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Giusy, 2001, tempera su masonite, cm. 70x70<br />
L’artistico laboratorio di<br />
Giovanna<br />
Ugolini<br />
di Mariella Bettarini<br />
Un sia pur veloce accostamento critico ad<br />
un’opera (che voglia essere aderente, saldo<br />
di comunione) non dovrebbe fare a<br />
meno di un’intima partecipazione alla materia<br />
di cui si tratta, al laboratorio cui ci si accosta. Voglio<br />
dire che credo che per parlare sul serio, per esempio,<br />
di pittura occorra essere pittori. Così io, che con la<br />
pittura non condivido matericità e sostanza, che non ne<br />
faccio esperienza se non da appassionata “osservatrice”,<br />
maggiormente fatico a varcare quella soglia, e dunque<br />
ad entrare nell’ansia e nella foga, nel labirinto/laboratorio<br />
di Giovanna Ugolini, di questa donna che penso<br />
di saper “riconoscere” (amica, persona di passioni e dolori<br />
e, in quanto tale, intensamente creativa) e che, invece,<br />
sorprende spesso la mia solo all’apparenza solida<br />
conoscenza di lei con forme che sono colori, con colori<br />
che divengono forme, con volti che spesso sono enigmi,<br />
con enigmi che sono volti, con porte spalancate e porte<br />
chiuse, con fiori bui, bruni, squillanti, con steli che gridano<br />
o ripiegano, con panche, tavoli, sedie, luoghi vuoti,<br />
metamorfiche presenze nelle quali un tanto di asimmetrico,<br />
di decentrato, di allucinato ci rende preziosamente<br />
inquieti, utilmente transfughi, indubitabilmente insicuri<br />
di tutto, tranne che del valore di quanto andiamo osservando.<br />
Ma proprio questa “insicurezza” credo abbia da<br />
essere il compito dell’arte: togliere sicurezze, negare<br />
(false) sapienze, mangiare la terra sotto i piedi, fare il<br />
vuoto attorno, gridare un tombale silenzio. Spogliarci di<br />
noi - in definitiva - per rivestirci di sé. Di solidità “altre”.<br />
Di verità ulteriori e sempre fuggevoli. Di inquietudini su<br />
cui plana (e solo fugacemente si placa, per poi ripartire<br />
in ansia) la materia (dell’)-arte, la forma (dell’)-arte, il<br />
rovello (dell’)-arte.<br />
Guardiamo questi visi-donna, questi fiori arsi e aridi per<br />
troppa usura, questi luoghi vuoti di fiato umano, còlti un<br />
attimo prima che uno vi ponga il passo o un attimo dopo<br />
che vi abbia già posato l’ultimo e sia andato, per sempre,<br />
fuori: nel sempre. Vi cadremo dentro. Annegheremo nei capelli, nelle<br />
bocche,nella complessità e misteriosità di questi collages da titoli come “Il<br />
tempo”, “Oriente”, “Eros”, “Trasparenze”; nello spazio vitreo tra quelle<br />
sedie, nello specchio sghembo, nella polverosa non-carnalità di quei “finti”<br />
fiori, che del vero e della carne mantengono taluni solari colori (ma spenti),<br />
la non più carnosa, giovane gloria.<br />
Così, stranamente per questa lussureggiante tavolozza e composizione vitale,<br />
per queste forme eppur vivide, in questa pittura e in questi collages<br />
ancora tutti concreti, è la privazione la cifra primaria. Privazione che in arte<br />
è conquista. Privazione che è scelta, che è gloria. L’unica che rimane, quella<br />
che non più tradisce. Quella destinata a nutrirci di sé: in figura, in parola, in<br />
presenza, in assenzio, in silenzio. Coi suoi armati/disarmati/amatissimi oggetti/figure<br />
di salvezza e di dannazione; altri ed altre in figure di figure e<br />
silenti parole. Tutti e tutte insieme nella Gehenna insolubile, nel solvibile<br />
Eden del nostro esserci qui ed ora col proprio fagotto, col proprio bouquet.<br />
Nodi, 2010, tempera su masonite, cm. 100x80<br />
12 Giovanna Ugolini