licenziamenti individuali e collettivi - Osservatorio Permanente sulla ...
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meRcato del lavoRo: FleSSiBilitÀ in uScita<br />
1<br />
IN COLLABORAZIONE CON<br />
LICENZIAMENTI<br />
INDIVIDUALI<br />
E COLLETTIVI<br />
a cura di<br />
Angelo Zambelli
LA RIFORMA<br />
DEL LAVORO<br />
LICENZIAMENTI INDIVIDUALI<br />
E COLLETTIVI<br />
1
LA RIFORMA DEL LAVORO continua ONLINE<br />
Il Sole 24 ORE riserva ai lettori di «La riforma del lavoro» l’opportunità di approfondire online i temi<br />
trattati in questo volume.<br />
È suffi ciente collegarsi all’indirizzo www.ilsole24ore.com/collanariformalavoro, registrarsi gratuitamente<br />
e inserire il seguente codice di attivazione:<br />
01T10D12<br />
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● approfondire i contenuti del volume con articoli tratti dalle Riviste Professionali del Gruppo 24 Ore.<br />
I Manuali del Sole 24 ORE – Aut. Min. Rich.<br />
Direttore responsabile: Roberto Napoletano<br />
Il Sole 24 ORE S.p.A. – Via Monte Rosa, 91 – 20149 Milano<br />
Settimanale - N. 1/2012<br />
Volume 1 – Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
© Il Sole 24 ORE a cura dell’Area Tax&Legal<br />
Direttore: Paolo Poggi<br />
Redazione: Claudio Pagliara - Ermanno Salvini<br />
Progetto grafi co copertine: Marco Pennisi & C.<br />
Tutti i diritti di copyright sono riservati. Ogni violazione sarà perseguita a termini di legge.<br />
Finito di stampare nel mese di settembre 2012 presso:<br />
Grafi ca Veneta – Via Malcanton, 2 – 35010 Trebaseleghe (PD)
LICENZIAMENTI: PICCOLI PASSI IN AVANTI<br />
L’attuale contesto economico rende quanto mai attuale fare un punto <strong>sulla</strong> fi scalità delle opeIl Governo<br />
Monti, fi n dal suo insediamento, ha espresso l’intenzione di far evolvere il mercato del lavoro<br />
verso un equilibrio occupazionale basato su una maggiore fl uidità e dinamicità per favorire l’inserimento<br />
più stabile dei giovani nel mondo del lavoro. Purtroppo però nel corso del confronto con le<br />
Parti Sociali il progetto di riforma elaborato dal Governo ha subìto un profondo mutamento di contenuto,<br />
perdendo di incisività anche sul versante della nuova disciplina dei <strong>licenziamenti</strong>.<br />
Sembrava infatti che attraverso l’eliminazione della reintegrazione sui <strong>licenziamenti</strong> per motivi<br />
economici e su parte di quelli disciplinari e l’introduzione di una indennità compresa tra un minimo<br />
e un massimo predefi niti, si potesse determinare con precisione il severance cost e si passasse da<br />
un sistema di job property ad un sistema di responsabilizzazione dell’impresa, in grado di aumentare<br />
tra l’altro l’attrattività del nostro sistema per gli investimenti stranieri e la produttività del<br />
nostro sistema economico. In realtà, la reintroduzione della reintegrazione vanifi ca quasi completamente<br />
la portata di questa manovra. La riforma non modifi ca davvero le condizioni in uscita e, per<br />
di più, irrigidisce l’ingresso nel mercato del lavoro. Unico vero elemento positivo è l’introduzione<br />
della conciliazione obbligatoria, utile per tempestività e per fi nalità, anche se poi ci si limita semplicemente<br />
a suggerire l’utilizzo dell’outplacement - che sarebbe invece fondamentale per la ricollocazione<br />
delle persone e per un sano sviluppo occupazionale - senza incentivarlo in nessun modo.<br />
In questa sede vogliamo limitarci ad alcune, necessarie, considerazioni circa i noti provvedimenti<br />
in materia di <strong>licenziamenti</strong>, che ben verranno illustrati nella presente pubblicazione.<br />
Il fatto che solo per le ragioni discriminatorie si sia mantenuto il regime precedente di reintegro<br />
unito ad indennità potenzialmente illimitata fa comprendere sia la gravità giustamente attribuita<br />
alle forme di discriminazione che, al contempo, la durezza complessiva del precedente sistema,<br />
che oggi viene fortunatamente riformato.<br />
Parlare di “radicale insussistenza del fatto” lascia, probabilmente, eccessivo spazio discrezionale<br />
al giudice nel defi nirne le fattispecie; tuttavia, la limitazione, in tal caso, a 12 mensilità massime di<br />
indennizzo costituisce un importante passo avanti per permettere alle aziende di conoscere il costo,<br />
seppur ingente, del licenziamento.<br />
Negli altri casi viene fatta chiarezza cancellando la reintegrazione e defi nendo con precisione l’intervallo<br />
di indennità.<br />
In questo quadro rimane delicata la questione del licenziamento per scarso rendimento, non dipendente<br />
da disabilità o malattia in fase acuta: l’assenza di certezza circa l’esito del possibile giudizio<br />
continua infatti a costituire un problema per persone e aziende.<br />
Infi ne, <strong>sulla</strong> disciplina del procedimento giudiziale in materia di licenziamento, vengono introdotte<br />
due novità di rilievo che dovrebbero ridurre tempi ed incertezze: l’istituzione di un “tentativo di<br />
conciliazione” – rapido per legge, obbligatorio e che consiglia l’utilizzo dello strumento dell’outplacement<br />
– che si confi gura come una sorta di “primo grado di giudizio”; e l’attivazione di una corsia<br />
privilegiata rispetto a tutte le altre cause di lavoro.
IV<br />
Il disegno del Governo è stato dunque quello di adottare una disciplina che faccia della sanzione<br />
indennitaria la regola generale e di quella reintegratoria un rimedio straordinario, riservato a una<br />
ristretta minoranza di casi. Il che va, anche se non pienamente, nel senso della riduzione degli<br />
spazi di interpretazione dei giudici e rende molto più agevole l’identifi cazione di un’indennità in cui<br />
siano già noti i minimi e i massimi. Tutto ciò, va detto, contribuisce a rassicurare le aziende che, in<br />
questo modo, possono conoscere in anticipo le eventuali conseguenze delle proprie decisioni. Si<br />
è persa invece l’occasione di corresponsabilizzare l’azienda nel supportare il lavoratore licenziato<br />
a trovare una nuova occupazione.<br />
Qualche passo in avanti è stato però compiuto. Resta indubbiamente ampio spazio perché si migliorino<br />
le condizioni di fl essibilità in uscita del nostro mercato, anche se sarà determinante – da<br />
qui in avanti - la stabilità di queste norme, così come fondamentale sarà l’attuazione di un forte<br />
investimento per la comunicazione dei nuovi criteri ad aziende e persone. Non si è certo giunti al<br />
massimo livello di semplicità e chiarezza, ma si sta probabilmente andando nella direzione di una<br />
maggiore trasparenza e responsabilizzazione delle imprese e dei lavoratori del nostro Paese.<br />
Stefano Colli-Lanzi,<br />
CEO Gi Group e Presidente Gi Group Academy
LICENZIAMENTI INDIVIDUALI<br />
E COLLETTIVI<br />
Premessa ........................................................ III<br />
Capitolo 1 - Le novità in tema di oneri formali<br />
e procedurali del licenziamento individuale ......1<br />
1.1 Nozione .......................................................1<br />
1.2 Fonti ..........................................................1<br />
1.3 Forma..........................................................1<br />
1.4 Contenuto ...................................................2<br />
1.5 Comunicazione dei motivi ..........................2<br />
1.6 Immodifi cabilità delle ragioni poste<br />
a fondamento del licenziamento ...............3<br />
1.7 Licenziamento per fatti<br />
concludenti ..............................................3<br />
1.8 Rinnovabilità del licenziamento ineffi cace ....3<br />
1.9 Soggetto legittimato ad intimare<br />
il licenziamento .......................................4<br />
1.10 Prova della ricezione dell’atto<br />
di recesso da parte del lavoratore ..........4<br />
1.11 Rifi uto a ricevere<br />
la comunicazione di licenziamento .............4<br />
Capitolo 2 - Il recesso causale e le ipotesi<br />
residuali di libera recedibilità .............................5<br />
2.1 Classifi cazione ............................................5<br />
2.2 Licenziamento ad nutum ............................5<br />
2.2.1 Contenuto ed ambito<br />
di applicazione ....................................5<br />
2.2.2 Motivo illecito<br />
e licenziamento ad nutum ..................6<br />
2.2.3 Sistema differenziato<br />
di tutela nel licenziamento causale .......6<br />
2.2.4 Tutela obbligatoria..............................6<br />
2.2.5 Tutela reale ........................................6<br />
2.2.6 Regime applicabile .............................7<br />
2.2.7 Regime differenziato<br />
di tutele e L. 108/1990 ........................7<br />
2.2.8 Ambito della tutela reale ....................7<br />
di Angelo Zambelli<br />
INDICE GENERALE<br />
pag. pag.<br />
2.2.9 Legittimità costituzionale<br />
del regime differenziato di tutela ........8<br />
2.2.10 Estensione convenzionale<br />
della tutela reale ................................8<br />
Capitolo 3 - Il procedimento disciplinare ............9<br />
3.1 Contestazione dell’addebito .......................9<br />
3.2 Forma scritta ..............................................9<br />
3.3 Requisito dell’immediatezza ......................9<br />
3.4 Onere della prova .....................................10<br />
3.5 Requisito della specifi cità ........................11<br />
3.5.1 Funzione ...........................................11<br />
3.5.2 Contestazione della recidiva .............11<br />
3.6 Requisito della immodifi cabilità ...............12<br />
3.7 Preventiva indicazione<br />
della sanzione irrogabile .......................13<br />
3.8 Modalità di comunicazione<br />
al lavoratore ..........................................14<br />
3.9 Giustifi cazioni del lavoratore ....................14<br />
3.10 Suffi cienza del termine di difesa ...........15<br />
3.11 Obbligo del datore di lavoro<br />
di sentire il lavoratore a sua difesa .......15<br />
3.12 Assistenza dell’organizzazione<br />
sindacale ................................................16<br />
3.13 Problema del rispetto del termine<br />
di difesa da parte del datore di lavoro ...16<br />
3.14 Computo del termine ............................18<br />
3.15 Forma e modalità di comunicazione<br />
del licenziamento ..................................18<br />
3.16 Requisito della tempestività ..................18<br />
3.17 Termine previsto<br />
dalla contrattazione collettiva ...............19<br />
3.18 Proporzionalità tra addebito<br />
e sanzione disciplinare ..........................19<br />
3.19 Previsione della contrattazione<br />
collettiva ................................................20<br />
3.20 Esecuzione della sanzione disciplinare 20
VI<br />
3.21 Ipotesi di inapplicabilità<br />
dell’art. 7 S.L. ........................................21<br />
3.22 Impugnazione della sanzione<br />
disciplinare illegittima ...........................21<br />
3.23 Impugnazione della sanzione in<br />
sede arbitrale ........................................22<br />
3.23.1 Termini e natura giuridica ................22<br />
3.23.2 Effetti <strong>sulla</strong> sanzione disciplinare .....22<br />
3.23.3 Alternatività<br />
con l’impugnazione ..........................23<br />
3.23.4 Problema della revocabilità<br />
della scelta ......................................23<br />
3.23.5 Impugnazione del lodo .....................24<br />
3.23.6 Procedure arbitrali previste<br />
dalla contrattazione collettiva...........24<br />
Capitolo 4 - La giusta causa di licenziamento .....25<br />
4.1 Nozione di giusta causa ............................25<br />
4.2 Criteri giudiziali di accertamento<br />
della sussistenza della giusta causa ....25<br />
4.3 Pregiudizio economico subito dal<br />
datore di lavoro ......................................27<br />
4.4 Valutazione dei comportamenti<br />
pregressi del lavoratore ........................27<br />
4.5 Tolleranza da parte del datore<br />
di lavoro di analoghi inadempimenti .....28<br />
4.6 Valutazione di fattispecie qualifi cate<br />
dalla contrattazione collettiva come<br />
giusta causa di licenziamento ..............28<br />
4.7 Rilevanza dei comportamenti<br />
o delle situazioni soggettive estranee<br />
alla prestazione lavorativa ......................29<br />
4.8 Comportamenti estranei<br />
alla prestazione lavorativa ......................22<br />
4.9 Rapporti tra procedimento civile<br />
e giudizio penale .....................................30<br />
4.10 Carcerazione preventiva ..........................31<br />
4.11 Requisito della tempestività ....................32<br />
4.12 Problema della pendenza<br />
di procedimento penale ..........................32<br />
4.13 Adozione della sospensione<br />
cautelare<br />
e suoi effetti ............................................33<br />
4.14 Ammissibilità della conversione<br />
giudiziale del licenziamento<br />
per giusta causa in licenziamento<br />
per giustifi cato motivo soggettivo ............33<br />
– segue – INDICE GENERALE<br />
pag. pag.<br />
Capitolo 5 - Il giustifi cato motivo<br />
soggettivo di licenziamento ...............................35<br />
5.1 Nozione .....................................................35<br />
5.2 Distinzione tra giusta causa<br />
e giustifi cato motivo soggettivo ............35<br />
5.3 Tipologie di recesso nella<br />
contrattazione collettiva ........................35<br />
5.4 Caratteristiche del giustifi cato motivo<br />
soggettivo di licenziamento ...................36<br />
5.5 La fattispecie dello scarso rendimento ........36<br />
5.6 Clausole di “rendimento minimo” ............37<br />
5.7 Assenze ingiustifi cate ...............................38<br />
Capitolo 6 - Il licenziamento<br />
per giustifi cato motivo oggettivo .......................39<br />
6.1 Nozione .....................................................39<br />
6.2 Licenziamenti per ragioni inerenti<br />
all’attività produttiva<br />
e all’organizzazione del lavoro ..............39<br />
6.2.1 Soppressione del posto di lavoro .........39<br />
6.2.2 Insindacabilità delle scelte<br />
imprenditoriali ...................................40<br />
6.2.3 Mansioni precedentemente<br />
attribuite al lavoratore<br />
e soppressione del posto ....................41<br />
6.2.4 Cessazione dell’attività produttiva ........41<br />
6.2.5 Matrimonio e maternità<br />
in caso di cessazione dell’attività .........41<br />
6.2.6 Onere probatorio ...............................41<br />
6.2.7 Sussistenza in concreto ed attuale .......42<br />
6.2.8 Obbligo di repechâge .........................43<br />
6.3 Licenziamenti per ragioni inerenti<br />
al regolare funzionamento<br />
dell’organizzazione del lavoro ...............43<br />
6.3.1 Malattia del lavoratore .......................43<br />
6.3.1.1 Modalità di computo<br />
del periodo di comporto .....................45<br />
6.3.1.2 Tempestività del recesso<br />
per superamento del periodo di<br />
comporto ..........................................45<br />
6.3.1.3 Motivazione del recesso<br />
per superamento del periodo di<br />
comporto ..........................................46<br />
6.3.1.4 Assenze per malattia cagionata<br />
dalla nocività dell’ambiente di lavoro ....46
6.3.1.5 Licenziamento durante la malattia ......46<br />
6.3.1.6 Sopravvenuta inidoneità fi sica o<br />
psichica del lavoratore ........................47<br />
6.3.1.7 Differenze tra l’istituto della<br />
malattia e quello dell’inidoneità<br />
fi sica o psichica ..................................47<br />
6.3.2 Impossibilità della prestazione<br />
lavorativa derivante da un<br />
provvedimento dell’autorità ................48<br />
6.3.3 Provvedimenti giudiziari restrittivi<br />
della libertà personale del lavoratore ..... 48<br />
6.3.4 Diritto del lavoratore alla<br />
reintegrazione in caso di assoluzione ......48<br />
6.3.5 Ritiro del porto d’armi o mancato<br />
rinnovo del decreto di nomina ..............49<br />
6.3.6 Ritiro del tesserino di accesso<br />
alle strutture aeroportuali ..................49<br />
Capitolo 7 - Il preavviso .....................................51<br />
7.1 Fonte giuridica e funzione ........................51<br />
7.2 Effi cacia reale od obbligatoria<br />
del preavviso ..........................................51<br />
7.3 Sospensione per sopravvenuta malattia ....52<br />
7.4 Effi cacia reale del preavviso e<br />
indennità sostitutiva ..............................52<br />
7.5 Durata del periodo di preavviso................53<br />
7.5.1 Proroga del termine di preavviso .........54<br />
7.5.2 Defi nizione di una durata<br />
differente del preavviso rispetto a<br />
quanto disposto dal CCNL...................54<br />
7.6 Indennità sostitutiva del preavviso ...........54<br />
7.6.1 Incentivazione all’esodo .........................55<br />
7.6.2 Trattamento fi scale ................................55<br />
Capitolo 8 - Nullità e ineffi cacia<br />
del licenziamento ...............................................57<br />
8.1 Fonte giuridica e funzione ........................57<br />
8.2 Licenziamento discriminatorio ................57<br />
8.2.1 Tipizzazione legale .............................57<br />
8.2.2 Discriminazione sessuale ...................59<br />
8.2.3 Discriminazione sindacale ..................59<br />
8.2.4 Onere probatorio ................................59<br />
8.2.5 Generalizzazione dell’ambito di<br />
applicazione della tutela reale .............59<br />
8.2.6 Licenziamento discriminatorio<br />
nelle organizzazioni di tendenza ..........60<br />
8.3 Licenziamento a causa di matrimonio ........60<br />
– segue – INDICE GENERALE<br />
VII<br />
pag. pag.<br />
8.4 Licenziamento della lavoratrice madre ...61<br />
8.4.1 Deroghe al divieto ..............................61<br />
8.4.2 Lavoratore padre ...............................62<br />
8.4.3 Presentazione del certifi cato medico .....62<br />
8.4.4 Mancata informazione all’atto<br />
dell’assunzione ..................................62<br />
8.4.5 Altre fattispecie di divieto<br />
di licenziamento .................................62<br />
8.4.6 Morte del feto, aborto e morte<br />
del bambino ......................................63<br />
8.5 Casi di nullità previsti dalla legge<br />
e motivo illecito determinante ..............63<br />
8.6 Licenziamento ineffi cace ..........................64<br />
8.6.1 Ineffi cacia del licenziamento<br />
orale .................................................64<br />
8.6.2 Ineffi cacia per carenza<br />
di contestuale motivazione ..................65<br />
Capitolo 9 - Il licenziamento collettivo .............67<br />
9.1 Ambito di applicazione .............................67<br />
9.2 Fattispecie ................................................67<br />
9.3 Ambito soggettivo di applicazione ............67<br />
9.4 Tipologia ...................................................68<br />
9.5 Imprese commerciali ...............................68<br />
9.6 Agenzie di viaggio e turismo, operatori<br />
turistici e imprese di vigilanza ..............68<br />
9.7 Aziende della logistica ..............................69<br />
9.8 Soci lavoratori di cooperative<br />
di produzione e lavoro ...........................69<br />
9.9 Imprese di pulizia .....................................69<br />
9.10 Aziende esercenti servizi di<br />
trasporto pubblico in concessione ........70<br />
9.11 Ferrovie dello Stato ...............................70<br />
9.12 Ipotesi di esclusione ..............................71<br />
9.12.1 Rapporti a termine .............................71<br />
9.12.2 Fine lavoro nell’edilizia ......................71<br />
9.12.3 Attività stagionali o saltuarie ............71<br />
9.13 Agenzie di somministrazione di lavoro .72<br />
9.14 Requisiti dimensionali ...........................72<br />
9.15 Riferimento temporale<br />
della consistenza numerica<br />
dell’impresa ...........................................72<br />
9.16 Criteri di computabilità dei lavoratori ...73<br />
9.17 Requisiti soggettivi ................................74<br />
9.18 Requisiti causali ....................................75<br />
9.19 Direttiva CEE n. 75/129 ..........................76<br />
9.20 Licenziamento collettivo per
VIII<br />
riduzione<br />
dell’attività dell’impresa ........................76<br />
9.21 Verifi ca giudiziale della procedura ........77<br />
9.22 Requisiti numerico-temporali ...............77<br />
9.23 Procedura ..............................................79<br />
9.24 Consultazione in sede sindacale ...........80<br />
9.25 Consultazione in sede amministrativa ..86<br />
9.26 Comunicazione del licenziamento ........86<br />
9.27 Comunicazione<br />
ex art. 4, co. 9 L. 223/1991 .....................87<br />
9.28 Verifi ca della legittimità del recesso .....87<br />
9.29 Criteri di scelta ......................................88<br />
9.30 Ipotesi di invalidità del licenziamento ...91<br />
9.30.1 Condotta antisindacale ......................92<br />
9.30.2 Vizi della procedura e<br />
datori di lavoro non imprenditori .......92<br />
9.31 Particolari categorie di lavoratori .........93<br />
Capitolo 10 - La previgente disciplina<br />
sanzionatoria ......................................................95<br />
10.1 Tutela reale ............................................95<br />
10.1.1 Requisito numerico per<br />
l’applicabilità della tutela reale .............95<br />
10.1.1.1 Onere della prova della<br />
sussistenza del requisito<br />
numerico .......................................99<br />
10.1.2 Unità produttiva .....................................99<br />
10.1.2.1 Nozione ...............................................99<br />
10.1.2.2 Luogo del licenziamento .................100<br />
10.1.3 Requisito soggettivo per<br />
l’applicabilità della tutela reale ......100<br />
10.1.4 Effetti giuridici<br />
della reintegrazione ........................100<br />
10.1.5 Immediata esecutorietà<br />
ed ammissibilità dell’esecuzione<br />
in forma specifi ca ............................100<br />
10.1.6 Ripresa del servizio .............................101<br />
10.1.7 Situazioni che non consentono<br />
la reintegrazione ..............................102<br />
10.1.8 Responsabilità penale<br />
per l’inosservanza dell’ordine<br />
di reintegrazione ..............................102<br />
10.1.9 Luogo della reintegrazione<br />
e trasferimento del lavoratore<br />
reintegrato .......................................102<br />
10.1.10 Indennità risarcitoria .......................103<br />
10.1.10.1 Opzione in sostituzione<br />
– segue – INDICE GENERALE<br />
pag. pag.<br />
della reintegrazione .........................105<br />
10.1.11 Profi li previdenziali<br />
e assicurativi<br />
della reintegrazione .........................105<br />
10.2 Tutela obbligatoria ..............................106<br />
10.2.1 Indennità risarcitoria ............................108<br />
Capitolo 11 – La nuova disciplina<br />
sanzionatoria prevista dall’art. 18 s.l .............109<br />
11.1. La nullità del recesso nel nuovo<br />
articolo 18 ............................................109<br />
11.1.1 Il licenziamento discriminatorio .....109<br />
11.1.2 Il licenziamento a causa di<br />
matrimonio .......................................110<br />
11.1.3 Il licenziamento a causa di<br />
maternità/paternità ........................110<br />
11.1.4 Il licenziamento nullo per<br />
motivo illecito e determinante o<br />
ineffi cace ..........................................110<br />
11.1.5 La sanzione: reintegrazione e<br />
risarcimento .....................................111<br />
11.1.6 L’aliunde perceptum ......................112<br />
11.1.7 L’opzione alla reintegrazione ..........112<br />
11.2 La disciplina sanzionatoria nel<br />
licenziamento disciplinare ..................112<br />
11.2.1 La reintegrazione ............................113<br />
11.2.2 L’indennità risarcitoria ...................113<br />
11.2.3 Violazione della procedura<br />
disciplinare .......................................114<br />
11.3 Il giustifi cato motivo oggettivo:<br />
fl essibilità in uscita? ............................115<br />
Procedura preventiva di comunicazione<br />
del g.m.o. .............................................115<br />
11.4 I <strong>licenziamenti</strong> <strong>collettivi</strong> .....................118<br />
11.4.1 Vizi della comunicazione di<br />
apertura della procedura di<br />
mobilità ..........................................118<br />
11.4.2 Termine per la comunicazione<br />
dell’elenco dei lavoratori<br />
collocati in mobilità ..........................118<br />
11.4.3 Il regime sanzionatorio dei<br />
<strong>licenziamenti</strong> <strong>collettivi</strong> .....................119<br />
Capitolo 12 – Impugnazione del<br />
licenziamento e rito speciale per le<br />
relative controversie ........................................121<br />
12.2 Impugnazione stragiudiziale ..............121
12.3 Impugnazione giudiziale ......................122<br />
12.4 Le novità introdotte dalla L. 183/2010<br />
e, successivamente, dalla L. 92/2012 ..122<br />
12.5 Rinunzia o revoca dell’impugnazione ..124<br />
12.6 Effetti dell’impugnazione ....................125<br />
12.7 I problemi applicativi introdotti<br />
dalla L. 10/2011 ...................................125<br />
12.8 Legittimazione ad impugnare il<br />
licenziamento ......................................126<br />
12.9 Impugnazione del licenziamento<br />
proposta dal solo legale<br />
del lavoratore ......................................126<br />
12.10 Decorrenza del termine di<br />
impugnazione ......................................126<br />
12.11 Sede in cui recapitare l’atto di<br />
impugnazione ......................................127<br />
12.12 Prova dell’impugnazione .....................127<br />
12.13 Effetti della mancata impugnazione ...128<br />
12.14 Impugnazione del licenziamento e<br />
contratti di lavoro a termine ................129<br />
12.15 Il rito speciale per le controversie<br />
in tema di <strong>licenziamenti</strong><br />
introdotto dalla L. 92/2012 ..................129<br />
Capitolo 13 – Licenziamento del dirigente<br />
d’azienda e di altre categorie particolari<br />
di lavoratori 133................................................133<br />
13.1 Il dirigente d’azienda ...........................133<br />
13.2 Licenziamento disciplinare ................133<br />
13.3 Giusta causa .......................................134<br />
13.4 Giustifi catezza .....................................134<br />
13.5 Conseguenze del licenziamento ........135<br />
13.6 Periodo di preavviso previsto dai<br />
– segue – INDICE GENERALE<br />
pag. pag.<br />
Angelo Zambelli, avvocato in Milano, partner di Grimaldi Studio Legale, di cui è Responsabile del<br />
Dipartimento di Diritto del Lavoro e delle Relazioni Industriali, collabora stabilmente con il Sole<br />
24 Ore. È autore di numerose pubblicazioni in campo giuslavoristico e partecipa abitualmente,<br />
in qualità di docente e/o relatore, a convegni e seminari in materia di diritto del lavoro, diritto<br />
sindacale e relazioni industriali.<br />
IX<br />
principali CCNL<br />
in caso di recesso da parte del<br />
datore di lavoro ....................................135<br />
13.7 Indennità supplementare prevista<br />
dai principali CCNL per i dirigenti .......136<br />
13.8 Incremento automatico<br />
dell’indennità supplementare<br />
per i dirigenti previsto da alcuni CCNL 136<br />
13.9 Trattamento contributivo e fi scale<br />
dell’indennità supplementare .............137<br />
13.10 Lavoratore in prova ..............................138<br />
13.11 Licenziamento della lavoratrice<br />
madre in prova .....................................139<br />
13.12 Licenziamento del lavoratore in<br />
prova assunto obbligatoriamente .......139<br />
13.13 Lavoratore a termine ...........................139<br />
13.14 Apprendistato ......................................140<br />
13.15 Lavoratore domestico ..........................141<br />
13.16 Lavoratrici madri e lavoro domestico 141<br />
13.17 Lavoratore a domicilio .........................141<br />
13.18 Telelavoro ............................................142<br />
13.19 Lavoratore in possesso dei requisiti<br />
pensionistici .........................................142<br />
La disciplina sino al 31.12.2011 ....................142<br />
La disciplina dal 1.1.2012 ..............................144<br />
13.20 Lavoratore assunto obbligatoriamente 144<br />
13.21 Lavoro nautico ....................................145<br />
13.22 Lavoro sportivo ....................................145<br />
13.23 Job sharing ...........................................146<br />
13.24 Job on call ...........................................146<br />
13.25 Socio lavoratore di cooperativa ...........147<br />
13.26 Lavoratore assunto con contratto di<br />
inserimento .........................................147
Capitolo 1<br />
LE NOVITÀ IN TEMA DI ONERI FORMALI<br />
E PROCEDURALI DEL LICENZIAMENTO INDIVIDUALE<br />
1.1 Nozione<br />
Il licenziamento è una delle forme di estinzione del rapporto di lavoro che si esplica mediante<br />
atto unilaterale del datore di lavoro contenente la dichiarazione al lavoratore di voler<br />
risolvere il rapporto di lavoro subordinato in corso.<br />
1.2 Fonti<br />
Attualmente la materia dei <strong>licenziamenti</strong> <strong>individuali</strong> è disciplinata dagli artt. 2118 e 2119<br />
c.c., dalla L. 15.7.1966, n. 604, dalla L. 20.5.1970, n. 300, dalla L. 11.5.1990, n. 108, dalla L.<br />
4.11.2010, n. 183, dalla recentissima L. 28.6.2012, n. 92 (s.o. n. 136 alla G.U. 3.7.2012, n. 153)<br />
nonché da talune leggi speciali.<br />
1.3 Forma<br />
L’art. 2, co. 1, L. 604/1966 (come sostituito dall’art. 2, L. 108/1990) sancisce l’obbligo per il<br />
datore di lavoro di comunicare per iscritto il licenziamento a pena di ineffi cacia del recesso.<br />
Il licenziamento, dunque, è un negozio unilaterale recettizio a forma vincolata che si perfeziona<br />
nel momento in cui la dichiarazione di volontà del recedente giunge a conoscenza del destinatario,<br />
acquistando così l’idoneità necessaria alla produzione dell’effetto voluto.<br />
La forma scritta per l’intimazione del recesso da parte del datore di lavoro è richiesta dalla<br />
legge ad substantiam. Ne consegue che il licenziamento individuale intimato senza l’osservanza<br />
della forma scritta è nullo, e quindi improduttivo di effetti giuridici, per difetto di forma<br />
(Cass., Sez. Un., 18.10.1982, n. 5394; Cass. 28.11.2006, n. 11670 e Trib. Milano 20.12.2009).<br />
La legge 108/1990 ha ampliato l’ambito di applicazione dell’obbligo della forma scritta<br />
del licenziamento, estendendolo a tutti i datori di lavoro sia imprenditori che non imprenditori<br />
e a prescindere dall’elemento dimensionale dell’azienda. Il legislatore, inoltre, ha<br />
espressamente previsto che l’obbligo della forma scritta di cui all’art. 2, co. 1, L. 604/1966 si<br />
applichi anche al licenziamento dei dirigenti. Alcuni autori ritengono che siano esclusi<br />
dall’applicazione della norma i <strong>licenziamenti</strong> dei domestici, degli ultra sessantenni in possesso<br />
dei requisiti pensionistici e dei lavoratori in prova (che, come vedremo meglio oltre,<br />
rappresentano fattispecie estranee alla disciplina vincolistica di cui alla L. 604/1966). A fugare<br />
ogni dubbio, sovviene il co. 4 dell’art. 2 della legge in esame, il quale impone espressamente<br />
la forma scritta per i soli dirigenti, implicitamente escludendone l’applicabilità alle<br />
altre fattispecie sopra citate.<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
1
2 Capitolo 1 - Le novità in tema di oneri formali e procedurali del licenziamento individuale<br />
1.4 Contenuto<br />
La legge non prevede l’adozione di formule sacramentali per la comunicazione della volontà di<br />
recesso; pertanto tale volontà può essere comunicata anche in forma indiretta purché in maniera<br />
non equivoca. La giurisprudenza di legittimità, infatti, ha avuto modo di precisare che: «Ai sensi<br />
dell’art. 2, legge 604/1966, il licenziamento deve rivestire la forma scritta; pur non essendo necessarie<br />
formule sacramentali, trattandosi di negozio giuridico unilaterale recettizio, la relativa manifestazione<br />
di volontà deve risultare chiara e univoca, in modo da rendere conoscibile al destinatario, senza<br />
dubbi e incertezze, l’intenzione del dichiarante di estinguere il rapporto» (Cass. 17.3.2001, n. 3869).<br />
Sulla base di tale principio la Suprema Corte ha recentemente ritenuto valido il licenziamento<br />
intimato con lettera non sottoscritta, ma recante l’intestazione e in calce la denominazione<br />
dell’impresa e il nome del titolare (Cass. 24.3.2010, n. 7044). Inoltre, la giurisprudenza di<br />
legittimità ha affermato che la consegna da parte del datore di lavoro dell’atto scritto di liquidazione<br />
delle spettanze di fi ne rapporto, quando il rapporto di lavoro sia stato di fatto interrotto,<br />
contiene in sè la chiara manifestazione della volontà di licenziare (Cass. 17.6.1995, n.<br />
6900; nel merito, recentemente, Trib. Trieste 14.7.2011). Tuttavia, proprio in materia di consegna<br />
del prospetto del trattamento di fi ne rapporto al lavoratore, la Suprema Corte non è giunta<br />
a risultati univoci circa il fatto se considerare tale dichiarazione quale chiara manifestazione<br />
della volontà di recesso. In una decisione più recente, infatti, la stessa Suprema Corte, pur ribadendo<br />
il principio che l’intimazione del licenziamento non necessiti di formule sacramentali,<br />
ha confermato la decisione di merito che aveva escluso integrare il requisito della forma<br />
scritta del licenziamento l’annotazione della risoluzione di singoli rapporti di arruolamento sul<br />
libretto di navigazione unita alla contestuale consegna al lavoratore di un foglio di liquidazione<br />
delle spettanze contenente la voce “TFR” (Cass. 17.3.2001, n. 3869).<br />
Sotto un diverso profi lo, la Cassazione ha precisato che l’accettazione da parte del dipendente<br />
del trattamento di fi ne rapporto, ancorché non accompagnata da alcuna riserva, non può<br />
valere quale tacita rinunzia ai diritti derivanti dall’illegittimità del licenziamento (Cass.<br />
21.3.2000, n. 3345; Cass. 2.6.1995, n. 6189).<br />
1.5 Comunicazione dei motivi<br />
Ai sensi dell’art. 2, c. 2, della citata L. 604/1966, come modifi cato dall’art. 1, co. 37, L.<br />
28.6.2012, n. 92, «la comunicazione del licenziamento deve contenere la specifi cazione dei<br />
motivi che lo hanno determinato».<br />
Il legislatore, dunque, ha reso obbligatorio ciò che sin qui era eventuale onere del lavoratore<br />
domandare, giacché la precedente formulazione della norma in esame era «il prestatore di lavoro<br />
può chiedere, entro quindici giorni dalla comunicazione, i motivi che hanno determinato il recesso:<br />
in tal caso il datore di lavoro deve, nei sette giorni dalla richiesta, comunicarli per iscritto».<br />
In assenza di contestuale motivazione il licenziamento è ineffi cace, con le conseguenze<br />
sanzionatorie di natura economica di cui si dirà oltre (vedi cap. 11). Tale obbligo di motivazione<br />
riguarda tutte le ipotesi di recesso da parte del datore di lavoro e, pertanto, non è limitato al<br />
recesso per giusta causa e per giustifi cato motivo soggettivo. La previsione legale dell’obbligo<br />
della motivazione è posta a tutela del lavoratore licenziato al fi ne di garantire al medesimo la<br />
possibilità di conoscere i fatti posti a base del recesso, di controllarne la fondatezza e di valutare<br />
l’opportunità di un’eventuale contestazione (Cass. 5.5.2011, n. 9925).<br />
L’obbligo in esame, peraltro, è stato reso ancor più stringente per l’ipotesi di licenziamento<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 1 - Le novità in tema di oneri formali e procedurali del licenziamento individuale<br />
per giustifi cato motivo oggettivo da effettuare nell’ambito delle imprese con più di 15 dipendenti.<br />
In tale caso infatti - ai sensi dell’art. 7, L. 604/1966, come modifi cato dall’art. 1, co. 40, L.<br />
28.6.2012, n. 92 – il recesso deve essere preceduto da una comunicazione trasmessa da datore<br />
di lavoro alla Direzione Territoriale del Lavoro e, per conoscenza, al lavoratore interessato, nella<br />
quale devono essere indicati «i motivi del licenziamento medesimo nonché le eventuali misure<br />
di assistenza alla ricollocazione del lavoratore interessato». Ricevuta la comunicazione in questione,<br />
la Direzione Territoriale del Lavoro convoca le parti avanti la Commissione Provinciale di<br />
Conciliazione affi nché vengano esaminate «anche soluzioni alternative al recesso». La procedura<br />
non può durare oltre 20 giorni dalla convocazione delle parti avanti la Commissione, «fatta<br />
salva l’ipotesi in cui le parti, di comune avviso, non ritengano di proseguire la discussione fi nalizzata<br />
al raggiugimento di un accordo». Laddove, al termine della stessa, non vi sia accordo, «il<br />
datore di lavoro può comunicare il licenziamento al lavoratore».<br />
1.6 Immodifi cabilità delle ragioni poste a fondamento del licenziamento<br />
Conseguenza necessaria della ratio della previsione dell’obbligo della motivazione è l’immodifi<br />
cabilità della motivazione stessa, atteso che diversamente sarebbe vanifi cata la possibilità di<br />
valutazione e contestazione da parte del lavoratore dei motivi posti alla base del licenziamento.<br />
Peraltro, tale principio si riferisce agli elementi di fatto posti alla base del licenziamento e non<br />
già alla qualifi cazione dei medesimi, la quale può essere legittimamente mutata dal giudice<br />
(Cass. 23.2.1991, n. 1937). È stato altresì ribadito che il principio di immutabilità dei fatti contestati<br />
(in caso di licenziamento disciplinare) si pone in funzione di garanzia, non risultando precluse<br />
dall’operatività del detto principio le modifi cazioni dei fatti contestati che non si confi gurino<br />
come elementi integrativi di una fattispecie di illecito disciplinare diversa e più grave di quella<br />
contestata ma che, riguardando circostanze prive di valore identifi cativo della stessa fattispecie,<br />
non precludano la difesa del lavoratore <strong>sulla</strong> base delle conoscenze acquisite e degli elementi a<br />
discolpa apprestati a seguito della contestazione dell’addebito (Cass. 6.5.2011, n. 10015).<br />
1.7 Licenziamento per fatti concludenti<br />
Tale fattispecie di licenziamento è confi gurabile solo nella limitata area in cui non è richiesta<br />
la forma scritta, come nel caso del rapporto di lavoro domestico. Diversamente, nelle aree<br />
di applicabilità dell’art. 2, L. 604/1966, qualora il datore di lavoro ponga in essere un comportamento<br />
che possa essere inteso per il suo carattere univoco come espressione della volontà<br />
di estromettere defi nitivamente il lavoratore dall’azienda, tale condotta integra un licenziamento<br />
ineffi cace in quanto in violazione dell’art. 2, L. 604/1966.<br />
1.8 Rinnovabilità del licenziamento ineffi cace<br />
La Cassazione ha esaminato, inoltre, la questione della rinnovabilità del licenziamento ineffi cace.<br />
Sul punto, la Suprema Corte è unanime nel ritenere che il licenziamento intimato verbalmente è insuscettibile<br />
di convalida in quanto l’art. 1423 c.c. prevede «che il contratto nullo non può essere<br />
convalidato se la legge non dispone diversamente», salva peraltro la legittimità di un nuovo licenziamento,<br />
successivo a quello orale, che abbia tutti i requisiti di sostanza e di forma previsti dalla legge.<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
3
4 Capitolo 1 - Le novità in tema di oneri formali e procedurali del licenziamento individuale<br />
1.9 Soggetto legittimato ad intimare il licenziamento<br />
Il datore di lavoro è il soggetto legittimato ad intimare il recesso. Da ciò consegue che, nel caso<br />
in cui il datore di lavoro sia un soggetto munito di personalità giuridica di diritto privato, il licenziamento<br />
deve essere intimato dalla persona o dall’organo munito di poteri dispositivi del relativo diritto<br />
(Cass. 13.6.2003, n. 9493; Cass. 11.6.1999, n. 5786). Secondo la giurisprudenza di legittimità, il<br />
licenziamento intimato da un soggetto privo della rappresentanza dell’ente non è infi ciato da nullità<br />
assoluta ma è annullabile da parte del datore di lavoro, il quale può anche ratifi carlo a norma<br />
dell’art. 1399 c.c., sempre che la ratifi ca sia fatta nelle stesse forme prescritte per l’atto ratifi cato<br />
e, quindi, in forma scritta laddove per quell’atto (come in generale per il licenziamento in caso di<br />
applicabilità della L. 604/1966) occorra tale forma ad substantiam (Cass. 24.11.1997, n. 11733).<br />
1.10 Prova della ricezione dell’atto di recesso da parte del lavoratore<br />
La comunicazione del licenziamento, avendo natura di atto unilaterale recettizio, soggiace alla<br />
disciplina dettata dagli artt. 1334 e 1335 c.c., la quale sancisce che «gli atti unilaterali producono<br />
effetto nel momento in cui pervengono a conoscenza della persona alla quale sono destinati» e che<br />
tali atti si reputano conosciuti «nel momento in cui giungono all’indirizzo del destinatario, se questi<br />
non prova di essere stato, senza sua colpa, nell’impossibilità di averne notizia». Pertanto, la Suprema<br />
Corte ha affermato che, nel caso di impiego del servizio postale, la prova della conoscenza del<br />
licenziamento deve essere particolarmente rigorosa e fornita mediante l’avviso di ricevimento<br />
della raccomandata o con l’attestazione della compiuta giacenza del plico presso l’uffi cio postale,<br />
ovvero può essere fornita anche mediante presunzioni, purché caratterizzate dai requisiti legali<br />
della gravità, della precisione e della concordanza (Cass. 14.4.1985, n. 2558; da ultimo, Cass.<br />
5.5.2009, n. 13087). La presunzione di conoscenza stabilita dall’art. 1335 c.c. comporta, quindi, che<br />
il mittente dia prova del fatto oggettivo dell’arrivo dell’atto recettizio all’indirizzo del destinatario,<br />
mentre è a carico del destinatario fornire la prova contraria di non avere avuto notizia per causa a<br />
lui non imputabile. In applicazione del suddetto principio la Suprema Corte ha ritenuto che, anche<br />
in mancanza dell’avviso di ricevimento della lettera raccomandata a mezzo della quale è stato comunicato<br />
il licenziamento, la ricevuta rilasciata dall’uffi cio postale costituisce prova della spedizione,<br />
<strong>sulla</strong> quale può fondarsi la presunzione dell’arrivo dell’atto al destinatario e la conoscenza<br />
dello stesso ex art. 1335 c.c. (Cass. 16.1.2006, n. 758).<br />
1.11 Rifi uto a ricevere la comunicazione di licenziamento<br />
In materia di rifi uto da parte del lavoratore di ricevere sul luogo di lavoro l’atto di licenziamento<br />
la Corte di legittimità ha affermato che è principio fondamentale del nostro diritto, sia sostanziale<br />
che processuale, che il rifi uto di una prestazione o di un adempimento da parte del destinatario<br />
non possa risolversi a danno dell’obbligato, infi ciandone l’adempimento. Nel diritto processuale,<br />
infatti, se il destinatario rifi uta di ricevere la notifi ca, questa si considera fatta a mani proprie (art.<br />
138 c.p.c.). Tale principio vale anche per la comunicazione di un atto unilaterale recettizio, quale è<br />
il licenziamento (Cass. 12.11.1999, n. 12571; da ultimo, Cass. 18.9.2009, n. 20272).<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 2<br />
IL RECESSO CAUSALE<br />
E LE IPOTESI RESIDUALI DI LIBERA RECEDIBILITÀ<br />
2.1 Classifi cazione<br />
Nella variegata normativa che disciplina il licenziamento individuale emerge un dato unifi -<br />
cante costituito dal principio del cd. recesso causale in virtù del quale il licenziamento intimato<br />
dal datore di lavoro deve essere sempre assistito da giustifi cato motivo o giusta causa. Al<br />
recesso causale si contrappone la fi gura codicistica del recesso ad nutum, in cui il datore di<br />
lavoro nulla allega e nulla è tenuto ad allegare a giustifi cazione della sua volontà di recedere<br />
dal rapporto.<br />
2.2 Licenziamento ad nutum<br />
2.2.1 Contenuto ed ambito di applicazione<br />
Secondo l’art. 2118 co.co. «ciascuno dei due contraenti può recedere dal contratto di lavoro<br />
a tempo indeterminato, dando il preavviso nel termine e nei modi stabiliti (dalle norme corporative),<br />
dagli usi o secondo equità. In mancanza di preavviso il recedente è tenuto verso l’altra<br />
parte ad un’indennità equivalente all’importo della retribuzione che sarebbe spettata per il<br />
periodo di preavviso. La stessa indennità è dovuta dal datore di lavoro nel caso di cessazione<br />
del rapporto per morte del prestatore di lavoro».<br />
A seguito dell’evoluzione legislativa, ed in particolare a seguito della L. 108/1990, l’area<br />
della co.d. libera recedibilità, nella quale è possibile recedere ad nutum ovvero senza motivazione<br />
alcuna e con il solo onere del riconoscimento del preavviso o della relativa indennità<br />
sostitutiva, è meramente residuale. Attualmente riguarda:<br />
● i lavoratori domestici (art. 4, co. 1, L. 108/1990);<br />
● i lavoratori ultra-sessantaseienni e le lavoratrici ultra-sessantaduenni in possesso dei requisiti<br />
pensionistici, sempre che queste ultime non abbiano optato per la prosecuzione del rapporto<br />
sino al limite di età previsti per gli uomini ai sensi della L. 26 febbraio 1982, n. 54 e della<br />
L. 29.12.1990, n. 407, per coloro che godono della co.d. tutela obbligatoria (art. 4, co. 1, L.<br />
108/1990);<br />
● i lavoratori ultrasettantenni in possesso dei requisiti pensionistici per coloro che godono della<br />
co.d. tutela reale;<br />
● i dirigenti (a contrariis dagli artt. 10, 3 e 2, co.4, L. 604/1966);<br />
● i lavoratori assunti in prova (art. 10, L. 604/1966);<br />
● gli apprendisti (art. 10, L. 604/1966);<br />
● gli atleti professionisti (L. 23.3.1981, n. 91 e D.M. 13.3.1985).<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
5
6 Capitolo 2 - Il recesso causale e le ipotesi residuali di libera recedibilità<br />
Se, da un lato, il legislatore è progressivamente intervenuto a restringere l’ambito di applicabilità<br />
dell’art. 2118 co.co., che attualmente opera limitatamente ai rapporti sopra citati,<br />
dall’altro non è stata apportata alcuna modifi ca relativamente al preavviso.<br />
2.2.2 Motivo illecito e licenziamento ad nutum<br />
Il licenziamento ad nutum può essere annullato per illiceità del motivo ex art. 1354 co.co.<br />
qualora contrastante con norme imperative, ordine pubblico e buon costume: in tal caso il<br />
recesso deve considerarsi nullo.<br />
La maggior parte dei casi di nullità del licenziamento per illiceità del motivo è tipizzato e<br />
disciplinato autonomamente nelle fattispecie previste dall’art. 4 della L. 604/1966, art. 15 della<br />
L. 300/1970 e art. 3 della L. 108/1990, tutte relative ad ipotesi discriminatorie per ragioni<br />
politiche, religiose, sindacali, razziali, di lingua o di sesso.<br />
2.2.3 Sistema differenziato di tutela nel licenziamento causale<br />
Nell’ambito del licenziamento causale il legislatore ha disegnato due distinti regimi di tutela,<br />
uno solo dei quali costruito sull’inidoneità del recesso non assistito da giusta causa o<br />
giustifi cato motivo a risolvere il rapporto. Essenzialmente sono le differenziate conseguenze<br />
del licenziamento illegittimo (in quanto non sorretto da giusta causa o giustifi cato motivo) a<br />
distinguere e caratterizzare i due regimi di tutela cd. “obbligatoria” o “reale”. Si segnala che la<br />
L. 28.6.2012, n. 92, ha diversifi cato il regime sanzionatorio applicabile ai <strong>licenziamenti</strong> intimati<br />
successivamente alla sua entrata in vigore, prevedendo conseguenze differenziate a<br />
seconda del tipo di licenziamento oggetto di impugnativa giudiziale, approfonditamente esaminate<br />
nel Capitolo 11 Permangono, in ogni caso, le differenze teoriche tra il regime di tutela<br />
obbligatoria e quello di tutela reale.<br />
2.2.4 Tutela obbligatoria<br />
Il regime di tutela obbligatoria (detta anche compensativa) è disciplinato dall’art. 8, L.<br />
15.7.1966, n. 604, secondo cui il datore di lavoro in caso di licenziamento illegittimo è tenuto<br />
a riassumere il lavoratore o, in mancanza, a corrispondergli una determinata indennità la cui<br />
quantifi cazione è demandata al giudice entro un minimo ed un massimo previsti dalla legge.<br />
Sul punto è necessario precisare che l’art. 30, co. 3, L. 4.11.2010, n. 183, stabilisce che «nel<br />
defi nire le conseguenze da riconnettere al licenziamento ai sensi dell’articolo 8 della L.<br />
15.7.1966, n. 604, e successive modifi cazioni, il giudice tiene egualmente conto di elementi e<br />
parametri fi ssati dai predetti contratti» - ovvero sia dai «contratti <strong>collettivi</strong> di lavoro stipulati<br />
dai sindacati comparativamente più rappresentativi ovvero nei contratti <strong>individuali</strong> di lavoro<br />
ove stipulati con l’assistenza e la consulenza delle commissioni di certifi cazione» - «e comunque<br />
considera le dimensioni e le condizioni dell’attività esercitata dal datore di lavoro, la situazione<br />
del mercato del lavoro locale, l’anzianità e le condizioni del lavoratore, nonché il comportamento<br />
delle parti anche prima del licenziamento».<br />
La tutela apprestata al lavoratore dalla disposizione in esame viene altresì comunemente<br />
defi nita debole, in quanto di natura meramente patrimoniale.<br />
2.2.5 Tutela reale<br />
L’art. 18 S. L. nella previgente formulazione prevedeva un secondo regime di tutela in caso<br />
di licenziamento illegittimo (cd. tutela reale o ripristinatoria o specifi ca). La garanzia offerta al<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 2 - Il recesso causale e le ipotesi residuali di libera recedibilità<br />
lavoratore dal citato art. 18 veniva defi nita forte poiché obbligava il datore di lavoro a reintegrare<br />
il lavoratore nel posto di lavoro e a corrispondergli un’indennità commisurata alle retribuzioni<br />
non percepite (in misura non inferiore a 5) a titolo di risarcimento del danno subito per<br />
effetto del licenziamento illegittimo.<br />
Occorre sottolineare che le modifi che introdotte dalla L. 28.6.2012, n. 92, che peraltro è<br />
applicabile ai soli <strong>licenziamenti</strong> posti in essere successivamente alla sua entrata in vigore,<br />
riguardano principalmente la disciplina sanzionatoria dei <strong>licenziamenti</strong>, per il cui approfondimento<br />
si rinvia ai capitoli successivi.<br />
2.2.6 Regime applicabile<br />
La differenza tra applicabilità della tutela reale, di quella obbligatoria ovvero della disciplina<br />
codicistica attraversa verticalmente tutti i rapporti di lavoro: alcuni sono assoggettati alla<br />
tutela obbligatoria, altri a quella reale, a margine rimangono alcuni rapporti soggetti esclusivamente<br />
al regime di libera recedibilità.<br />
In giurisprudenza è consolidata la tesi che si tratti di tre regimi distinti di licenziamento con<br />
conseguente possibilità di valutare autonomamente i presupposti di applicabilità dell’uno anziché<br />
dell’altro.<br />
2.2.7 Regime differenziato di tutele e L. 108/1990<br />
Prima della promulgazione della L. 108/1990, la Corte di Cassazione aveva bene riassunto<br />
gli ambiti di applicazione dei tre diversi regimi, affermando che la tutela reale trova applicazione<br />
nelle imprese industriali e commerciali che in ciascuna sede, stabilimento, fi liale, uffi cio o<br />
reparto autonomo, ovvero nell’ambito dello stesso comune, occupino più di 15 dipendenti,<br />
nonché nelle imprese agricole che occupino più di 5 dipendenti (sia pure soltanto nello stesso<br />
ambito territoriale), quale che sia la loro dimensione complessiva; in difetto di tali presupposti,<br />
ed inoltre in caso di datore non imprenditore, è operante la tutela obbligatoria, ove sussista il<br />
requisito numerico dell’occupazione di almeno 36 dipendenti, stabilito dall’art. 11, L. 604/1966;<br />
mancando infi ne anche quest’ultimo requisito, il licenziamento rimane disciplinato dall’art.<br />
2118 co.co.<br />
La L. 108/1990 ha innovato il regime differenziato di tutele previsto per i <strong>licenziamenti</strong><br />
<strong>individuali</strong>. Formalmente è rimasto il sistema tripartito, tuttavia per effetto del combinato<br />
disposto dell’art. 1, L. 108/1990 (che delimita il campo di applicazione dell’art 18<br />
S.L.), dell’art. 2, L. 108/1990 (che ridisegna il campo di applicabilità della L. 604/1966), e<br />
del successivo art. 6, L. 108/1990 (che abroga l’art. 11, co. 1, L. 604/1966), il controllo<br />
delle ragioni di licenziamento è stato esteso anche alle piccole imprese e tendenzialmente<br />
a qualsiasi datore di lavoro, rimanendo del tutto marginale l’area di libera recedibilità.<br />
Ciò è il portato dell’eliminazione di ogni soglia dimensionale in precedenza prevista ai fi ni<br />
dell’applicabilità della tutela obbligatoria che, conseguentemente ed allo stato attuale, opera in<br />
tutte quelle ipotesi in cui non trovi applicazione la tutela reale, la cui area è stata a sua volta<br />
estesa.<br />
2.2.8 Ambito della tutela reale<br />
La L. 108/1990, come detto, ha esteso l’ambito di applicazione della tutela reale operando<br />
in due direttrici:<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
7
8 Capitolo 2 - Il recesso causale e le ipotesi residuali di libera recedibilità<br />
1 oggettiva: rendendo applicabile tale regime a tutti i datori di lavoro che occupano più di 60 dipendenti;<br />
2 soggettiva: rendendo applicabile tale regime anche ai datori di lavoro non imprenditori.<br />
Si segnala inoltre che la recente L. 28.6.2012, n. 92, pur prevedendo un apparato sanzionatorio<br />
diversifi cato a seconda della concreta ipotesi di licenziamento, ha mantenuto inalterati i<br />
requisiti dimensionali per l’applicazione dell’art. 18 S.L.<br />
2.2.9 Legittimità costituzionale del regime differenziato di tutela<br />
Più volte la Corte Costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi circa la legittimità costituzionale<br />
del differente regime di tutela operante nel nostro ordinamento in caso di <strong>licenziamenti</strong><br />
<strong>individuali</strong>. In particolare, anteriormente alla promulgazione della L. 108/1990, la Corte Costituzionale<br />
ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 11, L.<br />
15.7.1966, n. 604 nella parte in cui, subordinando la stabilità del posto di lavoro ai limiti dimensionali<br />
dell’impresa, violerebbe il principio della parità di trattamento tra lavoratori assistiti da<br />
stabilità e lavoratori licenziabili ad nutum e, parimenti dopo tale L., ha nuovamente reputato<br />
infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, L. 15.7.1966, n. 604, così come<br />
modifi cato dall’art. 2, L. 11.5.1990, n. 108, nella parte in cui attribuisce al datore di lavoro la<br />
facoltà di scelta fra la riassunzione del lavoratore ed il risarcimento del danno, in riferimento<br />
agli artt. 3 e 24 Cost. (Corte Cost. 23.2.1996, n. 44).<br />
2.2.10 Estensione convenzionale della tutela reale<br />
La cd. tutela reale, prevista dall’art. 18, L. 20.5.1970, n. 300, può essere pattiziamente estesa<br />
al di fuori dei limiti legali soggettivi e oggettivi, ma ciò può avvenire solo a condizione che<br />
una tale estensione risulti chiaramente dalla disciplina individuale o collettiva del rapporto<br />
dedotto in giudizio, la cui interpretazione non può che essere demandata al giudice di merito<br />
(Cass. 26.5.2000, n. 6901).<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 3<br />
IL PROCEDIMENTO DISCIPLINARE<br />
Il licenziamento disciplinare non è una categoria autonoma che si affi anchi a quella del licenziamento<br />
per giusta causa o giustifi cato motivo, ma rappresenta il recesso intimato dal<br />
datore di lavoro per la violazione di una prescrizione, contrattuale e non, di diligenza o più in<br />
generale di una regola di comportamento del lavoratore: vale a dire quel licenziamento che<br />
costituisca una reazione del datore di lavoro ad un’inadempienza o, in senso lato, una colpa del<br />
lavoratore assunta ed allegata come giusta causa o giustifi cato motivo di recesso.<br />
La fattispecie del licenziamento disciplinare, salve poche limitate eccezioni, è rinvenibile in<br />
qualsiasi rapporto di lavoro subordinato, a prescindere dal regime sanzionatorio dell’illegittimità<br />
dello stesso: ne consegue che anche nelle piccole aziende, nonché nell’area della libera recedibilità<br />
(per quanto marginale e residuale) devono essere rispettate le regole procedimentali di<br />
intimazione del licenziamento disciplinare se ed in quanto tale. Analogamente, l’identifi cazione<br />
del carattere disciplinare del licenziamento prescinde dal fatto che il rapporto di lavoro si svolga,<br />
o meno, nell’impresa: dunque, può esserci licenziamento disciplinare anche nell’ambito di rapporti<br />
di lavoro con organizzazioni di tendenza od associazioni senza fi ne di lucro.<br />
3.1 Contestazione dell’addebito<br />
L’art. 7, co. 2, S.L. prescrive che il datore di lavoro non possa adottare alcun provvedimento<br />
disciplinare nei confronti del lavoratore (fatto salvo il rimprovero verbale) senza avergli preventivamente<br />
contestato l’addebito e senza averlo sentito a sua difesa. La ratio della previa<br />
contestazione dell’addebito è quella di consentire al dipendente incolpato di fornire le sue<br />
giustifi cazioni e di fi ssare, con carattere di immutabilità, la condotta della quale è incolpato il<br />
lavoratore stesso.<br />
3.2 Forma scritta<br />
L’art. 7, co. 5, S.L. prevede espressamente la forma scritta della contestazione dell’addebito<br />
disciplinare. Tale forma è prevista ad substantiam (Cass. 24.5.1984, n. 3209; Cass. 1.6.1988,<br />
n. 3716), con la conseguenza che il mancato rispetto della stessa comporta l’inidoneità della<br />
previa contestazione ad operare come valido antecedente della sanzione successivamente irrogata.<br />
Quanto al contenuto sostanziale della contestazione dell’addebito, è stato precisato<br />
che questa non richiede particolari formalità, ma solo l’esposizione dei dati e degli aspetti<br />
essenziali del fatto materiale contestato, essendo irrilevante che essa sia nominata come “comunicazione”,<br />
che non indichi il termine a discolpa e che non convochi il lavoratore per un’audizione<br />
a sua difesa (Cass. 7.1.1998, n. 67). Circa il soggetto abilitato a contestare l’infrazione,<br />
l’espressione «datore di lavoro», di cui all’art. 7 co. 2, deve intendersi riferita allo stesso quale<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
9
10 Capitolo 3 - Il procedimento disciplinare<br />
titolare del diritto di procedere alla contestazione ma non quale persona fi sica tenuta a provvedervi<br />
personalmente.<br />
3.3 Requisito dell’immediatezza<br />
La contestazione deve essere immediata rispetto all’accadimento del fatto o alla notizia di<br />
esso che ne abbia avuto il datore di lavoro.<br />
È principio acquisito in giurisprudenza che il requisito dell’immediatezza vada interpretato<br />
in senso relativo, con riferimento alle caratteristiche dell’infrazione e alla necessità di un margine<br />
temporale per il suo preciso accertamento, senza tuttavia che la dilatazione temporale<br />
possa vanifi care il diritto alla difesa del lavoratore. È stato precisato a tal proposito che il principio<br />
dell’immediatezza e della tempestività riguarda, ad un tempo, sia la contestazione degli<br />
addebiti sia l’irrogazione della sanzione, e trova il suo fondamento nell’art. 7, co. 3 e 4, S.L.,<br />
che riconoscono al lavoratore incolpato il diritto alla difesa. Tale diritto deve essere garantito<br />
nella sua effettività, soprattutto nel senso di una contestazione ad immediato ridosso dei fatti<br />
contestati, così da poter consentire al lavoratore l’allestimento del materiale difensivo (documentazione,<br />
testimonianze ecc.) per contrastare nel modo più effi cace il contenuto delle accuse<br />
rivoltegli dal datore di lavoro (Cass. 14.9.2011, n. 18772); in giurisprudenza l’applicazione<br />
dell’accennato principio è stata “temperata” nel senso che l’immediatezza della contestazione<br />
dell’addebito deve essere intesa in una accezione “relativa” essendo compatibile con un intervallo<br />
di tempo necessario al datore di lavoro per il preciso accertamento delle infrazioni commesse<br />
dal prestatore ovvero con una complessità della struttura organizzativa dell’impresa<br />
tale da far ritardare il provvedimento disciplinare (da ultimo, ex plurimis, Cass. 31.1.2012, n.<br />
1403 e Cass. 23.2.2012, n. 2725); non può tuttavia rientrare in questa “elasticità” la contestazione<br />
a distanza di parecchi mesi rispetto ai fatti addebitati, che rende, di fatto, impossibile<br />
per il dipendente l’esercizio del diritto di difesa, né costituisce giustifi cazione del ritardo l’asserita<br />
e indimostrata complessità delle verifi che nonché la disorganizzazione amministrativa<br />
nella conduzione aziendale (Cass. 8.1.2001, n. 150).<br />
La giurisprudenza, peraltro, ha sottolineato che non possa ritenersi violato il principio<br />
dell’immediatezza della contestazione disciplinare nel caso in cui il contratto collettivo applicabile<br />
consenta, a fronte di imputazioni penali accompagnate da provvedimenti restrittivi della libertà<br />
del lavoratore, di sospendere cautelarmente quest’ultimo dalla prestazione lavorativa e<br />
rinviare la contestazione disciplinare e l’ulteriore corso del procedimento disciplinare all’esito<br />
del primo grado del giudizio penale (Cass. 4.8.2006, n. 17767; Cass. 5.11.1997, n. 10855).<br />
Sempre con riferimento ad un eventuale procedimento penale instaurato nei confronti<br />
del lavoratore, deve escludersi che incorra nella violazione del principio di immediatezza il<br />
datore di lavoro che, ai fi ni di un corretto accertamento del fatto, anziché procedere a proprie<br />
indagini, scelga di attendere l’esito degli accertamenti svolti in sede penale (Cass. 12.3.2001,<br />
n. 3560). Tale principio è stato ribadito anche recentemente dalla giurisprudenza di legittimità<br />
secondo cui la tempestività della contestazione di cui all’art. 7, co. 2, legge 300/1970 va<br />
valutata in relazione al momento in cui i fatti a carico del lavoratore, costituenti illecito disciplinare,<br />
appaiono ragionevolmente sussistenti. Quando il fatto costituente illecito disciplinare<br />
ha anche rilevanza penale, il principio dell’immediatezza della contestazione non può<br />
considerarsi violato quando il datore di lavoro, in assenza di elementi che rendano ragionevolmente<br />
certa la commissione del fatto da parte del dipendente, porti la vicenda all’esame<br />
del giudice penale, sempre che lo stesso si attivi non appena la comunicazione dell’esito<br />
delle indagini svolte in sede penale gli faccia ritenere ragionevolmente sussistente l’illecito<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 3 - Il procedimento disciplinare<br />
disciplinare, non dovendo egli attendere la conclusione del processo penale (Cass. 2.3.2008,<br />
n. 7983).<br />
Con riferimento alla recidiva, la giurisprudenza ha statuito che viola il principio dell’immediatezza<br />
il comportamento del datore di lavoro che rinvii la contestazione dell’addebito al fi ne<br />
di utilizzare l’eventuale reiterazione dell’illecito come elemento di maggior gravità da porre<br />
alla base di una più grave sanzione disciplinare.<br />
3.4 Onere della prova<br />
L’onere della prova della tardività della contestazione disciplinare grava sul lavoratore<br />
(Cass. 22.2.1995, n. 2018).<br />
Ove sia eccepita la tardività della contestazione, spetta al datore comprovare le ragioni<br />
impeditive di una rapida cognizione del fatto addebitato al dipendente e la tempestiva promozione<br />
dell’azione disciplinare, non appena avuta la notizia del fatto (Cass. 12.11.1993, n. 11180).<br />
3.5 Requisito della specifi cità<br />
3.5.1 Funzione<br />
La contestazione dell’addebito deve essere specifi ca, nel senso che deve contenere l’esposizione<br />
puntuale delle circostanze essenziali del fatto ascritto al lavoratore (anche se non è<br />
richiesta né l’indicazione delle disposizioni legali o contrattuali violate, né la specifi cazione<br />
dell’elemento soggettivo che si contesta al lavoratore) al fi ne di consentire a quest’ultimo il<br />
pieno esercizio del suo diritto di difesa e deve contenere la non equivoca manifestazione<br />
dell’intenzione del datore di lavoro di considerare gli addebiti come illecito disciplinare.<br />
REQUISITO DELLA SPECIFICITÀ<br />
Cass. 19.3.1992, n. 3404 Il requisito di specifi cità non è ritenuto soddisfatto in una fattispecie<br />
in cui la contestazione dell’addebito, relativo ad un comportamento<br />
minaccioso nei confronti di altri lavoratori, era stata formulata senza<br />
la specifi cazione delle circostanze di luogo e di contenuto delle frasi<br />
intimidatorie nonché dei destinatari delle stesse, negando altresì che<br />
la mancata indicazione dei nomi di costoro potesse essere giustifi cata<br />
da ragioni di opportunità.<br />
Cass. 16.9.1999, n. 10019 Il requisito di specifi cità è ritenuto soddisfatto qualora la dichiarazione<br />
del datore di lavoro abbia fatto riferimento, per una più precisa indicazione<br />
dei fatti, ad una precedente comunicazione al lavoratore medesimo<br />
Cass. 22.11.2011, n. 24567 Il requisito di specifi cità è ritenuto soddisfatto qualora la dichiarazione<br />
del datore di lavoro abbia fatto riferimento, per una più precisa indicazione<br />
dei fatti, ad una contestazione verbale effettuata nell’immediatezza<br />
dei fatti e sul luogo esatto in cui gli stessi erano stati commessi, così<br />
da richiamare circostanze note al lavoratore<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
11
12 Capitolo 3 - Il procedimento disciplinare<br />
In particolare, l’esigenza della specifi cità della contestazione non obbedisce ai rigidi canoni<br />
che presiedono alla formulazione dell’accusa nel processo penale, né si ispira ad uno schema<br />
precostituito e ad una regola assoluta ed astratta, ma si modella in relazione ai princìpi di<br />
correttezza che informano un rapporto interpersonale che già esiste tra le parti, ed è funzionalmente<br />
e teleologicamente fi nalizzata all’esclusiva soddisfazione dell’interesse dell’incolpato<br />
ad esercitare pienamente il diritto di difesa (Cass. 18.6.2002, n. 8853; più recentemente,<br />
Cass. 30.12.2009, n. 27842).<br />
3.5.2 Contestazione della recidiva<br />
L’ultimo comma dell’art. 7 S.L. dà rilievo alla circostanza della ripetizione dell’illecito - c.d.<br />
recidiva - pur contenendone gli effetti negativi nell’arco di 2 anni dall’applicazione delle sanzioni.<br />
La dottrina ha precisato che il biennio decorre dalla comunicazione del provvedimento disciplinare<br />
e che, trascorso detto termine, i comportamenti in precedenza sanzionati non assumono<br />
più autonomo rilievo, ma possono essere richiamati dal datore di lavoro solo per corroborare (e<br />
non accrescere) la gravità dell’addebito contestato e per confermare l’adeguatezza della sanzione<br />
disciplinare ovvero per accertare la natura e la consistenza del fatto da valutare.<br />
Sul punto, la giurisprudenza di legittimità ha stabilito che è possibile tenere conto, quali<br />
circostanze confermative della signifi catività degli addebiti contestati (ai fi ni della valutazione<br />
della complessiva gravità, anche sotto il profi lo psicologico, delle inadempienze del dipendente<br />
e della proporzionalità o meno del correlativo provvedimento sanzionatorio dell’imprenditore)<br />
anche di precedenti disciplinari risalenti ad oltre due anni prima del licenziamento (Cass.<br />
10.1.2011, n. 313).<br />
Anche per la recidiva compiuta nel biennio vige il principio della specifi cità, atteso che la<br />
stessa non può essere contestata con il mero richiamo alla sua natura generica o specifi ca,<br />
ma richiede una contestazione che faccia riferimento a fatti specifi ci, individuabili nella loro<br />
materialità (Cass. 9.11.2000, n. 14555).<br />
Con riferimento alla tempestività della contestazione di plurimi addebiti posti a fondamento<br />
del licenziamento disciplinare è stato ritenuto illegittimo il comportamento del datore di<br />
lavoro che in una condotta progressiva sostanzialmente unitaria del lavoratore aveva ravvisato<br />
la successione nel tempo di una pluralità di violazioni disciplinari e quindi, scomponendo tale<br />
condotta in più fatti illeciti, aveva utilizzato il fatto addebitato successivamente per contestare<br />
la recidiva rispetto a quello contestato per primo, risultando in tal caso violato il principio<br />
dell’immediatezza della contestazione che impone di non frapporre indugi tali da determinare<br />
un cumulo di addebiti (Cass. 7.9.2000, n. 11817).<br />
Invece, nel caso di successivi comportamenti del lavoratore costituenti ognuno un’infrazione<br />
disciplinare, il datore di lavoro non ha l’obbligo di procedere in ogni caso alla unifi cazione<br />
delle varie sanzioni in una sola più grave, avendo ammesso la giurisprudenza che il datore<br />
di lavoro possa, sanzionate di volta in volta le singole infrazioni, procedere poi alla contestazione<br />
della recidiva in occasione di ogni ulteriore violazione, com’è dimostrato dalla previsione<br />
dell’art. 7, legge 300/1970, che vieta solo di tenere conto delle sanzioni disciplinari che siano<br />
state applicate anteriormente al biennio; né è rinvenibile, in materia disciplinare, una funzione<br />
di prevenzione in vista del recupero del rapporto che verrebbe compromessa dalla valutazione<br />
atomistica dei singoli comportamenti, in quanto il potere disciplinare, ove si esplichi nel rispetto<br />
dei generali criteri di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. che vietano reazioni<br />
sleali e pretestuose, non trova altro limite se non la proporzionalità della sanzione rispetto<br />
ai comportamenti posti in essere dal dipendente (Cass. 10.2.2000, n. 1481).<br />
Nel biennio, ove richiamata espressamente dal codice disciplinare in quanto elemento co-<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 3 - Il procedimento disciplinare<br />
stitutivo dell’illecito e non mero criterio di determinazione della sanzione, la recidiva deve essere<br />
esplicitamente contestata, a pena di nullità della sanzione stessa (Cass. 10.1.2011, n.<br />
313). Di contro, non è indispensabile che di essa si faccia esplicita menzione nella contestazione<br />
disciplinare laddove venga utilizzata soltanto per evidenziare il particolare grado di gravità<br />
delle mancanze, quale mero criterio determinativo della sanzione che si ritiene proporzionata<br />
(Cass. 20.2.2012, n. 2433).<br />
3.6 Requisito della immodifi cabilità<br />
La contestazione è immutabile, nel senso che fatto contestato e fatto posto a fondamento<br />
della sanzione applicata debbono corrispondere.<br />
Il principio dell’immutabilità della contestazione deve essere inteso in relazione alla sua<br />
funzione di garanzia del diritto di difesa del lavoratore, cosicché è esclusa la possibilità di<br />
modifi care il fatto addebitato, inteso con riferimento alle modalità dell’episodio e al complesso<br />
degli elementi di fatto connessi all’azione del dipendente.<br />
In particolare, l’immutabilità della contestazione preclude al datore di lavoro di far valere, a<br />
sostegno delle sue determinazioni disciplinari, circostanze nuove rispetto a quelle contestate,<br />
tali da implicare una diversa valutazione dell’infrazione disciplinare anche diversamente tipizzata<br />
dal codice disciplinare apprestato dalla contrattazione collettiva (Cass. 28.8.2000, n. 11265).<br />
È stato peraltro precisato che in relazione alle garanzie previste dall’art. 7, legge 300/1970,<br />
per l’applicazione di sanzioni disciplinari, il principio di immutabilità della contestazione non<br />
può dirsi violato nell’ipotesi in cui l’addebito contestato al lavoratore sia formulato con riferimento<br />
alla condanna penale riportata dal lavoratore (nella specie, per violazione di segreto<br />
di uffi cio) e il successivo licenziamento disciplinare sia invece motivato con la violazione<br />
di obbligazioni contrattuali, ma tanto la contestazione quanto il provvedimento disciplinare<br />
facciano univoco riferimento agli stessi fatti materiali, non controversi (Cass. 19.12.1992, n.<br />
13464).<br />
Inoltre, in tema di risoluzione del rapporto di lavoro è stato chiarito come il principio della<br />
immutabilità della contestazione riguardi le circostanze di fatto su cui è fondato il licenziamento<br />
e non già la qualifi cazione dell’infrazione addebitata al lavoratore; pertanto tale principio<br />
non è stato giudicato violato allorché il giudice abbia ritenuto la legittimità del licenziamento<br />
perché i fatti contestati dal datore di lavoro al dipendente integravano l’ipotesi della giusta<br />
causa, benché gli stessi fatti fossero stati addotti dal datore di lavoro nell’atto di recesso per<br />
motivare l’asserito mancato superamento del periodo di prova da parte del lavoratore medesimo<br />
(Cass. 23.1.1987, n. 668; nello stesso senso, si registra un caso in cui il giudice ha ritenuto<br />
che le condotte del lavoratore, qualifi cate dal datore di lavoro come “abbandono del posto di<br />
lavoro”, costituissero invece “dichiarazioni false”, Cass. 29.8.2011, n. 17743).<br />
In ogni caso, poi, il principio in esame impedisce di attribuire rilevanza ad altre mancanze<br />
non addebitate al lavoratore, ma non preclude la valutazione di altri fatti che non vengono<br />
considerati come cause autonome di recesso ma come circostanze confermative dei fatti contestati<br />
e della loro gravità (Cass. 15.5.1984, n. 2964).<br />
In particolare, l’integrazione dell’originaria formulazione delle censure non determina<br />
una modifi cazione della contestazione allorché le circostanze nuove addotte dal datore di<br />
lavoro non risultino determinanti per l’esatta individuazione e comprensione dei fatto oggetto<br />
di censura, ma riguardino allegazioni volte a fornire precisazioni e chiarimenti a tal scopo<br />
non essenziali. Ad esempio, per la giurisprudenza di legittimità, sarebbero tali le comunicazioni<br />
fi nalizzate a correggere imprecisioni circa la denominazione di un locale pubblico (piz-<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
13
14 Capitolo 3 - Il procedimento disciplinare<br />
zeria) presso il quale il lavoratore si era recato ripetutamente durante l’orario di lavoro<br />
(Cass. 22.11.2011, n. 24567).<br />
La conseguenza dell’irrogazione della sanzione per causa diversa da quella enunciata nella<br />
contestazione è l’illegittimità della sanzione stessa (Cass. 7.5.1991, n. 5054).<br />
3.7 Preventiva indicazione della sanzione irrogabile<br />
Non sussiste alcun obbligo a carico del datore di lavoro né di indicare, nella contestazione<br />
degli addebiti, la sanzione che presumibilmente intende irrogare né di render note al dipendente<br />
le prove a suo carico (Cass. 30.1.1984, n. 721).<br />
Peraltro, la giurisprudenza ha specifi cato come all’atto della contestazione dell’addebito ex<br />
art. 7, legge 300/1970, non sia preclusa al datore di lavoro la possibilità di anticipare il tipo di<br />
sanzione che si intende adottare, in quanto tale anticipazione non si pone in contrasto né con<br />
la lettera né con la ratio del citato art. 7, sempre che, ovviamente, sia comunque seguito il<br />
prescritto iter disciplinare (Cass. 5.12.1997, n. 12366).<br />
Giurisprudenza<br />
maggioritaria<br />
Giurisprudenza<br />
minoritaria<br />
Nel caso di preventiva indicazione della sanzione irrogabile, il provvedimento<br />
defi nitivamente adottato può essere diverso ed anche più<br />
grave (oppure anche mancare) in relazione agli accertamenti ulteriori<br />
o alle valutazioni conseguenti alle difese presentate dal lavoratore<br />
(Cass. 20.7.1989, n. 3427; Cass. 18.10.1986, n. 6157).<br />
La comunicazione al lavoratore, nella lettera di contestazione dell’addebito,<br />
della sanzione che si intende irrogare, o la specifi cazione delle<br />
disposizioni dalle quali tale sanzione è desumibile, si risolve nella specifi<br />
cazione dei tratti distintivi dei fatti materiali sui quali il lavoratore<br />
è chiamato a difendersi e, pertanto, ha l’effetto di precludere (salvo<br />
nuove contestazioni nei limiti segnati dal principio d’immediatezza)<br />
l’irrogazione di una sanzione più grave di quella comunicata con la lettera<br />
di contestazione o desumibile dalle norme ivi richiamate (Cass.<br />
11.12.1990, n. 11779).<br />
3.8 Modalità di comunicazione al lavoratore<br />
Le modalità di comunicazione al lavoratore della contestazione disciplinare (a mani, per<br />
posta, con l’ausilio di un terzo) sono rimesse alla discrezionalità del datore di lavoro.<br />
Peraltro, essendo la contestazione un atto di natura recettizia, la giurisprudenza ritiene<br />
che valga la presunzione di conoscenza ex art. 1335 c.c., ai sensi del quale la dichiarazione si<br />
reputa conosciuta nel momento in cui giunge all’indirizzo del destinatario, se questi non prova<br />
di essere stato, senza sua colpa, nell’impossibilità di averne notizia.<br />
È stato altresì ritenuto che a nulla rileva che il lavoratore abbia rifi utato di ricevere l’atto in<br />
esame: il rifi uto di conoscenza imputabile al lavoratore, infatti, non fa venire meno la presunzione<br />
di conoscenza derivante dalla legge - art. 1335 c.c. e 138, co. 2, c.p.c. - (Pret. Torino, 5.1.1981).<br />
La prova dell’effettiva ricezione della contestazione disciplinare da parte del lavoratore<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 3 - Il procedimento disciplinare<br />
destinatario è a carico del datore, il quale può dimostrare con qualunque mezzo l’adempimento<br />
dell’onere. In particolare, nell’ipotesi di invio della lettera di contestazione mediante raccomandata<br />
a mezzo del servizio postale, è suffi ciente a tal fi ne la prova dell’avvenuto avviso,<br />
all’indirizzo del lavoratore destinatario, della giacenza del plico postale, quale risultante<br />
dall’annotazione apposta su questo (Cass. 10.11.1990, n. 10853).<br />
3.9 Giustifi cazioni del lavoratore<br />
Ricevuta la contestazione dell’addebito il lavoratore può comunicare al datore di lavoro le<br />
sue giustifi cazioni; ma l’eventuale omissione dell’esercizio di tale facoltà, come anche l’insuffi<br />
ciente allegazione difensiva, non determina alcuna preclusione né pregiudica il lavoratore<br />
che in sede di successiva impugnazione della sanzione può dedurre ogni ulteriore circostanza<br />
utile alla sua difesa (Cass. 27.7.1996, n. 6787).<br />
In tema, la Corte di Cassazione ha negato che sussista un obbligo per il datore di lavoro<br />
di mettere a disposizione del lavoratore, nei cui confronti sia stata elevata una contestazione<br />
disciplinare, la documentazione aziendale relativa ai fatti contestati. La messa a disposizione<br />
della documentazione suddetta, secondo i giudici di legittimità, deve ritenersi dovuta<br />
solo in quanto e nei limiti in cui l’esame della stessa sia necessaria al fi ne di una contestazione<br />
dell’addebito idonea a permettere a controparte un’adeguata difesa (Cass. 18.11.2010,<br />
n. 23304).<br />
Peraltro, il datore di lavoro non è tenuto a menzionare nel provvedimento disciplinare le<br />
giustifi cazioni fornite dal lavoratore a seguito della contestazione della mancanza e ad enunciare<br />
le ragioni che lo hanno indotto a disattenderle (Cass. 13.11.2000, n. 14680).<br />
3.10 Suffi cienza del termine di difesa<br />
I cc. 2 e 5 dell’art. 7 S.L. prevedono, rispettivamente, che «il datore di lavoro non possa<br />
adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente<br />
contestato l’addebito e senza averlo sentito a sua difesa» e che «i provvedimenti disciplinari<br />
più gravi del rimprovero verbale non possono essere applicati prima che siano<br />
trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto dei fatti che vi ha dato causa».<br />
Pertanto, il lavoratore ha 5 giorni di tempo dalla ricezione della lettera di contestazione<br />
disciplinare per comunicare al datore di lavoro le sue eventuali giustifi cazioni.<br />
In dottrina si è dubitato che tale termine, assai ridotto, possa tutelare suffi cientemente il<br />
lavoratore incolpato, vuoi perché la parallela norma prevista per il pubblico impiego attribuisce<br />
al medesimo fi ne un termine di 20 giorni, prorogabile di ulteriori 15 giorni ove ricorrano<br />
gravi motivi (art. 105, D.P.R. 10.1.1957, n. 3), vuoi perché il termine di 5 giorni è da considerarsi<br />
rispettato quando il datore di lavoro riceve le giustifi cazioni del lavoratore, a nulla rilevando<br />
quando le stesse siano state inviate.<br />
La giurisprudenza, peraltro, ha avuto modo di precisare che l’esistenza di uno stato di incapacità<br />
naturale (ad esempio per malattia con stato confusionale) nei 5 giorni previsti dall’art.<br />
7, L. 300/1970 - in quanto idoneo ad impedire al lavoratore di rendere le giustifi cazioni per rispondere<br />
agli addebiti contestati - viene indubitabilmente ad integrare un vizio alla procedura<br />
di legge vanifi cando la realizzazione degli scopi cui la medesima è preordinata, con la conseguenza<br />
della necessaria posticipazione del termine di scadenza e, nel caso di irrogazione an-<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
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16 Capitolo 3 - Il procedimento disciplinare<br />
ticipata del provvedimento disciplinare, di annullamento del medesimo.<br />
La dottrina ha poi osservato, con riferimento all’inapplicabilità del termine di cinque giorni<br />
al rimprovero verbale, come ciò comporti la possibilità di irrogare immediatamente tale sanzione<br />
dopo la contestazione ed anche nello stesso contesto temporale.<br />
3.11 Obbligo del datore di lavoro di sentire il lavoratore a sua difesa<br />
Il datore di lavoro è tenuto a sentire oralmente il lavoratore solo ove quest’ultimo lo chieda.<br />
Invero l’art. 7, L. 300/1970 non comporta in ogni caso l’obbligo per il datore di lavoro di convocare<br />
il lavoratore stesso per eventuali discolpe; un obbligo del genere, infatti, non solo non esiste<br />
certamente nell’ipotesi in cui lo stesso lavoratore non abbia rivolto al datore di lavoro una formale<br />
richiesta in tal senso (essendo al lavoratore riservata ogni valutazione in ordine alle modalità<br />
di esercizio del proprio diritto di difesa, tra le quali rientra anche il silenzio), ma non esiste neppure<br />
- per una ragione generale di correttezza e buona fede - quando, dopo la contestazione<br />
scritta dell’addebito, il lavoratore abbia comunque avuto modo di formulare le proprie difese e di<br />
manifestare le proprie ragioni senza remore e in piena libertà in un contraddittorio la cui effettività,<br />
nel caso concreto, va accertata dal giudice del merito (Cass. 28.8.2000, n. 11279).<br />
Per contro, la tempestiva presentazione, da parte del lavoratore, di giustifi cazioni scritte “consuma”<br />
l’esercizio del diritto di difesa soltanto quando lo scritto non contenga alcuna richiesta di<br />
audizione, altrimenti permane l’obbligo del datore di lavoro di sentire oralmente il dipendente<br />
prima di irrogare la sanzione disciplinare (Cass. 6.7.1999, n. 7006). Infatti, secondo la giurisprudenza<br />
di legittimità, il lavoratore sottoposto a procedimento disciplinare può avvertire l’esigenza di<br />
essere sentito personalmente dal datore di lavoro, anche quando abbia inviato una compiuta difesa<br />
scritta. Tuttavia, in questa ipotesi, egli ha l’onere di comunicare la propria volontà in termini univoci,<br />
a tutela dell’affi damento del datore di lavoro, il quale non può essere esposto ingiustamente al<br />
rischio di sentirsi dichiarare illegittimo il licenziamento per un vizio di procedura determinato proprio<br />
dal contenuto incerto e poco chiaro della comunicazione del lavoratore. In particolare, è stato<br />
escluso che si potesse ravvisare una richiesta di audizione in cui il lavoratore chiedeva di essere<br />
ascoltato “per ogni ulteriore chiarimento dovesse necessitare” (Cass. 26.10.2010, n. 21899).<br />
Vero è che il datore di lavoro che intenda adottare una sanzione disciplinare nei confronti<br />
del dipendente non può omettere l’audizione del lavoratore incolpato che ne abbia fatto<br />
espressa ed inequivocabile richiesta contestualmente alla comunicazione delle giustifi cazioni<br />
scritte, anche se queste appaiono già di per sé ampie ed esaustive e senza che occorra, nella<br />
richiesta di audizione, la specifi cazione delle relative ragioni di completamente della difesa<br />
(Cass. 27.1.2011, n. 1947; Cass. 31.1.2011, n. 2159).<br />
L’audizione del lavoratore può avvenire anche nel corso di un colloquio informale, non<br />
determinando la violazione delle garanzie procedimentali prescritte dall’art. 7, L. 300/1970<br />
la circostanza che l’audizione del lavoratore sia avvenuta nel corso di un colloquio di carattere<br />
informale che sia stato accordato da soggetto abilitato a rappresentare ai fi ni in esame<br />
il datore di lavoro (Cass. 20.1.1998, n. 476).<br />
Quanto al luogo in cui tale audizione può svolgersi, va rilevato che nessuna fonte normativa o<br />
pattizia prevede che l’audizione del lavoratore debba avere luogo nell’orario e nella sede di<br />
lavoro, né contempla l’onere del datore di lavoro di consentire l’esercizio del diritto di difesa alle<br />
condizioni – relative al quando e al quomodo – richieste dal dipendente (Cass. 4.5.2011, n. 9770).<br />
La mancata audizione orale del lavoratore che ne abbia fatto richiesta è causa di nullità del<br />
provvedimento disciplinare (Pret. Milano, 15.10.1994). Tuttavia, ove il datore di lavoro, a seguito<br />
di tale richiesta, abbia convocato il lavoratore per una certa data, questi non ha diritto ad un<br />
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Capitolo 3 - Il procedimento disciplinare<br />
differimento dell’incontro <strong>sulla</strong> base non già di impossibilità, ma di una mera disagevole o<br />
sgradita possibilità di presenziare (Cass. 31.3.2011, n. 7493).<br />
3.12 Assistenza dell’organizzazione sindacale<br />
Il co. 3 dell’art. 7 S.L. prevede la possibilità per il lavoratore incolpato di farsi assistere da<br />
un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato. A tal proposito<br />
è stato precisato che il lavoratore può farsi assistere nel corso del procedimento disciplinare<br />
da qualunque organizzazione sindacale, e non solo da quelle che abbiano costituito, ai<br />
sensi dell’art. 19, S.L., rappresentanze nell’unità produttiva in cui il dipendente presta la sua<br />
opera (Cass. 30.8.1993, n. 9177; Cass. 22.9.2003, n. 14055).<br />
3.13 Problema del rispetto del termine di difesa da parte del datore di lavoro<br />
La sanzione disciplinare (che sia più grave del rimprovero verbale) non può essere irrogata<br />
prima del decorso del termine di 5 giorni dalla comunicazione della contestazione dell’addebito,<br />
né tanto meno può darsi materiale esecuzione al provvedimento adottato.<br />
Sino all’intervento delle Sezioni Unite della Suprema Corte vi era contrasto <strong>sulla</strong> necessità<br />
di rispettare tale termine nell’ipotesi in cui il lavoratore avesse comunicato le sue giustifi<br />
cazioni prima del suo decorso, controvertendosi se il datore di lavoro dovesse comunque<br />
attendere cinque giorni per poter irrogare la sanzione o se potesse farlo anche prima.<br />
Le Sezioni Unite hanno affermato che il licenziamento disciplinare - al quale sono applicabili<br />
non solo le regole procedimentali stabilite a garanzia del contraddittorio dai primi tre commi<br />
dell’art. 7 Stat. Lav. ma anche il disposto del successivo comma 5 - non può essere intimato<br />
prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha<br />
dato causa, salva la facoltà del datore di lavoro di adottare tale provvedimento non appena gli<br />
siano pervenute le giustifi cazioni del lavoratore incolpato, anche se il termine medesimo non<br />
sia ancora interamente decorso (Cass., Sez. Un., 26.4.1994, n. 3965).<br />
Con l’importante precisazione che è legittima la sanzione disciplinare irrogata prima della<br />
scadenza del termine di cinque giorni qualora il lavoratore abbia già fornito le proprie giustifi -<br />
cazioni senza riserva di ulteriori integrazioni (Cass. 28.3.1996, n. 2791).<br />
A tale principio si è poi adeguata la giurisprudenza successiva, anche se non è mancata<br />
qualche voce di dissenso (Cass. 22.4.1997, n. 3498).<br />
Successivamente, però, la Suprema Corte, modifi cando il proprio precedente orientamento,<br />
ha statuito che il termine di 5 giorni dalla contestazione dell’addebito, prima della cui scadenza<br />
è preclusa, ai sensi dell’art. 7, co. 5, L. 300/1970, la possibilità di irrogazione della sanzione disciplinare,<br />
ivi compreso il licenziamento, pur essendo stabilito per consentire al lavoratore di<br />
comunicare al datore di lavoro le sue giustifi cazioni, risponde ad una r a o più completa ed organica,<br />
ravvisabile non solo nella necessità di consentire al datore di lavoro di adottare la sanzione<br />
dopo aver conosciuto le difese dell’incolpato, ma anche nella necessità per lo stesso datore di<br />
lavoro di fruire di un tempo, anche se molto breve, di ripensamento e di raffreddamento, tale<br />
comunque da fargli adottare i più gravi provvedimenti con la necessaria ponderazione; conseguentemente,<br />
prima dell’intero decorso del detto termine non è consentito al datore di lavoro di<br />
irrogare il licenziamento, anche ove risulti che, prima della scadenza, il lavoratore abbia fornito<br />
le proprie giustifi cazioni (Cass. 25.7.2002, n. 10972; Cass. 22.2.2002, n. 2610).<br />
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18 Capitolo 3 - Il procedimento disciplinare<br />
Tale decisione costituisce indubbiamente un ripensamento o comunque un’inversione di<br />
tendenza rispetto al precedente prevalente orientamento della stessa Corte.<br />
In seguito è nuovamente intervenuta la Suprema Corte a Sezione Unite (Cass., Sez. Un.,<br />
7.5.2003, n. 6900) a comporre il contrasto giurisprudenziale sorto in materia, statuendo che il<br />
provvedimento disciplinare può essere legittimamente irrogato anche prima della scadenza<br />
del termine di cui all’art. 7, co. 5, L. 300/1970 quando il lavoratore ha esercitato pienamente<br />
il proprio diritto di difesa facendo pervenire al datore di lavoro le proprie giustifi cazioni, senza<br />
manifestare alcuna esplicita riserva di ulteriori produzioni documentali o motivazioni difensive.<br />
A questa interpretazione sembra aver aderito la giurisprudenza di legittimità successiva<br />
alla più recente pronuncia delle Sezioni Unite citata (Cass. 19.10.2011, n. 21622).<br />
Anche se la questione interpretativa sembra ormai risolta da questo ulteriore intervento<br />
della Corte di Cassazione, un comportamento improntato alla prudenza suggerisce e forse<br />
impone in ogni caso il rispetto del termine dei 5 giorni dall’avvenuta contestazione disciplinare<br />
prima di procedere all’irrogazione della sanzione.<br />
3.14 Computo del termine<br />
Per il computo del termine dei 5 giorni si tiene conto dei giorni di calendario e non dei<br />
giorni lavorativi e si applica la regola della computabilità dei giorni festivi intermedi, derivabile<br />
dal sistema e positivamente espressa, per i termini processuali, dall’art. 155, co. 3, c.p.c.<br />
(Cass. 13.11.2000, n. 14680).<br />
3.15 Forma e modalità di comunicazione del licenziamento<br />
Il provvedimento di licenziamento deve essere comunicato in forma scritta al lavoratore in<br />
quanto atto unilaterale recettizio.<br />
È con tale comunicazione che il provvedimento può considerarsi «applicato» per gli effetti<br />
del co. 6 dell’art. 7, ossia per l’impugnativa della sanzione stessa («il lavoratore, al quale sia<br />
stata applicata una sanzione disciplinare può promuovere, nei venti giorni successivi, (...), la<br />
costituzione, (...), di un collegio di conciliazione ed arbitrato»).<br />
3.16 Requisito della tempestività<br />
La giurisprudenza richiede che l’irrogazione della sanzione disciplinare sia tempestiva rispetto<br />
al fatto contestato.<br />
La r a o della tempestività si fonda sull’art. 7, cc. 3 e 4, S.L., che riconosce al lavoratore<br />
incolpato il diritto alla difesa (Cass. 8.1.2001, n. 150).<br />
La giurisprudenza di merito ha evidenziato come, sebbene l’art. 7 non preveda un termine<br />
entro cui il datore di lavoro possa esercitare il potere disciplinare, non di meno deve escludersi<br />
che egli possa irrogare una sanzione disciplinare allorché sia trascorso un considerevole<br />
lasso di tempo dalla contestazione (nella specie la sanzione era stata irrogata dopo sette mesi<br />
da quest’ultima; Pret. Roma 11.1.1990).<br />
Peraltro, nel caso in cui il fatto contestato (costituendo ad un tempo illecito disciplinare e pena-<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 3 - Il procedimento disciplinare<br />
le) emerga nella sua compiutezza all’esito del procedimento penale, l’irrogazione della sanzione è<br />
stata ritenuta tempestiva dalla giurisprudenza nonostante il rilevante tempo trascorso dalla condotta<br />
contestata al lavoratore. A tal proposito, la giurisprudenza ha infatti ritenuto che in pendenza<br />
di un processo penale a carico del lavoratore il principio dell’immediatezza che condiziona la validità<br />
del recesso in tronco per giusta causa deve essere coordinato con l’esigenza di accertamento<br />
dei fatti, ed il comportamento dell’imprenditore che decide di mantenere in servizio il dipendente<br />
riservandosi di provvedere all’esito degli accertamenti in sede giudiziaria non può essere interpretato<br />
come rinunzia all’esercizio del potere disciplinare (Cass. 4.2.1992, n. 1165).<br />
Altre decisioni, invece, hanno ritenuto incompatibile la ritardata intimazione da parte del<br />
datore di lavoro del recesso per giusta causa con l’attesa dell’esito del giudizio penale, anche<br />
nell’ipotesi in cui il datore di lavoro si sia costituito parte civile nel processo penale, attesa la<br />
diversità, sul piano del contenuto e degli effetti, tra la vicenda penale e quella del rapporto di<br />
lavoro (Cass. 1.8.1984, n. 4578) e la incompatibilità della protrazione del rapporto di lavoro con<br />
la sussistenza di una giusta causa di licenziamento (Cass. 29.10.1991, n. 11508).<br />
Nello stesso senso, è stato recentemente affermato che ai fi ni della valutazione circa la<br />
tempestività dell’esercizio del potere disciplinare «non può assumere autonomo ed autosuffi -<br />
ciente rilievo la denunzia dei fatti in sede penale o la pendenza stessa del procedimento penale,<br />
considerata l’autonomia tra i due procedimenti, l’inapplicabilità, al procedimento disciplinare,<br />
del principio di non colpevolezza… la circostanza che l’eventuale accertamento<br />
dell’irrilevanza penale del fatto non determina di per sé l’assenza di analogo disvalore in sede<br />
disciplinare» (Cass. 26.3.2010, n. 7410).<br />
3.17 Termine previsto dalla contrattazione collettiva<br />
È possibile che la contrattazione collettiva preveda un termine per l’irrogazione della sanzione<br />
disciplinare, scaduto il quale deve presumersi che le giustifi cazioni del lavoratore siano<br />
state tacitamente accettate dal datore di lavoro. Infatti, la norma prevista dal co. 5 dell’art. 7,<br />
L. 300/1970 - che vieta l’applicabilità di provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero<br />
verbale prima che siano decorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi<br />
ha dato causa -, non esclude che la disciplina collettiva possa arricchire le garanzie di difesa<br />
dell’incolpato con la previsione di un termine fi nale per l’adozione del provvedimento disciplinare<br />
e con l’attribuzione di un determinato signifi cato al comportamento del datore di lavoro.<br />
Pertanto è ritenuta legittima la clausola contrattuale (nella specie si trattava dell’art.<br />
23, CCNL 18.1.1987 per gli addetti all’industria metalmeccanica privata) che preveda un<br />
termine finale per l’irrogazione della sanzione, configurandosi la mancata adozione del<br />
provvedimento disciplinare entro il termine finale quale accettazione delle giustificazioni<br />
fornite dal lavoratore (Cass. 21.3.1994, n. 2663).<br />
3.18 Proporzionalità tra addebito e sanzione disciplinare<br />
La sanzione deve essere proporzionata alla gravità del fatto addebitato al lavoratore ed<br />
accertato a suo carico, tenendo conto di tutte le circostanze di fatto, soggettive ed oggettive,<br />
che hanno caratterizzato la condotta contestata (Cass. 27.2.1995 n. 2252).<br />
Per stabilire in concreto l’esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire<br />
il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare<br />
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19
20 Capitolo 3 - Il procedimento disciplinare<br />
di quello fi duciario, occorre valutare - da un lato - la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in<br />
relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati<br />
commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale, e - dall’altro - la proporzionalità fra tali<br />
fatti e la sanzione infl itta. Con particolare riguardo a quest’ultimo aspetto, viene preso in considerazione<br />
ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fi ducia del<br />
datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto di lavoro si risolva in un pregiudizio<br />
per gli scopi aziendali, essendo determinante, ai fi ni del giudizio di proporzionalità, l’infl<br />
uenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che,<br />
per le sue concrete modalità e per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in dubbio<br />
la futura correttezza dell’adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente<br />
gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e<br />
correttezza (Cass. 12.2.2012, n. 2014; Cass. 15.4.2011, n. 8774; Cass. 17.1.2011, n. 924).<br />
Valga peraltro aggiungere che l’art. 30, co. 3, L. 4.11.2010, n. 183 (cd. Collegato Lavoro) stabilisce<br />
al riguardo che «nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene<br />
conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustifi cato motivo presenti nei contratti <strong>collettivi</strong> di<br />
lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi ovvero nei contratti <strong>individuali</strong><br />
di lavoro ove stipulati con l’assistenza e la consulenza delle commissioni di certifi cazione di<br />
cui al titolo VIII del decreto legislativo 10.9.2003, n. 276, e successive modifi cazioni».<br />
Nello stesso senso, ma in maniera ancor più incisiva, la recentissima L. 28.6.2012, n. 92, attribuisce<br />
valore vincolante alle tipizzazioni di giusta causa (e di “giustifi cato motivo soggettivo”,<br />
cfr. Capitolo 5) contenute nei contratti <strong>collettivi</strong> e nei codici disciplinari applicabili al rapporto di<br />
lavoro: l’art. 1, co. 42, di tale norma prevede infatti che nelle ipotesi in cui «il fatto rientra tra le<br />
condotte punibili con una sanzione conservativa <strong>sulla</strong> base delle previsioni dei contratti <strong>collettivi</strong><br />
ovvero dei codici disciplinari applicabili», il giudice «annulla il licenziamento» ed applica il<br />
regime sanzionatorio previsto in ipotesi di licenziamento disciplinare invalido (cfr. Capitolo 11).<br />
Sul punto, la giurisprudenza sin qui pronunciatasi ha costantemente affermato che le clausole<br />
della contrattazione collettiva che prevedono per specifi che inadempienze del lavoratore<br />
l’irrogazione del licenziamento non esimono il giudice dalla necessità di accertare in concreto<br />
la reale entità e gravità delle infrazioni addebitate al dipendente ed il rapporto di proporzionalità<br />
tra sanzione e infrazione (Cass. 24.10.2000, n. 13983), tenendo conto delle circostanze del<br />
caso concreto e della portata soggettiva della condotta.<br />
3.19 Previsione della contrattazione collettiva<br />
Quando il contratto collettivo punisca con sanzione disciplinare non espulsiva un determinato<br />
comportamento del lavoratore, non è consentito al giudice di merito di apprezzare tale<br />
condotta quale ragione di irrimediabile lesione del rapporto fi duciario legittimante il recesso<br />
del datore di lavoro, sempre che, peraltro, vi sia integrale coincidenza tra la fattispecie contrattualmente<br />
prevista e quella effettivamente realizzata, restando per contro quella valutazione<br />
possibile (e doverosa) quando la condotta del lavoratore sia caratterizzata da elementi<br />
aggiuntivi estranei (ed aggravanti) rispetto all’ipotesi contrattuale (Cass. 29.4.1998, n. 4395).<br />
Il principio di proporzionalità della sanzione irrogata al fatto addebitato non esclude però<br />
che il datore di lavoro possa applicare una sanzione meno grave di quella prevista dal contratto<br />
collettivo applicato al rapporto (Cass. 13.8.1991, n. 8828).<br />
La mancanza di proporzionalità tra addebito e sanzione rende la sanzione stessa illegittima.<br />
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Capitolo 3 - Il procedimento disciplinare<br />
3.20 Esecuzione della sanzione disciplinare<br />
Le sanzioni disciplinari, una volta irrogate e comunicate al lavoratore (in ragione della loro<br />
natura di atti recettizi), hanno effi cacia immediata e possono essere portate ad esecuzione<br />
senza che debbano trascorrere i 20 giorni successivi all’applicazione entro i quali il lavoratore<br />
può promuovere la costituzione di un collegio di conciliazione ed arbitrato al fi ne di ottenere la<br />
revoca del provvedimento (Cass. 23.7.1985 n. 4336).<br />
Un’opinione quasi isolata in giurisprudenza ed assai datata ritiene invece che l’eseguibilità<br />
della sanzione sia condizionata alla mancata impugnazione della sanzione da parte del lavoratore<br />
(Pret. Milano 8.4.1971).<br />
3.21 Ipotesi di inapplicabilità dell’art. 7 S.L.<br />
In presenza di rapporti di lavoro con caratteristiche particolari la legge dispone che il potere<br />
disciplinare possa essere esercitato secondo modalità diverse da quelle delineate dall’art.<br />
7 S.L.; in altri casi, anche nel silenzio della legge, si discute in dottrina e giurisprudenza dei<br />
limiti di applicabilità di tale norma o della stessa confi gurabilità di un potere disciplinare con<br />
quelle caratteristiche. I casi sono i seguenti:<br />
● lavoro sportivo: l’art. 4, co. 8, L. 91/1981, esclude che sia applicabile l’art. 7 S.L. alle «sanzioni disciplinari<br />
irrogate dalle federazioni sportive nazionali». Secondo una parte della dottrina la ratio<br />
consisterebbe nell’esigenza di accorciare i tempi della giustizia sportiva dato che quelli stabiliti dallo<br />
Statuto sarebbero eccessivi e incompatibili con il regolare andamento delle competizioni sportive;<br />
● lavoro a domicilio: la dottrina è divisa sull’applicabilità dell’art. 7 S.L., mentre non constano<br />
pronunce giurisprudenziali a riguardo;<br />
● lavoro domestico: in giurisprudenza è stata sollevata questione di costituzionalità degli artt. 7 e<br />
35 S.L. nella parte in cui escludono l’applicabilità al rapporto di lavoro domestico delle procedure<br />
per l’irrogazione delle sanzioni disciplinari (Pret. Firenze, 23.6.1994). La Corte Costituzionale<br />
ha dichiarato la questione inammissibile per difetto di rilevanza (C. Cost. 26.5.1995, n. 193);<br />
● dirigenti: la Suprema Corte ha inizialmente negato l’applicabilità dell’art. 7 S.L. ai dirigenti in<br />
ragione della specifi cità del lavoro dirigenziale rispetto a quello degli altri dipendenti. In particolare,<br />
la Cassazione a Sezioni Unite ha inizialmente statuito che le garanzie del contraddittorio<br />
previste dalla citata disposizione statutaria per l’irrogazione di sanzioni disciplinari e consistenti<br />
nella preventiva contestazione dell’addebito e nell’attribuzione di un termine a difesa,<br />
non trovano applicazione nel caso di licenziamento di dirigente d’azienda (qualifi ca connotata<br />
dalla collocazione in posizione di vertice nell’azienda quale alter ego dell’imprenditore) in ragione<br />
della natura spiccatamente fi duciaria del rapporto che esclude la stessa confi gurabilità<br />
del potere disciplinare del datore di lavoro (Cass., Sez. Un., 29.5.1995, n. 6041; conforme:<br />
Cass. 12.10.1996, n. 8934). Successivamente la Suprema Corte ha precisato che l’art. 7, legge<br />
300/1970, non si applica al licenziamento disciplinare dei soli dirigenti di vertice, applicandosi<br />
invece a quello dei c.d. pseudo-dirigenti o dirigenti convenzionali (Cass. 11.2.1998, n. 1434; nello<br />
stesso senso: Cass. 27.11.1997, n. 12001). Si segnala, tuttavia, che da ultimo la Suprema Corte<br />
ha affermato che tali garanzie sono applicabili anche in caso di licenziamento disciplinare del<br />
dirigente d’azienda, a prescindere dalla specifi ca posizione, di vertice o non di vertice, dello<br />
stesso nell’ambito dell’organizzazione aziendale, se il datore di lavoro addebita al dirigente un<br />
comportamento negligente o, in senso lato, colpevole (Cass., Sez. Un., 30.3.2007, n. 7880; Cass.<br />
3.4.2003, n. 5213) sia se a base del recesso siano poste condotte tali da recidere il necessario<br />
vincolo fi duciario (Cass. 27.12.2011, n. 28967; Cass. 17.1.2011, n. 897; Cass. 7.12.2010, n. 24794).<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
21
22 Capitolo 3 - Il procedimento disciplinare<br />
3.22 Impugnazione della sanzione disciplinare illegittima<br />
L’art. 7, co. 6 e 7, S.L. defi nisce la tipologia dei mezzi di impugnazione di cui può avvalersi il lavoratore<br />
avverso il provvedimento disciplinare: attivazione della procedura conciliativo-arbitrale o<br />
delle «analoghe procedure» previste dai contratti <strong>collettivi</strong>, oppure ricorso al giudice ordinario.<br />
L’illegittimità della sanzione può derivare dalla violazione del procedimento disciplinare,<br />
dall’insussistenza dell’addebito posto dal datore di lavoro quale ragione giustifi catrice della<br />
sanzione stessa o dalla violazione del principio di proporzionalità.<br />
Valga peraltro aggiungere che la L. 28.6.2012, n. 92, prevede delle conseguenze particolari<br />
in caso di licenziamento disciplinare ineffi cace in quanto intimato in violazione delle norme<br />
procedurali previste dall’art. 7 S.L. Infatti, una tale violazione comporta non già la reintegrazione<br />
del lavoratore nel posto di lavoro bensì meramente la condanna del datore di lavoro al<br />
pagamento di «un’indennità risarcitoria omnicomprensiva determinata, in relazione alla<br />
gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo<br />
di sei e un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto» (cfr. Capitolo<br />
11), salvo che il recesso intimato non sia censurabile anche nel merito, ossia in relazione alle<br />
ragioni poste a fondamento del licenziamento.<br />
3.23 Impugnazione della sanzione in sede arbitrale<br />
3.23.1 Termini e natura giuridica<br />
La dottrina ritiene che il termine di 20 giorni previsto per promuovere la costituzione di un<br />
collegio di conciliazione e arbitrato, contestualmente alla designazione del primo arbitro da<br />
parte del lavoratore, decorra dal momento della comunicazione della sanzione e non sia previsto<br />
a pena di decadenza. Invece, il termine di 10 giorni per nominare il secondo arbitro da<br />
parte del datore di lavoro decorre dalla comunicazione da parte dell’Uffi cio del lavoro. A tale<br />
proposito occorre sottolineare come il datore di lavoro entro il medesimo termine di 10 giorni<br />
possa, alternativamente, nominare il secondo arbitro o promuovere il giudizio ordinario, paralizzando<br />
così la procedura arbitrale; in tale ultimo caso, tuttavia, l’esecuzione della sanzione<br />
disciplinare resta sospesa sino alla defi nizione del giudizio (Trib. Milano, 16 ottobre 2000; nello<br />
stesso senso: Pret. Catania, 22.2.1988, con la precisazione che «fi no alla defi nizione del<br />
giudizio» è da intendersi il passaggio in giudicato della sentenza che dichiara legittima la sanzione<br />
stessa).<br />
Qualora invece il datore di lavoro non provveda alla nomina del proprio rappresentante in<br />
seno al collegio arbitrale nel termine di 10 giorni dall’invito ricevuto dall’uffi cio del lavoro, la<br />
sanzione disciplinare si estingue automaticamente.<br />
Infi ne, nessun termine è stabilito per la nomina del terzo arbitro, scelto d’intesa dal lavoratore<br />
e dal datore di lavoro o, in mancanza di accordo, designato dal direttore dell’Uffi cio del<br />
lavoro.<br />
3.23.2 Effetti <strong>sulla</strong> sanzione disciplinare<br />
Sebbene l’attivazione della procedura conciliativo-arbitrale sia facoltativa, abbiamo già accennato<br />
come la stessa sia resa appetibile dal legislatore con la previsione dell’effetto sospensivo<br />
dell’effi cacia della sanzione disciplinare non eseguita «fi no alla pronuncia da parte del<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 3 - Il procedimento disciplinare<br />
collegio», nonché della caducazione automatica della sanzione stessa in caso di mancata nomina<br />
del rappresentante in seno al collegio arbitrale da parte del datore di lavoro.<br />
C’è da sottolineare che il legislatore riconnette la sospensione dell’esecuzione della sanzione<br />
all’attivazione della procedura arbitrale da parte del lavoratore (anche se poi il datore di<br />
lavoro reagisce proponendo azione giudiziale di accertamento) ma non alla promozione delle<br />
«analoghe procedure» contrattualmente previste né all’impugnazione della sanzione in sede<br />
giurisdizionale.<br />
Peraltro atteso che, come già detto, i provvedimenti disciplinari, una volta applicati, hanno<br />
effi cacia immediata, senza che debbano trascorrere i 20 giorni successivi all’applicazione entro<br />
i quali il lavoratore può promuovere la costituzione di un collegio di conciliazione ed arbitrato<br />
al fi ne di ottenere la revoca del provvedimento, la promozione della costituzione di tale<br />
collegio sospende solo gli effetti non ancora realizzati di una sanzione già comminata (Cass.<br />
23 luglio 1985, n. 4336).<br />
3.23.3 Alternatività con l’impugnazione giudiziale<br />
Una volta applicata la sanzione disciplinare il lavoratore, se intende impugnarla per farne<br />
valere l’illegittimità, ha la facoltà di scelta tra la procedura arbitrale e il ricorso giurisdizionale.<br />
Il datore di lavoro invece può solo accettare (non già promuovere) la costituzione del collegio<br />
arbitrale richiesta dal lavoratore, mentre può adire l’autorità giudiziaria per l’accertamento<br />
della legittimità della sanzione.<br />
3.23.4 Problema della revocabilità della scelta<br />
L’individuazione del momento in cui la scelta arbitrale diventa irretrattabile è questione<br />
controversa in giurisprudenza.<br />
Da ultimo la Suprema Corte ha statuito che nell’ipotesi in cui il lavoratore colpito da licenziamento<br />
disciplinare abbia inizialmente scelto di avvalersi del collegio arbitrale previsto dall’art. 7,<br />
L. 300/1970, fi nché il suddetto collegio non addivenga ad una pronuncia può sempre esperire,<br />
nei limiti della prescrizione, l’azione giudiziaria rivolta all’accertamento della nullità del licenziamento,<br />
atteso che l’alternatività - intesa come irretrattabilità della scelta compiuta dal lavoratore<br />
- tra il ricorso all’autorità giudiziaria e quella al procedimento arbitrale deve intendersi con<br />
riguardo alla sola eventualità che quest’ultimo sia effettivamente pendente (per tale dovendosi<br />
intendere il procedimento in cui sia intervenuta la regolare costituzione del collegio arbitrale) o<br />
sia pervenuto alla sua conclusione con la pronuncia del lodo (Cass. 20.2.1999, n. 1452; Cass.<br />
10.4.1990, n. 3023; 8.2.1990, n. 891; 12.3.1987, n. 2588; 14.1.1987, n. 214; 3.12.1981, n. 6414).<br />
Per quanto riguarda il mancato compimento della procedura arbitrale ove, dopo la costituzione<br />
del collegio arbitrale, la procedura non arrivi al suo esito normale con l’emissione del<br />
lodo, vi è contrasto in giurisprudenza:<br />
primo orientamento<br />
(Cass. 7.4.1992, n. 4245;<br />
Cass. 18.2.1992, n. 1978;<br />
Cass. 12.3.1987, n. 2588)<br />
il mancato compimento della procedura arbitrale, indipendentemente<br />
dalle cause che l’abbiano determinato, comporta comunque il ripristino<br />
della facoltà delle parti di adire il giudice.<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
23
24 Capitolo 3 - Il procedimento disciplinare<br />
– segue –<br />
altro orientamento<br />
(Cass. 17.9.1993, n. 9568)<br />
conferma del primo<br />
orientamento<br />
(Cass. 17.6.1999, n. 6081)<br />
3.23.5 Impugnazione del lodo<br />
la costituzione del collegio di conciliazione ed arbitrato, concretatasi con<br />
la nomina dei rispettivi componenti da parte degli interessati, i quali in<br />
tal guisa concludono l’accordo compromissorio, segna il momento preclusivo<br />
dell’azione giudiziaria, la cui facoltà potrebbe essere restituita<br />
alle parti solo ove il procedimento arbitrale non potesse concludersi con<br />
la decisione per fatto non imputabile ad alcuna delle parti stesse.<br />
ritenendo che la rinuncia alla tutela giurisdizionale per effetto della<br />
scelta degli arbitri deve qualifi carsi come condizionata alla sopravvenienza<br />
di un lodo valido, sicché quando, per qualsiasi ragione, il patto<br />
compromissorio abbia esaurito la sua effi cacia per l’impossibilità di far<br />
regolare dagli arbitri tale rapporto, risorge per le parti la facoltà di<br />
sottoporre al giudice le questioni già deferite agli arbitri.<br />
Attesa la natura irrituale dell’arbitrato in esame, la relativa decisione non è impugnabile<br />
nel merito avanti all’autorità giudiziaria ordinaria, salvo il controllo sia sull’esistenza di vizi<br />
idonei ad infi ciare la determinazione degli arbitri per alterata percezione o falsa rappresentazione<br />
dei fatti, sia sull’osservanza delle disposizioni inderogabili di legge o di contratti o accordi<br />
<strong>collettivi</strong>.<br />
3.23.6 Procedure arbitrali previste dalla contrattazione collettiva<br />
L’art. 7, co. 6, S.L. prevede espressamente la contrattazione collettiva disciplini ulteriori e<br />
diverse procedure pattizie di conciliazione ed arbitrato, purché siano «analoghe» a quelle di<br />
fonte legale.<br />
Con riferimento a tali procedure pattizie, la dottrina ha evidenziato come il disposto normativo<br />
sia rispettato ove esse offrano al lavoratore garanzie non difformi da quella arbitrale, e<br />
cioè: termine per l’impugnazione della sanzione non inferiore a venti giorni; corretto contraddittorio;<br />
posizione paritetica delle parti nella costituzione dell’organo decisorio; sospensione<br />
della sanzione fi no alla pronuncia.<br />
In giurisprudenza è stato confermato che «non è “analoga”, in riferimento al disposto<br />
dell’art. 7, co. 6, L. 300/1970, una procedura conciliativa prevista da contratti <strong>collettivi</strong> che non<br />
garantisca al prestatore di lavoro colpito da sanzione disciplinare una tutela equivalente a<br />
quella offerta dalla procedura di impugnazione in sede arbitrale prevista dalla medesima disposizione<br />
(trattavasi, nella specie, di una procedura meramente conciliativa e non arbitrale,<br />
con un termine di proposizione ridotto rispetto a quello legale, e senza previsione della sospensione<br />
del provvedimento disciplinare sino alla conclusione del procedimento); restando<br />
comunque salva, anche a prescindere da tale valutazione, la facoltà del lavoratore di ricorrere<br />
alla procedura arbitrale prevista dall’art. 7 cit. o di adire l’autorità giudiziaria ordinaria» (Cass.<br />
28.1.1984, n. 709).<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 4<br />
LA GIUSTA CAUSA DI LICENZIAMENTO<br />
4.1 Nozione di giusta causa<br />
La legge dispone che il licenziamento del prestatore di lavoro non possa avvenire che per<br />
giusta causa o per giustifi cato motivo (art. 1, L. 15.7.1966, n. 604). L’art. 2119 c.c. defi nisce<br />
come giusta causa di licenziamento quella che «non consente la prosecuzione, anche provvisoria,<br />
del rapporto»: vale a dire, neppure per il periodo di preavviso. L’indeterminatezza ed<br />
elasticità del concetto normativo ha creato non pochi problemi interpretativi e, soprattutto,<br />
applicativi, coincidenti con la necessità di valutare e selezionare, in concreto, quando una<br />
determinata condotta posta in essere dal prestatore di lavoro possa costituire o meno giusta<br />
causa di licenziamento. Le diffi coltà sono state superate grazie alla copiosissima elaborazione<br />
giurisprudenziale in materia che, nel tempo, ha delineato i criteri interpretativi ed<br />
applicativi della norma. Criteri che, da una parte, pongono dei limiti al potere discrezionale<br />
del datore di lavoro, reso particolarmente ampio dal disposto normativo, e, dall’altra parte,<br />
permettono di defi nire in linea generale come giusta causa di licenziamento quella causa<br />
che ha quale presupposto un inadempimento imputabile e colpevole del prestatore di lavoro<br />
e che incide negativamente <strong>sulla</strong> fi ducia del datore di lavoro sull’esattezza dei futuri<br />
adempimenti.<br />
4.2 Criteri giudiziali di accertamento della sussistenza della giusta<br />
causa<br />
Per stabilire se sussiste la giusta causa di licenziamento e se è stata rispettata la regola<br />
codicistica della proporzionalità della sanzione il giudice deve accertare in concreto se la<br />
specifi ca mancanza commessa dal dipendente, considerata e valutata non solo nel suo contenuto<br />
obiettivo ma anche nella sua portata soggettiva, specie con riferimento alle particolari<br />
circostanze e condizioni in cui è stata posta in essere, ai suoi modi, ai suoi effetti e all’intensità<br />
dell’elemento psicologico dell’agente, risulti obiettivamente e subiettivamente idonea a ledere<br />
in modo grave la fi ducia che il datore di lavoro ripone nel proprio dipendente e tale, quindi,<br />
da esigere la massima sanzione espulsiva senza che in tal caso possa rilevare l’assenza o la<br />
modesta entità di un danno patrimoniale a carico del datore di lavoro (Cass. 2.11.2011, n. 2692;<br />
Cass. 27.2.2008, n. 5116; Cass. 8.9.2006, n. 19270; Cass. 7.7.2006, n. 15491; Cass. 15.1.2003, n.<br />
313; Cass. 26.3.2003, n. 11516; Cass. 23.4.2002, n. 5943).<br />
In base all’orientamento giurisprudenziale sopra riportato, dunque, l’accertamento della<br />
effettiva sussistenza di una giusta causa da parte del giudice consiste nel valutare se, in concreto,<br />
la mancanza posta in essere dal prestatore di lavoro abbia, innanzitutto, leso o meno il<br />
vincolo fi duciario tra datore di lavoro e prestatore di lavoro; e, di conseguenza, se la sanzione<br />
comminata dal datore di lavoro al lavoratore sia proporzionata, o meno, al fatto da quest’ultimo<br />
commesso.<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
25
26 Capitolo 4 - La giusta causa di licenziamento<br />
In relazione alla lesione dell’elemento fi duciario – elemento che costituisce un presupposto<br />
necessario per la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato – «la condotta del lavoratore<br />
deve essere valutata nel suo contenuto obbiettivo, con specifi co riferimento alla natura<br />
e alla qualità del rapporto, al particolare vincolo di fi ducia che esso implica per la posizione<br />
rivestita nel suo ambito dal prestatore di lavoro, al grado di affi damento richiesto per le mansioni<br />
ricoperte, nonché nella sua portata soggettiva in relazione alle circostanze del suo verifi<br />
carsi, ai motivi che l’hanno determinato e alla intensità dell’elemento volitivo, che deve essere<br />
riferito anche all’ambito della relazione lavorativa e non solo ai profi li meramente interiori»<br />
(Cass. 12.4.2010, n. 8641).<br />
Per quanto attiene, invece, al vaglio di proporzionalità tra fatto addebitato e recesso «viene<br />
in considerazione ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere<br />
la fi ducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un<br />
pregiudizio per gli scopi aziendali, essendo determinante, ai fi ni del giudizio di proporzionalità,<br />
l’infl uenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore<br />
che, per le sue concrete modalità e per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di<br />
porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad<br />
attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni<br />
di buona fede e correttezza. Spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione<br />
espulsiva, non <strong>sulla</strong> base di una valutazione astratta del fatto addebitato, ma tenendo conto di<br />
ogni aspetto concreto della vicenda processuale che, alla luce di un apprezzamento unitario e<br />
sistematico, risulti sintomatico della sua gravità rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto<br />
di lavoro» (Cass. 13.2.2012, n. 2014; Cass. 26.7.2010, n. 17514). Il giudizio di proporzionalità<br />
(art. 2106 c.c.) tra il fatto addebitato e la sanzione infl itta è, dunque, rimesso al giudice e si<br />
sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento imputato al lavoratore in relazione<br />
al concreto rapporto.<br />
Tale inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale<br />
della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 c.c., sicché l’irrogazione della massima<br />
sanzione disciplinare risulta giustifi cata solamente in presenza di un notevole inadempimento<br />
degli obblighi contrattuali ovvero tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria<br />
del rapporto (Cass. 6.4.2012, n. 6498).<br />
In concreto, la mancanza del lavoratore potrà dare luogo a giusta causa di licenziamento<br />
quando essa – tenuto presente ed applicato il principio di proporzionalità tra il fatto addebitato e<br />
la sanzione infl itta, e non rientrando la fattispecie in una specifi ca previsione disciplinare – sia di<br />
tale gravità da negare l’elemento essenziale del rapporto di lavoro quale è quello della fi ducia.<br />
Quanto alle elencazioni delle condotte disciplinarmente rilevanti contenute in alcuni contratti<br />
<strong>collettivi</strong>, la giurisprudenza si costantemente orientata nel senso di attribuire a siffatte<br />
elencazioni valenza meramente esemplifi cativa e non tassativa: tali “tipizzazioni”, infatti, pur<br />
potendo essere utilizzate dal giudice quale parametro di riferimento ai fi ni dell’accertamento<br />
della lesione del vincolo fi duciario, non sono mai state ritenute «idonee da sole a fornire il parametro<br />
per verifi care la sussistenza o meno della concreta lesione di quel vincolo» (Cass.<br />
10.12.2002, n. 17562).<br />
A tale riguardo, tuttavia, occorre sottolineare come la legislazione giuslavoristica più recente<br />
abbia attribuito rilevanza sempre più preminente alle condotte tipizzate nella contrattazione<br />
collettiva (nonché nei codici disciplinari aziendali e nei contratti <strong>individuali</strong> di lavoro “certifi<br />
cati”) al fi ne della valutazione della sussistenza, o meno, di una giusta causa di<br />
licenziamento.<br />
In particolare, l’art. 30, co. 3, L. 4.11.2010, n. 183 prevede che «nel valutare le motivazioni poste<br />
a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa … presenti nei<br />
contratti <strong>collettivi</strong> di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi ovvero nei<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 4 - La giusta causa di licenziamento<br />
contratti <strong>individuali</strong> di lavoro ove stipulati con l’assistenza e la consulenza delle commissioni di<br />
certifi cazione di cui al titolo VIII del D.Lgs. 10.9.2003, n. 276, e successive modifi cazioni».<br />
Nello stesso senso, ma in maniera ancor più incisiva, la recentissima L. 28.6.2012, n. 92 ha<br />
attribuito valore vincolante alle tipizzazioni di giusta causa (e di “giustifi cato motivo soggettivo”,<br />
v. cap. V) contenute nei contratti <strong>collettivi</strong> e nei codici disciplinari aziendali: il co. 4<br />
dell’art. 18 S.L., come modifi cato dal co. 42 dell’art. 1, L. 28.6.2012, n. 92, prevede, infatti, che<br />
nelle ipotesi in cui «il fatto posto a base del recesso rientra tra le condotte punibili con una<br />
sanzione conservativa <strong>sulla</strong> base delle previsioni dei contratti <strong>collettivi</strong> ovvero dei codici disciplinari»<br />
aziendali, il giudice «annulla il licenziamento» ed applica il regime sanzionatorio previsto<br />
in ipotesi di licenziamento “disciplinare” illegittimo (vedi cap. 11).<br />
Sul punto, peraltro, deve essere sottolineato che la maggior parte dei contratti <strong>collettivi</strong><br />
attualmente vigenti non contiene alcuna puntuale elencazione delle condotte disciplinarmente<br />
rilevanti: è prevedibile, pertanto, che alla luce delle previsioni del nuovo articolo 18 S.L. la<br />
contrattazione collettiva tenderà ad individuare e defi nire siffatte condotte in maniera molto<br />
più precisa e rigorosa rispetto al passato.<br />
4.3 Pregiudizio economico subito dal datore di lavoro<br />
Ai fi ni della sussistenza di una giusta causa di licenziamento, la giurisprudenza ha stabilito<br />
che, attesa l’idoneità del comportamento del dipendente a produrre un pregiudizio potenziale<br />
per se stesso valutabile nell’ambito della natura fi duciaria del rapporto, la sussistenza e l’entità<br />
di un danno economico effettivo per il datore di lavoro ha un rilievo secondario ed accessorio<br />
rispetto alla valutazione complessiva delle circostanze delle quali si sostanzia l’azione<br />
commessa (Cass. 2.11.2011, n. 22692; Cass. 23.4.2008, n. 10541; Cass. 4.12.2002, n. 17208;<br />
Cass. 16.9.2002, n. 13536). Ciò in quanto, come già accennato, quello che in concreto rileva<br />
nella valutazione della sussistenza di una giusta causa - in uno con la lesione del vincolo fi duciario<br />
e la proporzionalità della sanzione rispetto alla mancanza posta in essere - è la ripercussione<br />
sul rapporto di lavoro di una condotta suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza<br />
dell’adempimento, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del lavoratore rispetto<br />
agli obblighi assunti.<br />
Si deve tuttavia segnalare l’esistenza di alcune decisioni in cui la Corte Suprema, anche<br />
recentemente, si è orientata nel senso di attribuire al danno economico un qualche rilievo. È<br />
stato infatti statuito che il giudice, per valutare la congruità di un licenziamento per giusta<br />
causa e quindi verifi care la effettiva compromissione del vincolo fi duciario, non possa prescindere<br />
dal considerare ogni elemento caratterizzante il fatto concreto, eventualmente tenendo<br />
conto anche dell’entità del pregiudizio patrimoniale che il prestatore di lavoro, con la sua condotta,<br />
possa aver arrecato al datore di lavoro (Cass. 29.8.2011, n. 17739; Cass. 18.2.2000,<br />
n. 1892; Cass. 11.2.2000, n. 1558).<br />
4.4 Valutazione dei comportamenti pregressi del lavoratore<br />
Con riferimento ai comportamenti del prestatore di lavoro anteriori a quello che ha dato<br />
origine alla contestazione, la giurisprudenza di legittimità è univocamente orientata nel senso<br />
di ritenere la rilevanza di tali comportamenti, e ciò anche qualora tali comportamenti non siano<br />
stati tempestivamente contestati ma costituiscano una conferma della signifi catività di altri<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
27
28 Capitolo 4 - La giusta causa di licenziamento<br />
addebiti ai fi ni della valutazione della complessiva gravità, anche sotto il profi lo psicologico,<br />
delle inadempienze del dipendente e della proporzionalità o meno del provvedimento sanzionatorio<br />
irrogato.<br />
Addirittura, è stato precisato che – sempre ai fini della valutazione della gravità della<br />
inadempienza posta in essere dal prestatore di lavoro – si può tenere conto dei precedenti<br />
disciplinari già sanzionati, anche se risalenti ad oltre due anni prima del licenziamento,<br />
non ostando a tale valutazione quanto previsto dall’art. 7, ultimo co., L. 300/1970 (Cass.<br />
24.2.2012, n. 2870; Cass. 21.5.2008, n. 12958; Cass. 20.7.1996, n. 6523; Cass. 19.11.1993,<br />
n. 11410).<br />
4.5 Tolleranza da parte del datore di lavoro di analoghi inadempimenti<br />
Ai fini della sussistenza di una giusta causa di licenziamento, la gravità dell’inadempimento<br />
e della condotta del lavoratore non può essere esclusa dal fatto che analoga condotta<br />
ed inadempimento, commesso da diverso dipendente, siano stati oggetto di diversa<br />
valutazione da parte del datore di lavoro, considerato il carattere autonomo di ciascuna<br />
inadempienza e l’impossibilità di giustificare l’una in dipendenza dell’altra (Cass. 9.9.1995,<br />
n. 9534).<br />
È stato altresì affermato che la tolleranza da parte del datore di lavoro di precedenti mancanze<br />
- dello stesso o di altro lavoratore - non implica acquiescenza preclusiva della possibilità di un<br />
licenziamento per un’eguale infrazione successiva, atteso anche il presumibile progressivo abbassamento<br />
del limite entro il quale il datore di lavoro può essere indotto a tollerare la ripetizione<br />
di condotte antigiuridiche dei propri dipendenti, le quali lo legittimerebbero a recedere dal<br />
contratto, e tenuto altresì conto che la mancata reazione alle prime infrazioni può essere giustifi<br />
cata, nel caso in cui l’azienda abbia una struttura organizzativa complessa, dalla diversità di<br />
competenze degli organi e uffi ci preposti all’accertamento e alla valutazione delle varie mancanze<br />
(Cass. 12.7.1999, n. 7351; Cass. 15 .1. 1997, n. 360; Cass. 11.2.1995, n. 1505).<br />
In ogni caso, la valutazione del giudice di merito volta a stabilire se una determinata<br />
infrazione del lavoratore prevista come giusta causa di recesso dalla contrattazione collettiva<br />
sia idonea, per la sua intrinseca gravità obiettiva, a costituire giusta causa di licenziamento<br />
ai sensi dell’art. 2119 c.c., è incensurabile in sede di legittimità se condotta alla<br />
stregua di una compiuta valutazione delle risultanze di fatto e sorretta da adeguata e logica<br />
motivazione.<br />
4.6 Valutazione di fattispecie qualifi cate dalla contrattazione<br />
collettiva come giusta causa di licenziamento<br />
Di norma i contratti <strong>collettivi</strong> riportano – a titolo esemplifi cativo – una elencazione di comportamenti<br />
che, qualora posti in essere dal prestatore di lavoro, possono costituire giusta causa<br />
di licenziamento. Le fattispecie contrattuali, in quanto meramente indicative, non sono tassative.<br />
Ciò comporta che, anche qualora un contratto collettivo preveda che una determinata<br />
condotta del prestatore di lavoro possa costituire una giusta causa di licenziamento, il giudice<br />
adíto in sede di impugnazione non è vincolato dalla previsione contrattuale ma deve valutare<br />
l’effettiva gravità del comportamento alla stregua dei parametri di cui all’art. 2119 c.c. e, dunque,<br />
alla luce di tutte le circostanze del caso concreto.<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 4 - La giusta causa di licenziamento<br />
4.7 Rilevanza dei comportamenti o delle situazioni soggettive<br />
estranee alla prestazione lavorativa<br />
In linea generale, i comportamenti del lavoratore estranei al rapporto di lavoro, perché<br />
attinenti alla sua vita privata, sono ritenuti irrilevanti ai fi ni della sussistenza di una giusta<br />
causa di licenziamento. Il principio ora menzionato trova, peraltro, non poche eccezioni nella<br />
casistica giurisprudenziale con riferimento a fattispecie nelle quali la condotta del prestatore<br />
di lavoro, pur essendo estranea al rapporto di lavoro e, di conseguenza, non inquadrabile quale<br />
inadempimento, sia egualmente idonea a produrre effetti rifl essi nell’ambito lavorativo facendo<br />
venire meno l’elemento della fi ducia. In particolare, rilevano quei comportamenti del<br />
prestatore di lavoro che sono idonei ad integrare un’ipotesi di reato. Si tratta di ipotesi differenti<br />
da quelle previste dai contratti <strong>collettivi</strong> e la cui valutazione e selezione deve essere eseguita<br />
a seconda che si verifi chino all’interno dell’azienda, ovvero al di fuori da essa.<br />
Con riferimento alla prima ipotesi, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, qualora<br />
il comportamento di un dipendente posto in essere all’interno dell’azienda integri un’ipotesi<br />
di reato, la valutazione della gravità di tale comportamento, ai fi ni della sussistenza di una giusta<br />
causa, ha carattere del tutto autonomo rispetto alla valutazione della gravità del reato. Ciò in quanto<br />
la valutazione della sussistenza, o meno, di una giusta causa deve essere operata dal giudice<br />
alla stregua della ratio dell’art. 2119 c.c. e dell’art. 1, l. 15.7.1966, n. 604, vale a dire tenendo conto<br />
dell’incidenza del fatto commesso sul particolare rapporto fi duciario che lega le parti nel rapporto,<br />
delle esigenze poste dall’organizzazione produttiva e delle fi nalità e regole di disciplina postulate<br />
da detta organizzazione, indipendentemente dalla presenza, o meno, di un danno patrimoniale, ed<br />
indipendentemente dal giudizio che del medesimo fatto dovesse darsi ai fi ni penali. In concreto,<br />
dunque, deve essere valutata la ripercussione sul rapporto di una condotta suscettibile di porre in<br />
dubbio la futura correttezza dell’adempimento in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del lavoratore<br />
rispetto agli obblighi assunti. In tal senso, si è più volte espressa la giurisprudenza di legittimità<br />
(Cass. 10.11.2011, n. 23422; Cass. 3.1.2011, n. 37; Cass. 3.10.2007, n. 20731; Cass. 17.4.2001,<br />
n. 5633 ; Cass. 5.8.2000, n. 10315; Cass. 8.2.2000, n. 1412).<br />
Questo principio, più volte ribadito, è stato ampliato con l’introduzione di un nuovo criterio<br />
di valutazione della sussistenza di giusta causa di licenziamento defi nito «disvalore ambientale».<br />
È stato infatti considerato che nella valutazione della gravità della condotta del lavoratore<br />
licenziato per giusta causa può assumere rilievo anche un altro elemento che è quello<br />
costituito dal disvalore ambientale della condotta stessa, anche per la specifi ca posizione professionale<br />
occupata dal dipendente e di responsabilità nel servizio svolto, in quanto modello<br />
diseducativo o comunque disincentivante nei confronti degli altri dipendenti della compagine<br />
aziendale, specialmente se a lui sottoposti (Cass. 18.1.2008, n. 1077; Cass. 23.10. 2006,<br />
n. 22708; Cass. 4.12.2002, n. 17208).<br />
4.8 Comportamenti estranei alla prestazione lavorativa<br />
L’analisi dei comportamenti o situazioni soggettive estranee alla prestazione lavorativa assume<br />
altresì particolare interesse con riferimento alle pronunzie giurisprudenziali attinenti la<br />
commissione di reati da parte del lavoratore al di fuori dell’azienda. Infatti, pur trattandosi, con<br />
tutta evidenza, di fattispecie che rientrano nel più ampio contesto dei comportamenti estranei<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
29
30 Capitolo 4 - La giusta causa di licenziamento<br />
alla prestazione lavorativa e come tali – secondo la regola generale sopra ricordata – irrilevanti<br />
ai fi ni della sussistenza di un giusta causa di licenziamento, in concreto possono produrre<br />
rifl essi nell’ambiente lavorativo e possono essere di gravità tale da far venire meno l’elemento<br />
della fi ducia, indipendentemente dalla sussistenza di un danno effettivo per il datore di lavoro<br />
ed all’attinenza della condotta con l’attività svolta.<br />
giusta causa di licenziamento<br />
- sussistenza<br />
giusta causa di licenziamento<br />
- esclusione<br />
In base al principio sopraenunciato, ad esempio, è stata ritenuta sussistente<br />
una giusta causa di licenziamento di un dipendente di un istituto<br />
di credito condannato per il reato di ricettazione (Cass. 13.4.2002, n.<br />
5332), atteso anche il particolare rigore con il quale deve essere valutata<br />
la lesione del rapporto fi duciario – particolarmente intenso nel settore<br />
del credito – ed indipendentemente dalla sussistenza di un danno<br />
effettivo per il datore di lavoro.<br />
Vero è che, per intuibili motivi, la valutazione della lesione della fi ducia<br />
sottesa ad un rapporto di lavoro nel settore del credito non può che essere<br />
particolarmente rigorosa anche con riferimento alla commissione di<br />
reati al di fuori dell’ambito lavorativo: ad esempio, è stata ritenuta sussistente<br />
una giusta causa di licenziamento nel caso in cui un dipendente di<br />
un istituto bancario, coinvolto in fatti di droga, sia stato incriminato per il<br />
delitto di spaccio di stupefacenti, risultando inoltre detentore di stupefacenti<br />
per uso personale. Infatti, una simile condotta non solo può recare<br />
discredito al datore di lavoro, ma anche compromettere l’ele-mento fi -<br />
duciario sotteso allo specifi co rapporto di lavoro, attesa la delicatezza e<br />
responsabilità delle mansioni esercitate (Cass. 17.6. 2002, n. 8716 ).<br />
Di contro, e sempre con particolare attenzione al vincolo di fi ducia che<br />
discende dalla delicatezza e responsabilità delle mansioni esercitate, valutato<br />
sia sotto il profi lo oggettivo che sotto il profi lo soggettivo, è stata<br />
esclusa la sussistenza di una giusta causa di licenziamento di due operai<br />
specializzati librari, dipendenti dell’Istituto Poligrafi co e Zecca dello Stato,<br />
coinvolti in un procedimento penale e condannati per il reato di esercizio<br />
abusivo di attività di gioco e scommessa. L’esclusione di una giusta causa è<br />
stata motivata sia sul piano normativo (poiché nel Regolamento del personale<br />
di detto Istituto non era ricompresa l’ipotesi di cessazione del rapporto<br />
di lavoro per la commissione di un reato quale quello di specie) sia sul<br />
piano oggettivo, attesa l’attività svolta dai dipendenti che non aveva caratteristiche<br />
tali da richiedere specifi catamente un ampio margine di fi ducia<br />
né in sé, né in ordine alla serietà dei comportamenti privati dei dipendenti,<br />
ed era, comunque, totalmente estranea rispetto a quelle «delicate» produzioni<br />
proprie dell’Istituto datore di lavoro (Cass. 10.12.2002, n. 17562)<br />
4.9 Rapporti tra procedimento civile e giudizio penale<br />
L’insegnamento costante della giurisprudenza della Corte Suprema è per l’assoluta autonomia<br />
fra la valutazione di un fatto in sede penale e la valutazione dello stesso fatto in sede di<br />
accertamento della sussistenza di una giusta causa di licenziamento. Questo principio è stato<br />
ancora di recente confermato: il giudice del lavoro adíto con impugnativa di licenziamento, ove<br />
pure comminato in base agli stessi comportamenti che furono oggetto di imputazione in sede<br />
penale, non è affatto obbligato a tenere conto dell’accertamento contenuto nel giudicato di<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 4 - La giusta causa di licenziamento<br />
assoluzione del lavoratore ma ha il potere di ricostruire autonomamente, con pienezza di cognizione,<br />
i fatti materiali e di pervenire a valutazioni e qualifi cazioni degli stessi del tutto svincolate<br />
dall’esito del procedimento penale.<br />
In ogni caso, poi, la valutazione della gravità del comportamento del lavoratore, ai fi ni della<br />
verifi ca della legittimità del licenziamento per giusta causa, deve essere da quel giudice operata<br />
alla stregua della ratio dell’art 2119 c.c. e della L. 15.7.1966, n. 604, e cioè tenendo conto dell’incidenza<br />
del fatto commesso sul particolare rapporto fi duciario che lega le parti nel rapporto di<br />
lavoro, delle esigenze poste dall’organizzazione produttiva e delle fi nalità delle regole di disciplina<br />
postulate da detta organizzazione, indipendentemente dal giudizio che del medesimo fatto<br />
dovesse darsi ai fi ni penali, sicché non incorre in vizio di contraddittorietà la sentenza che affermi<br />
la legittimità del recesso nonostante l’assoluzione del lavoratore in sede penale per le medesime<br />
vicende addotte dal suo datore di lavoro a giustifi cazione dell’immediata risoluzione del<br />
rapporto (nella specie, la sentenza di merito, confermata dalla Suprema Corte, in relazione al<br />
licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore che aveva prestato denaro dietro notevole<br />
interesse ad un collega di lavoro ed aveva proceduto poi a tutti i conseguenti atti di recupero<br />
crediti, aveva ritenuto la gravità del comportamento del dipendente, in quanto idoneo a turbare<br />
l’ordine della compagine aziendale, distolta dai suoi necessari moduli di solidarietà fra compagni<br />
di lavoro e di dedizione esclusiva all’attività di lavoro, ed aveva perciò reputato legittimo il recesso<br />
del datore di lavoro, indipendentemente dall’avvenuta assoluzione del lavoratore dal reato di<br />
usura; Cass. 5.8.2000, n. 10315). Tale principio è stato recentemente ribadito anche da Cass.<br />
4.4.2012, n. 5371; Cass. 25.1.2008, n. 1661 e Cass. 8.1.2008, n. 132.<br />
4.10 Carcerazione preventiva<br />
La valutazione della sussistenza, o meno, di una giusta causa di licenziamento del lavoratore<br />
sottoposto a carcerazione preventiva per aver commesso un reato deve essere compiuta<br />
distin-guendo, in linea generale, le fattispecie nelle quali la commissione del reato sia estranea<br />
allo svolgimento del rapporto di lavoro da quelle nelle quali il reato sia stato commesso<br />
ai danni del datore di lavoro.<br />
Nel primo caso, la giurisprudenza è costantemente orientata ad escludere che la carcerazione<br />
preventiva costituisca valida giustifi cazione di recesso sia per giusta causa che per giustifi cato<br />
motivo soggettivo, in quanto la carcerazione preventiva costituisce un fatto oggettivo che determina<br />
una sopravvenuta impossibilità temporanea della prestazione ai sensi dell’art. 1464 c.c., in relazione<br />
alla quale la persistenza, o meno, nel datore di lavoro dell’interesse a ricevere le ulteriori prestazioni<br />
del dipendente detenuto deve essere valutata con esclusivo riferimento alla previsione di<br />
cui all’art. 3, seconda parte, della L. 15.7.1966, n. 604, vale a dire a ragioni inerenti all’attività produttiva,<br />
all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, avuto riguardo alla capacità<br />
di fronteggiare l’assenza e, dunque, del suo interesse alla continuazione del rapporto.<br />
A tale proposito è opportuno ricordare che, ai sensi dell’art. 102-bis, att. c.p.p, qualora il<br />
prestatore di lavoro venga licenziato in quanto sottoposto a custodia cautelare per aver commesso<br />
un reato estraneo alla prestazione lavorativa, in caso di successiva sentenza di assoluzione,<br />
proscioglimento, non luogo a procedere o di provvedimento di archiviazione a favore<br />
dello stesso, avrà diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro ma non alle retribuzioni per il<br />
periodo intercorso tra il licenziamento e la reintegrazione.<br />
Tuttavia, recentemente, la giurisprudenza ha evidenziato che, in caso di sentenza di assoluzione,<br />
il giudice chiamato a decidere sull’impugnazione del licenziamento per fatti che furono<br />
oggetti dell’imputazione penale non è obbligato a tener conto dell’accertamento nel giudi-<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
31
32 Capitolo 4 - La giusta causa di licenziamento<br />
cato di assoluzione del lavoratore. Egli ha, infatti, il potere di ricostruire autonomamente e con<br />
pienezza di cognizione i fatti materiali e di pervenire a valutazioni degli stessi del tutto svincolate<br />
dall’esito del procedimento penale (Cass. 25.1.2008, n. 1661).<br />
4.11 Requisito della tempestività<br />
Logica conseguenza della defi nizione normativa di giusta causa è che il recesso del datore<br />
di lavoro dal rapporto di lavoro deve avvenire con immediatezza: tale elemento, pertanto, rileva<br />
quale elemento costitutivo del recesso in tronco e ne condiziona la validità e l’effi cacia.<br />
È necessario, tuttavia, precisare che il principio in esame deve essere inteso in senso relativo<br />
potendo risultare compatibile con un intervallo di tempo (più o meno lungo) reso necessario<br />
dall’accertamento dei fatti da contestare e dalla valutazione degli stessi.<br />
Vero è che quanto maggiore sarà il tempo intercorrente tra il fatto e l’addebito, tanto più<br />
rigorosa dovrà essere la prova, incombente sul datore di lavoro, tesa a vincere la presunzione<br />
di illiceità della contestazione non tempestiva. In particolare, il datore di lavoro deve fornire la<br />
prova del momento in cui ha avuto la piena conoscenza dei fatti da addebitare al lavoratore e<br />
non anche delle circostanze per cui non abbia potuto effettuare la contestazione a ridosso dei<br />
fatti stessi (Cass. 25.6. 2009, n. 14952).<br />
4.12 Problema della pendenza di procedimento penale<br />
Il principio della tempestività nel recesso per giusta causa ha posto non pochi e delicati<br />
problemi con riferimento alla valutazione di questo elemento costitutivo dell’istituto in esame<br />
nell’ipotesi di pendenza di un processo penale a carico del lavoratore, in relazione ai medesimi<br />
fatti posti alla base del recesso.<br />
Cass. 1.2.1995, n. 1170;<br />
Cass. 4.2.1992, n. 1165;<br />
Cass. 7.12.1985, n. 6167<br />
è legittimo il comportamento del datore di lavoro che si riservi di valutare<br />
le risultanze del procedimento penale promosso nei confronti del<br />
dipendente ai fi ni del recesso per giusta causa, ciò tanto più laddove i<br />
comportamenti ascritti siano estranei alla prestazione lavorativa.<br />
Cass. 1°.8.1984, n. 4578 è incompatibile la ritardata intimazione da parte del datore di lavoro<br />
del recesso per giusta causa con l’attesa dell’esito del giudizio penale,<br />
anche nell’ipotesi in cui il datore di lavoro si sia costituito parte civile<br />
nel processo penale, attesa la diversità, sul piano del contenuto e degli<br />
effetti, tra la vicenda penale e quella del rapporto di lavoro<br />
Cass. 26.3.2010, n. 7410 ai fi ni della valutazione circa la tempestività dell’esercizio del potere<br />
disciplinare «non può assumere autonomo ed autosuffi ciente rilievo la<br />
denunzia dei fatti in sede penale o la pendenza stessa del procedimento<br />
penale, considerata l’autonomia tra i due procedimenti, l’inapplicabilità,<br />
al procedimento disciplinare, del principio di non colpevolezza…<br />
la circostanza che l’eventuale accertamento dell’irrilevanza penale del<br />
fatto non determina di per sé l’assenza di analogo disvalore in sede<br />
disciplinare» (Cass. 26.3.2010, n. 7410).<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 4 - La giusta causa di licenziamento<br />
Una corretta soluzione del problema potrà essere data solo di volta in volta, valutata la<br />
fattispecie concreta in tutte le sue variegate implicazioni, non ultime le specifi che previsioni<br />
del contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro.<br />
4.13 Adozione della sospensione cautelare e suoi effetti<br />
Il principio della tempestività nel recesso per giusta causa deve essere valutato anche tenendo<br />
conto della eventuale adozione, da parte del datore di lavoro, del provvedimento di sospensione<br />
cautelare nei confronti del dipendente: provvedimento, questo, che permette al datore<br />
di lavoro di esonerare dalla prestazione lavorativa il dipendente coinvolto in relazione alla<br />
ipotizzata sussistenza di una giusta causa di recesso, pur dovendo ancora acquisire tutti gli<br />
elementi di valutazione utili per decidere l’adozione, o meno, del provvedimento espulsivo.<br />
Si ritiene, in linea generale, che l’adozione della sospensione cautelare, anche se non prevista<br />
da specifi ca disciplina legale o contrattuale, costituisca legittima espressione del potere<br />
organizzativo e direttivo del datore di lavoro per assicurare lo svolgimento ordinato ed effi ciente<br />
dell’attività aziendale, e non soggiaccia all’applicazione dell’art. 7 S.L.<br />
È stata sottolineata, inoltre, l’autonomia della sospensione cautelare rispetto al licenziamento<br />
per giusta causa, dovuta alla diversa natura e disciplina degli istituti in esame: autonomia<br />
che permane anche tenendo conto del collegamento funzionale fra i due istituti, atteso<br />
che il primo viene di norma adottato in via meramente cautelare in attesa del secondo.<br />
In relazione, poi, agli effetti della sospensione cautelare, in linea di principio l’adozione di<br />
questo provvedimento non priva il lavoratore del diritto alla retribuzione.<br />
4.14 Ammissibilità della conversione giudiziale del licenziamento per<br />
giusta causa in licenziamento per giustifi cato motivo soggettivo<br />
La giusta causa e il giustificato motivo soggettivo di licenziamento (oggetto di specifica<br />
trattazione nel capitolo seguente) sono qualificazioni giuridiche di comportamenti egualmente<br />
idonei a legittimare la cessazione del rapporto di lavoro, l’uno con effetto immediato<br />
e l’altro con preavviso, che si differenziano per la diversa gravità dell’inadempimento<br />
del lavoratore.<br />
Pertanto, nell’ipotesi di impugnazione di licenziamento intimato per giusta causa, qualora<br />
la condotta del lavoratore non integri una giusta causa, il provvedimento espulsivo può ben<br />
essere convertito in licenziamento per giustifi cato motivo soggettivo.<br />
Tale conversione può avvenire su istanza di parte o essere disposta d’uffi cio dal giudice,<br />
comportando in concreto il riconoscimento a favore del prestatore di lavoro dell’indennità sostitutiva<br />
del preavviso.<br />
Infatti, nel caso di conversione il giudice del merito è tenuto a condannare il datore di lavoro<br />
al pagamento della suddetta indennità, dovendosi ritenere che tale richiesta sia implicitamente<br />
contenuta nella domanda di risarcimento dei danni proposta dal lavoratore contestualmente<br />
all’impugnazione del licenziamento in tronco.<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
33
Capitolo 5<br />
IL GIUSTIFICATO MOTIVO SOGGETTIVO DI LICENZIAMENTO<br />
5.1 Nozione<br />
La nozione di giustifi cato motivo soggettivo di licenziamento è fornita dall’art. 3, L.<br />
15.7.1966, n. 604, ai sensi del quale esso consiste in un notevole inadempimento degli obblighi<br />
contrattuali del prestatore di lavoro<br />
5.2 Distinzione tra giusta causa e giustifi cato motivo soggettivo<br />
Secondo la prevalente dottrina la differenza tra giusta causa e giustifi cato motivo soggettivo<br />
di licenziamento non è qualitativa ma solo quantitativa, in relazione all’intensità e gravità<br />
del fatto commesso dal prestatore di lavoro. In altre parole, nel primo caso la maggiore gravità<br />
della mancanza commessa dal lavoratore giustifi ca il recesso in tronco dal rapporto di lavoro;<br />
nel secondo caso, la minore gravità dell’inadempimento obbliga il datore di lavoro a rispettare<br />
il periodo di preavviso.<br />
La giusta causa e il giustifi cato motivo soggettivo di licenziamento sono dunque due forme<br />
di inadempimento differenziate solo sul piano quantitativo, costituendo due species di un unico<br />
genus, essendo entrambe integrate dalla colpevole violazione da parte del lavoratore degli<br />
obblighi di diligenza, richiesti dalla natura delle prestazioni assegnategli, o di obbedienza alle<br />
disposizioni impartitegli dall’imprenditore e dai suoi ausiliari, o di fedeltà.<br />
5.3 Tipologie di recesso nella contrattazione collettiva<br />
Spesso i contratti <strong>collettivi</strong> tipizzano le ipotesi di giusta causa di licenziamento, più raramente<br />
ciò accade con riferimento alle fattispecie di giustifi cato motivo soggettivo di licenziamento.<br />
In ogni caso, il fatto che la disciplina collettiva preveda un comportamento come giusta<br />
causa di licenziamento non esime il giudice, investito della impugnativa della legittimità di tale<br />
recesso, dal dovere di valutare la gravità del comportamento stesso alla luce di tutte le circostanze<br />
del caso concreto, tra le quali assume rilievo non trascurabile l’elemento intenzionale<br />
che sorregge la condotta del lavoratore; e, d’altra parte, il giudice può considerare come giusta<br />
causa ex art. 2119 c.c., ovvero come giustifi cato motivo soggettivo ex art. 3, L. 604/1966,<br />
anche un fatto diverso da quelli espressamente contemplati nella tipizzazione contrattuale,<br />
conservando il disposto del contratto semplicemente una portata indicativa (Cass. 26.5.2000,<br />
n. 6900).<br />
Al riguardo, peraltro, si sottolinea che in virtù della L. 28.6.2012, n. 92, la tipizzazione contrattuale<br />
è assurta a criterio legale di valenza dirimente ai fi ni della valutazione della legittimità<br />
del licenziamento per motivi soggettivi: il co. 4 dell’art. 18 S.L., come novellato dal<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
35
36 Capitolo 5 - Il giustifi cato motivo soggettivo di licenziamento<br />
co. 42 dell’art. 1, L. 28.6.2012, n. 92, prevede, infatti, che laddove il giudice «accerta che non<br />
ricorrono gli estremi del giustifi cato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore<br />
di lavoro, per insussistenza del fatto posto a base del recesso ovvero perché il fatto rientra tra<br />
le condotte punibili con una sanzione conservativa <strong>sulla</strong> base delle previsioni dei contratti <strong>collettivi</strong><br />
ovvero dei codici disciplinari applicabili, annulla il licenziamento» e condanna il datore<br />
di lavoro secondo il regime sanzionatorio previsto in ipotesi di licenziamento “disciplinare” illegittimo<br />
(sul punto, si rinvia al cap. 11).<br />
5.4 Caratteristiche del giustifi cato motivo soggettivo di licenziamento<br />
Anche nell’ipotesi di giustifi cato motivo soggettivo di licenziamento il giudice di merito deve<br />
valutare se il comportamento del lavoratore sia idoneo a far venire meno l’elemento fi duciario,<br />
considerando gli aspetti concreti dei fatti addebitati al lavoratore.<br />
La valutazione relativa alla sussistenza del conseguente impedimento alla prosecuzione<br />
del rapporto deve essere operata con riferimento non già ai fatti astrattamente considerati,<br />
bensì agli aspetti concreti afferenti alla natura ed alla qualità del singolo rapporto, alla posizione<br />
delle parti, al grado di affi damento richiesto dalle specifi che mansioni del dipendente,<br />
nonché alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del suo verifi carsi, ai motivi<br />
ed alla intensità dell’elemento intenzionale e di quello colposo e ad ogni altro aspetto correlato<br />
alla specifi ca connotazione del rapporto che su di esso possa incidere negativamente<br />
(Cass. 27.1.2004, n. 1475).<br />
5.4 La fattispecie dello scarso rendimento<br />
Una delle fattispecie più comuni di giustifi cato motivo soggettivo di licenziamento è rappresentata<br />
dallo scarso rendimento del lavoratore, che non raggiunga in un prefi ssato periodo<br />
di tempo i minimi di produzione pattiziamente stabiliti (come accade ad esempio per i<br />
produttori di contratti assicurativi o di vendita che operano al di fuori dell’azienda) ovvero<br />
ottenuti dalla media dei dipendenti che disimpegnano le medesime mansioni (situazione tipica<br />
degli addetti alle lavorazioni in serie, nelle quali è possibile determinare con suffi ciente<br />
precisione i risultati conseguibili con un impegno medio). Nella prima ipotesi il risultato<br />
della prestazione costituisce un elemento essenziale del contratto e può avere un carattere<br />
tipicamente aleatorio; nella seconda, l’oggetto dell’obbligazione di lavoro è una mera prestazione<br />
di fare, non un determinato risultato, ma sono stabiliti dei parametri volti a verifi -<br />
care che la prestazione sia resa con la diligenza e la professionalità media richiesta dalle<br />
mansioni affi date.<br />
Naturalmente, lo scarso rendimento è confi gurabile anche nei rapporti di lavoro che non<br />
presentino le evidenziate caratteristiche allorché l’esecuzione della prestazione sia carente ed<br />
irregolare per effetto di un comportamento lavorativo negligente ed impreciso.<br />
A tale proposito, sebbene il rendimento del lavoratore subordinato costituisca un valore<br />
estremamente diffi cile da ricostruire, atteso che il facere tipico soddisfa un’obbligazione di<br />
mezzi (e non di risultato come nel contratto d’opera), la giurisprudenza ha evidenziato come<br />
l’irrilevanza del risultato della prestazione non escluda la necessità che la stessa sia utile per<br />
il datore di lavoro, ovvero idonea a soddisfarne l’interesse ad ottenerla.<br />
Lo scarso rendimento è qualifi cabile come adempimento parziale del lavoratore, e potrà<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 5 - Il giustifi cato motivo soggettivo di licenziamento<br />
riscontrarsi quando al facere del lavoratore non si accompagni la diligenza esigibile in virtù<br />
della particolare natura del rapporto, determinando l’assenza di utilità della prestazione.<br />
La Suprema Corte ha elaborato una serie di criteri volti a determinare l’idoneità del sottorendimento<br />
a costituire giustifi cato motivo soggettivo di licenziamento, cui attenersi in caso di<br />
contestazione della legittimità del recesso operato dal datore di lavoro:<br />
valutazione dell’elemento soggettivo del comportamento del lavoratore (doloso o colposo);<br />
– accertamento del nesso di causalità immediata tra la negligenza e l’adempimento scadente del<br />
dipendente: se ne esclude la responsabilità, infatti, solo nell’ipotesi in cui lo scarso rendimento<br />
non sia imputabile allo stesso;<br />
– verifi ca se il risultato disatteso dal dipendente rientri nelle possibilità medie dei suoi colleghi<br />
aventi la medesima qualifi ca ed addetti alle stesse mansioni, utilizzando come parametri per la<br />
determinazione del rendimento utile la quantità del lavoro svolto, la qualità dello stesso ed il<br />
tempo impiegato a tal fi ne;<br />
– accertamento che l’insuffi ciente rendimento sia «notevole» ex art. 3, L. 604/1966, e cioè che<br />
in concreto, tenuto conto del tipo di rapporto di lavoro e degli obblighi assunti dal lavoratore,<br />
il sottorendimento abbia rilevanza tale da frustrare fondatamente l’aspettativa del datore di<br />
lavoro che il dipendente renda nel futuro la prestazione dovuta (e, quindi, faccia apparire inutile<br />
l’irrogazione di sanzioni conservative e non lasci altra alternativa al datore di lavoro all’infuori<br />
del licenziamento). In relazione a tale caratteristica dell’inadempimento dell’obbligazione contrattuale,<br />
il CCNL Metalmeccanici Industria ha previsto la possibilità di ravvisare il “notevole”<br />
inadempimento nell’ipotesi di recidiva di comportamenti, sanzionati da minori provvedimenti<br />
conservativi, di per sé non idonei a costituire tale grave mancanza ma che complessivamente<br />
considerati si compongono in un unico comportamento confi gurabile come “illecito grave”, a cui<br />
è proporzionato e legittimo reagire con il recesso dal rapporto di lavoro, sorretto da giustifi cato<br />
motivo soggettivo;<br />
– accertamento dell’indebolimento della fi ducia che il datore di lavoro nutriva nei confronti del<br />
dipendente;<br />
– accertamento che lo scarso rendimento non sia dovuto a fattori socio-ambientali o all’organizzazione<br />
dell’impresa;<br />
– valutazione del comportamento complessivo del lavoratore e non solo apprezzamento di singoli<br />
episodi di rendimento inferiore.<br />
Appare opportuno ricordare come l’onere della prova della sussistenza del giustifi cato<br />
motivo di licenziamento spetti al datore di lavoro, ex art. 5, L. 604/1966. Viceversa, il lavoratore<br />
dovrà provare che l’inadempimento è stato determinato da causa a lui non imputabile ovvero<br />
che l’esatto adempimento è mancato nonostante il lavoratore abbia seguito le regole dell’ordinaria<br />
diligenza ed abbia fatto tutto il possibile per adempiere l’obbligazione dovuta.<br />
5.5 Clausole di “rendimento minimo”<br />
L’onere della prova posto in capo al datore di lavoro non viene meno nemmeno in presenza<br />
della clausole c.d. di rendimento minimo, con cui il dipendente si obbliga al raggiungimento di<br />
un determinato livello minimo di produzione. Tali clausole vengono utilizzate nei confronti di<br />
particolari tipologie di lavoratori che operano fuori dei locali dell’impresa e che sono dotati di<br />
autonomia operativa, come i produttori delle compagnie di assicurazione. La giurisprudenza<br />
ritiene valide tali clausole, ma non consente che le medesime trasformino l’obbligazione del<br />
prestatore di lavoro subordinato da obbligazione di mezzi in quella di risultato, con la conse-<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
37
38 Capitolo 5 - Il giustifi cato motivo soggettivo di licenziamento<br />
guenza che il mancato raggiungimento del risultato prefi ssato costituisce il mero indice dell’inesatta<br />
esecuzione e che per procedere al licenziamento del dipendente è necessario l’accertamento<br />
della sussistenza di altri elementi, anche in presenza di difformi previsioni del<br />
contratto individuale o collettivo.<br />
In particolare il giudice, anche in presenza delle clausole c.d. di rendimento minimo, deve<br />
verifi care se il livello pattuito fosse concretamente raggiungibile dalla media dei lavoratori<br />
addetti a quella determinata e specifi ca attività ed operanti nella stessa zona e se la carenza<br />
del rendimento rispetto al minimo pattuito fosse tale da costituire un inadempimento notevole<br />
per negligenza del lavoratore e non per diffi coltà ambientali.<br />
La giurisprudenza, pertanto, ritiene nulle le clausole c.d. di rendimento minimo che prevedono<br />
la risoluzione ipso iure del rapporto di lavoro in ipotesi di mancato raggiungimento del<br />
risultato prefi ssato per contrasto con norme imperative (art. 2119 c.c. ed art. 3, L. 604/1966),<br />
essendo imprescindibile la prova della negligenza o colpa del prestatore di lavoro.<br />
5.6 Assenze ingiustifi cate<br />
Riconducibili alla violazione della regola di diligenza, le assenze ingiustifi cate del prestatore<br />
di lavoro costituiscono una forma di inadempimento concernente l’obbligazione fondamentale<br />
posta a carico del dipendente, e cioè quella di prestare l’attività lavorativa.<br />
Di solito tale materia è regolata dalla contrattazione collettiva che fi ssa i limiti di tolleranza<br />
concernenti l’assenza ingiustifi cata, limiti che, una volta superati, autorizzano il datore di<br />
lavoro ad irrogare il licenziamento, il quale potrà essere, a seconda dei casi, per giusta causa<br />
o per giustifi cato motivo soggettivo.<br />
La giurisprudenza è costante nel ritenere legittima la regolamentazione della contrattazione<br />
collettiva, anche qualora fi ssi limiti di tolleranza ristretti. Inoltre, il fatto che un contratto<br />
collettivo non preveda la durata minima dell’assenza ingiustifi cata, oltre la quale il datore di<br />
lavoro ha facoltà a recedere dal rapporto, non preclude al giudice di merito di valutare la gravità<br />
dell’inadempienza del lavoratore (Cass. 14.5.2002, n. 6974).<br />
Per quanto riguarda la ripartizione dell’onere della prova, spetta al datore di lavoro provare<br />
il fatto oggettivo dell’assenza e al lavoratore dimostrare che l’assenza è giustifi cata perché<br />
imputabile a fatti cui la legge riconosce rilievi impeditivi della prestazione lavorativa.<br />
Altro profi lo sul quale la Suprema Corte è intervenuta è quello della comunicazione, da<br />
parte del prestatore di lavoro, del proprio recapito al fi ne di consentire al datore di lavoro l’eventuale<br />
controllo <strong>sulla</strong> veridicità delle ragioni poste a fondamento dell’assenza: l’art. 1334<br />
c.c. <strong>sulla</strong> effi cacia degli atti unilaterali è applicabile a tutte le dichiarazioni recettizie dirette ad<br />
una determinata persona e quindi anche alla comunicazione del lavoratore dipendente assente<br />
per malattia diretta a rendere noto al datore di lavoro il cambiamento del suo recapito, al<br />
fi ne di rendere possibili i controlli <strong>sulla</strong> giustifi catezza dell’assenza.<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 6<br />
IL LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO<br />
6.1 Nozione<br />
È il licenziamento fondato su ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del<br />
lavoro e al regolare funzionamento di essa che, a mente dell’art. 7, L. 18.12.1966, n. 604, come<br />
modifi cato dall’art. 1, co. 40, L. 28.6.2012, n. 92, deve ora essere preceduto - per le aziende<br />
che occupino alle proprie dipendenze più di quindici lavoratori - dalla procedura preventiva<br />
avanti la Direzione Territoriale del Lavoro meglio descritta al Capitolo 1.<br />
Tale tipo di recesso, previsto all’art. 3, seconda parte, della L. 18.12.1966, n. 604, che comporta<br />
l’obbligo del datore di lavoro al preavviso, è giustifi cato da ragioni che non si riferiscono<br />
ad inadempimenti del prestatore di lavoro ma a specifi che esigenze aziendali che impongono<br />
la soppressione del posto di lavoro, oppure a quei comportamenti o situazioni collegate al<br />
prestatore di lavoro ma non riconducibili alla sua sfera volitiva.<br />
Secondo una distinzione operata dalla dottrina e dalla giurisprudenza, la prima tipologia è<br />
riconducibile alla fattispecie dei <strong>licenziamenti</strong> per ragioni inerenti all’attività produttiva, mentre<br />
la seconda integra la fattispecie dei <strong>licenziamenti</strong> per ragioni inerenti al regolare funzionamento<br />
dell’organizzazione del lavoro.<br />
A tale proposito la Suprema Corte ha stabilito che rientrano nell’ambito del giustifi cato<br />
motivo oggettivo sia i <strong>licenziamenti</strong> intimati in relazione all’insorgenza di specifi che esigenze<br />
aziendali che impongono la soppressione del posto di lavoro, sia i <strong>licenziamenti</strong> che traggono<br />
origine da comportamenti o situazioni facenti capo al prestatore di lavoro, purché non costituiscano<br />
una forma di inadempimento (Cass. 11.8.1998, n. 7904).<br />
6.2 Licenziamenti per ragioni inerenti all’attività produttiva<br />
e all’organizzazione del lavoro<br />
6.2.1 Soppressione del posto di lavoro<br />
Le esigenze inerenti all’attività produttiva possono richiedere la soppressione di un determinato<br />
posto di lavoro in quanto divenuto superfl uo a seguito di nuove scelte produttive o di<br />
una nuova organizzazione del lavoro operata dall’imprenditore.<br />
Tali caratteristiche distinguevano originariamente il licenziamento per soppressione del posto<br />
ai sensi dell’art. 3 legge 604/1966 dalla fattispecie del licenziamento collettivo caratterizzato,<br />
invece, da un generico ridimensionamento dell’attività produttiva. Tuttavia, a seguito dell’entrata<br />
in vigore della disciplina in materia di licenziamento collettivo di cui alla L. 223/1991 tale<br />
distinzione è venuta meno, in quanto non sussiste più tra i due istituti una differenza ontologica<br />
e qualitativa. Entrambi i <strong>licenziamenti</strong> sono caratterizzati da motivi non inerenti alla persona del<br />
lavoratore ed ai fi ni della confi gurabilità dell’uno o dell’altro tipo di licenziamento occorre verifi -<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
39
40 Capitolo 6 - Il licenziamento per giustifi cato motivo oggettivo<br />
care la sussistenza dei requisiti numerico-temporali e dimensionali sanciti dalla citata<br />
L. 223/1991.<br />
Da ciò consegue che rientrano nell’ambito della disciplina del licenziamento per giustifi cato<br />
motivo oggettivo anche i <strong>licenziamenti</strong> plurimi (cioè non <strong>collettivi</strong> ai sensi di legge) per riassetto<br />
organizzativo o dovuti alla decisione dell’imprenditore di affi dare in esterno un segmento<br />
o una fase del proprio ciclo produttivo nonché i <strong>licenziamenti</strong> legati ad una<br />
semplifi cazione del lavoro attraverso l’impiego di macchine industriali od impianti robotizzati.<br />
6.2.2 Insindacabilità delle scelte imprenditoriali<br />
Le ragioni che inducono alla soppressione possono essere di carattere economico (cioè<br />
volte alla riduzione dei costi o all’incremento dei profi tti) oppure di carattere tecnico-produttivo<br />
(cioè fi nalizzate ad aumentare l’effi cienza del lavoro attraverso, ad esempio, l’introduzione<br />
di innovazioni produttive).<br />
Secondo la giurisprudenza le scelte aziendali devono ritenersi insindacabili nel merito in<br />
virtù dell’art. 41 Cost. che garantisce la libertà dell’iniziativa imprenditoriale, dovendo il controllo<br />
giurisdizionale limitarsi a verifi care l’effettività dell’esigenza aziendale addotta dal datore<br />
di lavoro (Cass. 16.2.2012, n. 2250; Cass. 24.5.2011, n. 11356; Cass. 18.3.2010, n. 6559; Cass.<br />
7.4.2010, n. 8237; Cass. 13.7.2009, n. 16323).<br />
In tale solco giurisprudenziale si è inserito il Legislatore, stabilendo all’art. 30, co. 1,<br />
L. 4.11.2010, n. 183, che «in tutti i casi nei quali le disposizioni di legge nelle materie di cui<br />
all’articolo 409 del codice di procedura civile e all’articolo 63, co. 1, del decreto legislativo<br />
30.3.2001, n. 165, contengano clausole generali, ivi comprese le norme in tema di … esercizio<br />
dei poteri datoriali … e recesso, il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità<br />
ai princìpi generali dell’ordinamento, all’accertamento del presupposto di legittimità e non<br />
può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive<br />
che competono al datore di lavoro o al committente».<br />
A tale riguardo, la recente L. 28.6.2012, n. 92, ha espressamente previsto che la violazione<br />
da parte dell’Autorità giudiziaria dei limiti al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche,<br />
organizzative e produttive che competono al datore di lavoro costituisce motivo di impugnazione<br />
per violazione di norme di diritto.<br />
Benché il principio della insindacabilità delle scelte imprenditoriali appaia ormai consolidato<br />
in giurisprudenza e ribadito dal legislatore con le recenti norme sopra menzionate, è<br />
controverso se la soppressione del posto di lavoro tesa ad una mera riduzione dei costi possa<br />
legittimare un licenziamento per giustifi cato motivo oggettivo:<br />
le ragioni inerenti all’attività produttiva possono essere le più varie e non<br />
possono considerarsi legittime solo quelle volte a fronteggiare situazioni<br />
sfavorevoli<br />
perché possa sussistere un giustifi cato motivo oggettivo di licenziamento<br />
causato da un riassetto organizzativo dell’azienda attuato al fi ne<br />
di una più economica gestione dell’impresa, detta decisione deve essere<br />
volta a fronteggiare situazioni sfavorevoli strutturali e non temporanee<br />
e non deve essere quindi pretestuosa o strumentale ad un mero<br />
aumento del profi tto<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
Cass. 22.2.2011, n. 4276<br />
Cass. 24.2.2012; n. 2874;<br />
Cass. 2.2.2012, n. 1461;<br />
Cass. 20.9.2010, n. 19842
Capitolo 6 - Il licenziamento per giustifi cato motivo oggettivo<br />
6.2.3 Mansioni precedentemente attribuite al lavoratore e soppressione<br />
del posto<br />
Ai fi ni della sussistenza del giustifi cato motivo oggettivo, nel caso di licenziamento causato<br />
dalla soppressione del posto di lavoro cui è addetto il singolo lavoratore non è necessario che vengano<br />
soppresse tutte le mansioni in precedenza attribuite al lavoratore medesimo, ben potendo<br />
tali mansioni essere diversamente ripartite (Cass. 2.10.2006, n. 21282; Cass. 22.8.2007, n. 17887).<br />
6.2.4 Cessazione dell’attività produttiva<br />
Rientra nell’ipotesi del giustifi cato motivo oggettivo il licenziamento individuale conseguente<br />
alla cessazione dell’attività produttiva, ipotesi peraltro espressamente prevista dall’art.<br />
24, c. 2, L. 223/1991 per il licenziamento collettivo.<br />
La scelta dell’imprenditore di cessare l’attività produttiva non è censurabile e l’imprenditore<br />
non è tenuto a giustifi care la decisione di non permanere ulteriormente nel mondo della<br />
produzione e dello scambio di beni e servizi: ne consegue che la cessazione dell’attività non<br />
deve necessariamente essere collegata ad una crisi aziendale.<br />
Coerentemente con l’impostazione sopra riportata, la giurisprudenza di legittimità ha affermato<br />
altresì che costituisce giustifi cato motivo oggettivo la decisione del datore di lavoro di<br />
cessare l’attività per il timore di dover affrontare eccessivi impegni economici in conseguenza<br />
delle rivendicazioni seppure legittime dei dipendenti.<br />
Peraltro, il datore di lavoro deve dimostrare l’avvenuta cessazione dell’attività produttiva, la quale<br />
non è esclusa dal fatto che lo stabilimento sede dell’impresa non sia stato immediatamente dismesso<br />
o alienato rimanendo nella disponibilità dell’imprenditore ma come entità non funzionante, né è<br />
esclusa dal fatto che uno o pochi dipendenti siano stati mantenuti in servizio al solo fi ne di compiere<br />
e completare le pratiche relative alla suddetta cessazione dell’attività (Cass. 16.7.1992, n. 8601).<br />
6.2.5 Matrimonio e maternità in caso di cessazione dell’attività<br />
La cessazione dell’attività lavorativa viene in rilievo in relazione ad alcune norme poste a<br />
tutela della donna lavoratrice. Infatti, ai sensi dell’art. 35, co. 5, del D.Lgs. 11.4.2006, n. 198, è<br />
nullo il licenziamento intimato per causa di matrimonio salvo il caso in cui il datore di lavoro<br />
dimostri che questo sia motivato dalla cessazione dell’attività dell’azienda alla quale la lavoratrice<br />
è addetta. Parimenti non è valido ai sensi dell’art. 54 del D.Lgs. 26.3.2001, n. 151, il licenziamento<br />
intimato dall’inizio del periodo di gestazione e fi no al termine del periodo di interdizione<br />
dal lavoro nonché fi no ad un anno di età del bambino, a meno che non ricorrano alcune<br />
ipotesi, fra le quali è appunto prevista la cessazione dell’attività.<br />
6.2.6 Onere probatorio<br />
In tema di licenziamento per giustifi cato motivo oggettivo, il datore di lavoro deve assolvere<br />
all’onere di provare:<br />
a. la sussistenza in concreto delle ragioni di carattere produttivo-organizzative addotte;<br />
b. l’incidenza causale di dette ragioni <strong>sulla</strong> posizione rivestita in azienda dal lavoratore licenziato;<br />
c. l’impossibilità di utilizzare il prestatore di lavoro licenziato in altre mansioni compatibili (c.d.<br />
obbligo di repechâge).<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
41
42 Capitolo 6 - Il licenziamento per giustifi cato motivo oggettivo<br />
Tuttavia, come detto, il controllo giudiziale deve fermarsi alla verifi ca del dato oggettivo e<br />
non può estendersi ad un sindacato sull’opportunità e congruità delle scelte imprenditoriali,<br />
rispetto al quale l’imprenditore gode della tutela di rango costituzionale prevista dall’art. 41<br />
Cost. che gli garantisce libertà di iniziativa economica.<br />
6.2.7 Sussistenza in concreto ed attuale<br />
È stato osservato dalla giurisprudenza che le ragioni poste alla base del licenziamento<br />
devono essere ricondotte ad elementi di fatto esistenti al momento della comunicazione del<br />
recesso, la cui motivazione deve trovare fondamento in circostanze realmente esistenti e non<br />
future ed eventuali. Inoltre, l’onere probatorio verte non solo sull’esistenza delle ragioni della<br />
soppressione ma anche sull’effettiva soppressione del posto di lavoro. Tale orientamento<br />
giurisprudenziale appare stabile: ogni qual volta, infatti, il lavoratore licenziato venga sostituito<br />
immediatamente o dopo qualche mese da altro dipendente neo-assunto, anche qualora il<br />
costo di quest’ultimo sia inferiore a quello del lavoratore licenziato, scatta una presunzione di<br />
illegittimità del licenziamento. A conferma di tale orientamento, si segnala che di recente la<br />
Suprema Corte ha ritenuto illegittimo il licenziamento, intimato ad un dipendente per ragioni<br />
economiche, preceduto dalla stipula di un contratto di collaborazione a progetto con altro soggetto,<br />
in vista della sostituzione del dipendente licenziato (Cass. 19.1.2012, n. 755); tuttavia,<br />
non mancano pronunce di merito che, facendo una moderna applicazione dell’istituto del giustifi<br />
cato motivo oggettivo di licenziamento, hanno ritenuto che in ipotesi di riassetto organizzativo<br />
per una più economica gestione dell’impresa è legittimo il licenziamento di un dipendente<br />
per sostituire lo stesso con altro lavoratore dotato di più specifi ca esperienza lavorativa<br />
e maggiore autonomia operativa, al fi ne di consentire all’azienda – operante nel caso di specie<br />
nel settore turistico – una migliore penetrazione nel mercato e, dunque, una più economica<br />
gestione dell’impresa (Corte d’Appello di Bologna, 3.12.2010).<br />
Ai fi ni della prova della effettiva soppressione del posto di lavoro non è necessario che il<br />
datore di lavoro dimostri che siano state soppresse tutte le mansioni attribuite al lavoratore<br />
licenziato. Il datore di lavoro è infatti libero di ridistribuire ed attribuire diversamente nell’ambito<br />
del proprio organico aziendale le mansioni in precedenza espletate dal lavoratore licenziato:<br />
tale scelta, a parere della giurisprudenza di legittimità, non è sindacabile dal giudice nei<br />
suoi profi li di congruità ed opportunità in quanto è espressione della libertà di iniziativa economica<br />
tutelata dall’art. 41 Cost. (Cass. 17.7.2002, n. 10356).<br />
6.2.8 Obbligo di repechâge<br />
Per quanto attiene alla prova circa l’impossibilità di utilizzare il lavoratore licenziato per<br />
giustifi cato motivo oggettivo in altra attività dell’impresa, c.d. obbligo di repechâge, la giurisprudenza<br />
sembra ormai costante circa il contenuto di detto obbligo.<br />
In virtù del principio che il licenziamento deve rappresentare l’extrema ratio, consegue per<br />
l’imprenditore l’obbligo primario di ricercare ogni possibilità di riutilizzazione dei dipendenti i cui<br />
posti di lavoro siano venuti meno, così che il datore di lavoro deve dare prova dell’impossibilità di<br />
adibire utilmente il lavoratore licenziato a mansioni analoghe a quelle svolte in precedenza.<br />
In altre parole il datore di lavoro deve fornire la prova che, nell’ambito della propria organizzazione<br />
aziendale, insindacabilmente determinata dal medesimo, non esiste alcuna possibilità<br />
di reimpiego per il dipendente licenziato. L’onere probatorio deve essere assolto nei limiti<br />
della ragionevolezza nonché nell’ambito delle contrapposte deduzioni delle parti, e deve<br />
essere contenuto a circostanze di fatto e di luogo concrete ed effettive proprie della singola<br />
vicenda esaminata.<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 6 - Il licenziamento per giustifi cato motivo oggettivo<br />
Tale onere, inoltre, può essere anche assolto mediante il ricorso a risultanze probatorie di<br />
natura presuntiva e indiziaria.<br />
Sempre sul medesimo argomento, la Corte di Cassazione afferma che tale onere, concernendo<br />
un fatto negativo, va assolto mediante la dimostrazione di correlativi fatti positivi, come<br />
la circostanza che i posti di lavoro relativi a mansioni equivalenti fossero, al tempo del recesso,<br />
stabilmente occupati, o che dopo il licenziamento – e per un congruo periodo – non sia stata<br />
effettuata alcuna assunzione nella stessa qualifi ca e per l’espletamento delle stesse mansioni<br />
(Cass. 13.7.2009, n. 16323; più di recente, Cass. 30.11.2010, n. 23926).<br />
Peraltro, sebbene spetti al datore di lavoro l’onere probatorio circa l’obbligo di repechâge,<br />
esiste comunque un preciso onere di deduzione ed allegazione del lavoratore che impugna il<br />
licenziamento circa la possibilità di una sua diversa utilizzazione nell’impresa con mansioni<br />
equivalenti, con la conseguenza che ove il lavoratore non prospetti nè indichi alcun elemento<br />
a tale riguardo nel ricorso introduttivo, non sorge neppure l’obbligo dell’imprenditore della<br />
prova dell’impossibilità di un diverso e conveniente utilizzo del dipendente licenziato (Cass.<br />
4.12.2007, n. 25270; Cass. 2.4.2004, n. 6556; da ultimo, Cass. 8.2.2011, n. 3040).<br />
Per quanto concerne l’individuazione delle mansioni analoghe al fi ne dell’assolvimento<br />
della prova in questione, occorre fare riferimento all’art. 2103 c.c. Il datore di lavoro dovrà dare<br />
prova dell’incollocabilità del lavoratore con riferimento alle mansioni da quest’ultimo espletate<br />
ed alle competenze acquisite in azienda o in altre affi ni senza essere tenuto ad individuare<br />
sue possibili utilizzazioni nell’ambito di competenze del tutto diverse, per il solo fatto, ad<br />
esempio, dell’avvenuto conseguimento di un titolo di studio genericamente riferibile a tali diverse<br />
competenze (Cass. 14.9.1995, n. 9715).<br />
Sotto altro profi lo la giurisprudenza maggioritaria ritiene che non sussiste alcun obbligo del<br />
datore di lavoro di verifi care, al fi ne di evitare il licenziamento, se vi siano possibilità di adibire il<br />
lavoratore a mansioni inferiori, anche se non mancano recenti e alquanto discutibili pronunce di<br />
segno opposto che, in ipotesi di soppressione del posto di lavoro, si sono spinte sino ad affermare<br />
che il datore di lavoro ha l’onere di provare non solo che al momento del licenziamento non<br />
sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa, ma anche di aver prospettato,<br />
senza ottenerne il consenso, la possibilità di un reimpiego del lavoratore in mansioni inferiori<br />
«rientranti nel suo bagaglio professionale», purchè tali mansioni siano compatibili con l’assetto<br />
organizzativo aziendale insindacabilmente stabilito dall’imprenditore (Cass. 1.7.2011, n. 14517).<br />
In una sentenza la Suprema Corte ha affermato, riallacciandosi ad una precedente pronuncia<br />
delle Sezioni unite (Cass., Sez. Un., 7.8.1998, n. 7755), che la dequalifi cazione del lavoratore<br />
allo scopo di evitare il licenziamento può essere ammessa solo se sia l’effetto di un accordo<br />
tra le parti con il quale - da un lato - il datore di lavoro dia atto, almeno implicitamente, che<br />
non vi sono ostacoli all’inserimento del dipendente demansionato nell’assetto aziendale e -<br />
dall’altro - il lavoratore accetti il suddetto demansionamento.<br />
Infatti il patto di demansionamento - che, ai soli fi ni di evitare un licenziamento, attribuisce<br />
al lavoratore mansioni inferiori a quelle per le quali era stato assunto o che aveva successivamente<br />
acquisito – costituisce non già una deroga all’art. 2103 c.c., norma diretta alla regolamentazione<br />
dello jus variandi del datore di lavoro e, come tale, inderogabile, bensì un adeguamento<br />
del contratto alla nuova situazione di fatto, sorretto dal consenso del lavoratore, che<br />
presuppone l’impossibilità di assegnare al lavoratore mansioni equivalenti a quelle da ultimo<br />
svolte e la manifestazione – sia pure in forma tacita – della disponibilità del lavoratore ad accettarle<br />
(Cass. 25.11.2010, n. 23926; Cass. 5.8.2000, n. 10339).<br />
La prova dell’impossibilità di adibire utilmente il lavoratore ad altre mansioni deve essere<br />
assolta con riferimento all’epoca del licenziamento e prendendo in considerazione l’intero<br />
complesso aziendale e non il solo reparto ove era addetto il lavoratore licenziato, salvo il caso<br />
di rifi uto del lavoratore medesimo a trasferirsi altrove.<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
43
44 Capitolo 6 - Il licenziamento per giustifi cato motivo oggettivo<br />
Una recente pronuncia si è spinta addirittura oltre, affermando che in materia di obbligo di<br />
repechage è illegittimo il licenziamento del lavoratore qualora il datore di lavoro non riesca a<br />
dimostrare di non poter ricollocare il lavoratore in altri rami dell’azienda valutando anche le<br />
sedi all’estero dell’azienda (Cass. 15.7.2010, n. 16579).<br />
Per le conseguenze derivanti dall’illegittimità del licenziamento per giustifi cato motivo oggettivo<br />
si veda il Capitolo 11.<br />
6.3 Licenziamenti per ragioni inerenti al regolare funzionamento<br />
dell’organizzazione del lavoro<br />
Vengono ricondotti in questa categoria i <strong>licenziamenti</strong> dovuti alla non proseguibilità del<br />
rapporto per il venire meno della capacità o della possibilità del lavoratore di espletare regolarmente<br />
la prestazione lavorativa per cause al medesimo non imputabili; si tratta di fattispecie<br />
valutate obiettivamente per i rifl essi che essi producono sull’organizzazione del lavoro, di<br />
entità tale da escludere un oggettivo interesse produttivo dell’impresa a mantenere in vita il<br />
rapporto di lavoro e ricevere le ulteriori possibili prestazioni.<br />
6.3.1 Malattia del lavoratore<br />
L’art. 2110 c.c. detta una disciplina speciale in materia di assenza dal lavoro per malattia. Il<br />
legislatore ha, infatti, stabilito che in occasione di eventi come la malattia, l’infortunio, la gravidanza<br />
ed il puerperio, che impediscono la regolare effettuazione della prestazione lavorativa, il<br />
rapporto di lavoro è sospeso ed il datore di lavoro non può recedere dal rapporto, anche se non<br />
ha più interesse alla prestazione ed anche se ricorrono le condizioni previste dalla legge per intimare<br />
un licenziamento per giustifi cato motivo oggettivo, fi no a quando l’assenza dal lavoro non<br />
si protragga oltre il termine stabilito dalla legge, dai contratti <strong>collettivi</strong>, dagli usi o secondo equità.<br />
Tuttavia una volta decorso tale termine, c.d. periodo di comporto, il datore di lavoro è libero di<br />
recedere dal rapporto a prescindere dall’esistenza o dimostrazione delle condizioni poste dalla<br />
legge in materia di licenziamento, dovendo il giudice del merito limitarsi ad accertare se la malattia,<br />
unica o discontinua, abbia superato o meno il termine prefi ssato.<br />
I contratti <strong>collettivi</strong> stabiliscono di norma la durata del periodo di comporto, il quale si distingue<br />
tra: comporto secco, quando il periodo di conservazione del posto di lavoro si riferisce<br />
ad un’unica ed ininterrotta malattia, e comporto per sommatoria, quando il periodo di comporto<br />
comprende una pluralità di episodi morbosi che si manifestino entro un determinato<br />
periodo di tempo. Talvolta, però, il contratto collettivo non contempla il periodo di comporto<br />
per sommatoria.<br />
Secondo la giurisprudenza di legittimità in caso di malattie cd. ad intermittenza, vale a dire<br />
quando si verifi ca l’alternanza tra periodi di prestazione lavorativa e periodi di assenza per<br />
malattia, senza però che ciascun singolo episodio morboso superi il previsto periodo di comporto<br />
secco, è compito del giudice determinare il comporto per sommatoria ricorrendo all’equità,<br />
come previsto dall’art. 2110, c. 2, c.c.<br />
Le assenze dovute ad infortunio sul lavoro e malattia professionale sono oggetto della medesima<br />
disciplina di cui all’art. 2110 c.c. anche per quanto attiene al potere demandato all’autonomia<br />
collettiva di determinare la durata del periodo di conservazione del posto di lavoro e<br />
di identifi care i criteri per il calcolo del comporto. Ne consegue che la contrattazione collettiva<br />
può disciplinare unitariamente o diversamente il periodo di comporto, a seconda che le assenze<br />
siano dovute a malattia professionale o ad infortunio sul lavoro oppure a malattia comune.<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 6 - Il licenziamento per giustifi cato motivo oggettivo<br />
6.3.1.1 Modalità di computo del periodo di comporto<br />
Per quanto attiene ai criteri di computo del periodo di comporto è stato precisato che<br />
per verificare il superamento dello stesso si applica la regola che un termine fissato a<br />
mesi deve essere computato secondo il calendario comune e non assumendo una durata<br />
convenzionale fissa di trenta giorni, salvo che non sussistano regole contrattuali di diverso<br />
contenuto.<br />
Quando invece il contratto collettivo fa riferimento all’anno di calendario si deve intendere<br />
il periodo compreso tra il 1.1.e il 31 dicembre, mentre il riferimento all’anno solare deve intendersi<br />
ad un periodo di 365 giorni computati dal primo giorno della malattia.<br />
La Corte di Cassazione ha, peraltro, affermato che nel caso di comporto per sommatoria<br />
si computano i giorni festivi o comunque non lavorativi, come ad esempio i giorni di<br />
sciopero, che cadano durante la malattia certificata, dovendosi presumere la continuità<br />
dell’episodio morboso, a meno che non venga fornita la prova contraria da parte del lavoratore,<br />
mentre non si computano i giorni non lavorativi che abbiano preceduto o seguito il<br />
periodo di assenza in quanto non ricompresi nei giorni di malattia indicati nella certificazione<br />
medica.<br />
Salva diversa previsione del contratto colletivo, il datore di lavoro, secondo la giurisprudenza,<br />
non è tenuto a comunicare al lavoratore che sta per scadere il periodo di comporto e parimenti<br />
non è tenuto a ricordare al medesimo che può fruire di un periodo di aspettativa al termine<br />
del comporto.<br />
6.3.1.2 Tempestività del recesso per superamento del periodo di comporto<br />
Un problema che è stato posto frequentemente all’esame della giurisprudenza attiene al<br />
tempo dell’esercizio del diritto di recesso e al rilievo dell’accettazione della ripresa dell’attività<br />
lavorativa da parte del datore di lavoro.<br />
È principio consolidato che nel caso in cui il recesso per superamento del periodo di comporto<br />
sia tempestivo, la prova della sussistenza del nesso di causalità sia in re ipsa. A tale<br />
proposito, la Cassazione ha precisato che non può negarsi al datore di lavoro un ragionevole<br />
spatium deliberandi perchè egli possa valutare convenientemente, nel suo complesso, la fattispecie,<br />
e ciò anche per accertare una possibile convenienza alla protrazione del rapporto<br />
nonostante le numerose assenze. Sul punto, peraltro, la Corte di Cassazione ha sostenuto che<br />
in ipotesi di licenziamento per superamento del periodo di comporto non opera il criterio della<br />
tempestività, mancando gli estremi dell’urgenza che si impongono nell’ipotesi di giusta causa<br />
(Cass. 23.1.2008, n. 1438). Spetterà, dunque, al giudice del merito stabilire se il ritardo, per<br />
la sua durata e per la sua modalità, risulti o meno idoneo a concretizzare una rinunzia al diritto<br />
di licenziamento, circostanza che va valutata caso per caso con riferimento all’intero contesto<br />
delle circostanze signifi cative.<br />
In tema di rapporti tra rinuncia ad avvalersi del comporto e accettazione della ripresa lavorativa<br />
si segnala una sentenza della Corte di Cassazione che ha chiarito che nel caso di avvenuto<br />
superamento del periodo di comporto, l’accettazione da parte del datore di lavoro della<br />
ripresa dell’attività lavorativa del dipendente non signifi ca di per sè che il datore di lavoro abbia<br />
rinunciato al diritto di recedere dal rapporto ai sensi dell’art. 2110 c.c. e, quindi, non resta<br />
precluso l’esercizio del diritto, ferma restando però la necessità che sia provata l’esistenza di<br />
un nesso di causalità tra l’intimazione del licenziamento ed il superamento del periodo di<br />
comporto. La prova della sussistenza di detto nesso di causalità è in re ipsa nel caso di licenziamento<br />
intimato non appena superato il comporto, mentre deve essere fornita dal datore di<br />
lavoro nel caso di licenziamento intimato dopo un apprezzabile intervallo di tempo dal superamento<br />
di comporto (Cass. 7.9.2001, n. 11515).<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
45
46 Capitolo 6 - Il licenziamento per giustifi cato motivo oggettivo<br />
6.3.1.3 Motivazione del recesso per superamento del periodo di comporto<br />
Una questione abbastanza dibattuta in giurisprudenza attiene alla necessaria indicazione<br />
da parte del datore di lavoro dei giorni di assenza in caso di licenziamento intimato per superamento<br />
del periodo di comporto. La Cassazione da ultimo ha affermato che anche in questo<br />
tipo di licenziamento, in base alle regole dettate dall’art. 2 della legge 604/1966, nel testo anteriore<br />
alla riforma attuata con la L. 28.6.2012, n. 92, <strong>sulla</strong> forma dell’atto e la comunicazione<br />
dei motivi del recesso, qualora l’atto di intimazione del licenziamento non precisi le assenze in<br />
base alle quali sia ritenuto superato il periodo di conservazione del posto di lavoro, il lavoratore<br />
- il quale, particolarmente nel caso di comporto per sommatoria, ha l’esigenza di poter<br />
opporre propri specifi ci rilievi - ha la facoltà di chiedere al datore di lavoro di specifi care tale<br />
aspetto fattuale delle ragioni del licenziamento. Di conseguenza, nel caso di non ottemperanza<br />
del datore di lavoro con le modalità di legge a tale richiesta, il licenziamento deve considerarsi<br />
illegittimo. Con la recente L. 28.6.2012, n. 92 che, modifi cando l’art. 2, co. 2, L. 604/1966,<br />
all’art. 1, co. 37, ha espressamente previsto che la lettera di licenziamento debba contenere<br />
la specifi cazione dei motivi che lo hanno determinato, non pare vi possano essere ulteriori<br />
dubbi circa la necessaria indicazione dei giorni di assenza del lavoratore.<br />
6.3.1.4 Assenze per malattia cagionata dalla nocività dell’ambiente di lavoro<br />
Tuttavia, se il datore di lavoro è responsabile dell’inabilità lavorativa del proprio dipendente,<br />
in quanto ha omesso di adottare le misure atte a prevenire la malattia violando, quindi,<br />
l’obbligo di protezione sancito dal combinato disposto degli artt. 1176 e 2087 c.c., non potrà<br />
legittimamente risolvere il rapporto di lavoro per superamento del periodo di comporto. Infatti,<br />
il periodo di assenza per malattia imputabile al datore di lavoro non è utile ai fi ni del calcolo<br />
del periodo di comporto per malattia.<br />
Ne consegue che quando la malattia o l’infortunio del lavoratore sono imputabili alla responsabilità<br />
del datore di lavoro, il medesimo non potrà recedere per superamento del periodo<br />
di comporto ma soltanto per sopravvenuta impossibilità della prestazione, con obbligo per<br />
il datore di lavoro di reperire altre mansioni più adatte allo stato di salute del dipendente.<br />
6.3.1.5 Licenziamento durante la malattia<br />
Il licenziamento con preavviso intimato durante la malattia rimane temporaneamente ineffi<br />
cace nei confronti del lavoratore al quale spetta la retribuzione sino alla scadenza della causa<br />
ostativa e quindi sino all’effettiva ripresa dell’attività lavorativa.<br />
Si precisa, tuttavia, che tale principio non si applica al licenziamento intimato per superamento<br />
del periodo di comporto. Infatti, già prima della L. 28.6.2012, n. 92, sia la giurisprudenza<br />
di legittimità che quella di merito ritenevano che il licenziamento intimato durante la malattia<br />
per superamento del periodo di comporto, anteriormente alla scadenza di questo, fosse<br />
nullo per violazione della norma imperativa di cui all’art. 2110 c.c., che vieta il licenziamento<br />
stesso in costanza della malattia del lavoratore, e non già temporaneamente ineffi cace, con<br />
differimento dei relativi effetti al momento della scadenza suddetta come, invece, aveva originariamente<br />
sostenuto la Corte stessa. Il superamento del comporto costituisce, infatti, ai sensi<br />
del citato art. 2110 c.c. una situazione autonomamente giustifi catrice del recesso, che deve<br />
perciò esistere già anteriormente alla comunicazione dello stesso per legittimare il datore di<br />
lavoro al compimento di quest’atto ove di esso costituisca il solo motivo. Con la L. 28.6.2012,<br />
n. 92, il Legislatore ha espressamente previsto che nel caso in cui sia accertato il difetto di<br />
giustifi cazione del licenziamento intimato «in violazione dell’art. 2110, secondo comma, del<br />
codice civile (il licenziamento intimato prima del superamento del periodo di comporto, ndr)»<br />
il Giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione ed al pa-<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 6 - Il licenziamento per giustifi cato motivo oggettivo<br />
gamento dell’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal<br />
giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione, comunque non superiore a dodici<br />
mensilità, con ciò recuperando l’indirizzo giurisprudenziale sopra citato (cfr. più approfonditamente,<br />
Capitolo 11).<br />
Discorso diverso merita la questione della malattia del dipendente insorta successivamente<br />
all’avvio della procedura di cui al nuovo art. 7, legge 604/1966, come modifi cato dall’art. 1,<br />
co. 40, L. 28.6.2012, n. 92: in tal caso, infatti, il licenziamento intimato all’esito di tale procedura<br />
produce effetto retroattivo sin dal giorno della comunicazione di avvio: l’effetto sospensivo<br />
dell’effi cacia del licenziamento è limitato alle sole ipotesi di maternità, paternità e infortunio<br />
occorso sul lavoro, con esclusione dell’evento della malattia.<br />
Inoltre, il periodo di eventuale lavoro svolto in costanza della procedura preventiva viene considerato<br />
come preavviso lavorato secondo quanto stabilito dall’art. 1, co. 41, L. 28.6.2012, n. 92.<br />
6.3.1.6 Sopravvenuta inidoneità fi sica o psichica del lavoratore<br />
Appartiene alla categoria del giustifi cato motivo oggettivo inerente al regolare funzionamento<br />
dell’impresa la sopravvenuta inidoneità fi sica permanente del lavoratore a svolgere<br />
regolarmente le mansioni assegnategli.<br />
Qualora vi sia una sopravvenuta impossibilità alla prestazione lavorativa che non abbia<br />
carattere temporaneo, come nella malattia, ma permanente o quanto meno la cui durata<br />
temporale sia in-determinata o indeterminabile, il datore di lavoro, alla stregua della generale<br />
disciplina codicistica stabilita dagli artt. 1463 e 1464 c.c. sull’impossibilità della prestazione,<br />
può recedere dal rapporto qualora tale inidoneità determini una mancanza di interesse<br />
dell’impresa alla prosecuzione del rapporto. Tale inidoneità a svolgere regolarmente la prestazione<br />
lavorativa permette, quindi, al datore di lavoro di risolvere il contratto qualora non<br />
abbia un interesse apprezzabile a ricevere un adempimento parziale, interesse valutato in<br />
base ai criteri forniti dall’art. 3, seconda parte, L. 604/1966.<br />
Valga ricordare che la disciplina sanzionatoria prevista dal nuovo art. 18, co. 4, come modifi<br />
cato dall’art. 1, co. 42, L. 28.6.2012, n. 92 - ovvero reintegrazione e risarcimento del danno<br />
nel massimo pari a 12 mensilità della retribuzione globale di fatto - trova applicazione, oltre<br />
che alla già menzionata ipotesi di difetto di giustifi cazione del licenziamento intimato in violazione<br />
dell’art. 2110, secondo comma c.c., di cui al paragrafo che precede, anche a tutti i casi di<br />
sopravvenuta inidoneità fi sica o psichica del lavoratore, sia esso divenuto inabile a causa di<br />
infortunio o malattia (art. 4, comma 4, legge 68/1999), sia che si tratti di lavoratore avviato<br />
obbligatoriamente (art. 10, comma 3, legge 68/1999. Sul punto, si rinvia al Capitoli 11 e 13.<br />
6.3.1.7 Differenze tra l’istituto della malattia e quello dell’inidoneità fi sica o psichica<br />
Una questione più volte esaminata dalla giurisprudenza attiene al rapporto tra l’istituto<br />
della malattia e quello dell’inidoneità fi sica. La distinzione tra le due fattispecie è abbastanza<br />
netta: la malattia ha carattere temporaneo e comporta l’impossibilità totale della prestazione<br />
per tutta la sua durata, mentre l’inidoneità ha carattere permanente o, quanto meno, una durata<br />
indeterminata o indeterminabile e non comporta necessariamente l’impossibilità totale<br />
della prestazione, consentendo la risoluzione del rapporto indipendentemente dal superamento<br />
del periodo di comporto.<br />
Sulla base di tale distinzione la Cassazione ha affermato che, anche prima del superamento<br />
del periodo di comporto, il datore di lavoro può recedere dal rapporto ove la malattia determini<br />
l’inidoneità del lavoratore a prestare per il futuro la normale attività lavorativa in quanto<br />
la disciplina dettata dall’art. 2110 c.c. presuppone la diversa ipotesi dell’impedimento temporaneo,<br />
tale da consentire, una volta cessata la causa ostativa, la ripresa del lavoro. In una<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
47
48 Capitolo 6 - Il licenziamento per giustifi cato motivo oggettivo<br />
particolare ipotesi, la Cassazione ha altresì precisato che ove le reiterate assenze per malattia<br />
siano riconducibili ad un’unica affezione che trovi la sua causa nelle particolari modalità di<br />
esecuzione della prestazione lavorativa, con ciò dando luogo ad un’idoneità permanente del<br />
lavoratore stesso a svolgere regolarmente le mansioni assegnategli, il datore di lavoro che sia<br />
edotto di ciò deve risolvere il rapporto di lavoro (in ossequio al diritto alla salute tutelato<br />
dall’art. 32 Cost.) senza necessità di attendere il superamento del periodo di comporto (Cass.<br />
13.12.2000, n. 15688).<br />
6.3.2 Impossibilità della prestazione lavorativa derivante<br />
da un provvedimento dell’autorità<br />
L’impossibilità temporanea o parziale della prestazione potrebbe, altresì, derivare da provvedimenti<br />
dell’autorità pubblica che di fatto impediscano al lavoratore di offrire la propria prestazione<br />
lavorativa. Tale ipotesi di licenziamento per giustifi cato motivo oggettivo, avvicinabile<br />
alle precedenti dal punto di vista della incolpevolezza del prestatore di lavoro, sono la carcerazione<br />
preventiva e la revoca di autorizzazioni amministrative. Tali circostanze, valutate<br />
obiettivamente, determinano secondo i princìpi generali in materia di obbligazioni contrattuali<br />
una impossibilità sopravvenuta, temporanea e/o parziale, della prestazione lavorativa, in<br />
relazione alla quale la persistenza dell’interesse del datore di lavoro a ricevere ulteriori o future<br />
prestazioni va valutata alla stregua delle ragioni attinenti all’attività produttiva, all’organizzazione<br />
del lavoro e al regolare funzionamento di essa di cui all’art. 3, seconda parte,<br />
L. 604/1966.<br />
6.3.3 Provvedimenti giudiziari restrittivi della libertà personale del lavoratore<br />
Se può dirsi ovvio che nell’ipotesi di una condanna del lavoratore a pena detentiva quale<br />
l’ergastolo il datore di lavoro possa recedere dal rapporto per impossibilità totale della prestazione,<br />
più problematica è invece l’ipotesi del licenziamento per giustifi cato motivo oggettivo a<br />
seguito di un’impossibilità temporanea della prestazione, come nel caso della carcerazione<br />
preventiva. L’orientamento della giurisprudenza è ormai consolidato, nel senso di ritenere<br />
possibile il recesso del datore di lavoro ove manchi un apprezzabile interesse alle future prestazione<br />
lavorativa. La valutazione dell’imprenditore dovrà essere effettuata <strong>sulla</strong> base delle<br />
esigenze dell’impresa, attraverso un giudizio prognostico cioè con riguardo non solo al periodo<br />
intercorso dall’inizio della carcerazione alla data del licenziamento ma anche all’ulteriore durata<br />
della forzata assenza.<br />
6.3.4 Diritto del lavoratore alla reintegrazione in caso di assoluzione<br />
L’art. 102-bis, disp. att. c.p.p., prevede il diritto alla reintegrazione a favore del prestatore di<br />
lavoro che, sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere ovvero agli arresti domiciliari,<br />
sia stato per ciò stesso licenziato dal posto di lavoro che occupava prima dell’applicazione<br />
della misura, laddove venga pronunciata in suo favore sentenza di assoluzione, di proscioglimento<br />
o di non luogo a procedere, o provvedimento di archiviazione. Si precisa che la<br />
norma si applica esclusivamente al caso in cui il fatto per cui la custodia cautelare è stata disposta<br />
sia totalmente estraneo al rapporto di lavoro. La Cassazione è unanime nel ritenere<br />
che detta norma non abbia inciso <strong>sulla</strong> disciplina della legittimità del licenziamento ma soltanto<br />
sulle sue conseguenze, tant’è che viene riconosciuto al lavoratore esclusivamente il diritto<br />
alla reintegrazione, mentre il medesimo non potrà pretendere il risarcimento del danno<br />
ex art. 18 S.L.<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 6 - Il licenziamento per giustifi cato motivo oggettivo<br />
6.3.5 Ritiro del porto d’armi o mancato rinnovo del decreto di nomina<br />
Anche tali ipotesi rientrano nella categoria del licenziamento per giustifi cato motivo oggettivo.<br />
La Suprema Corte ha ritenuto che la revoca della nomina a guardia giurata e/o il ritiro del<br />
porto d’armi da parte dell’autorità pubblica legittimino il datore di lavoro a recedere dal rapporto<br />
per sopravvenuta impossibilità della prestazione. Tali provvedimenti della pubblica autorità,<br />
infatti, privano il lavoratore del titolo che lo abilita a svolgere le mansioni proprie di<br />
guardia giurata e, pertanto, giustifi cano il recesso del datore di lavoro qualora quest’ultimo<br />
non abbia un apprezzabile interesse alla prosecuzione del rapporto, interesse valutato alla<br />
stregua delle ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare<br />
funzionamento di essa.<br />
6.3.6 Ritiro del tesserino di accesso alle strutture aeroportuali<br />
Con riferimento a questa particolare fattispecie è stato affermato che, nell’ambito dei rapporti<br />
di lavoro con le società di gestione degli impianti aeroportuali, il datore di lavoro può legittimamente<br />
recedere dal rapporto nel caso di revoca del tesserino di accesso alle zone aeroportuali<br />
da parte della Guardia di fi nanza. Il dipendente di società di gestione aeroportuale privato del<br />
tesserino, infatti, non può svolgere le mansioni affi date in quanto non può più accedere alle<br />
strutture aeroportuali. Ne consegue la sopravvenuta impossibilità temporanea della prestazione<br />
che abilita il datore di lavoro a recedere dal rapporto ai sensi dell’art. 1464 c.c. in mancanza di un<br />
suo interesse apprezzabile alle future prestazione valutate con riguardo alle ragioni inerenti<br />
l’attività produttiva e la sua organizzazione. In tale ipotesi il datore di lavoro dovrà dimostrare le<br />
ragioni tecnico-produttive che rendevano impossibile attendere la rimozione del temporaneo<br />
impedimento alle normali funzioni del lavoratore, sia delle analoghe ragioni ostative ad un impiego<br />
del medesimo, con mansioni almeno equivalenti, in luoghi diversi; tali ragioni devono essere<br />
inoltre valutate dal giudice del merito tenendo conto delle oggettive esigenze dell’impresa,<br />
delle dimensioni della stessa, del tipo di organizzazione tecnico-produttiva ivi attuato, del periodo<br />
di assenza, della ragionevolmente prevedibile, secondo un giudizio ex ante, protrazione della<br />
stessa e della natura delle mansioni espletate dal lavoratore.<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
49
7.1 Fonte giuridica e funzione<br />
Capitolo 7<br />
IL PREAVVISO<br />
L’art. 2118 c.c. prevede che ciascuno dei contraenti possa recedere dal contratto di lavoro a<br />
tempo indeterminato con l’obbligo di concedere alla controparte un termine di preavviso. In<br />
mancanza di ciò, la parte recedente deve corrispondere alla controparte un’indennità equivalente<br />
all’importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso stesso (cd. indennità<br />
sostitutiva del preavviso). Tale indennità ha natura risarcitoria e non retributiva, sebbene<br />
sia commisurata all’importo della retribuzione che sarebbe spettata al lavoratore nel periodo<br />
suddetto. E ciò in quanto, per usare le parole della Suprema Corte, la stessa è una semplice<br />
forma di risarcimento di danni preventivamente liquidati dalla legge ed è dovuta o dal datore di<br />
lavoro o dal lavoratore inadempiente in quanto il recesso senza preavviso è illecito (Cass.<br />
28.5.1992, n. 6406), mentre la retribuzione è un’attribuzione patrimoniale proporzionata alla<br />
quantità e qualità del lavoro prestato (art. 36 Cost.). Ciò nonostante l’indennità sostitutiva del<br />
preavviso, rientrando nella base imponibile contributiva, è soggetta all’ordinario regime contributivo<br />
ed è computabile nel trattamento di fi ne rapporto. L’obbligo del preavviso sussiste in tutte<br />
le ipotesi di recesso dal rapporto di lavoro, qualunque sia il regime di stabilità del rapporto stesso<br />
(tutela reale; tutela obbligatoria; libera recedibilità) ed anche qualora si tratti di un licenziamento<br />
intimato dal curatore fallimentare per cessazione dell’attività lavorativa.<br />
La funzione del preavviso viene individuata dalla dottrina nella necessità di evitare un eccessivo<br />
turbamento nella sfera economica dell’altro contraente, dandogli tempo adeguato per<br />
provvedere diversamente. A tale proposito la giurisprudenza ha sottolineato come l’obbligo del<br />
preavviso a carico del datore di lavoro recedente dal contratto di lavoro a tempo indeterminato<br />
sia previsto in funzione della necessità per il lavoratore di ricerca e reperimento di una nuova<br />
occupazione (Cass. 7.2.1997, n. 1150).<br />
7.2 Effi cacia reale od obbligatoria del preavviso<br />
Fino a pochi anni fa l’opinione dominante in dottrina e pressoché pacifi ca in giurisprudenza<br />
riteneva che il preavviso avesse effi cacia reale, ossia che il rapporto di lavoro (con le connesse<br />
obbligazioni) proseguisse a tutti gli effetti per l’intera durata del preavviso, salva l’ipotesi di<br />
accettazione della corresponsione dell’indennità sostitutiva. In particolare, secondo tale orientamento,<br />
il rapporto di lavoro continuava ad essere retto dalla medesima disciplina che lo regolava<br />
prima del recesso, con conseguente piena applicabilità delle norme di legge e di contratto<br />
collettivo sopravvenute nel periodo di preavviso ed interruzione di quest’ultimo in caso di<br />
malattia sopravvenuta.<br />
La portata dell’effi cacia reale del preavviso era comunque mitigata dal fatto che:<br />
- è stata ritenuta valida la clausola di un contratto collettivo che prevedeva la facoltà per il<br />
datore di lavoro di procedere al recesso senza preavviso, ma pagando la relativa indennità;<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
51
52 Capitolo 7 - Il preavviso<br />
- essa è derogabile per accordo delle parti quando queste, prima della scadenza del periodo di<br />
preavviso, pattuiscano l’esonero immediato dagli obblighi relativi alle reciproche prestazioni.<br />
L’accertamento in ordine alla esistenza di tale accordo - che è desumibile anche da comportamenti<br />
taciti e concludenti, come quello dell’accettazione senza riserve da parte del lavoratore<br />
della preventiva liquidazione e corresponsione della indennità sostitutiva del preavviso<br />
- forma oggetto di un giudizio di fatto incensurabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione<br />
immune da errori logici e giuridici. In tale ipotesi, la data di cessazione del rapporto va<br />
fatta coincidere con quella del licenziamento, e non con la scadenza del periodo di preavviso<br />
dovuto, e ciò a tutti gli effetti, ed anche nei confronti di soggetti diversi dal datore di lavoro, quali<br />
gli enti gestori di previdenza e assistenza (Cass. 8.5.2004, n. 8797). La derogabilità e la rinunciabilità<br />
dell’effetto reale del preavviso non comporta però che la stessa previsione dell’obbligo<br />
del preavviso possa essere derogata dall’autonomia individuale o collettiva.<br />
L’orientamento circa l’effi cacia reale del preavviso è stato radicalmente ribaltato negli ultimi<br />
anni. Recentemente, infatti, la giurisprudenza prevalente attribuisce effi cacia obbligatoria<br />
al preavviso di licenziamento; alla stregua di tale nuova interpretazione, nell’ipotesi in cui una<br />
delle parti eserciti la facoltà di recedere con effetto immediato, il rapporto si risolve immediatamente<br />
con l’unico obbligo della parte recedente di corrispondere l’indennità sostitutiva del<br />
preavviso (da ultimo, Cass. 3.1.2011, n. 36).<br />
7.3 Sospensione per sopravvenuta malattia<br />
Con riguardo all’ipotesi di malattia sopravvenuta, la giurisprudenza ha avuto modo di precisare<br />
che il preavviso lavorato è - in base alle regole generali (art. 2110 c.c.) - soggetto a sospensione<br />
per sopravvenuta malattia del prestatore di lavoro, nei limiti del periodo di comporto<br />
(Cass. 11.4.2005, n. 7369; Cass. 30.8.2004, n. 17334).<br />
Atteso che il rapporto di lavoro prosegue a tutti gli effetti per l’intera durata del preavviso,<br />
laddove questo sia lavorato, durante tale periodo permane il dovere di fedeltà del lavoratore, il<br />
quale rimane pertanto soggetto all’avvio di eventuali procedimenti disciplinari.<br />
Inoltre, deve essere riconosciuta la possibilità al datore di lavoro, intimato il licenziamento<br />
con preavviso, di intimare, durante il decorso di tale periodo, un nuovo licenziamento per giusta<br />
causa che si sovrapponga al primo (Trib. Larino, 28.7.2009; Cass. 5.2.1992, n. 1236). Evidentemente<br />
anche il dipendente potrà dimettersi per giusta causa durante il preavviso «lavorato».<br />
7.4 Effi cacia reale del preavviso e indennità sostitutiva<br />
Per quanto riguarda la conversione del periodo di preavviso nella relativa indennità sostitutiva,<br />
in passato era stato precisato in giurisprudenza che tale sostituibilità non rientrasse<br />
nella unilaterale disponibilità della parte recedente essendo necessario il consenso del soggetto<br />
destinatario del recesso (c.d. effi cacia reale del preavviso); nè tantomeno il datore di lavoro,<br />
pur continuando a erogare la retribuzione per l’intero, poteva rifi utare la concreta prestazione<br />
lavorativa perché ciò avrebbe comportato violazione del principio di tutela della dignità<br />
del lavoratore sancito da una pluralità di norme del nostro ordinamento giuridico positivo (artt.<br />
4, 35, 41 Cost.; art. 2087 c.c.).<br />
In caso di accordo tra le parti circa la sostituzione del preavviso con l’indennità, invece,<br />
si verifi cava l’immediata interruzione del rapporto come nell’ipotesi di accettazione da parte<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 7 - Il preavviso<br />
del lavoratore dell’indennità sostitutiva del preavviso; sì che, in quest’ultimo caso, allo stesso<br />
lavoratore non competono nuovi emolumenti che siano introdotti da disposizioni legislative<br />
o contrattuali intervenute successivamente all’accettazione dell’indennità sostitutiva e<br />
anteriormente alla scadenza del periodo di preavviso (Cass. 2.11.2001, n. 13580; Cass.<br />
29.7.1999, n. 8256).<br />
Valga aggiungere che secondo la giurisprudenza è legittima la clausola di un contratto<br />
individuale di lavoro che preveda la sostituzione del preavviso con la relativa indennità ex art.<br />
2121 c.c. in quanto l’art. 2118 c.c. non garantisce un diritto indisponibile al periodo di preavviso<br />
e, quindi, la prosecuzione del rapporto di lavoro e delle connesse obbligazioni fi no alla<br />
scadenza del termine del preavviso è derogabile dalle parti attraverso la pattuizione della<br />
cessazione immediata del rapporto con la comunicazione del recesso (Trib. Milano,<br />
18.8.2006).<br />
7.5 Durata del periodo di preavviso<br />
La durata del preavviso è determinata dal contratto di lavoro, sia esso individuale o collettivo.<br />
In mancanza di previsione della contrattazione collettiva, provvede a regolamentare la<br />
durata del preavviso l’art. 10, R.D.L. 13.11.1924, n. 1825, richiamato dall’art. 98 disp. att. c.c.<br />
ART. 10, R.D.L. 13.11.1924, N. 1825<br />
Il termine di cui all’articolo precedente (recesso dal contratto a tempo indeterminato), quando l’uso<br />
o la conven-zione non li assegnino in misura più larga, sarà determinato nel modo seguente in caso<br />
di licenziamento da parte del principale:<br />
A) per gli impiegati che, avendo superato il periodo di prova, non hanno raggiunto i cinque anni di<br />
servizio:<br />
1) mesi due di preavviso per gli institori, procuratori, rappresentanti a stipendio fi sso o non esercenti<br />
esclusi-vamente in proprio: commessi viaggiatori per l’estero, direttori tecnici ed amministrativi<br />
ed impiegati di grado e funzioni equivalenti;<br />
2) mesi uno di preavviso per i commessi viaggiatori, direttori o capi di speciali servizi ed impiegati<br />
di concetto;<br />
3) giorni quindici di preavviso per i commessi di studio e di negozio, assistenti tecnici e altri impiegati<br />
di grado comune.<br />
B) per gli impiegati che hanno raggiunto i cinque anni di servizio e non i dieci:<br />
1) mesi tre di preavviso per la prima categoria;<br />
2) giorni quarantacinque per la seconda categoria;<br />
3) giorni trenta per la terza categoria.<br />
C) per gli impiegati che hanno raggiunto i dieci anni di servizio:<br />
1) mesi quattro per la prima categoria;<br />
2) mesi due per la seconda categoria;<br />
3) giorni quarantacinque per la terza categoria.<br />
I termini di disdetta decorrono dalla metà o dalla fi ne di ciascun mese.<br />
In caso di mancato preavviso nei termini suddetti, è dovuta una indennità pari alla retribuzione<br />
corrispondente al periodo di preavviso.<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
53
54 Capitolo 7 - Il preavviso<br />
– segue – ART. 10, R.D.L. 13.11.1924, N. 1825<br />
Oltre al preavviso nei termini come sopra stabiliti, o in difetto, oltre alla indennità corrispondente, è<br />
in ogni caso dovuta una indennità non inferiore alla metà dell’importo di tante mensilità di stipendio<br />
per quanti sono gli anni di servizio prestati.<br />
Agli effetti del presente articolo sono equiparati a stipendio e dovranno egualmente computarsi tutte<br />
le indennità continuative e di ammontare determinato, le provvigioni, i premi di produzione nonché<br />
le partecipazioni agli utili. Se l’impiegato è remunerato in tutto o in parte con provvigioni, premi<br />
di produzione o partecipazione, queste saranno commisurate <strong>sulla</strong> media dell’ultimo triennio e, se<br />
l’impiegato non abbia compiuto tre anni di servizio, <strong>sulla</strong> media degli anni da lui passati in servizio<br />
Art. 98 disp. att. c.c.<br />
Nei rapporti d’impiego inerenti all’esercizio dell’impresa, in mancanza di usi più favorevoli per<br />
quanto concerne il trattamento cui ha diritto l’impiegato nei casi di […], durata del periodo di preavviso,<br />
la misura dell’indennità sostitutiva di questo […], si applicano le corrispondenti norme del<br />
R.D.L. 13 novembre 1924, n. 1825, convertito nella legge 18 marzo 1926, n. 562<br />
7.5.1 Proroga del termine di preavviso<br />
È ammissibile la proroga del termine di preavviso disposta dal datore di lavoro col consenso<br />
del lavoratore in relazione a particolari esigenze aziendali o personali, non contrastando<br />
con alcuna disposizione legale o contrattuale.<br />
La prorogabilità trova tuttavia un limite nella necessità di evitare che la decisione datoriale<br />
di prolungare reiteratamente il preavviso fi nisca per coincidere con la pura e semplice prosecuzione<br />
del rapporto di lavoro a tempo indeterminato; in tal caso infatti la defi nitiva cessazione<br />
delle proroghe, stabilita dal datore di lavoro con decisione unilaterale, espone il lavoratore ad<br />
una situazione di diffi coltà analoga a quella iniziale derivante dalla prima comunicazione del<br />
licenziamento. Egli ha dunque diritto, col defi nitivo venire meno del rapporto, ad un nuovo preavviso<br />
o al riconoscimento della corrispondente indennità sostitutiva (Pret. Prato, 14.9.1988).<br />
La giurisprudenza ha poi ravvisato nella prosecuzione del rapporto di lavoro oltre il termine fi nale<br />
del periodo di preavviso contrattualmente stabilito un’ipotesi di revoca tacita del licenziamento intimato.<br />
7.5.2 Defi nizione di una durata differente del preavviso rispetto a quanto<br />
disposto dal CCNL<br />
La giurisprudenza ha avuto modo di precisare che ove venga rispettato il termine minimo<br />
di preavviso stabilito dalle fonti richiamate dall’art. 2118 c.c., legittimamente il datore di lavoro<br />
può fi ssare la scadenza del relativo periodo con riferimento non già ad una data determinata<br />
bensì ad un evento futuro che non sia però determinabile quanto al momento del suo verifi carsi;<br />
poiché, peraltro, l’operatività di un periodo di preavviso di durata maggiore rispetto a quella<br />
prevista dalle regole del rapporto non può essere unilateralmente imposta dal datore di<br />
lavoro, il prestatore di lavoro rimane libero di cessare da rapporto allo scadere del termine di<br />
preavviso richiamato dalla norma in esame (Cass. 9.6.1994, n. 5596).<br />
7.6 Indennità sostitutiva del preavviso<br />
7.6.1 Trattamento contributivo<br />
A fronte della mancata prestazione in servizio del preavviso può essere corrisposta l’inden-<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 7 - Il preavviso<br />
nità sostitutiva, il cui trattamento contributivo e fi scale presenta alcune peculiarità.<br />
Infatti, ai sensi dell’art. 12 della legge 30.4.1969, n. 153, successivamente novellato dall’art.<br />
6 del D.Lgs. 2.9.1997, n. 314, l’indennità sostitutiva del preavviso è soggetta a contribuzione<br />
sociale, atteso che il principio fondamentale è che al lavoratore, per tutto il periodo di preavviso<br />
non prestato, devono essere riconosciuti i compensi ed i diritti che gli sarebbero spettati in<br />
costanza di rapporto di lavoro, inclusi pertanto i contributi previdenziali accreditabili a suo favore.<br />
In linea generale, quindi, l’indennità sostitutiva del preavviso deve essere assoggettata a<br />
normale contribuzione sia per la quota a carico del lavoratore che per la quota a carico del<br />
datore di lavoro.<br />
Tuttavia, in alcuni casi può verifi carsi che l’indennità sostitutiva del preavviso venga erogata<br />
non quale indennizzo specifi co per la dispensa dal prestare in servizio il periodo di preavviso<br />
contrattualmente dovuto ma ad altro titolo, quale corrispettivo per una serie di rinunce anche<br />
ad altri diritti o quale indennizzo per la risoluzione del rapporto di lavoro nell’ambito di un accordo<br />
transattivo tra le parti volto a defi nire ogni e qualsiasi controversia inerente all’intercorso<br />
rapporto di lavoro: in ipotesi siffatta viene a modifi carsi la intrinseca natura della dazione<br />
economica con conseguente esclusione dall’assoggettamento contributivo di tale indennità.<br />
7.6.2 Incentivazione all’esodo<br />
Infatti, le medesime disposizioni sopra citate prevedono che, oltre alle somme corrisposte<br />
a titolo di trattamento di fi ne rapporto, sono escluse dalla base imponibile ai fi ni contributivi le<br />
somme corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro al fi ne di incentivare<br />
l’esodo dei lavoratori, nonché quelle la cui erogazione trae origine dalla predetta cessazione.<br />
Pertanto, qualora un ammontare pari all’indennità sostitutiva del preavviso venga corrisposta,<br />
a seguito di pattuizione intercorsa tra le parti in occasione della risoluzione concordata del<br />
rapporto di lavoro, a titolo di incentivazione all’esodo ed in eccedenza alle normali competenze<br />
di fi ne rapporto comunque spettanti al lavoratore, tale somma è esente da contribuzione, come<br />
confermato anche da alcune circolari dell’INPS (n. 581 del 22.1.1982; n. 170 del 19.7.1990, n.<br />
170; n. 263 del 24.12.1997).<br />
7.6.3 Trattamento fi scale<br />
Per quanto attiene, poi, al trattamento fi scale della indennità in esame, l’art. 17 del D.P.R.<br />
22.12.1986, n. 917 (Testo unico delle imposte sui redditi), nel testo attualmente vigente, dispone<br />
che l’applicazione all’indennità sostitutiva del preavviso dell’imposta sul reddito delle persone<br />
fi siche avvenga separatamente, in quanto somma percepita «una volta tanto in dipendenza<br />
della cessazione» del rapporto di lavoro subordinato.<br />
Pertanto, all’indennità sostitutiva del preavviso, al pari delle altre somme o indennità corrisposte<br />
in aggiunta al TFR in occasione della cessazione del rapporto di lavoro, si applica la<br />
medesima aliquota determinata per calcolare l’IRPEF sul trattamento di fi ne rapporto, ai sensi<br />
del successivo art. 19 del TUIR.<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
55
Capitolo 8<br />
NULLITÀ E INEFFICACIA DEL LICENZIAMENTO<br />
8.1 Licenziamento nullo<br />
I primi tre commi dell’art. 18 S.L., così come modificato dall’art. 14 della L. 28.6.2012,<br />
n. 92, si propongono di disciplinare in modo organico gli effetti del licenziamento nullo, in parte<br />
richiamando disposizioni di legge già in vigore nel nostro ordinamento e in parte recependo<br />
princìpi elaborati dalla giurisprudenza.<br />
In base ai princìpi generali di diritto comune, la nullità ricorre quando l’atto sia privo di uno<br />
dei suoi elementi giuridici essenziali oppure sia contrario a norme imperative o comunque<br />
illecito.<br />
L’atto nullo è improduttivo di effetti, come recita il noto brocardo latino quod nullum est<br />
nullum producit effectum; pertanto, sebbene dalla accertata nullità del licenziamento possano<br />
derivare conseguenze giuridico-patrimoniali differenziate (cfr. Capitolo 11), resta in ogni caso<br />
fermo il principio che il licenziamento nullo non è idoneo a determinare la risoluzione del<br />
rapporto di lavoro.<br />
8.2 Licenziamento discriminatorio<br />
Il primo caso di licenziamento nullo identifi cato dalla norma è il licenziamento discriminatorio,<br />
ossia determinato da ragioni di credo politico, fede religiosa, razziali, etniche, nazionali,<br />
dall’appartenenza ad un sindacato o dalla semplice partecipazione ad attività sindacali, ovvero<br />
ancora da ragioni di lingua o di sesso, di handicap, di età o basate sull’orientamento sessuale<br />
o sulle convinzioni personali.<br />
La disciplina sanzionatoria del licenziamento discriminatorio introdotta dall’art. 3, L. 108/1990<br />
(e confermata dalla recentissima L. 28.6.2012, n. 92) rappresenta - da una parte - lo sviluppo<br />
dell’atto discriminatorio in generale di cui all’art. 15 S. L. e - dall’altra - il superamento della<br />
regolamentazione contenuta nell’art. 4, L. 604/1966. Tali norme sanciscono entrambe la nullità<br />
rispettivamente dell’atto e del licenziamento discriminatorio; tuttavia, il citato art. 3 ha introdotto<br />
una rilevantissima precisazione, rappresentata dall’estensione della tutela c.d. reale di cui<br />
all’art. 18 S. L. «quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro» che pone in<br />
essere un «licenziamento determinato da ragioni discriminatorie», inclusi i dirigenti.<br />
8.2.1 Tipizzazione legale<br />
L’art. 3, L. 108/1990, richiama espressamente le «ragioni discriminatorie ai sensi dell’art. 4,<br />
L. 15.7.1966, n. 604, e dell’art. 15, L. 20.5.1970, n. 300, come modifi cato dall’articolo 13 della L.<br />
9.12.1977, n. 903», sanzionando con la nullità i <strong>licenziamenti</strong> determinati «da ragioni di credo poli-<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
57
58 Capitolo 8 - Nullità e ineffi cacia del licenziamento<br />
tico o fede religiosa», «a causa della sua affi liazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione<br />
ad uno sciopero» nonché da motivi di discriminazione «razziale, di lingua o di sesso».<br />
Sebbene parte della dottrina ritenga di dover interpretare estensivamente le disposizioni<br />
sopra richiamate, appare preferibile la tesi secondo cui i motivi discriminatori sono esclusivamente<br />
quelli tipizzati dal legislatore, ferma restando la confi gurabilità di un licenziamento<br />
nullo perché intimato per un motivo illecito determinante. In ogni caso, in tema di discriminazione<br />
basata sul sesso l’art. 25, D.Lgs. 198/2006 (che ha sostituito l’art. 4, co. 1, L. 125/1991)<br />
detta le defi nizioni generali di discriminazione diretta ed indiretta, dovendosi intendere:<br />
● con la prima «qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento, nonché l’ordine<br />
di porre in essere un atto o un comportamento, che produca un effetto pregiudizievole discriminando<br />
le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno<br />
favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga».<br />
● che la seconda sussiste «quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un<br />
comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato<br />
sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino<br />
requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo<br />
e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari».<br />
In ogni caso, costituisce discriminazione ogni trattamento meno favorevole in ragione dello<br />
stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della<br />
titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti.<br />
A norma del successivo art. 26 «sono considerate come discriminazioni anche le molestie,<br />
ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi<br />
lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima<br />
intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo. Sono, altresì, considerate come discriminazioni<br />
le molestie sessuali, ovvero quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale,<br />
espressi in forma fi sica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la<br />
dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante,<br />
umiliante o offensivo. Sono, altresì, considerati come discriminazione i trattamenti meno<br />
favorevoli subiti da una lavoratrice o da un lavoratore per il fatto di aver rifi utato i comportamenti<br />
di cui ai commi 1 e 2 o di esservisi sottomessi».<br />
È poi importante rilevare che, ai sensi dell’art. 43, co. 1, D.Lgs. 286/1998, «costituisce discriminazione<br />
ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione,<br />
esclusione, restrizione o preferenza basata <strong>sulla</strong> razza, il colore, l’ascendenza o l’origine<br />
nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di<br />
distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di<br />
parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e<br />
culturale e in ogni altro settore della vita pubblica».<br />
Il successivo comma 2 precisa che «in ogni caso compie un atto di discriminazione: (…) e il<br />
datore di lavoro o i suoi preposti i quali, ai sensi dell’articolo 15 della L. 20.5.1970, n. 300, come<br />
modifi cata e integrata dalla L. 9.12.1977, n. 903, e dalla L. 11.5.1990, n. 108, compiano qualsiasi<br />
atto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando, anche indirettamente,<br />
i lavoratori in ragione della loro appartenenza ad una razza, ad un gruppo etnico o<br />
linguistico, ad una confessione religiosa, ad una cittadinanza. Costituisce discriminazione indiretta<br />
ogni trattamento pregiudizievole conseguente all’adozione di criteri che svantaggino in<br />
modo proporzionalmente maggiore i lavoratori appartenenti ad una determinata razza, ad un<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 8 - Nullità e ineffi cacia del licenziamento<br />
determinato gruppo etnico o linguistico, ad una determinata confessione religiosa o ad una<br />
cittadinanza e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa».<br />
8.2.2 Discriminazione sessuale<br />
Un’altra fattispecie tipizzata dal legislatore è quella del licenziamento nullo perché intimato per<br />
ragioni di discriminazione sessuale. Secondo la giurisprudenza pronunciatasi sul punto, in termini<br />
generali la discriminazione sessuale ricorre in presenza di una disparità di trattamento «ingiusta e<br />
cioè se l’elemento del sesso avesse rappresentato nell’animo del datore di lavoro il motivo decisivo<br />
del diverso trattamento». Si deve segnalare che la nullità del licenziamento ricorre anche nella particolare<br />
ipotesi in cui il recesso per tale motivo discriminatorio sia stato posto in essere dal datore di<br />
lavoro su induzione o indicazione provenienti da un soggetto terzo rispetto al rapporto di lavoro risolto.<br />
Infatti, la Corte costituzionale con sentenza del 22.1.1987, n. 17, ha precisato al riguardo che «è<br />
infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, L. n. 903/1977, <strong>sulla</strong> parità fra uomini<br />
e donne in materia di lavoro, e art. 15, ultimo comma, L. 20.5.1970, n. 300, nella parte in cui escludono<br />
la rilevanza del comportamento del terzo che abbia comunque indotto il datore di lavoro a procedere<br />
al licenziamento della lavoratrice per ragioni di sesso, in riferimento agli artt. 3, 4 e 37 Cost.».<br />
8.2.3 Discriminazione sindacale<br />
Ciò premesso, la fattispecie più signifi cativa di licenziamento discriminatorio è certamente<br />
quella ex art. 15 S.L. del licenziamento del lavoratore per motivi sindacali ovverossia «a causa<br />
della sua affi liazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero».<br />
Occorre preliminarmente rilevare che, affi nché possa operare il regime sanzionatorio previsto<br />
dall’art. 3, L. 108/1990, e dall’art. 18, L. 300/1970, è necessario che il licenziamento sia determinato<br />
in via esclusiva dal motivo predetto, indipendentemente dalla ragione formalmente addotta dal<br />
datore di lavoro. Pertanto, la rilevanza di un eventuale intento discriminatorio deve essere esclusa<br />
qualora il licenziamento appaia comunque sostenuto da giusta causa o da giustifi cato motivo.<br />
In ogni caso, la giurisprudenza è costante nell’attribuire un ampio signifi cato alla locuzione<br />
“attività sindacale” di cui all’art. 15 S.L., sì da ricomprendervi non soltanto l’attività espletata<br />
dal sindacalista ma anche tutti i comportamenti comunque fi nalizzati a far valere diritti dei<br />
lavoratori dell’impresa, con il consenso espresso o tacito dei sindacati, essendo irrilevante la<br />
infondatezza delle rivendicazioni, purché non illecite nell’oggetto o nel motivo e purché non<br />
integrino inadempimenti contrattuali da parte del dipendente (Cass. 19.3.1996, n. 2335).<br />
8.2.4 Onere probatorio<br />
Il problema dell’individuazione del soggetto che è tenuto a dimostrare la sussistenza del motivo<br />
discriminatorio dell’atto di recesso datoriale è stato affrontato dalla Suprema Corte, secondo la quale<br />
l’onere di provare la sussistenza del motivo illecito del licenziamento, quale è quello discriminatorio,<br />
grava - in applicazione della regola generale <strong>sulla</strong> ripartizione dell’onere probatorio di cui all’art.<br />
2697 c.c. - sul lavoratore che lo alleghi a fondamento della domanda di reintegrazione (Cass.<br />
15.11.2000, n. 14753), sebbene sussistano in alcuni casi disposizioni normative che prevedono l’alleggerimento<br />
dell’onere probatorio in capo al lavoratore, attraverso l’introduzione di presunzioni.<br />
8.2.5 Generalizzazione dell’ambito di applicazione della tutela reale<br />
Il comma 1 dell’art. 18 (e, prima ancora, l’art. 3, L. 108/1990) ha espressamente esteso il<br />
regime sanzionatorio di cui all’art. 18 S.L. a tutti i <strong>licenziamenti</strong> intimati per motivi discrimina-<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
59
60 Capitolo 8 - Nullità e ineffi cacia del licenziamento<br />
tori, indipendentemente dal numero di dipendenti occupati dall’impresa recedente e prevedendo<br />
altresì che tali disposizioni si applicano «anche ai dirigenti». Il regime sanzionatorio<br />
previsto in materia di licenziamento discriminatorio opera anche con riguardo al rapporto di<br />
lavoro a tempo determinato, atteso che né l’art. 18 S.L., né l’art. 15 S.L. né l’art. 3, L. 108/1990<br />
introducono alcuna differenziazione tra lavoro a tempo indeterminato ed a tempo determinato.<br />
8.2.6 Licenziamento discriminatorio nelle organizzazioni di tendenza<br />
Occorre osservare che l’art. 4, co. 1, L. 108/1990 esclude l’applicabilità della disciplina di<br />
cui all’art. 18 S.L. nei confronti delle c.d. organizzazioni di tendenza, defi nite come «datori di<br />
lavoro non imprenditori che svolgono senza fi ni di lucro attività di natura politica, sindacale,<br />
culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto». La ratio della disposizione in esame è<br />
quella di agevolare l’attività di tali organizzazioni, escludendo dall’ambito della cd. tutela reale<br />
i rapporti di lavoro dalle medesime costituiti, con conseguente applicazione in ogni caso della<br />
sola tutela obbligatoria. Peraltro, nelle organizzazioni di tendenza è confi gurabile, oltre all’ipotesi<br />
del licenziamento c.d. ideologico - tale essendo quello intimato per ragioni strettamente<br />
attinenti l’ideologia perseguita dall’organizzazione di tendenza - anche quella del licenziamento<br />
intimato per uno dei motivi discriminatori elencati dal precedente art. 3 per ragioni<br />
estranee all’ideologia che connota il datore di lavoro recedente.<br />
Secondo una parte minoritaria della dottrina, in entrambe le fattispecie dovrebbe operare<br />
la particolare disciplina derogatoria dettata dall’art. 4, L. 108/1990, con conseguente applicazione<br />
della sola tutela obbligatoria. Tuttavia la giurisprudenza, nel privilegiare un’interpretazione<br />
estensiva dell’art. 18 S.L., è giunta a ritenere che l’esclusione dell’applicabilità di tale<br />
norma non opera nelle ipotesi di licenziamento ideologico nullo in quanto discriminatorio e di<br />
ineffi cacia del licenziamento per violazione dell’art. 2, L. 604/1966 (Cass. 5.8.1996, n. 7176).<br />
8.3 Licenziamento a causa di matrimonio<br />
In nuovo testo dell’art. 18, in secondo luogo, richiama i casi di recesso datoriale nullo perché<br />
intimato a causa di matrimonio. Tale fattispecie è oggi prevista dall’art. 35, D.Lgs. 11.4.2006,<br />
n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna), ove il legislatore ha disposto che il<br />
licenziamento della dipendente si presume essere avvenuto a causa di matrimonio laddove sia<br />
stato intimato nel periodo intercorrente «dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio,<br />
in quanto segua la celebrazione, a un anno dopo la celebrazione stessa».<br />
Il successivo comma 3 della medesima disposizione precisa che «si presume che il licenziamento<br />
della dipendente nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle pubblicazioni<br />
di matrimonio, in quanto segua la celebrazione, a un anno dopo la celebrazione stessa,<br />
sia stato disposto per causa di matrimonio». Tale presunzione legale può essere superata<br />
qualora il datore di lavoro, su cui grava il relativo onere, fornisca la prova della sussistenza di<br />
una delle seguenti ipotesi previste dal co. 5 del citato articolo 35, D.Lgs. 11.4.2006, n. 198:<br />
a. colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto<br />
di lavoro;<br />
b. cessazione dell’attività dell’azienda cui essa è addetta;<br />
c. ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del<br />
rapporto di lavoro per la scadenza del termine.<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 8 - Nullità e ineffi cacia del licenziamento<br />
Sotto altro profi lo, è opportuno evidenziare la previsione del settimo comma del citato art.<br />
35, secondo cui la lavoratrice che, invitata a riassumere servizio a seguito della dichiarazione<br />
di nullità del licenziamento, dichiari di recedere dal contratto, «ha diritto al trattamento previsto<br />
per le dimissioni per giusta causa», ovvero all’indennità sostitutiva del preavviso. Tale disposizione,<br />
infatti, va letta alla luce del nuovo testo dell’articolo 18 S.L., in base al quale alla<br />
lavoratrice licenziata per causa di matrimonio, oltre al diritto di ricevere le retribuzioni sin lì<br />
perdute, è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione<br />
nel posto di lavoro, un’indennità pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, la<br />
cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro (cfr. Capitolo 11).<br />
Ciò premesso, non appare verosimile che la lavoratrice goda simultaneamente di entrambe le<br />
citate forme di tutela. Infatti, una guarentigia così rafforzata non convince sia sotto il profi lo sistematico<br />
sia alla luce della giurisprudenza sin qui registrata in tema di preavviso e tutela reale (ex<br />
plurimis, Cass.8.6.2006, n. 13380). Di conseguenza, sembra potersi ritenere che la disposizione di<br />
cui all’art. 35, co. 7, D.Lgs. 198/2006, sia stata tacitamente abrogata dalla L. 28.6.2012, n. 92.<br />
8.4 Licenziamento della lavoratrice madre<br />
La terza fattispecie di licenziamento nullo di cui al primo comma dell’art. 18 S. L. riguarda il<br />
recesso intimato alla lavoratrice madre nel periodo compreso tra l’inizio della gravidanza e il<br />
compimento di un anno di età del bambino, il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione<br />
del congedo parentale e per malattia da parte della lavoratrice o del lavoratore, o intimato<br />
al lavoratore padre per la durata del congedo di paternità e sino al compimento di un anno del<br />
fi glio o, infi ne, in caso di adozione o affi damento (così richiamando quanto previsto dall’art. 54,<br />
D.Lgs. 26.3.2001, n. 151). Il citato art. 54, co. 5, D.Lgs. 151/2001, sancisce, infatti, che «il licenziamento<br />
intimato alla lavoratrice in violazione delle disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 3, è nullo».<br />
Il comma 1 della disposizione in esame ribadisce che «le lavoratrici non possono essere licenziate<br />
dall’inizio del periodo di gravidanza fi no al termine dei periodi di interdizione dal lavoro<br />
previsti dal Capo III, nonché fi no al compimento di un anno di età del bambino».<br />
8.4.1 Deroghe al divieto<br />
Il comma 3 dello stesso art. 54 riprende l’ipotesi tassativa, già prevista dalla L. 1204/1971,<br />
nelle quali non opera il divieto di licenziamento, ovverossia i casi:<br />
«a. di colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto<br />
di lavoro;<br />
b. di cessazione dell’attività dell’azienda cui essa è addetta;<br />
c. di ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del<br />
rapporto di lavoro per la scadenza del termine;<br />
d. di esito negativo della prova; resta fermo il divieto di discriminazione di cui all’art. 4, L.<br />
10.4.1991, n. 125 (art. 4, co. 1, 2 e 3 L. 10.4.1991, n. 125), e successive modifi cazioni».<br />
Quanto all’inoperatività del divieto di licenziamento della lavoratrice madre per colpa grave,<br />
si segnala che, secondo la giurisprudenza di legittimità, «la colpa grave non può ritenersi<br />
integrata da una giusta causa o da un giustifi cato motivo soggettivo, ma richiede quella colpa<br />
specifi camente prevista, connotata appunto dalla gravità, e proprio per questo diversa dalla<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
61
62 Capitolo 8 - Nullità e ineffi cacia del licenziamento<br />
colpa in senso lato che deve connotare qualsiasi inadempimento del lavoratore, per essere<br />
sanzionato con il licenziamento». Nel caso di specie la Corte di Cassazione ha escluso che<br />
l’assenza ingiustifi cata e immotivata della lavoratrice madre per oltre una settimana fosse una<br />
condizione che integrava la colpa grave ai fi ni del licenziamento (Cass. 29 .9. 2011, n. 19912).<br />
8.4.2 Lavoratore padre<br />
È importante sottolineare che, «in caso di fruizione del congedo di paternità, di cui all’art.<br />
28, D.Lgs. 151/2001», vale a dire allorché il padre abbia diritto di astenersi dal lavoro per<br />
tutta la durata del congedo di maternità (o per la sua parte residua) che sarebbe spettata alla<br />
lavoratrice, in caso di morte o di grave infermità della madre, ovvero in caso di abbandono,<br />
nonché in caso di affi damento esclusivo del bambino a costui, «il divieto di licenziamento si<br />
applica anche al padre lavoratore per la durata del congedo stesso e si estende fi no al compimento<br />
di un anno di età del bambino» (art. 54, co. 7, D.Lgs. 151/2001).<br />
8.4.3 Presentazione del certifi cato medico<br />
Per fare valere la nullità del recesso datoriale «la lavoratrice, licenziata nel corso del periodo<br />
in cui opera il divieto, è tenuta a presentare al datore di lavoro idonea certifi cazione<br />
dalla quale risulti l’esistenza, all’epoca del licenziamento, delle condizioni che lo vietavano»<br />
(art. 54, comma 2, D.Lgs. 151/2001). Tale certifi cazione (il cui onere di presentazione, a differenza<br />
di quanto prevedeva la normativa previgente in materia, non è assoggettato ad alcun limite<br />
temporale), assolve secondo la giurisprudenza di legittimità ad un ruolo di mero strumento<br />
di prova la cui presentazione può trovare un equipollente nell’effettiva conoscenza<br />
dello stato di gravidanza da parte del datore di lavoro altrimenti ottenuta (Cass. 16.2.2007, n.<br />
3620; Cass. 21.8.2004, n. 16505; Cass. 4.3.1988, n. 2248).<br />
Ai fi ni dell’identifi cazione del periodo di operatività del divieto di licenziamento, l’art. 4<br />
D.P.R. 1026/1976 precisa che l’inizio dello stato di gravidanza viene determinato a partire dal<br />
300° giorno antecedente la data presunta del parto, attestata dal suddetto certifi cato medico<br />
di gravidanza.<br />
8.4.4 Mancata informazione all’atto dell’assunzione<br />
Sotto un diverso profi lo, la Suprema Corte (Cass. 6.7.2002, n. 9864) ha avuto modo di affermare<br />
che non può costituire giusta causa di licenziamento il comportamento della lavoratrice<br />
gestante o puerpera che, al momento dell’assunzione, non comunichi al datore di lavoro di<br />
trovarsi nella situazione in cui opera il divieto di licenziamento, atteso che un siffatto obbligo<br />
di informazione - che, peraltro, non può essere desunto dai canoni generali di correttezza e<br />
buona fede di cui agli art. 1175 e 1375 c.c. o da altri generali princìpi dell’ordinamento - fi nirebbe<br />
per rendere ineffi cace la tutela della lavoratrice madre ed ostacolerebbe la piena attuazione<br />
del principio di parità di trattamento, garantito costituzionalmente e riaffermato anche<br />
dalla normativa comunitaria (direttive CEE n. 76/207 e 92/85).<br />
8.4.5 Altre fattispecie di divieto di licenziamento<br />
Come disposto dall’art. 54, co. 6, D.Lgs. 151/2001, e come confermato dall’art. 18, comma<br />
1, S.L. nel testo novellato dalla L. 28.6.2012, n. 92, «è altresì nullo il licenziamento causato<br />
dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino da parte<br />
della lavoratrice o del lavoratore».<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 8 - Nullità e ineffi cacia del licenziamento<br />
Il divieto di licenziamento è esteso «anche in caso di adozione e di affi damento» e si applica<br />
fi no a un anno dall’ingresso del minore nel nucleo familiare, in caso di fruizione del congedo<br />
di maternità e di paternità.<br />
8.4.6 Morte del feto, aborto e morte del bambino<br />
La morte del feto ovvero del neonato, avvenuta dopo il parto ed entro il primo anno di età,<br />
non fa venire meno il diritto alla conservazione del posto di lavoro. Infatti l’art. 2, D.P.R.<br />
1026/1976, stabilisce al riguardo che «nel caso che il bambino sia nato morto, o sia deceduto<br />
durante il periodo di interdizione dal lavoro, il divieto di licenziamento cessa alla fi ne di tale<br />
periodo. Ove il bambino sia deceduto dopo il periodo di interdizione e prima del compimento di<br />
un anno di età, il divieto cessa dieci giorni dopo la sua morte». Tali norme devono intendersi<br />
ancora in vigore in quanto non abrogate espressamente dal D.Lgs. 151/2001 e con esso compatibili.<br />
Valga osservare che, ai sensi dell’art. 12, D.P.R. 1026/1976 viene considerata come parto, a<br />
tutti gli effetti, «l’interruzione spontanea, o terapeutica, della gravidanza successiva al 180°<br />
giorno dall’inizio della gestazione».<br />
L’aborto, invece (qualifi cato dal medesimo art. 12 come «l’interruzione spontanea, o terapeutica,<br />
della gravidanza che si verifi chi prima del 180° giorno dall’inizio della gestazione»), è<br />
considerato a tutti gli effetti come malattia, ai sensi dell’art. 19, D.Lgs. 151/2001.<br />
SANZIONI AMMINISTRATIVE<br />
La violazione delle disposizioni in materia di divieto di licenziamento «è punita con la sanzione<br />
amministrativa da Euro 1.032 a Euro 2.582,00. Non è ammesso il pagamento in misura ridotta di<br />
cui all’articolo 16, l. 24.11.1981, n. 689» (art. 54, comma 8, D.Lgs. 151/2001).<br />
8.5 Casi di nullità previsti dalla legge e motivo illecito determinante<br />
La L. 28.6.2012, n. 92, ha chiarito che le conseguenze del licenziamento di cui ai commi 1,<br />
2 e 3 del nuovo articolo 18 S.L. (cfr. Capitolo 11) trovano altresì applicazione al recesso datoriale<br />
«riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge».<br />
Trattasi dei casi di licenziamento a causa della domanda di fruizione di congedi per eventi<br />
e cause particolari, di fruizione di congedi per formazione e di congedi per la formazione continua<br />
di cui alla L. 8.3.2000, n. 53, ovvero di recesso in frode alla legge, come ad esempio in<br />
caso di licenziamento intimato prima del trasferimento d’azienda e seguito da immediata riassunzione<br />
del lavoratore da parte dell’acquirente, al fi ne di aggirare le disposizioni dell’articolo<br />
2112 del codice civile.<br />
È possibile altresì che il licenziamento sia nullo (con conseguente applicazione della disciplina<br />
sanzionatoria di cui ai primi 3 commi dell’art. 18 S.L.) per motivo illecito determinante, ai<br />
sensi dell’articolo 1345 del codice civile.<br />
Al riguardo, la giurisprudenza, ancorché non recente, ha ritenuto tale l’ipotesi del recesso<br />
ritorsivo, che consiste nel recesso datoriale quale ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento<br />
legittimo e corretto sotto ogni profi lo del lavoratore, inerente a diritti a lui derivanti<br />
dal rapporto di lavoro o a questo comunque connessi (Cass. 6.5.1999, n. 4543) ovvero, ad un<br />
comportamento di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione (ritorsione<br />
indiretta) (Cass. 8.8.2011, n. 17087).<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
63
64 Capitolo 8 - Nullità e ineffi cacia del licenziamento<br />
In merito, è opportuno rilevare come la giurisprudenza di legittimità abbia stabilito che, ove<br />
il lavoratore deduca il carattere ritorsivo del provvedimento datoriale, è necessario che tale<br />
intento abbia avuto un’effi cacia determinativa ed esclusiva del licenziamento anche rispetto<br />
agli altri eventuali fatti idonei a confi gurare un’ipotesi di legittima risoluzione del rapporto<br />
(Cass. 9.3.2011, n. 5555).<br />
8.6 Licenziamento ineffi cace<br />
Tra le diverse categorie di invalidità di un atto, l’ineffi cacia rappresenta certamente quella<br />
più problematica sotto il profi lo della sua ricostruzione sistematica. Infatti il nostro ordinamento,<br />
pur contemplando in alcune specifi che disposizioni tale tipologia di vizio dell’atto o del<br />
negozio giuridico, non disciplina né regola autonomamente la causa di invalidità in esame. In<br />
termini generali può comunque affermarsi che l’ineffi cacia riguarda tutti quei casi nei quali un<br />
negozio giuridico è inidoneo, per qualsiasi motivo, a produrre gli effetti che gli sarebbero propri.<br />
Ai limitati fi ni che qui interessano, l’ineffi cacia è espressamente contemplata dall’art. 2, L.<br />
604/1966 (come sostituito dall’art. 2, L. 108/1990 e dall’art. 1, co. 37, L. 28.6.2012, n. 92) quale<br />
causa di invalidità del licenziamento individuale intimato senza l’osservanza della forma scritta<br />
o in difetto della specifi cazione contestuale dei motivi determinati il recesso.<br />
In proposito, è opportuno evidenziare che la L. 28.6.2012, n. 92 ha modifi cato il dettato normativo<br />
del secondo comma del menzionato art. 2. Infatti, prima della riforma tale disposizione<br />
prevedeva l’obbligo di comunicazione al lavoratore dei motivi determinanti il licenziamento laddove<br />
costui, entro quindici giorni dall’intimazione del recesso, ne avesse fatto richiesta. In tal<br />
caso, il datore di lavoro era tenuto a comunicali per iscritto entro i successivi sette giorni.<br />
Di contro, il testo attuale del secondo comma dell’articolo in esame prevede che «la comunicazione<br />
del licenziamento deve contenere la specifi cazione dei motivi che lo hanno determinato»,<br />
con ciò imponendo la simultanea intimazione del recesso ed esplicitazione delle ragioni<br />
poste a fondamento di esso.<br />
8.6.1 Ineffi cacia del licenziamento orale<br />
In base al dettato normativo introdotto dalla L. 28.6.2012, n. 92, le conseguenze del licenziamento<br />
nullo si applicano anche al recesso dichiarato ineffi cace perché intimato in forma<br />
orale, il che comporta un’indubbia novità sotto il profi lo sanzionatorio per i datori di lavoro non<br />
rientranti nell’ambito della tutela reale oggi, invece, applicabile anche a costoro (cfr. Capitolo<br />
11). Infatti, come previsto dall’art. 2, co. 1, L. 604/1966, «il datore di lavoro, imprenditore o non<br />
imprenditore, deve comunicare per iscritto il licenziamento al prestatore di lavoro», con<br />
espressa deroga al principio generale della libertà di forma del negozio giuridico.<br />
La violazione di tale requisito formale da parte del datore di lavoro recedente è espressamente<br />
sanzionata dal successivo comma 3 della norma in esame con l’ineffi cacia del licenziamento<br />
intimato.<br />
In base ai princìpi generali enunciati con riferimento a tale categoria di invalidità dell’atto,<br />
la giurisprudenza di legittimità espressasi prima dell’entrata in vigore della L. 28.6.2012, n.<br />
92, coerentemente con il dato normativo sin qui vigente, riteneva che «il licenziamento intimato<br />
oralmente è radicalmente ineffi cace per inosservanza dell’onere della forma scritta imposto<br />
dall’art. 2 l. 15.7.1966 n. 604, novellato dall’art. 2 l. 11.5.1990 n. 108, e, come tale, è inidoneo<br />
a risolvere il rapporto di lavoro, non rilevando, ai fi ni di escludere la continuità del rapporto<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 8 - Nullità e ineffi cacia del licenziamento<br />
stesso, né la qualità di imprenditore del datore di lavoro, né il tipo di regime causale applicabile<br />
(reale od obbligatorio), giacché la sanzione prevista dal citato art. 2 non opera soltanto nei<br />
confronti dei lavoratori domestici (ai sensi della L. n. 339 del 1958) e di quelli ultrasessantenni<br />
(salvo che non abbiano optato per la prosecuzione del rapporto), conseguendone, quindi, che<br />
la radicale ineffi cacia del licenziamento orale prescinde dalla natura stessa del recesso»<br />
(Cass. 1.8.2007, n. 16955).<br />
8.6.2 Ineffi cacia per carenza di contestuale motivazione<br />
Come menzionato, anche il licenziamento intimato senza la contestuale comunicazione dei<br />
motivi che lo hanno determinato comporta l’ineffi cacia dello stesso. Tuttavia, a tale ineffi cacia<br />
è collegato un regime sanzionatorio diverso rispetto a quello del licenziamento orale.<br />
Infatti, il comma 6 dell’articolo 18 S.L., così come modifi cato dall’art. 1 della L. 28.6.2012,<br />
n. 92, prevede che, «nell’ipotesi in cui il licenziamento sia dichiarato ineffi cace per violazione<br />
del requisito di motivazione di cui all’articolo 2, comma 2, della L. 15.7.1966, n. 604, e successive<br />
modifi cazioni», il giudice dichiari risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento<br />
e condanni il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva<br />
determinata, in relazione alla gravità della violazione formale commessa, «tra un<br />
minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, con<br />
onere di specifi ca motivazione a tale riguardo».<br />
Pertanto, in caso di licenziamento ineffi cace per carenza di contestuale motivazione la tutela<br />
approntata, anche per i datori di lavoro che occupano più di quindici lavoratori, è di carattere<br />
obbligatorio.<br />
Tuttavia, laddove il giudice dovesse ravvisare che vi è anche un difetto di giustifi cazione del<br />
licenziamento, quindi che il recesso datoriale è carente anche da un punto di vista sostanziale<br />
e non meramente formale, egli applicherà le tutele previste contro il licenziamento privo di<br />
giusta causa e giustifi cato motivo di cui ai commi 4, 5 e 7 dell’art. 18 S.L. (cfr. Capitolo 11).<br />
Infi ne, in base a quanto disposto dal nuovo sesto comma dell’art. 18 S.L., è ineffi cace il licenziamento<br />
intimato in violazione «della procedura di cui all’articolo 7 della presente legge,<br />
o della procedura di cui all’articolo 7 della L. 15.7.1966, n. 604».<br />
Per la disciplina di tali procedure, si rinvia ai Capitoli 1 e 3; per le conseguenze sanzionatorie<br />
della loro violazione si rinvia al Capitolo 11.<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
65
9.1 Ambito di applicazione<br />
Capitolo 9<br />
IL LICENZIAMENTO COLLETTIVO<br />
La materia dei <strong>licenziamenti</strong> <strong>collettivi</strong> ha ricevuto un’organica disciplina grazie alla L.<br />
23.7.1991, n. 223 (da ultimo novellata dalla recente L. 92/2012), che ha recepito la direttiva<br />
comunitaria 129/1975 del 17.2.1975, modifi cata dalla successiva direttiva comunitaria 56/1992<br />
del 24.6.1992 (oggetto di recezione da parte del D.Lgs. 26.5.1997, n. 151).<br />
Tali direttive sono state poi successivamente abrogate dalla direttiva 1998/59 del 20.7.1998 concernente<br />
il riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di <strong>licenziamenti</strong> <strong>collettivi</strong>.<br />
Il successivo D.Lgs. 8.4.2004, n. 110, ha poi dato completa attuazione alla citata direttiva<br />
comunitaria 1998/59, estendendo gli obblighi di informazione e consultazione previsti dalla<br />
legge in commento anche nei confronti dei datori di lavoro non imprenditori.<br />
9.2 Fattispecie<br />
La L. n. 223/1991 prevede due fattispecie di licenziamento collettivo.<br />
La prima è disciplinata dall’art. 24, co. 1, rubricata «norme in materia di riduzione del<br />
personale», che riguarda l’ipotesi del licenziamento attuato ab origine dall’imprenditore che<br />
non abbia fatto ricorso al trattamento straordinario di integrazione salariale prima di procedere<br />
alla procedura di licenziamento collettivo.<br />
A tale fattispecie si affi anca un’altra ipotesi di licenziamento collettivo prevista dall’art. 4, co. 1,<br />
L. 223/1991 per le sole imprese ammesse al trattamento straordinario di integrazione salariale,<br />
qualora nel corso di attuazione del programma di ristrutturazione, riorganizzazione o conversione<br />
l’imprenditore non ritenga di essere in grado di garantire il reimpiego di tutti i lavoratori sospesi.<br />
In altre parole, si tratta del licenziamento collettivo attivato dall’imprenditore qualora l’eccedenza<br />
del personale sospeso non sia riassorbibile mediante il ricorso a strumenti alternativi<br />
al licenziamento.<br />
Entrambe le due ipotesi di licenziamento collettivo seguono l’identica procedura disciplinata<br />
dall’art. 4, L. 223/1991, commi da 2 a 12.<br />
Un’ulteriore possibilità di ricorso ai <strong>licenziamenti</strong> <strong>collettivi</strong> è quella prevista dall’art. 2, co.<br />
3, L. 223/1991 per l’ipotesi in cui, nell’ambito delle procedure concorsuali, non sia possibile per<br />
il curatore, il liquidatore o commissario giudiziale, la continuazione dell’attività produttiva o<br />
quando i livelli occupazionali possano essere solo parzialmente salvaguardati.<br />
9.3 Ambito soggettivo di applicazione<br />
Il D.Lgs. 8.4.2004, n. 110, ha modifi cato e integrato la L. 23.7.1991, n. 223, stabilendo che si<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
67
68 Capitolo 9 - Il licenziamento collettivo<br />
applicano ai datori di lavoro non imprenditori, compresi i datori di lavoro che svolgono senza<br />
fi ni di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di<br />
culto, «le disposizioni di cui all’art. 4, c. 2, 3, con esclusione dell’ultimo periodo, 4, 5, 6, 7, 8, 9,<br />
11, 12, 14, 15 e 15-bis».<br />
Pertanto, con l’entrata in vigore del decreto legislativo sopra citato i datori di lavoro non<br />
imprenditori devono osservare l’obbligo di fornire alle organizzazioni sindacali le informazioni<br />
previste dalla legge in esame.<br />
9.4 Tipologia<br />
L’art. 24, L. 223/1991, si applica alle imprese che hanno alle proprie dipendenze più di 15<br />
lavoratori, indipendentemente dal settore di appartenenza.<br />
Di contro, l’art. 4, L. 223/1991, come già rilevato, trova applicazione alle sole imprese ammesse<br />
al trattamento straordinario di integrazione salariale.<br />
La differenza tra imprese che rientrano nel campo di applicazione della disciplina di intervento<br />
straordinario di integrazione salariale e quelle che non vi rientrano determina tra l’altro,<br />
ai fi ni della procedura di licenziamento collettivo, l’obbligo delle imprese che benefi ciano di<br />
tale trattamento di integrazione salariale di versare all’apertura della procedura di mobilità<br />
il cd. contributo di ingresso.<br />
9.5 Imprese commerciali<br />
L’art. 12, L. 223/1991, ha esteso il campo di applicazione della normativa sul trattamento<br />
straordinario di integrazione salariale anche alle imprese esercenti attività commerciale che<br />
occupino più di 200 dipendenti. Peraltro, l’art. 7, L. 19.7.1993, n. 236, aveva esteso l’applicazione<br />
delle disposizioni in materia di trattamento straordinario di integrazione salariale anche<br />
alle imprese commerciali che occupavano più di 50 addetti fi no al 31.12.1994, termine poi<br />
prorogato sino al 31.12.2002 con il D.M. 18.4.2002, n. 30956, come previsto dall’art. 52, co. 46,<br />
L. 28.12.2001, n. 448. Tale trattamento è stato ulteriormente prorogato da numerosi decreti<br />
ministeriali succedutisi negli anni e, da ultimo, l’articolo 33, co. 23, L. 12.11.2011, n. 183, ha<br />
prorogato tale trattamento sino al 31.12.2012.<br />
Tale normativa transitoria può dirsi defi nitivamente superata con l’entrata in vigore della<br />
recente L. 28.6.2012, n. 92, che all’art. 3, co. 1, ha espressamente esteso le disposizioni in<br />
materia di trattamento di integrazione salariale (con i relativi obblighi contributivi) alle imprese<br />
esercenti attività commerciali con più di cinquanta dipendenti.<br />
9.6 Agenzie di viaggio e turismo, operatori turistici e imprese di vigilanza<br />
L’accesso ai trattamenti di integrazione salariale straordinaria era stato prorogato anche per<br />
le agenzie di viaggio e turismo, compresi gli operatori turistici con più di 50 dipendenti nonché le<br />
imprese di vigilanza con d.m. 18.4.2002, n. 30968, sino al 31.12.2002. Anche tale termine è stato<br />
prorogato nel corso degli anni successivi con provvedimenti legislativi e, da ultimo, l’articolo 33,<br />
co. 23, della L. 12.11.2011, n. 183, ha prorogato tale trattamento sino al 31.12.2012.<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 9 - Il licenziamento collettivo<br />
Senonché, anche tale normativa transitoria può dirsi ormai superata con l’entrata in vigore<br />
dell’art. 3, co. 1, della L. 18.6.2012, n. 92, sopra citato, che ha espressamente esteso le disposizioni<br />
in materia di trattamento di integrazione salariale (con i relativi obblighi contributivi)<br />
alle agenzie di viaggio e turismo, compresi gli operatori turistici, con più di cinquanta dipendenti,<br />
oltre che alle imprese di vigilanza con più di quindici dipendenti e alle imprese del trasporto<br />
aereo e del sistema aeroportuale a prescindere dal numero dei dipendenti.<br />
9.7 Aziende della logistica<br />
Per le aziende della logistica che occupano più di 200 dipendenti è dovuto il cd. contributo<br />
di ingresso e ciò in quanto il Ministero del lavoro ha precisato che «l’attività esercitata dalle<br />
aziende operanti nel settore dei servizi logistici per conto terzi, seppure espletata nelle forme<br />
e con le modalità imposte dalla terziarizzazione dei rami aziendali delle grandi imprese, deve<br />
ritenersi di natura commerciale» (INPS, circ. 28.3.2000, n. 71).<br />
Conseguentemente, l’INPS ha precisato che le imprese della logistica con più di 200 addetti<br />
rientrano nel campo di applicazione del trattamento straordinario di integrazione salariale e<br />
pertanto le medesime devono versare il contributo di mobilità. Di contro, per le imprese della<br />
logistica con più di 50 dipendenti valgono le stesse disposizioni sopra esposte per le imprese<br />
commerciali.<br />
9.8 Soci lavoratori di cooperative di produzione e lavoro<br />
La Suprema Corte ha esteso l’applicazione degli artt. 1, 4 e 24 anche ai soci lavoratori di<br />
cooperative di produzione e lavoro, affermando che l’art. 24 della L. 223/1991, nel testo sostituito<br />
dall’art. 8, co. 1, D.L. 148/1993 (convertito nella L. 236/1993), deve essere interpretato<br />
nel senso che l’estensione ai soci delle cooperative di produzione e lavoro dell’applicazione<br />
degli artt. 1, 4 e 24 L. 223/1991 cit., con esclusione di distinzioni nell’ambito sociale tra<br />
lavoratori soci e non soci, comporta l’applicabilità anche alla prima delle due suddette categorie<br />
di lavoratori non soltanto della procedura di mobilità, ma anche dei relativi benefi ci; ne<br />
consegue che al datore di lavoro che assuma, alle condizioni stabilite dall’art. 8, co. 4, della<br />
stessa L. 223/1991 lavoratori già dipendenti e soci di una cooperativa iscritti nella lista di<br />
mobilità è attribuibile il contributo mensile pari al cinquanta per cento dell’indennità di mobilità<br />
che sarebbe spettata a ciascun lavoratore, previsto da tale ultima disposizione (Cass.<br />
22.7.2005, n. 15510).<br />
9.9 Imprese di pulizia<br />
La giurisprudenza della Corte di Cassazione e parte della giurisprudenza di merito più recente<br />
hanno esteso l’ambito di applicazione della normativa sui <strong>licenziamenti</strong> <strong>collettivi</strong> anche<br />
alle imprese di pulizia che occupano più di 15 dipendenti in ipotesi di cessazione dell’appalto,<br />
e ciò in quanto la disposizione contenuta nell’art. 24, co. 4, ai sensi della quale sono escluse<br />
dall’applicazione della disciplina in esame le attività stagionali o saltuarie, i rapporti di lavoro<br />
a termine e di fi ne lavoro nelle costruzioni edili, è norma speciale non suscettibile di interpretazione<br />
estensiva.<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
69
70 Capitolo 9 - Il licenziamento collettivo<br />
9.10 Aziende esercenti servizi di trasporto pubblico in concessione<br />
L’art. 3, co. 4 bis, della L. 223/1991, introdotto dalla L. 236/1993, nel testo risultante dalla<br />
modifi ca introdotta dall’art. 7, D.L. 23.10.1996, n. 542 (convertito con L. 23.12.1996, n. 649),<br />
prevede espressamente che le disposizioni in materia di mobilità ed il relativo trattamento si<br />
applicano agli autoferrotranvieri (il cui rapporto è regolato dal r.d. 8.1. 1931, n. 148) licenziati<br />
da imprese dichiarate fallite o poste in liquidazione successivamente alla data del 1°.1. 1993.<br />
Sul punto è intervenuta la Corte Costituzionale con la sentenza del 13.6.2000, n. 190, la quale,<br />
chiamata a decidere <strong>sulla</strong> questione di legittimità della citata norma con riferimento agli artt. 3,<br />
commi 1 e 11 della Costituzione, ha ritenuto che tale disposizione legislativa debba essere interpretata<br />
nel senso che essa opera soltanto per quanto concerne l’istituto della mobilità ed in<br />
particolare il diritto a fruire della relativa indennità da parte degli autoferrotranvieri.<br />
Invece per quanto concerne la disciplina del procedimento preordinato al licenziamento<br />
collettivo nulla è mutato rispetto al sistema previgente con la conseguenza che le garanzie<br />
procedimentali di cui all’art. 24, L. 223/1991, che hanno carattere generale, valgono anche per<br />
le imprese che non benefi ciano dell’intervento straordinario di integrazione salariale, fra le<br />
quali devono annoverarsi anche le aziende autoferrotranviarie (C. Cost. 13.6.2000, n. 190).<br />
Alla luce di tale sentenza, dunque, consegue che le aziende soggette all’applicazione del<br />
R.D. 148/1931 e che intendano procedere ad una riduzione di personale devono osservare le<br />
norme procedurali previste dall’art. 4, commi da 2 a 12, ancorché non dichiarate fallite o poste<br />
in liquidazione.<br />
Peraltro, anche la Corte di Cassazione ha confermato che la normativa introdotta con l’art. 24<br />
della predetta L. 223/1991 ha carattere generale, sicché le relative garanzie procedimentali si applicano<br />
anche ai dipendenti da imprese autoferrotranviarie senza che esse possano ritenersi incompatibili<br />
con le previsioni dell’art. 26 all. A al R.D. 148/1931, atteso che tale norma (che, nel disciplinare<br />
l’esonero del personale ferroviario in caso di riduzione di posti, autorizza l’assegnazione<br />
dei dipendenti in esubero a mansioni inferiori alla qualifi ca come alternativa al licenziamento) si<br />
pone su un piano assolutamente diverso da quello procedimentale regolamentato dall’art. 24, L.<br />
223 del 1991, che, tra l’altro, coinvolge anche le rappresentanze sindacali (Cass. 8.8.2011, n. 17090).<br />
9.11 Ferrovie dello Stato<br />
Con la decisione del 16.12.2009, n. 26373, in tema di ridimensionamento degli organici delle<br />
Ferrovie dello Stato mediante riduzione del personale eccedentario, la Corte di Cassazione ha<br />
precisato che il programma di ristrutturazione e risanamento aziendale, da realizzarsi mediante<br />
<strong>licenziamenti</strong>, che il legislatore ha inteso agevolare apprestando gli opportuni ammortizzatori<br />
sociali (art. 59, co. 6, L. 449/ 1997), non esonera la società dal rispetto delle procedure previste<br />
dalla L. 223/1991, versandosi comunque in ipotesi di licenziamento collettivo per riduzione di<br />
personale, nell’ambito del quale i lavoratori da collocare in mobilità vanno individuati nel rispetto<br />
dei criteri legali o convenzionali “in relazione alle esigenze tecnico-produttive dei complesso<br />
aziendale” e il criterio dell’anzianità contributiva rileva soltanto per la scelta dei dipendenti da<br />
licenziare. Ne consegue che la comunicazione inviata al dipendente, motivata con la verifi ca<br />
delle eccedenze di personale, l’inserimento del destinatario tra gli esuberi e nella graduatoria<br />
dei <strong>licenziamenti</strong> in base alla maggiore anzianità contributiva, esprime la volontà di recesso<br />
della società e costituisce, pertanto, intimazione del licenziamento che il lavoratore ha l’onere di<br />
impugnare nel termine previsto dall’art. 5, co. 3, L. 223/1991.<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
9.12 Ipotesi di esclusione<br />
Capitolo 9 - Il licenziamento collettivo<br />
Ai sensi dell’art. 24, co. 4, L. 223/1991, le disposizioni in materia di licenziamento collettivo<br />
non si applicano ai casi di:<br />
● scadenza dei rapporti di lavoro a termine;<br />
● fi ne lavoro nelle costruzioni edili;<br />
● attività stagionali o saltuarie.<br />
In tali ipotesi, infatti, non vi è un ridimensionamento della forza lavoro: la cessazione dei<br />
rapporti di lavoro è connaturata alla caratteristica dell’attività imprenditoriale esercitata che<br />
risente in modo particolare di un andamento produttivo ciclico.<br />
9.12.1 Rapporti a termine<br />
La disposizione richiama espressamente i rapporti a termine e non i contratti a termine,<br />
con la conseguenza che sono esclusi dall’ambito di applicazione della legge tutti i rapporti di<br />
lavoro in cui sia stabilito un termine di durata, come i contratti di formazione e lavoro, i contratti<br />
di apprendistato ed i lavoratori in prova. Al riguardo, e per completezza, si segnala come<br />
l’art. 2 della direttiva comunitaria 59/1998 escluda dall’ambito di applicazione della disciplina<br />
dei <strong>licenziamenti</strong> <strong>collettivi</strong> i contratti a tempo determinato «a meno che tali <strong>licenziamenti</strong> non<br />
avvengano prima della scadenza del termine». Sul punto si registrano soluzioni dottrinali differenti<br />
e non constano pronunce giurisprudenziali.<br />
9.12.2 Fine lavoro nell’edilizia<br />
In linea generale nel settore edile l’ipotesi di «fi ne lavoro» viene interpretata come fi siologico<br />
esaurimento dei lavori e non come riduzione strutturale dell’impresa, con la conseguenza<br />
che il licenziamento del personale determinato, appunto, dal compimento della commessa<br />
viene fatto rientrare nel licenziamento plurimo individuale per motivo oggettivo.<br />
Inoltre, nella nozione di fi ne lavoro nelle costruzioni edili viene fatto rientrare anche l’esaurimento<br />
di una fase dei lavori, in conseguenza del quale possono essere licenziati i dipendenti<br />
che siano stati addetti solo a tale fase, qualora sia impossibile il loro impiego in altre mansioni<br />
o attività (Cass. 22.6.2000, n. 8506).<br />
Si segnala peraltro che, secondo il più recente orientamento della Suprema Corte, la deroga<br />
alla disciplina dei <strong>licenziamenti</strong> <strong>collettivi</strong> nel caso di fi ne lavoro nelle costruzioni edili, prevista<br />
dall’art. 24 L. 223/1991, non può operare quando la fase lavorativa è in corso di graduale<br />
esaurimento, atteso che anche in tale ipotesi occorre procedere ad una scelta tra lavoratori da<br />
adibire alla ultimazione dei lavori e lavoratori da licenziare; scelta che deve seguire le regole<br />
fi ssate dagli artt. 4 e 5, L. 223/1991 (Cass. 12.8.2011, n. 17273).<br />
Pertanto, è necessario distinguere l’ipotesi in cui il licenziamento del personale sia connesso<br />
effettivamente alla «fi ne lavoro» o alla «fi ne fase lavorativa» da quello in cui il licenziamento<br />
sia determinato da una situazione di crisi per riduzione dell’attività, ipotesi che comporta<br />
l’applicazione dell’art. 24, L. 223/1991.<br />
9.12.3 Attività stagionali o saltuarie<br />
Sul concetto di attività stagionale la giurisprudenza della Suprema Corte ritiene che l’attività<br />
alberghiera non possa essere considerata stagionale in quanto, pur potendo l’impresa<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
71
72 Capitolo 9 - Il licenziamento collettivo<br />
stipulare contratti a termine e pur potendo essere caratterizzata da ritmi stagionali, non ha<br />
per propria natura carattere di precarietà e saltuarietà, salva l’esistenza di tali particolarità<br />
che devono essere provate rigorosamente dal datore di lavoro (Cass. 29.11.2000, n. 15290).<br />
Peraltro, si segnala che secondo la giurisprudenza di merito l’esclusione dalla disciplina dei<br />
<strong>licenziamenti</strong> <strong>collettivi</strong> non deve essere riferita limitatamente ai rapporti di lavoro a termine<br />
ma deve riguardare anche i rapporti di lavoro a tempo indeterminato. Diversamente, il riferimento<br />
alle attività stagionali contenuto nella disposizione dell’art. 24, co. 4, sarebbe già ricompreso<br />
nei casi di scadenza dei rapporti di lavoro a termine (Trib. Napoli, 24.1. 1994).<br />
9.13 Agenzie di somministrazione di lavoro<br />
Il D.Lgs. 10.9.2003, n. 276, ha introdotto nel nostro ordinamento giuridico agli artt. 20-28<br />
l’istituto della somministrazione di lavoro, anche a tempo indeterminato (cd. staff leasing).<br />
Tale istituto è stato successivamente abolito dall’art. 1, co. 46, della L. 24.12.2007, n. 247, con<br />
effetto dal 1°.1. 2008, e reintrodotto dall’art. 2, co. 143, L. 23.12.2009, n. 191.<br />
A tale ultimo riguardo ed ai limitati fi ni della presente trattazione viene in rilievo l’art. 22, co. 4,<br />
ai sensi del quale «le disposizioni di cui all’art. 4 della L. 23.7.1991, n. 223, non trovano applicazione<br />
anche nel caso di fi ne dei lavori connessi alla somministrazione a tempo indeterminato».<br />
Ne consegue che il licenziamento dei dipendenti del somministratore assunti a tempo indeterminato<br />
ed impiegati presso l’impresa utilizzatrice, nell’ipotesi in cui abbiano termine i<br />
«lavori connessi alla somministrazione», concreta una fattispecie di licenziamento plurimo<br />
individuale per motivo oggettivo.<br />
Infatti, l’ultimo capoverso del citato co. 4 dispone che in questo caso trova applicazione<br />
l’art. 3, L. 15.7.1966, n. 604.<br />
9.14 Requisiti dimensionali<br />
Come già sopra esposto la disciplina della procedura di mobilità trova applicazione alle<br />
sole imprese che abbiano alle proprie dipendenze globalmente più di 15 lavoratori, indipendentemente<br />
dall’articolazione dell’azienda in diverse unità produttive. Tale requisito numerico<br />
è soddisfatto anche ove vi sia un collegamento economico-funzionale tra più imprese che consenta<br />
di ravvisare un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro. Tale situazione ricorre<br />
in presenza dei seguenti requisiti: a) unicità della struttura organizzativa e produttiva; b) integrazione<br />
tra le attività esercitate dalle varie persone giuridiche del gruppo e il correlativo interesse<br />
comune; c) coordinamento tecnico e amministrativo-fi nanziario tale da individuare un<br />
unico soggetto direttivo che faccia confl uire le diverse attività delle singole imprese verso uno<br />
scopo comune; d) utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie<br />
persone giuridiche distinte, nel senso che la stessa sia svolta in modo indifferenziato e<br />
contemporaneamente in favore dei vari imprenditori (Cass. 10.4.2009, n. 8809).<br />
9.15 Riferimento temporale della consistenza numerica dell’impresa<br />
Per quanto concerne la fattispecie di licenziamento collettivo delle imprese ammesse alla<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 9 - Il licenziamento collettivo<br />
cassa integrazione straordinaria, l’art. 1, L. 223/1991, stabilisce espressamente che l’imprenditore<br />
deve avere occupato mediamente più di 15 dipendenti nel semestre precedente la data<br />
di presentazione della richiesta di intervento di integrazione salariale.<br />
La citata disposizione stabilisce altresì che debbano essere computati gli apprendisti e i<br />
lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro.<br />
Per quanto riguarda, invece, l’ipotesi disciplinata dall’art. 24, L. 223/1991, nulla viene espressamente<br />
previsto. Tuttavia si ritiene applicabile il medesimo orientamento giurisprudenziale formatosi<br />
in relazione al requisito occupazionale per l’applicazione dell’art. 18 S.L., secondo il quale<br />
il requisito occupazionale va riferito non già al criterio del numero dei lavoratori occupati alla<br />
data della intimazione del licenziamento, ma a quello della normale occupazione nel periodo<br />
antecedente alla data medesima, quale risultante dall’organigramma aziendale e senza tenere<br />
conto di contingenti ed occasionali riduzioni di personale (Cass. 9.12.1999, n. 13796).<br />
Occorre tuttavia segnalare come una parte della giurisprudenza di merito abbia assunto al<br />
riguardo una diversa posizione interpretativa, affermando che per l’art. 24 della L. 223/1991<br />
l’individuazione del momento in cui va verifi cata la consistenza numerica al fi ne dell’applicabilità<br />
della relativa disciplina è quello di apertura della procedura di mobilità (App. Milano, 14.3.e<br />
12.6.2003).<br />
9.16 Criteri di computabilità dei lavoratori<br />
Sotto altro profi lo la dottrina era divisa in merito alla computabilità nel novero dei 15 dipendenti<br />
dei lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro nonché degli apprendisti, rispetto<br />
ai cui contratti, peraltro, prima il D.Lgs. 10.9.2003, n. 276, e più recentemente il D.Lgs.<br />
14.9.2011 n. 167 (T.U. Apprendistato) sono intervenuti signifi cativamente prevedendo – da una<br />
parte – una nuova disciplina giuridica del contratto di apprendistato e – dall’altra – abrogato il<br />
contratto di formazione e lavoro, introdotto la fi gura del contratto di inserimento. Rispetto a<br />
quest’ultima tipologia contrattuale, tuttavia, la questione de qua è priva di rilievo pratico, atteso<br />
che la recente L. 92/2012 ha abrogato gli articoli 54 – 59 del D.Lgs. 276/2003 che disciplinavano<br />
il contratto di inserimento.<br />
Quanto all’apprendistato, parte della dottrina ritiene che gli apprendisti debbano essere<br />
computati al fi ne della verifi ca del requisito dimensionale richiesto dalla legge in analogia a<br />
quanto stabilito dall’art. 1, L. 223/1991 per la CIGS. Anche il Ministero del lavoro con circolare<br />
n. 62/1996 ha chiarito che tali rapporti di lavoro debbano essere computati nell’organico.<br />
Tuttavia, altra parte della dottrina si discosta da tale orientamento sostenendo la non computabilità<br />
di tali rapporti speciali nel novero dei 15 dipendenti, e ciò in quanto l’art. 21, comma<br />
7, L. 56/1987 (oggi abrogato dall’articolo 7, comma 6, del D.Lgs. 14.9.2011, n. 167), stabiliva<br />
l’esclusione di tali categorie di lavoratori dal computo dei limiti numerici previsti da leggi e<br />
contratti <strong>collettivi</strong> per l’applicazione di particolari normative e istituti.<br />
A sostegno di tale tesi milita il fatto che nell’art. 24, L. 223/1991, manca una disposizione<br />
derogatoria quale quella contenuta nell’art. 1, L. 223/1991, che espressamente consente il<br />
computo di tali lavoratori al fi ne della richiesta d’intervento della CIGS.<br />
Inoltre, l’art. 22, comma 5, del D.Lgs. 276/2003, introducendo un ulteriore vantaggio per il<br />
ricorso alla somministrazione, esclude dal calcolo il lavoratore «somministrato», il quale<br />
«non è computato nell’organico dell’utilizzatore ai fi ni della applicazione di normative di legge<br />
o di contratto collettivo».<br />
Quanto, poi, al lavoratore assunto con contratto di lavoro intermittente (cd. contratto a<br />
chiamata o «job on call»), l’art. 39, D.Lgs. 276/2003 prevede che costui «è computato nell’or-<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
73
74 Capitolo 9 - Il licenziamento collettivo<br />
ganico dell’impresa, ai fi ni della applicazione di normative di legge, in proporzione all’orario di<br />
lavoro effettivamente svolto nell’arco di ciascun semestre». Al riguardo, è interessante sottolineare<br />
come, a seguito dell’abrogazione del lavoro intermittente disposta dal Legislatore<br />
con l’art. 1, co. 45, della L. 24.12.2007, n. 247, il menzionato articolo ha ripreso vigore con la<br />
successiva emanazione del D.L. 25.6.2008, n. 112, convertito con modifi cazioni nella L.<br />
6.8.2008, n. 133, che ha reintrodotto tale tipologia contrattuale.<br />
Ugualmente non devono computarsi i lavoratori assunti a termine in sostituzione dei colleghi<br />
assenti.<br />
Da ultimo si segnala che la Suprema Corte è intervenuta sul punto chiarendo che i <strong>licenziamenti</strong><br />
per riduzione di personale di cui all’art. 24 della L. n. 223 del 1991 sono applicabili<br />
alle sole imprese che occupino più di quindici dipendenti. Nel relativo computo non si può<br />
applicare in via analogica il criterio indicato al primo co. dell’art. 1 della stessa legge – richiamato<br />
dall’art. 4 con riferimento alla valutazione del livello dimensionale dell’azienda<br />
previsto per i <strong>licenziamenti</strong> <strong>collettivi</strong> -, che, ai diversi fi ni dell’intervento della cassa integrazione<br />
guadagni, prevede l’inclusione nell’organico aziendale degli apprendisti e dei lavoratori<br />
assunti con contratto di formazione lavoro, non versandosi nella situazione di mancanza<br />
di una norma di legge atta a regolare direttamente la materia e non trattandosi pertanto di<br />
integrare una lacuna dell’ordinamento, in quanto la regolamentazione del licenziamento per<br />
riduzione di personale contenuta nella L. 223/1991 è autosuffi ciente, e rispetto ad essa la<br />
disciplina sancita per il licenziamento preceduto da CIG dalla stessa legge ha carattere eccezionale,<br />
prevista esclusivamente per tale tipo di recesso (Cass. 17.11.2003, n. 17384).<br />
Dovranno, di contro, essere computati i dirigenti, i lavoratori in prova nonché quelli con<br />
contratto a termine qualora, con riferimento a questi ultimi, e sempre in analogia con quanto<br />
avviene in tema di <strong>licenziamenti</strong> <strong>individuali</strong>, si inseriscano nel c.d. organico oggettivo,<br />
ossia nell’organico normalmente necessario per la produzione dell’azienda, ovvero non siano<br />
stati assunti per esigenze eccezionali.<br />
Del lavoratore part-time, sempre in base alla tecnica di rinvio adottata, si terrà conto per<br />
la quota di orario effettivamente svolto, con la precisazione che per il computo delle unità<br />
lavorative si deve far riferimento all’orario previsto dalla contrattazione collettiva del settore<br />
(Trib. Torre Annunziata 11.3.2009, che ha escluso la confi gurabilità di un licenziamento collettivo<br />
in un caso in cui il numero dei lavoratori interessati non era di 7ma, in proporzione<br />
dell’orario ordinario di lavoro svolto, di 1,75).<br />
9.17 Requisiti soggettivi<br />
È pacifi co che la disciplina dei <strong>licenziamenti</strong> <strong>collettivi</strong> si applichi agli operai, impiegati e<br />
quadri, e ciò in quanto è lo stesso co. 9 dell’art. 4, L. 223/1991, a disporre che, esaurita la procedura<br />
o raggiunto l’accordo sindacale, il datore di lavoro ha la facoltà di collocare in mobilità<br />
le citate categorie di dipendenti.<br />
Vi sono peraltro dubbi interpretativi circa la possibile applicazione della normativa anche ai<br />
dirigenti ed ai funzionari.<br />
Dirigenti e garanzie procedimentali<br />
In relazione ai dirigenti vi sono tesi difformi in dottrina. Da un lato, una parte della dottrina<br />
ritiene, con orientamento ritenuto preferibile, che la categoria dei dirigenti non rientri nell’ambito<br />
di applicazione delle garanzie procedimentali dell’art. 4, L. 223/1991, sul presupposto,<br />
oltre che di natura interpretativa del dato testuale, che tale categoria di lavoratori è esclusa<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 9 - Il licenziamento collettivo<br />
anche dalla disciplina limitativa dei <strong>licenziamenti</strong> <strong>individuali</strong>.<br />
Di contro, altra parte della dottrina ritiene invece che sia applicabile anche ai dirigenti la<br />
procedura relativamente all’informazione e consultazione nonché ai criteri di scelta.<br />
Sul punto la giurisprudenza di merito ha escluso la fondatezza della questione di illegittimità<br />
costituzionale dell’art. 24, L. 223/1991, nella parte in cui esclude i dirigenti dall’applicazione<br />
della procedura ma ha altresì ritenuto non manifestamente infondata la questione<br />
con riguardo a «quei dirigenti» il cui rapporto «non risulti caratterizzato in maniera determinante<br />
dall’elemento fi duciario» (Pret. Sassari, 3.12.1996).<br />
Quanto ai funzionari la giurisprudenza di merito sul punto è divisa, ritenendo talvolta che la<br />
categoria dei funzionari sia da assimilare a quella dirigenziale e talaltra a quella degli impiegati.<br />
Con riferimento alla fi gura dei funzionari nel settore del credito, la Suprema Corte ha<br />
ritenuto che gli stessi rientrino nell’ambito di applicazione della L. 223/1991 perché la fi gura<br />
del funzionario delle aziende di credito costituisce una qualifi ca di origine contrattuale che,<br />
sebbene ricompresa nell’ambito del personale direttivo, distinto da quello impiegatizio, si<br />
colloca in posizione inferiore a quella del dirigente, cosicché, in difetto di diverse disposizioni<br />
legislative, il principio generale ricavabile dall’ordinamento è nel senso del ricorso alle<br />
disposizioni concernenti gli impiegati in generale (Cass. 15.1. 2009, n. 857).<br />
9.18 Requisiti causali<br />
Sotto il profi lo causale l’art. 24, L. 223/1991, defi nisce come collettivo il licenziamento<br />
«conseguente ad una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro». Inoltre, la disciplina<br />
del licenziamento collettivo si applica anche alle ipotesi di cessazione dell’attività d’impresa<br />
(art. 24, co. 2) anche in concomitanza con un trasferimento d’azienda o di un suo ramo (Cass.<br />
29.4.2009, n. 10005).<br />
La giurisprudenza sviluppatasi a seguito dell’introduzione della L. 223/1991 ha superato il<br />
precedente indirizzo giurisprudenziale che riteneva esservi una differenza ontologica fra licenziamento<br />
collettivo e licenziamento individuale sul presupposto che il primo dovesse derivare<br />
esclusivamente da una contrazione non temporanea dell’attività produttiva dell’impresa<br />
che comportasse la soppressione di elementi materiali dell’organizzazione.<br />
In altre parole, venivano esclusi dai <strong>licenziamenti</strong> <strong>collettivi</strong> i <strong>licenziamenti</strong> derivanti da riduzione<br />
o trasformazione dell’attività di lavoro, compresi i cd. <strong>licenziamenti</strong> tecnologici, nonché<br />
quelli derivanti dalla cessazione di attività.<br />
A seguito del nuovo impianto normativo si è venuto a modifi care il precedente indirizzo<br />
giurisprudenziale.<br />
L’attuale consolidato orientamento della Suprema Corte ritiene che nel nuovo assetto normativo<br />
conseguente all’entrata in vigore della L. 223/1991 i <strong>licenziamenti</strong> <strong>collettivi</strong> si differenziano<br />
dai <strong>licenziamenti</strong> <strong>individuali</strong> plurimi per giustifi cato motivo oggettivo non più dal punto di<br />
vista ontologico o qualitativo – in quanto entrambi tali tipi di licenziamento sono caratterizzati<br />
dal necessario collegamento a motivi «non inerenti la persona del lavoratore» (come esplicitamente<br />
precisa il principio normativo comunitario posto dall’art. 1, lett. a, della direttiva citata)<br />
– ma esclusivamente per la necessaria sussistenza dei presupposti numerico-temporali<br />
richiesti dall’art. 24 della menzionata L. 223/1991 (Cass. 15.1. 2003, n. 525).<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
75
76 Capitolo 9 - Il licenziamento collettivo<br />
9.19 Direttiva CEE n. 75/129<br />
La Direttiva 75/129 è stata abrogata dalla Direttiva 98/59 del 20.7.1998, la quale all’art. 1 ha<br />
però ribadito che «per licenziamento collettivo si intende ogni licenziamento effettuato dal<br />
datore di lavoro per uno o più motivi non inerenti alla persona del lavoratore».<br />
Logica conseguenza di tale principio è che in presenza dei presupposti numerico-temporali,<br />
una volta accertato che la risoluzione del rapporto non è collegata a motivi inerenti la persona<br />
del lavoratore, deve senz’altro applicarsi la disciplina di cui alla L. 223/1991.<br />
Tale impostazione è del tutto coerente con la disciplina comunitaria laddove, come già osservato,<br />
essa dispone che il licenziamento collettivo sussiste per il fatto che la risoluzione del<br />
rapporto è determinata da motivi non inerenti la persona del lavoratore.<br />
In considerazione di tali princìpi la dottrina ritiene che il legislatore italiano avrebbe preso<br />
atto della sostanziale sussumibilità delle ragioni di «riduzione o trasformazione di attività o di<br />
lavoro» previste dall’art. 24 nelle «ragioni attinenti all’attività produttiva, all’organizzazione del<br />
lavoro ed al regolare funzionamento di essa» previste dall’art. 3 della L. 604/1966 per la sussistenza<br />
del giustifi cato motivo oggettivo nel licenziamento individuale.<br />
Sotto il profi lo applicativo, tale impostazione consente di ritenere che per la confi gurabilità<br />
del licenziamento collettivo occorre una riduzione non temporanea dell’attività produttiva ovvero,<br />
alternativamente, una trasformazione strutturale dell’impresa che comporti riduzione di<br />
uffi ci, reparti o lavorazioni (ad esempio, in relazione all’adozione di innovazioni tecnologiche),<br />
purché ciò determini una contrazione della forza lavoro, atteso che in entrambi i casi i <strong>licenziamenti</strong><br />
sono ricollegabili ad una scelta di carattere dimensionale dell’imprenditore (Cass.<br />
7.11.1998, n. 11251).<br />
Dunque, viene considerato licenziamento collettivo anche quello derivante da una riduzione<br />
o trasformazione dell’attività di lavoro in conseguenza di una riorganizzazione e, quindi,<br />
anche nell’ipotesi di licenziamento tecnologico.<br />
Secondo una recente pronuncia della Corte di Giustizia UE, gli artt. da 1 a 3 della direttiva<br />
del Consiglio in esame si applicano alla cessazione delle attività di un ente datore di lavoro<br />
conseguente ad una decisione giurisdizionale che dispone il suo scioglimento e la sua liquidazione,<br />
anche qualora la normativa nazionale, nel caso di tale cessazione, preveda la risoluzione<br />
con effetto immediato dei contratti di lavoro dei dipendenti. Ciò in quanto, fi no all’estinzione<br />
defi nitiva della personalità giuridica di un ente, gli obblighi derivanti da tali disposizioni devono<br />
essere adempiuti ed eseguiti dalla sua direzione, qualora essa resti in carica ancorché con<br />
poteri limitati, oppure dal suo liquidatore, laddove ne assuma integralmente la gestione (Corte<br />
di Giustizia Ue, 3.3.2011, da C-235/10 a C-239/10).<br />
9.20 Licenziamento collettivo per riduzione dell’attività dell’impresa<br />
Ancora, viene considerato licenziamento collettivo quello correlato alla riduzione o trasformazione<br />
di attività o di lavoro determinata da una diminuzione delle richieste di beni e servizi<br />
offerti sul mercato, da una situazione di crisi o da una modifi ca dell’organizzazione produttiva<br />
che comportino soppressione di uffi ci, reparti, lavorazioni o anche soltanto contrazione della<br />
forza lavoro (Cass. 18.11.1997, n. 11465).<br />
Col che, dunque, viene confermato che la fattispecie del licenziamento collettivo sussiste<br />
non solo quando la trasformazione strutturale dell’impresa incida su elementi materiali<br />
dell’organizzazione, comportando la soppressione di uffi ci o reparti, bensì anche quando la<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 9 - Il licenziamento collettivo<br />
trasformazione strutturale dipenda da una effettiva riduzione dell’attività produttiva o comunque<br />
da un ridimensionamento aziendale per calo di commesse o per l’adozione di una nuova<br />
tecnologia che, da un lato, aumenti la produttività e, dall’altro, renda esuberante il personale<br />
impiegato.<br />
In tale caso, infatti, il licenziamento collettivo è collegato ad una scelta di carattere dimensionale<br />
dell’imprenditore (Cass. 29.1. 1994, n. 895).<br />
9.21 Verifi ca giudiziale della procedura<br />
La portata interpretativa della giurisprudenza ha comportato una limitazione dell’indagine<br />
svolta da parte del giudice chiamato a decidere <strong>sulla</strong> legittimità dei <strong>licenziamenti</strong> intimati a<br />
seguito della procedura per riduzione del personale. Infatti, da un lato, l’accertamento del<br />
giudice è limitato alla verifi ca del nesso eziologico tra il progetto o la necessità di ridimensionamento<br />
ed i singoli provvedimenti di licenziamento (Cass. 18.11.1997, n. 11465), dall’altro,<br />
non possono trovare spazio in sede giudiziaria tutte quelle censure con le quali si fi nisce per<br />
investire l’autorità giudiziaria di un’indagine <strong>sulla</strong> presenza di «effettive» esigenze di riduzione<br />
o trasformazione dell’attività produttiva. Tale principio trova conferma nel fatto che la puntuale<br />
e completa procedimentalizzazione dei <strong>licenziamenti</strong> <strong>collettivi</strong> ha introdotto un signifi cativo<br />
elemento innovativo, consistente nel passaggio dal controllo giurisdizionale, esercitato ex post<br />
nel precedente assetto ordinamentale, ad un controllo dell’iniziativa imprenditoriale, concernente<br />
il ridimensionamento dell’impresa, devoluto ex ante alle organizzazioni sindacali, destinatarie<br />
di incisivi poteri di informazione e consultazione. I residui spazi di controllo devoluti al<br />
giudice in sede contenziosa non riguardano più, quindi, gli specifi ci motivi della riduzione del<br />
personale (a differenza di quanto accade in relazione ai <strong>licenziamenti</strong> per giustifi cato motivo<br />
obiettivo) ma la correttezza procedurale dell’operazione, con la conseguenza che non possono<br />
trovare ingresso in sede giudiziaria tutte quelle censure con le quali, senza contestare specifi -<br />
che violazioni delle prescrizioni dettate dai citati artt. 4 e 5 e senza fornire la prova di maliziose<br />
elusioni dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali e delle procedure di mobilità al<br />
fi ne di operare discriminazioni tra i lavoratori, si fi nisce per investire l’autorità giudiziaria di<br />
un’indagine <strong>sulla</strong> presenza di “effettive” esigenze di riduzione o trasformazione dell’attività<br />
produttiva. (Cass. 21 febbraio 2011, n. 4150).)<br />
Valga altresì osservare che in materia di licenziamento collettivo l’onere della prova della<br />
sussistenza dei requisiti prescritti dall’art. 24, L. 223/1991 incombe <strong>sulla</strong> parte (datore di lavoro<br />
o lavoratore) che sostenga che il licenziamento presenti i requisiti indicati dalla norma, senza<br />
che rilevi la diversa ripartizione dell’onere probatorio prevista dall’art. 5, L. 604/1966, in tema di<br />
prova della giusta causa o del giustifi cato motivo, attesa l’inapplicabilità della predetta normativa<br />
ai <strong>licenziamenti</strong> per riduzione di personale (art. 11, L. n. 604 cit.; Cass. 22.3.2010, n. 6849).<br />
9.22 Requisiti numerico-temporali<br />
L’art. 24, co. 1, recita testualmente che la normativa sui <strong>licenziamenti</strong> <strong>collettivi</strong> trova applicazione<br />
nell’ipotesi in cui l’imprenditore intenda «effettuare almeno cinque <strong>licenziamenti</strong>,<br />
nell’arco di centoventi giorni, in ciascuna unità produttiva o in più unità produttive nell’ambito<br />
del territorio di una stessa provincia».<br />
Tale disposizione ha dato adito a numerosi problemi interpretativi sotto diversi profi li.<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
77
78 Capitolo 9 - Il licenziamento collettivo<br />
Innanzitutto ci si è chiesti se al termine della procedura di mobilità il datore di lavoro debba<br />
comunque intimare effettivamente un numero di <strong>licenziamenti</strong> pari ad almeno cinque o se, di<br />
contro, si debba avere riguardo esclusivamente al numero di esuberi inizialmente denunciati<br />
nel programma di riduzione del personale, indipendentemente dai recessi in seguito effettivamente<br />
intimati dal datore di lavoro.<br />
La risposta a tale problema interpretativo è stata risolta nel senso che ciò che rileva affi nché<br />
si possa rientrare nella fattispecie di licenziamento collettivo è il momento iniziale di denuncia<br />
dell’esubero: è suffi ciente che al momento dell’avvio della procedura emerga l’intenzione<br />
dell’imprenditore di voler effettuare almeno 5 <strong>licenziamenti</strong>, e ciò a prescindere dal fatto<br />
che, in seguito, il numero dei <strong>licenziamenti</strong> effettivamente intimati sia inferiore alla soglia<br />
prevista dalla legge.<br />
Tale interpretazione trova principale conferma nel dato testuale della disposizione in commento<br />
che fa espresso riferimento «all’intenzione» del datore di lavoro e, dunque, al momento<br />
iniziale di avvio della procedura.<br />
In secondo luogo, siffatta interpretazione trova conferma nella stessa ratio della procedura<br />
di consultazione sindacale che è tesa proprio a ridurre il numero dei prospettati esuberi.<br />
A favore di tale interpretazione è anche il Ministero del lavoro che con la circolare 62/1996<br />
ha chiarito che «è corretta l’interpretazione per cui il numero dei <strong>licenziamenti</strong> <strong>collettivi</strong> può<br />
essere inferiore a cinque, purché al momento dell’avvio della procedura di mobilità il datore di<br />
lavoro abbia inteso procedere al licenziamento di almeno cinque unità».<br />
Siffatta soluzione è accolta anche dalla giurisprudenza di merito, secondo cui per poter qualifi<br />
care un licenziamento come collettivo ex lege 223/1991 è suffi ciente che, all’atto di attivazione<br />
della procedura, il datore di lavoro intenda addivenire alla risoluzione di almeno cinque rapporti<br />
di lavoro, indipendentemente dalla circostanza che, nelle more della procedura, il numero iniziale<br />
delle dichiarate eccedenze venga ridotto (Trib. Milano, 29 febbraio 2003). Tale orientamento è<br />
stato successivamente confermato dalla Suprema Corte (Cass. 22.1. 2007, n. 1334).<br />
Diversa è l’ipotesi del datore di lavoro che, ammesso al benefi cio della CIGS e non essendo<br />
in grado di garantire il reimpiego dei lavoratori sospesi, intenda procedere al licenziamento<br />
collettivo: in tale ipotesi, infatti, la procedura di mobilità dovrà essere esperita indipendentemente<br />
dal numero di lavoratori che, non essendo possibile riassorbire, devono essere collocati<br />
in mobilità (Pret. Trieste, 8.8.1998).<br />
Ipotesi diverse di cessazione del rapporto di lavoro e raggiungimento della soglia numerica<br />
delle cinque unità<br />
Sotto altro profi lo, ci si è chiesti se comunque un numero di <strong>licenziamenti</strong> inferiore a cinque<br />
non possa essere integrato con altre forme di recesso dal rapporto di lavoro, quali dimissioni,<br />
anche incentivate, o risoluzioni consensuali, sì da ricostruire ex post una fattispecie altrimenti<br />
individuale sotto il profi lo meramente numerico.<br />
A tale riguardo, la questione può dirsi risolta a seguito di diverse pronunce della Suprema<br />
Corte, la quale ha ancora di recente confermato che ai fi ni della sussistenza di un licenziamento<br />
collettivo e della applicabilità della relativa disciplina, il termine licenziamento va<br />
inteso in senso tecnico, non potendo ad esso parifi carsi qualunque altro tipo di cessazione<br />
del rapporto determinata (anche o soltanto) da una scelta del lavoratore, come nelle ipotesi<br />
di dimissioni, risoluzioni concordate, o prepensionamenti, anche ove tali forme di cessazione<br />
del rapporto siano riconducibili alla medesima operazione di riduzione delle eccedenze<br />
della forza lavoro che giustifi ca il ricorso ai <strong>licenziamenti</strong> (Cass. 29.3.2010, n. 7519). Tale<br />
principio si fonda sul presupposto che il dato testuale dell’art. 24 parla espressamente di<br />
almeno cinque <strong>licenziamenti</strong> ed il termine «licenziamento» nel nostro ordinamento costitu-<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 9 - Il licenziamento collettivo<br />
isce uno specifi co evento risolutorio identifi cabile secondo precise e inconfondibili categorie<br />
concettuali normativamente regolate e diverse da tutte le altre fattispecie risolutorie.<br />
Infi ne, si segnala che la giurisprudenza di legittimità di recente ha altresì precisato in modo<br />
innovativo che l’art. 24 citato deve essere interpretato nel senso che ove i <strong>licenziamenti</strong> adottati<br />
dal datore di lavoro nell’arco di centoventi giorni, in ciascuna unità produttiva o in più unità<br />
produttive nell’ambito di una stessa provincia, comunque riconducibili alla medesima riduzione<br />
o trasformazione di attività o di lavoro, non superino il numero minimo di cinque, non è<br />
possibile assimilare a questi altre cessazioni del rapporto di lavoro riconducibili ad iniziativa<br />
del datore di lavoro per una o più ragioni non inerenti alla persona del lavoratore; solo una<br />
volta raggiunto il numero di cinque <strong>licenziamenti</strong> nell’arco temporale di centoventi giorni, anche<br />
altre ipotesi risolutorie restano assoggettate alle procedure di mobilità ed ai criteri di<br />
scelta dei lavoratori (Cass. 22.1. 2007, n. 1334).<br />
9.23 Procedura<br />
La L. 223/1991 prevede che, prima che possano essere intimati i <strong>licenziamenti</strong> <strong>collettivi</strong><br />
ritenuti necessari, l’imprenditore deve esperire la procedura a carattere consultivo c.d. di mobilità.<br />
Tale procedura è disciplinata dall’art. 4, commi da 2 a 12 nonché 15bis, ed è unica per entrambe<br />
le fattispecie di licenziamento collettivo previste dall’art. 4 e dall’art. 24, L. 223/1991.<br />
Infatti, l’art. 24 richiama espressamente l’applicazione dei sopra citati commi dell’art. 4.<br />
In linea generale tale procedura si suddivide in due fasi: la prima di consultazione in sede<br />
sindacale e la successiva, ed eventuale, in sede amministrativa presso i competenti uffi ci.<br />
Consultazione in sede sindacale<br />
La prima fase deve essere esperita entro il termine di 45 giorni dalla data di ricevimento<br />
della comunicazione di avvio trasmessa dal datore di lavoro ai destinatari previsti ex lege (art.<br />
4, co. 6).<br />
Consultazione in sede amministrativa<br />
La seconda eventuale fase ha una durata massima di 30 giorni a partire dal ricevimento da<br />
parte dell’uffi cio competente dell’esito della consultazione tenutasi in sede sindacale (art. 4,<br />
co. 7).<br />
Tali termini sono ridotti a metà se il licenziamento collettivo coinvolge un numero di lavoratori<br />
inferiore a 10 unità (art. 4, co. 8).<br />
Termini<br />
In relazione a tali termini si osserva che la legge stabilisce solo un termine massimo ma<br />
non fornisce alcuna indicazione di un termine minimo al raggiungimento del quale scatta la<br />
facoltà dell’imprenditore di procedere ai <strong>licenziamenti</strong>.<br />
Tuttavia, la Suprema Corte ha precisato che va dichiarata l’ineffi cacia dei <strong>licenziamenti</strong><br />
<strong>collettivi</strong> intimati in un momento antecedente all’esaurimento della procedura di mobilità prevista<br />
dai commi 6, 7 e 8 dell’art. 4, L. 223/1991 o al raggiungimento, in seno a detta procedura,<br />
di un accordo sindacale (Cass. 2.8.2001, n. 10576). Ovvia conseguenza di tale principio è che in<br />
assenza di un accordo sindacale i <strong>licenziamenti</strong> devono essere intimati solo a seguito dell’esaurimento<br />
di tutta la proceduta (45 + 30 giorni).<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
79
80 Capitolo 9 - Il licenziamento collettivo<br />
Sotto altro profi lo la Corte di legittimità ha affermato che i termini indicati dall’art. 4 non<br />
sono posti a tutela dei lavoratori bensì del datore di lavoro, a garanzia che la procedura non<br />
venga procrastinata oltre il tempo ritenuto dal legislatore congruo per la ricerca di ogni possibile<br />
superamento della situazione determinante la necessità di riduzione del personale.<br />
Tale orientamento si pone in linea con quanto già affermato in precedenza dalla giurisprudenza<br />
di merito che aveva ritenuto la natura ordinatoria di tali termini, sì che il superamento<br />
della durata massima consentita dalla legge non comporta la violazione della procedura di<br />
mobilità (Pret. Torino, 5.1. 1993).<br />
9.24 Consultazione in sede sindacale<br />
Destinatari dell’obbligo di informazione<br />
La procedura ha inizio con l’invio di un’apposita comunicazione scritta, che deve avere i<br />
determinati contenuti previsti dall’art. 4, co. 2, L. n. 223/1991, alle rappresentanze sindacali<br />
aziendali costituite ai sensi dell’art. 19 della L. 20.5.1970, n. 300 nonché alle rispettive associazioni<br />
di categoria (ovvero alle associazioni nell’ambito delle quali tali rappresentanze sono<br />
state costituite). In assenza delle predette rappresentanze, la comunicazione deve essere inviata<br />
alle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano<br />
nazionale (art. 4, co. 2).<br />
La disposizione legislativa precisa, inoltre, che la comunicazione di avvio della procedura<br />
può essere effettuata anche per il tramite dell’associazione datoriale alla quale l’impresa aderisce<br />
o conferisce mandato.<br />
Esame congiunto<br />
Tale comunicazione deve essere trasmessa anche all’organo amministrativo competente in<br />
materia di procedure di consultazione nell’ambito di operazioni di riduzione di personale. In<br />
relazione a ciò, la L. 23.12.1997, n. 469, in materia di «conferimento alle regioni e agli enti locali<br />
di funzioni e compiti in materia di mercato del lavoro» ha attribuito alla Regione la competenza<br />
a promuovere «l’esame congiunto previsto nelle procedure relative agli interventi di integrazione<br />
salariale straordinaria nonché quello previsto per la dichiarazione di mobilità del<br />
personale» (art. 2, L. 469/1997). Si segnala che in talune Regioni la competenza in materia di<br />
esame congiunto è stata demandata a livello provinciale in virtù di leggi regionali speciali.<br />
Così che, in base a tale legge di devoluzione regionale, per le procedure di riduzione del<br />
personale non è più competente la Direzione territoriale del lavoro.<br />
Comunicazione alle associazioni sindacali dei lavoratori<br />
L’interpretazione letterale dell’art. 4, c. 2, L. 223/1991, induce ragionevolmente a ritenere<br />
che in presenza di RSA o RSU (dopo gli Accordi Interconfederali del 3.7.1993 e del<br />
12.12.successivo) la comunicazione vada inoltrata alle sole associazioni sindacali territoriali<br />
nel cui ambito le RSA/RSU siano state costituite ai sensi dell’art. 19 S. L., e non anche<br />
alle associazioni di categoria aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative<br />
sul piano nazionale.<br />
Tale interpretazione ha ricevuto l’avallo della giurisprudenza più recente ma non sono<br />
mancate in passato pronunce in senso contrario.<br />
Pertanto, qualora vi siano RSA o RSU in azienda, «la titolarità del diritto all’informativa e<br />
alla consultazione non spetta alle organizzazioni sindacali che non abbiano costituito rappre-<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 9 - Il licenziamento collettivo<br />
sentanze sindacali aziendali» (Pret. Milano, 26.6.1997).<br />
Inoltre, in presenza di più sigle sindacali la comunicazione deve essere indirizzata e trasmessa<br />
a ciascuna sigla (anche se contestualmente alle altre), non essendo suffi ciente un’unica<br />
comunicazione cumulativa ad un soggetto.<br />
Uffi cio del Lavoro competente<br />
Infi ne, rimane da considerare quale sia l’Uffi cio del Lavoro competente nell’ipotesi in cui la<br />
procedura di mobilità riguardi più unità produttive dislocate in diverse province o in diverse<br />
regioni.<br />
Nell’ipotesi in cui si tratti di impresa che abbia fruito del periodo di Cassa integrazione<br />
straordinaria, il co. 15 dell’art. 4 prevede che sia competente l’Uffi cio Regionale del Lavoro se<br />
la mobilità riguarda più province ed il Ministero del lavoro se la procedura di mobilità riguarda<br />
più regioni.<br />
Peraltro, si segnala che, in linea con tale disposizione e con la riforma sulle attribuzioni dei<br />
compiti agli enti locali, il D.P.R. 10.6.2000, n. 218, relativo alla semplifi cazione del procedimento<br />
per la concessione del trattamento di cassa integrazione guadagni straordinaria, stabilisce<br />
all’art. 2, co. 3, che competente per l’esame congiunto è la Regione qualora «l’intervento riguardi<br />
unità aziendali ubicate in una sola regione»; il Ministero del lavoro «qualora l’intervento<br />
riguardi unità aziendali ubicate in più regioni».<br />
Per quanto riguarda, invece, la procedura di mobilità relativa a più unità produttive dislocate<br />
in diverse province o regioni attuata senza il preventivo ricorso alla CIGS, l’art. 24, L.<br />
223/1991, richiama i commi da 2 a 12 dell’art. 4, e non anche il co. 15.<br />
Sul punto, a seguito del conferimento a livello regionale della materia che qui interessa si<br />
dovrebbe poter ritenere che la competenza spetti in ogni caso alla Regione.<br />
È invece escluso che i lavoratori coinvolti nella procedura di mobilità rientrino nel novero<br />
dei soggetti destinatari della comunicazione di avvio della procedura (Cass. 5.4.2000, n. 4228).<br />
Comitato aziendale europeo<br />
Il D.Lgs. 2.4.2002, n. 74, ha attuato la Direttiva comunitaria 45/1994 del 22.9.1994 relativa<br />
all’istituzione di un Comitato aziendale europeo (cd. CAE) o di una procedura per l’informazione<br />
e la consultazione dei lavoratori nelle imprese e nei gruppi di imprese di dimensione comunitaria.<br />
Tale decreto, che è ispirato a migliorare il diritto all’informazione e alla consultazione dei<br />
lavoratori nelle imprese nelle quali si applica, fa espressamente salva la disposizione dell’art.<br />
24, L. 223/1991, e stabilisce altresì al co. 10 dell’art. 16 che il CAE ha diritto di essere informato<br />
«qualora si verifi chino circostanze eccezionali che incidano notevolmente sugli interessi dei<br />
lavoratori, in particolare nel caso di delocalizzazione, chiusura di imprese o di stabilimenti,<br />
oppure <strong>licenziamenti</strong> <strong>collettivi</strong>».<br />
Comunicazioni preventive previste dai contratti <strong>collettivi</strong><br />
I contratti <strong>collettivi</strong> possono talvolta stabilire un obbligo preventivo a carico del datore di<br />
lavoro di informazione e/o consultazione delle RSA o RSU presenti in azienda circa l’intenzione<br />
di procedere alla riduzione del personale, e ciò prima ancora dell’avvio uffi ciale della c.d. procedura<br />
di mobilità.<br />
Comunicazione di avvio della procedura<br />
La comunicazione di avvio della procedura deve contenere (art. 4, co. 3, come modifi cato<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
81
82 Capitolo 9 - Il licenziamento collettivo<br />
dal D.Lgs. 26.5.1997, n. 151):<br />
- l’indicazione dei motivi che determinano la situazione di eccedenza;<br />
- l’indicazione dei motivi tecnici, organizzativi o produttivi per i quali si ritiene di non poter<br />
adottare misure idonee a porre rimedio alla predetta situazione ed evitare, in tutto o in parte,<br />
la dichiarazione di mobilità;<br />
- l’indicazione del numero, della collocazione aziendale e dei profi li professionali del personale<br />
eccedente, nonché del personale abitualmente impiegato;<br />
- l’indicazione dei tempi di attuazione del programma di mobilità;<br />
- l’indicazione delle eventuali misure programmate per fronteggiare le conseguenze sul piano<br />
sociale della attuazione del programma medesimo;<br />
- l’indicazione del metodo di calcolo di tutte le attribuzioni patrimoniali diverse da quelle già<br />
previste dalla legislazione vigente e dalla contrattazione collettiva. Alla comunicazione deve<br />
essere allegata copia della ricevuta di versamento all’Inps del contributo di ingresso previsto<br />
dall’art. 5, co. 4, L. 223/1991, ciò solo nel caso in cui l’impresa rientri nel campo di applicazione<br />
della CIGS.<br />
Inadempimento degli obblighi di informazione<br />
Il contenuto della comunicazione ex art. 4, co. 3, deve essere tale da consentire all’interlocutore<br />
sindacale di esercitare in maniera trasparente e consapevole un effettivo controllo <strong>sulla</strong><br />
programmata riduzione di personale, valutando anche la possibilità di misure alternative al<br />
programma di esubero.<br />
Sul punto, la giurisprudenza di legittimità ha statuito che sono ineffi caci i <strong>licenziamenti</strong><br />
comminati in esito ad una procedura di mobilità la cui comunicazione di avvio non rechi l’indicazione<br />
dei motivi tecnici, organizzativi e produttivi che impediscono l’adozione di misure<br />
atte ad evitare la dichiarazione di mobilità (Cass. 11.4.2003, n. 5770), atteso che tale informazione<br />
deve consentire all’interlocutore sindacale di esercitare in maniera trasparente e<br />
consapevole un effettivo controllo <strong>sulla</strong> programmata riduzione di personale, valutando anche<br />
la possibilità di misure alternative all’esubero, con la conseguenza che l’incompletezza<br />
delle informazioni in questione risulta ontologicamente impeditiva di una profi cua partecipazione<br />
alla cogestione della crisi da parte del sindacato (Cass. 9.8.2004, n. 15377). Peraltro,<br />
ha precisato la stessa Corte di Cassazione, la suffi cienza dei contenuti della comunicazione<br />
preventiva deve essere valutata in relazione ai motivi della riduzione di personale, sottratti<br />
al controllo giurisdizionale, cosicché, nel caso di progetto imprenditoriale diretto a ridimensionare<br />
l’organico dell’intero complesso aziendale al fi ne di diminuire il costo del lavoro,<br />
l’imprenditore può limitarsi all’indicazione del numero complessivo dei lavoratori eccedenti,<br />
in presenza della conclusione di un accordo con i sindacati all’esito della procedura, che,<br />
nell’ambito delle misure idonee a ridurre l’impatto sociale dei <strong>licenziamenti</strong>, adotti il criterio<br />
di scelta del possesso dei requisiti per l’accesso alla pensione o, comunque, incentrato <strong>sulla</strong><br />
maggiore prossimità del diritto a pensione (Cass. 13.1. 2012, n. 391; in senso analogo,<br />
Cass. 1.12.2010, n. 24343).<br />
Parimenti, nell’ipotesi di cessazione totale dell’attività aziendale, non sussiste l’obbligo da<br />
parte dell’imprenditore di specifi care i motivi del mancato ricorso ad altre forme occupazionali,<br />
proprio perché tale informazione si giustifi ca in funzione della possibilità di reimpiego dei<br />
lavoratori denunciati in esubero, situazione che presuppone la continuazione dell’attività di<br />
impresa (Cass. 4.11.2000, n. 14416).<br />
Cosiccome il datore di lavoro non è tenuto a motivare circa la ravvisata impossibilità di ricorrere<br />
a misure diverse dal licenziamento, ove il progetto di ristrutturazione riguardi la chiusura<br />
di un settore aziendale del tutto autonomo, tale da escludere la fungibilità del personale<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 9 - Il licenziamento collettivo<br />
addettovi con quello restante (Cass. 10.5.2003, n. 7169).<br />
Quanto, invece, ai criteri di scelta, il datore di lavoro può legittimamente ometterne il riferimento<br />
nella comunicazione di avvio poiché tali criteri, che possono essere di fonte legale<br />
oppure contrattuale, non possono essere fi ssati unilateralmente dall’imprenditore (Cass. 25<br />
febbraio 1999, n. 1649).<br />
L’inadeguatezza delle informazioni determina l’ineffi cacia dei <strong>licenziamenti</strong> intimati all’esito<br />
della procedura.<br />
Si segnala, peraltro, che l’art. 1, co. 45, della recente L. 92/2012, ha aggiunto un periodo<br />
all’articolo 4, co. 12, della L. 223/1991, prevedendo che gli eventuali vizi della comunicazione<br />
preventiva alle rappresentanze sindacali aziendali e alle rispettive associazioni di categoria –<br />
con la quale inizia la procedura di licenziamento collettivo in esame – possono essere sanati,<br />
ad ogni effetto di legge, nell’ambito di un accordo sindacale concluso nel corso della medesima<br />
procedura.<br />
La novella legislativa si inserisce nel solco del più recente orientamento giurisprudenziale in<br />
tema di procedura di mobilità secondo cui, quando sia stato raggiunto un accordo sindacale, il<br />
controllo giurisdizionale ex post su legittimità e correttezza della procedura (in relazione agli artt.<br />
4 e 5 della L. 223/1991) si risolve nella verifi ca dell’idoneità della comunicazione di avvio alle organizzazioni<br />
sindacali a fuorviare od eludere l’esercizio dei poteri di controllo preventivo attribuiti alle<br />
organizzazioni sindacali. Coerentemente, nel caso in cui sia stato raggiunto l’accordo sindacale,<br />
eventuali vizi (quali l’incompletezza o l’erroneità) della stessa comunicazione di avvio della procedura<br />
non sono rilevanti al fi ne dell’ineffi cacia del licenziamento intimato all’esito della procedura,<br />
ove non risulti dimostrata la idoneità effettiva dei vizi denunciati a fuorviare od eludere l’esercizio<br />
dei poteri di controllo preventivo attribuiti alle organizzazioni sindacali (Cass. 19.1. 2012, n. 750).<br />
Contributo di ingresso<br />
Le imprese benefi ciarie del trattamento di integrazione salariale straordinaria sono tenute a<br />
versare il contributo c.d. di ingresso all’Inps, che consiste in un’anticipazione pari ad una mensilità<br />
di massimale CIGS per ogni lavoratore denunciato in esubero (art. 4, co. 3). La ricevuta del versamento<br />
così effettuato deve essere allegata alla comunicazione di avvio della procedura da trasmettere<br />
alle organizzazioni sindacali di cui al co. 2 dell’art. 4 ed all’Uffi cio del lavoro competente.<br />
Tale versamento è un’anticipazione di quanto le imprese suddette devono complessivamente<br />
versare all’Inps. In particolare, l’importo complessivo è di 9 volte il trattamento mensile<br />
iniziale di mobilità spettante al lavoratore moltiplicato per ciascun lavoratore dichiarato in<br />
esubero per le imprese che, benché ammesse al trattamento di integrazione salariale, non<br />
abbiano esperito il ricorso alla CIGS prima di procedere al licenziamento collettivo (art. 24, co.<br />
3). Per le imprese che, invece, procedono al licenziamento collettivo a seguito di un periodo di<br />
Cassa integrazione guadagni straordinaria, il contributo complessivo è pari a 6 volte il trattamento<br />
mensile iniziale di mobilità spettante a ciascun lavoratore (art. 5, co. 4).<br />
In caso di raggiungimento dell’accordo sindacale il contributo di mobilità dovuto sia ex art.<br />
4 che ex art. 24 è ridotto a 3 mesi (art. 5, co. 4 e art. 24, co. 3).<br />
La disciplina in commento prevede, poi, la possibilità per gli imprenditori di versare il contributo<br />
in 30 rate mensili (art. 4, co. 3).<br />
Inoltre, nel caso in cui l’azienda collochi in mobilità un numero di lavoratori inferiore a<br />
quanto dichiarato in esubero la medesima può procedere al recupero delle somme pagate in<br />
eccedenza mediante conguaglio con i contributi dovuti all’Inps (art. 4, co. 10).<br />
Infi ne, l’art. 8, co. 8, L. 236/1993, dispone che il mancato versamento del contributo di mobilità<br />
non comporta la sospensione della procedura di mobilità né la perdita da parte dei lavoratori<br />
interessati del diritto a percepire l’indennità di mobilità.<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
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84 Capitolo 9 - Il licenziamento collettivo<br />
Il trattamento di integrazione salariale, cui è rapportata l’indennità di mobilità, viene determinato<br />
di anno in anno. Secondo la circolare Inps 8 febbraio 2012, n. 20, per l’anno 2012 il<br />
massimale mensile è pari a Euro 931,28 lordi per le retribuzioni mensili sino a Euro 2.014,77,<br />
ed Euro 1.119,32 lordi per le retribuzioni mensili che superano la soglia di Euro 2.014,77.<br />
L’indennità di mobilità viene corrisposta mensilmente dall’Inps.<br />
Disposizioni transitorie e abrogatio legis in relazione alla indennità di mobilità<br />
La recente L. 92/2012 ha introdotto un nuovo istituto denominato “Assicurazione Sociale<br />
per l’Impiego” – Aspi, gestito dall’Inps, gestioni prestazioni temporanee, con la funzione di<br />
fornire ai lavoratori che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione un’indennità<br />
mensile di disoccupazione. Detta indennità mensile di disoccupazione si sostituirà dal<br />
2016 all’indennità di mobilità. Dal 2013 al 2016 si assisterà, invece, a una graduale diminuzione<br />
del periodo di mobilità. In particolare, l’art. 2, comma 46, della L. 92/2012 disciplina il regime<br />
transitorio applicabile ai lavoratori collocati in mobilità, in relazione al periodo dal 1º<br />
gennaio 2013 al 31 dicembre 2016. Viene defi nita la durata massima decrescente del trattamento<br />
di mobilità da attribuire ai lavoratori collocati in mobilità per ciascuno degli anni<br />
2013/2016, rapportando la durata del trattamento medesimo all’età dei lavoratori interessati.<br />
In tal senso viene stabilita in dodici mesi la durata minima attribuibile ai lavoratori più giovani,<br />
e in quarantotto mesi la durata massima decrescente attribuibile ai lavoratori più anziani. Infi<br />
ne, l’art. 2, commi 70 e 71, della L. 92/2012 abroga le disposizioni della L. 223/1991 in tema<br />
di intervento straordinario di integrazione salariale a decorrere dal 1° gennaio 2016 e quelle in<br />
materia di indennità di mobilità dal 1° gennaio 2017.<br />
Esame congiunto<br />
Una volta inoltrata la comunicazione di avvio della procedura di mobilità ai destinatari<br />
previsti ex lege, entro sette giorni dal ricevimento dell’ultima comunicazione, a richiesta<br />
delle rappresentanze sindacali aziendali e delle rispettive associazioni di categoria, si procede<br />
all’esame congiunto tra le parti (art. 4, co. 5). Lo scopo della consultazione sindacale è<br />
quello di esaminare le cause che hanno contribuito a determinare l’eccedenza del personale<br />
e la possibilità di utilizzazione diversa di tutto o di parte del personale in esubero, anche<br />
mediante contratti di solidarietà e forme fl essibili di gestione del tempo di lavoro. Inoltre,<br />
l’esame ha per oggetto anche la possibilità di ricorrere a misure sociali di accompagnamento<br />
intese, in particolare, a facilitare la riqualifi cazione e la riconversione dei lavoratori in<br />
esubero. I rappresentanti sindacali dei lavoratori possono farsi assistere anche da esperti.<br />
La titolarità di richiedere l’esame congiunto spetta ad ogni componente della RSU (Trib. Milano,<br />
26.2.1999) e il datore di lavoro non ha la possibilità di escludere dalla procedura di consultazione<br />
un sindacato a sua discrezione, pena la confi gurabilità di una condotta antisindacale.<br />
Nell’ambito della consultazione sindacale il datore di lavoro è tenuto al rispetto degli obblighi<br />
di correttezza e buona fede: l’indisponibilità o il rifi uto a trattare con le organizzazioni sindacali<br />
costituisce condotta antisindacale (Pret. Milano, 25.3.1994).<br />
Al di là dell’obbligo di comportarsi secondo correttezza e buona fede, il datore di lavoro non<br />
ha invece alcun obbligo di raggiungere l’accordo sindacale.<br />
Nell’ipotesi in cui le parti raggiungano l’accordo sindacale, l’imprenditore ha facoltà di collocare<br />
in mobilità il personale in esubero. Laddove, invece, l’accordo non venga raggiunto,<br />
esaurito il periodo temporale di 45 giorni previsto dalla legge si passa alla successiva fase in<br />
sede amministrativa.<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 9 - Il licenziamento collettivo<br />
Accordo sindacale<br />
Abbiamo già osservato come il datore di lavoro non abbia alcun obbligo di concludere un<br />
accordo con le rappresentanze sindacali.<br />
Laddove, invece, le parti collettive riescano a raggiungerlo, la procedura deve intendersi<br />
esaurita e il datore di lavoro può procedere a collocare i lavoratori in mobilità. Con la conclusione<br />
dell’accordo l’onere fi nanziario dell’imprenditore relativo al contributo di mobilità si riduce<br />
considerevolmente: come abbiamo già accennato sopra, dalle 9 mensilità per i <strong>licenziamenti</strong><br />
<strong>collettivi</strong> ex art. 24, e dalle 6 mensilità per quelli ex art. 4, il contributo scende<br />
complessivamente a tre mesi (art. 24, co. 3, e art. 5, co. 4).<br />
Il contenuto dell’accordo sindacale può essere vario. Le parti possono stabilire convenzionalmente<br />
i criteri di scelta da osservare per il licenziamento del personale in esubero in deroga<br />
ai criteri legali previsti dall’art. 5, oppure pattuire il ricorso a misure alternative, quali la<br />
CIGS o i contratti di solidarietà, o il ricorso collettivo e generalizzato al part-time, oppure ancora<br />
possono stabilire il riassorbimento, totale o parziale, degli esuberi.<br />
Inoltre, l’art. 4, co. 11, L. 223/1991, prevede che le parti possano stabilire, anche in deroga<br />
al secondo co. dell’art. 2103 c.c., l’assegnazione di tutto o parte del personale in esubero a<br />
mansioni diverse ed inferiori sotto il profi lo dell’equivalenza professionale rispetto a quelle<br />
svolte.<br />
L’art. 8, co. 2, L. 236/1993 prevede altresì che gli accordi sindacali possano regolare il comando<br />
o distacco di uno o più lavoratori dall’impresa di appartenenza ad un’altra per una durata<br />
temporanea.<br />
Il contenuto dell’accordo sindacale può anche riguardare il periodo temporale entro il quale<br />
i <strong>licenziamenti</strong> devono essere intimati, in deroga a quanto disposto dalla legge. Infatti, l’art.<br />
8, co. 4, L. 236/1993, stabilisce che la facoltà di collocare in mobilità i dipendenti in esubero<br />
deve essere esercitata per tutti i lavoratori oggetto della procedura di mobilità entro 120 giorni<br />
dalla conclusione della procedura medesima ma attribuisce nel contempo alle parti collettive<br />
la facoltà di derogare a tale termine.<br />
La norma non dispone nulla circa il limite massimo possibile consentito per la deroga. La dottrina<br />
espressasi sul punto ha ritenuto che debba ritenersi legittima non solo la deroga ai 120 giorni bensì<br />
anche una proroga superiore che sia giustifi cata in base alle caratteristiche del caso concreto.<br />
Effi cacia degli accordi <strong>collettivi</strong><br />
Con riguardo all’effi cacia dell’accordo sindacale, la dottrina è divisa: a fronte di chi ritiene<br />
che tali tipi di accordi non possano che avere effi cacia erga omnes, e quindi debbano valere nei<br />
confronti di tutti i lavoratori interessati a prescindere dalla loro affi liazione ad una organizzazione<br />
sindacale, vi è una parte minoritaria che esclude la loro effi cacia soggettiva generalizzata<br />
in assenza dell’accettazione e della specifi ca procura dei singoli lavoratori interessati.<br />
La scarna giurisprudenza di merito sul punto ha aderito al primo dei succitati orientamenti<br />
dottrinali, ritenendo che gli accordi <strong>collettivi</strong> di cui alla L. 223/1991, che intervengono sui<br />
criteri di scelta dei lavoratori da porre in mobilità e/o in CIG, in quanto gestionali, e cioè tali da<br />
introdurre limitazioni al potere originario ed unilaterale del datore di lavoro, sono direttamente<br />
applicabili ai lavoratori non iscritti ai sindacati stipulanti (Pret. Brindisi, 23.9.1999).<br />
Peraltro la questione è stata defi nitivamente risolta dalla Consulta che con la sentenza<br />
268/1994 ha ritenuto di generale applicazione i criteri di scelta eventualmente indicati dall’accordo<br />
sindacale raggiunto all’esito della procedura di mobilità, arrivando in tal modo, sia pure indirettamente,<br />
a riconoscere un’effi cacia soggettiva generalizzata a tali tipi di contratto collettivo.<br />
Quanto, poi, alla problematica relativa alla possibilità che l’accordo non venga accettato da tutte<br />
le organizzazioni sindacali coinvolte, anche su questo punto la dottrina non ha espresso opinioni<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
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86 Capitolo 9 - Il licenziamento collettivo<br />
concordi. Da un lato, infatti, vi sono autori che ritengono necessaria l’accettazione dell’accordo da<br />
parte di tutti i soggetti sindacali che sono coinvolti nella procedura e che hanno chiesto l’esame<br />
congiunto. Dall’altro lato, altri autori sostengono che l’accordo possa considerarsi validamente<br />
raggiunto anche se non accettato da tutte le componenti sindacali, e ciò sul presupposto che la<br />
ratio della legge in commento privilegia in ogni caso la soluzione contrattuale.<br />
Alla stregua del principio affermato dalla Corte Costituzionale, la Suprema Corte ha statuìto<br />
che, in materia di <strong>licenziamenti</strong> <strong>collettivi</strong>, l’accordo sindacale che determina i criteri di<br />
scelta dei lavoratori da licenziare possa essere concluso dalla maggioranza dei lavoratori direttamente<br />
o attraverso le associazioni sindacali che li rappresentano, senza la necessità<br />
dell’approvazione dell’unanimità, poiché esso adempie ad una funzione regolamentare delegata<br />
dalla legge (Cass. 24.4.2007, n. 9866).<br />
Oggi tuttavia entrambe le problematiche sopra riportate sembrano essere state risolte dal Legislatore.<br />
Infatti, la recente L. 14.9.2011, n. 148 (cd. Manovra Bis, di conversione del D.L. 13.8.2011<br />
n. 138), all’art. 8 stabilisce che i contratti <strong>collettivi</strong> di lavoro sottoscritti a livello aziendale o territoriale<br />
da associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o<br />
territoriale ovvero dalle loro rappresentanze sindacali presenti in azienda ai sensi della normativa<br />
di legge e degli accordi interconfederali vigenti possono realizzare specifi che intese aventi effi cacia<br />
nei confronti di tutti i lavoratori interessati (effi cacia cd. erga omnes), a condizione di essere sottoscritte<br />
<strong>sulla</strong> base di un criterio maggioritario relativo alle predette rappresentanze sindacali. Tra le<br />
fi nalità che deve perseguire la cd. contrattazione collettiva “di prossimità” perché si realizzi l’effi -<br />
cacia erga omnes, l’art. 8 succitato annovera anche la “gestione delle crisi aziendali”, con evidente<br />
riferimento agli accordi in tema di cassa integrazione e di mobilità.<br />
9.25 Consultazione in sede amministrativa<br />
Qualora non venga raggiunto l’accordo sindacale, decorso il termine di 45 giorni il datore di<br />
lavoro deve comunicare all’uffi cio competente il risultato della consultazione e i motivi del suo<br />
esito negativo. Analoga comunicazione può essere trasmessa anche dalle associazioni sindacali<br />
dei lavoratori (art. 4, co. 6).<br />
Lo scopo di tale seconda fase è evidentemente un ulteriore esame congiunto che possa<br />
sfociare eventualmente in un accordo sindacale. Infatti, l’uffi cio preposto convoca le parti al<br />
fi ne di un esame delle materie di cui al co. 5, art. 4 citato, anche formulando proposte per la<br />
realizzazione dell’accordo.<br />
Tale seconda fase non può avere una durata superiore a 30 giorni dal ricevimento da parte<br />
dell’uffi cio della comunicazione sull’esito negativo della prima fase in sede sindacale (ridotti a<br />
metà se il licenziamento coinvolge un numero di lavoratori inferiore a 10 unità) (art. 4, co. 7).<br />
Anche durante tale seconda fase, dunque, le parti possono raggiungere l’accordo sindacale,<br />
dopodiché il datore di lavoro ha facoltà di procedere ai <strong>licenziamenti</strong>. Diversamente, al datore<br />
di lavoro non resta che lasciare esaurire il termine di 30 giorni per poi poter procedere ad<br />
intimare i <strong>licenziamenti</strong> ritenuti necessari.<br />
9.26 Comunicazione del licenziamento<br />
Come già detto precedentemente, raggiunto l’accordo sindacale o esaurita la procedura, il<br />
datore di lavoro ha la facoltà di collocare in mobilità gli impiegati, gli operai ed i quadri ecce-<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 9 - Il licenziamento collettivo<br />
denti, comunicando per iscritto a ciascuno di essi il recesso nel rispetto dei termini di preavviso<br />
(art. 4, co. 9).<br />
La forma scritta del licenziamento è prescritta a pena dell’ineffi cacia del licenziamento<br />
medesimo (art. 4, co. 12).<br />
La comunicazione di recesso deve contenere unicamente la notizia del licenziamento senza<br />
alcuna necessità di motivazione, poiché la tutela dei lavoratori è affi data alla dettagliata regolamentazione<br />
della procedura di mobilità (Cass. 10.6.1999, n. 5719).<br />
Pertanto, il lavoratore non è destinatario delle informazioni previste dalla procedura di<br />
mobilità e nemmeno di quelle riguardanti i criteri di scelta applicati (Cass. 26.9.2000, n. 12711).<br />
9.27 Comunicazione ex art. 4, co. 9, L. 223/1991<br />
In base all’art. 4, comma 9, L. 223/1991, come modifi cato dall’art. 1, comma 44, L. 92/2012,<br />
entro sette giorni dalla comunicazione di recesso a ciascun lavoratore coinvolto nella procedura<br />
di licenziamento collettivo, l’imprenditore è tenuto altresì a comunicare per iscritto all’Uffi<br />
cio regionale del lavoro e della massima occupazione, alla Commissione regionale per l’impiego<br />
e alle associazioni di categoria di cui al comma 2 dell’art. 4, L. 223/1991 (ovvero quelle<br />
cui ha inviato la comunicazione d’apertura della procedura di mobilità) l’elenco dei lavoratori<br />
collocati in mobilità, con l’indicazione per ciascun soggetto di alcuni dati.<br />
Prima della introdotta modifi ca legislativa, tale comunicazione doveva essere contestuale<br />
alla comunicazione di recesso a ciascun lavoratore coinvolto nella procedura di licenziamento<br />
collettivo.<br />
Comunicazione all’Uffi cio regionale del lavoro e della massima occupazione, alla Commissione<br />
regionale per l’impiego e alle associazioni di categoria<br />
La comunicazione riguarda l’elenco dei lavoratori collocati in mobilità e l’indicazione per<br />
ciascun soggetto dei seguenti dati:<br />
● nominativo;<br />
● luogo di residenza;<br />
● qualifi ca;<br />
● livello di inquadramento;<br />
● età e carico di famiglia.<br />
Nella medesima comunicazione il datore di lavoro ha l’obbligo di fornire la puntuale indicazione<br />
delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta (art. 4, comma 9).<br />
9.28 Verifi ca della legittimità del recesso<br />
A differenza dei <strong>licenziamenti</strong> <strong>individuali</strong>, per i quali la verifi ca della legittimità del recesso<br />
è attribuita al giudice <strong>sulla</strong> base dei motivi posti a fondamento del recesso, nei <strong>licenziamenti</strong><br />
<strong>collettivi</strong> il controllo <strong>sulla</strong> legittimità del recesso è collegato al rispetto degli adempimenti<br />
formali degli atti della procedura, con la conseguenza che l’inosservanza delle prescrizioni<br />
procedurali rende ineffi cace il recesso intimato.<br />
Dal punto di vista pratico la comunicazione non può risolversi in una invocazione dei criteri<br />
di scelta previsti dalla legge o dall’accordo sindacale ma è indispensabile che il datore di lavo-<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
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ro espliciti le modalità con le quali tali criteri sono stati applicati ed utilizzati nel caso concreto.<br />
Sì che non è suffi ciente la trasmissione dell’elenco dei lavoratori licenziati e la comunicazione<br />
dei criteri di scelta concordati con le organizzazioni sindacali, né la predisposizione di un<br />
meccanismo di applicazione in via successiva dei criteri stessi, poiché vi è necessità di controllare<br />
se tutti i dipendenti in possesso dei requisiti previsti siano stati inseriti nella categoria da<br />
scrutinare e, in secondo luogo, nel caso in cui i dipendenti siano in numero superiore ai previsti<br />
<strong>licenziamenti</strong>, se siano stati correttamente applicati i criteri di valutazione comparativa per<br />
la individuazione dei dipendenti da licenziare (Cass. 8.11.2003, n. 16805).<br />
9.29 Criteri di scelta<br />
Ai sensi dell’art. 5, L. 223/1991, l’individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità deve<br />
avvenire, in relazione alle esigenze tecnico-produttive ed organizzative del complesso aziendale,<br />
nel rispetto dei criteri eventualmente previsti dagli accordi stipulati con i sindacati individuati<br />
quali destinatari della comunicazione di avvio della procedura di mobilità (art. 4, co. 2).<br />
In mancanza di tali accordi l’individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità deve avvenire<br />
nel rispetto dei seguenti criteri in concorso tra loro: 1) carichi di famiglia; 2) anzianità; 3) esigenze<br />
tecnico-produttive ed organizzative.<br />
La legge, pertanto, prevede due fonti di individuazione dei criteri di scelta: la fonte legale,<br />
che si applica solo in mancanza di un accordo, e la fonte convenzionale.<br />
Secondo il costante insegnamento della Corte di legittimità, la previsione dell’art. 4, co. 9,<br />
L. 223/1991, secondo cui il datore di lavoro, nella comunicazione ivi prevista deve dare una “puntuale<br />
indicazione” dei criteri di scelta e delle modalità applicative, comporta che, anche quando il<br />
criterio prescelto sia unico, il datore di lavoro deve provvedere a specifi care nella detta comunicazione<br />
le sue modalità applicative, in modo che la stessa raggiunga quel livello di adeguatezza suffi<br />
ciente a porre in grado il lavoratore di percepire perché lui - e non altri dipendenti - sia stato destinatario<br />
del collocamento in mobilità o del licenziamento collettivo e, quindi, di poter<br />
eventualmente contestare l’illegittimità della misura espulsiva, sostenendo che, <strong>sulla</strong> base del<br />
comunicato criterio di selezione, altri lavoratori - e non lui - avrebbero dovuto essere collocati in<br />
mobilità o licenziati.<br />
Discende dal suddetto principio che, poiché la specifi cità dell’indicazione delle modalità di<br />
applicazione del criterio di scelta adottato è funzionale a garantire al lavoratore destinatario<br />
del provvedimento espulsivo la piena consapevolezza delle ragioni per cui la scelta è caduta su<br />
di lui, in modo da consentirgli una puntuale contestazione della misura espulsiva, il parametro<br />
per valutare la conformità della comunicazione al dettato di cui all’art. 4, co. 9 sopra citato,<br />
deve essere individuato nell’idoneità della comunicazione, con riferimento al caso concreto, di<br />
garantire al lavoratore la suddetta consapevolezza (Cass. 6.6.2011, n. 12197).<br />
Criteri di fonte legale<br />
Come già osservato, i criteri previsti dalla legge si applicano solo in via residuale laddove le<br />
parti collettive non abbiano raggiunto un accordo sindacale.<br />
La ripetizione del criterio oggettivo delle esigenze tecnico-produttive ed organizzative all’inizio<br />
e alla fi ne dell’articolo in commento è stata interpretata dalla dottrina prevalente nel<br />
senso che tale criterio ha la funzione di delimitare nel complesso aziendale l’ambito all’interno<br />
del quale devono essere effettuati i <strong>licenziamenti</strong> e deve essere scelto il personale ritenuto in<br />
esubero.<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 9 - Il licenziamento collettivo<br />
Concorrenza tra i differenti criteri<br />
Una volta delimitato l’ambito entro il quale effettuare la riduzione del personale in funzione<br />
delle necessità aziendali, la scelta concreta dei singoli lavoratori da collocare in mobilità deve<br />
essere fatta in base ai tre criteri in concorso tra loro.<br />
In linea generale, al fi ne di verifi care l’entità dei carichi di famiglia, l’orientamento dottrinale<br />
prevalente tende a prendere in considerazione la documentazione relativa agli assegni familiari.<br />
Quanto al diverso criterio relativo all’anzianità, essa deve intendersi quella di servizio del<br />
lavoratore (Cass. 19.5.2006, n. 11886).<br />
Infi ne, le esigenze tecnico-produttive ed organizzative di cui al terzo criterio di scelta legale<br />
non attengono alla valutazione del rendimento produttivo del dipendente ma devono riguardare<br />
il contenuto oggettivo delle mansioni e la esuberanza di tali mansioni rispetto alle esigenze<br />
aziendali.<br />
La legge dispone che tali criteri debbano essere considerati in concorso tra loro. Sul punto,<br />
la giurisprudenza ha assunto un orientamento non univoco, ritenendo talvolta la prevalenza<br />
delle esigenze tecnico-produttive e, talaltra, escludendolo.<br />
Parte della dottrina ha ritenuto al riguardo che, a parità di condizioni oggettive, l’ordine di<br />
elencazione è tassativo e la legge sancisce la prevalenza del fattore dei carichi di famiglia su<br />
tutti gli altri e quella del fattore dell’anzianità rispetto all’esigenza organizzativa.<br />
Quanto, poi, all’ambito entro il quale la comparazione deve essere effettuata al fi ne della<br />
selezione dei dipendenti da collocare in mobilità secondo i criteri legali, la giurisprudenza di<br />
legittimità ha affermato che deve tenersi conto di tutti i lavoratori dell’azienda (salvo che questa<br />
risulti ripartita in singole unità produttive), in modo da comparare tra di loro le posizioni di<br />
lavoratori di analoga professionalità e di simile livello (Cass. 29.11.1999, n. 13346).<br />
Criteri di scelta: comparazione tra lavoratori<br />
Pertanto, secondo l’orientamento della Suprema Corte la comparazione deve avvenire<br />
nell’ambito dell’intero complesso organizzativo e produttivo tra dipendenti aventi analoghe<br />
professionalità, a meno che il progetto di ristrutturazione si riferisca in modo esaustivo ed<br />
esclusivo ad un settore dell’azienda (Cass. 20.2.2012, n. 2429).<br />
Ne discende che è arbitraria ed illegittima ogni decisione del datore diretta a limitare l’ambito<br />
di selezione ad un singolo settore o ad un reparto, se ciò non sia strettamente giustifi cato<br />
dalle ragioni che hanno condotto alla scelta di riduzione del personale. La delimitazione<br />
dell’ambito aziendale di individuazione dei lavoratori da porre in mobilità è dunque consentita<br />
solo quando dipenda dalle ragioni produttive e organizzative, che si traggono dalle indicazioni<br />
contenute nella comunicazione di cui all’art. 4, co. 3, L. 223/1991, quando cioè gli esposti motivi<br />
dell’esubero, e le ragioni per cui lo stesso non può essere assorbito, conducono coerentemente<br />
a limitare la platea dei lavoratori oggetto di scelta. Per converso, non si può, invece,<br />
riconoscere in tutti i casi una necessaria corrispondenza tra il dato relativo alla “collocazione<br />
del personale” indicato dal datore nella comunicazione di cui all’art. 4 e la precostituzione<br />
dell’area di scelta (Cass. 29.4.2009, n. 9991).<br />
Tuttavia, non mancano pronunce della giurisprudenza di legittimità che ritengono che,<br />
qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad una unità<br />
operativa o ad uno specifi co settore dell’azienda, la comparazione dei lavoratori, al fi ne di individuare<br />
quelli da avviare alla mobilità, non deve necessariamente interessare l’intero complesso<br />
aziendale (a parità di attitudini professionali), ma può avvenire, secondo una scelta<br />
dell’imprenditore ispirata al criterio legale delle “esigenze tecnico-produttive”, nell’ambito<br />
della unità produttiva ovvero del solo settore interessato dalla ristrutturazione (Cass. 20.6.2007,<br />
n. 14339).<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
89
90 Capitolo 9 - Il licenziamento collettivo<br />
Criteri di scelta convenzionali<br />
Le parti collettive possono pattuire criteri di scelta da applicare per la selezione dei dipendenti<br />
in esubero in deroga a quelli previsti dalla legge. Come statuito dalla Suprema Corte, la<br />
contrattazione collettiva è libera di scegliere qualsiasi criterio, purché esso sia tale e cioè sia<br />
un criterio e non direttamente la scelta, e sia rivolto a tutelare gli interessi dei lavoratori nella<br />
logica della riduzione delle conseguenze negative dei <strong>licenziamenti</strong> e non sia, infi ne, discriminatorio<br />
(Cass. 13.1. 2012, n. 391).<br />
Effi cacia degli accordi sindacali<br />
La questione dell’effi cacia degli accordi in questione è stata ormai risolta dalla Corte costituzionale<br />
con la sentenza del 22.6.1994, n. 268, che li ha defi niti quali accordi c.d. gestionali o<br />
di procedimentalizzazione.<br />
La Consulta ha chiarito che tali accordi sindacali non appartengono alla specie dei contratti<br />
<strong>collettivi</strong> normativi destinati a porre la disciplina dei rapporti <strong>individuali</strong> di lavoro, trattandosi<br />
di contratti appartenenti ad un diverso tipo, la cui effi cacia diretta si esplica esclusivamente<br />
nei confronti dell’imprenditore stipulante.<br />
Solo indirettamente perciò questi contratti incidono nella sfera del singolo lavoratore tramite<br />
l’atto di recesso del datore di lavoro attuato nel rispetto dei criteri di scelta concordati<br />
sindacalmente. Dunque gli accordi in questione hanno ad oggetto la sola determinazione dei<br />
modi e delle condizioni con cui verrà esercitato il potere organizzativo dell’imprenditore, la cui<br />
natura unitaria giustifi ca l’effi cacia nei confronti di tutti i dipendenti dell’accordo che lo regola<br />
(C. Cost. 22.6.1994, n. 268).<br />
Le parti collettive sono libere di scegliere i criteri di selezione del personale da licenziare<br />
purché, sempre secondo la Consulta, tali criteri convenzionalmente pattuiti non siano contrari<br />
a norme imperative di legge e siano posti nel rispetto dei princìpi di non discriminazione e di<br />
razionalità.<br />
Sulla base di tali premesse l’elaborazione giurisprudenziale che ne è conseguita ha riconosciuto<br />
la legittimità del ricorso al criterio del raggiungimento dei requisiti pensionistici durante<br />
il collocamento in mobilità, oppure delle sole esigenze tecnico-produttive, o ancora quello<br />
della più elevata anzianità pensionabile (Cass. 24.4.2007, n. 9866).<br />
Inoltre, come già evidenziato, per espressa previsione dell’art. 8 L. n. 148/2011, gli accordi<br />
<strong>collettivi</strong> in esame - fi nalizzati alla “gestione delle crisi aziendali” - hanno effi cacia nei confronti<br />
di tutti i lavoratori interessati, a condizione di essere sottoscritti <strong>sulla</strong> base di un criterio<br />
maggioritario relativo alle associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative<br />
sul piano nazionale o territoriale ovvero alle loro rappresentanze sindacali presenti in azienda<br />
ai sensi della normativa di legge e degli accordi interconfederali vigenti.<br />
Esigenze tecnico-produttive<br />
In relazione ai collocamenti in mobilità e ai <strong>licenziamenti</strong> <strong>collettivi</strong>, il principio previsto dagli<br />
artt. 5 e 24, L. 223/1991, secondo cui i criteri di selezione del personale da licenziare, ove non<br />
predeterminati secondo uno specifi co ordine stabilito da accordi <strong>collettivi</strong>, debbono essere<br />
osservati in concorso fra loro, se impone al datore di lavoro una valutazione globale dei medesimi,<br />
non esclude tuttavia che il risultato comparativo possa essere quello di accordare prevalenza<br />
ad uno solo di detti criteri e, in particolare, alle esigenze tecniche e produttive, essendo<br />
questo il criterio più coerente con le fi nalità perseguite attraverso la riduzione del personale,<br />
sempre che naturalmente una tale scelta trovi giustifi cazione in fattori obiettivi, la cui esistenza<br />
sia provata in concreto da datore di lavoro e non sottenda intenti elusivi o ragioni discriminatorie<br />
(Cass. 6.4.2002, n. 4949).<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 9 - Il licenziamento collettivo<br />
Anzianità anagrafi ca e prepensionamento<br />
Ancora, la Suprema Corte ha riconosciuto la sussistenza dei requisiti di obiettività e razionalità<br />
dell’accordo sindacale con il quale le parti collettive hanno concordato il duplice criterio<br />
dell’età anagrafi ca e dell’anzianità contributiva con la previsione di un trattamento integrativo<br />
sino al raggiungimento dell’età pensionabile. Tale criterio è stato ritenuto pienamente compatibile<br />
con le fi nalità volute dal legislatore ed è razionalmente giustifi cato nell’attuale contesto<br />
di disoccupazione strutturale (Cass. 7 dicembre 1999, n. 13691).<br />
Infi ne, si segnala come recentemente la Suprema Corte abbia ritenuto lecito il criterio concordato<br />
tra azienda e sindacati per il licenziamento collettivo basato sul possesso dei requisiti<br />
per accedere al trattamento pensionistico. In primo luogo, infatti, non si ravvisa una discriminazione<br />
in base al fattore età, in quanto il criterio adottato non si fonda esclusivamente sul<br />
dato anagrafi co, bensì sul possesso dei requisiti pensionistici: si possono avere casi di lavoratori<br />
più anziani di età che, in virtù di una particolare storia lavorativa, non presentano i suddetti<br />
requisiti. In secondo luogo, accertata la necessità di licenziamento di parte del personale,<br />
appare ragionevole la scelta di privilegiare i lavoratori che, se licenziati, sarebbero passati alla<br />
disoccupazione, rimanendo così privi di reddito, e di licenziare, invece, quelli in possesso dei<br />
requisiti per accedere alla pensione, in modo da ridurre l’impatto sociale dei <strong>licenziamenti</strong><br />
(Cass. 26 aprile 2011, n. 9348).<br />
La Corte di legittimità ha altresì chiarito che «in materia di collocamenti in mobilità e di <strong>licenziamenti</strong><br />
<strong>collettivi</strong> ove il datore di lavoro e le organizzazioni sindacali abbiano contrattualmente<br />
convenuto un unico criterio di scelta dei lavoratori da porre in mobilità, costituito dalla possibilità<br />
di accedere al prepensionamento, e si rendesse possibile il mantenimento in servizio di alcuni<br />
lavoratori prepensionabili, tale fatto non implica automaticamente la pretestuosità ed illegittimità<br />
del criterio di scelta concordato, ma occorrerà valutare che il margine di discrezionalità del<br />
datore di lavoro nella scelta dei lavoratori prepensionabili da licenziare non sia utilizzato a mero<br />
scopo discriminatorio in violazione dei principi di correttezza e buona fede tenendo presenti la<br />
dinamica aziendale e, all’occorrenza, ispirandosi al criterio di fondo stabilito dall’art. 5, c. 1, L. n.<br />
223/1991, il quale, non a caso, fa riferimento, per ben due volte, alle esigenze tecnico-produttive<br />
e organizzative del complesso aziendale» (Cass. 13 settembre 2002, n. 13393).<br />
La tesi sostenuta dalla Corte Suprema si pone in linea con la ratio dell’impianto normativo<br />
dei <strong>licenziamenti</strong> <strong>collettivi</strong>, ispirato a favorire, per quanto possibile, la ripresa dell’attività produttiva<br />
col sacrifi care persino diritti <strong>individuali</strong> che in ogni altro contesto sarebbero inderogabili.<br />
Riprova ne sia la deroga consentita dall’art. 4, c. 11, al divieto di mutamento in pejus delle<br />
mansioni di cui all’art. 2103 c.c. (Cass. 26 settembre 2002, n. 13963, in motivazione). Vero è che<br />
all’imprenditore, e non ad altri, è lasciato uno spazio, seppur contenuto, di scelta.<br />
La giurisprudenza di legittimità ha, infi ne, statuito che, qualora il criterio di selezione dei lavoratori<br />
da porre in mobilità sia unico, il datore di lavoro ha l’obbligo di specifi care nella comunicazione<br />
ex art. 4, 9° comma, legge 223/1991, le sue modalità applicative, in modo che essa raggiunga<br />
quel livello di adeguatezza suffi ciente a porre in grado il lavoratore di percepire perché lui<br />
– e non altri dipendenti – sia stato destinatario del collocamento in mobilità ovvero del licenziamento<br />
collettivo e, quindi, di poter eventualmente contestare l’illegittimità della misura espulsiva,<br />
sostenendo che, <strong>sulla</strong> base del comunicato criterio di selezione, altri lavoratori – e non lui –<br />
avrebbero dovuto essere collocati in mobilità o licenziati (Cass. 8 novembre 2007, n. 23275).<br />
9.30 Ipotesi di invalidità del licenziamento<br />
La recente L. 92/2012 ha apportato sostanziali modifi che all’art. 5, co. 3, della L. 223/1991<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
91
92 Capitolo 9 - Il licenziamento collettivo<br />
fi nalizzate ad adeguare le conseguenze sanzionatorie dei <strong>licenziamenti</strong> illegittimi o ineffi caci<br />
– intimati ai singoli lavoratori all’esito della procedura di licenziamento collettivo – al nuovo<br />
testo dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, il quale è oggetto di specifi ca trattazione nel<br />
successivo capitolo 11.<br />
Al riguardo vengono contemplate più ipotesi.<br />
Qualora il recesso sia intimato senza l’osservanza della forma scritta si applica il regime<br />
sanzionatorio di cui al primo comma del rinnovellato articolo 18, consistente nella tutela reale,<br />
ovvero nella reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro oltre al risarcimento del danno<br />
integrale e, dunque, senza limitazioni, come previsto nella analoga ipotesi di licenziamento<br />
individuale dichiarato ineffi cace perché intimato in forma orale.<br />
Qualora, invece, il recesso sia intimato senza il rispetto della procedura sindacale prevista<br />
dall’articolo 4 della L. 223/1991, si applica la tutela prevista per i <strong>licenziamenti</strong> economici<br />
dal nuovo testo dell’articolo 18, co. 7, S.L., ovvero un’indennità risarcitoria determinata<br />
tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima<br />
retribuzione globale di fatto.<br />
Qualora, infi ne, il recesso sia intimato violando i criteri di scelta dei lavoratori da collocare<br />
in mobilità, come elencati dall’articolo 5 della L. 223/1991, si applica la tutela reale prevista<br />
per i casi più gravi di <strong>licenziamenti</strong> disciplinari illegittimi dal nuovo testo dell’articolo 18, co. 4,<br />
S.L., ovvero la reintegra nel posto di lavoro oltre a un’indennità risarcitoria non superiore a<br />
dodici mensilità della retribuzione globale di fatto.<br />
Viene previsto, inoltre, che in tutte le ipotesi, ai fi ni dell’impugnazione dei <strong>licenziamenti</strong>,<br />
trovino applicazione le disposizioni di cui all’articolo 6 della L. 604/1966 (il quale, nel testo da<br />
ultimo modifi cato dalla L. 4.11.2010, n. 183, prevede che il licenziamento debba essere impugnato<br />
con qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, idoneo a manifestare la volontà del lavoratore,<br />
entro 60 giorni dalla sua comunicazione per iscritto, e che nei successivi 270 giorni –<br />
ora 180 giorni, in forza dell’articolo 1, co. 38, della L. 92/2012 – debba essere depositato il<br />
ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o debba essere comunicata<br />
alla controparte la richiesta del tentativo di conciliazione).<br />
9.30.1 Condotta antisindacale<br />
Sotto altro profi lo, la violazione della procedura può comportare, anche nell’ambito del licenziamento<br />
collettivo, la condanna del datore di lavoro per condotta antisindacale. In linea<br />
generale, si può dire che sussista la condotta antisindacale dell’imprenditore tutte le volte che<br />
sia confi gurabile un comportamento del datore di lavoro diretto ad ostacolare o impedire il libero<br />
esercizio dell’attività sindacale (Cass. 29.7.1986, n. 4858). Certo è che l’omissione di qualsiasi<br />
comunicazione o l’esistenza di vizi inerenti il contenuto delle comunicazioni previste dalla<br />
legge in commento alle organizzazioni sindacali integra una vera e propria ipotesi di<br />
condotta antisindacale.<br />
Costituisce altresì condotta antisindacale il comportamento del datore di lavoro che fornisca<br />
alle organizzazioni sindacali informazioni insuffi cienti e generiche e non manifesti reale disponibilità<br />
all’esame congiunto (Pret. Milano, 25.3.1994; più recentemente, Trib. Milano, 13.5.2006).<br />
9.30.2 Vizi della procedura e datori di lavoro non imprenditori<br />
Secondo quanto previsto dal D.Lgs. 8.4.2004, n. 110, al datore di lavoro non imprenditore che<br />
non svolge attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione, religione o culto trova applicazione<br />
l’art. 5, co. 3 della L. 223/1991. Inoltre, il datore di lavoro non di «tendenza» è tenuto ad<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 9 - Il licenziamento collettivo<br />
esperire nuovamente la procedura di mobilità nel caso di ineffi cacia dei <strong>licenziamenti</strong> intimati per<br />
violazione della procedura, mentre nel caso di accertata illegittimità dei <strong>licenziamenti</strong> dovuta alla<br />
violazione dei criteri di scelta può procedere al licenziamento di un numero equivalente di lavoratori<br />
reintegrati, previa comunicazione alle organizzazioni sindacali, ma senza necessità di dover<br />
esperire nuovamente la procedura di mobilità, come previsto dall’art. 17, L. 223/1991.<br />
Differenti regole valgono, invece, per i datori di lavoro c.d. di «tendenza» in relazione ai<br />
quali il D.Lgs. 110/2004 esclude espressamente l’applicazione dell’art. 18 S. L. Per i <strong>licenziamenti</strong><br />
intimati da tale tipologia di datori di lavoro trova, pertanto, applicazione la L.<br />
15.7.1966, n. 604, con la conseguenza che laddove i <strong>licenziamenti</strong> vengano impugnati e ritenuti<br />
ineffi caci per violazione della forma scritta o della procedura di mobilità il datore di lavoro<br />
di «tendenza» non deve procedere ad esperire nuovamente la procedura poiché non è<br />
prevista alcuna reintegrazione quale sanzione per l’invalidità del licenziamento operato.<br />
Sul punto si segnala una recente pronuncia della Corte di Cassazione, la quale stabilisce che si<br />
applica la disciplina sui <strong>licenziamenti</strong> <strong>collettivi</strong> qualora l’ente datore di lavoro, pur non essendo un<br />
imprenditore, svolga nel caso concreto attività di carattere imprenditoriale, caratterizzata dai due<br />
requisiti della economicità e della autonomia, gestionale, fi nanziaria e contabile, e non operi invece<br />
come organizzazione di tendenza. L’accertamento del carattere imprenditoriale dell’attività in concreto<br />
esercitata da qualsiasi ente pubblico non economico è riservato al giudice di merito e, come<br />
tale, censurabile in sede di legittimità soltanto per vizio di motivazione (Cass. 15.6.2011, n. 13093).<br />
9.31 Particolari categorie di lavoratori<br />
Avviati obbligatori L’art. 10, co. 4, L. 12.3.1999, n. 68, relativa alla riforma del collocamento<br />
obbligatorio prevede che il recesso attuato nei confronti di un avviato obbligatorio a seguito di<br />
licenziamento collettivo è annullabile qualora, nel momento della cessazione del rapporto, il<br />
numero dei rimanenti lavoratori occupati obbligatoriamente sia inferiore alla quota di riserva<br />
prevista dall’art. 3 della legge citata. La giurisprudenza di merito ha ritenuto che tale tutela sia<br />
applicabile anche al lavoratore divenuto invalido nel corso del rapporto ed incluso successivamente<br />
nella quota di riserva (Trib. Milano, 12.7.2006).<br />
Lavoratrici madri<br />
Ai sensi dell’art. 54, D.Lgs. 26.3.2001, n. 151, la lavoratrice non può essere collocata in mobilità<br />
dall’inizio della gravidanza sino al compimento di un anno di età del bambino.<br />
Fa eccezione l’ipotesi di licenziamento collettivo determinato dalla cessazione totale<br />
dell’attività produttiva dell’imprenditore. Il licenziamento intimato in contrasto con la disposizione<br />
citata è nullo.<br />
Lavoratrici che contraggono matrimonio<br />
Anche per il licenziamento collettivo valgono le disposizioni che sanciscono la nullità del<br />
licenziamento effettuato nei confronti della lavoratrice che ha contratto matrimonio ai sensi<br />
del D.Lgs. 11.4.2006, n. 198. Il divieto di licenziamento decorre dal giorno delle pubblicazioni<br />
sino ad un anno dopo la celebrazione del matrimonio (C. Cost. 10.2.1993, n. 46).<br />
Manodopera femminile e divieto di cui all’art. 5, co. 2, L. 223/1991<br />
L’art. 5, co. 2, L. n. 223/1991, ispirandosi ai princìpi di non discriminazione, stabilisce che<br />
l’impresa non può collocare in mobilità una percentuale di manodopera femminile superiore<br />
alla percentuale di manodopera femminile occupata con riguardo alle mansioni prese in considerazione.<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
93
Capitolo 10<br />
LA PREVIGENTE DISCIPLINA SANZIONATORIA<br />
La L. 28.6.2012, n. 92, ha superato la dicotomia tutela reale-tutela obbligatoria che sino<br />
alla sua promulgazione ha caratterizzato il regime sanzionatorio del licenziamento invalido,<br />
prevedendo una tutela di carattere risarcitorio anche nell’ambito del campo di applicazione<br />
del “nuovo” art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.<br />
Ciò nonostante, è opportuno esaminare la disciplina sanzionatoria previgente, vuoi perché<br />
il novellato art. 18 S.L. trova applicazione nei soli confronti dei <strong>licenziamenti</strong> intimati successivamente<br />
all’entrata in vigore della L. 28.6.2012, n. 92, vuoi perché molte delle problematiche<br />
sollevate da tale norma statutaria sono riferibili anche alla nuova disposizione.<br />
10.1 Tutela reale<br />
La cd. tutela reale del posto di lavoro, come prevista ed assicurata dal “vecchio” art. 18 S.L.,<br />
stabilisce che il datore di lavoro che abbia intimato un licenziamento invalido è obbligato a reintegrare<br />
il lavoratore nel posto di lavoro ed a corrispondergli un’indennità a titolo di risarcimento<br />
del danno commisurata alle retribuzioni non percepite (ed in misura comunque non inferiore a<br />
cinque mensilità) dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione. L’applicabilità<br />
di tale regime sanzionatorio presuppone la sussistenza dei requisiti oggettivi e soggettivi<br />
previsti al riguardo dal legislatore, il primo dei quali attiene alla dimensione dell’impresa che<br />
abbia proceduto al licenziamento, determinata dal numero dei dipendenti impiegati.<br />
10.1.1 Requisito numerico per l’applicabilità della tutela reale<br />
Al riguardo, la norma in esame - che peraltro ha subìto sul punto modifi che puramente<br />
formali ad opera della L. 28.6.2012, n. 92 - dispone espressamente la propria applicazione al<br />
«datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, fi liale,<br />
uffi cio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze<br />
più di quindici prestatori di lavoro o più di cinque se trattasi di imprenditore agricolo» nonché<br />
ai «datori di lavoro, imprenditori o non imprenditori, che nell’ambito dello stesso comune<br />
occupano più di quindici dipendenti ed alle imprese agricole che nel medesimo ambito territoriale<br />
occupano più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente<br />
considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore o non<br />
imprenditore, che occupa alle sue dipendenze più di sessanta prestatori di lavoro».<br />
È assolutamente consolidato nella giurisprudenza di legittimità il principio secondo il quale<br />
il numero dei lavoratori impiegati dall’impresa debba essere accertato tenendo conto del<br />
criterio della normale occupazione e non invece facendo riferimento al numero dei lavoratori<br />
occupati alla data di intimazione del licenziamento.<br />
La Suprema Corte ha precisato che con tale criterio devono intendersi i lavoratori in servizio<br />
alla stregua delle medie e normali esigenze produttive dell’azienda, in riferimento anche<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
95
96 Capitolo 10 - La previgente disciplina sanzionatoria<br />
ad un periodo antecedente alla data del licenziamento, dovendosi tenere conto non tanto della<br />
consistenza occupazionale a tale data, quanto piuttosto di una consistenza normale, correlata<br />
non ad un momento transeunte ma ad un periodo di tempo congruo e signifi cativo (Cass.<br />
14.10.2011, n. 21280).<br />
Siffatto orientamento è motivato dall’evidente fi nalità di evitare che una transitoria riduzione<br />
del personale occupato dall’impresa al di sotto dei limiti numerici fi ssati dall’art. 18 Stat.<br />
Lav., verifi catasi alla data di intimazione del licenziamento - eventualmente anche a causa di<br />
atti posti fraudolentemente in essere dal datore di lavoro a tale scopo - determini l’inapplicabilità<br />
delle disposizioni dettate dalla norma stessa.<br />
È opportuno segnalare che in alcune pronunce la Suprema Corte ha fornito un’indicazione<br />
temporale più circostanziata del periodo da prendere in considerazione al fi ne del computo<br />
della normale occupazione dell’impresa pari, ora, a tre mesi precedenti la data del licenziamento<br />
(Cass. 22.4.1997, n. 3450), ora a sei mesi (Cass. 12.11.1999, n. 12592), ora ancora al più<br />
lungo periodo annuale (Cass. 30.12.1974, n. 4394).<br />
Inoltre, nel computo dei dipendenti deve tenersi conto non solo dei lavoratori occupati<br />
all’interno dell’impresa ma anche di quelli esterni che, adibiti a lavori da svolgersi fuori dell’unità<br />
produttiva, ad essa facciano necessariamente capo per riceverne direttive e controlli e per<br />
rendere conto della attività da loro svolta, nonché dei dipendenti assenti per malattia, servizio<br />
militare od altra causa, con esclusione dei lavoratori temporaneamente impiegati in sostituzione<br />
di quelli assenti (Cass. 21.6.1980, n. 3922).<br />
CRITERI DI COMPUTO DEI LAVORATORI<br />
Contratti di inserimento Il D.Lgs. n. 276/2003 (artt. 54-59bis) ha introdotto la fattispecie contrattuale<br />
in esame con cui ha sostituito i contratti di formazione. Ai fi ni del<br />
computo dei lavoratori, l’art. 59, co. 2, del menzionato decreto legislativo<br />
dispone che «fatte salve specifi che previsioni di contratto collettivo, i lavoratori<br />
assunti con contratto di inserimento sono esclusi dal computo<br />
dei limiti numerici previsti da leggi e contratti <strong>collettivi</strong> per l’applicazione<br />
di particolari normative e istituti».<br />
Apprendistato L’art. 21, co. 7, L. 28.2.1987, n. 56, prevedeva testualmente che «i lavoratori<br />
assunti con contratto di apprendistato sono esclusi dal computo dei limiti<br />
numerici previsti da leggi e contratti <strong>collettivi</strong> di lavoro per l’applicazione<br />
di particolari normative ed istituti». Su tale materia è successivamente<br />
intervenuto l’art. 53, co. 2, D.Lgs. 10.9.2003, n. 276, il quale ha espressamente<br />
ribadito che «fatte salve specifi che previsioni di legge o di contratto<br />
collettivo, i lavoratori assunti con contratto di apprendistato sono esclusi<br />
dal computo dei limiti numerici previsti da leggi e contratti <strong>collettivi</strong> per<br />
l’applicazione di particolari normative e istituti».<br />
Lavoratori part-time L’art. 6, co. 1, D.Lgs. 61/2000, come modifi cato dall’art. 1, co. 1, D.Lgs.<br />
100/2001, stabilisce espressamente che «in tutte le ipotesi in cui, per<br />
disposizione di legge o di contratto collettivo, si renda necessario l’accertamento<br />
della consistenza dell’organico, i lavoratori a tempo parziale<br />
sono computati nel complesso del numero dei lavoratori dipendenti in<br />
proporzione all’orario svolto, rapportato al tempo pieno», dovendosi con<br />
quest’ultima locuzione intendersi, ai sensi di quanto previsto dall’art. 3,<br />
D.Lgs. 8.4.2003, n. 66, l’orario normale di 40 ore settimanali o il minor orario<br />
normale indicato dalla contrattazione collettiva, eventualmente riferito<br />
«alla durata media delle prestazioni lavorative in un periodo non superiore<br />
all’anno».<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
– continua –
Capitolo 10 - La previgente disciplina sanzionatoria<br />
- segue - CRITERI DI COMPUTO DEI LAVORATORI<br />
Lavoratori con contratto<br />
a tempo determinato<br />
Con la circolare 30.4.2001, n. 46 del Ministero del lavoro ha precisato<br />
che, dopo aver sommato le frazioni di orario svolto dai lavoratori parttime<br />
impiegati nell’impresa, l’arrotondamento fi nale opera per eccesso<br />
all’unità superiore se la frazione ottenuta da tale operazione risulta superiore<br />
alla metà dell’orario a tempo pieno; in caso contrario, l’arrotondamento<br />
avviene per difetto all’unità inferiore.<br />
Quanto sopra riportato trova espressa conferma anche nel novellato<br />
art. 18 S.L., ove si prevede che ai fi ni del computo dei dipendenti<br />
dell’impresa «si tiene conto dei lavoratori assunti con contratto a<br />
tempo indeterminato parziale per la quota di orario effettivamente<br />
svolto, tenendo conto, a tale proposito, che il computo delle unità lavorative<br />
fa riferimento all’orario previsto dalla contrattazione collettiva<br />
del settore».<br />
I lavoratori assunti con contratto a termine, indipendentemente dalla<br />
circostanza che il contratto stesso sia a tempo pieno o part-time,<br />
sono computabili ai fi ni dell’applicazione dell’art. 18 S.L. secondo il già<br />
esaminato criterio della «normale occupazione» dell’impresa ovvero<br />
quando sono inseriti nell’ordinario ciclo produttivo e non qualora siano<br />
stati assunti per far fronte a necessità produttive ed organizzative transitorie<br />
ed eccezionali.<br />
In particolare, secondo la giurisprudenza, nell’ipotesi in cui l’impresa abbia<br />
proceduto ad assunzioni a termine per sostituire lavoratori assenti con<br />
diritto alla conservazione del posto di lavoro, si deve tenere conto dei dipendenti<br />
assenti per malattia, servizio militare od altra causa, con esclusione<br />
dei lavoratori temporaneamente impiegati in sostituzione di quelli<br />
assenti (Cass. 20.10.1983, n. 6165).<br />
Lavoratori a domicilio Ai fi ni della computabilità nei limiti numerici dei lavoratori a domicilio valgono<br />
in generale i medesimi princìpi esaminati con riguardo ai lavoratori<br />
assunti a tempo determinato.<br />
Pertanto, i lavoratori a domicilio sono computabili ai fi ni dell’applicazione<br />
dell’art. 18 S.L. secondo il criterio della normale occupazione<br />
dell’impresa, cioè quando risultano concretamente inseriti nel ciclo<br />
produttivo dell’impresa. Secondo la Suprema Corte, tale requisito si<br />
realizza ogniqualvolta il lavoratore a domicilio esegua lavorazioni analoghe<br />
ovvero complementari a quelle eseguite all’interno dell’azienda<br />
sotto le direttive dell’imprenditore, le quali non devono necessariamente<br />
essere specifi che e reiterate, essendo suffi ciente che esse siano<br />
inizialmente impartite una volta per tutte, mentre i controlli possono<br />
anche limitarsi alla verifi ca della buona riuscita della lavorazione<br />
(Cass. 23.9.1998, n. 9516).<br />
Coniuge e parenti<br />
del datore di lavoro<br />
Il previgente art. 18, co. 2, S.L. esclude dal computo del numero dei<br />
lavoratori occupati «il coniuge e i parenti del datore di lavoro entro<br />
il secondo grado in linea diretta e in linea collaterale». Tale disposizione<br />
è stata confermata nel novellato art. 18 introdotto dalla L.<br />
28.6.2012, n. 92.<br />
Risulta evidente dalla disposizione in esame che tale esclusione opera<br />
esclusivamente nei confronti del datore di lavoro che sia una persona<br />
fi sica, atteso che non è possibile confi gurare un rapporto di parentela nei<br />
confronti di una società di capitali o di una società di persone.<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
97<br />
– continua –
98 Capitolo 10 - La previgente disciplina sanzionatoria<br />
- segue - CRITERI DI COMPUTO DEI LAVORATORI<br />
Problema della rilevanza<br />
del gruppo societario<br />
FATTISPECIE PARTICOLARI<br />
La Suprema Corte è assolutamente costante nel ribadire il principio secondo<br />
cui il collegamento economico-funzionale fra imprese gestite da<br />
società di un unico gruppo non è di per sé solo suffi ciente a far ritenere<br />
che gli obblighi inerenti ad un rapporto di lavoro subordinato, formalmente<br />
intercorso fra un lavoratore ed una di esse, si debbano estendere anche<br />
all’altra, a meno che non sussista una situazione che consenta di ravvisare<br />
– anche all’eventuale fi ne della valutazione di sussistenza del requisito<br />
numerico per l’applicabilità della c.d. tutela reale del lavoratore licenziato<br />
– un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro. Tale situazione<br />
ricorre ogni volta che vi sia una simulazione o una preordinazione in frode<br />
alla legge del frazionamento di un’unica attività fra i vari soggetti del collegamento<br />
economico-funzionale e ciò venga accertato in modo adeguato,<br />
attraverso l’esame delle attività di ciascuna delle imprese gestite formalmente<br />
da quei soggetti, che deve rivelare l’esistenza dei seguenti requisiti:<br />
- unicità della struttura organizzativa e produttiva;<br />
- integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo e il<br />
correlativo interesse comune;<br />
- coordinamento tecnico e amministrativo-fi nanziario tale da individuare<br />
un unico soggetto direttivo che faccia confl uire le diverse attività delle<br />
singole imprese verso uno scopo comune;<br />
- utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle<br />
varie società titolari delle distinte imprese, nel senso che la stessa<br />
sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei<br />
vari imprenditori (Cass. 10.1.2012, n. 88).<br />
Lavoratori esterni Nei limiti numerici previsti dall’art. 18 S.L. devono essere computati anche<br />
i lavoratori subordinati che normalmente espletano la loro attività al di<br />
fuori della sede dell’impresa, quali ad esempio i piazzisti, i propagandisti<br />
e gli informatori medico-scientifi ci. Tali lavoratori devono essere calcolati<br />
nell’organico dell’unità produttiva cui fanno riferimento per ricevere le direttive<br />
operative e per rendere conto dell’attività svolta.<br />
Soci lavoratori<br />
di cooperativa<br />
Somministrazione<br />
di lavoro<br />
L’art. 1, co. 3, della L. 142/2001 ha profondamente modifi cato la disciplina<br />
del rapporto di lavoro nelle cooperative prevedendo la posizione tipica del<br />
socio lavoratore, che è unica ma risulta composta da due distinti rapporti,<br />
quello associativo ed «un ulteriore rapporto di lavoro, in forma subordinata<br />
o autonoma o in qualsiasi altra forma, ivi compresi i rapporti di collaborazione<br />
coordinata non occasionale, con cui contribuisce comunque al<br />
raggiungimento degli scopi sociali».<br />
Nell’ipotesi in cui al rapporto associativo si affi anchi un rapporto di lavoro<br />
subordinato, ai sensi del successivo articolo 2, «ai soci lavoratori di cooperativa<br />
(...) si applica la L. n. 300/1970, con esclusione dell’articolo 18 ogni<br />
volta che venga a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo».<br />
Pertanto, nella riferita ipotesi di sussistenza tanto del rapporto associativo<br />
quanto di quello di lavoro subordinato, il socio lavoratore è computabile ai<br />
fi ni del calcolo del requisito numerico dell’impresa previsto dall’art. 18 S.L.<br />
L’art. 22, co. 5, D.Lgs. 10.9.2003, n. 276, stabilisce espressamente che «in<br />
caso di contratto di somministrazione, il prestatore di lavoro non é computato<br />
nell’organico dell’utilizzatore ai fi ni dell’applicazione di normative di legge<br />
o di contratto collettivo, fatta eccezione per quelle relative alla materia<br />
dell’igiene e della sicurezza sul lavoro».<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 10 - La previgente disciplina sanzionatoria<br />
10.1.1.1 Onere della prova della sussistenza del requisito numerico<br />
Le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno stabilito che in tema di riparto dell’onere probatorio<br />
in ordine ai presupposti di applicazione della tutela reale o obbligatoria al licenziamento di<br />
cui sia accertata l’invalidità, fatti costitutivi del diritto soggettivo del lavoratore a riprendere l’attività<br />
e, sul piano processuale, dell’azione di impugnazione del licenziamento sono esclusivamente<br />
l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato e l’illegittimità dell’atto espulsivo, mentre<br />
le dimensioni dell’impresa, inferiori ai limiti stabiliti dall’art. 18, L. 300/1970, costituiscono, insieme<br />
al giustifi cato motivo del licenziamento, fatti impeditivi del suddetto diritto soggettivo del<br />
lavoratore e devono, perciò, essere provati dal datore di lavoro (Cass. 18.11.2010, n. 23302). Con<br />
l’assolvimento di quest’onere probatorio il datore dimostra - ai sensi della disposizione generale<br />
di cui all’art. 1218 c.c. - che l’inadempimento degli obblighi derivatigli dal contratto di lavoro non<br />
è a lui imputabile e che, comunque, il diritto del lavoratore a riprendere il suo posto non sussiste,<br />
con conseguente necessità di ridurre il rimedio esercitato dal lavoratore al risarcimento pecuniario.<br />
L’individuazione di siffatto onere probatorio a carico del datore di lavoro persegue la fi nalità<br />
di non rendere troppo diffi cile l’esercizio del diritto da parte del lavoratore il quale, a differenza<br />
del datore di lavoro, è privo della “disponibilità” dei fatti idonei a provare il numero dei<br />
lavoratori occupati nell’impresa (Cass., Sez. Un., 10.1.2006, n. 141).<br />
Rilevabilità d’uffi cio del requisito dimensionale dell’impresa<br />
Peraltro, la Suprema Corte è costante nell’affermare che il requisito dimensionale dell’impresa è<br />
un fatto costitutivo dell’azione di reintegrazione nel posto di lavoro a norma dell’art. 18, L. 300/1970<br />
e, quindi, il difetto di detto requisito non costituisce oggetto di un’eccezione in senso sostanziale ma<br />
può essere rilevato anche d’ufficio dal giudice.<br />
Eccezione relativa alla sussistenza di un fatto risolutivo del rapporto diverso dal licenziamento<br />
Nella diversa ipotesi in cui il lavoratore assuma di essere stato licenziato, mentre il datore di lavoro<br />
sostenga che il rapporto di lavoro è cessato per dimissioni del lavoratore o per risoluzione consensuale,<br />
la controdeduzione del datore di lavoro costituisce un’eccezione in senso stretto (come<br />
tale non rilevabile d’ufficio e soggetta alle preclusioni previste dagli artt. 416 e 437 c.p.c.), il cui<br />
onere probatorio incombe su quest’ultimo in applicazione del principio dettato dall’art. 2697 c.c, c.<br />
2 (Cass. 27.8.2007, n. 18087).<br />
10.1.2 Unità produttiva<br />
10.1.2.1 Nozione<br />
Secondo la giurisprudenza, agli effetti della tutela reintegratoria del lavoratore ingiustamente<br />
licenziato per unità produttiva deve intendersi non ogni sede, stabilimento, fi liale, uffi -<br />
cio o reparto dell’impresa, ma soltanto la più consistente e vasta entità aziendale che eventualmente<br />
articolata in organismi minori, anche non ubicati tutti nel territorio del medesimo<br />
comune, si caratterizzi per condizioni imprenditoriali di indipendenza tecnica e amministrativa<br />
tali che in essa si esaurisca per intero il ciclo relativo ad una frazione o ad un momento essenziale<br />
dell’attività produttiva aziendale; ne consegue che deve escludersi la confi gurabilità di<br />
un’unità produttiva in relazione alle articolazioni aziendali che, sebbene dotate di una certa<br />
autonomia amministrativa, siano destinate a scopi interamente strumentali o a funzioni ausiliarie<br />
sia rispetto ai generali fi ni dell’impresa, sia rispetto ad una frazione dell’attività produttiva<br />
della stessa (Cass. 3.11.2008, n. 26376).<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
99
100 Capitolo 10 - La previgente disciplina sanzionatoria<br />
Pertanto, è possibile confi gurare un’unità produttiva soltanto ogniqualvolta si sia in presenza<br />
di un’articolazione dell’impresa dotata di autonomia operativa e funzionale, nella quale si<br />
esaurisca l’intero ciclo produttivo o una frazione dello stesso.<br />
10.1.2.2 Luogo del licenziamento<br />
Ai sensi dell’art. 18 S.L., il luogo del licenziamento va identifi cato con la «sede, stabilimento,<br />
fi liale, uffi cio o reparto autonomo» in cui ha avuto luogo l’estinzione del rapporto di lavoro, ovvero<br />
l’unità produttiva alla quale il lavoratore licenziato era addetto all’epoca del licenziamento.<br />
10.1.3 Requisito soggettivo per l’applicabilità della tutela reale<br />
La riforma dell’art. 18 S.L. operata dalla L. 108/1990 ha esteso il regime della stabilità reale<br />
del rapporto di lavoro anche nei confronti del datore di lavoro non imprenditore confermando,<br />
tuttavia, l’eccezione rappresentata dal datore di lavoro non imprenditore che svolga «senza fi ni<br />
di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione e di culto»,<br />
secondo la defi nizione della cd. organizzazione di tendenza prevista dall’art. 4, L. 108/1990.<br />
10.1.4 Effetti giuridici della reintegrazione<br />
Il provvedimento giudiziale di reintegrazione determina quale proprio effetto la ricostituzione<br />
ex tunc del rapporto di lavoro invalidamente risolto, che deve considerarsi dunque privo di soluzione<br />
di continuità. Si tratta di un principio costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità,<br />
secondo cui qualora il datore di lavoro non ottemperi alla sentenza contenente l’ordine<br />
di reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato nel posto di lavoro, il rapporto di lavoro<br />
deve considerarsi come mai interrotto e persistente anche nel periodo successivo al licenziamento;<br />
permangono, quindi, l’obbligo della retribuzione come pure quello della ricostruzione<br />
della posizione contributiva ed il periodo non lavorato deve essere considerato utile ai fi ni dell’anzianità<br />
di servizio computabile per il trattamento di fi ne rapporto e gli scatti di anzianità.<br />
Come precisato dalla Corte di Cassazione, inoltre, la continuità e la permanenza del rapporto<br />
di lavoro giustifi cano l’intimazione di un secondo licenziamento per giusta causa o giustifi cato motivo<br />
fondato su fatti diversi da quelli posti a base del precedente provvedimento di recesso, che<br />
produrrà i suoi effetti solo qualora il precedente recesso venga dichiarato illegittimo (Cass.<br />
14.9.2009, n. 19770).<br />
10.1.5 Immediata esecutorietà ed ammissibilità dell’esecuzione in forma specifi ca<br />
L’ordine di reintegrazione - per espressa previsione dell’art. 18 S.L., che sul punto ha anticipato<br />
il principio generale introdotto dall’art. 431 c.p.c. della esecutorietà delle sentenze di<br />
primo grado di condanna del datore di lavoro al pagamento dei crediti del lavoratore - è immediatamente<br />
esecutivo, e ciò vale sia in relazione al contenuto ricognitivo della continuità del<br />
rapporto di lavoro sia a quello inibitorio, consistente nell’obbligo del datore di lavoro di cessare<br />
l’estromissione del lavoratore dal suo posto di lavoro.<br />
La Suprema Corte, al pari della giurisprudenza di merito, ha affermato l’inammissibilità della<br />
richiesta di sospensione ex art. 431 c.p.c. della provvisoria esecutorietà dell’ordine di reintegrazione,<br />
in quanto l’immediata eseguibilità di questa trae origine da una valutazione legale tipica<br />
(art. 18, L. 300/1970) connessa alla ritenuta necessità di assicurare una tutela urgente in via<br />
provvisoria, che esclude l’applicabilità della normale disciplina codicistica attinente alla generale<br />
previsione normativa in materia di obbligazioni da rapporto di lavoro (Cass. 26.7.1984, n. 4424).<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 10 - La previgente disciplina sanzionatoria<br />
Alla immediata esecutorietà dell’ordine di reintegrazione, tuttavia, non corrisponde anche<br />
la possibilità di esecuzione in forma specifi ca dell’ordine stesso.<br />
Secondo il costante orientamento giurisprudenziale sul punto, condiviso pressoché unanimemente<br />
dalla dottrina, l’impossibilità dell’esecuzione in forma specifi ca deriva dalla circostanza<br />
che la reintegrazione nel posto di lavoro implica necessariamente l’adozione di un<br />
comportamento infungibile di carattere organizzativo-funzionale da parte del datore di lavoro,<br />
il quale deve impartire le opportune direttive al lavoratore.<br />
10.1.6 Ripresa del servizio<br />
A seguito della pronuncia giudiziale dell’ordine di reintegrazione il lavoratore illegittimamente<br />
licenziato non ha alcun onere di offrire la propria prestazione lavorativa al datore di<br />
lavoro né di dichiarare la propria disponibilità al riguardo, incombendo invece sul datore di<br />
lavoro l’onere di formulare l’invito a riprendere servizio.<br />
Per espressa previsione dell’art. 18 S.L., infatti, grava sul datore di lavoro l’onere di invitare<br />
il lavoratore a riprendere servizio entro il termine di 30 giorni dalla pronuncia dell’ordine di<br />
reintegrazione; tale onere deve essere adempiuto anche nell’ipotesi in cui nel frattempo il prestatore<br />
di lavoro abbia rinvenuto una nuova occupazione, a meno che non risulti da elementi<br />
inequivocabili che è venuto meno l’interesse del lavoratore alla reintegrazione stessa oppure che<br />
quest’ultimo abbia rinunciato, implicitamente o esplicitamente, all’originario posto di lavoro<br />
Tale invito, che costituisce un tipico atto recettizio (che in quanto tale si presume conosciuto<br />
quando giunge al domicilio del lavoratore), non deve tuttavia limitarsi ad una generica offerta<br />
di un posto di lavoro all’interno dell’organizzazione aziendale, ma deve consistere in un invito<br />
concreto e specifi co a riprendere servizio nel luogo e nelle mansioni originarie ovvero in<br />
altre diverse, purché ricorrano i presupposti previsti dall’art. 2103 c.c.<br />
Dal punto di vista formale, l’invito a riprendere servizio non deve rivestire alcuna forma<br />
specifi ca; infatti l’art. 18, L. 20.5.1970, n. 300, non prevede alcuna particolare forma né per la<br />
formulazione dell’invito a riprendere servizio - rivolto dal datore di lavoro al lavoratore licenziato<br />
- né per la manifestazione della volontà dello stesso datore di profi ttare dell’automatica<br />
risoluzione del rapporto derivante ipso iure dalla mancata presentazione del dipendente entro<br />
il termine di trenta giorni al riguardo previsto.<br />
Conseguenze del mancato<br />
invito<br />
Rifi uto a riprendere servizio<br />
Il datore di lavoro che non provveda ad invitare il lavoratore a riprendere<br />
il servizio è tenuto a corrispondere a quest’ultimo le retribuzioni, e<br />
ciò anche nell’ipotesi in cui il prestatore di lavoro abbia rinvenuto una<br />
nuova occupazione, atteso che questa può essere sempre lasciata per<br />
aderire all’invito stesso.<br />
Nella diversa ipotesi in cui il datore di lavoro abbia formulato l’invito a riprendere<br />
servizio ma il lavoratore, entro 30 giorni dalla data di ricezione dello<br />
stesso, non vi ottemperi, per espressa previsione dell’art. 18 S.L. «il rapporto<br />
di lavoro si intende risolto» ipso iure, cioè senza necessità di uno specifi co<br />
atto di recesso di alcuna delle parti, con conseguente cessazione dell’obbligo<br />
retributivo a carico del datore di lavoro. La previsione dell’opzione per<br />
l’indennità sostitutiva della reintegrazione da esercitarsi entro il medesimo<br />
termine da parte del lavoratore che non può o non vuole riprendere servizio<br />
rende assai improbabile l’ipotesi che tale termine decorra senza che il prestatore<br />
di lavoro abbia ripreso servizio oppure optato per l’indennità stessa.<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
101<br />
– continua –
102 Capitolo 10 - La previgente disciplina sanzionatoria<br />
Lavoratore impossibilitato<br />
a riprendere servizio<br />
Laddove il lavoratore sia impossibilitato a riprendere servizio a causa di una<br />
malattia, l’invio del certifi cato medico è stato considerato dalla giurisprudenza<br />
di legittimità un’idonea adesione per fatti concludenti all’invito formulato<br />
dal datore di lavoro, determinando il normale effetto sospensivo della prestazione<br />
lavorativa che si verifi ca in costanza di rapporto di lavoro subordinato.<br />
10.1.7 Situazioni che non consentono la reintegrazione<br />
L’inottemperanza del datore di lavoro all’ordine di reintegrazione del dipendente illegittimamente<br />
licenziato può dipendere dall’impossibilità oggettiva di procedere a tale reintegrazione,<br />
come accade nell’ipotesi in cui sia cessata l’attività aziendale svolta dal datore di lavoro.<br />
In questa fattispecie, la giurisprudenza di legittimità giustifi ca la mancata reintegrazione del<br />
lavoratore, fermo restando il diritto di quest’ultimo di percepire l’indennità risarcitoria prevista<br />
dall’art. 18 S.L.<br />
10.1.8 Responsabilità penale per l’inosservanza dell’ordine di reintegrazione<br />
L’affermata incoercibilità dell’ordine di reintegrazione ha quale importante corollario, secondo<br />
la dottrina maggioritaria, quello della inconfi gurabilità a carico del datore di lavoro del<br />
reato di mancata esecuzione dolosa «di un provvedimento del giudice civile che (...) prescrive<br />
misure cautelari a difesa della proprietà, del possesso o del credito» previsto e disciplinato<br />
dall’art. 388, co. 2, c.p.<br />
Nella giurisprudenza, tuttavia, si assiste ad un orientamento assolutamente ondivago.<br />
Infatti, sebbene la Suprema Corte e, con essa, parte della giurisprudenza di merito concordino<br />
con le riportate conclusioni, altra parte della giurisprudenza di merito afferma invece che<br />
è illecito il comportamento datoriale consistente nel rifi uto della fi sica riammissione in azienda<br />
del lavoratore reintegrato, che confi gura l’elusione di una misura cautelare a difesa del<br />
credito, punibile ai sensi dell’art. 388 cpv. c.p. (Pret. Catanzaro, 19.3.1999).<br />
La medesima incertezza giurisprudenziale si registra anche con riferimento all’ipotesi di<br />
reato di cui al co. 1 dell’art. 388 c.p., nel quale incorre «chiunque, per sottrarsi all’adempimento<br />
degli obblighi civili nascenti da una sentenza di condanna (...) compie (...) atti simulati o<br />
fraudolenti».<br />
Deve invece escludersi la sussistenza della contravvenzione ex art. 650 c.p. a carico del<br />
datore di lavoro che si rifi uti di riammettere in azienda il lavoratore reintegrato, procedendo ad<br />
erogargli la retribuzione spettante.<br />
10.1.9 Luogo della reintegrazione e trasferimento del lavoratore reintegrato<br />
In linea generale, a seguito dell’ordine di reintegrazione del lavoratore il datore deve in via<br />
prioritaria riammettere il dipendente nel posto di lavoro nel luogo in cui si era precedentemente<br />
svolto il rapporto. Ove però la reintegrazione non possa avvenire nell’originario posto di<br />
lavoro perché tutta l’unità produttiva alla quale era addetto il lavoratore licenziato è stata soppressa,<br />
la reintegrazione ex art. 18 L. 300/1970 non può che essere riferita genericamente<br />
all’azienda del datore di lavoro, non potendo il giudice individuare una sede di lavoro alternativa<br />
a quella originaria, rientrando nelle scelte datoriali l’assegnazione del dipendente ad una<br />
nuova sede di lavoro (Cass. 3.5.2004, n. 8364).<br />
Tuttavia, la giurisprudenza di legittimità è assolutamente costante nel ritenere che il datore<br />
di lavoro, in presenza delle comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive con-<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 10 - La previgente disciplina sanzionatoria<br />
template dall’art. 2103 c.c., possa disporre il trasferimento del lavoratore reintegrato nel<br />
posto di lavoro. Infatti per la Corte di Cassazione 7.1.1998, n. 77, l’ordine di reintegrazione<br />
nel posto di lavoro emanato dal giudice nel sanzionare un licenziamento illegittimo esige<br />
che il lavoratore sia in ogni caso ricollocato nel posto di lavoro da ultimo occupato, salva la<br />
facoltà del datore di lavoro di disporne con successivo provvedimento il trasferimento ad<br />
altra sede nel concorso delle circostanze di cui all’art. 2103 c.c. (più recentemente, Cass.<br />
26.1.2012, n. 1107). La causa giustifi catrice del trasferimento può essere rinvenuta anche<br />
nella incompatibilità del lavoratore reintegrato con i lavoratori rimasti in servizio ovvero<br />
nelle tensioni di carattere personale che possono sorgere a seguito della riammissione nella<br />
originaria unità produttiva, tali da poter pregiudicare il regolare funzionamento dell’organizzazione<br />
aziendale.<br />
Il trasferimento del lavoratore reintegrato non può invece essere giustifi cato dalla circostanza<br />
che l’originario posto di lavoro sia stato assegnato medio tempore ad un altro dipendente;<br />
infatti, l’accertamento giudiziale dell’illegittimità del licenziamento ed il conseguente<br />
ordine di reintegrazione, ricostituendo de iure il rapporto - da considerare, quindi, come mai<br />
risolto - ne ripristinano integralmente l’originario contenuto obbligatorio, comprendente anche<br />
il diritto del lavoratore a riassumere le abituali mansioni nel posto di lavoro occupato anteriormente.<br />
Pertanto, l’eventuale attribuzione del suddetto posto ad altro dipendente in sostituzione del<br />
lavoratore licenziato - che abbia impugnato l’atto di recesso - deve essere considerata provvisoria<br />
perché condizionata alla defi nitiva reiezione giudiziale della suddetta impugnativa; ne<br />
consegue che, sopravvenuto l’ordine di reintegrazione, il datore di lavoro, quali che siano gli<br />
impegni assunti nei confronti del sostituto, deve in via prioritaria riammettere il lavoratore licenziato<br />
nel suo originario posto di lavoro e non può allegare l’avvenuta sostituzione come<br />
esigenza organizzativa per trasferire in altra sede di lavoro il dipendente reintegrato (Cass.<br />
14.10.2000, n. 13727).<br />
10.1.10 Indennità risarcitoria<br />
L’art. 18, co. 4, S.L., nella versione anteriore alle modifi che introdotte dalla L. 28.6.2012,<br />
n. 92, stabilisce che «il giudice con la sentenza di cui al 1° co. condanna il datore di lavoro al<br />
risarcimento del danno subìto dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata l’ineffi<br />
cacia o l’invalidità stabilendo un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto<br />
dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione e al versamento dei<br />
contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento al momento dell’effettiva<br />
reintegrazione; in ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque<br />
mensilità di retribuzione globale di fatto».<br />
Natura giuridica Secondo una parte della dottrina, la qualifi cazione della somma dovuta<br />
dal datore di lavoro quale «indennità» induce a concludere che<br />
la commisurazione della stessa «alla retribuzione globale di fatto dal<br />
giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione»<br />
non introduce una presunzione assoluta in ordine al quantum, bensì<br />
una presunzione semplice, con la conseguenza che il datore di lavoro<br />
(pur essendo intangibile la misura minima delle cinque mensilità di<br />
retribuzione) può eccepire nei confronti del prestatore di lavoro tanto<br />
l’aliunde perceptum quanto l’aliunde percipiendum.<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
103<br />
– continua –
104 Capitolo 10 - La previgente disciplina sanzionatoria<br />
Aliunde perceptum La Suprema Corte è costante nell’affermare che con la locuzione «aliunde<br />
perceptum» non deve intendersi qualsiasi reddito di lavoro percepito dal<br />
lavoratore successivamente al licenziamento, ma solo quello conseguito<br />
espletando attività lavorativa in un’occupazione oggettivamente equivalente<br />
a quella perduta per effetto del licenziamento stesso. Naturalmente,<br />
l’onere di provare che il danno subìto dal lavoratore sia inferiore a quanto<br />
presunto dalla legge è a carico del datore di lavoro, il quale deve dimostrare<br />
non solo che il lavoratore licenziato ha assunto nel frattempo una<br />
nuova occupazione ma anche quanto con essa percepito (aliunde perceptum),<br />
essendo questo il fatto che riduce l’entità del danno presunto (Cass.<br />
29.8.2000, n. 11341; Cass. 9.4.2003, n. 5532 e Cass. 5.4.2004, n. 6668).<br />
È invece oggetto di contrasto giurisprudenziale il problema della computabilità,<br />
quale aliunde perceptum, dell’indennità di disoccupazione percepita dal<br />
lavoratore licenziato e successivamente reintegrato. A tale riguardo, è stato<br />
recentemente affermato che il risarcimento del danno spettante a norma<br />
dell’art. 18 della L. n. 300/1970, commisurato all’importo delle retribuzioni<br />
che sarebbero maturate dalla data del licenziamento, non può essere diminuito<br />
degli importi eventualmente ricevuti a titolo di indennità di mobilità,<br />
che si sottraggono alla regola della compensatio lucri cum damno in quanto<br />
tali somme, percepite ad altro titolo dall’istituto previdenziale, con l’annullamento<br />
del licenziamento perdono il titolo giustifi cativo e devono essere restituite<br />
a richiesta dell’ente previdenziale, con la conseguenza che non realizzano<br />
un effettivo incremento patrimoniale del lavoratore (Cass. 28.4.2010,<br />
n. 10164; più recentemente, nel merito, Trib. Ascoli Piceno, 17.12.2010).<br />
Aliunde percipiendum Quanto, poi, ai danni che il lavoratore avrebbe potuto evitare usando<br />
l’ordinaria diligenza (il cd. aliunde percipiendum), la Suprema Corte<br />
ha precisato al riguardo che poiché il co. 2 dell’art. 1227 c.c., nell’escludere<br />
che il creditore possa avere diritto al risarcimento dei danni<br />
che lo stesso avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza, e nel<br />
porre, quindi, sul suddetto creditore il dovere di non aggravare con il<br />
fatto proprio e con la propria condotta il pregiudizio subìto, fa esplicito<br />
riferimento all’elemento della colpa, il giudice deve prendere in considerazione<br />
non ogni comportamento che astrattamente possa aggravare<br />
il danno, ma solamente quel comportamento che eccede i limiti<br />
dell’ordinaria diligenza (Cass. 14.6.1994, n. 5766).<br />
Con riferimento alla rilevanza dell’aliunde percipiendum ai fi ni della quantifi<br />
cazione dell’indennità di cui all’art. 18 S.L. può assumere rilievo anche la<br />
mancata iscrizione nelle liste di collocamento, non come circostanza di per<br />
sé suffi ciente a ridurre il danno risarcibile, bensì come circostanza valutabile<br />
nell’ambito dell’intera condotta del lavoratore, tenendosi conto altresì delle<br />
effettive e concrete possibilità di nuova occupazione (Cass. 16.3.2002, n. 3904).<br />
Retribuzione globale<br />
di fatto<br />
Il parametro di calcolo dell’indennità prevista dall’art. 18 S.L. è rappresentata<br />
dalla retribuzione globale di fatto mensile percepita dal lavoratore<br />
o che questi avrebbe dovuto percepire in base alla qualifi ca a lui<br />
spettante.<br />
La giurisprudenza di legittimità ha recentemente statuito che la nozione di<br />
“retribuzione globale di fatto” quale parametro di computo sia del risarcimento<br />
del danno conseguente alla declaratoria di invalidità del licenziamento<br />
nell’ambito della c.d. tutela reale sia per la determinazione dell’indennità<br />
sostitutiva della reintegrazione ex art. 18, co. 5, S.L., deve essere<br />
riferita non solo alla retribuzione base ma anche a ogni compenso di carattere<br />
continuativo che si ricolleghi alle particolari modalità della prestazione<br />
in atto al momento del licenziamento, tra le quali devono essere ovviamente<br />
inclusi anche i ratei delle mensilità aggiuntive annualmente corrisposte.<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Indennità sostitutiva delle ferie non godute<br />
Capitolo 10 - La previgente disciplina sanzionatoria<br />
Non è invece dovuta al lavoratore invalidamente licenziato l’indennità sostitutiva delle ferie<br />
non godute dal giorno del recesso a quello della effettiva reintegrazione nel posto di lavoro.<br />
La Corte di Cassazione, con sentenza 5.5.2000, n. 5624, ha sottolineato che in caso di licenziamento<br />
dichiarato illegittimo, l’attribuzione al lavoratore delle retribuzioni non percepite dalla<br />
data di intimazione del licenziamento a quella di effettiva reintegrazione nel posto di lavoro<br />
non comprende l’attribuzione dell’indennità sostitutiva delle ferie non godute nel periodo di<br />
sospensione verificatosi a seguito del licenziamento dichiarato illegittimo, atteso che detta indennità<br />
ha natura risarcitoria e non retributiva, e che la sospensione del rapporto di lavoro, sia<br />
pure per fatto illegittimo del datore di lavoro, facendo venire meno la prestazione lavorativa<br />
esclude quella esigenza di recupero delle energie psicofisiche che il diritto alle ferie è inteso<br />
a soddisfare.<br />
10.1.10.1 Opzione in sostituzione della reintegrazione<br />
Ai sensi del “vecchio” art. 18, co. 5, S.L., «fermo restando il diritto al risarcimento del danno<br />
(...) al prestatore di lavoro è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro in sostituzione<br />
della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a quindici mensilità di retribuzione<br />
globale di fatto».<br />
La giurisprudenza di legittimità è costante nell’affermare che il diritto del lavoratore illegittimamente<br />
licenziato di ottenere, in luogo della reintegrazione nel posto di lavoro, l’indennità<br />
sostitutiva prevista dal citato co. 5 confi gura un’obbligazione con facoltà alternativa dal lato del<br />
creditore (Cass. 16.10.1998, n. 10283; Cass. 26.8.2003, n. 12514; Trib. Roma, 10.1.2006). Da ciò<br />
consegue che con l’esercizio da parte del lavoratore della scelta a favore dell’indennità sostitutiva<br />
si risolve il rapporto di lavoro e viene altresì meno l’obbligo del datore di lavoro di reintegrare<br />
il lavoratore medesimo, cui si sostituisce quello di pagare la suddetta indennità, il cui<br />
ritardo nell’adempimento determina le normali conseguenze della mora debendi ex art. 429,<br />
co. 3, c.p.c. (cioè interessi e rivalutazione monetaria). Inoltre, con il pagamento da parte del<br />
datore di lavoro dell’indennità sostitutiva si estingue, ai sensi dell’art. 1285 c.c., l’obbligazione<br />
alternativa.<br />
Il previgente art. 18, co. 4, S.L. prevede la risoluzione del rapporto di lavoro nel caso in cui<br />
il lavoratore non abbia optato per il pagamento dell’indennità sostitutiva entro 30 giorni dalla<br />
comunicazione del deposito della sentenza, ovvero non abbia ripreso servizio entro 30 giorni<br />
dal ricevimento dell’invito formulato in tal senso dal datore di lavoro.<br />
10.1.11 Profi li previdenziali e assicurativi della reintegrazione<br />
Per espressa previsione dell’art. 18 S.L., per effetto della sentenza che ordina la reintegrazione<br />
del lavoratore invalidamente licenziato il datore di lavoro è obbligato a ricostituire<br />
a favore del medesimo la posizione assicurativa, versando ai competenti enti i contributi<br />
relativi al periodo in cui il prestatore di lavoro è rimasto estromesso dal proprio posto di lavoro.<br />
I contributi previdenziali sono dovuti indipendentemente dall’erogazione della retribuzione<br />
e vanno commisurati a quella che sarebbe stata la normale retribuzione nell’intero periodo,<br />
anche se non coincidente con l’importo del danno liquidato in applicazione dei criteri di risarcimento<br />
fi ssati dalla legge (Cass, SS.UU., 5.7.2007, n. 15143).<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
105
106 Capitolo 10 - La previgente disciplina sanzionatoria<br />
Assoggettabilità a contribuzione delle somme liquidate al lavoratore<br />
Dalla circostanza che il licenziamento invalidamente irrogato nell’area della tutela reale non è idoneo<br />
a interrompere il rapporto di lavoro consegue l’importante corollario che nel periodo intercorrente<br />
tra il licenziamento e il provvedimento di reintegra permane l’obbligo contributivo del datore<br />
di lavoro; pertanto, alle somme liquidate al lavoratore deve essere riconosciuta - per l’anzidetto<br />
periodo - natura non solo risarcitoria ma anche retributiva, con la conseguenza che l’attribuzione<br />
patrimoniale, sopravvivendo il rapporto di lavoro e quello assicurativo, è assoggettabile alla contribuzione<br />
previdenziale, a norma dell’art. 12, L. 30.4.1969, n. 153 (Cass. 13.1.2012, n. 402; conf. Cass.<br />
12.12.2007, n. 26078).<br />
Funzione «risarcitoria» dell’indennità<br />
Peraltro, nella particolare ipotesi di licenziamento del lavoratore che rinvenga immediatamente<br />
una nuova occupazione presso altro datore di lavoro in guisa tale che fra il rapporto cessato e quello<br />
così iniziato non si verifi chi soluzione di continuità, l’indennità alla quale il primo datore di lavoro<br />
sia stato condannato, ai sensi dell’art. 18, L. 20.5.1970, n. 300, per l’illegittimità del suo recesso,<br />
ha funzione esclusivamente risarcitoria - anche se subito dopo l’inizio della nuova occupazione sopravvenga<br />
un provvedimento di collocamento del lavoratore in cassa integrazione - e, conseguentemente,<br />
si sottrae alla contribuzione previdenziale (Cass. 24.4.1992, n. 4957).<br />
Restituzione dell’importo del TFR<br />
Naturalmente, nel caso in cui il lavoratore venga reintegrato nel posto di lavoro, questi è tenuto a<br />
restituire l’importo ricevuto a titolo di trattamento di fi ne rapporto, maggiorato degli interessi legali<br />
(ma non della rivalutazione monetaria) dalla data della domanda di restituzione.<br />
10.2 Tutela obbligatoria<br />
Il regime della cd. tutela obbligatoria del rapporto di lavoro è previsto e disciplinato<br />
dall’art. 8, L. 15.7.1966, n. 604 (come modifi cato dall’art. 2, L. 11.5.1990, n. 108), ai sensi del<br />
quale «quando risulti accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giusta<br />
causa o giustifi cato motivo, il datore di lavoro è tenuto a riassumere il prestatore di lavoro<br />
entro il termine di tre giorni o, in mancanza, a risarcire il danno versandogli un’indennità di<br />
importo compreso fra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione<br />
globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni<br />
dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni<br />
delle parti.<br />
La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fi no a 10 mensilità<br />
per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fi no a 14 mensilità per il<br />
prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro<br />
che occupa più di quindici prestatori di lavoro». Il contenuto peculiare di tale regime consiste,<br />
pertanto, nella circostanza di attribuire al datore di lavoro l’alternativa tra la riassunzione<br />
del lavoratore invalidamente licenziato e la corresponsione al medesimo di una indennità<br />
risarcitoria.<br />
Tale regime trova applicazione residuale rispetto all’ambito di operatività dell’art. 18 S.L.,<br />
nel senso che la disposizione in esame si applica a tutti i rapporti di lavoro esclusi dall’area di<br />
applicazione della tutela cd. reale e per i quali non operi il regime eccezionale della libera recedibilità.<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 10 - La previgente disciplina sanzionatoria<br />
Natura ed effi cacia Ove trovi applicazione il regime della cosiddetta tutela obbligatoria, il<br />
licenziamento, seppure illegittimo, interrompe comunque il rapporto.<br />
Conseguentemente, l’offerta del datore di lavoro di riassumere il lavoratore<br />
equivale ad una vera e propria nuova proposta contrattuale,<br />
che deve essere accettata da quest’ultimo secondo i princìpi generali<br />
in tema di conclusione dei contratti.<br />
Termine per la riassunzione<br />
Rapporto tra riassunzione<br />
e pagamento dell’indennità<br />
10.2.1 Indennità risarcitoria<br />
Quanto al termine di tre giorni entro il quale il datore di lavoro deve formulare<br />
tale offerta, la migliore dottrina pronunciatasi sul punto ritiene<br />
che siffatto termine non abbia carattere perentorio.<br />
L’obbligo di riassumere il lavoratore licenziato per giusta causa o giustifi<br />
cato motivo, posto dall’art. 8, L. 15.7.1966, n. 604, è alternativo rispetto<br />
a quello di risarcirgli il danno mediante il versamento dell’indennità fi ssata<br />
dalla suddetta norma, con la conseguenza che il dipendente illegittimamente<br />
licenziato che, invitato dal datore di lavoro a riprendere<br />
servizio, rifi uti di farlo, non ha diritto ad alcun risarcimento del danno<br />
(Cass. 12.6.1995, n. 6620).<br />
Al di là del criterio oggettivo rappresentato dall’anzianità di servizio del lavoratore licenziato,<br />
la norma in esame prevede quali ulteriori requisiti il numero dei dipendenti occupati, le<br />
dimensioni dell’impresa (che secondo la dottrina consente di prendere in considerazione anche<br />
altri elementi oltre a quello occupazionale, ad esempio il fatturato), le condizioni delle<br />
parti (ad esempio la situazione di crisi dell’impresa o lo stato di disoccupazione del lavoratore),<br />
il comportamento delle parti (da intendersi quale comportamento processuale, con particolare<br />
riferimento alla fase conciliativa della controversia). In materia è intervenuto il Legislatore,<br />
stabilendo all’art. 30, co. 3, della L. 4.11.2010, n. 183, che «nel defi nire le conseguenze da riconnettere<br />
al licenziamento ai sensi dell’articolo 8 della L. 15.7.1966, n. 604, e successive<br />
modifi cazioni, il giudice tiene egualmente conto di elementi e parametri fi ssati dai predetti<br />
contratti» - ovverosia dai «contratti <strong>collettivi</strong> di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente<br />
più rappresentativi ovvero nei contratti <strong>individuali</strong> di lavoro ove stipulati con l’assistenza e la<br />
consulenza delle commissioni di certifi cazione» - «e comunque considera le dimensioni e le<br />
condizioni dell’attività esercitata dal datore di lavoro, la situazione del mercato del lavoro locale,<br />
l’anzianità e le condizioni del lavoratore, nonché il comportamento delle parti anche prima<br />
del licenziamento».<br />
Analogamente a quanto previsto dall’art. 18 S.L., la base di calcolo dell’indennità risarcitoria<br />
ex art. 8, L. 604/1966, è costituita dalla «mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto».<br />
La dottrina ha sollevato numerose perplessità con riguardo alla circostanza che il parametro<br />
fi ssato dal legislatore sia quello dell’ultima retribuzione e non invece della media delle retribuzioni<br />
percepite in un diverso e più ampio arco temporale.<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
107
Capitolo 11<br />
LA NUOVA DISCIPLINA SANZIONATORIA<br />
PREVISTA DALL’ART. 18 S.L<br />
Punto nodale della riforma del mercato del lavoro introdotta dalla L. 28.6.2012, n. 92, è<br />
certamente stata la modifi ca dell’articolo 18 della L. 20.5.1970, n. 300 (Statuto dei Lavoratori):<br />
vediamo più nel dettaglio quali sono le principali novità.<br />
Va subito anticipato che nulla viene a modifi carsi per il licenziamento c.d. ad nutum (ipotesi<br />
che riguarda tipicamente i dirigenti e i collaboratori domestici, cfr. supra Capitolo 2) né per<br />
il licenziamento assistito dalla tutela c.d. obbligatoria prevista dalla L. 604/1966 (cfr. il precedente<br />
Capitolo 10).<br />
Nella sua defi nitiva formulazione, la riforma individua in sostanza tre differenti regimi<br />
sanzionatori applicabili a seconda che si tratti di licenziamento “discriminatorio” (o per “motivo<br />
illecito determinante”), “disciplinare”, ovvero “per motivi economici”, introducendo per la<br />
prima volta una tutela a carattere risarcitorio nel campo della c.d. tutela reale che, fi n dall’introduzione<br />
dello Statuto dei Lavoratori, si presentava sino ad oggi come un monoblocco, garantendo<br />
nelle imprese con più di 15 lavoratori in ciascuna unità produttiva, o 60 a livello nazionale,<br />
una tutela in forma specifi ca quale la reintegrazione nel posto di lavoro, arricchita nel<br />
tempo dall’opzione indennitaria introdotta dalla L. 108/1990.<br />
La riforma non si ferma ai soli <strong>licenziamenti</strong> <strong>individuali</strong>, introducendo forme di tutela risarcitoria<br />
anche nel campo dei <strong>licenziamenti</strong> <strong>collettivi</strong>.<br />
Ma veniamo ad analizzare in concreto cosa è cambiato rispetto al passato.<br />
11.1. La nullità del recesso nel nuovo articolo 18<br />
L’art. 1, co. 42, L. 28.6.2012, n. 92, si propone di disciplinare in modo organico gli effetti del<br />
licenziamento nullo, in parte richiamando disposizioni di legge già in vigore nel nostro ordinamento<br />
e in parte recependo princìpi elaborati dalla giurisprudenza: si rimanda ai Capitoli 1 e<br />
8 per una più diffusa trattazione del recesso, rispettivamente, ineffi cace e nullo.<br />
11.1.1 Il licenziamento discriminatorio<br />
Venendo qui ad esaminare il solo aspetto sanzionatorio oggi previsto dal co. 1 del nuovo art.<br />
18 S.L., valga osservare come la norma identifi chi, innanzitutto, i casi di nullità del licenziamento,<br />
primo fra tutti il recesso intimato per motivi discriminatori, cioè a dire determinato da<br />
ragioni di credo politico, fede religiosa o razziali, dall’appartenenza ad un sindacato o dalla<br />
semplice partecipazione ad attività sindacali, ovvero ancora da ragioni di lingua o di sesso, di<br />
handicap, di età o basate sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali.<br />
In tema di licenziamento discriminatorio, peraltro, la norma in esame non presenta alcun<br />
carattere innovativo. Infatti, sin dall’entrata in vigore della L. 11.5.1990, n. 108 - ultimo intervento<br />
legislativo di carattere generale in tema di <strong>licenziamenti</strong> <strong>individuali</strong> -, il licenziamento<br />
discriminatorio era affetto da nullità (nullità già a suo tempo prevista dalla L. 15.7.1966, n. 604<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
109
110 Capitolo 11 - La nuova disciplina sanzionatoria prevista dall’art. 18 S.L<br />
e dallo Statuto dei Lavoratori ma senza ricomprendervi i dirigenti), con applicazione della sanzione<br />
della reintegrazione e del risarcimento del danno subìto dal lavoratore.<br />
11.1.2 Il licenziamento a causa di matrimonio<br />
Il co. 1 dell’art. 18 citato, come modifi cato dal co. 42, art. 1, L. 28.6.2012, n. 92, richiama, in<br />
secondo luogo, i casi di recesso datoriale nullo perché intimato a causa di matrimonio ovvero<br />
in violazione dei divieti di licenziamento di cui alla normativa in materia di tutela della maternità<br />
e paternità.<br />
La prima di tali fattispecie è oggi prevista dall’articolo 35, D.Lgs. 11.4.2006, n. 198 (Codice<br />
delle pari opportunità tra uomo e donna), in cui il Legislatore ha disposto che il licenziamento<br />
della dipendente si presume essere avvenuto a causa di matrimonio laddove sia stato intimato<br />
nel periodo intercorrente «dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio, in<br />
quanto segua la celebrazione, a un anno dopo la celebrazione stessa».<br />
In proposito, risulta di particolare interesse ricordare la previsione del settimo comma del citato<br />
articolo 35, ai sensi del quale la lavoratrice che, invitata a riassumere servizio a seguito della<br />
dichiarazione di nullità del licenziamento, dichiari di recedere dal contratto, «ha diritto al trattamento<br />
previsto per le dimissioni per giusta causa», ovvero all’indennità sostitutiva del preavviso.<br />
Tale disposizione, infatti, va ora coordinata con quella del “nuovo” articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori,<br />
in base al quale la lavoratrice, oltre al diritto di ricevere le retribuzioni sin lì perdute e da<br />
oggi anche la reintegrazione nel posto di lavoro, ha la facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione<br />
della reintegrazione, un’indennità pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di<br />
fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro. Trattasi, a parere di chi scrive,<br />
di disposizioni inconciliabili e quindi si dovrà ritenere implicitamente abrogato il settimo comma<br />
dell’art. 35 sopra riportato, a meno di ritenerla una tutela aggiuntiva per l’ipotesi in cui, in occasione<br />
del licenziamento, non sia stato corrisposto alcunché a titolo di preavviso. Ma un’ipotesi di tutela<br />
così “rafforzata” non convince sia sotto il profi lo sistematico sia alla luce della giurisprudenza<br />
sin qui registrata in tema di preavviso e tutela reale (cfr., tra le tante, Cass. 8.6.2006, n. 13380).<br />
11.1.3 Il licenziamento a causa di maternità/paternità<br />
La seconda di tali fattispecie riguarda il recesso intimato alla lavoratrice madre nel periodo<br />
compreso tra l’inizio della gravidanza e il compimento di un anno di età del bambino, il licenziamento<br />
causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per malattia da<br />
parte della lavoratrice o del lavoratore, o intimato al lavoratore padre per la durata del congedo<br />
di paternità e sino al compimento di un anno del fi glio o, infi ne, in caso di adozione o affi damento<br />
(ai sensi dell’articolo 54, D.Lgs. 26.3.2001, n. 151).<br />
La norma di legge in commento, inoltre, dispone la nullità del recesso del datore di lavoro<br />
qualora esso sia riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge (ad esempio, a causa<br />
della domanda di fruizione di congedi per eventi e cause particolari, congedi per formazione e<br />
per la formazione continua di cui alla L. 8.3.2000, n. 53; oppure in frode alla legge, come ad<br />
esempio in caso di licenziamento intimato prima del trasferimento d’azienda e seguito da immediata<br />
riassunzione del lavoratore da parte dell’acquirente, al fi ne di aggirare le disposizioni<br />
dell’articolo 2112 del codice civile).<br />
11.1.4 Il licenziamento nullo per motivo illecito e determinante o ineffi cace<br />
È possibile altresì che il licenziamento sia nullo per motivo illecito determinante, ai sensi<br />
dell’articolo 1345 del Codice Civile. La giurisprudenza, ancorché non recente, ha ritenuto tale<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 11 - La nuova disciplina sanzionatoria prevista dall’art. 18 S.L<br />
l’ipotesi del recesso ritorsivo, che consiste nel recesso datoriale quale ingiusta e arbitraria<br />
reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore. Più recentemente, il licenziamento<br />
per ritorsione è stato assimilato dalla giurisprudenza al recesso per ragioni discriminatorie.<br />
Infi ne, in base al nuovo dettato normativo, le conseguenze del licenziamento nullo si applicano<br />
anche al licenziamento dichiarato ineffi cace perché intimato in forma orale (di cui al<br />
Capitolo 1). Sul punto il regime sanzionatorio introdotto si caratterizza per un’importante novità:<br />
infatti, in caso di tutela obbligatoria sotto i 15 dipendenti la tutela accordata sin qui al licenziamento<br />
orale era di tipo esclusivamente ripristinatorio in ossequio al principio civilistico<br />
dell’impossibilità di produrre alcun effetto giuridico dell’atto considerato ineffi cace. Ora, di<br />
contro, anche sotto la soglia dei quindici dipendenti viene assicurata la reintegrazione “piena”<br />
garantita dall’art. 18, co. 1, S.L., ovvero risarcimento integrale del danno e reintegrazione nel<br />
posto di lavoro, in tutti i casi di licenziamento orale.<br />
Oltre a ciò, il nuovo art. 18 introduce tre ulteriori forme di “ineffi cacia” del licenziamento:<br />
la violazione dell’obbligo di contestuale motivazione della lettera di licenziamento (art. 2, co. 2,<br />
L. 604/1966, novellato dall’art. 1, co. 37, L. 28.6.2012, n. 92); la violazione della procedura<br />
dell’art. 7 S.L. o della violazione della procedura preventiva oggi introdotta dal novellato art. 7,<br />
L. 604/1966.<br />
Ebbene, in tutte le tre ipotesi di ineffi cacia del recesso datoriale sopra riportate la sanzione<br />
ipotizzata non è quella tipica del diritto civile bensì una tutela che, in accordo alle liability rules<br />
oggi introdotte nel campo della tutela reale, risponde a logiche risarcitorie anziché ripristinatorie<br />
dello status quo ante, ovvero un’indennità risarcitoria da sei a dodici mesi dell’ultima retribuzione<br />
globale di fatto, salvo che, prescrive la norma (art. 18, co. 6), il giudice non accerti<br />
che vi è anche un difetto di giustifi cazione “più grave”, nel qual caso si applicano i regimi<br />
sanzionatori propri del difetto riscontrato: in altre parole, l’ineffi cacia in queste tre ipotesi viene<br />
sanzionata di per sé, quale vizio “minore” (procedurale o formale) di un atto che, sotto il<br />
profi lo causale, viene riconosciuto come legittimo ricorrendone i presupposti richiesti dalla<br />
norma.<br />
11.1.5 La sanzione: reintegrazione e risarcimento<br />
In relazione a tutti i motivi di licenziamento sopra esposti, la sanzione è quella della nullità<br />
dell’atto - che è tale indipendentemente dalle ragioni formalmente addotte dal datore di lavoro<br />
a giustifi cazione del proprio recesso - dalla quale consegue innanzitutto ed invariabilmente<br />
il diritto del lavoratore alla reintegrazione nel posto di lavoro, a prescindere dal numero dei<br />
dipendenti occupati dal datore di lavoro e dalla qualifi ca del lavoratore (la disposizione, infatti,<br />
si applica anche ai dirigenti), già prevista in passato almeno per la fattispecie discriminatoria<br />
in senso stretto (art. 3, L. 108/1990 e art. 15 S.L.).<br />
Un primo pregio, indubitabile, della novella introdotta sul punto è certamente quello di<br />
unifi care il regime sanzionatorio del licenziamento nullo che, soprattutto per la fattispecie del<br />
licenziamento intimato a causa di matrimonio, e con qualche incertezza giurisprudenziale su<br />
quella della lavoratrice madre, prevedeva il rimedio civilistico della nullità dell’atto (tamquam<br />
non esset), con diritto alla ricostituzione del rapporto in quanto mai risolto e alle retribuzioni<br />
nel frattempo maturate tra la data del licenziamento, dichiarato nullo, e la sentenza.<br />
Il/la lavoratore/lavoratrice, dunque, in tutte le ipotesi ipotizzate ed ipotizzabili di licenziamento<br />
nullo riceverà identica tutela, ovvero il datore di lavoro sarà sempre condannabile alla<br />
reintegrazione, oltre ad un’indennità risarcitoria (commisurata all’ultima retribuzione globale<br />
di fatto percepita dallo/a stesso/a) pari alle mensilità perdute dal giorno del licenziamento<br />
sino a quello dell’effettiva reintegrazione con un minimo di cinque: di fatto la tutela reale sin<br />
qui conosciuta.<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
111
112 Capitolo 11 - La nuova disciplina sanzionatoria prevista dall’art. 18 S.L<br />
11.1.6 L’aliunde perceptum<br />
Di particolare interesse, al riguardo, risulta la novità introdotta dalla previsione in base alla<br />
quale da tale indennità deve essere dedotto il c.d. aliunde perceptum, vale a dire quanto percepito<br />
dal lavoratore, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative<br />
(siano esse di carattere subordinato o autonomo).<br />
Vero è che tale espressa disposizione, pur costituendo recepimento del pressoché unanime<br />
orientamento della giurisprudenza e della dottrina, imporrà al giudice una più attenta e puntuale<br />
indagine delle attività svolte e delle somme percepite dal lavoratore dopo il licenziamento.<br />
È noto, infatti, che, attualmente, l’onere della prova dell’aliunde perceptum è a carico del<br />
datore di lavoro il quale, tuttavia, stante la normativa <strong>sulla</strong> protezione dei dati personali, non<br />
può accedere direttamente ad informazioni afferenti l’ex-dipendente e le attività lavorative da<br />
esso svolte. Sin qui l’imprenditore poteva solo limitarsi a presentare al giudice istanze istruttorie<br />
– raramente accolte - volte ad ottenere l’ordine di esibizione dei documenti comprovanti<br />
l’aliunde perceptum. Sicché è altamente auspicabile che la nuova disposizione di legge introduca<br />
un’inversione di tendenza.<br />
11.1.7 L’opzione alla reintegrazione<br />
Da ultimo, valga ricordare che il lavoratore per il quale sia stato stabilito il diritto alla reintegrazione<br />
ha facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione di tale reintegrazione,<br />
un’indennità pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta<br />
determina la risoluzione del rapporto di lavoro e che, per espressa previsione normativa, non<br />
è assoggettata a contribuzione previdenziale (art. 18, co. 3).<br />
La richiesta di tale indennità, che non fa venir meno il diritto al risarcimento del danno<br />
subìto dal lavoratore, deve essere effettuata entro 30 giorni dalla comunicazione della pubblicazione<br />
della sentenza che dichiara la nullità del licenziamento ovvero dall’invito del datore di<br />
lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione.<br />
Ci sia consentita una considerazione conclusiva in tema di discriminatorietà del recesso<br />
datoriale: appare evidente che, a fronte di una tutela piena ed assoluta (c.d. “tutela reale”, non<br />
a caso) riservata al licenziamento discriminatorio rispetto a quella (inferiore, o comunque<br />
soggetta alla discrezionalità del giudice, di cui si dirà infra) prevista per le altre tipologie di<br />
recesso, è facilmente prevedibile un sensibile incremento del contenzioso giuslavoristico improntato<br />
all’accertamento di - vere o presunte - ragioni discriminatorie alla base della cessazione<br />
del rapporto di lavoro.<br />
Con ogni probabilità, dunque, i nostri giudici, ancora poco avvezzi a districarsi nei meandri<br />
di un concetto dai contorni spesso sfuggenti come quello della discriminazione (soprattutto se<br />
indiretta), saranno giocoforza costretti a confrontarsi con una serie di problematiche tipiche<br />
del mondo anglosassone: l’onere della prova in ogni caso sarà interamente in capo al lavoratore,<br />
seppur aiutato in alcuni casi da disposizioni a carattere presuntivo o di inversione dell’onere<br />
probatorio.<br />
11.2 La disciplina sanzionatoria nel licenziamento disciplinare<br />
Diverso il discorso sanzionatorio per il licenziamento “disciplinare”: per una trattazione<br />
compiuta della fattispecie occorre rimandare a quanto scritto nel Capitolo 3, quanto al procedimento<br />
disciplinare, e ai Capitoli 4 e 5 per le fattispecie di giusta causa e giustifi cato motivo<br />
soggettivo di licenziamento.<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 11 - La nuova disciplina sanzionatoria prevista dall’art. 18 S.L<br />
Nella fattispecie in esame, ovvero il licenziamento motivato da mancanze più o meno gravi del<br />
lavoratore (appunto, giusta causa o giustifi cato motivo soggettivo), il giudice avrà per la prima volta<br />
la possibilità di graduare la sanzione, a seconda dei casi, tra la reintegrazione del lavoratore nel<br />
posto di lavoro o un’indennità risarcitoria compresa tra 12 e 24 mensilità di retribuzione.<br />
11.2.1 La reintegrazione<br />
In particolare l’art. 18, co. 4, S.L., come modifi cato dalla L. 28.6.2012, n. 92, dispone che il giudice,<br />
laddove accerti la “non giustifi cazione” del licenziamento per l’inesistenza del fatto imputato<br />
al lavoratore ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa<br />
<strong>sulla</strong> base delle previsioni dei contratti <strong>collettivi</strong> ovvero dei codici disciplinari applicabili, annulli il<br />
licenziamento e disponga la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, nonché il risarcimento<br />
in suo favore del danno retributivo e contributivo patito, entro il massimo di 12 mensilità di retribuzione<br />
(per quanto riguarda il danno retributivo, quello contributivo deve essere risarcito integralmente,<br />
sia pure maggiorato dei soli interessi legali e senza applicazione di sanzione per omessa o<br />
ritardata contribuzione), dedotto quanto percepito o percepibile dal medesimo nel periodo intercorso<br />
tra la data di licenziamento e quella di reintegrazione (c.d. aliunde perceptum et percipiendum:<br />
cfr. Capitolo 10). In ogni caso, il lavoratore continuerà ad avere facoltà di optare per un’indennità<br />
pari a 15 mensilità di retribuzione in luogo della reintegrazione. Non è previsto in questo caso<br />
il minimo di cinque mensilità in precedenza sempre accordato dalla norma.<br />
Il datore di lavoro è condannato, altresì, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali<br />
dal giorno del licenziamento fi no a quello della effettiva reintegrazione, maggiorati<br />
degli interessi nella misura legale senza applicazione di sanzioni per omessa o ritardata contribuzione,<br />
per un importo pari al differenziale contributivo esistente tra la contribuzione che<br />
sarebbe maturata nel rapporto di lavoro risolto dall’illegittimo licenziamento e quella accreditata<br />
al lavoratore in conseguenza dello svolgimento di altre attività lavorative.<br />
Dunque, in caso di inesistenza dell’addebito o di sproporzionalità “assoluta” perché conclamata<br />
dalle fonti indicate dalla norma tra fatto contestato e sanzione irrogata, il giudice necessariamente<br />
dovrà condannare il datore alla sanzione reintegratoria già prevista in passato, sì che è lecito concludere<br />
che per tali due profi li di illegittimità la disciplina sanzionatoria è rimasta del tutto immutata.<br />
Nota di merito, attesa la proverbiale lungaggine dei tempi della giustizia italiana anche del lavoro,<br />
il contenimento in dodici mesi del massimo dell’indennità risarcitoria per il periodo intercorso tra<br />
licenziamento e reintegrazione: correttivo accettato dalle parti sociali nel lungo confronto in sede<br />
ministeriale, che ben si coniuga con la nuova disciplina processuale (di cui infra al Capitolo 12), novità<br />
senza le quali il processo del lavoro in caso di licenziamento rischiava di rimanere una cambiale<br />
in bianco o una sorta di rendita a favore del lavoratore in caso di soccombenza datoriale.<br />
11.2.2 L’indennità risarcitoria<br />
Diversamente, nelle “altre ipotesi” di accertata illegittimità del licenziamento disciplinare,<br />
il giudice non potrà disporre la reintegrazione bensì, dichiarato comunque risolto il rapporto<br />
di lavoro, condannerà il datore di lavoro alla corresponsione di un’indennità risarcitoria determinata<br />
tra un minimo di 12 ed un massimo di 24 mensilità di retribuzione <strong>sulla</strong> base di “vari<br />
parametri”, individuati nell’anzianità del lavoratore, nel numero dei dipendenti occupati, nelle<br />
dimensioni dell’attività economica, nel comportamento e nelle condizioni delle parti, con onere<br />
di specifi ca motivazione a tale riguardo (art. 18, co. 5).<br />
V’è da chiedersi quali siano le altre ipotesi cui fa riferimento la norma. Un’interpretazione<br />
sistematica che voglia dare un qualche signifi cato alla portata innovativa della norma non può<br />
che partire dal dato letterale della stessa.<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
113
114 Capitolo 11 - La nuova disciplina sanzionatoria prevista dall’art. 18 S.L<br />
Se così è, pare lecito concludere che, laddove l’addebito contestato risulti accertato come<br />
esistente (quantomeno a livello processuale) e le norme applicabili al rapporto di lavoro risolto<br />
non contengano previsioni circa la necessaria “proporzionalità” della sanzione in ispecie<br />
concretamente irrogata, e cioè laddove la contrattazione collettiva (se applicabile) non abbia<br />
alcuna previsione disciplinare e si sia in assenza di codici disciplinari vigenti in azienda, il giudice<br />
potrà solo condannare il datore di lavoro ad una somma risarcitoria: diversamente, non è<br />
dato comprendere quali possano essere le “altre ipotesi” menzionate dalla norma.<br />
Appare evidente, pertanto, la portata “storica” della norma: pur con i dovuti distinguo, soprattutto<br />
relativamente alla forcella tra minimo e massimo dell’indennità risarcitoria, la tutela<br />
reale sin qui garantita in caso di licenziamento non assistito da giusta causa e giustifi cato<br />
motivo soggettivo viene meno, venendo introdotta anche per i datori di lavoro oltre la soglia<br />
fatidica dei 15 dipendenti una tutela obbligatoria che richiama quanto previsto dal 1966 dalla<br />
L. 604: coerentemente con quella impostazione, la dichiarazione giudiziale di avvenuta risoluzione<br />
in ogni caso del rapporto conferma la validità del recesso dal rapporto. Il licenziamento<br />
in questo caso, da annullabile come in precedenza ritenuto, diventa atto giuridico valido a<br />
tutti gli effetti. Il che certamente comporterà nel breve la necessità di verifi care ogni volta le<br />
concrete disposizioni della contrattazione collettiva di settore e/o aziendale o l’esistenza di<br />
codici disciplinari applicati nell’unità produttiva.<br />
11.2.3 Violazione della procedura disciplinare<br />
Infi ne, il giudice potrà disporre la condanna al pagamento di una differente indennità risarcitoria,<br />
compresa tra un minimo di 6 ed un massimo di 12 mensilità di retribuzione, laddove<br />
rilevi, nell’ambito del licenziamento disciplinare, un mero vizio formale o l’inosservanza della<br />
procedura disciplinare di cui all’art. 7 S.L. (per la procedura, cfr. supra Capitolo 3). La stessa<br />
indennità si applica anche per i casi di violazione dell’obbligo di motivazione contestuale nella<br />
lettera di recesso nonché in caso di violazione della procedura preventiva prevista per il licenziamento<br />
per giustifi cato motivo oggettivo: in tutte le tre fattispecie sopra ricordate viene fatta<br />
salva l’ipotesi che il recesso sia viziato anche da difetti di giustifi cazione sostanziale, nel qual<br />
caso si applicherà la disciplina propria prevista per questi ultimi.<br />
ALCUNI DUBBI INTERPRETATIVI<br />
Non può non sottolinearsi come il sistema di tutele delineato relativamente al licenziamento disciplinare<br />
appaia, allo stato, foriero di numerosi dubbi interpretativi, nonché di probabili problematiche<br />
applicative.<br />
Non è chiaro, in primo luogo e principalmente, quale dovrebbe essere la linea di demarcazione che<br />
separa le diverse fattispecie di annullabilità del licenziamento disciplinare, ovvero quali siano in<br />
concreto “le altre ipotesi” di illegittimità del licenziamento disciplinare, oltre a quelle dell’infondatezza<br />
e della sproporzionalità “assoluta” (da intendersi quella in contrasto con disposizioni specifi -<br />
che derivanti da contrattazione collettiva o codice disciplinare): per la loro capacità omnicomprensiva<br />
dei possibili difetti di giustifi cazione, queste due categorie appaiono esaustive dell’annullabilità<br />
del recesso per colpa del lavoratore.<br />
L’interpretazione surriferita circa la riferibilità delle ipotesi in cui il giudice debba condannare alla<br />
sola indennità risarcitoria in caso di sproporzionalità “relativa” (ovvero in assenza di disposizioni<br />
disciplinari specifi che da parte delle fonti eteronome richiamate dall’art. 18, co. 4) appare l’unica in<br />
grado di ricollegare una qualche utilità applicativa alla disposizione in commento.<br />
Inoltre, non è dato comprendere in che modo debba essere interpretato il concetto di “inesistenza”<br />
del fatto contestato al lavoratore, se esso presupponga l’assoluta insussistenza del fatto o, invece,<br />
corrisponda (come sembra più probabile) alla mancata prova in giudizio da parte del datore di lavoro<br />
dell’addebitabilità di tale fatto al lavoratore licenziato.<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
– continua –
Capitolo 11 - La nuova disciplina sanzionatoria prevista dall’art. 18 S.L<br />
- segue - ALCUNI DUBBI INTERPRETATIVI<br />
Peraltro, il rinvio alle “tipizzazioni” di giusta causa e giustifi cato motivo di licenziamento eventualmente<br />
previste dalla contrattazione collettiva non appare sempre idoneo a fornire un parametro<br />
oggettivo profi cuamente utilizzabile dal giudice ai fi ni della valutazione della legittimità del licenziamento.<br />
Sino ad oggi, infatti, le tipizzazioni contenute nei contratti <strong>collettivi</strong> sono state sempre considerate<br />
una mera esemplifi cazione dei comportamenti disciplinarmente rilevanti, senza carattere di esaustività<br />
né pretesa di tassatività o cogenza, essendo il giudice libero di avvalersi, o meno, delle indicazioni<br />
della contrattazione collettiva quale possibile criterio di riferimento nelle fattispecie poste<br />
al suo vaglio decisorio.<br />
Al contrario, se il giudice – come sembra - dovesse necessariamente rimettere la sua valutazione<br />
alle disposizioni del contratto collettivo, non si comprende come dovrebbe comportarsi laddove<br />
dovesse far riferimento ad un contratto collettivo che non individua, nemmeno in via esemplifi cativa,<br />
alcuna condotta disciplinarmente rilevante, se non ritenendo che in un caso possa esservi la<br />
sanzione della reintegrazione mentre nell’altro la condanna possa essere solo di tipo risarcitorio.<br />
Siffatta soluzione, peraltro, potrebbe comportare gravi disparità di trattamento nel caso in cui contratti<br />
<strong>collettivi</strong> diversi prevedano sanzioni differenti in relazione alla medesima condotta del lavoratore.<br />
È verosimile, dunque, che al fi ne di circoscrivere l’alea “sanzionatoria” sottesa ai <strong>licenziamenti</strong> disciplinari,<br />
la tendenza futura – quantomeno delle OO.SS. e delle relative RSA/RSU – potrebbe essere<br />
quella di “arricchire” la contrattazione integrativa aziendale al fi ne di individuare puntualmente<br />
le condotte illecite del lavoratore e le relative conseguenze, contrattazione collettiva aziendale che,<br />
complice la previsione dell’art. 8, L. 148/2011 (in ipotesi applicabile sub specie “qualità dei contratti<br />
di lavoro”), potrebbe rendere tali disposizioni effi caci erga omnes. Va ricordato, infatti, che la norma,<br />
riferendosi alla contrattazione collettiva e ai codici disciplinari “applicabili” al rapporto, mette<br />
in gioco tutte le note problematiche in tema di effi cacia soggettiva del contratto collettivo. Tuttavia,<br />
per ragioni di segno opposto, è altresì possibile che in assenza di contrattazione collettiva applicabile<br />
o in caso di mancata previsione di disposizioni disciplinari, da parte datoriale ci si voglia ben<br />
guardare dall’ipotizzare di introdurre una sezione “disciplinare” ad hoc.<br />
Sotto diverso profi lo, non può essere trascurato il fatto che i giudici del lavoro sono stati sino ad oggi<br />
abituati a ragionare esclusivamente in termini di reintegrazione ed è, quindi, assai probabile che<br />
le soluzioni “alternative” di tipo risarcitorio ipotizzate non troveranno facile applicazione, quanto<br />
meno nel breve periodo.<br />
11.3 Il giustifi cato motivo oggettivo: fl essibilità in uscita?<br />
Con riferimento al licenziamento per giustifi cato motivo oggettivo – quello per intendersi<br />
determinato, ai sensi dell’art. 3, L. 604/1966, «da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione<br />
del lavoro e al regolare funzionamento di essa» - la L. 28.6.2012, n. 92, <strong>sulla</strong> riforma<br />
del mercato del lavoro fa sorgere non poche perplessità, soprattutto se il fi ne era quello<br />
di introdurre una «disciplina in tema di fl essibilità in uscita (…)», come è intitolato il Capo III<br />
della legge citata.<br />
Procedura preventiva di comunicazione del g.m.o.<br />
E ciò innanzitutto avuto riguardo all’art. 1, co. 40, che prevede - nell’ambito delle aziende<br />
che occupino alle loro dipendenze più di quindici dipendenti - l’obbligo di una comunicazione e<br />
di una procedura preventiva rispetto al recesso, della quale francamente non si sentiva la necessità<br />
e che ricorda l’(appena) abrogato tentativo obbligatorio di conciliazione, che già aveva<br />
dato di sé una pessima prova.<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
115
116 Capitolo 11 - La nuova disciplina sanzionatoria prevista dall’art. 18 S.L<br />
Va ricordato a tale riguardo che la violazione di tale procedura comporta la condanna all’indennità<br />
risarcitoria vista poc’anzi, da un minimo di sei ad un massimo di dodici mensilità,<br />
salvo difetto o vizio più grave.<br />
Ma vediamo che cosa potrebbe accadere una volta irrogato il licenziamento.<br />
Il licenziamento per sopravvenuta inidoneità o superamento del periodo di comporto<br />
La norma, per la prima volta, espressamente riconduce al c.d. giustifi cato motivo oggettivo<br />
la fattispecie del recesso per superamento del periodo di comporto che la dottrina e la giurisprudenza<br />
concordi sin qui avevano escluso dal novero del g.m.o., considerando tale recesso<br />
autonomo e distinto (“sui generis”) rispetto al triplice schema di giusta causa, giustifi cato motivo<br />
soggettivo e oggettivo.<br />
Infatti, ai sensi dell’art. 1, co. 42, laddove il giudice accerti “il difetto di giustifi cazione” in un<br />
licenziamento intimato sia «per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fi sica o psichica<br />
del lavoratore», ivi compresi i casi di dipendenti divenuti inabili a causa di infortunio o malattia<br />
(art. 4, co. 4, L. 68/1999) o di lavoratori avviati obbligatoriamente (art. 10, co. 3, L. 68 cit.), sia<br />
prima che sia stato superato il periodo di conservazione del posto di lavoro (c.d. comporto) per<br />
malattia o infortunio, annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla medesima<br />
sanzione (art. 18, co. 4) prevista per il caso dei <strong>licenziamenti</strong> disciplinari per insussistenza<br />
dell’addebito o per sproporzionalità “assoluta” (di cui supra). Ovvero: alla reintegrazione nel<br />
posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione<br />
globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione ma che,<br />
in ogni caso, non potrà essere superiore a dodici mensilità (viene meno il limite minimo di<br />
cinque), deducendo sia il cd. aliunde perceptum che il cd. aliunde percipiendum: previsione,<br />
questa, che recepisce la consolidata giurisprudenza di merito e di legittimità sul punto, e che<br />
dovrebbe comportare – come già osservato - una modifi ca degli oneri probatori attualmente in<br />
capo al datore di lavoro; il datore viene condannato altresì «al versamento dei contributi previdenziali<br />
e assistenziali dal giorno del licenziamento fi no a quello della effettiva reintegrazione».<br />
Sin qui, la norma risulta abbastanza chiara.<br />
La sanzione per la “manifesta insussistenza” del g.m.o.<br />
Il comma prosegue disponendo che il giudice “può” altresì applicare la predetta disciplina<br />
(ovvero quella del quarto comma, cioé la reintegrazione nel posto di lavoro, con le caratteristiche<br />
appena riferite) nell’ipotesi in cui accerti «la manifesta insussistenza del fatto» posto a<br />
base del licenziamento per giustifi cato motivo oggettivo.<br />
Sí che per tale via l’ipotizzato (talvolta strumentalizzato) venir meno del rimedio della reintegrazione<br />
nei <strong>licenziamenti</strong> per ragioni economiche risulta per ció stesso smentito, come<br />
sarà smentito nei <strong>licenziamenti</strong> <strong>collettivi</strong>.<br />
Non ci si nasconde che la lettera della norma parla di “manifesta” insussistenza, quindi<br />
qualcosa di più e di diverso dalla semplice insussistenza delle ragioni economiche, organizzative<br />
e/o produttive indicate dall’art. 3, L. 604/1966: verrebbe da dire ictu oculi inesistente, vuoi<br />
perché contrario a risultanze documentali vuoi perché radicalmente smentito da circostanze<br />
di fatto di immediata percezione.<br />
L’assoluta discrezionalità ricollegata sia alla fattispecie che alla sanzione<br />
Vero è che, laddove la distinzione introdotta è tra “manifestamente” o semplicemente insussistente,<br />
la discrezionalità del giudice giocherà un ruolo non secondario nell’accordare la<br />
sanzione reintegratoria (che si voleva espungere dal quadro normativo di riferimento per i li-<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 11 - La nuova disciplina sanzionatoria prevista dall’art. 18 S.L<br />
cenziamenti “economici”) ogni qual volta il licenziamento intimato per g.m.o. dovesse presentare<br />
profi li di annullabilità per la ritenuta insussistenza delle ragioni causali addotte.<br />
Non solo. Sarà inoltre tutta da verificare la concreta applicazione della norma da<br />
parte della giurisprudenza non solo sotto il profilo della valutazione della «manifesta<br />
insussistenza del fatto posto a base del licenziamento» ma anche della sanzione da ricollegarsi<br />
perché in effetti la norma sembra aprire ad una discrezionalità assoluta del<br />
giudice nella scelta tra reintegrazione e indennità risarcitoria (che non é obbligatoria ma<br />
discrezionale senza onere di motivazione espresso), discrezionalità che sicuramente introdurrà<br />
ulteriori elementi di incertezza, con il rischio che la medesima fattispecie trovi<br />
soluzioni radicalmente differenti all’interno della medesima Sezione Lavoro di uno stesso<br />
Tribunale.<br />
La sanzione per il g.m.o. semplicemente insussistente o “non ricorrente”<br />
La norma, quindi, prosegue disponendo che «nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono<br />
gli estremi del predetto giustifi cato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al<br />
quinto comma» (recesso valido per gli effetti risolutivi, indennità risarcitoria da 12 a 24 mensilità<br />
dell’ultima retribuzione di fatto): appare evidente che la norma, dopo aver introdotto una<br />
forte discrezionalità valutativa nella parte precedente, risente qui di poca chiarezza riferendosi<br />
a non meglio specifi cate «altre ipotesi» (art. 18, co. 7, come modifi cato dall’art. 1, co. 42, L.<br />
28.6.2012, n. 92). Ai fi ni della determinazione dell’indennità tra minimo e massimo, oltre i<br />
criteri di cui al quinto comma dell’art. 18 novellato (ovvero l’anzianità del lavoratore, il numero<br />
dei dipendenti occupati, le dimensioni dell’attività economica, il comportamento e le condizioni<br />
delle parti, con onere di specifi ca motivazione), il giudice dovrà tenere conto delle iniziative<br />
assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione nonché del comportamento<br />
tenuto dalle parti nella procedura preventiva (di cui al Capitolo 6) presso la Direzione del Lavoro<br />
territorialmente competente.<br />
Vero è che la norma, almeno inizialmente, doveva prevedere solo questa ipotesi sanzionatoria<br />
per il licenziamento intimato per giustifi cato motivo oggettivo: sennonché, come noto,<br />
pressioni ricevute dalle OO.SS. e da alcune componenti politiche del Parlamento hanno fatto sì<br />
che si sia persa l’originaria chiarezza e coerenza legislativa.<br />
Sì che oggi, a fronte di una possibile insussistenza del motivo oggettivo posto a base del licenziamento<br />
impugnato, la norma consente un’assoluta discrezionalità valutativa del giudice non<br />
solo nel ritenere più o meno “manifesta” l’insussistenza del g.m.o. ma anche nel potervi ricollegare,<br />
alternativamente, la sanzione della reintegrazione oppure la sanzione indennitaria.<br />
Col riferirsi ad altre ipotesi rispetto alla “manifesta insussistenza”, riteniamo che la norma<br />
abbia voluto introdurre una distinzione tra “manifesta” insussistenza e mera insussistenza,<br />
un’insussistenza quest’ultima, come dire, “discutibile”, il cui accertamento sia avvenuto a seguito<br />
quantomeno di un’istruttoria e non sia stata rilevata dal giudice ictu oculi.<br />
La norma conclude prevedendo che «qualora, nel corso del giudizio, <strong>sulla</strong> base della domanda<br />
formulata dal lavoratore, il licenziamento risulti determinato da ragioni discriminatorie<br />
o disciplinari, trovano applicazione le relative tutele previste dal presente articolo».<br />
Una precisazione forse ridondante ma, di certo, la parte della norma più chiara e per la<br />
quale non appaiono necessarie modifi che future.<br />
Interessante riferire anche della modifi ca apportata all’art 30, co. 1, L. 183/2010 (c.d. Collegato<br />
lavoro) dall’art. 1, co. 43, della L. 28.6.2012, n. 92. Il “Collegato lavoro” nella norma citata<br />
ha introdotto un espresso limite per il giudice circa la possibilità di sindacare nel merito<br />
le scelte economiche, produttive ed organizzative dell’imprenditore poste alla base di eventuali<br />
<strong>licenziamenti</strong> <strong>individuali</strong> o <strong>collettivi</strong>.<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
117
118 Capitolo 11 - La nuova disciplina sanzionatoria prevista dall’art. 18 S.L<br />
Recuperando, peraltro, un orientamento pressoché univoco della giurisprudenza di legittimità,<br />
la norma aggiunge oggi che l’inosservanza da parte del giudice dei limiti postigli in materia<br />
di sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive di competenza<br />
del datore di lavoro, “costituiscono motivo di impugnazione per violazione di norme di diritto”:<br />
come dire, la Corte di Cassazione viene chiamata direttamente in causa in caso di atteggiamenti<br />
valutativi debordanti e non rispettosi delle reciproche competenze e ruoli da parte dei<br />
giudici di merito.<br />
11.4 I <strong>licenziamenti</strong> <strong>collettivi</strong><br />
La L. 28.6.2012, n. 92, prevede, infi ne, una serie di modifi che anche alla disciplina sanzionatoria<br />
dei <strong>licenziamenti</strong> <strong>collettivi</strong> contenuta nella L. 23.7.1991, n. 223.<br />
Come noto, la comunicazione di avvio della procedura di mobilità deve avere forma scritta<br />
e deve contenere una serie di puntuali e specifi che indicazioni precisate dettagliatamente dalla<br />
legge (ovvero, i motivi che hanno determinato l’eccedenza di personale, quelli per i quali si<br />
ritiene di non poter adottare misure idonee a porre rimedio alla predetta situazione, numero,<br />
collocazione aziendale e profi li professionali del personale eccedente e di quello abitualmente<br />
impiegato, tempi di attuazione del programma di mobilità, eventuali misure programmate per<br />
fronteggiare le conseguenze sul piano sociale della attuazione del programma, metodo di calcolo<br />
delle attribuzioni patrimoniali diverse da quelle già previste dalla legge e dalla contrattazione<br />
collettiva).<br />
11.4.1 Vizi della comunicazione di apertura della procedura di mobilità<br />
Sul punto, si segnala la prima novità prevista dall’art. 1, co. 45, L. 28.6.2012, n. 92: modifi -<br />
cando l’art. 4, co. 12, L. 223/1991, viene previsto che gli eventuali “vizi” afferenti la comunicazione<br />
di avvio della procedura (quali, appunto, l’insuffi ciente specifi cità o completezza o, ancora,<br />
la poca trasparenza delle indicazioni richieste dalla legge) possono essere sanati<br />
dall’accordo sindacale eventualmente raggiunto nel corso della procedura. Ciò signifi ca che<br />
tali vizi non solo non potranno più essere, come avveniva in passato, motivo di ineffi cacia dei<br />
recessi intimati all’esito della procedura ma, tantomeno, motivo di impugnazione da parte dei<br />
singoli lavoratori nonostante la presenza di un accordo sindacale a chiusura della procedura.<br />
Il che dovrebbe determinare un quadro di maggiore stabilità e certezza nelle operazioni di ristrutturazione<br />
aziendale.<br />
11.4.2 Termine per la comunicazione dell’elenco dei lavoratori collocati<br />
in mobilità<br />
La seconda rilevante novità introdotta (art. 1, co. 44, L. 28.6.2012, n. 92 riguarda il termine<br />
entro il quale la comunicazione fi nale contenente l’elenco dei lavoratori collocati in mobilità, i<br />
loro dati anagrafi ci e professionali e le modalità di applicazione dei criteri di scelta deve essere<br />
effettuata all’uffi cio del lavoro competente ed alle associazioni di categoria.<br />
In base alla disciplina previgente, tale comunicazione doveva essere trasmessa “contestualmente”<br />
all’intimazione di recessi: il co. 44 dell’art. 1 citato prevede, invece, che essa debba<br />
esser effettuata entro 7 giorni dalla comunicazione dei recessi, con ciò sgombrando il campo<br />
da ogni possibile dubbio applicativo relativo al (poco chiaro e origine di incertezze operative)<br />
concetto di “contestualità”. Anche questa novità dovrebbe garantire maggiore certezza e sere-<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 11 - La nuova disciplina sanzionatoria prevista dall’art. 18 S.L<br />
nità operativa quando i <strong>licenziamenti</strong> intimati raggiungono numeri considerevoli e la sin qui<br />
prevista necessaria “contestualità” della norma poteva costituire, laddove mancasse, motivo<br />
di ineffi cacia del licenziamento con conseguente applicazione della sanzione prevista dall’art.<br />
18 S.L.<br />
11.4.3 Il regime sanzionatorio dei <strong>licenziamenti</strong> <strong>collettivi</strong><br />
Quanto alle conseguenze previste in ipotesi di dichiarazione giudiziale di illegittimità del<br />
licenziamento (a seguito, anche qui, di impugnazione da parte del lavoratore nel termine decadenziale<br />
di 60 giorni), la norma citata prevede l’applicazione dello stesso regime sanzionatorio<br />
relativo al licenziamento per giustifi cato motivo oggettivo.<br />
Vizio di forma e violazione dei criteri di scelta: la reintegrazione<br />
Pertanto, nel caso in cui all’esito della sopra cennata procedura di mobilità, il licenziamento<br />
venga individualmente intimato senza l’osservanza della forma scritta, il giudice – come avvenuto<br />
sino ad oggi - continuerà a condannare il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore ed<br />
alla corresponsione in favore del medesimo di un’indennità risarcitoria pari alle retribuzioni non<br />
percepite dal recesso sino alla reintegrazione (art. 1, co. 46, L. 28.6.2012, n. 92, che modifi ca in<br />
tal senso l’art. 5, co. 3, L. 223/91, introducendo un espresso richiamo all’art. 18, co. 1, S.L.).<br />
Analogamente, la reintegrazione continuerà a essere l’unica sanzione possibile in ipotesi di<br />
licenziamento intimato in violazione dei criteri di scelta previsti dall’eventuale accordo sindacale<br />
di chiusura della procedura di mobilità o, in via residuale, di quelli previsti dall’art. 5 della<br />
L. 223/1991. Ciò che cambia è l’entità di tale indennità risarcitoria, che sino ad oggi doveva<br />
essere “almeno pari” a 5 mensilità, senza previsione di alcun limite massimo: in base all’art.<br />
18, co. 4 (nuovo testo) espressamente richiamato, invece, essa non sarà soggetta ad alcun limite<br />
minimo, mentre non potrà comunque eccedere il limite massimo delle 12 mensilità. Viene<br />
altresì espressamente previsto che da tale indennità dovrà essere dedotto quanto il lavoratore<br />
abbia percepito - o avrebbe potuto percepire, dedicandosi con diligenza alla ricerca di una<br />
nuova occupazione - nel corso del periodo di “estromissione” dal servizio.<br />
Per completezza si segnala che, rispetto alla prima versione del Disegno di Legge presentata<br />
dall’Esecutivo, nel corso dell’esame parlamentare è stata espunta la facoltà del giudice<br />
di disporre la reintegrazione del lavoratore nell’ipotesi di “manifesta insussistenza” del<br />
fatto posto a base del licenziamento (per giustifi cato motivo oggettivo), contenuta nel secondo<br />
periodo del settimo comma del “nuovo” articolo 18, L. 300/1970. L’ipotesi di manifesta<br />
insussistenza delle ragioni economiche, produttive od organizzative, effettivamente, mal si<br />
attagliava alla fattispecie complessa, ed oggettivamente rilevante, dei <strong>licenziamenti</strong> per riduzione<br />
di personale.<br />
Violazione della procedura di mobilità: l’indennità risarcitoria<br />
Il regime sanzionatorio applicabile in ipotesi di violazione della procedura di licenziamento<br />
collettivo è quello previsto dal “terzo periodo del settimo comma” del novellato articolo 18, L.<br />
300/1970: in base a tale norma, qualora venga accertato giudizialmente che “non ricorrono gli<br />
estremi” di un giustifi cato motivo oggettivo di licenziamento, il datore di lavoro sarà condannato<br />
esclusivamente alla corresponsione, in favore del lavoratore illegittimamente licenziato,<br />
di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva in misura variabile tra un minimo di 12 ed un<br />
massimo di 24 mensilità, da determinarsi in considerazione dell’anzianità anagrafi ca del lavoratore,<br />
del numero di dipendenti occupati dall’impresa, delle dimensioni dell’attività economica,<br />
nonché del comportamento e delle condizioni delle parti.<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
119
120 Capitolo 11 - La nuova disciplina sanzionatoria prevista dall’art. 18 S.L<br />
Al riguardo, è presumibile che a fronte della lesione di un interesse latu sensu “generale”,<br />
come nel caso di vizi formali della procedura sindacale, il giudice propenderà per la quantifi -<br />
cazione di tale indennità in misura massima o, comunque, comparativamente più alta rispetto<br />
ad analoghe fattispecie di licenziamento individuale.<br />
La modifi ca innovativa è comunque assai rilevante: sino ad oggi, infatti, i <strong>licenziamenti</strong> intimati<br />
senza l’osservanza delle prescrizioni procedurali di cui all’art. 4, L. 223/1991 erano da<br />
ritenersi ineffi caci, con conseguente automatica reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro<br />
e risarcimento integrale del danno.<br />
Procedimento per condotta antisindacale e violazione della procedura di mobilità<br />
È possibile, inoltre, che - soprattutto qualora non venga raggiunto l’accordo sindacale nel<br />
corso della procedura - il nuovo impianto normativo delineato dalla riforma possa indurre le<br />
Organizzazioni Sindacali ad un ricorrente e sistematico utilizzo del procedimento sommario<br />
previsto dall’art. 28, L. 300/1970 in caso di comportamento antisindacale, ritenuto preferibile<br />
all’azione individuale promossa dal lavoratore: relativamente ai <strong>licenziamenti</strong> <strong>collettivi</strong>, tale<br />
tutela è stata ritenuta esperibile dalla giurisprudenza in molteplici ipotesi, quali, ad esempio,<br />
il mancato coinvolgimento di alcune delle sigle sindacali individuate dalla legge come destinatarie<br />
della comunicazione di avvio della procedura, ovvero l’incompleta e/o generica indicazione<br />
delle circostanze che hanno determinato la situazione di eccedenza di personale, ecc.<br />
Ebbene, in tali ipotesi, l’eventuale provvedimento giudiziale di accoglimento del ricorso ex<br />
art. 28 S.L. comporterà necessariamente la “rimozione degli effetti” della condotta antisindacale<br />
e, dunque, l’annullamento dei <strong>licenziamenti</strong> eventualmente già intimati all’esito della procedura<br />
viziata, con conseguente riammissione in servizio dei lavoratori illegittimamente licenziati<br />
e la corresponsione in loro favore delle retribuzioni non percepite dall’intimazione del<br />
recesso sino alla riammissione.<br />
Pertanto, attraverso il procedimento per comportamento antisindacale i lavoratori estromessi<br />
illegittimamente potrebbero “ritrovare” quella ricostituzione del rapporto di lavoro che<br />
la riforma dell’art. 18 ha voluto espungere dai rimedi previsti - per quanto riguarda la fattispecie<br />
qui in esame - nel caso di violazione della procedura di licenziamento collettivo.<br />
In altre parole, in virtù del procedimento previsto dall’art. 28 citato i lavoratori potrebbero<br />
ottenere la ricostituzione del rapporto di lavoro, nonostante l’art. 1, co. 46, L. 28.6.2012, n. 92,<br />
abbia inteso circoscrivere tale rimedio ai soli casi di licenziamento intimato “senza l’osservanza<br />
della forma scritta” o “in caso di violazione dei criteri di scelta”.<br />
Senza dimenticare che, a seguito di una declaratoria di antisindacalità, il datore di lavoro<br />
sarebbe costretto ad avviare una nuova procedura di licenziamento collettivo, con i relativi rischi<br />
ed oneri ad essa connessi, per poter effettivamente attuare la necessaria riduzione di<br />
personale.<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 12<br />
IMPUGNAZIONE DEL LICENZIAMENTO E RITO SPECIALE<br />
PER LE RELATIVE CONTROVERSIE<br />
12.1 Natura giuridica e forma dell’impugnazione<br />
L’impugnazione del licenziamento, disciplinata dall’art. 6, L. 604/1966 (anche a seguito delle<br />
novità introdotte dalla L. 4.11.2010, n. 183 e, recentissimamente, dalla L. 92/2012) consiste<br />
in un atto unilaterale per il quale è richiesta la forma scritta ad substantiam e che può consistere<br />
in un qualsiasi atto scritto giudiziale o stragiudiziale con cui il prestatore di lavoro<br />
manifesti la sua volontà di contestare la legittimità del licenziamento.<br />
In base al tenore letterale della disposizione in commento, la Corte di Cassazione, in un<br />
primo momento, aveva optato per la natura recettizia dell’atto di impugnazione del licenziamento,<br />
con la conseguente applicazione dell’art. 1334 c.c. quanto all’effi cacia dello stesso, che<br />
doveva quindi pervenire al destinatario entro il termine di decadenza in essa previsto (Cass.<br />
S.U. 18.10.1982, n. 5935; successivamente, Cass. 13.12.2000, n. 15969; Cass. 13.7.2001, n.<br />
9554; Cass. 21.6.2001, n. 8765; Cass. 21.4.2004, n. 7625).<br />
Tuttavia, un orientamento giurisprudenziale più recente sostiene che l’impugnazione del licenziamento,<br />
laddove effettuata dal lavoratore tramite lettera raccomandata, deve ritenersi<br />
tempestiva allorché tale lettera sia consegnata all’uffi cio postale entro il termine previsto di<br />
sessanta giorni, nonostante il recapito al destinatario sopraggiunga dopo la scadenza del termine<br />
stesso (Cass. SS. UU. 14.4.2010, n. 8830; più recentemente Cass. 11.7.2011, n. 15158).<br />
12.2 Impugnazione stragiudiziale<br />
Sono state considerate dalla giurisprudenza valide impugnazioni stragiudiziali:<br />
- il telegramma dettato per telefono dal lavoratore sempre che il medesimo fornisca la prova<br />
della provenienza da sé del telegramma stesso con ogni mezzo, e anche tramite elementi<br />
indiziari, precisi e concordanti, intesi a delineare presunzioni in tal senso, quali la coincidenza<br />
tra il soggetto cui nel testo sia attribuita la dichiarazione e il titolare dell’abbonamento<br />
relativo all’apparecchio telefonico da cui proviene la chiamata, il possesso della copia<br />
del telegramma da parte dell’abbonato-mittente, l’utilizzazione esclusiva<br />
dell’apparecchio dal quale proviene la richiesta di dettatura (Cass. 23.12.2003, n. 19682);<br />
- la notifi cazione (entro il termine di sessanta giorni dalla ricezione della comunicazione del<br />
licenziamento) al datore di lavoro di un ricorso proposto al giudice amministrativo, seppur<br />
carente di giurisdizione in materia (Cass. 2.6.1982, n. 3370);<br />
- il ricorso introduttivo di una procedura cautelare che, pur se affetto da nullità e come tale<br />
inidoneo ad instaurare un valido processo, può tuttavia valere quale impugnazione del licenziamento<br />
se risulta certa in tale senso la volontà del lavoratore a seguito del rilascio di<br />
procura al difensore che ha sottoscritto il ricorso stesso, e sempre che tale atto sia stato<br />
portato a conoscenza del datore di lavoro entro il termine di decadenza di sessanta giorni<br />
dalla ricezione della comunicazione del licenziamento (Cass. 18.4.1995, n. 4337).<br />
LicenziamentI individualI e collettivI<br />
121
122 Capitolo 12 - Impugnazione del licenziamento e rito speciale per le relative controversie<br />
12.3 Impugnazione giudiziale<br />
Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, l’impugnazione<br />
giudiziale del licenziamento richiede la notifi ca al datore di lavoro del ricorso ex art. 414<br />
c.p.c. e del decreto di fi ssazione dell’udienza entro sessanta giorni dalla comunicazione del<br />
licenziamento.<br />
V’è da ritenere che la medesima conclusione debba valere anche con riferimento ai ricorsi<br />
presentati in via d’urgenza ai sensi dell’art. 1, co. 48, della L. 92/2012 di recentissima promulgazione,<br />
di cui si dirà meglio infra.<br />
La Suprema Corte, in una fattispecie particolare posta alla sua attenzione, in conformità a<br />
tale indirizzo interpretativo ha sostenuto che l’impugnazione del licenziamento costituisce un<br />
atto recettizio che produce i suoi effetti nel momento in cui viene portato a conoscenza della<br />
controparte; pertanto, ove detta impugnazione sia proposta dal lavoratore (convenuto nel<br />
giudizio promosso dal datore di lavoro per l’accertamento della legittimità del licenziamento)<br />
con domanda riconvenzionale contenuta nella memoria difensiva, ai fi ni dell’osservanza del<br />
termine di decadenza di cui all’art. 6, L. 604/1966, non è suffi ciente il deposito in can-celleria<br />
dell’atto, occorrendo altresì che prima della scadenza di detto termine l’atto stesso sia portato<br />
a conoscenza della controparte; la decadenza dall’impugnazione non è d’altro canto impedita<br />
dall’esistenza della res litigiosa dipendente dall’azione promossa dal datore di lavoro, dalla<br />
quale non può dedursi la volontà del dipendente di impugnare il licenziamento (Cass. 29.1.1994,<br />
n. 899).<br />
12.4 Le novità introdotte dalla L. 183/2010 e, successivamente,<br />
dalla L. 92/2012<br />
L’art. 32 della L. 4.11.2010, n. 183, entrata in vigore il 24.11.2010, introduce una nuova disciplina<br />
in tema di impugnazione del licenziamento e termini decadenziali. Infatti, il primo ed<br />
il secondo co. dell’articolo 6 della L. 15.7.1966, n. 604, sono sostituti dalla seguente previsione:<br />
«il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione<br />
della sua comunicazione, ovvero dalla comunicazione dei motivi, ove non contestuale,<br />
con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore<br />
anche attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento<br />
stesso». Tale disposizione, in realtà, non introduce alcuna modifi ca, essendosi il Legislatore<br />
limitato a riformulare le norme sostituite.<br />
La novità si rinviene piuttosto nel prosieguo della disposizione in commento che dispone:<br />
«l’impugnazione è ineffi cace se non è seguita, entro il successivo termine di duecentosettanta<br />
giorni (che l’art. 1, co. 38, della L. 92/2012 ha ridotto a centottanta giorni in relazione ai <strong>licenziamenti</strong><br />
intimati dopo la data di entrata in vigore di tale legge, ndr), dal deposito del ricorso<br />
nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla<br />
controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità<br />
di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso. Qualora la conciliazione<br />
o l’arbitrato richiesti siano rifi utati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento,<br />
il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro 60 giorni dal<br />
rifi uto o dal mancato accordo».<br />
La nuova disposizione accelera, dunque, i tempi di defi nizione giudiziale del licenziamento,<br />
condizionando l’effi cacia dell’impugnazione al deposito del ricorso giudiziale entro 270 giorni<br />
LicenziamentI individualI e collettivI
Capitolo 12 - Impugnazione del licenziamento e rito speciale per le relative controversie<br />
(180 a seguito della modifi ca introdotta dall’art. 1, co. 38, della L. 28.6.2012, N. 92) dall’impugnazione<br />
stessa ovvero alla comunicazione - da inviare alla controparte - della richiesta di<br />
tentativo di conciliazione (diventato facoltativo ai sensi dell’art. 31 della L. 183/2010) o di arbitrato,<br />
da effettuarsi entrambi entro il medesimo termine. Il Legislatore fi ssa inoltre un ulteriore<br />
termine di decadenza di 60 giorni per il deposito del ricorso «qualora la conciliazione o<br />
l’arbitrato richiesti siano rifi utati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento».<br />
L’obiettivo sotteso all’intervento legislativo è quello di garantire una maggiore certezza<br />
nei rapporti giuridici e patrimoniali tra le parti.<br />
Inoltre, l’inserimento del termine per l’instaurazione della controversia sembrerebbe, da<br />
un lato, avere un’implicita fi nalità defl attiva del contenzioso e, dall’altro, comporta certamente<br />
la riduzione del rischio economico per quelle aziende rientranti nell’ambito di applicazione<br />
della cosiddetta tutela reale, venendo tale rischio da oggi in poi legato sostanzialmente alla<br />
durata del processo e non più all’inerzia del lavoratore che godeva del termine prescrizionale<br />
di ben cinque anni. Infatti, nel regime fi nora vigente il lavoratore era onerato a impugnare il<br />
licenziamento entro il termine di 60 giorni ma era poi libero di proporre ricorso nel termine<br />
prescrizionale di cinque anni, potendo incidere in tal modo <strong>sulla</strong> determinazione della misura<br />
della retribuzione maturata medio tempore dal licenziamento fi no all’eventuale sentenza di<br />
reintegrazione.<br />
Si deve ritenere, peraltro, che il mancato rispetto dei termini fi ssati per l’impugnazione del<br />
licenziamento non possa essere rilevato d’uffi cio dal giudice ma debba essere eccepito dal<br />
datore di lavoro all’atto della sua costituzione in giudizio (come già stabilito dalla giurisprudenza<br />
in relazione all’art. 6, L. 604/1966).<br />
V’è altresì da sottolineare che la disposizione in esame, al co. 2, sancisce che i termini di<br />
decadenza sopra richiamati «si applicano anche a tutti i casi di invalidità del licenziamento»<br />
e, quindi ed innanzitutto, anche al licenziamento nullo (ad esempio, perché intimato nel periodo<br />
di interdizione per matrimonio o maternità, ovvero per motivo illecito o discriminatorio);<br />
infatti, argomentando in base alla teoria generale del contratto, se è vero che le fattispecie di<br />
nullità sino ad oggi sono state ritenute dalla giurisprudenza di legittimità sottratte al regime<br />
decadenziale dettato dall’art. 6, L. 604/1966, è altrettanto vero che la categoria dell’invalidità<br />
sussume anche quella della nullità.<br />
Nell’art. 32 in esame è stato invece eliminato il riferimento ai casi di ineffi cacia del licenziamento,<br />
ragion per cui deve ritenersi escluso dall’ambito di applicazione di tale disposizione<br />
il licenziamento orale.<br />
Inoltre, i nuovi termini decadenziali si applicano ad una serie assai eterogenea di fattispecie,<br />
solo in parte assimilabili al licenziamento, ovverosia, ai sensi del co. 3, «a) ai <strong>licenziamenti</strong><br />
che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualifi cazione del rapporto di<br />
lavoro ovvero alla legittimità del termine apposto al contratto; b) al recesso del committente<br />
nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche nella modalità a progetto, di cui<br />
all’articolo 409, numero 3), del codice di procedura civile; c) al trasferimento ai sensi dell’articolo<br />
2103 del codice civile, con termine decorrente dalla data di ricezione della comunicazione<br />
di trasferimento; d) all’azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi<br />
degli articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6.9.2001, n. 368, e successive modifi cazioni, con<br />
termine decorrente dalla scadenza del medesimo».<br />
Occorre sottolineare che l’art. 1, co. 11, della L. 92/2012 ha abrogato la lettera d) dell’art.<br />
32, co. 3, L. 183/2010, e sostituito come segue la lettera a) del medesimo comma: «a) ai <strong>licenziamenti</strong><br />
che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualifi cazione del rapporto<br />
di lavoro ovvero alla nullita` del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi degli articoli<br />
1, 2 e 4 del decreto legislativo 6.9.2001, n. 368, e successive modifi cazioni. Laddove si faccia<br />
questione della nullita` del termine apposto al contratto, il termine di cui al primo comma del<br />
LicenziamentI individualI e collettivI<br />
123
124 Capitolo 12 - Impugnazione del licenziamento e rito speciale per le relative controversie<br />
predetto articolo 6, che decorre dalla cessazione del medesimo contratto, è fi ssato in centoventi<br />
giorni, mentre il termine di cui al primo periodo del secondo comma del medesimo articolo<br />
6 e` fi ssato in centottanta giorni».<br />
Ai sensi del successivo co. 4 dell’art. 32, gli stessi termini si applicano altresì «a) ai contratti<br />
di lavoro a termine stipulati ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6.9. 2001, n.<br />
368, in corso di esecuzione alla data di entrata in vigore della presente legge, con decorrenza<br />
dalla scadenza del termine; b) ai contratti di lavoro a termine, stipulati anche in applicazione<br />
di disposizioni di legge previgenti al decreto legislativo 6.9.2001, n. 368, e già conclusi alla data<br />
di entrata in vigore della presente legge, con decorrenza dalla medesima data di entrata in<br />
vigore della presente legge; c) alla cessione di contratto di lavoro avvenuta ai sensi dell’articolo<br />
2112 del codice civile con termine decorrente dalla data del trasferimento; d) in ogni altro<br />
caso in cui, compresa l’ipotesi prevista dall’articolo 27 del decreto legislativo 10.9. 2003, n. 276,<br />
si chieda la costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso<br />
dal titolare del contratto».<br />
L’art. 1, co. 11, della L. 92/2012 di recentissima promulgazione – al fi ne di assicurare una<br />
maggior tutela al lavoratore che, assunto reiteratamente con contratti a tempo determinato,<br />
si trovi di fronte alla diffi cile alternativa tra l’impugnazione dell’ultimo contratto cessato e l’attesa<br />
di vedersi proporre una nuova assunzione a termine dal medesimo datore di lavoro – stabilisce<br />
che, «laddove si faccia questione della nullità del termine apposto al contratto», il termine<br />
decadenziale per l’impugnazione è fi ssato in 120 giorni a decorrere «dalla cessazione del<br />
medesimo contratto».<br />
Tale nuova disposizione troverà applicazione «in relazione alle cessazioni di contratti a<br />
tempo determinato verifi catesi a decorrere dalL’1 gennaio 2013».<br />
12.5 Rinunzia o revoca dell’impugnazione<br />
La giurisprudenza ha affermato che il diritto del lavoratore di contestare o di accettare il<br />
licenziamento è un diritto disponibile e rinunciabile, al contrario del diritto a che il recesso<br />
venga attuato dal datore di lavoro solo nelle ipotesi previste dalla legge o dai contratti o dagli<br />
accordi <strong>collettivi</strong> e con le modalità ivi stabilite.<br />
Occorre però che la rinuncia sia esplicita e faccia univoco riferimento alla cessazione del<br />
vincolo lavorativo.<br />
Il lavoratore può rinunciare all’impugnazione del licenziamento o revocare l’impugnazione<br />
proposta anche mediante comportamenti concludenti. Sul punto, diverse sono le fattispecie<br />
esaminate dalla giurisprudenza.<br />
Per quanto riguarda la quietanza a saldo o liberatoria che il lavoratore sottoscriva a seguito<br />
della risoluzione del rapporto nel riscuotere le indennità di fi ne rapporto, la Suprema Corte<br />
ritiene che si tratti di una mera dichiarazione di scienza priva di effetti negoziali, a meno che<br />
non concorrano circostanze idonee a dimostrare la sicura volontà del lavoratore di accettare<br />
incondizionatamente la risoluzione del rapporto di lavoro (Cass. 18.9.2007, n. 19344).<br />
Con riferimento alla mera accettazione del trattamento di fi ne rapporto ancorché non accompagnata<br />
da alcuna riserva, la Suprema Corte ha ritenuto che non possa essere interpretata,<br />
per assoluto difetto di concludenza, come tacita dichiarazione di rinuncia ai diritti derivanti<br />
dall’illegittimità del licenziamento, non sussistendo alcuna incompatibilità logica e giuridica<br />
tra l’accettazione di detto trattamento e la volontà di ottenere la declaratoria di illegittimità del<br />
licenziamento al fi ne di conseguire l’ulteriore diritto alla riassunzione o al risarcimento del<br />
danno (Cass. 21.3.2000, n. 3345).<br />
LicenziamentI individualI e collettivI
Capitolo 12 - Impugnazione del licenziamento e rito speciale per le relative controversie<br />
Occorre sottolineare come il co. 10 del novellato art. 18 S.L. ad opera della L. 92/2012 introduca<br />
una signifi cativa novità, stabilendo che «nell’ipotesi di revoca del licenziamento, purché<br />
effettuata entro il termine di quindici giorni dalla comunicazione al datore di lavoro dell’impugnazione<br />
del medesimo, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di<br />
continuità, con diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente alla<br />
revoca, e non trovano applicazione i regimi sanzionatori previsti dal presente articolo».<br />
12.6 Effetti dell’impugnazione<br />
Nel vigore della precedente disciplina dettata dall’art. 6, L. 604/1966, la valida impugnazione<br />
del licenziamento impediva la decadenza e, in conformità ai principi generali ex art. 2967<br />
c.c., il diritto del lavoratore rimaneva soggetto ai normali termini di prescrizione.<br />
In particolare, l’azione di annullamento del licenziamento illegittimo si prescriveva in cinque<br />
anni ex art. 1442 c.c.<br />
A seguito della promulgazione della L. 183/2010, i princìpi appena esposti restano validi nei<br />
soli confronti dei <strong>licenziamenti</strong> esclusi dall’ambito di applicazione del citato art. 6, nella nuova<br />
formulazione; per tutti gli altri, invece, l’effetto dell’impugnazione di impedire la decadenza di<br />
cui all’art. 6, L. 604/1966, resta effi cace soltanto se tale atto è seguito «entro il successivo<br />
termine di duecentosettanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in<br />
funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo<br />
di conciliazione o arbitrato… Qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifi utati o<br />
non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere<br />
depositato a pena di decadenza entro 60 giorni dal rifi uto o dal mancato accordo».<br />
Peraltro, l’art. 1, commi 38 e 39, della L. 92/2012 è intervenuto ulteriormente sull’art. 6 in<br />
esame, ridudendo il citato termine decadenziale da 270 giorni a 180 giorni con riferimento «ai<br />
<strong>licenziamenti</strong> intimati dopo la data di entrata in vigore della presente legge».<br />
12.7 I problemi applicativi introdotti dalla L. 10/2011<br />
A pochi mesi dalla promulgazione della L. 183/2010, che aveva determinato una vera e<br />
propria “corsa” alle impugnazioni entro il termine decadenziale del 24.1.2011 da parte di coloro<br />
i cui rapporti fossero cessati anteriormente al 24.11.2010, il Legislatore è intervenuto con la<br />
L. 26.2.2011, n. 10 (di conversione del cd. Decreto Milleproroghe, entrato in vigore il 27.2.2011)<br />
nel tentativo di rimettere in termini quanti non fossero riusciti ad impugnare per tempo.<br />
Infatti, l’art. 2, co. 54, di tale novella ha aggiunto il co. 1-bis all’art. 32 della L. 183/2010, ai<br />
sensi del quale «in sede di prima applicazione, le disposizioni di cui all’art. 6, co. 1, della L.<br />
15.7.1966, n. 604, come modifi cato dal co. 1 del presente articolo, relative al termine di sessanta<br />
giorni per l’impugnazione del licenziamento, acquistano effi cacia a decorrere dal 31<br />
dicembre 2011».<br />
Come condivisibilmente rilevato dalla maggioranza degli Autori, tuttavia, un’interpretazione<br />
sistematica delle disposizioni in esame, in uno con quanto dettato inequivocabilmente<br />
dall’art. 11 delle preleggi – «la legge non dispone che per l’avvenire» – dovrebbe condurre<br />
alla conclusione secondo cui il citato art. 1-bis non sarebbe in alcun modo idoneo a sanare la<br />
decadenza nei confronti di quanti non abbiano proceduto all’impugnazione entro il già riferito<br />
termine decadenziale introdotto dalla L. 183/2010.<br />
LicenziamentI individualI e collettivI<br />
125
126 Capitolo 12 - Impugnazione del licenziamento e rito speciale per le relative controversie<br />
A tale orientamento hanno aderito alcuni Giudici del Tribunale di Milano con le sentenze nn.<br />
4404, 4880 e 4815 del 2011 (depositate rispettivamente il 29.9., 19.10.e 20.10.2011), mentre<br />
altri Giudici dello stesso Tribunale se ne sono discostati, affermando che «con l’intervento di<br />
cui al DL n. 225/2010 (convertito successivamente nella L. 10/2011, ndr) il legislatore ha voluto<br />
posticipare l’effi cacia del termine decadenziale introdotto con la L. 183/2010, facendo così<br />
salvi i diritti di quanti, alla data del 24.1.2011, non avessero ancora provveduto alle impugnazioni<br />
ivi disciplinate» (così Trib. Milano 4.8.2011, n. 3914).<br />
Oggi il problema è stato “di fatto” superato a causa del passare del tempo, ma rimane certamente<br />
un vulnus nella tecnica legislativa e nel raccordo cronologico fra le norme.<br />
12.8 Legittimazione ad impugnare il licenziamento<br />
L’art. 6, L. 604/1966 (anche nella formulazione attuale) indica, come soggetti legittimati ad<br />
impugnare il licenziamento, il prestatore di lavoro e l’associazione sindacale cui esso aderisca,<br />
attribuendo così a quest’ultima un potere di rappresentanza ex lege, con esclusione della necessità<br />
di qualsivoglia atto formale preventivo di rappresentanza, valendo a tal fi ne il semplice mandato<br />
che il lavoratore abbia conferito al sindacato per la tutela in via generale dei propri diritti.<br />
La Suprema Corte ha escluso che possa integrare una valida ipotesi di impugnazione<br />
stragiudiziale l’invio al datore di lavoro, entro il termine decadenziale, dell’avviso di convocazione<br />
dell’Uffi cio provinciale del lavoro per l’esperimento del tentativo di conciliazione, in<br />
quanto tale avviso è un atto dell’uffi cio del lavoro, ancorché promosso e sollecitato dal lavoratore,<br />
e non costituisce pertanto l’atto scritto di impugnativa, di valore negoziale dispositivo e<br />
formale, dalla legge riservato unicamente al lavoratore medesimo ed all’associazione sindacale<br />
cui aderisca (Cass. 19.6.2006, n. 14087).<br />
12.9 Impugnazione del licenziamento proposta dal solo legale<br />
del lavoratore<br />
Una tematica particolarmente dibattuta in giurisprudenza è stata quella relativa all’impugnazione<br />
del licenziamento proposta mediante lettera sottoscritta dal solo legale del lavoratore.<br />
Le Sezioni Unite della Cassazione hanno innanzitutto confermato la validità dell’impugnazione<br />
stragiudiziale del licenziamento mediante lettera del difensore solo se munito di procura scritta<br />
rilasciata prima del termine di decadenza e hanno stabilito, per l’ipotesi di difetto di procura, la<br />
possibilità di ratifi ca da parte del lavoratore, purché tale ratifi ca richiami in modo specifi co l’atto<br />
compiuto dal falsus procurator e sia fatta per iscritto (Cass. Sez. Unite 2.3. 1987, n. 2180).<br />
La Suprema Corte, inoltre, ha avuto modo di precisare come la natura decadenziale del<br />
termine impedisca che possano rilevare le condizioni soggettive del destinatario della comunicazione<br />
dell’atto di impugnazione, ed in particolare la sua capacità di intendere e di<br />
volere, salva la tutela nei limiti dell’art. 428 c.c. (Cass. 1.12.1989, n. 5279).<br />
12.10 Decorrenza del termine di impugnazione<br />
L’art. 6, L. 604/1966 prevede che il termine di impugnazione del licenziamento decorra<br />
LicenziamentI individualI e collettivI
Capitolo 12 - Impugnazione del licenziamento e rito speciale per le relative controversie<br />
dalla comunicazione del licenziamento o dalla comunicazione dei motivi, ove questa non sia<br />
contestuale a quella del licenziamento.<br />
A tale ultimo proposito la Suprema Corte ha precisato come, ove il lavoratore abbia impugnato<br />
il licenziamento prima di aver ricevuto la comunicazione dei motivi, ciò non comporti<br />
l’ineffi cacia dell’impugnazione del licenziamento e non implichi, quindi, che, ricevuta la comunicazione<br />
di essi, il lavoratore debba procedere ad una nuova ed autonoma impugnazione del<br />
licenziamento (Cass. 4.4.1990, n. 2785).<br />
Peraltro, l’art. 1, co. 37, della L. 92/2012 ha sostituito il co. 2 dell’art. 2, L. 15.7.1966, n.<br />
604, stabilendo che «la comunicazione del licenziamento deve contenere la specifi cazione<br />
dei motivi che lo hanno determinato»; in prospettiva, pertanto, tale problematica risulterà<br />
superata.<br />
Quanto alla decorrenza del termine di impugnazione, la Suprema Corte ha rilevato che<br />
poiché gli atti ricettizi in forma scritta, come la dichiarazione di licenziamento ex art. 2, L.<br />
604/1966, si considerano conosciuti dal destinatario, a norma dell’art. 1335 c.c., il termine<br />
perentorio fi ssato per l’impugnazione del licenziamento, ai sensi dell’art. 6 legge cit., decorre<br />
dal momento in cui la dichiarazione di licenziamento è pervenuta all’indirizzo del lavoratore,<br />
salva la dimostrazione, da parte del medesimo, che egli, senza sua colpa, fosse impossibilitato<br />
ad avere conoscenza della lettera di licenziamento (Cass. 23.4.1992, n. 4878). Dalla giurisprudenza<br />
citata (e dallo stesso tenore letterale dell’art. 1335 c.c.) emerge quindi che incombe al<br />
dipendente licenziato fornire la prova rigorosa di non aver avuto conoscenza del licenziamento<br />
fornendo la dimostrazione dell’esistenza di un evento estraneo alla sua volontà, quale la forzata<br />
lontananza dal domicilio (ad esempio, per una grave malattia), tale da non consentire il<br />
collegamento (neanche telefonico o epistolare) dell’interessato con il proprio domicilio, luogo<br />
di destinazione dell’intimazione del licenziamento. Per quanto riguarda poi la decorrenza del<br />
termine per impugnare il licenziamento con preavviso, si deve aver riguardo alla comunicazione<br />
del licenziamento stesso e non alla data effettiva di cessazione del rapporto.<br />
Anche nell’ipotesi di licenziamento intimato al lavoratore in stato di malattia, il termine per<br />
l’impugnazione decorre dal giorno in cui il lavoratore ha conoscenza del licenziamento e dei<br />
relativi motivi, e non può essere differito alla cessazione della malattia (Cass. 11.10.1997, n.<br />
9934).<br />
12.11 Sede in cui recapitare l’atto di impugnazione<br />
Qualora il datore di lavoro sia una persona giuridica occorre far riferimento alla sede legale<br />
della stessa, quale risulta dall’atto costitutivo, oppure alla sede effettiva, che si identifi ca<br />
con il luogo dove si svolge l’attività direttiva ed amministrativa dell’impresa.<br />
È stata, però, ritenuta rituale la notifi ca dell’impugnazione del licenziamento effettuata<br />
presso lo stabilimento dalla cui direzione è pervenuto il licenziamento, nonché quella effettuata<br />
presso una sede secondaria della società (Pret. Foggia, 6.11.1989).<br />
12.12 Prova dell’impugnazione<br />
La prova dell’avvenuta impugnazione nel termine di legge, quale fatto impeditivo della decadenza,<br />
incombe sul lavoratore licenziato, il quale ha l’onere di allegare quando ha ricevuto<br />
la comunicazione del licenziamento e quando lo ha impugnato (Cass. 8.2.1999, n. 1076).<br />
LicenziamentI individualI e collettivI<br />
127
128 Capitolo 12 - Impugnazione del licenziamento e rito speciale per le relative controversie<br />
Atteso che l’impugnazione del licenziamento ha natura di atto negoziale unilaterale, per il<br />
quale è richiesta la forma scritta ad substantiam, l’impugnazione del licenziamento non può<br />
essere provata attraverso il ricorso alla prova testimoniale (Cass. 24.8.2000, 11059).<br />
12.13 Effetti della mancata impugnazione<br />
Ai sensi della disciplina introdotta dalla L. 183/2010, la mancata impugnazione del licenziamento<br />
entro il termine di 60 giorni indicato dall’art. 6, L. 604/1966, ovvero il mancato deposito<br />
del ricorso giudiziale o la mancata comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo<br />
di conciliazione o arbitrato entro il successivo termine di 270 giorni (ridotto a 180 giorni<br />
dall’art. 1, commi 38 e 39, della L. 92/2012 con riferimento «ai <strong>licenziamenti</strong> intimati dopo la<br />
data di entrata in vigore della presente legge»), comporta rispettivamente la decadenza<br />
dall’impugnazione medesima ovvero l’ineffi cacia dell’impugnazione tempestivamente proposta,<br />
ossia preclude al lavoratore licenziato la possibilità di richiedere il riconoscimento delle<br />
tutele introdotte dal novellato art. 18 S.L., così come di quelle previste dall’art. 8, L. 604/1966.<br />
Tuttavia, tali conseguenze non precludono l’esercizio della normale azione risarcitoria per<br />
danni conseguenti all’illegittimo licenziamento ove ne ricorrano (e siano dal lavoratore allegati)<br />
i relativi presupposti, o anche solo per ottenere l’indennità di mancato preavviso. Infatti, la<br />
mancata impugnazione da parte del lavoratore del licenziamento, che sia illegittimo ai sensi<br />
della L. 604/1966, non preclude l’azione risarcitoria in base ai principi generali, la quale non<br />
può non comprendere anche il danno costituito dalla perdita dell’indennità della cassa integrazione<br />
guadagni che il lavoratore avrebbe percepito ove non fosse stato illegittimamente licenziato<br />
(Cass. 5.2.1985, n. 817).<br />
Con riferimento ai presupposti dell’azione risarcitoria di diritto comune, l’orientamento<br />
giuri-sprudenziale prevalente ritiene che il lavoratore decaduto dall’impugnazione del licenziamen-to<br />
possa esperire tale azione <strong>sulla</strong> base di ulteriori e distinti fatti ingiusti, atteso che la<br />
decadenza dall’impugnazione, precludendo al giudice l’accertamento dell’illegittimità del recesso,<br />
impedisce altresì di poter considerare tale illegittimità quale elemento costitutivo della<br />
pretesa risarcitoria ex art. 1218 c.c. (Cass. 21.8.2006, n. 18216; Cass. 12.10.2006, n. 21833;<br />
Cass. 10.1.2007, n. 245 e Cass. 14.5.2007, n. 11035).<br />
In altre parole, il lavoratore potrà esperire l’ordinaria azione risarcitoria di diritto comune<br />
<strong>sulla</strong> base di circostanze, diverse ed ulteriori rispetto alla semplice illegittimità del licenziamento,<br />
che costituiscano di per sé un fatto ingiusto ovvero un inadempimento contrattuale (si<br />
pensi, a titolo di esempio, al licenziamento ingiurioso e al licenziamento quale atto fi nale di<br />
una condotta mobbizzante).<br />
La decadenza dall’impugnazione non può essere rilevata d’uffi cio dal giudice ex art. 2969<br />
c.c., ma dà luogo ad un’eccezione in senso stretto (Cass. 2.2.1991, n. 1035). In particolare,<br />
tale eccezione del datore di lavoro è soggetta alla disciplina contenuta nell’art. 416 c.p.c. e,<br />
pertanto, deve essere sollevata nella memoria difensiva da depositarsi almeno dieci giorni<br />
prima dell’udienza di discussione, ovvero nell’atto di costituzione da depositare nell’ambito<br />
del procedimento d’urgenza introdotto dall’art. 1, co. 48 e seguenti, della L. 92/2012 con<br />
riferimento alle controversie aventi ad oggetto l’impugnativa dei <strong>licenziamenti</strong> rientranti<br />
nell’ambito di applicazione del novellato art. 18 S.L. (cfr. infra). Conseguentemente tale<br />
eccezione, se proposta nel prosieguo del giudizio, è inammissibile, salva la facoltà del giudice<br />
prevista dall’art. 420 c.p.c., co. 1, di autorizzare la modifi ca delle difese delle parti (Cass.<br />
19.12.1985, n. 6514).<br />
LicenziamentI individualI e collettivI
Capitolo 12 - Impugnazione del licenziamento e rito speciale per le relative controversie<br />
12.14 Impugnazione del licenziamento e contratti di lavoro a termine<br />
Una delle principali novità introdotte dalla L. 183/2010 consiste nell’estensione del regime<br />
decadenziale di cui al novellato art. 6, L. 604/1966 anche al rapporto di lavoro a termine.<br />
Infatti, l’art. 32, co. 3, L. 183/2010 (come modifi cato dall’art. 1, co. 11, della L. 92/2012) – rubricato<br />
peraltro “Decadenze e disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo determinato” - prevede<br />
che «le disposizioni di cui all’articolo 6 della L. 15.7.1966, n. 604, come modifi cato dal co. 1 del<br />
presente articolo, si applicano inoltre: a) ai <strong>licenziamenti</strong> che presuppongono la risoluzione di questioni<br />
relative … alla legittimità del termine apposto al contratto; … d) all’azione di nullità del termine<br />
apposto al contratto di lavoro, ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6.9.2001, n. 368, e<br />
successive modifi cazioni, con termine decorrente dalla scadenza del medesimo».<br />
Il successivo co. 4 precisa che le medesime disposizioni si applicano «a) ai contratti di lavoro<br />
a termine stipulati ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6.9.2001, n. 368, in<br />
corso di esecuzione alla data di entrata in vigore della presente legge, con decorrenza dalla<br />
scadenza del termine; b) ai contratti di lavoro a termine, stipulati anche in applicazione di disposizioni<br />
di legge previgenti al decreto legislativo 6.9.2001, n. 368, e già conclusi alla data di<br />
entrata in vigore della presente legge, con decorrenza dalla medesima data di entrata in vigore<br />
della presente legge».<br />
Quanto alla giurisprudenza formatasi anteriormente alla promulgazione della L. 183/2010, è<br />
stata controversa l’applicabilità della normativa sull’impugnazione del licenziamento all’azione<br />
di accertamento dell’illegittimità del termine apposto ad un contratto di lavoro subordinato, sino<br />
all’intervento delle Sezioni Unite della Cassazione (Cass., Sez. Un., 6.7.1991, n. 7471) ed al successivo<br />
consolidato orientamento giurisprudenziale, che aveva escluso la suddetta applicabilità.<br />
In particolare era stato ritenuto che, in caso di nullità del termine apposto al contratto di<br />
lavoro, non sussistesse per il lavoratore cessato dal servizio l’onere di impugnazione nel termine<br />
di sessanta giorni<br />
- previsto a pena di decadenza dall’art. 6, L. 604/1966, che presuppone un licenziamento -<br />
atteso che il rapporto cessa per l’apparente operatività del termine stesso in ragione dell’esecuzione<br />
che le parti danno alla clausola nulla, con conseguente applicabilità della disciplina<br />
in tema di nullità, sicché in qualsiasi tempo il lavoratore può far valere l’illegittimità<br />
del termine e chiedere l’accertamento della perdurante sussistenza del rapporto e la condanna<br />
del datore di lavoro a riattivarlo riammettendolo al lavoro, salvo che il protrarsi della<br />
mancata reazione del lavoratore all’estromissione dall’azienda ed il suo prolungato disinteresse<br />
alla prosecuzione del rapporto esprimano, come comportamento tacito<br />
concludente, la volontà di risoluzione consensuale del rapporto stesso (Cass. 19.1.2010, n.<br />
839; Cass. 5.11.2009, n. 23520) e sempre che il rapporto (apparentemente) a termine non si<br />
sia risolto per effetto di uno specifi co atto di recesso del datore di lavoro (licenziamento)<br />
che si sia sovrapposto alla mera operatività del termine con applicazione, in tale ultimo<br />
caso, sia del termine di decadenza di cui all’art. 6 cit., sia della disciplina della giusta causa<br />
e del giustifi cato motivo di licenziamento (Cass. 8.3. 2000, n. 2647; Cass. 4.6.2003, n. 8893).<br />
12.15 Il rito speciale per le controversie in tema di <strong>licenziamenti</strong><br />
introdotto dalla L. 92/2012<br />
Una delle principali novità introdotte dalla L. 92/2012 consiste nella corsia preferenziale<br />
che è stata strutturata – nei co. da 47 a 68 dell’articolo 1 – per le controversie giudiziali in tema<br />
LicenziamentI individualI e collettivI<br />
129
130 Capitolo 12 - Impugnazione del licenziamento e rito speciale per le relative controversie<br />
di impugnazione dei <strong>licenziamenti</strong> rientranti nell’ambito di applicazione del novellato art. 18<br />
dello Statuto dei Lavoratori.<br />
Il nuovo rito si applica «alle controversie instaurate successivamente alla data di entrata<br />
in vigore della presente legge», e per la trattazione delle stesse «devono essere riservati<br />
particolari giorni nel calendario delle udienze».<br />
La prima impressione che si ricava dalla lettura delle disposizioni in commento è che il<br />
Legislatore, dopo aver previsto con la L. 183/2010 (Collegato Lavoro) un rigido regime decadenziale<br />
con un preciso intento defl attivo del contenzioso, voglia oggi affi ancarvi un rito processuale<br />
speciale caratterizzato da particolare celerità.<br />
Per quanto riguarda più in dettaglio la nuova disciplina processuale, possono accedere al<br />
nuovo rito per le controversie in tema di <strong>licenziamenti</strong> non soltanto le dispute «aventi ad oggetto<br />
l’impugnativa dei <strong>licenziamenti</strong> nelle ipotesi regolate dall’articolo 18», bensì anche<br />
quelle che comportino – in uno con il recesso – la necessità di risolvere «questioni relative<br />
alla qualifi cazione del rapporto di lavoro» (si pensi in particolare ai rapporti intercorrenti con<br />
titolari di partita IVA o alle collaborazioni “autonome” o senza progetto, dissimulanti in realtà<br />
rapporti di lavoro subordinato) (così l’art. 1, co. 47, L. 92/2012).<br />
Lo svolgimento del processo, poi, è improntato alla massima urgenza (come ripetutamente<br />
chiesto anche in sede comunitaria al fi ne di invogliare gli investimenti nel nostro Paese).<br />
E’ stata, infatti, prevista al co. 48 una fase di tutela urgente, che si propone «con ricorso al<br />
Tribunale in funzione di giudice del lavoro».<br />
Viene meno, tuttavia, la necessità di dimostrare la sussistenza dei tradizionali requisiti dell’urgenza<br />
di cui all’art. 700 c.p.c. (fumus boni juris e periculum in mora), in quanto «il ricorso deve avere i<br />
requisiti di cui all’articolo 125 del codice di procedura civile»: vale a dire, oltre all’identifi cazione<br />
dell’uffi cio giudiziario, delle parti e dei rispettivi procuratori, «l’oggetto, le ragioni della domanda e le<br />
conclusioni». Poiché la norma richiama gli elementi comuni a tutti gli atti giudiziari, è da pensare che<br />
proprio nell’estrema semplifi cazione di questo rito si potrà verifi care l’effettiva idoneità del nuovo<br />
procedimento nel determinare in tempi rapidissimi la legittimità o meno del recesso.<br />
Fissata l’udienza «non oltre quaranta giorni dal deposito del ricorso», il relativo decreto deve<br />
essere notifi cato alla controparte unitamente al ricorso nel termine assegnato dal giudice, che<br />
deve essere «non inferiore a venticinque giorni prima dell’udienza», e nell’ulteriore termine «non<br />
inferiore a cinque giorni prima della stessa udienza» il resistente è tenuto a costituirsi in giudizio.<br />
Viene precisato che la notifi ca può essere effettuata dal ricorrente «anche a mezzo di posta<br />
elettronica certifi cata» - un mezzo, questo, ripetutamente richiamato nella riforma – e che<br />
«qualora dalle parti siano prodotti documenti, essi devono essere depositati presso la cancelleria<br />
in duplice copia».<br />
All’udienza di comparizione delle parti «il giudice, sentite le parti e omessa ogni formalità<br />
non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di<br />
istruzione indispensabili richiesti dalle parti o disposti d’uffi cio, ai sensi dell’articolo 421 del<br />
codice di procedura civile, e provvede, con ordinanza immediatamente esecutiva, all’accoglimento<br />
o al rigetto della domanda» (art. 1, co. 49, L. 92/2012).<br />
Ai sensi del successivo co. 51, avverso il provvedimento che decide il giudizio – la cui effi cacia<br />
«non può essere sospesa o revocata fi no alla pronuncia della sentenza con cui il giudice defi -<br />
nisce il giudizio instaurato ai sensi dei co. da 51 a 57» - è prevista la possibilità di «opposizione»,<br />
nei modi e nelle forme tipiche del rito del lavoro dettate dall’art. 414 c.p.c., con ricorso «da depositare<br />
innanzi al tribunale che ha emesso il provvedimento opposto, a pena di decadenza, entro<br />
trenta giorni dalla notifi cazione dello stesso, o dalla comunicazione se anteriore».<br />
La disposizione specifi ca che «con il ricorso non possono essere proposte domande diverse da<br />
quelle di cui al co. 47 del presente articolo, salvo che siano fondate sugli identici fatti costitutivi o<br />
LicenziamentI individualI e collettivI
Capitolo 12 - Impugnazione del licenziamento e rito speciale per le relative controversie<br />
siano svolte nei confronti di soggetti rispetto ai quali la causa è comune o dai quali si intende essere<br />
garantiti. Il giudice fi ssa con decreto l’udienza di discussione non oltre i successivi sessanta<br />
giorni, assegnando all’opposto termine per costituirsi fi no a dieci giorni prima dell’udienza».<br />
Effettuata la notifi ca del ricorso e del decreto di fi ssazione dell’udienza (anche a mezzo di<br />
posta elettronica certifi cata), costituitosi il convenuto «mediante deposito in cancelleria di<br />
memoria difensiva a norma e con le decadenze di cui all’articolo 416 del codice di procedura<br />
civile», anche in relazione alla chiamata di terzo (disciplinata dai co. 54 e 55 dell’articolo in<br />
esame), e separate eventuali questioni proposte in via riconvenzionale laddove non fondate<br />
«su fatti costitutivi identici a quelli posti a base della domanda principale» (co. 56), si tiene<br />
l’udienza di discussione entro sessanta giorni dal deposito del ricorso, ma la prima udienza<br />
potrebbe slittare di non più di 60 giorni proprio in ipotesi di chiamata in causa di terzo.<br />
In occasione dell’udienza disciplinata al co. 57 «il giudice, sentite le parti, omessa ogni<br />
formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli<br />
atti di istruzione ammissibili e rilevanti richiesti dalle parti nonché disposti d’uffi cio … e<br />
provvede con sentenza all’accoglimento o al rigetto della domanda, dando, ove opportuno,<br />
termine alle parti per il deposito di note difensive fi no a dieci giorni prima dell’udienza di<br />
discussione». Sempre nell’ottica di celerità del procedimento di cui abbiamo già detto, la sentenza,<br />
completa di motivazione, deve essere depositata in cancelleria entro dieci giorni dall’udienza<br />
di discussione, ha effi cacia provvisoriamente esecutiva e costituisce titolo per l’iscrizione<br />
di ipoteca giudiziale.<br />
Ai successivi commi da 58 a 63 il legislatore ha ovviamente disciplinato anche gli ulteriori<br />
gradi del giudizio di impugnazione della sentenza avanti la competente Corte d’Appello<br />
ovvero la Corte Suprema di Cassazione: gradi processuali ispirati sempre alla massima (e<br />
auspicata) celerità.<br />
Quanto al primo, da proporre a pena di decadenza «entro trenta giorni dalla comunicazione»<br />
della sentenza «o dalla notifi cazione se anteriore», viene mantenuto il divieto di ammettere<br />
«nuovi mezzi di prova o documenti, salvo che il collegio, anche d’uffi cio, li ritenga indispensabili<br />
ai fi ni della decisione ovvero la parte dimostri di non aver potuto proporli in primo<br />
grado per causa ad essa non imputabile».<br />
Fissata «l’udienza di discussione nei successivi sessanta giorni», fermi «i termini previsti<br />
dai co. 51, 52 e 53», «alla prima udienza, la corte può sospendere l’effi cacia della sentenza<br />
reclamata se ricorrono gravi motivi».<br />
Dopo di che il Collegio «sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio,<br />
procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione ammessi e provvede<br />
con sentenza all’accoglimento o al rigetto della domanda, dando, ove opportuno, termine alle<br />
parti per il deposito di note difensive fi no a dieci giorni prima dell’udienza di discussione».<br />
Anche in questo grado di giudizio la sentenza, completa di motivazione, deve essere depositata<br />
in cancelleria entro dieci giorni dall’udienza di discussione.<br />
Da segnalare che la sospensione dell’effi cacia della sentenza pronunciata in tale sede<br />
deve essere chiesta alla stessa Corte d’appello «che provvede a norma del co. 60»: essendo<br />
francamente diffi cile pensare che la Corte possa accogliere siffatta istanza relativa ad un proprio<br />
provvedimento, è evidente che diverrà ancor più stringente, da parte di chi la solleverà, la<br />
prova dei «gravi motivi» che sottendono alla stessa.<br />
Con riferimento, infi ne, all’impugnazione avanti la Corte di legittimità, il relativo ricorso<br />
«deve essere proposto, a pena di decadenza, entro sessanta giorni dalla comunicazione»<br />
della sentenza pronunciata in grado di appello «o dalla notifi cazione se anteriore», e «la Corte<br />
fi ssa l’udienza di discussione non oltre sei mesi dalla proposizione del ricorso», termine<br />
quest’ultimo che, se fosse rispettato, darebbe una forte accelerazione alla conclusione defi nitiva<br />
delle controversie giudiziali.<br />
LicenziamentI individualI e collettivI<br />
131
Capitolo 13<br />
LICENZIAMENTO DEL DIRIGENTE D’AZIENDA<br />
E DI ALTRE CATEGORIE PARTICOLARI DI LAVORATORI<br />
13.1 Il dirigente d’azienda<br />
L’art. 10, L. 15.7.1966, n. 604, esclude dal proprio ambito di applicazione i dirigenti d’azienda,<br />
il cui rapporto di lavoro non gode né della c.d. tutela reale né di quella obbligatoria, ma<br />
è assoggettato al regime della libera recedibilità, con conseguente applicazione della disciplina<br />
legale dettata dagli artt. 2118 e 2119 c.c.<br />
Tale esclusione è stata dichiarata costituzionalmente legittima in ragione dell’impossibilità<br />
di equiparare il dirigente agli altri lavoratori subordinati, attesa la peculiare collocazione del<br />
primo all’interno dell’organizzazione aziendale e del particolare atteggiarsi del vincolo fi duciario<br />
che caratterizza il rapporto di lavoro dirigenziale.<br />
La questione dell’illegittimità costituzionale della norma in esame è stata ritenuta manifestamente<br />
infondata, per le medesime ragioni sopra esposte, anche successivamente alla promulgazione<br />
della L. 108/1990, che ha introdotto due disposizioni che riguardano (anche) il licenziamento<br />
del dirigente: la prescrizione della forma scritta del recesso e la disciplina<br />
sanzionatoria del licenziamento discriminatorio.<br />
Tuttavia, la contrattazione collettiva è da tempo intervenuta al fi ne di limitare convenzionalmente<br />
l’esercizio del potere di recesso da parte del datore di lavoro; infatti, la maggior parte dei contratti<br />
<strong>collettivi</strong> di categoria prevede la «giustifi catezza» quale presupposto di legittimità contrattuale<br />
del licenziamento irrogato, la cui assenza determina - di contro - il diritto del dirigente alla<br />
corresponsione di un’indennità supplementare, istituto di natura esclusivamente pattizia.<br />
Valga osservare sul punto che, come sottolineato dalla giurisprudenza, sebbene la disciplina<br />
limitativa del potere di licenziamento di cui alle leggi 604/1966 e 300/1970 non sia applicabile,<br />
ai sensi dell›art. 10 della prima delle leggi citate, ai dirigenti convenzionali (quelli cioè da<br />
ritenere tali alla stregua delle declaratorie del contratto collettivo applicabile, sia che si tratti<br />
di dirigenti apicali che di dirigenti medi o minori), essa trova tuttavia applicazione in caso di<br />
licenziamento di pseudo-dirigenti, «vale a dire coloro i cui compiti non sono in alcun modo<br />
riconducibili alla declaratoria contrattuale del dirigente» (Cass. 13.12.2010, n. 25145).<br />
Occorre, infi ne, ricordare che il nuovo rito speciale per le controversie in tema di <strong>licenziamenti</strong><br />
introdotto dalla L. 92/2012 (cfr. Capitolo 12) non si applica in caso di cessazione del<br />
rapporto dirigenziale, in virtù dell’espressa previsione dell’art. 1, co. 47, della legge menzionata,<br />
in base alla quale le relative disposizioni «si applicano alle controversie aventi ad<br />
oggetto l’impugnativa dei <strong>licenziamenti</strong> nelle ipotesi regolate dall’articolo 18 della L.<br />
20.5.1970, n. 300, e successive modifi cazioni».<br />
13.2 Licenziamento disciplinare<br />
Il licenziamento disciplinare del dirigente è stato oggetto di vivace dibattito nel corso degli<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
133
134 Capitolo 13 - Licenziamento del dirigente d’azienda e di altre categorie particolari di lavoratori<br />
ultimi quindici anni. Fino al 1995, infatti, i giudici ritenevano inapplicabili al dirigente le garanzie<br />
procedimentali di cui all’art. 7 S.L. (Cass. SS.UU. 29.5.1995, n. 6041).<br />
In seguito, il principio enunciato dalle Sezioni Unite è stato superato da successive pronunce<br />
della giurisprudenza di legittimità, le quali avevano ritenuto non applicabili le garanzie<br />
procedimentali previste dall’art. 7 S.L. esclusivamente nei confronti dei dirigenti c.d. «di<br />
vertice», dovendosi invece ritenere applicabili nei confronti dei cd. «pseudo-dirigenti» o<br />
«dirigenti convenzionali» ovvero del personale della media e bassa dirigenza che sia legalmente<br />
ascrivibile alla categoria del personale direttivo (Cass. 28.4.2003, n. 6606; Cass.<br />
18.7.2001, n. 9715; Cass. 25.7.2000, n. 9766; Cass. 26.2.2000, n. 2192).<br />
Da ultimo l’orientamento della giurisprudenza è ulteriormente mutato superando la distinzione<br />
tra dirigente apicale e non. Secondo tale nuova interpretazione, le garanzie procedimentali<br />
di cui all’art. 7 S.L. sono, pertanto, applicabili a tutti i dirigenti «a prescindere dalla specifi<br />
ca posizione da loro ricoperta nell’organizzazione dell’impresa» (Cass. SS.UU. 30.3. 2007,<br />
n. 7880; Cass. 17.1.2011, n. 897; Cass. 27.12.2010, n. 28967).<br />
13.3 Giusta causa<br />
Il particolare ruolo rivestito dal dirigente nell’ambito dell’organizzazione aziendale comporta<br />
una peculiare connotazione della giusta causa di licenziamento prevista dall’art. 2119<br />
c.c.; infatti, secondo la Suprema Corte può legittimamente ricorrersi al licenziamento per<br />
giusta causa del dirigente in presenza di qualsiasi motivo, purché apprezzabile sul piano del<br />
diritto, idoneo a turbare il legame di fi ducia con il datore; ne consegue che anche la semplice<br />
inadeguatezza del dirigente rispetto ad aspettative riconoscibili ex ante, o una importante deviazione<br />
del dirigente dalla linea segnata dalle direttive generali del datore di lavoro, o un<br />
comportamento extra-lavorativo incidente sull’immagine aziendale possono, a seconda delle<br />
circostanze, costituire ragione di rottura del rapporto fi duciario e quindi giustifi carne il licenziamento<br />
sul piano della disciplina contrattuale dello stesso (Cass. 11.6.2008, n. 15496; Cass.<br />
1.2.2012, n. 1424).<br />
13.4 Giustifi catezza<br />
Quanto invece al signifi cato da attribuire alla nozione pattizia di «giustifi catezza», può dirsi<br />
pacifi camente accolto nella giurisprudenza tanto di merito che di legittimità il principio secondo<br />
cui tale nozione non coincide con quella legale dettata dall’art. 3, L. 604/1966 per il giustifi -<br />
cato motivo, atteso che il precetto legislativo attiene a ragioni ben individuate (o individuabili)<br />
sia soggettivamente che oggettivamente, mentre il licenziamento del dirigente non soffre di<br />
tali limitazioni, ben potendo essere attuato per qualsiasi motivo purché giustifi cato, ossia oggetto<br />
di una decisione datoriale coerente e sorretta da motivi apprezzabili sul piano del diritto.<br />
Pertanto, condotte del lavoratore non integrabili una giusta causa o un giustifi cato motivo di<br />
licenziamento con riguardo ai generali rapporti di lavoro subordinato possono comunque rientrare<br />
nella nozione di «giustifi catezza» ai fi ni del licenziamento del dirigente, con conseguente<br />
disconoscimento dell’indennità supplementare di cui alla contrattazione collettiva, allorché tali<br />
condotte risultino tali da ledere il carattere fi duciario tipico del rapporto di lavoro dirigenziale. Il<br />
parametro valutativo su cui verifi care l›esistenza della «giustifi catezza» è dato dal rispetto da<br />
parte del datore di lavoro dei generali princìpi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 13 - Licenziamento del dirigente d’azienda e di altre categorie particolari di lavoratori<br />
contratto (art. 1375 c.c.) e del divieto di licenziamento discriminatorio ex art. 3, L. 108/1990, o per<br />
motivo illecito e nei casi in cui ci si trovi di fronte a condotte d’inesatto o parziale adempimento<br />
anche dei generali criteri codicistici di cui all’art. 1453 e segg. c.c. In altre parole, affi nché il licenziamento<br />
del dirigente possa essere considerato «giustifi cato» non è necessaria la ricorrenza<br />
delle causali previste dalla L. 604/1966 per gli altri lavoratori subordinati, potendo il dirigente<br />
essere legittimamente licenziato per motivi diversi, meno gravi ed anche non<br />
riconducibili ai concetti ed alle nozioni di cui alla citata legge (dal cui ambito di applicazione i<br />
dirigenti sono inequivocabilmente esclusi), purché gli stessi non appaiano connotati da caratteri<br />
di arbitrarietà o, addirittura, di discriminazione (Cass. 19.9.2011, n. 19074).<br />
In tal senso si è espressa la Suprema Corte affermando che la giustifi catezza può fondarsi<br />
sia su ragioni soggettive ascrivibili al dirigente, sia su ragioni oggettive concernenti esigenze<br />
di riorganizzazione aziendale, che non devono necessariamente coincidere con l’impossibilità<br />
della continuazione del rapporto o con una situazione di grave crisi aziendale, tale da rendere<br />
impossibile o particolarmente onerosa detta continuazione, dato che il principio di correttezza<br />
e buona fede – che costituisce, come accennato, il parametro su cui misurare la legittimità del<br />
licenziamento – deve essere coordinato con la libertà di iniziativa economica, garantita dall’art.<br />
41 della Costituzione (Cass. 15.7.2009, n. 16498).<br />
13.5 Conseguenze del licenziamento<br />
Sotto il profi lo strettamente legale, in materia di licenziamento del dirigente trova applicazione<br />
la disciplina dettata dagli artt. 2118 e 2119 c.c.<br />
Pertanto, il dirigente può essere innanzitutto licenziato senza preavviso nel caso in cui<br />
ricorra una giusta causa di recesso.<br />
Diversamente, troverà applicazione quanto previsto dall’art. 2118 c.c., in base al quale nel<br />
caso di recesso dal contratto di lavoro a tempo indeterminato il datore di lavoro è tenuto a concedere<br />
al lavoratore il termine di preavviso, nella misura prevista dal contratto collettivo applicato<br />
al rapporto di lavoro, ovvero a corrispondere al medesimo la relativa indennità sostitutiva.<br />
13.6 Periodo di preavviso previsto dai principali CCNL<br />
in caso di recesso da parte del datore di lavoro<br />
ISTITUTO<br />
CONTRATTUALE<br />
CCNL<br />
INDUSTRIA<br />
CCNL<br />
COMMERCIO<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
CCNL<br />
CREDITO<br />
CCNL<br />
SPEDIZIONI<br />
Preavviso 8 mesi, sino a 2 6 mesi, sino a 4 5 mesi, sino a 2 6 mesi, sino a 4<br />
anni di anzianità di anni di anzianità di anni di anzianità di anni di anzianità di<br />
servizio;<br />
servizio;<br />
servizio un ulterio- servizio;<br />
un ulteriore mez- 8 mesi da 4 a 8 re mezzo mese per 8 mesi da 4 a 8<br />
zo mese per ogni anni di servizio; ogni successivo anni di servizio;<br />
successivo anno di<br />
anno di anzianità,<br />
10 mesi da 8 a 12<br />
anzianità, fi no ad<br />
fi no ad un preav-<br />
10 mesi da 8 a 12<br />
anni di servizio;<br />
un preavviso masviso<br />
massimo di 12<br />
anni di servizio;<br />
simo di 12 mesi<br />
12 mesi oltre 12 mesi<br />
12 mesi oltre 12<br />
anni di servizio<br />
anni di servizio<br />
Oltre a ciò, la contrattazione collettiva relativa ai dirigenti, ove applicabile, generalmente<br />
135
136 Capitolo 13 - Licenziamento del dirigente d’azienda e di altre categorie particolari di lavoratori<br />
stabilisce a carico del datore di lavoro e a favore del dirigente licenziato, in caso di ritenuta<br />
ingiustifi catezza del recesso, un’indennità supplementare determinata in base a criteri fi ssati<br />
contrattualmente tra un minimo e un massimo.<br />
13.7 Indennità supplementare prevista dai principali CCNL per i dirigenti<br />
ISTITUTO<br />
CONTRATTUALE<br />
Indennità<br />
supplementare<br />
CCNL<br />
INDUSTRIA<br />
- un minimo pari<br />
alle mensilità di<br />
preavviso, mag-<br />
giorato di 2 mensilità;<br />
- un massimo pari<br />
a 20 mesi di preavviso<br />
CCNL<br />
COMMERCIO<br />
- un minimo pari<br />
alle mensilità di<br />
preavviso;<br />
- un massimo pari<br />
a 18 mesi di preavviso<br />
CCNL<br />
CREDITO<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
- un minimo pari<br />
a 7 mensilità di<br />
preavviso;<br />
- un massimo pari<br />
a 22 mesi di preavviso<br />
CCNL<br />
SPEDIZIONI<br />
- un minimo pari<br />
alle mensilità di<br />
preavviso;<br />
- un massimo pari<br />
al doppio delle<br />
mensilità di preavviso<br />
Inoltre, alcuni CCNL dispongono che l’indennità supplementare venga automaticamente<br />
aumentata in relazione all’età del dirigente licenziato.<br />
13.8 Incremento automatico dell’indennità supplementare<br />
per i dirigenti previsto da alcuni CCNL<br />
ISTITUTO<br />
CONTRATTUALE<br />
Indennità<br />
aggiuntiva<br />
CCNL<br />
INDUSTRIA<br />
− 7 mensilità in corrispondenza<br />
del 54°<br />
e 55° anno compiuto;<br />
− 6 mensilità in corrispondenza<br />
del 53°<br />
e 56° anno compiuto;<br />
− 5 mensilità in corrispondenza<br />
del 52°<br />
e 57° anno compiuto;<br />
− 4 mensilità in corrispondenza<br />
del 51°<br />
e 58° anno compiuto;<br />
− 3 mensilità in corrispondenza<br />
del 50°<br />
e 59° anno compiuto<br />
CCNL<br />
COMMERCIO<br />
(a condizione che il<br />
dirigente abbia una<br />
anzianità di servizio<br />
prestato in azienda,<br />
in qualsiasi qualifi<br />
ca, superiore a 10<br />
anni)<br />
− 9 mensilità per<br />
coloro che hanno<br />
un’età tra i 50 e 52<br />
anni compiuti;<br />
− 8 mensilità in<br />
corrispondenza del<br />
53° e 54° anno compiuto;<br />
− 7 mensilità in<br />
corrispondenza del<br />
55° e 56° anno compiuto;<br />
CCNL<br />
CREDITO<br />
(a condizione che il<br />
dirigente abbia una<br />
anzianità di servizio<br />
prestato in azienda<br />
o nel gruppo, in<br />
qualsiasi qualifi ca,<br />
superiore a 10 anni)<br />
− 7 mensilità in<br />
corrispondenza del<br />
51° anno compiuto;<br />
− 6 mensilità in<br />
corrispondenza del<br />
50° e 52° anno compiuto;<br />
− 5 mensilità in<br />
corrispondenza del<br />
49° e 53° anno compiuto;<br />
CCNL<br />
SPEDIZIONI<br />
(a condizione che il<br />
dirigente abbia una<br />
anzianità di servizio<br />
prestato in azienda,<br />
in qualsiasi qualifi<br />
ca superiore a 10<br />
anni)<br />
− 9 mensilità per<br />
coloro che hanno<br />
un’età tra i 50 e 52<br />
anni compiuti;<br />
− 8 mensilità in<br />
corrispondenza del<br />
53° e 54° anno compiuto;<br />
− 7 mensilità in<br />
corrispondenza del<br />
55° e 56° anno compiuto;<br />
– continua –
Capitolo 13 - Licenziamento del dirigente d’azienda e di altre categorie particolari di lavoratori<br />
Indennità<br />
aggiuntiva<br />
− 6 mensilità in<br />
corrispondenza del<br />
57° e 58° anno compiuto;<br />
− 5 mensilità in<br />
corrispondenza del<br />
59° e 60° anno compiuto;<br />
− 4 mensilità per<br />
coloro che hanno<br />
un’età anagrafi ca<br />
compresa tra i 61 e<br />
i 64 anni compiuti<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
− 4 mensilità in<br />
corrispondenza del<br />
48° e 54° anno compiuto;<br />
− 3 mensilità in<br />
corrispondenza del<br />
47° e 55° anno compiuto;<br />
− 2 mensilità in<br />
corrispondenza del<br />
46° e 56° anno compiuto<br />
137<br />
− 6 mensilità in<br />
corrispondenza del<br />
57° e 58° anno compiuto;<br />
− 5 mensilità in<br />
corrispondenza del<br />
59° e 60° anno compiuto;<br />
− 4 mensilità per<br />
coloro che hanno<br />
un’età anagrafi ca<br />
compresa tra i 61 e<br />
i 64 anni compiuti<br />
13.9 Trattamento contributivo e fi scale dell’indennità supplementare<br />
Sotto la vigenza del D.P.R. 597/1973, la giurisprudenza di legittimità era costante nell’affermare<br />
che l’indennità prevista dal contratto collettivo dei dirigenti di aziende industriali per l’ipotesi<br />
di licenziamento ingiustifi cato non rientrasse tra i redditi soggetti a tassazione separata<br />
ex art. 12, D.P.R. 29.9.1973, n. 597, e non fosse, quindi, assoggettabile a ritenuta d’acconto.<br />
Tuttavia, con la riforma introdotta dal D.P.R. 917/1986 il concetto di reddito di lavoro dipendente<br />
risponde ad un concetto di onnicomprensività. Infatti, in base all’art. 51 del vigente d.p.r.<br />
917/1986, come successivamente sostituito dall’art. 3, L. 314/1997, «il reddito di lavoro dipendente<br />
è costituito da tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo<br />
d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro».<br />
Inoltre, l’art. 6, co. 2, del citato D.P.R. 917/1986 dispone che «i proventi conseguiti in sostituzione<br />
di redditi, anche per effetto di cessione dei relativi crediti, e le indennità conseguite,<br />
anche in forma assicurativa, a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi,<br />
esclusi quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte, costituiscono redditi della<br />
stessa categoria di quelli sostituiti o perduti».<br />
Infi ne, il successivo art. 17 stabilisce che «l’imposta si applica separatamente ai seguenti<br />
redditi: a. trattamento di fi ne rapporto (...) e indennità equipollenti, comunque denominate,<br />
commisurate alla durata dei rapporti di lavoro dipendente (...); altre indennità e somme percepite<br />
una volta tanto in dipendenza della cessazione dei predetti rapporti, comprese l’indennità<br />
di preavviso (...)». Alla luce di tali disposizioni, la Suprema Corte ha mutato il proprio precedente<br />
orientamento per affermare che tutti gli emolumenti corrisposti al lavoratore dipendente<br />
per reintegrare e/o sostituire un mancato guadagno, quale è l’indennità supplementare in<br />
esame, sono soggetti a tassazione secondo il criterio della tassazione separata di cui al riportato<br />
art. 17, D.P.R. 917/1986.<br />
Più specifi camente la Corte di Cassazione ha precisato che le somme percepite da un dirigente<br />
ingiustamente licenziato a titolo risarcitorio costituiscono reddito imponibile se destinate<br />
a coprire un danno consistito nella perdita di redditi (c.d. lucro cessante), cioè se le somme<br />
sono corrisposte in luogo delle retribuzioni che sarebbero state percepite nell’ipotesi di prosecuzione<br />
del rapporto di lavoro (Cass. 5.8.2002, n. 11687; Cass. 30.1.2003, n. 1431). Più recentemente,<br />
Cass. 25.5.2007, n. 12301, ha ritenuto che «per escludere l’assoggettabilità ad irpef di<br />
un’erogazione economica al prestatore da parte di un datore di lavoro - i cui rapporti di credito<br />
e debito trovano normalmente la loro causa diretta nel rapporto di subordinazione o nella ri-
138 Capitolo 13 - Licenziamento del dirigente d’azienda e di altre categorie particolari di lavoratori<br />
soluzione di questo - è necessario accertare che l’erogazione stessa non trovi la sua causa<br />
(ovverosia la fonte della sua obbligatorietà) nel rapporto di lavoro e, se ciò non viene positivamente<br />
escluso, che l’erogazione stessa, in base all’interpretazione della concreta volontà manifestata<br />
dalle parti, non trovi la fonte della sua obbligatorietà né in redditi sostituiti, né nel<br />
risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi futuri ma, al contrario, nella volontà di<br />
risarcire «l’illegittima perdita di prestigio e chances professionali per il dipendente» o, addirittura,<br />
un danno biologico».<br />
13.10 Lavoratore in prova<br />
Ai sensi dell’art. 2096 c.c. il contratto di lavoro può prevedere un periodo di prova durante il<br />
quale ciascuna delle parti può recedere senza obbligo di preavviso, e al termine del quale l’assunzione<br />
diviene defi nitiva ed il servizio prestato deve essere computato nell’anzianità di servizio<br />
del prestatore di lavoro. La funzione del patto di prova, per quanto riguarda il datore di<br />
lavoro, è quella di verifi care sia le qualità professionali, sia il comportamento e la personalità<br />
complessiva del prestatore di lavoro in relazione all’adempimento della prestazione, prima<br />
che il vincolo contrattuale divenga defi nitivo.<br />
La forma di stipulazione del patto deve essere quella dell’atto scritto, richiesta ad substantiam,<br />
vale a dire a pena di nullità del patto stesso con conseguente assunzione defi nitiva del<br />
prestatore di lavoro, e la sua sottoscrizione deve necessariamente avvenire anteriormente o,<br />
quantomeno, contestualmente alla data di instaurazione del rapporto di lavoro, senza possibilità<br />
di equipollenti o sanatorie.<br />
Oltre alla forma scritta, l’ordinamento impone la predeterminazione della durata massima<br />
della prova che, di norma, è stabilita dai contratti <strong>collettivi</strong>. In ogni caso, ai sensi dell’art. 10, L.<br />
15.7.1966, n. 604, il limite massimo di durata della prova è di sei mesi decorsi i quali il rapporto<br />
di lavoro acquisterà comunque una stabilità trovando applicazione la disciplina ordinaria<br />
dei <strong>licenziamenti</strong> <strong>individuali</strong>.<br />
Quanto al recesso, l’art. 2096, co. 3, c.c. prevede che durante il periodo di prova ciascuna delle<br />
parti può recedere dal rapporto di lavoro anche in mancanza di giusta causa ovvero di giustifi cato<br />
motivo di licenziamento e senza l’obbligo del preavviso. Questa previsione normativa trova conferma<br />
nel disposto del summenzionato art. 10 della L. 604/1966 che ha escluso l’applicabilità del<br />
recesso causale ai lavoratori in prova fi no ad un periodo non superiore ai sei mesi: tale esclusione<br />
permane tuttora atteso che lo stesso art. 10 non è stato modifi cato dalla L. 108/1990.<br />
Dunque, proprio per il fatto che la L. 604/1966 ha lasciato fuori dal proprio ambito applicativo<br />
il lavoro in prova, il recesso datoriale da tale rapporto non richiede particolari formalità:<br />
infatti, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, non solo il datore di lavoro non<br />
deve comunicare i motivi del recesso (Cass. 5.11.2007, n. 23061) ma addirittura lo stesso recesso<br />
non è assoggettato alla forma scritta (Cass. 16.8.2000, n. 10834; Cass. 20.5.1991, n.<br />
5634). Tuttavia, qualora le parti abbiano stabilito una durata minima per la prova, la facoltà di<br />
recesso non può esercitarsi prima della scadenza del previsto termine. In caso contrario, vale<br />
a dire in caso di licenziamento del prestatore di lavoro prima dell’ultimazione del periodo di<br />
prova, la declaratoria di illegittimità del recesso non comporta che il contratto di lavoro debba<br />
considerarsi come stabilmente costituito, ma implica esclusivamente il diritto del prestatore<br />
di lavoro di terminare la prova fi no alla scadenza del termine prefi ssato ovvero, in alternativa,<br />
al risarcimento del danno (Cass. 18.11.1995, n. 11934).<br />
Il regime di libera recedibilità che caratterizza il rapporto di lavoro durante la prova non<br />
esclude che il prestatore di lavoro possa contestare, in via giudiziale, la legittimità del recesso<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 13 - Licenziamento del dirigente d’azienda e di altre categorie particolari di lavoratori<br />
del datore di lavoro. In tal caso il lavoratore ha l’onere di provare, secondo la regola generale<br />
di cui all’art. 2697 c.c., che il recesso è stato determinato da motivo illecito o che il rapporto in<br />
prova si sia svolto con tempi e modalità inadeguate rispetto alla funzione del patto (Cass., Sez.<br />
Un., 2.8.2002, n. 11633; Cass. 4.8.1998, n. 7644). L’impugnazione da parte del prestatore di lavoro<br />
del licenziamento intimato per esito negativo della prova non soggiace al termine di sessanta<br />
giorni previsto dall’art. 6 della L. 604/1966, atteso che tale recesso viene ad essere<br />
prospettato dallo stesso datore di lavoro come non soggetto a contestazione (Cass. 18.3.<br />
1997, n. 2359; Cass. 25.10.1993, n. 10587; Cass. 12.8.1991, n. 8796).<br />
13.11 Licenziamento della lavoratrice madre in prova<br />
Come già ampiamente descritto, ai sensi dell’art. 54 del D.Lgs. 26.3. 2001, n. 151, il licenziamento<br />
della lavoratrice madre è vietato dall’inizio del periodo di gravidanza fi no al termine<br />
dei periodi di interdizione dal lavoro previsti dal Capo III di tale decreto, nonché fi no al compimento<br />
di un anno di età del bambino. Tuttavia, sempre ai sensi dell’art. 54, co. 3, lettera d,<br />
qualora la lavoratrice madre venga assunta con patto di prova il ricordato divieto di licenziamento<br />
non si applica nel caso di esito negativo della prova, fermo restando, in ogni caso, il<br />
divieto di discriminazione di cui agli artt. 25 e 27 del d.lgs. 11.4.2006, n. 198.<br />
13.12 Licenziamento del lavoratore in prova assunto obbligatoriamente<br />
Il rapporto del prestatore di lavoro invalido assunto per collocamento obbligatorio presenta<br />
una problematica peculiare relativa alla apponibilità, o meno, del patto di prova a tale rapporto<br />
ed al licenziamento al termine del periodo di prova.<br />
In relazione all’apposizione del patto di prova, la giurisprudenza di legittimità ne ha affermato<br />
la legittimità a condizione che le mansioni affi date siano compatibili con lo stato dell’invalido<br />
e che la valutazione del suo esito prescinda da ogni considerazione sullo stato medesimo,<br />
nel senso che il datore di lavoro può validamente recedere dal rapporto per esito negativo<br />
della prova soltanto se l’esperimento abbia dimostrato l’inidoneità del lavoratore ad esercitare<br />
le mansioni affi dategli o altre reperibili nell’assetto occupazionale dell’azienda in base alla<br />
ridotta capacità lavorativa posseduta, senza peraltro effettuare alcun confronto tra il rendimento<br />
del soggetto protetto e il rendimento medio del lavoratore valido (Cass. 14.10.2000, n.<br />
13726). In ogni caso il recesso del datore di lavoro può essere sottoposto a verifi ca da parte del<br />
giudice al fi ne di accertare l’eventuale discriminazione e di evitare che l’esito dell’esperimento<br />
possa essere determinato o infl uenzato dalle condizioni minorate dell’invalido (Cass. 8.6.1998,<br />
n. 5639; Cass. 9.4.1998, n. 3689; Cass. 4.6.1992, n. 6810).<br />
13.13 Lavoratore a termine<br />
L’ordinamento giuridico ha per lungo tempo valutato con sfavore il contratto di lavoro subordinato<br />
a tempo determinato, considerando «normale» quello a tempo indeterminato.<br />
Tuttavia, l’evoluzione del mondo del lavoro nonché la crescente necessità di fl essibilità e di<br />
nuova occupazione hanno condotto ad una progressiva attenuazione dell’originario «sfavore»<br />
sino all’emanazione del D.Lgs. 6.9.2001, n. 368, che ha dato attuazione alla direttiva 99/70/CE<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
139
140 Capitolo 13 - Licenziamento del dirigente d’azienda e di altre categorie particolari di lavoratori<br />
relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, e ha abrogato la precedente disciplina<br />
del contratto di lavoro a tempo determinato di cui alla L. 18.4.1962, n. 230.<br />
Il contratto di lavoro a tempo determinato si risolve, naturalmente, alla scadenza del termine<br />
contrattualmente previsto dalle parti. Il problema del licenziamento nell’ambito di tale<br />
rapporto, dunque, si pone qualora il recesso del datore di lavoro avvenga ante tempus, vale a<br />
dire prima della scadenza naturale del contratto.<br />
Purtroppo, il legislatore non ha ritenuto di affrontare la questione del recesso ante tempus<br />
neppure con il D.Lgs. 368/2001, lasciando così incolmata una lacuna già presente nella L.<br />
230/1962. Pertanto, nel silenzio della legge, <strong>sulla</strong> base dei princìpi generali si ritiene che il<br />
recesso anticipato nel rapporto di lavoro a tempo determinato sia illegittimo, fatta salva la<br />
sussistenza di una giusta causa di licenziamento. In proposito, la Corte di Cassazione ha chiarito<br />
che il rapporto di lavoro a tempo determinato, al di fuori del recesso per giusta causa di<br />
cui all’art. 2119 c.c., può essere risolto anticipatamente non già per un giustifi cato motivo<br />
oggettivo ai sensi dell’art. 3 della L. 604/1966, ma soltanto in presenza delle ipotesi di risoluzione<br />
del contratto previste dagli artt. 1453 e ss. c.c. Ne consegue che, qualora il datore di<br />
lavoro proceda ad una riorganizzazione del proprio assetto produttivo, non può avvalersi di tale<br />
fatto per risolvere in anticipo un contratto di lavoro a tempo determinato (Cass. 10.2.2009, n.<br />
3276).<br />
Pertanto, secondo la giurisprudenza di legittimità, qualora il datore di lavoro receda anticipatamente<br />
dal contratto di lavoro a termine senza che tale recesso sia assistito da giusta<br />
causa, il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno commisurato all’entità dei compensi<br />
retributivi che lo stesso avrebbe maturato dalla data del recesso fi no alla prevista scadenza<br />
del contratto (Cass. 1.6.2005, n. 11692; Cass. 1.7.2004, n. 12092). Tuttavia, nel quantifi -<br />
care il risarcimento il giudice può detrarre da tale importo i proventi che il lavoratore si sia<br />
procurato dopo la cessazione del rapporto, ovvero quelli che avrebbe potuto conseguire, attraverso<br />
un’altra occupazione, usando l’ordinaria diligenza.<br />
13.14 Apprendistato<br />
Nel rapporto di apprendistato il datore di lavoro conserva la facoltà di recedere liberamente<br />
col solo obbligo del preavviso allo scadere del previsto periodo di tirocinio del lavoratore,<br />
venendo a cessare la causa negoziale di tale speciale rapporto, cosicché non è richiesta in tale<br />
particolare recesso la sussistenza di una giusta causa ovvero di un giustifi cato motivo ai fi ni<br />
della sua legittimità. Ciò non esclude, in ogni caso, che durante il rapporto e prima del compimento<br />
di tale termine siano applicabili tutte le norme sul lavoro subordinato, ivi comprese<br />
quelle in materia di <strong>licenziamenti</strong> disciplinari.<br />
Il D.Lgs. 14.9.2011, n. 167 (Testo unico dell’apprendistato) ha previsto che «la disciplina del<br />
contratto di apprendistato è rimessa ad appositi accordi interconfederali ovvero ai contratti<br />
<strong>collettivi</strong> di lavoro stipulati a livello nazionale (…) nel rispetto dei seguenti princìpi: (…) l)<br />
divieto per le parti di recedere dal contratto durante il periodo di formazione in assenza di<br />
giusta causa o di giustifi cato motivo. In caso di licenziamento privo di giustifi cazione trovano<br />
applicazione le sanzioni previste dalla norma vigente; m) possibilità per le parti di recedere dal<br />
contratto con preavviso decorrente dal termine del periodo di formazione ai sensi di quanto<br />
disposto dall’articolo 2118 del codice civile; nel periodo di preavviso continua a trovare applicazione<br />
la disciplina del contratto di apprendistato. Se nessuna delle parti esercita la facoltà<br />
di recesso al termine del periodo di formazione, il rapporto prosegue come ordinario rapporto<br />
di lavoro subordinato a tempo indeterminato» (art. 2, co. 1, lettere l) e m), D.Lgs. 167/2011).<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 13 - Licenziamento del dirigente d’azienda e di altre categorie particolari di lavoratori<br />
13.15 Lavoratore domestico<br />
L’art. 4 della L. 11.5.1990, n. 108, individua due specifi che ipotesi di rapporto di lavoro ancora<br />
assoggettate al regime della libera recedibilità (art. 2118 c.c.): quella dei lavoratori domestici<br />
e quella dei lavoratori in possesso dei requisiti pensionistici.<br />
Al rapporto di lavoro domestico, dunque, non sono applicabili per espressa previsione normativa<br />
né l’art. 1 né l’art. 2 della citata L. 108/1990 e, quindi, né la tutela obbligatoria e neppure<br />
quella reale, atteso il carattere spiccatamente fi duciario del rapporto medesimo.<br />
Peraltro, sebbene la L. 2.4.1958, n. 339, richiamata dalla disposizione in esame, non si riferisca<br />
a tutti i prestatori di lavoro domestico ma solamente a coloro i quali prestino la loro<br />
attività per almeno quattro ore giornaliere presso il medesimo datore di lavoro, si deve ritenere<br />
che anche quei prestatori di lavoro che osservino un orario inferiore siano esclusi dalla tutela<br />
obbligatoria ovvero reale e ricadano nel regime della libera recedibilità.<br />
13.16 Lavoratrici madri e lavoro domestico<br />
A fronte di numerosi dubbi interpretativi da più parti sollevati, la Corte di Cassazione ha<br />
infi ne affermato la sussistenza del divieto di licenziamento anche per le lavoratrici domestiche<br />
(Cass. 22.6.1998, n. 6199).<br />
Secondo la Suprema Corte, infatti, un’aprioristica esclusione dell’applicabilità al lavoro domestico<br />
delle norme poste a tutela della maternità e paternità non è più sostenibile rispetto a valori<br />
preminenti come quelli garantiti dagli artt. 31 e 37 della Costituzione, nonché agli impegni internazionali<br />
assunti dall’Italia attraverso la Convenzione n. 103 della Organizzazione<br />
Internazionale del Lavoro (OIL), ratifi cata con L. 19.10.1970, n. 864 e la Carta sociale europea, ratifi<br />
cata con L. 3.7.1965, n. 929, le quali prevedono senza eccezioni - e anzi la prima con esplicito riferimento<br />
al “lavoro domestico salariato effettuato in case private” (art. 1, co. 3, lettera h) - un congedo<br />
obbligatorio della lavoratrice correlato con il divieto di licenziamento durante tale periodo.<br />
Soltanto riguardo alla durata del periodo garantito, la Corte di Cassazione si discosta dal<br />
citato art. 54 del D.Lgs. 26.3. 2001, n. 151, per applicare gli artt. 2110 e 2239 c.c., in quanto il<br />
divieto operante fi no al compimento di un anno di età del bambino presupporrebbe un’organizzazione<br />
aziendale e risulterebbe quindi eccessivamente oneroso rispetto alla convivenza familiare.<br />
E’ garantito pertanto alla lavoratrice domestica il diritto alla conservazione del posto di<br />
lavoro per un periodo la cui durata dev’essere stabilita dai contratti <strong>collettivi</strong> o, in mancanza,<br />
determinata dal giudice secondo equità (art. 2110 c.c.).<br />
Al riguardo, il Contratto Collettivo di categoria sottoscritto dalle associazioni dei datori di<br />
lavoro e dei lavoratori domestici in data 16.2.2007, all’art. 24, ha stabilito la durata del divieto<br />
di licenziamento a partire dall’inizio della gravidanza, purché intervenuta nel corso del rapporto<br />
di lavoro, fi no al termine del congedo di maternità, salva ovviamente la sussistenza di una<br />
giusta causa di licenziamento.<br />
13.17 Lavoratore a domicilio<br />
Il rapporto di lavoro a domicilio costituisce una forma di decentramento produttivo, disciplinato<br />
dalla L. 18.12.1973, n. 877, successivamente modifi cata dalla L. 16.12.1980, n. 858. In<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
141
142 Capitolo 13 - Licenziamento del dirigente d’azienda e di altre categorie particolari di lavoratori<br />
linea generale, la giurisprudenza di legittimità ritiene che nell’ambito di tale rapporto di lavoro<br />
trovino applicazione le norme sul licenziamento causale (ovvero giusta causa o giustifi cato<br />
motivo di cui alla L. 604/1966) a condizione però che ricorrano i requisiti indicati dall’art. 1, L.<br />
877/1973, come modifi cato dall’art. 2, L. 858/1980, e cioè che:<br />
- il lavoratore esegua il lavoro nel proprio domicilio e in locale di cui abbia la disponibilità;<br />
- il lavoro sia eseguito dal lavoratore personalmente, o anche con l’aiuto accessorio di membri<br />
della sua famiglia conviventi e a carico, ma con esclusione di manodopera salariata o di<br />
apprendisti;<br />
- il lavoratore sia tenuto ad osservare le direttive dell’imprenditore circa le modalità di esecuzione,<br />
le caratteristiche e i requisiti del lavoro da svolgere, nella esecuzione parziale, nel<br />
completamento o nella intera lavorazione di prodotti oggetto dell’attività del committente.<br />
13.18 Telelavoro<br />
Il 9.6.2004 è stato fi rmato tra Confi ndustria, Organizzazioni Sindacali ed altre 19 associazioni<br />
imprenditoriali l’Accordo Interconfederale per il recepimento dell’Accordo Quadro Europeo<br />
sul telelavoro concluso il 16.7.2002. In base a tale accordo il telelavoro viene identifi cato<br />
come «una forma di organizzazione e/o di svolgimento del lavoro che si avvale delle tecnologie<br />
dell’informazione nell’ambito di un contratto o di un rapporto di lavoro, in cui l’attività lavorativa,<br />
che potrebbe anche essere svolta nei locali dell’impresa, viene regolarmente svolta al di<br />
fuori dei locali della stessa». L’Accordo precisa (art. 2, co. 5) che il telelavoro implica unicamente<br />
l’adozione di una particolare modalità di svolgimento della prestazione lavorativa<br />
che non incide, di per sé, sullo status giuridico del telelavoratore. Pertanto, il telelavoro non<br />
costituisce una specifi ca tipologia contrattuale da affi ancare alle tradizionali categorie di lavoro,<br />
subordinato o autonomo, ma piuttosto una modalità, fl essibile, di esecuzione della prestazione<br />
lavorativa.<br />
13.19 Lavoratore in possesso dei requisiti pensionistici<br />
Le riforme pensionistiche succedutesi sin dagli anni ‘90 hanno profondamente modifi cato i<br />
requisiti di maturazione del diritto alle relative prestazioni previdenziali e, di conseguenza,<br />
anche la disciplina del licenziamento (individuale) dei lavoratori e delle lavoratrici ultrasessantenni<br />
per i quali l’art. 4 della L. 108/1990 prevede la libera recedibilità dal rapporto di lavoro.<br />
Anche il recente decreto L. 6.12.2011, n. 201, convertito con modifi cazioni in L. 22.12.2011,<br />
n. 214, è intervenuto in materia.<br />
Ciò premesso, risulta opportuno ripercorrere brevemente la disciplina antecedente la sua<br />
entrata in vigore (1.1.2012) per fornire un quadro completo della normativa, prima di passare<br />
alla descrizione del sistema attuale.<br />
La disciplina sino al 31.12.2011<br />
Le riforme pensionistiche succedutesi negli anni ‘90 (L. 407/1990, D.Lgs. 503/1992 e L.<br />
335/1995) avevano progressivamente elevato a 65 anni e a 60 anni l’età anagrafi ca fi no alla<br />
quale, rispettivamente, il lavoratore e la lavoratrice potevano proseguire l’attività lavorativa<br />
anche qualora avessero maturato l’anzianità contributiva massima, godendo della tutela con-<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 13 - Licenziamento del dirigente d’azienda e di altre categorie particolari di lavoratori<br />
tro il licenziamento ingiustifi cato.<br />
Per effetto di tali riforme, pertanto, risultava assolutamente residuale la particolare fattispecie<br />
collegata all’esercizio da parte del lavoratore dell’opzione per la prosecuzione del rapporto<br />
di lavoro non oltre il compimento dei 65 anni di età, prevista dall’art. 6 della L. 54/1982.<br />
Sino al 31.12.2011, infatti, il regime della stabilità obbligatoria o reale si applicava ai lavoratori<br />
e alle lavoratrici in possesso dell’anzianità minima contributiva richiesta per il pensionamento<br />
di vecchiaia (20 anni di contribuzione), rispettivamente, fi no al compimento del sessantacinquesimo<br />
ovvero del sessantesimo anno di età; successivamente, il datore di lavoro<br />
poteva liberamente recedere dal rapporto con il solo onere di riconoscere il preavviso ovvero<br />
la relativa indennità sostitutiva.<br />
Lo stesso regime di stabilità (reale o obbligatoria) del rapporto e successiva libera recedibilità,<br />
in deroga a quanto previsto dall’art. 11 della L. 604/1966, valeva per le donne lavoratrici<br />
che si avvalevano della facoltà, prevista dall’art. 4 della L. 903/1977, di proseguire il rapporto<br />
di lavoro sino al limite di età previsto per gli uomini, vale a dire fi no ai sessantacinque anni di<br />
età, per incrementare la loro posizione contributiva, con l’onere a carico del datore di lavoro<br />
del preavviso o della relativa indennità in caso di licenziamento.<br />
Nell’ipotesi (residuale) in cui, invece, la donna lavoratrice, almeno 6 mesi prima del raggiungimento<br />
dei 60 anni di età, esercitava ai sensi dell’art. 6 della L. 54/1982 l’opzione per la<br />
prosecuzione del rapporto di lavoro al fi ne di conseguire la massima anzianità contributiva, la<br />
cessazione del rapporto prolungato (fi no al massimo dei 5 anni ai sensi dell’art. 1, c. 2, del<br />
D.Lgs. 30.12.1992, n. 503) si confi gurava «per avvenuto raggiungimento del requisito di anzianità<br />
contributiva» senza obblighi di preavviso per alcuna delle parti (art. 6, co. 6, L. 26.2.1982,<br />
n. 54); in tale ipotesi, infatti, il rapporto di lavoro cessava automaticamente perché era stato<br />
raggiunto il requisito di anzianità contributiva che la lavoratrice stessa aveva prescelto come<br />
obiettivo attraverso l’esercizio dell’opzione.<br />
Per completezza è opportuno evidenziare che, in difetto dei requisiti di anzianità contributiva<br />
richiesti per la maturazione della pensione di vecchiaia, il rapporto di lavoro continuava<br />
comunque ad essere assistito dal regime di stabilità che gli era proprio (reale oppure obbligatoria)<br />
sino a quando fosse maturata la contribuzione minima (20 anni di contribuzione), indipendentemente<br />
dall’età anagrafi ca del lavoratore.<br />
Inoltre, l’art. 6, co. 2-bis, del D.L. 31.12.2007, n. 248, introdotto in sede di conversione nella<br />
L. 28.2.2008, n. 31, stabiliva che «l’effi cacia delle disposizioni di cui all’articolo 18 della L.<br />
20.5.1970, n. 300, e successive modifi cazioni, nei confronti del prestatore di lavoro nelle condizioni<br />
previste dall’articolo 4, co. 2, della L. 11.5.1990, n. 108, è comunque prorogata fi no al<br />
momento della decorrenza del trattamento pensionistico di vecchiaia spettante al prestatore<br />
medesimo».<br />
Occorre tuttavia sottolineare che il mero raggiungimento dell’età pensionabile non comportava<br />
la risoluzione automatica del rapporto di lavoro, determinando solo la recedibilità ad<br />
nutum dal rapporto (Cass. 16.6.2000, 8215; Cass. 13.5.2000, 6175; Cass. 28.7.1999, n. 8188;<br />
Cass. 24.7.1999, n. 8061).<br />
Nel vigore della precedente disciplina – ma lo stesso principio trova applicazione anche ora<br />
– è stato affermato dalla giurisprudenza che al contratto collettivo di diritto comune non è<br />
consentito di regolare un rapporto di lavoro subordinato privato a tempo indeterminato in<br />
modo da snaturarne il tipo legale mediante la previsione della sua cessazione automatica,<br />
senza bisogno di recesso, al verifi carsi della massima anzianità contributiva (Cass. 26.9.2006,<br />
n. 20808; Cass. 30.12.1999, 14763).<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
143
144 Capitolo 13 - Licenziamento del dirigente d’azienda e di altre categorie particolari di lavoratori<br />
La disciplina dal 1.1.2012<br />
Come accennato, il D.L. 201/2011, convertito nella L. 214/2011, ha introdotto un’importante<br />
riforma in materia di trattamenti pensionistici.<br />
In particolare, e per quanto di interesse ai fi ni della presente trattazione, l’art. 24 del decreto<br />
legge summenzionato ha disposto l’innalzamento dell’età anagrafi ca minima per il conseguimento<br />
della pensione di vecchiaia a 66 anni per gli uomini e a 62 anni per le donne, con la<br />
precisazione che entro il 2018 anche le lavoratrici matureranno il diritto alla pensione di<br />
vecchiaia solo al compimento del sessantaseiesimo anno di età. Sul punto si osserva che, in<br />
virtù dell’adeguamento dei requisiti di accesso al sistema pensionistico agli incrementi della<br />
speranza di vita, l’età anagrafi ca suddetta risulterà ulteriormente e gradualmente innalzata di<br />
alcuni mesi. Resta fermo il requisito dell’anzianità minima contributiva di 20 anni.<br />
Alla luce di quanto precede, ne consegue che i lavoratori oggi possono proseguire l’attività<br />
lavorativa continuando a godere della tutela contro il licenziamento ingiustifi cato che gli è<br />
proprio sino al sessantaseiesimo anno per gli uomini e al sessantaduesimo per le donne (ma,<br />
come detto, entro il 2018 si raggiungerà un’assoluta parità anagrafi ca), purché a tale data in<br />
possesso del requisito contributivo minimo sopra richiamato.<br />
Ulteriore conseguenza dell’innalzamento dell’età pensionabile è che i regimi previgenti risultano,<br />
di fatto, pressoché superati e che una volta raggiunta la parità del requisito anagrafi -<br />
co tra uomini e donne il “sistema” delle opzioni per la prosecuzione dell’attività delle lavoratrici<br />
risulterà implicitamente abrogata.<br />
Valga, tuttavia, osservare che la disciplina ora descritta sembrerebbe applicarsi esclusivamente<br />
a coloro che benefi ciano della c.d. tutela obbligatoria contro il licenziamento. Di contro, per quei<br />
lavoratori che godono del regime di c.d. tutela reale (sopra i 15 dipendenti) vigono regole diverse.<br />
Infatti, il quarto comma dell’art. 24 prevede che il proseguimento dell’attività lavorativa<br />
è incentivato, fermi restando i limiti ordinamentali dei rispettivi settori di appartenenza,<br />
dall’operare di coeffi cienti di trasformazione calcolati fi no all’età di 70 anni, fatti salvi gli<br />
adeguamenti alla speranza di vita e che «nei confronti dei lavoratori dipendenti, l’effi cacia<br />
delle disposizioni di cui all’art. 18 della L. n. 300 del 20.5.1970, e successive modifi cazioni,<br />
opera fi no al conseguimento del predetto limite massimo di fl essibilità», termine oltre il<br />
quale trova applicazione il regime della libera recedibilità.<br />
La norma, seppur di non immediata e perspicua interpretazione, sembrerebbe indicare che<br />
per i lavoratori al cui rapporto trova applicazione l’art. 18 S.L., tale tutela continui a trovare<br />
applicazione contro il recesso ingiustifi cato sino all’età di 70 anni. Solo dopo tale termine il<br />
datore di lavoro potrà licenziare ad nutum il dipendente. In proposito, dal dato letterale della<br />
norma in esame, sembrerebbe potersi dedurre che il lavoratore che, pur avendo raggiunto i<br />
requisiti minimi per la pensione di vecchiaia (ossia 66 o 62 anni di età e 20 anni di contributi),<br />
voglia continuare l’attività lavorativa sino al settantesimo anno di età non sia tenuto ad esercitare<br />
alcuna opzione per la prosecuzione del rapporto di lavoro.<br />
Occorre infi ne notare che, al pari del rapporto di lavoro domestico, per i lavoratori in possesso<br />
dei requisiti pensionistici non trova applicazione neppure l’art. 2 della L. n. 604/1966<br />
<strong>sulla</strong> forma scritta del licenziamento. Al contrario, è fatta salva l’ordinaria disciplina del licenziamento<br />
discriminatorio di cui all’art. 3 della L. n. 108/1990.<br />
13.20 Lavoratore assunto obbligatoriamente<br />
La L. 12.3. 1999, n. 68, prevede una speciale tutela nei confronti degli invalidi e di altre ca-<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 13 - Licenziamento del dirigente d’azienda e di altre categorie particolari di lavoratori<br />
tegorie protette per quanto riguarda esclusivamente l’avviamento al lavoro.<br />
Pertanto il datore di lavoro, una volta adempiute le procedure di assunzione di cui alla L.<br />
68/1999, non ha alcun particolare obbligo nei confronti dei lavoratori appartenenti alle categorie<br />
protette, fatti salvi trattamenti di miglior favore previsti dalla contrattazione collettiva. Da<br />
ciò consegue che tali lavoratori possono essere licenziati, al pari di tutti gli altri prestatori di<br />
lavoro, secondo le comuni regole in materia di licenziamento.<br />
Occorre altresì segnalare che il licenziamento del lavoratore invalido avviato obbligatoriamente<br />
è legittimo, ai sensi dell’art. 10 della legge in esame, qualora sia stata accertata, da<br />
parte della commissione medica di cui all’art. 4 della L. 104/1992, la defi nitiva impossibilità<br />
di reinserimento del disabile all’interno dell’azienda in seguito al riscontro dell’aggravamento<br />
della salute del lavoratore invalido, incompatibile con la continuazione dell’attività<br />
lavorativa, anche attuando i possibili adattamenti dell’organizzazione del lavoro (Cass.<br />
29.1.1993, n. 1092).<br />
Inoltre, il licenziamento è legittimo qualora il datore di lavoro provi che non gli sia stato<br />
possibile inserire l’invalido, in relazione alla sua residua capacità lavorativa, nella propria organizzazione<br />
produttiva, fermo restando che tale possibilità di inserimento esige che il posto<br />
di lavoro adatto alla residua capacità del lavoratore invalido sia non solo esistente ma anche<br />
disponibile, e l’assunto obbligatoriamente non si rifi uti di occuparlo.<br />
Di contro, valga osservare che il recesso di cui all’art. 4, co. 9, della L. 223/1991, ovvero il<br />
licenziamento per riduzione di personale o per giustifi cato motivo oggettivo esercitato nei confronti<br />
del lavoratore occupato obbligatoriamente è annullabile qualora, nel momento della<br />
cessazione del rapporto, il numero dei rimanenti lavoratori occupati obbligatoriamente in<br />
azienda sia inferiore alla quota di riserva prevista dalla L. 68/1999.<br />
13.21 Lavoro nautico<br />
I ripetuti interventi della Corte Costituzionale hanno ricondotto il lavoro nautico nell’alveo<br />
del regime di stabilità, reale ovvero obbligatoria, del rapporto. In particolare, con la sentenza<br />
n. 96 del 1987 la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 10, L.<br />
604/1966, oltre che dell’art. 18 S.L., nella parte in cui esclude il personale marittimo navigante<br />
delle imprese di navigazione dalla disciplina protettiva contro il licenziamento. In epoca<br />
successiva, poi, la Corte costituzionale ha altresì dichiarato l’illegittimità del medesimo<br />
art. 10 nella parte in cui non prevede l’applicabilità della L. 604/1966 e dell’art. 18 S.L. al<br />
personale navigante delle imprese di navigazione aerea (Corte Cost. 31.1.1991, n. 41).<br />
13.22 Lavoro sportivo<br />
Per il rapporto di lavoro sportivo, regolato dalla L. 23.3. 1981, n. 91, vige il regime<br />
della libera recedibilità, atteso che l’art. 4, co. 8, di tale L. prevede espressamente l’esclusione<br />
dell’applicabilità a tale rapporto di lavoro della disciplina limitativa dei <strong>licenziamenti</strong><br />
<strong>individuali</strong>. Questo regime è rimasto invariato anche dopo l’entrata in vigore<br />
della L. 108/1990.<br />
Occorre tuttavia far presente che l’art. 2118 c.c. è applicabile sempre che si tratti di un<br />
rapporto di lavoro subordinato e non già autonomo, secondo il criterio distintivo espressamente<br />
previsto dall’art. 3, L. 91/1981.<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
145
146 Capitolo 13 - Licenziamento del dirigente d’azienda e di altre categorie particolari di lavoratori<br />
13.23 Job sharing<br />
Il D.Lgs. 276/2003 ha introdotto nel nostro ordinamento giuridico il contratto di lavoro ripartito<br />
o job sharing, defi nito quale «uno speciale contratto di lavoro mediante il quale due lavoratori<br />
assumono in solido l’adempimento di una unica e identica obbligazione lavorativa».<br />
In tale fattispecie due dipendenti (la norma non prevede la possibilità che i lavoratori siano<br />
più di due) si obbligano in via solidale ad eseguire, a favore dello stesso datore di lavoro, una<br />
prestazione corrispondente ad un rapporto di lavoro (sia esso part-time o full-time), con facoltà<br />
dei medesimi - «fatte salve diverse intese tra le parti contraenti o previsioni dei contratti o<br />
accordi <strong>collettivi</strong>» - di ripartire l’impegno contrattualmente assunto e di gestire la «misura»<br />
delle reciproche presenze in maniera del tutto autonoma e discrezionale (artt. 41, co. 3, e 43,<br />
co. 2).<br />
Anteriormente alla promulgazione della cd. Riforma Biagi, il Ministero del Lavoro, con la<br />
propria circolare del 7.4.1998, n. 43, aveva già attribuito piena legittimità nel nostro ordinamento<br />
giuridico allo job sharing, precisando che «in mancanza di una auspicabile regolamentazione<br />
della fattispecie da parte della contrattazione collettiva nazionale e aziendale, la disciplina<br />
del lavoro ripartito sarà dunque rimessa all’autonomia negoziale delle parti, ferma<br />
restando in ogni caso l’applicabilità della normativa generale del rapporto di lavoro subordinato,<br />
per quanto non incompatibile con la particolare natura del rapporto de quo».<br />
Con specifi co riferimento al tema del licenziamento di uno dei lavoratori co-obbligati, l’art.<br />
41, co. 5, del D.Lgs. 276/2003 stabilisce che, fatta salva una diversa disciplina prevista nel contratto<br />
individuale di lavoro ripartito, il recesso attuato nei confronti di un lavoratore risolve ex<br />
lege ed automaticamente anche il rapporto di lavoro con il secondo dipendente co-obbligato.<br />
Tale disposizione non trova applicazione nell’ipotesi in cui quest’ultimo, su richiesta del<br />
datore di lavoro, si renda disponibile ad adempiere, in tutto o in parte, anche l’obbligazione<br />
lavorativa relativa al lavoratore licenziato, nel qual caso il contratto di lavoro ripartito si trasforma<br />
in un normale contratto di lavoro subordinato.<br />
13.24 Job on call<br />
Il D.Lgs. 276/2003 ha altresì introdotto il lavoro intermittente o job on call (art. 33, co. 1), cui<br />
può farsi ricorso «per lo svolgimento di prestazioni di carattere discontinuo o intermittente<br />
secondo le esigenze individuate dai contratti <strong>collettivi</strong> stipulati da associazioni dei datori e<br />
prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale».<br />
Per quanto riguarda la disciplina del recesso, occorre in primo luogo osservare come «il<br />
contratto di lavoro intermittente può essere stipulato anche a tempo determinato» (art. 33,<br />
co. 2); in questo caso, pertanto, le conseguenze del licenziamento intimato ante tempus saranno<br />
le medesime già esposte con riferimento al contratto di lavoro a termine.<br />
Nella diversa ipotesi di contratto di lavoro intermittente stipulato a tempo indeterminato, in<br />
difetto di una specifi ca previsione da parte della novella legislativa, pare lecito ritenere che la<br />
disciplina del licenziamento e delle sue conseguenze debba essere identica a quella generale<br />
prevista per il recesso dal rapporto di lavoro subordinato.<br />
Peraltro, il D.Lgs. 276/2003 disciplina in maniera peculiare l’ipotesi in cui il lavoratore, con<br />
la sottoscrizione del contratto in esame, si sia obbligato a rispondere alla chiamata del datore<br />
di lavoro, percependo a fronte dell’assunzione di tale obbligo l’indennità di disponibilità: «il<br />
rifi uto ingiustifi cato di rispondere alla chiamata può comportare la risoluzione del contratto, la<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
Capitolo 13 - Licenziamento del dirigente d’azienda e di altre categorie particolari di lavoratori<br />
restituzione della quota di indennità di disponibilità riferita al periodo successivo all’ingiustifi -<br />
cato rifi uto, nonché un congruo risarcimento del danno nella misura fi ssata dai contratti <strong>collettivi</strong><br />
o, in mancanza, dal contratto di lavoro» (art. 36, co. 6).<br />
13.25 Socio lavoratore di cooperativa<br />
L’art. 9, lettera a, della legge delega 14.2.2003, n. 30, ha modifi cato l’art. 1, co. 3, L. 142/2001<br />
(che, nella precedente formulazione, stabiliva che «il socio lavoratore di cooperativa stabilisce<br />
con la propria adesione o successivamente all’instaurazione del rapporto associativo un ulteriore<br />
e distinto rapporto di lavoro, in forma subordinata o autonoma o in qualsiasi altra forma»),<br />
sopprimendo le parole «e distinto».<br />
Secondo alcuni Autori, con tale intervento il legislatore avrebbe inteso ricondurre ad un<br />
unicum giuridico il rapporto che lega il socio lavoratore con la cooperativa - superando la differenziazione,<br />
originariamente prevista dalla L. 142/2001, tra il rapporto associativo e, per<br />
quanto interessa in questa sede, il rapporto di lavoro subordinato - uniformandosi al prevalente<br />
orientamento giurisprudenziale secondo cui il socio cooperatore che conferisce, nell’ambito<br />
di un rapporto associativo non simulato, la propria attività lavorativa per il raggiungimento<br />
e nell’ambito dello scopo sociale, non può per ciò solo considerarsi lavoratore subordinato<br />
della cooperativa, in difetto di un ulteriore rapporto di lavoro subordinato.<br />
Tuttavia, appare preferibile la diversa tesi dottrinale secondo cui la norma in esame, avendo<br />
mantenuto la previsione di un rapporto di lavoro «ulteriore» rispetto a quello associativo da<br />
instaurare tra cooperativa e socio sia al momento della costituzione del vincolo societario sia<br />
in un tempo successivo, ha confermato l’autonomia intercorrente tra i due rapporti e la loro<br />
differenziata vita giuridica.<br />
Infatti, il rapporto di lavoro subordinato «ulteriore» non solo deriva da un atto giuridico diverso<br />
dal patto societario ma conserva la sua tipicità e, conseguentemente, la sua disciplina, sebbene<br />
la presenza simultanea di due distinte situazioni giuridiche postula l’esistenza tra le stesse<br />
di un collegamento funzionale; in altre parole, il rapporto di lavoro subordinato, laddove costituito,<br />
è fi nalizzato al raggiungimento dello scopo sociale che trae origine dal patto associativo.<br />
Ciò premesso, l’art. 2, co. 1, L. 142/2001, rimasto immutato nella sua formulazione, stabilisce<br />
che «ai soci lavoratori di cooperativa con rapporto di lavoro subordinato si applica la L.<br />
20.5.1970, n. 300, con esclusione dell’art. 18 ogni volta che venga a cessare, col rapporto di<br />
lavoro, anche quello associativo». Pertanto, qualora la cooperativa non risolva il rapporto<br />
associativo ma soltanto quello di lavoro subordinato, tale ultima risoluzione è soggetta alle<br />
previsioni contenute nell’art. 18 S.L., laddove naturalmente ricorrano i necessari requisiti dimensionali:<br />
in caso contrario, troverà applicazione la disciplina dettata dalla L. n. 604/1966.<br />
Nella diversa ipotesi in cui, invece, la cooperativa risolva tanto il rapporto di lavoro subordinato<br />
quanto quello associativo in relazione all’art. 9, L. 30/2003, troverà applicazione quanto<br />
previsto dall’art. 2527 c.c., ed in caso di esclusione illegittima del socio potrà sussistere in<br />
capo alla cooperativa una responsabilità esclusivamente risarcitoria.<br />
13.26 Lavoratore assunto con contratto di inserimento<br />
Il D.Lgs. n. 276/2003 aveva introdotto nel nostro ordinamento giuridico il contratto di inserimento,<br />
che era «diretto a realizzare, mediante un progetto individuale di adattamento delle<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong><br />
147
148 Capitolo 13 - Licenziamento del dirigente d’azienda e di altre categorie particolari di lavoratori<br />
competenze professionali del lavoratore a un determinato contesto lavorativo, l’inserimento<br />
ovvero il reinserimento nel mercato del lavoro» delle categorie di soggetti espressamente indicati<br />
dalla disposizione medesima (art. 54). Il contratto di inserimento si confi gurava come un<br />
rapporto di lavoro a tempo determinato, di «durata non inferiore a nove mesi e non ... superiore<br />
ai diciotto mesi», estendibile fi no a trentasei mesi nel caso in cui l’assunzione riguardasse<br />
lavoratori portatori di un grave handicap fi sico, mentale o psichico.<br />
Inoltre, il citato decreto legislativo stabiliva che «il contratto di inserimento non è rinnovabile<br />
tra le stesse parti. Eventuali proroghe del contratto sono ammesse» entro i limiti di<br />
durata massima appena riportati (art. 57). Ne consegue che la disciplina del recesso da tale<br />
tipologia contrattuale, in assenza di specifi che norme al riguardo, non poteva che essere quella<br />
già esposta con riferimento al contratto di lavoro a termine.<br />
In proposito occorre rilevare che l’art. 1, co. 14, della L. 92/2012, ha abrogato gli articoli 54,<br />
55, 56, 57, 58 e 59 del D.Lgs. 276/2003, che disciplinavano tutti gli aspetti del contratto di<br />
inserimento, con la precisazione, tuttavia, che «nei confronti delle assunzioni effettuate fi no<br />
al 31.12.2012 continuano ad applicarsi le disposizioni abrogate ai sensi del co. 14, nella formulazione<br />
vigente anteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge».<br />
Licenziamenti <strong>individuali</strong> e <strong>collettivi</strong>
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