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Jean Améry. INTELLETTUALE A AUSCHWITZ. Bollati Boringhieri ...

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fra Bruxelles e Anversa. La fortezza risale alla prima guerra mondiale e non so quale sia stato<br />

allora il suo destino. Nella seconda guerra, durante i diciotto brevi giorni di resistenza<br />

dell'esercito belga del maggio 1940, Breendonk fu l'ultimo quartier generale di re Leopoldo. In<br />

seguito, durante l'occupazione tedesca, divenne una sorta di piccolo campo di concentramento, un<br />

"Auffanglager" [campo di raccolta] come si diceva nel gergo del Terzo Reich. Oggi è Museo nazionale<br />

belga.<br />

Il forte Breendonk a prima vista appare molto vecchio, con una lunga storia alle spalle. A vederlo<br />

così, sotto il cielo eternamente gravido di pioggia delle Fiandre, con i suoi tetti a cupola<br />

ricoperti di erba e i muri grigio-neri, sembra una melanconica incisione della guerra francoprussiana<br />

del 1870-71: si pensa a Gravelotte e Sedan e da un momento all'altro dalle basse,<br />

imponenti porte ci si aspetta di veder uscire, il képi in mano, l'ormai sconfitto imperatore<br />

Napoleone Terzo. Bisogna avvicinarsi perché alla vaga immagine dei tempi passati se ne sovrapponga<br />

un'altra, a noi più consueta: lungo il fossato che circonda la fortezza si innalzano torrette di<br />

guardia, tutto è circondato da reticolato di filo spinato. All'incisione del 1870 si sovrappongono<br />

bruscamente le raccapriccianti fotografie di quello che David Rousset ha definito l'"univers<br />

concentrationnaire". I responsabili del Museo nazionale hanno lasciato tutto com'era negli anni<br />

1940-44. Annunci ingialliti: «Wer weitergeht wird erschossen» [Oltre questo limite si spara a<br />

vista]. Non sarebbe stato necessario erigere davanti alla fortezza quel patetico monumento alla<br />

resistenza - un uomo costretto in ginocchio che tuttavia caparbiamente solleva una testa dai tratti<br />

curiosamente slavi - non sarebbe stato necessario questo monumento per spiegare al visitatore<br />

"dove" si trovi e cosa gli venga richiamato alla memoria.<br />

Si entra attraverso il portone principale e si raggiunge presto un locale che allora<br />

misteriosamente si chiamava "Geschäftszimmer" [stanza degli affari, ufficio]. Alla parete una foto<br />

di Heinrich Himmler, sul lungo tavolo, a mo' di tovaglia, una bandiera con la svastica, qualche<br />

sedia disadorna. "Geschäftszimmer". Ciascuno seguiva i propri affari, il loro era l'omicidio. Poi i<br />

corridoi simili a umide cantine, debolmente illuminati con le stesse lampadine dalla luce fioca e<br />

rossastra che già allora pendevano dai soffitti. Celle chiuse da spesse porte in legno. Bisogna<br />

passare numerosi pesanti cancelli prima di giungere in un ambiente con soffitto a volta privo di<br />

finestre, in cui sono sparsi diversi insoliti attrezzi in ferro. Da qui le urla non potevano<br />

giungere all'esterno. Accadde in questo locale: qui subii la tortura.<br />

Parlando di tortura bisogna stare attenti a non esagerare. Ciò che io subii in quell'indicibile<br />

stanza di Breendonk non fu certamente la forma peggiore di tortura. Non mi furono infilati aghi<br />

roventi sotto le unghie, né spente sigarette sulla nuda pelle. Subii solo ciò che in seguito dovrò<br />

narrare; fu una tortura relativamente benigna, e sul mio corpo non sono rimaste cicatrici evidenti.<br />

E tuttavia, ventidue anni dopo quell'avvenimento, sulla scorta di un'esperienza che non giunse ai<br />

limiti estremi, oso affermare che la tortura è l'esperienza più atroce che un essere umano possa<br />

conservare in sé.<br />

Molti esseri umani, tuttavia, conservano in sé un'esperienza simile, e l'atrocità da me subita non<br />

rivendica alcuna esclusività. Nella maggior parte dei paesi occidentali la tortura in quanto<br />

istituzione e metodo è stata abolita alla fine del diciottesimo secolo. Ciò nonostante oggi, due<br />

secoli più tardi, uomini e donne possono ancora affermare di essere stati torturati e nessuno sa<br />

dire quanti siano. Redigendo questo mio contributo mi è capitato fra le mani un giornale con alcune<br />

fotografie che ritraggono esponenti dell'esercito sudvietnamita mentre torturano alcuni ribelli<br />

vietcong loro prigionieri. Lo scrittore inglese Graham Green ha scritto a questo proposito una<br />

lettera al «Daily Telegraph» di Londra in cui si afferma quanto segue:<br />

"La novità delle fotografie pubblicate dalla stampa inglese e americana è che esse vennero<br />

evidentemente fatte con l'accordo degli aguzzini e pubblicate senza commento. Quasi si trattasse<br />

delle tavole di un testo di zoologia sulla vita degli insetti! Significa che le autorità americane<br />

considerano la tortura una forma legale di interrogatorio di prigionieri politici? Queste foto<br />

sono, se si vuole, un segno di onestà, poiché dimostrano che le autorità non chiudono gli occhi.<br />

Solo mi chiedo se a una tale forma di inconsapevole franchezza alla fine non sia da preferire<br />

l'ipocrisia del passato..."<br />

Chiunque di noi si porrà l'interrogativo di Graham Green. Ammettere la tortura, accettare il<br />

rischio - ma è ancora tale? - che si corre nel presentare all'opinione pubblica simili foto, è<br />

possibile solo presupponendo che non si debba più temere una rivolta delle coscienze. Vien da<br />

pensare che queste coscienze si siano abituate alla prassi della tortura. Del resto in questi<br />

decenni la tortura non è stata impiegata solo nel Vietnam. Sarei curioso di sapere cosa accade<br />

nelle prigioni sudafricane, angolane, congolesi. E so, e anche il lettore probabilmente sa, cosa<br />

avvenne nelle galere dell'Algeria francese negli anni che vanno dal 1956 al 1963. Esiste<br />

sull'argomento un libro terribilmente preciso e sobrio, "La question" di Henri Alleg, un'opera la<br />

cui diffusione fu vietata, il resoconto di un testimone che ha di persona visto e vissuto, e che<br />

con semplicità e modestia ha messo a verbale l'orrore. Intorno al 1960 vennero pubblicati anche<br />

numerosi altri libri e pamphlet sul medesimo argomento: il dotto trattato criminologico del famoso<br />

avvocato Alec Mellor, la protesta del giornalista Pierre-Henri Simon, lo studio di ordine morale di

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