistente i lavoratori
senza contratto e quelli con contratto atipico.
Il profi lo dei laureati
Prima di giungere ai risultati, soffermiamoci
sulla fi gura del neolaureato in ingegneria.
Prendendone in considerazione
uno del biennio specialistico, dai dati sappiamo
che la sua età è di circa 26 anni, il
suo voto di laurea è di 107/110 (su questo
fronte, le donne dimostrano di essere più
preparate, con un voto di laurea medio di
108,3). La durata del percorso di studi,
stando all’età del nostro laureato, è stata
molto più lunga dei cinque anni previsti.
Una volta concluso un percorso di
studi tanto lungo e impegnativo, si arriva
al primo ostacolo, ovvero la ricerca di un
lavoro. Sotto questo profi lo, ingegneria si
conferma decisamente come laurea “forte”.
A un anno dal conseguimento del titolo
la percentuale di occupati fra i laureati
del biennio specialistico è del 66%. Guardando
poi ai dati nel medio termine, il tasso
di occupazione cresce fi no all’85,4%.
Un dato ben superiore alla media, che è
del 75%. Tuttavia, a tre anni dalla laurea,
gli ingegneri non hanno in assoluto il tasso
di occupazione più alto. Prima di loro
vengono i laureati dell’area medico-sanitaria
(si consideri che nelle professioni sanitarie
si raggiunge un tasso di occupazione
del 99%, ma nel settore opera il sistema
sanitario nazionale e l’accesso all’università
è limitato dal numero chiuso),
poi quelli dell’area economico-statistica,
infi ne quelli di architettura (entrambi con
un tasso di occupazione dell’85,8%).
Per trovare il primo impiego i tempi non
sono brevissimi: mediamente, per gli occu-
Fig. 1: Guadagno mensile ne
(pre-riforma) occupati, a 5 a
Sono considerati solo i laureati che
hanno iniziato l’attuale attività dopo
la laurea e sono occupati a tempo
pieno.
2.341
1.713
1.640
1.544
1.523
1.469
1.460
1.437
1.435
1.426
1.386
1.351
1.344
1.283
1.201
1.562
pati il tempo trascorso tra la laurea e il primo
lavoro è di circa 3,7 mesi. La pazienza,
nel nostro caso, viene ripagata con uno stipendio
medio di 1.081 euro a un anno dalla
laurea, mentre a tre anni sale a 1.511 euro.
Principali settori lavorativi
Gli ingegneri sono prevalentemente occupati
nel settore privato (92%). Vi è poi un
sostanziale equilibrio fra coloro che sono
impiegati nel settore dell’industria (42,6)
e quelli coinvolti nel settore dei servizi
(43). Per l’industria i comparti principali
sono: metalmeccanica e meccanica di
precisione (11,7), edilizia (14,5), chimica/energia
(8,2), industria manifatturiera
(8,2). Nel settore dei servizi gli ambiti in
cui gli ingegneri sono maggiormente richiesti
sono: commercio (7,4) , consulenza
(10,9) e informatica (13,1).
Un piccolo ruolo è riservato anche all’agricoltura,
con una percentuale dello 0,7%.
Il lavoro sommerso
Finora i dati ci hanno fornito un quadro
Uomini
medico
ingegneria
chimico-farmaceutico
economico-statistico
scientifi co
linguistico
politico-sociale
architettura
agrario
geo-biologico
giuridico
educazione fi sica
psicologico
letterario
insegnamento
totale

tto dei laureati del 2005
nni dalla laurea
Donne
2.268
1.469
1.424
1.303
1.357
1.263
1.293
1.246
1.109
1.285
1.065
1.225
1.228
1.205
1.166
1.275
Fonte: Almalaurea
piuttosto rassicurante per i giovani ingegneri
che si accingono a entrare nel mondo
del lavoro. Tuttavia alcune questioni
spinose restano, come il lavoro nero. Il
confronto con i dati del 2006 denota una
crescita allarmante della quota di quest’ultimo:
la parte dei lavoratori senza contratto
si attesta sull’8,7% ad un anno dalla laurea
specialistica. Sul totale, solo il 36% ha un
lavoro stabile (autonomo o subordinato a
tempo indeterminato), mentre il 45% si
trova a lavorare con un contratto atipico.
Una parità ancora lontana
Un altro segno preoccupante che emerge
dal rapporto è l’evidente svantaggio delle
donne rispetto ai loro colleghi, sia in termini
di possibilità occupazionali sia di condizione
retributiva. Ancora una volta viene
mostrato come nella realtà del nostro paese
le donne siano penalizzate, nonostante il
raggiungimento di un alto livello di istruzione.
Mediamente, tra i laureati al biennio
specialistico il divario è di 6 punti percentuali,
con un’occupazione del 59% per gli
Fig. 2: Guadagno
mensile netto dei
laureati italiani
in Italia e all’estero
Laureati specialistici del 2009
a 1 anno dalla laurea
Estero
Italia
Laureati pre-riforma del 2005
a 5 anni dalla laurea
Estero
Italia
1.568
1.054
2.027
1.295
Fonte: Almalaurea
uomini e del 53 per le donne. A distanza
di cinque anni dalla laurea il distacco sale
al 9% (88 per gli uomini contro il 77 per
le donne). Tale tendenza si estende a tutti i
settori: da Agraria, dove si registra il 17%
in più di uomini occupati, al settore chimico-farmaceutico,
dove il divario è solo
dell’1%, sempre a favore degli uomini.
A distanza di cinque anni dal conseguimento
del titolo i dati complessivi indicano
che le donne percepiscono mediamente
uno stipendio di 1.275 euro, di circa
il 23% inferiore a quello dei loro colleghi,
che è invece di 1.562 euro (fi g. 1).
Purtroppo, la situazione tra gli ingegneri
rispecchia perfettamente quella generale. A
cinque anni dalla laurea, infatti, lo stipendio
medio di un ingegnere è di 1.713 euro, mentre
le loro colleghe ne percepiscono uno medio di
1.434. A distanza di tre anni dalla laurea, il tasso
di occupazione fra gli uomini è dell’86,6%,
mentre si attesta sull’81 per le donne.
Emergenza giovani
“Approfondire una rifl essione di ampio
Primo piano
respiro su questo versante vuol dire farsi
carico di una vera e propria emergenza
giovani, evitando che alcune generazioni
di ragazze e ragazzi preparati restino senza
prospettive e mortifi cati fra mercati del lavoro
che non assumono e un mondo della
ricerca privo di mezzi”. Così ha aperto la
conferenza di presentazione del rapporto il
Prof. Andrea Cammelli, direttore di Almalaurea.
Una occupazione che giunge con
molto ritardo rispetto al conseguimento
del titolo porta infatti non solo all’obsolescenza
del sapere acquisito, ma è di fatto la
causa di un grave ritardo nei progetti di una
generazione per il proprio futuro, alimentandone
la frustrazione, dopo lunghi anni
di studio e di sacrifi ci economici.
La fuga dei cervelli dall’Italia
È anche in questa ottica che vanno interpretati
i dati sulla fuga dei cervelli dal
nostro paese. Sono proprio gli ingegneri
che più di altri scelgono la strada dell’emigrazione
dopo la laurea. Infatti, poco
meno del 30% dei cittadini italiani che
lavora all’estero proviene proprio da questo
gruppo. I dati complessivi dimostrano
che fuori dei nostri confi ni gli italiani
hanno maggiori possibilità occupazionali
che in patria. E, soprattutto, guadagnano
di più. I dati non lasciano spazio a dubbi:
a un anno dalla laurea specialistica,
gli italiani impegnati all’estero guadagnano
in media il 50% in più rispetto ai
loro colleghi rimasti in Italia (fi g.2). La
scarsa attrattività del nostro paese risulta
evidente dal confronto tra i dati dei fl ussi
in uscita rispetto a quelli in entrata. Il bilancio
delle risorse umane che attraversano
i confi ni del nostro paese è nettamente
negativo. I dati mostrano che, per ogni
cervello che entra, ne esce uno e mezzo.
Ciò conferma che lavorare all’estero,
nella maggior parte dei casi, più che un
investimento sulla propria formazione
professionale, è l’unica alternativa alle
scarse possibilità offerte dal nostro paese.
Per non perdere la parte più istruita del
nostro paese è necessario investire e promuovere
un processo di crescita che assorba
i laureati oggi costretti a emigrare
e allo stesso tempo promuovere una più
alta formazione e valorizzare il capitale
umano a disposizione. Sarebbe un errore
imperdonabile sottovalutare il depauperamento
della parte migliore del paese,
quella di cui avremo bisogno nel diffi cile
processo di ricambio generazionale.
panorama per i giovani • 47

Il futuro Dal della Collegio terza età
Comitato Internazionale di Bioetica dell’Unesco
Il Prof. Stefano Semplici, Ordinario di Filosofi a morale presso
l’Università “Tor Vergata” di Roma e Direttore Scientifi co del
Collegio “Lamaro Pozzani” è stato nominato Presidente del Comitato
Internazionale di Bioetica dell’Unesco.
Il Prof. Stefano Semplici (primo da destra)
durante i lavori del Comitato Internazionale
di Bioetica dell’Unesco a Baku. Sotto:
un laureato riceve la medaglia d’oro dal
Presidente Benito Benedini (al centro) e dal
Cav. Gian Luigi Tosato (a destra).
L’elezione del Prof. Semplici, che è
membro del Comitato dal 2008, è avvenuta
durante la sessione di lavori che
48 • n. 1, gennaio-aprile 2011
si è tenuta dal 31
maggio al 2 giugno
a Baku (Azerbaijan)
e che è stata
dedicata alla vulnerabilità
umana e
all’integrità della
persona, alla clonazione
umana e alle
implicazioni etiche
della medicina tradizionale.
Il Comitato Internazionale di Bioetica
è stato istituito dall’Unesco nel
1993. Il suo scopo è di seguire il progresso
della scienza e delle sue applicazioni
per assicurare il rispetto della
libertà e della dignità umana. È costituito
da 36 esperti indipendenti di fama
internazionale che provengono da tutti
i continenti.
Premiazione dei nuovi laureati del Collegio
La tradizionale consegna delle medaglie d’oro ai nuovi laureati.
Giovedì 9 giugno è stato rinnovato un
appuntamento tradizionale per il Collegio:
alla presenza del Presidente della
Federazione Nazionale dei Cavalieri
del Lavoro, Benito Benedini, e del Presidente
della Commissione per le Attività
formative della Federazione, Gian
Luigi Tosato, del Direttore scientifico
del Collegio, Stefano Semplici, e del
Presidente dell’Associazione laureati,
Marco Magnani, gli studenti che si
sono laureati nel corso dell’anno hanno
ricevuto la medaglia d’oro del Collegio.
incontri
Tutti gli incontri del Collegio Universitario
“Lamaro Pozzani” di questo periodo.
www.collegiocavalieri.it
13.01.11. L’Islam in Italia
Il Sottosegretario del Ministero degli
Interni, On. Alfredo Mantovano, discute
sui rapporti tra le comunità islamiche e la
pubblica amministrazione italiana.
17.01.11. Il Brasile in Collegio
Una discussione con il Prof. Volnei
Garrafa sui rapporti fra Italia e Brasile.
20.01.11. Il ruolo della donna nella
società e nelle istituzioni
Incontro con l’economista Annalisa Rosselli.
03.02.11. Energia e carburanti
Le fonti di energia e la sfi da ambientale:
un incontro con il Prof. Carlo Giavarini.
14.02.11. I problemi della scuola
Parla il Prof. Mario Rusconi, vicepresidente
dell’associazione nazionale dei presidi.
21.02.11. La politica agricola europea
Ne parla Aldo Longo, Direttore presso la Dir.
Agricoltura della Commissione Europea.
24.02.11. Meral Özgüç: una donna nella
ricerca
Un dibattito con la genetista turca.
01.03.11. Regole delle acque in Italia
Un incontro con il Cav. Lav. Carlo Lotti.
08.03.11. La Cina fra passato e futuro
In preparazione per il viaggio l’incontro
con le professoresse Marina Miranda e
Federica Casalin.
17.03.11. Il consolato d’Italia a Shangai
Un incontro, durante il viaggio in Cina,
con il Console Marcella Zaccagnino e il
Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura
Paolo Sabbatini.
28.03.11. Invenzione, scienza, progresso
Proseguono gli incontri con l’Accademia dei
Lincei, con il Prof. Edoardo Vesentini.
11.04.11. I neutroni come “occhi artifi ciali”
Incontro con la Prof.ssa Carla Andreani.
18.04.11. Il problema dell’arsenico
Conferenza del Prof. Annibale Mottana,
dell’Accademia dei Lincei.
19.04.11. L’Unità attraverso la moneta
Incontro con il Prof. Pierluigi Ciocca.
09.05.11. Il problema energetico
Ne parla il Cav. Lav. Carlo Lotti.
19.05.11. L’incidente di Fukushima
Incontro con l’Ing. Lamberto Matteocci, dell’Ispra.
26.05.11. Il consumo di acqua
Un intervento del Cav. Lav. Carlo Pontecorvo,
Presidente e Ad di Ferrarelle Spa.

www.cavalieridellavoro.it
Notizie e informazioni aggiornate settimanalmente
I Cavalieri
Un archivio con l’elenco di tutti i Cavalieri del Lavoro
nominati dal 1901 a oggi e più di 550 schede biografiche
costantemente aggiornate
La Federazione
Che cos’è la Federazione Nazionale dei Cavalieri del
Lavoro, la composizione degli organi, lo statuto e le
schede di tutti i presidenti
I Gruppi
Le pagine dei Gruppi regionali, con news, eventi e tutte
le informazioni più richieste
Le attività
Gli obiettivi della Federazione, la tutela dell’ordine, i
premi per gli studenti e i convegni
Il Collegio
Il Collegio Universitario “Lamaro-Pozzani” di Roma e i
nostri studenti di eccellenza
Le pubblicazioni
I volumi e le collane pubblicati dalla Federazione, la
rivista “Panorama per i Giovani” e tutti gli indici di
“Civiltà del Lavoro”
L’onorificenza
La nascita e l’evoluzione dell’Ordine al Merito del Lavoro,
le leggi e le procedure di selezione
La Storia
Tutte le informazioni su più di cento anni di storia
...e inoltre news e gallerie fotografiche sulla vita della
Federazione.

È QUANDO TI SENTI PICCOLO CHE SAI DI ESSERE DIVENTATO GRANDE.
A volte gli uomini riescono a creare qualcosa più grande di loro. Qualcosa che prima non c’era. È questo che noi intendiamo per innovazione
ed è in questo che noi crediamo.
Una visione che ci ha fatto investire nel cambiamento tecnologico sempre e solo con l’obiettivo di migliorare il valore di ogni nostra singola
produzione.
È questo pensiero che ci ha fatto acquistare per primi in Italia impianti come la rotativa Heidelberg M600 B24. O che oggi, per primi in Europa,
ci ha fatto introdurre 2 rotative da 32 pagine Roto-Offset Komori, 64 pagine-versione duplex, così da poter soddisfare ancora più puntualmente
ogni necessità di stampa di bassa, media e alta tiratura.
Se crediamo nell’importanza dell’innovazione, infatti, è perché pensiamo che non ci siano piccole cose di poca importanza.
L’etichetta di una lattina di pomodori pelati, quella di un cibo per gatti o quella di un’acqua minerale, un catalogo o un quotidiano, un magazine
o un volantone con le offerte della settimana del supermercato, tutto va pensato in grande.
È come conseguenza di questa visione che i nostri prodotti sono arrivati in 10 paesi nel mondo, che il livello di fidelizzazione dei nostri clienti
è al 90% o che il nostro fatturato si è triplicato.
Perché la grandezza è qualcosa che si crea guardando verso l’alto. Mai dall’alto in basso.