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Jean Améry. INTELLETTUALE A AUSCHWITZ. Bollati Boringhieri ...

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aveva quindi la possibilità di lavorare al chiuso in un'officina, non esposto alle intemperie. Lo<br />

stesso dicasi per l'elettricista, l'idraulico, il falegname o il carpentiere. Il sarto o il<br />

ciabattino potevano magari avere la fortuna di finire in un locale dove si lavorava per le S.S. Per<br />

il muratore, il cuoco, il radiotecnico, il meccanico per automobili esisteva la possibilità, sia<br />

pure quanto mai ridotta, di trovare un posto di lavoro sopportabile e quindi di farcela.<br />

Diversa la situazione per chi esercitava una professione dell'ingegno. Al pari del commerciante,<br />

era parte del "Lumpenproletariat" del campo e ne condivideva il destino: era aggregato a un<br />

Kommando di lavoro destinato a scavare, posare cavi, trasportare sacchi di cemento o traversine di<br />

ferro. Nel campo diventava un operaio non qualificato, costretto a fare la sua parte all'aperto, e<br />

ciò solitamente significava che il suo destino era segnato. Vi erano naturalmente delle differenze.<br />

I chimici ad esempio, nel campo in questione, venivano utilizzati nella loro professione: accadde<br />

al mio compagno di baracca Primo Levi, autore di "Se questo è un uomo", un libro dedicato alla sua<br />

esperienza ad Auschwitz. Per i medici esisteva la possibilità di rifugiarsi nei cosiddetti<br />

"Krankenbauten" [infermerie]. Ma naturalmente non ci riuscivano tutti. Il medico viennese Viktor<br />

Frankl, ad esempio, oggi psicologo di fama mondiale, ad Auschwitz-Monowitz per anni fece lo<br />

sterratore. In generale si può dire che gli esponenti delle professioni dell'ingegno per quanto<br />

concerne il lavoro si trovavano in una pessima situazione. Non a caso molti cercavano di celare la<br />

loro attività originaria. Chi aveva un minimo di abilità pratiche, chi era magari capace di fare<br />

qualche lavoretto si spacciava arditamente per operaio, rischiando tuttavia la vita nel caso la<br />

bugia fosse stata scoperta. La maggior parte comunque cercava di salvarsi sminuendo la propria<br />

posizione. Interrogato circa la propria professione, il professore di liceo o universitario<br />

rispondeva timidamente «insegnante», onde non provocare la furia selvaggia della S.S. o del Kapo.<br />

L'avvocato si trasformava nel più modesto contabile, il giornalista poteva magari spacciarsi per<br />

tipografo, tanto più che difficilmente avrebbe corso il rischio di dover dimostrare le sue capacità<br />

artigianali. Ed era così che docenti universitari, avvocati, bibliotecari, storici dell'arte,<br />

economisti, matematici si ritrovavano a portare rotaie, tubi e legname per costruzione. La loro<br />

abilità e la loro forza fisica erano di norma limitate e solitamente non si doveva attendere a<br />

lungo prima che fossero eliminati dal processo produttivo e trasferiti nell'adiacente campo<br />

principale, dove vi erano le camere a gas e i forni crematori.<br />

Se era difficile la loro situazione sul lavoro, altrettanto si può dire per la condizione<br />

all'interno del campo, dove la vita richiedeva soprattutto agilità fisica e un coraggio che per<br />

forza di cose assomigliava molto alla brutalità. Entrambe qualità che i lavoratori dell'ingegno<br />

raramente possedevano; il coraggio morale che spesso volevano impiegare in sostituzione di quello<br />

fisico, non valeva un fico secco. Si poteva ad esempio porre il problema di impedire a un borsaiolo<br />

professionista di Varsavia di rubarci le stringhe. In questi casi poteva tornare utile un buon<br />

cazzotto mentre era inservibile quell'ardimento spirituale che spinge un giornalista politico a<br />

mettere a repentaglio la propria esistenza pubblicando un articolo sgradito. Inutile precisare che<br />

solo molto raramente l'avvocato o l'insegnante liceale erano in grado di dare un pugno a regola<br />

d'arte e che anzi il più delle volte erano loro a subirlo: e in questi frangenti dimostravano di<br />

non essere, nell'incassare, molto più abili che nel dare. Gravi erano anche le questioni inerenti<br />

alla disciplina del campo di concentramento. Chi in precedenza aveva esercitato una professione<br />

dell'ingegno di norma non era molto abile nel "Bettenbau" [farsi il letto]. Ricordo compagni colti<br />

e istruiti, costretti ogni mattina a lottare, madidi di sudore, con il saccone e le coperte, senza<br />

per questo giungere a un qualunque risultato accettabile, cosicché durante il lavoro erano dominati<br />

dall'angosciosa idea che una volta tornati al campo per punizione sarebbero stati percossi o<br />

privati del cibo. Non erano all'altezza né del rifarsi il letto, né dell'energico «Mützen ab!» [giù<br />

i berretti!], né, tantomeno, azzeccavano, nei confronti del "Blockältester" [anziano della baracca]<br />

o della S.S., quel modo di parlare vagamente deferente eppure consapevole, che talvolta consentiva<br />

di scansare un pericolo. Nel campo non godevano quindi della stima degli "Häftlingsvorgesetzten"<br />

[superiori prigionieri] e dei compagni, e sul lavoro erano disprezzati dai lavoratori civili e dai<br />

Kapo.<br />

Ma c'è di peggio: essi non riuscivano nemmeno a farsi degli "amici". Nella maggior parte dei casi<br />

erano costituzionalmente impediti a utilizzare spontaneamente il gergo del campo, l'unica forma<br />

accettata di comunicazione reciproca. Si discute molto oggi delle difficoltà di comunicazione<br />

dell'uomo moderno, sostenendo non di rado tesi assurde che sarebbe opportuno tacere. Ebbene, nel<br />

campo "esisteva" il problema dell'incomunicabilità tra l'uomo dello spirito e la maggior parte dei<br />

suoi compagni: si poneva in ogni istante in maniera reale, direi tormentosa. Il prigioniero<br />

abituato a un modo di esprimersi relativamente differenziato, solo al prezzo di un grande sforzo su<br />

sé stesso riusciva a dire "Hau ab!" [levati di torno!] o ad apostrofare esclusivamente con "Mensch"<br />

[tipo] il suo compagno di prigionia. Rammento sin troppo bene il disgusto fisico che mi afferrava<br />

perché un compagno, per altri versi dabbene e socievole, si rivolgeva a me usando esclusivamente<br />

l'espressione "mein lieber Mann" [caro mio]. L'intellettuale era insofferente a espressioni come<br />

"Küchenbulle" [letteralmente: toro da cucina; cuoco], "organisieren" [organizzare; termine con il<br />

quale si definiva l'appropriazione illecita di oggetti], e persino formulazioni come "auf Transport<br />

gehen" [essere trasferiti], le proferiva molto malvolentieri.<br />

Detto questo arrivo ai fondamentali problemi psicologici ed esistenziali della vita nel campo, e

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