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Jean Améry. INTELLETTUALE A AUSCHWITZ. Bollati Boringhieri ...

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che questo buon compagno non esisteva, non esisteva nella fila del Kommando, non esisteva in tutto<br />

il campo. E se per caso si riusciva a scovarlo da qualche parte, di solito, a causa del proprio<br />

isolamento, era così estraniato spiritualmente da non essere più in grado di reagire. Mi viene in<br />

mente a questo proposito l'incontro con un famoso filosofo di Parigi prigioniero al campo. Ero<br />

venuto a conoscenza della sua presenza nel campo e, non senza difficoltà e correndo qualche<br />

rischio, ero andato a trovarlo nella sua baracca. Mentre con le nostre gamelle sotto il braccio<br />

trottavamo lungo le strade del campo, cercai invano di avviare un dialogo intellettuale. Il<br />

filosofo della Sorbona rispondeva meccanicamente, a monosillabi e infine ammutolì del tutto. Non<br />

vorrei si parlasse di «abulia». No, egli non era abulico, così come non lo ero io. Semplicemente<br />

non credeva più alla realtà del mondo spirituale, e rifiutava un gioco linguistico-intellettuale<br />

che in quel luogo non aveva più alcun nesso sociale.<br />

Il problema della funzione o della non funzione sociale dello spirito si poneva in modo<br />

particolarmente acuto all'intellettuale ebreo di "formazione culturale tedesca". Qualunque cosa<br />

egli cercasse di evocare non apparteneva a lui bensì al nemico. Beethoven. Ma a Berlino lo dirigeva<br />

Furtwängler, e Furtwängler era una rispettata personalità del Terzo Reich. Su Novalis il «Völkische<br />

Beobachter» pubblicava articoli che non erano proprio da gettare. Nietzsche non apparteneva solo a<br />

Hitler, il che tutto sommato sarebbe stato ancora accettabile, ma anche a Ernst Bertram, il poeta<br />

amico dei nazisti; lui lo capiva. Dalle "Formule magiche" di Merseburgo a Gottfried Benn, da<br />

Buxtehude a Richard Strauss, il patrimonio spirituale ed estetico era ormai divenuto indiscussa e<br />

indiscutibile proprietà del nemico. Un compagno aveva suscitato la micidiale ira di una S.S.,<br />

quando, interrogato circa la sua professione, aveva insensatamente detto la verità definendosi<br />

germanista. Credo che in quello stesso periodo Thomas Mann laggiù negli Stati Uniti abbia<br />

affermato: «Dove sono io è la cultura tedesca.» L'ebreo tedesco detenuto ad Auschwitz non avrebbe<br />

potuto avanzare una tesi tanto ardita, nemmeno se per caso fosse stato un Thomas Mann. Non poteva<br />

dichiarare di sua proprietà la cultura tedesca, perché la sua rivendicazione non aveva alcuna<br />

giustificazione sociale. Nell'emigrazione una piccola minoranza poteva costituirsi in cultura<br />

tedesca, anche se Thomas Mann non vi avesse fatto parte. Ad Auschwitz invece il singolo individuo<br />

isolato doveva cedere anche all'ultima S.S. tutta la cultura tedesca, compresi Dürer e Reger,<br />

Gryphius e Trakl.<br />

Tuttavia anche quando si riusciva a evocare l'ingenua e discutibile illusione di una Germania<br />

«buona» e di una «malvagia», dell'ignobile Thorak, che si cedeva volentieri a Hitler, e del grande<br />

Tilman Riemenschneider, al quale veniva imposta la propria solidarietà, anche in queste occasioni<br />

lo spirito alla fine necessariamente doveva dichiararsi impotente di fronte alla realtà. I motivi<br />

in questo senso sono molteplici ed è difficile analizzarli dapprima separatamente e quindi giungere<br />

a una sintesi, come sarebbe opportuno fare. Voglio prescindere da quelli meramente fisici, sebbene<br />

non sappia se questo modo di procedere sia legittimo, dato che ogni prigioniero sottostava alla<br />

legge della sua più o meno accentuata capacità di resistenza fisica. E' comunque evidente che la<br />

questione dell'efficacia dello spirito non può essere posta quando il soggetto, alle soglie della<br />

morte per inedia e sfinimento, non è solo despiritualizzato ma letteralmente disumanizzato. Il<br />

cosiddetto "Muselmann", come nel linguaggio del Lager veniva chiamato il prigioniero che aveva<br />

abbandonato ogni speranza ed era stato abbandonato dai compagni, non possedeva più un ambito di<br />

consapevolezza in cui bene e male, nobiltà e bassezza, spiritualità e non spiritualità potessero<br />

confrontarsi. Era un cadavere ambulante, un fascio di funzioni fisiche ormai in agonia. Dobbiamo,<br />

per quanto dolorosa ci appaia la scelta, escluderlo dalle nostre considerazioni. Io non posso che<br />

prendere lo spunto dalla mia condizione personale, dalla condizione di un prigioniero che pativa la<br />

fame ma non "moriva" di fame, che veniva percosso ma non ucciso di botte, che era ferito, ma non<br />

mortalmente, che quindi oggettivamente ancora possedeva quel sostrato sul quale in linea di<br />

principio lo spirito può poggiare e sopravvivere. Poggiava, non vi è dubbio, su fragili basi e<br />

sopravviveva malamente: e questa è tutta la triste verità. Ho già accennato al fallimento o meglio<br />

al dissolversi di catene associative e reminiscenze estetiche. Nella maggior parte dei casi non<br />

rappresentavano una consolazione, talvolta apparivano dolorose e beffarde; il più delle volte si<br />

disperdevano in un sentimento di assoluta indifferenza.<br />

Le eccezioni si verificavano in determinati momenti di ebbrezza. Penso a quella volta che un<br />

infermiere mi regalò un piatto di semolino dolce che divorai voracemente, raggiungendo uno stato di<br />

straordinaria euforia spirituale. Con profonda commozione pensai dapprima al fenomeno della bontà<br />

umana, al quale associai l'immagine del probo Joachim Ziemssen, un personaggio della "Montagna<br />

incantata" di Thomas Mann. E improvvisamente la mia coscienza si colmò caoticamente del contenuto<br />

di libri, di frammenti musicali, e di riflessioni filosofiche che mi apparivano come mia produzione<br />

originale. Investito da un impetuoso desiderio di spiritualità e da un penetrante senso di<br />

autocompassione, proruppi in lacrime. Uno strato non offuscato della mia coscienza era tuttavia<br />

perfettamente consapevole del carattere fallace di questa breve esaltazione spirituale. Si trattava<br />

di un vero e proprio stato di ebbrezza, provocato da un fattore fisico. In colloqui avuti<br />

successivamente con compagni ho potuto constatare che non fui l'unico a vivere, in situazioni<br />

analoghe, un breve momento di conforto spirituale. Anche nei miei compagni di sventura si<br />

verificarono spesso simili stati di ebbrezza provocati dal cibo o da un'ormai rara sigaretta. Come<br />

ogni ebbrezza, lasciavano dietro di sé un desolante sentimento di vuoto e di vergogna. Erano

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