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Jean Améry. INTELLETTUALE A AUSCHWITZ. Bollati Boringhieri ...

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Heimat ci seguì sotto forma di truppe di occupazione. Ricordo un episodio particolarmente<br />

inquietante nel quale fui coinvolto nel 1943, poco prima del mio arresto. Il nostro gruppo aveva<br />

allora una base nell'appartamento di una ragazza; qui avevamo collocato il ciclostile con il quale<br />

stampavamo i nostri volantini illegali. La giovane e sin troppo impavida ragazza, che in seguito<br />

pagò infatti con la vita, aveva di sfuggita accennato al fatto che nella stessa casa abitavano<br />

anche dei «soldati tedeschi»: riguardo alla sicurezza dell'appartamento, si trattava di una<br />

circostanza che tutto sommato ci era parsa favorevole. Un giorno un tedesco - il cui appartamento<br />

era sotto il nostro rifugio - si sentì disturbato nel suo riposino pomeridiano dal nostro parlare e<br />

armeggiare. Salì le scale, bussò rumorosamente alla porta e fragorosamente oltrepassò la soglia:<br />

era una S.S., con i risvolti neri e il distintivo del Servizio di sicurezza! Ci spaventammo a morte<br />

perché nella stanza attigua avevamo gli attrezzi di quel nostro lavoro propagandistico che, ahimè,<br />

così poco turbava l'esistenza del Reich. Quel tale tuttavia - la giacca dell'uniforme sbottonata, i<br />

capelli arruffati, gli occhi pieni di sonno, - non intendeva in alcun modo svolgere il proprio<br />

mestiere di segugio e, urlando, pretese soltanto un po' di silenzio per sé e per il suo camerata,<br />

entrambi stanchi dal servizio notturno. La sua protesta - e per me fu questo il lato realmente<br />

spaventoso della vicenda - avvenne nel dialetto della mia regione. Da molto tempo non avevo più<br />

udito quella cadenza e questo suscitò in me il folle desiderio di rispondergli nel suo stesso<br />

dialetto. Mi trovavo in una disposizione paradossale, quasi perversa, fatta di enorme paura e al<br />

contempo di improvvisa, familiare cordialità, perché quel tizio, che in quel preciso istante non<br />

mirava alla mia vita, ma il cui compito, gioiosamente svolto, era quello di avviare quelli come me<br />

in folta schiera ai Lager della morte, mi apparve d'un tratto come un potenziale compagno. Non<br />

sarebbe stato sufficiente apostrofarlo nella sua, nella mia lingua, per poi celebrare tra<br />

compatrioti, con una bottiglia di buon vino, una festa di riconciliazione?<br />

Fortunatamente, paura e controllo razionale furono abbastanza forti da impedirmi quel gesto<br />

assurdo. Borbottai qualche scusa in francese che parve calmarlo. Sbattendo la porta abbandonò sia<br />

il luogo della sovversione sia il sottoscritto, vittima designata del suo dovere di soldato e della<br />

sua passione per la caccia. In quell'istante compresi "sino in fondo" e definitivamente che la<br />

Heimat era terra nemica e che il buon compagno era stato inviato dalla patria-nemica per<br />

eliminarmi.<br />

Fu un'esperienza in fin dei conti banale. Ma non sarebbe mai potuta accadere né a un profugo dai<br />

territori orientali della Germania, né a un esule dal Terzo Reich che a New York o in California<br />

fosse intento a fantasticare sulla cultura tedesca. Il profugo dagli ex territori orientali della<br />

Germania sa che una potenza straniera lo ha privato del suo paese. Nel suo rifugio sicuro l'esule<br />

esponente della cultura credeva di continuare a tessere i destini di una nazione tedesca solo<br />

provvisoriamente soggiogata dal nazionalsocialismo, un potere anch'esso estraneo. Noi invece non<br />

avevamo perso il paese: dovevamo riconoscere di non averlo mai posseduto. Ciò che riguardava questo<br />

paese e la sua gente rappresentava per noi l'equivoco di un'intera esistenza. Quello che ciascuno<br />

di noi pensava fosse stato il suo primo amore era, come dicevano laggiù, "Rassenschande"<br />

(contaminazione razziale). Era dunque solo mimetismo ciò che ritenevamo avesse determinato il<br />

nostro essere? Nessuno di noi che durante la guerra viveva sotto l'occupazione della patria-nemica,<br />

poteva, conservando un minimo di rettitudine spirituale, ritenerla soggiogata da un potere<br />

estraneo: troppo di buon umore erano i compatrioti che noi, celati dietro le lingue del Belgio,<br />

mimetizzati in abiti di foggia e gusto belgi, casualmente incontravamo per le strade o nelle<br />

taverne. Troppo unanimemente essi si schieravano accanto al loro Führer e alle sue imprese, quando<br />

noi, in un tedesco volutamente stentato, attaccavamo discorso. Cantavano, con le forti voci di una<br />

gioventù fiduciosa, di voler muovere contro il paese degli angli. E durante le marce sovente<br />

intonavano anche una canzone piuttosto cretina in cui si diceva che gli ebrei, vagando di qua e di<br />

là, attraversavano il Mar Rosso, finché i flutti non si chiudevano su di loro e il mondo trovava<br />

finalmente pace; e trasparivano nuovamente l'energia del ritmo e l'assenso. La Heimat ci aveva<br />

raggiunti sotto queste sembianze, e in questo modo la campana della lingua madre risonava alle<br />

nostre orecchie.<br />

Si comprenderà meglio adesso cosa intendessi con qualità del tutto inedita della nostra nostalgia<br />

di casa, non determinata dalle convenzioni letterarie del sentimento. La nostalgia di casa<br />

tradizionale: beh, noi l'avevamo avuta così, in sovrappiù. La facevamo emergere noi sotto forma di<br />

pretenziosa mestizia - perché in fondo non ne avevamo il diritto - quando durante l'esilio<br />

parlavamo di casa nostra con gli abitanti del paese ospite. Allora compariva e faceva valere i suoi<br />

diritti, nella beatitudine delle lacrime, perché nei confronti dei belgi dovevamo bene o male<br />

presentarci come tedeschi o come austriaci, o meglio, in quei momenti eravamo tedeschi, perché i<br />

nostri interlocutori ci imponevano la patria e prescrivevano il ruolo da recitare. La nostalgia di<br />

casa tradizionale per noi era - ed è per tutti coloro che mestamente vi si crogiuolano - una forma<br />

di consolatoria autocommiserazione, sempre minata tuttavia dalla consapevolezza che si trattava di<br />

un'appropriazione indebita. Accadeva talvolta che, sotto l'influsso dell'alcool, agli anversesi<br />

cantassimo in dialetto le nostre canzoni popolari, che raccontassimo loro dei monti e dei fiumi di<br />

casa, asciugandoci furtivamente le lacrime. Che inganni dell'anima! Erano viaggi a casa fatti con<br />

documenti falsi e tavole genealogiche rubate. Dovevamo far finta di essere ciò che effettivamente<br />

eravamo, ma che non avevamo il diritto di essere: che impresa folle, da commedianti!

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