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Jean Améry. INTELLETTUALE A AUSCHWITZ. Bollati Boringhieri ...

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cosa mi riferisco. L'uomo dello spirito, e in particolare l'intellettuale di cultura tedesca, ha in<br />

sé una concezione estetica della morte che ha origini remote e i cui impulsi più recenti risalgono<br />

al romanticismo tedesco. Possiamo caratterizzarla approssimativamente citando Novalis,<br />

Schopenhauer, Wagner, Thomas Mann. Ad Auschwitz non vi era spazio per la morte nella sua forma<br />

letteraria, filosofica, musicale. Nessun ponte conduceva dalla morte ad Auschwitz alla "Morte a<br />

Venezia". Risultava insopportabile ogni reminiscenza poetica della morte, che si trattasse della<br />

«Cara sorella Morte» di Hesse o di Rilke che cantava: «O Signore, dài a ognuno la sua morte.»<br />

All'intellettuale la concezione estetica della morte si palesò come espressione di una "vita"<br />

estetizzante: dove questa era ormai pressoché dimenticata, anche quella risultava un'elegante<br />

futilità. Nel campo, alla morte non s'accompagnava la musica del Tristano, ma solo le urla delle<br />

S.S. e dei Kapo. Poiché la morte di un essere umano a livello sociale era un avvenimento che dalla<br />

cosiddetta sezione politica del Lager veniva registrato semplicemente con la formula "Abgang durch<br />

Tod" [letteralmente: abbandono (del campo) causa decesso], anche a livello individuale essa finì<br />

per perdere tanto del suo valore specifico che la sua veste estetica, per colui che l'attendeva<br />

divenne in un certo senso una provocazione impudente e, nei confronti dei compagni, sconveniente.<br />

Una volta crollata la concezione estetica della morte, il prigioniero intellettuale si trovava<br />

disarmato al suo cospetto Se cercava di stabilire comunque un rapporto spirituale e metafisico con<br />

la morte, tornava a scontrarsi con la realtà del Lager che impediva ogni tentativo in questa<br />

direzione. Cosa avveniva concretamente? Per dirla nel modo più conciso e banale: al pari del suo<br />

compagno non spirituale, anche il prigioniero intellettuale si occupava non della morte, ma del<br />

"morire"; il problema nel suo complesso veniva così ridotto a una serie di considerazioni concrete.<br />

Nel Lager si narrava ad esempio di una S.S. che aveva sbudellato un detenuto riempiendogli poi la<br />

pancia di sabbia. E' evidente che di fronte a simili possibilità non ci si occupava quasi più del<br />

"se" o del fatto "che" si dovesse morire, ma solo del "come" sarebbe avvenuto. Si discuteva di<br />

quanto tempo impiegasse il gas a fare il suo effetto. Si speculava sulla dolorosità della morte<br />

provocata da iniezioni di acido fenico. Era preferibile un colpo sul cranio o la lenta morte per<br />

sfinimento in infermeria? E' significativo dell'atteggiamento dei prigionieri nei confronti della<br />

morte che solo pochi abbiano deciso di «correre verso il filo», ossia di suicidarsi toccando il<br />

filo spinato attraversato dall'alta tensione. Il filo era in fondo una soluzione buona e abbastanza<br />

sicura, sebbene vi fosse la possibilità di essere scorti anzitempo, e di finire quindi nel bunker,<br />

il che significava morire con maggiori difficoltà e sofferenze. Il morire era onnipresente, la<br />

morte si sottraeva.<br />

E' vero che l'angoscia della morte è ovunque sostanzialmente angoscia di morire, e anche per il<br />

campo vale ciò che una volta disse Franz Borkenau, e cioè che l'angoscia della morte è il timore di<br />

soffocare. Tuttavia quando si è liberi è possibile pensare alla morte senza per forza pensare al<br />

morire, senza essere angosciati dal morire. In una condizione di libertà la morte a livello<br />

spirituale può, almeno in linea di principio, essere sganciata dal morire: in senso sociale,<br />

proiettando su di essa considerazioni sulla famiglia che rimane, sul lavoro che si lascia, e in<br />

senso filosofico attraverso lo sforzo di avvertire nell'esistere un alito del Nulla. Superfluo<br />

aggiungere che un simile tentativo non porta ad alcun risultato, che la contraddizione della morte<br />

è irrisolvibile. In ogni caso però l'anelito trova in sé stesso la propria dignità: nei confronti<br />

della morte l'uomo libero può assumere una determinata posizione spirituale perché per lui la morte<br />

non si risolve totalmente nell'affanno del morire. L'uomo libero può avventurarsi sino al confine<br />

dell'immaginabile perché in lui esiste un sia pure limitatissimo spazio sgombro da angoscia. Per il<br />

prigioniero invece la morte non possedeva alcun aculeo: un aculeo che facesse male, che lo<br />

spingesse a riflettere. Forse così si spiega perché il prigioniero del campo - e la considerazione<br />

vale per tutti, intellettuali e non - abbia conosciuto sì la straziante paura di fronte a<br />

determinati modi di morire, ma non la vera e propria angoscia della morte. Se mi è consentito<br />

parlare della mia esperienza personale, vorrei assicurare che non ho mai pensato di essere<br />

particolarmente coraggioso e che probabilmente non lo sono. Ciò nonostante, quando un giorno, dopo<br />

alcuni mesi di campo di punizione, fui prelevato dalla cella e la S.S. mi assicurò gentilmente che<br />

sarei stato fucilato, accettai la comunicazione con assoluta imperturbabilità. «Hai paura, eh?»<br />

aggiunse quel tale che aveva solo voluto divertirsi un po'. «Sì», risposi io, ma più per<br />

compiacerlo e per non provocare, deludendo le sue aspettative, una reazione brutale. No, non<br />

avevamo paura della morte. Ricordo con chiarezza come i compagni nelle cui baracche erano previste<br />

le selezioni per le camere a gas, non parlassero di queste, bensì, con tutti i segni del timore e<br />

della speranza, della consistenza della zuppa che doveva essere distribuita. La realtà del Lager<br />

trionfava facilmente sulla morte e sull'insieme delle cosiddette questioni ultime. Anche qui lo<br />

spirito s'imbatteva nei limiti che gli erano posti.<br />

Tutti i problemi che per convenzione linguistica definiamo «metafisici», divenivano inconsistenti.<br />

Anche in questo caso però, non era l'abulia a rendere impossibile la riflessione, bensì, al<br />

contrario, la crudele perspicacia di un intelletto affilato e temprato dalla realtà del Lager. Si<br />

aggiunga che venivano a mancare le energie emozionali grazie alle quali si sarebbe magari potuto<br />

dare contenuto, e quindi rendere sensati a livello soggettivo e psicologico, vaghi concetti<br />

filosofici. Di tanto in tanto qualcuno si ricordava magari di quel tristo mago del paese degli<br />

alemanni, il quale aveva detto che agli umani l'Ente apparirebbe solo attraverso la luce

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