La TOSCANA - Giugno 2014

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Giovanni Maranghi e la sua “Casta Diva” al Business Club di Stuttgart Il direttore degli Uffizi Antonio Natali e Alessandro Sarti hanno presentato in Germania la mostra del maestro sponsorizzata dalla Banca di Credito Cooperativo di Signa di Fabrizio Borghini dalla Banca di Credito Cooperativo di Signa è stata organizzata a due mani, dalla signora Anja Beck, proprietaria dell’AP Kunstgalerie di Stuttgart che lavora da tempo con Maranghi, e da Jorg Mink, proprietario e amministratore del Business Club. L'esposizione è stata inaugurata durante una serata di gala dove ha fatto gli onori di casa la signora Susanne Eisenmann, assessore alla Cultura. Durante il vernissage, fra gli altri, si sono alternati al microfono Alessandro Sarti, insieme alla collega tedesca per un saluto istituzionale, Antonio Natali per la presentazione criticoartistica del progetto “Casta Diva” e il soprano Nina Fallier che ha cantato varie arie d’opera, fra le quali Casta Diva. Fino alla fine del mese la mostra sarà visibile su appuntamento presso la sede dell’AP Kunstgalerie in Schorndorf. Lo Schloss Solitude di Stuttgart al cui interno si trova il Business Club Casta “ Diva” nasce nel 2012 pensando ad una esposizione da farsi all’interno della Sala delle Colonne nel Palazzo Sansoni-Trombetta sede del Comune di Pontassieve. L’idea era quella di esporre una serie di dipinti che in qualche modo potessero dare al maestro Maranghi motivo di ripercorrere e riapplicare le varie tecniche artistiche usate durante 35 anni di lavoro. È partito quindi da un quadro matrice, per rileggerlo dieci volte con dieci diverse tecniche, mantenendo inalterata misura e soggetto; si va dall’encausto alla resina, dal collage all’incisione, dalla serigrafia ridipinta a mano al plexiglass per arrivare a due puzzle di diversa natura. L’esposizione venne inaugurata il 13 aprile 2013 a Pontassieve, presentata dall’assessore alle Politiche Culturali Alessandro Sarti, impreziosita da un catalogo contenente due saggi critici, il primo di Daniela Pronestì, critica e storica dell’arte, il secondo di Antonio Natali, direttore della Galleria degli Uffizi. Ed è stato proprio Antonio Natali che insieme ad Alessandro Sarti ha accompagnato Giovanni Maranghi in questo secondo “atto” in terra tedesca inaugurato il 14 maggio 2014. L'artista, insieme al professor Natali, Alessandro Sarti e al critico Roberto Milani, è stato ospitato Business Club di Stuttgart presso lo Schloss Solitude, castello che domina la città di Stuttgart, capitale del Baden- Wurttemberg. La mostra arricchita da un nuovo catalogo in lingua tedesca sponsorizzato Casta Diva, kristal, cm. 120x115 14 Giovanni Maranghi
Da sinistra Alessandro Sarti, assessore alle Politiche Culturali del Comune di Pontassieve, Antonio Natali, direttore della Galleria degli Uffizi, Anja Beck, titolare di AP Kunstgalerie, Giovanni Maranghi e Roberto Milani, titolare della Galleria San Lorenzo I ritagli della memoria di Antonio Natali Casta Diva, plexiglas, cm. 120x115 Si cammina sul crinale d’una sponda alta dell’Arno e Giovanni Maranghi m’addita luoghi storici e al contempo però mi segnala i tanti fabbricati in cui un artigianato intelligente e nobile ha vissuto e talora séguita a vivere. E, con l’occhio risalendo l’Arno, mi figuro in quegli edifici semplici la gente che s’impegna in mestieri imparati dai vecchi di famiglia e poi con acume perfezionati e sovente aggiornati con tecniche sempre nuove. Sotto la balza, su cui ci si muove con Alessandro Sarti, scorgo stavolta altre fucine, altre botteghe, tuttora attive. Lo studio di Giovanni, da fuori, si prospetta come una di quelle; e, anche dentro, le sembianze sono le stesse d’un laboratorio. È un’impressione che s’avvalora spostandosi negli spazi stretti che i quadri, i tavoli, gli scaffali, le mensole coi colori nei tubetti o, più spesso, in recipienti di vetro, lasciano per il passaggio. M’avvedo, aggirandomi, che la disposizione degli oggetti e l’ingombro sui piani di lavoro quasi s’addicono più, giustappunto, a un piccolo opificio che a un atelier d’artista. Idea che i rendiconti tecnici di Giovanni decisamente ratificano, giacché dalle parole di lui s’apprende che ogni sua opera è una commistione di poesia e ricerca. E la seconda non è strumentale, ma sostanziale. Come se il fervore artigianale della sua terra avesse informato la sua stessa lingua; fin a essere parte integrante (e, anzi, ineludibile) della sua poesia. L’unicità di un’opera di Giovanni non va intesa soltanto nel senso tradizionale d’un lavoro che ha un suo tempo, un suo soggetto, una sua espressione. Si capisce bene proprio nell’esposizione di Pontassieve, dove l’artista ha voluto presentare una decina di quadri in cui il soggetto è sempre il medesimo, senza variazioni tematiche. A cambiare è giusto la tecnica che n’è sottesa. E ogni quadro ne sorte differente: c’è il prototipo (che si potrebbe definire tradizionale, se non fosse ch’esso pure è esito d’una tecnica che tradizionale, in senso stretto, non è) e ci sono i suoi gemelli; che in nessun modo si possono qualificare come repliche, giacché la tecnica adottata in ciascun opera n’ha fatto una creazione assolutamente inedita. La ricerca che impronta e che proprio contrassegna l’operatività dell’artista è rigorosa e sistematica. Obbedisce a quelle regole ferme cui s’attengono i tanti artigiani che gli sono fisicamente contigui. E vien di pensare - al cospetto dei quadri di lui che la resina finale ha come vetrificato - agli scultori robbiani, che appunto nelle argille e nei colori da forgiare alle vampe dei forni s’esercitavano per le loro terrecotte invetriate. Si dice dei quadri di Giovanni che la lucida e specchiante loro apparenza possa nuocere all’apprezzamento della figurazione. Mi pare di poter dire che anche Giovanni consapevolmente ammetta l’accidentalità degli sbattimenti luminosi sulle sue creazioni. Non mi riesce difficile sospettarlo, giacché nei suoi lavori è proprio la casualità di lacerti assunti dall’esistenza a ricomporsi nell’unità dell’opera. Sono collages di memorie personali (appunti vergati per fermare pensieri connessi a una contingenza quotidiana, numeri di telefoni e indirizzi trascritti su carte pescate al momento dell’occorrenza) oppure fogli scartati da uno stampatore dopo le prime prove al torchio. Ma sono anche colature di bevande calde, che, rapprendendosi magari su un cartone, producono effetti ora di radica, ora di damasco. E cosa c’è di più casuale d’una colatura D’uno sgocciolamento D’un vaso che trabocca Di qui si perviene a un'altra riflessione. I supporti di Giovanni - siano tele, siano tavole, siano pezze di tessuti industriali, siano lastre di plexiglas - sono sovente schizzati di colore, conforme a un processo gestuale che fu peculiare dell’Action Painting. L’artista schizza col pennello intriso sulla superficie che sarà supporto della sua invenzione o assume carte casualmente maculate da gocce di colore cadute durante l’esecuzione d’altre opere. Carte sùbito nobilitate da Giovanni, che le adotta nella costruzione di un’immagine che peraltro non ha niente a che fare con l’informale americano. Semmai, la figurazione che n’esce mostra attinenze visive e concettuali con la pop-art: campiture compatte di cromie vibranti per oggetti quotidiani elevati al rango d’icone. Il caso e l’accidente sono innalzati alla dignità d’una vita nuova che l’opera sa loro restituire. Nello studio di Giovanni vedo d’un tratto due grandi volti, appena tracciati nei contorni, ancorché con un segno fermo e spesso. Sono fisionomie essenziali. Immote, alla stregua di totem. E si ritagliano, lucide, su tinte forti o su fondi che tornano a evocare il dripping americano. Vi scorgo i segni d’una libertà creativa che non dirò contrapposta alle figure femminili della sequenza di Pontassieve, ma certo indizi di un’aspirazione a imboccare percorsi d’affrancamento dalla grazia estenuata d’effigi di più agevole approccio. Giovanni Maranghi 15
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