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La TOSCANA - Febbraio 2014

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Giusy, 2001, tempera su masonite, cm. 70x70<br />

L’artistico laboratorio di<br />

Giovanna<br />

Ugolini<br />

di Mariella Bettarini<br />

Un sia pur veloce accostamento critico ad<br />

un’opera (che voglia essere aderente, saldo<br />

di comunione) non dovrebbe fare a<br />

meno di un’intima partecipazione alla materia<br />

di cui si tratta, al laboratorio cui ci si accosta. Voglio<br />

dire che credo che per parlare sul serio, per esempio,<br />

di pittura occorra essere pittori. Così io, che con la<br />

pittura non condivido matericità e sostanza, che non ne<br />

faccio esperienza se non da appassionata “osservatrice”,<br />

maggiormente fatico a varcare quella soglia, e dunque<br />

ad entrare nell’ansia e nella foga, nel labirinto/laboratorio<br />

di Giovanna Ugolini, di questa donna che penso<br />

di saper “riconoscere” (amica, persona di passioni e dolori<br />

e, in quanto tale, intensamente creativa) e che, invece,<br />

sorprende spesso la mia solo all’apparenza solida<br />

conoscenza di lei con forme che sono colori, con colori<br />

che divengono forme, con volti che spesso sono enigmi,<br />

con enigmi che sono volti, con porte spalancate e porte<br />

chiuse, con fiori bui, bruni, squillanti, con steli che gridano<br />

o ripiegano, con panche, tavoli, sedie, luoghi vuoti,<br />

metamorfiche presenze nelle quali un tanto di asimmetrico,<br />

di decentrato, di allucinato ci rende preziosamente<br />

inquieti, utilmente transfughi, indubitabilmente insicuri<br />

di tutto, tranne che del valore di quanto andiamo osservando.<br />

Ma proprio questa “insicurezza” credo abbia da<br />

essere il compito dell’arte: togliere sicurezze, negare<br />

(false) sapienze, mangiare la terra sotto i piedi, fare il<br />

vuoto attorno, gridare un tombale silenzio. Spogliarci di<br />

noi - in definitiva - per rivestirci di sé. Di solidità “altre”.<br />

Di verità ulteriori e sempre fuggevoli. Di inquietudini su<br />

cui plana (e solo fugacemente si placa, per poi ripartire<br />

in ansia) la materia (dell’)-arte, la forma (dell’)-arte, il<br />

rovello (dell’)-arte.<br />

Guardiamo questi visi-donna, questi fiori arsi e aridi per<br />

troppa usura, questi luoghi vuoti di fiato umano, còlti un<br />

attimo prima che uno vi ponga il passo o un attimo dopo<br />

che vi abbia già posato l’ultimo e sia andato, per sempre,<br />

fuori: nel sempre. Vi cadremo dentro. Annegheremo nei capelli, nelle<br />

bocche,nella complessità e misteriosità di questi collages da titoli come “Il<br />

tempo”, “Oriente”, “Eros”, “Trasparenze”; nello spazio vitreo tra quelle<br />

sedie, nello specchio sghembo, nella polverosa non-carnalità di quei “finti”<br />

fiori, che del vero e della carne mantengono taluni solari colori (ma spenti),<br />

la non più carnosa, giovane gloria.<br />

Così, stranamente per questa lussureggiante tavolozza e composizione vitale,<br />

per queste forme eppur vivide, in questa pittura e in questi collages<br />

ancora tutti concreti, è la privazione la cifra primaria. Privazione che in arte<br />

è conquista. Privazione che è scelta, che è gloria. L’unica che rimane, quella<br />

che non più tradisce. Quella destinata a nutrirci di sé: in figura, in parola, in<br />

presenza, in assenzio, in silenzio. Coi suoi armati/disarmati/amatissimi oggetti/figure<br />

di salvezza e di dannazione; altri ed altre in figure di figure e<br />

silenti parole. Tutti e tutte insieme nella Gehenna insolubile, nel solvibile<br />

Eden del nostro esserci qui ed ora col proprio fagotto, col proprio bouquet.<br />

Nodi, 2010, tempera su masonite, cm. 100x80<br />

12 Giovanna Ugolini

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