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Jean Améry. INTELLETTUALE A AUSCHWITZ. Bollati Boringhieri ...

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tatto. Tuttavia è una motivazione causale sufficiente. In questo senso quindi procederemo: senza<br />

tatto, ma con quel tanto di buone maniere da scrittore, che il mio sforzo di sincerità e il tema<br />

stesso mi impongono.<br />

Il mio compito sarebbe più agevole se fosse mia intenzione affrontare il problema nella prospettiva<br />

della polemica politica. Potrei, in tal caso, riferirmi ai libri di Kempner, Reitlinger e Hannah<br />

Arendt e giungere senza ulteriori sforzi intellettuali a una conclusione sufficientemente<br />

convincente. Ne risulterebbe che i risentimenti sopravvivono perché nella vita pubblica della<br />

Germania occidentale restano attive personalità che furono vicine ai persecutori, perché,<br />

nonostante il prolungamento dei termini di prescrizione per gravi crimini di guerra, i criminali<br />

hanno buone possibilità di invecchiare rispettabilmente e di sopravvivere, trionfanti, a noi, come<br />

garantisce l'attività che svolsero nei loro giorni migliori. Ma che effetto avrebbe una simile<br />

polemica? Praticamente nessuno. La causa della giustizia è stata combattuta a nome nostro da<br />

tedeschi degni di autentico rispetto ed è stata combattuta meglio, con maggior vigore, anche con<br />

maggior ragionevolezza, di quanto avremmo potuto fare noi. A me tuttavia non interessa una<br />

giustizia che in questo caso storico sarebbe comunque ipotetica. Mi preme descrivere la condizione<br />

soggettiva della vittima. Il mio contributo può consistere in un'analisi del risentimento in chiave<br />

introspettiva. Mi riprometto di giustificare una condizione psichica che viene considerata<br />

negativamente sia dai moralisti che dagli psicologi: i primi la reputano una macchia, gli altri una<br />

sorta di malattia. Devo assumermi la responsabilità del mio risentimento, accettando il giudizio<br />

negativo della società, prendendo su di me, e quindi legittimando, la malattia come parte<br />

integrante della mia personalità. Questa confessione è un compito quanto mai ingrato, che<br />

oltretutto esige dai miei lettori un'insolita prova di pazienza.<br />

I risentimenti come dominante esistenziale dei miei pari sono l'esito di una lunga evoluzione<br />

personale e storica. Non erano in nessun modo manifesti il giorno in cui da Bergen-Belsen, il mio<br />

ultimo campo di concentramento, tornai a casa a Bruxelles, dove tuttavia non avevo patria. Noi<br />

risorti avevamo tutti più o meno l'aspetto che mostrano le fotografie - oggi conservate negli<br />

archivi - scattate in quei giorni di aprile e maggio del 1945: scheletri rimessi in forze con<br />

scatolette di corned-beef angloamericane, fantasmi rapati, sdentati, a malapena utilizzabili per<br />

rendere in fretta testimonianza, prima di scomparire nel luogo che in fondo era stato loro<br />

destinato. Eppure, se vogliamo prestare fede agli striscioni incontrati lungo il nostro cammino,<br />

eravamo «eroi». Dicevano: «Gloire aux Prisonniers Politiques!» Purtroppo le scritte sbiadirono<br />

rapidamente, e le graziose assistenti sociali e infermiere della Croce Rossa che nei primi giorni<br />

ci avevano rifornito di sigarette americane, si stufarono di starci dietro. Per parecchio tempo<br />

tuttavia vissi una condizione che mi collocava socialmente e moralmente in una posizione inedita e<br />

non poco inebriante: ero - in quanto partigiano, ebreo, perseguitato di un regime odiato dai popoli<br />

- in rapporto di reciproca intesa con il mondo. Coloro che - simili alle oscure forze che<br />

trasformano il protagonista della "Metamorfosi" di Kafka - mi avevano martoriato e ridotto a<br />

ignobile insetto erano essi stessi profondamente invisi ai vincitori. Non solo il<br />

nazionalsocialismo, ma la "Germania" era oggetto di un sentimento generalizzato che davanti ai<br />

nostri occhi da odio si cristallizzò in disprezzo. Mai più, si diceva allora, questo paese avrebbe<br />

«minacciato la pace mondiale». Gli si sarebbe concesso di vivere, ma nulla più. Sarebbe stato il<br />

campo di patate d'Europa e in quanto tale gli sarebbe stato concesso di mettere il suo zelo, e solo<br />

questo, al servizio del continente. Si discuteva molto della colpa collettiva dei tedeschi. Sarebbe<br />

pura e semplice menzogna se non ammettessi apertamente di aver condiviso questa tesi. Mi pareva di<br />

avere subìto misfatti collettivi: il funzionario nazionalsocialista in camicia bruna, con la<br />

svastica intorno al braccio, non mi aveva ispirato terrore maggiore dal semplice soldato con la<br />

divisa grigia. Inoltre non riuscivo a dimenticare quei tedeschi che, dai carri bestiame della<br />

nostra tradotta, avevano visto scaricare e accatastare su una stretta banchina innumerevoli<br />

cadaveri, senza che sui loro volti impietriti fosse apparsa una sola espressione di orrore. Il<br />

delitto collettivo e l'espiazione collettiva si sarebbero quindi bilanciati, ristabilendo<br />

l'equilibrio della moralità universale. "Vae victis castigatisque".<br />

Non vi era motivo perché nascessero risentimenti, non ve n'era quasi occasione. Tuttavia non volevo<br />

nemmeno sentire parlare di compassione per un popolo sul quale, a mio modo di vedere, gravava la<br />

colpa collettiva e fu con indifferenza che, insieme ad altri mossi da quacchero zelo, una volta<br />

caricai un camion che doveva portare abiti smessi ai bambini della Germania stremata. Gli ebrei, si<br />

chiamassero Victor Gollancz o Martin Buber, che a questo punto già vibravano di pathos del perdono<br />

e della conciliazione, mi riuscivano sgradevoli quasi quanto quelli che negli USA, in Inghilterra o<br />

in Francia, non vedevano l'ora di tornare in Germania, occidentale o orientale, per atteggiarsi,<br />

nella loro qualità di rieducatori, a "praeceptores Germaniae". Per la prima volta nella mia vita<br />

condividevo lo stato d'animo dell'opinione pubblica che mi circondava. Mi sentivo tranquillamente a<br />

mio agio nel ruolo del tutto inusitato del conformista. La Germania-campo di patate, la Germania<br />

delle rovine era per me un universo sommerso. Evitavo di parlarne la lingua, la mia lingua, e<br />

scelsi uno pseudonimo che ha un'eco romanza. Non sapevo tuttavia quale ora stesse veramente<br />

segnando l'orologio politico della storia. Mentre infatti ritenevo di avere io trionfato sui miei<br />

persecutori di ieri, i veri vincitori già si accingevano a elaborare progetti per gli sconfitti che<br />

non avevano nulla e poi nulla a che vedere con i campi di patate. Nel momento in cui mi illudevo,

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