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LA ZIA FRANCESCA

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

STORIE DI ALTRI TEMPI<br />

<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

La prima volta che vidi la zia Francesca credo non avessi più di quattro anni. Ricordo come in sogno<br />

che giocavo col mio fratellino minore al cavalluccio, trascinando per la casa uno stivaletto di mia<br />

madre, attaccato ad una cordicella; e quando passava il treno strillavo come una gazza perché la serva<br />

mi prendesse in braccio e mi portasse vicino alla ferrovia per vedere il mostro che passava sbuffando<br />

tra le siepi di fichi d’india e la linea azzurra del mare.<br />

Quell’anno eravamo scesi dal nostro paese di montagna ai bagni con la mia famiglia, e fu in quella<br />

occasione che conobbi la sorella di mio padre, la bella zia Francesca, che era andata sposa qualche<br />

anno prima ad un signore della marina. Essa era veramente bella, bianca di pelle, di splendida<br />

persona, con un grazioso viso rotondo e dei bei capelli ricci, spartiti sulla fronte, alta e intelligente,<br />

che pareva fatta apposta per stamparvi sopra dei baci. Vestiva anche bene, alla cittadina, con abiti di<br />

seta e pizzi fini e portava sempre ai polsi, al collo e alle orecchie molto oro e graziosi gioielli.<br />

A me, abituato a vedere mia madre magra, bruna, coi capelli lisci e la fisionomia energica, senza altri<br />

ornamenti che l’anello matrimoniale, quella bella donna sorridente ed elegante fece una impressione<br />

straordinaria e me ne affezionai subito. Per quella specie di attrazione fisica ch’è così potente nei<br />

bambini, non appena potevo scappavo da lei, ed ero così contento di starle vicino, che dimenticavo i<br />

giuochi ed anche il treno.<br />

La sua casa era accanto alla nostra e io, non appena avevo finito di mangiare, afferravo il mio<br />

stivaletto e frignavo per andare dalla zia Francesca.<br />

- Va… va, caro, va… - mi faceva mia madre – e dille che ti dia un bel pezzo di "tartegno".<br />

Ciò significava che mia madre si raccomandava alla zia Francesca perché mi tenesse a lungo con lei.<br />

Io correvo sgambettando, bussavo alla porta, che era sempre ermeticamente chiusa, e chiamavo: - Zia,<br />

o zia… la mamma mi ha mandato da te perché tu mi dia un pezzo di tartegno.<br />

- Vieni, - tesoro – vieni -… diceva la zia Francesca. Mi prendeva in braccio, mi baciava le guance, poi<br />

mi portava nella dispensa e mi dava dei grossi dadi di mostarda fatta con la frutta e il vin cotto, che io<br />

trovavo di un sapore squisito.<br />

- È questo il tartegno, zia – chiedevo io, sbocconcellando golosamente la mostarda – e chi è che te la<br />

porta?<br />

- Me la porta San Nicola, caro.<br />

- E a San Nicola chi la porta?<br />

- A San Nicola la portano le monache di legno.<br />

Le monache di legno!… Davanti a queste parole io rimanevo incantato, e nella mia mente si aprivano<br />

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le porte delle meravigliose fantasticherie. Mi pareva di vedere in un luogo imprecisato un grande<br />

monastero, e poiché di monasteri non avevo la minima idea, vedevo una specie di chiesa, e di questa<br />

chiesa più precisamente una grande sagrestia, nella quale al posto dei cassettoni che contengono i<br />

paramenti sacri, vi erano delle madie enormi; intorno delle curiose monache di legno impastavano un<br />

miscuglio bruno, che spandeva un odorino tanto simile a quello della mia buona mostarda.<br />

Nella casa di mia zia al di fuori di me e di mio fratellino non capitava mai nessuno. La porta era<br />

sempre chiusa e mia zia lavorava tutto il giorno di ricamo in una specie di tinello che aveva una<br />

finestra alta quanto un uomo, tanto che per affacciarvisi bisognava salire su una sedia. E tutte le<br />

finestre di quella strana casa erano alte così, e il sole vi entrava di sbieco come nelle cantine. Nei<br />

corridoi vi erano dei vecchi quadri di battaglia e dei vecchissimi orologi coi pesi; ed io ricordo ancora<br />

lo strano effetto che mi faceva il tic-tac monotono di quegli orologi nel silenzio misterioso di quella<br />

casa solitaria. Un solo personaggio io vedevo di quando in quando in quella strana casa ed era il<br />

marito di mia zia, lo zio Girolamo. Era un uomo gigantesco, dalle spalle tremende con una testa da<br />

uomo di quaranta anni tutta calva ed una specie di bitorzolo sulla fronte. Non era brutto di viso, ma<br />

aveva due occhi inquieti e sempre naturalmente minacciosi, un po’ gialli come quelli dei falchi. Con<br />

noi bambini non parlava mai, ma con la zia Francesca era tenerissimo, e la carezzava e la baciava a<br />

lungo anche alla mia presenza, specie quando tornava dalla caccia che credevo fosse la unica sua<br />

occupazione.<br />

Un giorno, nel pomeriggio, mi presentai alla porta della zia con la cordicella del mio stivaletto in<br />

mano, ma invece del suo bel viso bianco e sorridente, mi apparve sull’uscio quello arcigno dello zio<br />

Girolamo, il quale con un solo sguardo minaccioso mi fece scappare via strillando, come un cagnolino<br />

a cui sia stata pestata la coda. Seppi poi da mia mamma, e con mio grande stupore, che lo zio non<br />

aveva piacere che andassi in casa sua tutti i giorni, perciò, per paura di lui, sospesi le mie visite.<br />

Intanto la stagione dei bagni ebbe termine, noi ritornammo in paese e della zia Francesca non me ne<br />

ricordai più. Passarono così alcuni anni, sette od otto mi pare; io andavo a scuola, declamavo poesie, e<br />

tutto quanto si riferiva alle passioni, era per me come una moneta di cui non riuscivo a conoscere il<br />

valore. Un giorno improvvisamente giunse la notizia che lo zio Girolamo era morto. In casa vi fu un<br />

po’ di trambusto. Mio padre fece sellare la mula e immediatamente partì, rimanendo fuori di casa tre<br />

giorni. Al suo ritorno condusse con sé la zia Francesca che io trovai in casa nostra tornando dalla<br />

scuola. Era sempre bella, un po’ più pallida e leggermente ingrassata, ma sempre affascinante come<br />

mi era apparsa la prima volta, coi capelli e il dolce sorriso intatti. Ora vestiva di nero e quel colore<br />

luttuoso mi pareva conferisse un non so che di misteriosamente squisito alla sua persona. Ci<br />

mettemmo a tavola. La zia e i miei genitori parlarono a lungo di affari e di interessi. Poi, finita la<br />

colazione, andammo tutti sulla loggia.<br />

Era d’aprile, l’aria era dolce e tiepida, con un bel sole che splendeva sulle biade e sul fogliame nuovo.<br />

La loggia guardava il mare e nello sfondo si profilavano il campanile di Bovalino e i cipressi del<br />

camposanto, dove dormiva il suo ultimo sonno lo zio Girolamo. Mia zia, guardando quei cipressi<br />

staglianti sul mare di indaco, si mise a piangere silenziosamente. Le lacrime le scendevano lente sul<br />

volto pallido, senza un moto, mentre le labbra le tremavano sotto lo sforzo di un’angoscia contenuta.<br />

Mia madre, che si era messa a fare il punto a giorno a certi fazzoletti, la fissò un po’ inquieta, poi<br />

scattò con la sua naturale vivacità che spesso diventava aggressiva.<br />

- Senti, cara, io ti comprendo e ti compiango. Il marito è sempre il marito, e poi sei rimasta sola, senza<br />

un piccino; ma quando penso a lui – scusami sai… non so come hai fatto tu ad adattarti. Io non gli<br />

sarei rimasta insieme neppure ventiquattrore. In fondo i dodici anni che hai trascorsi con lui, furono<br />

dodici anni di prigione. La sua non era gelosia, ma pazzo egoismo, crudeltà irragionevole. Figurati…<br />

era geloso di mio marito; di questo ragazzo – e indicava me. Quell’anno che scendemmo ai bagni lo<br />

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urtava che il bambino venisse da te a mangiar la mostarda. Ora tutto questo è ridicolo e crudele. E<br />

poi… picchiava tutti… sempre alle prese con la giustizia.<br />

La zia Francesca sospirò: - Sì, era irragionevolmente geloso, ed anche violento, ma a me voleva un<br />

bene unico al mondo. In dodici anni uscii con lui a passeggio solo tre volte, ma quell’uomo per me<br />

non era un marito, era un innamorato. Quanto era fiero e violento con gli altri, altrettanto era<br />

affettuoso con me; mi adorava come una cosa santa e preziosa. Egli credeva, nella sua totale<br />

adorazione che nessuna donna fosse più bella di me. Sì… era anche violento… Cosa vuoi… era un<br />

uomo fuori del suo tempo, un vecchio barone medievale nato per comandare, senza altra legge che la<br />

propria.<br />

E piangeva col suo bel volto bianco e mite solcato dalle lacrime, sotto i capelli neri che sembravano<br />

anch’essi un segno di lutto intorno alla fronte pallida e dolente. Quella conversazione, e le lacrime di<br />

mia zia e le rivelazioni intorno a quella specie di prigionia ricordo che produssero nel mio animo una<br />

impressione profonda. La parola "amore" cominciava a turbare la mia immaginazione di ragazzo<br />

precoce, e qualche aerea fantasia popolava già i miei sogni. Non sapevo che cosa fosse, ma sentivo<br />

che doveva essere una cosa divina che sconvolge e inebria la ragione. E quando al sera udivo la zia<br />

che riposava nel suo lettino accanto al mio, sospirava, mi rannicchiavo senza fiato e ascoltavo. Che<br />

cosa? Non so, ma mi pareva che nel silenzio profondo avrei udito battere il suo cuore, e che attraverso<br />

quel palpito avrei avuta la rivelazione di un mistero bellissimo e suggestivo, il mistero che già turbava<br />

per mille vie la mia piccola vita.<br />

Il porto sonnecchiava nel calore meridiano.<br />

<strong>LA</strong> PASQUA DI VECCIA<br />

L’acqua grassa come l’olio, tutta sparsa di detriti, di foglie d’insalata, di bucce di cocomero, di stracci<br />

di carta, di spazzature circolava intorno alle chiglie di alcune paranze, ammarrate vicino al molo,<br />

raccogliendo nel suo moto tardo e uniforme le lordure in piccole isole vaganti, sotto cui le ombre degli<br />

alberi e dei cordami ondeggiavano a spire come viluppi di piante in una corrente.<br />

In mezzo allo specchio dell’acqua giganteggiava un vapore postale della compagnia Florio e<br />

Rubattino, sul quale alcuni marinai meriggiavano fumando. La capitaneria, la stazione, il pontile del<br />

Ferry-Boat erano deserti; i carrelli della decouville erano abbandonati sui binari, e alcuni operai<br />

dormivano all’ombra della draga russando. Per tutto il porto era un silenzio pesante, rotto appena dal<br />

gorgoglio dell’acqua, che fra gli scogli dell’imboccatura e i blocchi di calcestruzzo, avventava di<br />

quanto in quanto una frangia di schiuma.<br />

Una donna giovane, vestiva di colori gai, attraversò ad un tratto a piccoli passi svelti, lo spazio tra il<br />

pontile e la stazione, svoltò verso la ferrovia e scomparve dietro la casa di salute del professor Labate.<br />

Dopo una decina di minuti ritornò, e guardandosi attorno un po’ corrucciata, si diresse lungo il molo,<br />

verso le paranze. Giunta davanti a quella di Veccia lo chiamò, con la sua voce un po’ raume soffiata<br />

attraverso una gola di velluto.<br />

- Veccia che fai?<br />

Veccia, che dava la caccia ai polipi, si voltò.<br />

- Oh, Nannina, come mai in questi luoghi a quest’ora. Anche tu alla pesca?<br />

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- Già, rispose con una smorfia sfrontata la ragazza, ma la mia pesca va male. Cos’hai in quel<br />

mastello?<br />

- Tre polipi magnifici.<br />

- O Veccia, come fai a pescarli; mi fai vedere?<br />

- Vieni qui, bellezza, ne ho uno in vista ch’è più grosso di tutti.<br />

Nannina battendo allegramente i tacchi sul lastricato, si avvicinò alla tavola gittata tra la ranza e il<br />

molo, e tentò porvi il piede; ma il cane di Veccia, un bel Terranova lanuto, guizzando di tra le gambe<br />

del suo padrone, balzò con le zampe davanti sulla tavola, e cominciò a latrare furiosamente. Nannina<br />

spaventata gittò un grido, e si ritrasse pronta a fuggire.<br />

Veccia afferrò il cane per il collare di cuoio, e con due manate sul ceffo lo acquietò.<br />

- Legalo, legalo, gridava Nannina, altrimenti non vengo.<br />

- Non ti tocca, ti assicuro io, non ti tocca: vieni. E alzava la mano in atto di minaccia, contro il cane<br />

che guaiva mugolando, con la testa e il muso acquattati fra le zampe.<br />

Rassicurata Nannina salì sulla tavola, avanzando a piccoli passi incerti, con risa di spavento. Veccia,<br />

che aveva deposta la fiocina, le tese le mani, e la ricevette quasi nelle braccia.<br />

Il cane ringhiava minaccioso.<br />

- Guarda che mi morde, fece Nannina, afferrandosi alle spalle di Veccia.<br />

- Non aver paura, ora lo mando giù.<br />

Ad un cenno del suo padrone il cane infilò la botola, e scomparve nel ventre della barca.<br />

- Questi sono i polipi che hai pescati? – disse Nannina guardando nel mastello.<br />

- Questi. Se vuoi assistere alla pesca di uno siediti qua, su questa gomena, e vedrai.<br />

Nannina si sedette, rivolgendo al suo ospite quel suo caratteristico sorriso di bambina viziata, mentre<br />

Veccia, ripresa la fiocina, si era inginocchiato a prua, guardando ora l’acqua ora la ragazza.<br />

Nannina aveva appena ventidue anni, ma chiunque le avrebbe dati trenta, tanto era sciupata e sfiorita.<br />

Quella sua faccetta tutta rotonda, dalle labbra che parevano due ciliegie, il naso piccolo, sfregiato,<br />

portava i segni delle precoci devastazioni che lasciano il cattivo nutrimento e la lussuria. Ma la sua<br />

carne era ancor fine e bella, ed un nastro di velluto nero che portava stretto al collo dava alla sua pelle<br />

bianca un tono di freschezza singolare.<br />

Veccia la guardava, specialmente nel collo, e sorrideva mostrando i suoi grossi denti anneriti dal<br />

tabacco.<br />

- Come sei bella, Nannina.<br />

- Lasciami in pace, Veccia. Dimmi piuttosto: è questa la tua casa?<br />

- Questa. Qui vivo e qui morrò.<br />

- Ma tu hai un’altra casa a Reggio Campi. Sei ricco tu, Veccia.<br />

- Sì, ma quella l’ho affittata. Che me ne faccio? Non avendo una moglie da mettere dentro, la dò in<br />

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affitto, ed io vivo tutto l’anno in questa barca.<br />

- Perché non prendi moglie, Veccia?<br />

- Perché non trovo. Tu, per esempio, mi vuoi?<br />

Nannina si arrovesciò sulla gomena ridendo.<br />

- Io?, fece, guardandolo fisso, con due begli occhi giallastri, luminosi e stanchi delle veglie d’amore,<br />

ma io sono la moglie di tutti. Veccia mio, che te ne faresti di me?<br />

Veccia la guardò serio.<br />

- Con chi sei adesso, Nannina?<br />

- Con nessuno, rispose la ragazza; sono stanca di farmi mangiare l’anima. Ora mi voglio far monaca.<br />

- Non scherzare, Nannina, fece Veccia molto serio, tu dovresti metterti a posto una volta per sempre.<br />

- E come, domandò la ragazza, sforzandosi di chiudere i suoi labbruzzi a ciliegia, che restavano<br />

sempre, inevitabilmente aperti.<br />

- Se vuoi ci mettiamo insieme.<br />

- Per quanto tempo?<br />

- Per… per molto tempo; e se tu sarai brava io ti sposerò.<br />

Nannina si arrovesciò ancora ridendo di un riso superficiale, poi squadrò Veccia in faccia e nel corpo.<br />

Non era certamente bello. E a lei piacevano gli uomini belli, alti, forti, con la pelle fresca, la<br />

biancheria pulita: i sottufficiali gagliardi che le pagavano il cognac, e le cantavano sulla chitarra delle<br />

canzoni esotiche; i viaggiatori di commercio ben vestiti, con grossi anelli e catene d’oro; gli studenti<br />

d’università così ben rasati, coi baffi morbidi, che parlavano bene, e sentivano di odori delicati e<br />

tabacco fine.<br />

Vi erano delle esigenze estetiche negli amori di Nannina, una specie di gusto d’arte. Il guadagno ella<br />

lo disprezzava.<br />

Veccia invece era un marinaio tozzo, con una larga faccia solcata da rughe sottili e profonde, che<br />

acquistavano un forte rilievo su quella pelle bronzina. Aveva appena toccati i quarant’anni, era sano e<br />

buono, ma di carattere taciturno. Non aveva altra cosa al mondo che il suo cane e la sua barca, con la<br />

quale trasportava da Reggio a Villa S. Giovanni, e da qui sulla costa siciliana, le cassette degli agrumi<br />

dirette in Germania e in Austria, i bergamotti e i carichi d’olio e di grano. I suoi risparmi li depositava<br />

alla posta vivendo con poco. Non frequentava neppure i suoi compagni perché, essendo soggetto ad<br />

attacchi di mal caduco, bastava un bicchiere di vino per farlo andare in furore. Ed allora era terribile.<br />

Una sera in una bettola, davanti piazza Garibaldi, dopo avere bevuti due bicchierini d’anice, venne<br />

alle mani con un ferroviere, e poco mancò non l’uccidesse. Poi fu preso dal suo terribile male, e<br />

rimase più di due ore sotto gli alberi a grugnire come un verro, e a masticarsi orribilmente la lingua.<br />

Nannina ora lo guardava con curiosità, e al pensiero di diventare la moglie di quell’uomo tozzo,<br />

brutto, ordinario che odorava di salmastro come un pesce, sentiva una specie di ribrezzo che le faceva<br />

accapponare la pelle. Ma d’altro canto che vita cruda ed affamata era la sua! Vissuta giorno per<br />

giorno, come una febbre, senza guadagni, perché essa disprezzava il denaro, senza casa, con la sola<br />

gioia dell’amore goduto, che ardeva la sua vita come un fuoco, lasciando in fondo una cenere triste: la<br />

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stanchezza e la malinconia.<br />

- Stati attenta, disse Veccia, interrompendo la meditazione di Nannina, il polipo sale.<br />

- Dov’è, domandò Nannina, avvicinandosi alla sponda della paranza e guardando ansiosa l’acqua.<br />

- Guarda, vedi quell’ombra giallognola laggiù, vicino al molo?<br />

Rasente al muraglione, coperto di alghe e di ricci marini, si scorgeva una macchia giallastra,<br />

fluttuante, che saliva con i movimenti flosci dei tentacoli verso la superficie. Quando fu più vicino<br />

Nannina scorse gli occhi dell’animale spalancati sotto la cortina d’acqua, e diede un grido di<br />

meraviglia e di paura.<br />

Veccia brandì la fiocina, e quando lo credette a tiro, la vibrò con forza, ritraendola rapidamente.<br />

Sulle punte della fiocina si agitavano convulsamente i tentacoli mollicci, grondanti, aggrappandosi e<br />

sgrovigliandosi con una vicenda spasmodica.<br />

- Magnifico! disse Veccia osservandolo.<br />

Nannina rideva e batteva le mani, con gli occhi meravigliati.<br />

- Me lo dai, Veccia, chiese la ragazza; lo mangerò questa sera.<br />

- No, cara; se vuoi, vieni a mangiarlo con me.<br />

- Dove?, chiese la ragazza.<br />

- Qui nella barca.<br />

- Quando?<br />

- Stasera. Cucinerò io, e sentirai che gusto.<br />

Nannina rimase un po’ interdetta. Poi con un gesto rapido si alzò in piedi.<br />

- Va bene, disse, questa sera aspettami. Verrò.<br />

- Verrai davvero?<br />

- Sull’anima mia. Addio Veccia.<br />

Salì sulla tavola e a piccoli passi svelti scomparve sotto gli alberi d’acacia della capitaneria.<br />

Come fu sera, Veccia che aveva preparati i polipi con ogni cura, si sedette in coperta, legò il cane<br />

nella stiva, e stette ad attendere un po’ malinconico.<br />

Già all’estremità del molo brillava la lanterna rossa del faro. Sui fianchi del vapore postale si erano<br />

accese tutte le luci, e qualche lampadina chiara tremolava sul ponte e nelle antenne. Veccia spiava lo<br />

spazio tra il pontile del Ferry-boat e la stazione, per vedere se, nel chiarore che gittavano i lumi degli<br />

uffici, attraverso le porte aperte a due battenti, passasse la figura snella ed elegante di Nannina. Un<br />

impiegato apparve, su uno di quegli usci fumando una sigaretta. Veccia ne fu contrariato. Se Nannina<br />

fosse passata in quel momento; quell’impiegato le avrebbe parlato, forse anche l’avrebbe seguita.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

L’impiegato rientrò.<br />

- Non viene più, disse Veccia tra sé, guardando la collana di lumi che ardevano lungo il viale, oltre la<br />

capitaneria; quando udì il tic-tac di un passo affrettato sotto la tettoia, e tra la mole nerastra di una<br />

locomotiva, ed un enorme cubo di sacchi di zolfo accatastati sul molo, vide sbucare una silhouette<br />

femminile. Era lei.<br />

Nannina si avvicinò rapidamente alla paranza e chiamò a bassa voce: "Veccia!".<br />

- Nannina, fece il marinaio, mettendosi ai piedi della tavola. Ti aspettavo.<br />

- Mi aspettavi?, disse la ragazza; e quando fu nella barca domandò subito: hai preparati i polipi?<br />

- Sì, andiamo.<br />

Scesero nel ventre della paranza. Veccia aveva preparato sopra un asse la sua tavola, con tutta la cura<br />

un po’ goffa che mettono gli uomini nelle bisogne donnesche. Aveva stesa su l’asse una tovaglia, e<br />

sulla tovaglia aveva posti dei piatti di creta smaltata, a piccoli fiorellini verdi, un bicchiere, un fiasco<br />

di vino e delle forchette di ferro. Vi si avvertiva, con l’odore di acre salsedine caratteristico delle stive,<br />

un odor di cucina, in cui predominava il sentore dell’aglio ed un acuto profumo di serpillo.<br />

Si sedettero allegri, e poiché Veccia ebbe scodellato il cotto, un intenso odore vinse quello della<br />

salsedine, ed eccitò l’appetito. Mangiarono ambedue sorridendosi come due amici, chiacchierando e<br />

commentando la bontà della pietanza. Veccia mesceva il vino, ed offriva il bicchiere colmo a<br />

Nannina.<br />

- Tu non bevi?<br />

- No... a me fa male; bevi tu.<br />

Nannina mangiò e bevve con voracità, allegra, lanciando dei frizzi a Veccia che le stava davanti un<br />

po’ cupo, oppresso dal desiderio. Finita la cena risalirono in coperta. Nannina aveva la faccia accesa<br />

per calore della stiva e per il vino tracannato, e si sentiva un po’ annebbiata la testa.<br />

- Vuoi una fetta di anguria?, chiese Veccia.<br />

- Sì, disse la ragazza, andiamo a mangiarla insieme.<br />

Salirono sul molo, passarono davanti la stazione, ed uscirono sul piazzale, davanti la capitaneria. In un<br />

angolo, sopra una tavola stava ritto un uomo in maniche di camicia e alle sue spalle, sotto una specie<br />

di tenda, si levava un grosso mucchio di angurie. Vicino al lume vi era una tagliata a metà, rossa come<br />

un sorbetto di fragola. Veccia chiese due fette, e ne porse una a Nannina, che ne addentò golosamente<br />

la polpa succosa.<br />

Dopo averla mangiata, ripassarono il pontile e si avviarono lungo il molo. Girarono intorno al faro, e<br />

si andarono a sedere sopra uno di quei massi di calcestruzzo che guardavano verso la costa siciliana.<br />

Messina ardeva nella sua triplice fila di lumi, in un alone di chiarori, fino a Ganzirri; più là altri lumi<br />

segnavano altri centri abitati. Sulle Madonie, tagliate come una linea turchina, immateriale nel cielo<br />

verdognolo, ardevano delle grosse stelle rare.<br />

Dal largo veniva un suono diffuso di correnti, ed una brezza refrigerante.<br />

Nannina si sedette, come imbambolata, vicino a Veccia che le diceva delle parole smozzicate.<br />

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- Nannina, hai pensato a quello che ti ho detto oggi?<br />

- Sì, ci ho pensato, rispose la ragazza, e poiché sotto l’influsso del vino tracannato era presa da un<br />

ardente desiderio, gli passò un braccio intorno al collo. Veccia la serrò nelle braccia e la baciò sulle<br />

guance sussurrandole amorosamente: "Piccolina mia, perché non vieni con me? Io ti farò stare come<br />

una signora; nulla ti mancherà, quanto è vera la Madonna della Consolata".<br />

- Sì, sì…, faceva Nannina abbandonandosi; sposami subito, sono stanca di far questa vita che faccio.<br />

Veccia ebbe un tremito. Staccò da sé violentemente la donna e le chiese accigliato.<br />

- Ma dimmi, Nannina… per l’anima tua, sei proprio stanca? Se ti prendo con me farai il tuo dovere?<br />

- Sì… sì… ripeteva macchinalmente la ragazza abbiosciandosi su lui… sono tanto stanca… tanto…<br />

tanto… tanto… - e si mise a singhiozzare.<br />

Veccia oppresso e smarrito la strinse ancora, e come la donna gli si abbandonava inerte, la prese in<br />

braccio e la portò di peso nella barca.<br />

Per la festa di mezzagosto Veccia e Nannina erano sposati.<br />

Nella casa a Reggio Campi Nannina era diventata una mogliettina adorabile, premurosa, pulita; aveva<br />

portato nella vita di Veccia un profumo di giovinezza a lui sconosciuto.<br />

Veccia diventava casalingo, e l’amore della donna andava gradatamente sostituendo in lui l’amore<br />

della barca e delle solitudini marine. Attiguo alla casa, ad oriente, Veccia aveva un orto, che quando<br />

egli era solo, non si era mai curato di coltivare. Due peschi, un mandorlo, un susino e due piante<br />

d’arancio crescevano quasi inselvatichiti, tutti avvampati e divorati da una miriade di rami secchi e di<br />

polloni stenti.<br />

Verso il declinare dell’inverno li potò e con essi potò e foggiò a pergola una vite maestosa di uva di<br />

Lipari. Poi dissodò il terreno, piantò lattughe, agli, cipolle, e per la prima volta in vita sua, dopo avere<br />

per tanti anni amata la grazia e la fioritura mutabile delle schiume, sentì di amare la terra e la<br />

primavera.<br />

Dopo un anno, verso la fine di marzo, Nannina ebbe un figlio; un bel bambinone grosso e roseo come<br />

un bocciolo di rosa. La felicità nella casa di Veccia fu grande, e grandi furono le feste; tanto che i<br />

vicini, malignando sul passato di Nannina, brontolavano: "Che forse è nato il principe ereditario? Chi<br />

sa quanti padri avrà quel piccino. È tanto bello! Possibile che un tappo di sughero come Veccia, con<br />

quella sua faccia corta e rincagnata, potesse mettere al mondo un figlio così?".<br />

Ma erano tutte dicerie senza consistenza, e i primi ad esserne persuasi erano quelli che le mettevano in<br />

giro.<br />

Nannina, da quando si era messa con Veccia, era diventata lo specchio delle amanti. Della sua antica<br />

vita non le rimaneva che una leggera ed istintiva civetteria nell’abbigliarsi e nel trattare. Per il resto la<br />

vecchia Nannina pareva morta per sempre.<br />

Ora le piaceva vedersi nella sua buona casa tutta sua, messa con una certa eleganza, con le tendine<br />

stirate, i garofani e l’origano alla finestra, il grande armadio a specchio, nel quale essa amava<br />

contemplarsi tutta dalle scarpe ai capelli, il letto con il lenzuolo di tela d’Olanda, che sul risvolto<br />

portava, entro una ghirlanda di ricami, l’augurio: "buon riposo".<br />

Aveva tutto quanto era necessario, ed anche qualche cosa di più.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

Le calze di filo di Scozia? Il suo uomo le portava un paio ogni volta che andava a Messina. Di velette<br />

ne aveva quattro, e due bellissimi scialli di lana azzurra, che quando andava alla messa nella chiesa<br />

delle Rosine, la facevano somigliare ad una madonnina. I vestiti non le mancavano. Era stata sempre<br />

ambiziosa per le belle scarpette. Ebbene, ora ne aveva quattro paia: fra cui uno di copale ed una di<br />

pelle cobrata, che le facevano un piedino adorabile.<br />

Cosa le mancava dunque?<br />

Qualche cosa veramente sentiva le mancasse, ma era una cosa torbida, alla quale si sforzava di non<br />

pensare mai.<br />

Le mancavano le terribili febbri della carne, quelle attese così dolci e dolorose, all’angolo di una via<br />

in ombra, di un uomo che si ama, che si desidera con ansia, quelle risse furibonde che la lasciavano<br />

vinta e disfatta, e le chiudevano gli occhi, in un abbandono dolce come una bella morte.<br />

Ora le sembrava di non esser più giovane. Le febbri erano finite, l’amore era diventato un’abitudine<br />

calma e senza spasimi. Si sentiva ingrassare, diventare rotonda e un po’ tarda, e i suoi labbruzzi<br />

piccoli e rosei come due metà di una ciliegia si coloravano di un sangue riposato e gagliardo.<br />

Veccia le voleva tanto bene.<br />

Ma Veccia, ora che aveva un figlio, stava tanto poco in casa. La maggior parte dei giorni Nannina li<br />

passava sola. Accudiva alla casa, ripuliva il bambino; qualche volta nell’orto lavava i pannolini e<br />

cantava. Le canzoni erano quelle di una volta, ma passavano nella quiete tranquilla dell’orto e<br />

dileguavano: lo scenario non era adatto a risuscitare le febbri dell’amore impetuoso. La pergola<br />

frusciante al vento che veniva dal mare, il mandorlo, i peschi e tutta quella ortaglia tranquilla, si<br />

conciliava con la pace del cuore, la calma dei sensi, e col vivere quasi agreste, su quella collina tutta<br />

bella di ulivi, di orti e di alberi in fiore.<br />

Nei pomeriggi Nannina stendeva davanti all’uscio di casa una stuoia e sopra sdraiava il bambino, che<br />

bisbigliava come un passerotto, agitando le manine e le gambette rosee, e spalancando verso il cielo<br />

profondo due occhietti smagati color d’acqua con latte. Essa rammendava dei vestiti, o faceva la<br />

calza. L’aria era morbida e tiepida come la pelurie di un nido; il mare ora schiumava e lampeggiava<br />

fragoroso, tutto fiorito di fiocchi candidi, ora s’increspava appena, e pareva correre verso il sud come<br />

un fiume.<br />

Contro la casa, sopra un piccolo poggio, si vedeva biancheggiare la casermetta della polveriera, con in<br />

alto l’antenna sottile del parafulmine, e sull’angolo la garitta dipinta di grigio.<br />

Nannina era allegra, si sentiva esuberante di salute e quasi oppressa dalla troppa dolcezza dell’aria, e<br />

dalla tranquillità immutabile di quella vita casalinga. Una sottile impercettibile nostalgia le si<br />

affacciava timidamente nel fondo del cuore, ma come il suono di un oboe con la sordina in una grande<br />

orchestra. Nostalgia di che cosa? Non sapeva neppure. Era come se un ricordo di suoni e di giuochi<br />

giovanili, di sapori gustati in un tempo di festa, le passasse nella memoria, tentando di trascinarsi<br />

dietro il cuore, Nannina scrollava la testa, e mandava via i pensieri molesti guardando il suo piccolino<br />

che gorgogliava sulla stuoia sgambettando, con un verso sempre eguale come quello di un giocattolo<br />

meccanico. Gli sorrideva, gli faceva dei segni con la mano e con la testa garrendo: il piccino la<br />

cercava con gli occhi estatici, la fissava, poi apriva le labbra ad uno di quei sorrisi dei bimbi che<br />

hanno la grazia inconsapevole degli spettacoli naturali.<br />

Un giorno mentre Nannina agucchiava intorno ad un paio di calze un po’ ragnate, ed il piccino garriva<br />

ai suoi piedi, passò davanti alla sua casa un drappello di soldati che andavano a dare il cambio alla<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

guardia della polveriera. Li guidava un sergente, bel giovanottone alto, biondo e con un bel paio di<br />

baffi all’aria. I soldati passarono cantando; il sergente attratto non so se più dalla madre che dal<br />

bambino, si avvicinò e chinatosi su la stuoia, cominciò a vezzeggiarlo.<br />

Nannina sorrideva contenta, e quando il sergente si rialzò e la salutò, si fissarono un istante negli<br />

occhi. Nannina aveva addosso una camicetta di mussola a grossi acini azzurri, e come questa era un<br />

po’ aperta davanti, mostrava un angolo del suo petto bianco e turgido. Lo sguardo del sergente la<br />

circondò tutta come una fiamma, e Nannina si sentì stranamente turbata. Quando quello si fu<br />

allontanato sollevò il bambino e rientrò in casa.<br />

Gli occhi azzurri un po’ barbarici, di quel sergente avevano prodotto nel suo spirito l’effetto di una<br />

pertica che rimuova il fondo d’un’acqua limacciosa: la melma gorgogliando sale a spire rapide, gonfie<br />

come le nuvole di un temporale. Una falange di pensieri e di sensazioni tumultuose si addensarono nel<br />

cervello e nel cuore di Nannina. Per distrarsi uscì nell’orto e si mise a cantare, ma dovette rientrare<br />

subito più turbata che mai: sul poggiolo, davanti alla casermetta della polveriera, il sergente ritto e<br />

attento la stava a guardare. Quella notte Nannina non dormì; Veccia era lontano con la paranza, e lei<br />

sola nel letto, ebbe continuamente l’impressione che qualcuno girasse intorno alla casa e toccasse la<br />

porta, e spiasse dietro il cancello dell’orto.<br />

Verso mezzanotte passarono nella via alcuni operai con la chitarra cantando.<br />

O vento portami lontan lontano.<br />

Nannina scoppiò in un pianto angoscioso e irragionevole; tutti i vecchi ricordi l’assalirono come<br />

spiriti perversi: i sapori acri dei vecchi amori, le veglie ardenti in compagnia dei sottufficiali che le<br />

offrivano il cognac, e ballavano a turno il tango argentino, le notti d’amore trascorse con degli<br />

sconosciuti, bei giovani aitanti, che la divoravano di baci fino al delirio, e parlavano dialetti a lei<br />

sconosciuti, dando un profumo nuovo ed eccitante alle dolci parole dell’intimità. Terribile vita ma<br />

vita, che aveva tutti i sapori e tutte le ansie della giovinezza.<br />

Cosa era diventata adesso la sua esistenza? Ingrassava come una quaglia, ma la dolcezza dell’amore<br />

non la conosceva più.<br />

Dopo quel giorno, quasi tutti i pomeriggi, il sergente, passando davanti la casa di Nannina, si fermava,<br />

e scambiava con lei qualche parola. La chiamava madamin e da ciò ella aveva capito che era<br />

piemontese.<br />

Da principio erano complimenti al piccino, poi i complimenti si estesero alla madre: piccole<br />

schermaglie che a Nannina mettevano nel sangue una febbre perversa.<br />

Una sera di settembre che Veccia era a Villa S. Giovanni per certi carichi, il sergente chiese a Nannina<br />

un convegno. Si trovarono nell’orto e fu una resa rapida e furiosa. Nannina ritrovava se stessa.<br />

Dopo quella sera, tutte le notti che Veccia era via con la barca, Nannina le passava col suo sergente,<br />

dimentica di sé, come fuori dal mondo. La vecchia Nannina, la donna irregolare e randagia, assetata di<br />

esperienze sempre nuove, riviveva in lei con l’impeto dei venticinque anni. Anche il figlio in quella<br />

rinascente febbre dei sensi, le diventava indifferente; era una specie di episodio gentile ma secondario,<br />

che non poteva influire sulla sua natura. Non è a dire che non l’amasse. Oh! essa lo amava il suo<br />

piccino; ma quando veniva l’ora del convegno col suo sergente, e il bambino miagolava prima di<br />

addormentarsi, essa montava in furore, e lo batteva per fino, accomunando in una serie di ingiurie il<br />

piccolo e suo padre.<br />

Per la quaresima Veccia fece un lavoro infernale con la barca, e guadagnò un mucchio di quattrini: gli<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

agrumi quell’anno erano stati abbondanti e partivano a tonnellate nelle cassette per la Germania.<br />

L’ultimo viaggio lo fece il giovedì santo, e lasciato il carico la sera del venerdì a Messina, volle<br />

partire a tutti i costi, perché voleva fare la Pasqua in casa.<br />

Il mare era tremendo! Lo stretto ribolliva come un’immensa caldaia e le montagne di schiuma,<br />

sfioccandosi fragorosamente nell’aria, la riempivano di una nebbia umida e tagliente.<br />

La barca, trascinata dalle correnti fortissime dovette accostare verso Catona, e a stento, solo verso le<br />

tre del mattino, riuscì ad entrare nel porto. Veccia, mezzo morto, tutto inzuppato d’acqua, intirizzito,<br />

licenziò i tre marinai suoi compagni, e lasciato il cane a guardia della paranza, si diresse verso casa.<br />

I lumi a gas lungo la via di Reggio Campi languivano fiochi, e le case erano ancora tutte sepolte nel<br />

sonno. Nell’aria veniva la voce sonora del mare, che rombava incessantemente rompendo sulla<br />

spiaggia.<br />

Veccia bussò alla porta di casa sua con un senso di conforto. Attese un poco, e sebbene gli fosse parso<br />

di udir del rumore non ebbe alcuna risposta. Bussò ancora chiamando: Nannina.<br />

- Chi è, rispose Nannina da dentro con voce roca.<br />

- Apri, sono io.<br />

Veccia sentiva all’interno uno stropiccio, un bisbiglio, qualche cosa di agitato e di febbrile.<br />

- Che diavolo fai, Nannina, non apri?<br />

- Un momento che mi vesta, rispose irritata la donna.<br />

Era quasi un quarto d’ora che Veccia era davanti alla porta, ed essa non si apriva. Continuavano<br />

invece i rumori all’interno, circospetti, ma inquieti… A un tratto un uscio, l’uscio che dava nell’orto,<br />

scricchiolò un istante, poi s’udì nella calma perfetta della notte come un passo cauto; ancora il rumore<br />

strisciante del cancelletto di legno, e quindi una fuga leggera e precipitosa…<br />

Veccia ebbe la sensazione che il terreno gli mancasse sotto i piedi.<br />

Intanto Nannina venne ad aprirgli stralunata, deglutendo spasmodicamente e con un gran tremito nella<br />

voce e nelle mani. La porta che dava nell’orto era ancora aperta, e sotto una sedia, vicino al letto,<br />

luccicava qualche cosa.<br />

Veccia, stralunato anche lui, fissò un istante la moglie.<br />

- Dormivi con la porta aperta?, le chiese; e intanto si chinò a raccattare quella cosa luccicante sotto la<br />

sedia.<br />

Era un cinturino militare.<br />

Balzò come un lupo verso la donna e l’afferrò per le braccia scuotendola con furore.<br />

- Chi c’era qua dentro con te?<br />

- Nessuno, rispose la donna, svincolandosi con impeto.<br />

- E questa che cosa è?, chiese ancora Veccia con gli occhi sinistri, mostrandole la cintura che aveva<br />

raccattato sotto la sedia.<br />

Nannina si vide perduta: discinta com’era balzò tra il letto e Veccia, e scomparve di corsa dietro la<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

porta che dava nell’orto. Veccia con un ruggito tentò raggiungerla, ma su gli occhi gli calò una nebbia<br />

rossa, e cadde senza conoscenza sul pavimento.<br />

Quando si destò entrava nella stanza il primo chiarore cinereo dell’alba. Il bambino nella culla<br />

piangeva adagio, con un verso uniforme, come un gattino. Veccia si alzò stralunato e intirizzito, si<br />

guardò intorno ed ebbe un subitaneo orrore di quella casa: una ripugnanza invincibile lo spingeva<br />

fuori da quei muri, dove le vestigia di sua moglie lo sconvolgevano come la presenza di una cosa<br />

immonda. Non vi era altro che gli appartenesse al di fuori di quel bambino, che pareva stesse già a<br />

disagio anche lui, e si lagnasse implorando.<br />

Si avvicinò alla culla, col cuore che gli scoppiava, la testa in fiamme, contemplò un istante il bambino<br />

che agitava i piccoli pugni chiusi sul volto contratto, lo sollevò d’impeto, lo avvolse in una pelle di<br />

pecora che copriva il piccolo lettino, e fuggì nella strada come inseguito.<br />

Era l’alba. Il mare di un grigio argenteo accoglieva già i primi chiarori del giorno, muovendosi come<br />

una immensa corrente verso il Sud.<br />

Il suo rombo sonoro riempiva il silenzio mattinale. I lumi si spegnevano ad uno ad uno. Dalla<br />

campagna giungeva un cantare alternato di galli, e su, verso il cimitero, si udivano già tinnire i<br />

campanelli delle capre, che portavano il latte in città.<br />

Il bambino avvolto nella pelle, e sballottato dal ritmo rapido di suo padre, si era taciuto, e Veccia<br />

correva stringendosi al petto, come fuori di sé. Passò davanti l’ospedale, entrò nel greto di un torrente<br />

incassato entro due alti muraglioni, e sbucò sulla via del porto.<br />

Improvvisamente dal campanile del Duomo partì un rombo, il rintocco della campana grande. Passò<br />

rapido nell’aria mossa dal vento, si ripeté due o tre volte come per accordarsi con la voce del mare,<br />

poi ruppe in uno scampanio vasto e gaudioso, lo scampanio dell’alleluja. In breve tutta l’aria vibrò<br />

della sinfonia immensa delle campane pasquali: il Carmine, Santa Lucia, San Filippo, Santa Caterina,<br />

Archi; da ogni angolo del cielo lo scampanio giungeva ad onde col vento saliva, radeva con le raffiche<br />

le case ancora addormentate, annunziando la resurrezione del Signore.<br />

Nelle case i ragazzi si destavano, agguantavano avidamente la sguta con l’uovo e la salsiccia, e<br />

l’addentavano garrendo. Tutto era in festa, anche il cielo che, come spazzato dalle onde dello<br />

scampanare festoso, dietro il forte di Pendimeli, era diventato abbagliante. Il Signore è risorto,<br />

parevano dire le campane, ogni cuore si rallegri, con la quaresima triste dilegua l’inverno, la terra<br />

fiorisce, il mare si fa più bello, i profumi tornano nei campi, i nidi sugli alberi, le rondini ai tetti e ai<br />

campanili, le zagare su gli aranci e i limoni, i tonni e i pesci spada nello stretto.<br />

Al povero Veccia quelle campane tagliavano il cuore a fette. Ansimando, come un uomo rincorso da<br />

una belva, aveva raggiunta la sua barca, e tanto era stanco, che si dovette sedere sopra una duglia per<br />

prendere fiato. Il suo cane gli era corso incontro, ed ora scodinzolando, con gli occhi inquieti, gli<br />

leccava le mani, annusava il piccolo che si era rimesso a piagnucolare; e poi gli girava intorno con un<br />

uggiolio affettuoso.<br />

Il pianto del bambino si faceva sempre più forte. Veccia gli toccò delicatamente i labbruzzi, con le sue<br />

grosse dita, accostò alla sua la faccia tiepida e fine del piccolo, ne ascoltò il respiro, e fu invaso da un<br />

senso terribile di ribellione.<br />

Sì, avrebbe lasciato il bambino nella barca, sotto la guardia del cane, e sarebbe ritornato a casa in<br />

cerca di Nannina. Dovunque l’avesse incontrata l’avrebbe stracciata coi denti. Tentò alzarsi in piedi,<br />

ma la barca gli cominciò a girare di sotto; una nebbia rossa gli appannò la vista, ed una contrazione<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

spasmodica, la terribile contrazione che egli ben conosceva, gli attanagliò le mascelle. Traballò,<br />

precipitando verso l’orlo della barca, strinse il bambino convulsamente sul petto, e piombò come un<br />

ubriaco nell’acqua. Il cane, disorientato, gittò nel vento due o tre latrati furiosi, spiando il luogo nel<br />

quale era sparito il padrone, poi si tuffò in acqua e disparve anche lui.<br />

Quando il sole spuntò sulla cima di Pendimeli, Nannina avvolta in uno di quei suoi scialli di lana<br />

azzurra che la facevano tanto graziosa quando andava a messa, arrivò trafelata sul molo, e si provò a<br />

scendere nella paranza di Veccia; quando starnutendo, intirizzito, col lungo pelo gocciolante, le corse<br />

incontro il cane che veniva da in fondo al molo. Le scodinzolava intorno guaendo, la guardava coi<br />

dolci occhi color d’agata, poi correva verso la lanterna, balzava tra i massi, e scompariva, per<br />

ricomparire ancora latrando e scodinzolando.<br />

Nannina, tutta smarrita e disorientata, lo seguì tra i massi di calcestruzzo, e ai piedi di uno di essi, che<br />

guardava verso la costa siciliana, vide…<br />

Vide una specie di fagotto scuro tra l’acqua e l’arena.<br />

Veccia, raggomitolato nella terribile contrazione del morbo sacro, dormiva col suo bimbo in braccio.<br />

Un lieve ondeggiamento qualche volta gli diffondeva intorno una frangia di schiuma.<br />

<strong>LA</strong> RAGANEL<strong>LA</strong> DI SAN PASQUALE<br />

L’ultima macchina dei fuochi d’artificio, una pittoresca macchina di canne e di razzi, rappresentante<br />

qualche cosa tra la facciata della chiesa romanica e il castello medievale, si disfaceva sgretolandosi<br />

con uno sfrigolio d’incendio e soffiando verso il cielo di un bell’azzurro notturno gli ultimi fasci di<br />

scintille, quando Lisabetta, salutati i parenti che si godevano lo spettacolo da sopra un poggiolo, si<br />

ritirò nella sua camera, chiuse la finestra e s’inginocchiò davanti una cassa per dire le orazioni della<br />

sera.<br />

Recitò così l’Angelus, indi alcune avemarie, ma fu subito distratta dagli ultimi clamori della festa. I<br />

contadini, con fischi acutissimi, assaltavano la macchina già spenta per impossessarsi dello spago<br />

incatramato che teneva insieme le canne dell’impalcatura; la musica aveva intonata una canzonetta<br />

sopra un motivo di tarantella, e molte voci cantavano sulla piazza.<br />

Lisabetta si distrasse: la preghiera le morì sulle labbra, mentre la sua mente veniva occupata da nuovi<br />

solleciti pensieri. Appoggiò i gomiti sulla cassa, il viso alle palme, e con gli occhi fissi alla fiammella<br />

del lume ad olio che tremolava, esalando un sottilissimo filo di fumo sulla punta aguzza, si mise a<br />

fantasticare.<br />

Il tedio della festa aveva assalita la giovane e bella vedova prima che annottasse. Dopo la morte di suo<br />

marito avvenuta appunto in quel mese, allora faceva un anno, ella non aveva più preso parte neppure<br />

alle solennità religiose; si era isolata e passava il suo tempo sfaccendando in casa, tessendo al telaio e<br />

pensando al morto. Quel giorno la prima volta, per cedere alle insistenze del suocero e di un cugino<br />

venuto da San Luca per la fiera di San Vito, si era recata alla messa grande, aveva visitato il mercato,<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

ed aveva anche accettata un’orzata che il cugino le aveva offerto, insieme con un pugno di confetti<br />

mandorlati. Erano stati appunto quei confetti, col loro profumo di nozze, che l’avevano richiamata alla<br />

malinconia e ai ricordi dolorosi.<br />

"Che vuoi morire di crepacuore?" le aveva detto il cugino prendendola per una mano, e fissandola<br />

negli occhi con una premura troppo eloquente per non essere compresa; "lo so che gli volevi bene; ciò<br />

ti fa onore. Ma cosa vuoi, cara mia, la morte non rispetta nessuno. Non sei tu sola ad essere stata<br />

colpita; bisogna fare la volontà di Dio". Tu ora sei giovane, sei bella come il sole, non puoi passare la<br />

vita a piangere, serrata in casa come una monaca".<br />

Lisabetta aveva alzato un istante in volto al cugino i suoi begli occhi color nocciola, e li aveva<br />

riabbassati rapidamente arrossendo fino alle orecchie. Sebbene quei discorsi la irritassero, ella si<br />

sentiva presa, ascoltandoli, da un turbamento sottile e fastidioso, come sono fastidiose in genere le<br />

cose di cui si teme.<br />

"Che cosa debbo fare?" disse la vedova, abbozzando un amaro sorriso e ritirando la mano; "vuoi che<br />

mi vesta di rosso e che mi metta a ballare?".<br />

"Non dico questo" fece il cugino, "ma dico ch’è venuto il tempo che tu pensi al tuo avvenire. A<br />

ventitré anni non si può restar sola in casa".<br />

"Io non sono mai sola disse con un fil di voce Lisabetta, e voleva aggiungere ch’era sempre<br />

accompagnata dalla memoria del morto; ma gli occhi le si riempirono di lacrime e non poté dirlo.<br />

Tutte queste cose le tornavano ora alla memoria mentre, con la mente svagata nella malinconia della<br />

sera festiva, fissava il lume come una cosa misteriosa, dalla quale dovesse venirle un suggerimento e<br />

un consiglio.<br />

Ella sapeva che suo cugino l’aveva chiesta in moglie al suocero, sotto la tutela del quale ora viveva,<br />

non avendo più alcuno dei suoi parenti diretti; ma non vi era nulla che contrariasse la giovane vedova<br />

quanto l’idea di rimaritarsi. Lisabetta aveva amato suo marito di un amore unico al mondo, uno di<br />

quegli amori che non si ripetono due volte nella vita di una donna. Erano stati tanto poco insieme, che<br />

del periodo matrimoniale rimaneva nella sua memoria il ricordo come di un sogno, un bel sogno che<br />

si chiuda con uno scoppio di pianto. L’aveva visto morire, il suo uomo, come un fiore in un vaso,<br />

giorno per giorno, sicuri l’una e l’altro della sua morte, come erano sicuri della luce del giorno. Il<br />

morbo era di quelli che non perdonano, e di fronte ai quali i medici non possono fare altro che<br />

constatare i progressi inesorabili. A questo punto le tornava a mente un ricordo che la riempiva di<br />

amarezza e di tedio. Ricordava come fosse adesso. Era un pomeriggio di giugno; ella si trovava sola<br />

col malato, e mentre gli scacciava le mosche con una ventola di carta, quello aveva voluto<br />

intrattenerla parlando serenamente della sua morte imminente.<br />

"Io morirò" diceva lui, carezzandola con passione sui capelli; "questa è una cosa certa, perché non<br />

discorrerne? Io morirò, e tu rimarrai vedova a ventidue anni, con tutta la vita davanti a te da godere.<br />

Naturalmente ti rimariterai, ed amerai un altro uomo in vece mia".<br />

"Perché pensi a questo?" aveva detto lei con un nodo alla gola, "non mi credi capace di esserti fedele<br />

dopo la morte?".<br />

"Eh, mia piccina" aveva mormorato sconsolatamente il marito, "i morti coi morti!… E poi io non<br />

vorrei neppure che tu mi fossi fedele fino a quel punto. Solo vorrei…".<br />

Si era arrestato cercando gli occhi di lei con una perplessità umile e ansiosa.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

Ella lo aveva fissato con uno sguardo che pareva dicesse: domandami quello che vuoi, lo farò.<br />

"Solo vorrei che tu mi ricordassi qualche volta dopo morto. Ci siamo voluti tanto bene, e ci separiamo<br />

così presto…".<br />

"Ascoltami:" aveva detto Lisabetta "facciamo un patto. Tu promettimi che dopo morto mi verrai di<br />

quando in quando a visitare".<br />

"E come?" disse lui con un amaro sorriso.<br />

"Come? Nel modo che Dio ti consentirà. A me basta un segno qualunque. Non vivono i nostri morti<br />

con noi in mille modi? Vienimi in sogno, svegliami col rumor di un tarlo, diventa un passero, un’ape,<br />

insomma quel che Dio vorrà, e fa che io t’avverta. Così potrai constatare da te se io ti ricordo e ti<br />

penso anche dopo che sarai morto".<br />

Il malato rifletté un istante, con una strana luce negli occhi febbricitanti, poi disse:<br />

"Sì, chiederò al Signore che mi consenta di farmi sentire da te col suono della Raganella di San<br />

Pasquale. Quando sentirai quel suono sul tuo capezzale sarò io che ti sarò vicino".<br />

Qualche volta, di notte, specialmente nelle case popolane, dove le pareti sopra il letto sono spesso<br />

tappezzate d’immagini di santi, le donne odono un ticchettio minuto come prodotto dalle ali di un<br />

insetto. È la Raganella di San Pasquale, dicono, un segno ammonitore di avvenimenti tristi o lieti che<br />

si preparano per la famiglia. Se il ticchettio è rapido ed inquieto, cattivo segno; una disgrazia è<br />

imminente. Se il suono è invece ritmico e uguale, gli avvenimenti saranno lieti.<br />

"Vuoi, cara?" le aveva sussurrato lui baciandola sulla guancia, "non avrai poi paura quando sarò<br />

morto?".<br />

"O anima mia, paura di te?" aveva risposto Lisabetta; e lo aveva abbracciato piangendo.<br />

Era la novena di Sant’Antonio. Nella strada, mentre essi parlavano così tranquillamente della morte,<br />

passavano i tamburi che precedono il vespro. Poi lui il diciassette era morto, e la giovane vedova era<br />

rimasta sola e inconsolabile nell’attesa di rivederlo in sogno, di udire sul capezzale il ticchettio<br />

convenuto che le annunziasse la presenza del suo caro trapassato. Ma quello non aveva mantenuta la<br />

sua promessa. Non una sera era passata senza che lei, dopo la preghiera, non lo invocasse<br />

appassionatamente. Si segnava, si accucciava sotto le lenzuola e tendeva l’orecchio per udire se, tra i<br />

varî rumori che incrinavano il silenzio notturno, non venisse da sopra il suo letto il tic tac precipitoso<br />

e monotono della Raganella di San Pasquale. Assolutamente nulla! Nella cassa che conteneva il<br />

corredo nuziale qualche tarlo faceva udire il suo rodio lugubre e fastidioso; qualche topo passava in<br />

corsa precipitosa sull’embrice; e l’assiolo cantava negli orti, ma la raganella non l’aveva mai udita.<br />

Il suo cuore si riempiva di tristezza. Neppure in sogno l’aveva mai riveduto.<br />

"E in sogno perché no?" diceva Lisabetta tra sé, assolutamente persuasa che i sogni fossero, più che<br />

ogni altra cosa, nel dominio dei morti. "Una volta sola perché io possa rivedere il suo volto, quel caro<br />

volto che si appannava inesorabilmente nella sua memoria, come una immagine riflessa in uno<br />

specchio sul quale passa un alito caldo.<br />

"Neppure quello! Ahimè, i morti non pensano più ai vivi; essi sono nel mondo della verità, e non si<br />

curano più di noi. Tutto quello ch’è terreno non li tocca più; un muro di bronzo separa la nostra dalla<br />

loro vita, ed ogni corrispondenza coi trapassati è una mera illusione. E allora perché serbarsi fedele a<br />

chi non appartiene più a questo mondo, e non si cura di noi più di quanto noi non curiamo le cose che<br />

non abbiamo mai vedute? Meglio è vivere, amare ancora, godere la gioventù ch’è bella e non ritorna".<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

E lei era tanto giovane, e si sentiva spesso tanto turbata anche dal profumo del vento e dalla vista di<br />

un fiore.<br />

Ora suo cugino l’aveva chiesta in moglie. Era un bel giovane gagliardo, ricco: perché non accettare<br />

quella felicità? A lei piaceva molto, e quel giorno, quando sulla fiera l’aveva presa per mano,<br />

Lisabetta si era sentita in cuore quella specie di sbigottimento che precede l’amore e del quale sentiva<br />

ora una così sottile e misteriosa nostalgia.<br />

Intanto che volgeva questi pensieri nella mente, Lisabetta si era levato il busto e la sottana, poi si era<br />

seduta sul letto – un lettuccio con un saccone ripieno di paglia d’orzo, che aveva preso il posto del<br />

letto matrimoniale disfatto – si era segnata, e dopo avere baciato con la mano una immagine della<br />

Madonna di Seminara che teneva inchiodata con quattro bullette al muro, sul capezzale, si era cacciata<br />

sotto il lenzuolo smorzando il lume.<br />

Ma si era appena adagiata che udì sul suo capo un piccolo rumore secco, sordo come per il battere<br />

dell’ala di un calabrone sopra una foglia. Si mise in ascolto trattenendo il respiro: il suono diventò<br />

rapidissimo, insistente, quasi rabbioso.<br />

"Ah, Vergine Maria!" fece Lisabetta sbigottita, "la raganella di San Pasquale!".<br />

Un brivido di freddo le contrasse la radice dei capelli, il cuore le cominciò a battere furiosamente.<br />

"È lui" disse stringendosi convulsamente le mani sul petto, "è lui! È venuto a trovarmi nel giorno in<br />

cui per la prima volta gli sono stata infedele sia pure con un pensiero fuggitivo. Dunque mi è stato<br />

sempre vicino, mi ha sorvegliata, ha voluto provare la mia fede".<br />

In tante sere che lo aveva invocato e chiamato con il desiderio del cuore, non aveva mai pensato alla<br />

possibilità di aver paura della sua presenza invisibile. Le sembrava che, se lo avesse avvertito vicino,<br />

si sarebbe sentita piena di gioia, che gli avrebbe tese le braccia nell’ombra, come se fosse ritornato a<br />

lei vivo e felice, ed eccola invece in preda a uno spavento indicibile, sbigottita davanti a quel<br />

ticchettio precipitoso, come si è sbigottiti davanti al mistero inviolabile dei morti.<br />

"Anima mia" mormorò rivolgendosi al marito, quasi ch’egli l’avesse potuta udire, "lasciami, non mi<br />

dare spavento!".<br />

E si nascose quanto più poté sotto il lenzuolo, tremando, con un sudor freddo che le bagnava la fronte<br />

e il petto.<br />

Il ticchettio della raganella riempiva ora l’ombra come il suono di un tamburo. Il buio si animava,<br />

sembrava brulicasse di ombre; una presenza terribile come un incubo era intorno. Ella credette di<br />

vedere il morto con la sua faccia emaciata, le labbra livide, semiaperte nell’ultimo respiro, e quella<br />

espressione di misteriosa sofferenza che si stende sul volto dei trapassati, e che pare derivi da un<br />

dolore non più umano.<br />

A un tratto il coraggio l’abbandonò del tutto. Allontanò da sé con un impeto delle braccia il lenzuolo,<br />

balzò a sedere, spalancò gli occhi e volle gridare, ma la voce le morì in gola ed ella cadde sul lettuccio<br />

come una morta.<br />

Quando rinvenne, i pallidi chiarori dell’alba entravano per le fessure della finestra nella stanza<br />

silenziosa. Alcuni passeri pigolavano sui tetti con un ciangottio sommesso, poi cantarono dei galli e si<br />

udirono delle voci di uomini che partivano coi loro asini per la campagna. La stanzetta rigata di sottili<br />

liste di luce rosea sembrava ancora attonita delle paure notturne. L’immagine della Madonna di<br />

Seminara attaccata alla parete, con gli occhi chiari nel volto nero di mora e gli ori visibili della corona,<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

sembrava un idolo misterioso che le rimproverasse qualche cosa.<br />

Lisabetta scese dal letto barcollando come una ubriaca ed aprì la finestra. L’aria era piena di una luce<br />

riflessa che veniva dal mare, dove un vasto incendio di nuvole trasformava le acque lontane in oro<br />

liquefatto. La brocca di terracotta, attaccata a un chiodo nel vano della finestra, era rorida di gocciole<br />

come una foglia al mattino. Due pianticelle di origano tremavano sul balcone in un vecchio tegame<br />

pieno di terra. La vista di quelle pianticelle innocenti dalle piccole foglie odorose le mise nel cuore un<br />

senso di freschezza e di conforto, e la distolse per un istante dalla contemplazione della stanza che<br />

aveva qualche cosa di sinistro e di funebre.<br />

Rifece rapidamente il letto, si pettinò, poi entrò nel telaio, ma subito si sorprese con la mano inerte<br />

sulla cassa e la mente lontana. Le sembrava di essere fuori della vita, in un paese nuovo e misterioso,<br />

pieno di voci strane e di paure, con un piede nella regione dei morti. Tutte le voci intorno, il pigolio<br />

delle galline che razzolavano nella via, le voci dei passeri sui tetti, quelle dei bambini su gli usci,<br />

pareva avessero delle significazioni strane, misteriose, che venissero da un mondo fino allora<br />

sconosciuto e parlassero all’anima sola, che cancellava il suo corpo come una luce troppo intensa<br />

cancella le forme di un oggetto dal quale si sprigiona. Tutte le cose che vedeva: l’ordito, i licci, le<br />

sedie, il subbio, le matasse di filato appese al muro, i pettini per il telaio accatastati sopra una<br />

mensola, l’arcolaio immobile, con la sua forma geometrica in un angolo della stanza, le sembravano<br />

cose vive che fossero sul punto di parlare, di rivelare un segreto per comunicarle uno spavento o una<br />

pena. Tutti i ricordi della sua vita matrimoniale le tornavano ora alla memoria turbandola fino alle<br />

lacrime. Rivedeva il marito con una lucidità impressionante: egli errava nella casa, la fissava con gli<br />

occhi dolorosi di quando era malato, le ricordava la sua promessa e la riprendeva interamente con una<br />

folla di ricordi teneri conturbanti come carezze. L’idea di rimaritarsi l’atterriva come il proposito di<br />

una cattiva azione: l’immagine del cugino, la sua simpatia per lui, il brivido che l’aveva tenuta per un<br />

istante sulla fiera, quando quello l’aveva presa per la mano, le destavano ora in cuore un senso di<br />

ribellione e di spavento.<br />

"Ah no" diceva tra sé, "io non mi rimariterò più: il mio povero morto non vuole, mi reclama per sé, e<br />

io me ne andrò con lui nel regno delle ombre piuttosto che venir meno alla mia promessa".<br />

Da quel giorno Lisabetta visse nella casa quasi fuori del mondo. I suoceri la vedevano languire come<br />

una pianta a cui manchi l’acqua, e non sapevano perché. Invano l’avevano interrogata e sorvegliata;<br />

ella rimaneva chiusa ed ostile nel suo terribile segreto, isolandosi sempre più, persuasa di vivere in<br />

una singolare, misteriosa corrispondenza col morto, che tutte le notti immancabilmente le faceva<br />

avvertire la sua presenza con il palpito precipitoso della raganella di San Pasquale. Era un ticchettio,<br />

un frullare sordo e monotono che riempiva il silenzio della stanzetta, e continuava per delle ore, ora<br />

rapido ora tranquillo, con un ritmo simile a quello di certi vecchi orologi a pendolo, i quali sembra<br />

parlino il linguaggio misterioso del tempo che viene dall’eternità e goccia nell’eternità.<br />

Le prime sere furono di spavento e d’angoscia indicibili. La vedova si chiudeva nella sua stanzetta, e<br />

col lume acceso, trasalendo ad ogni scricchiolio, pallida, stralunata, pregava fino a che la testa stanca<br />

non le ricadeva sulla cassa. Poiché la solitudine la opprimeva ed aumentava le sue paure, per avere<br />

una specie di compagnia nel chiarore della luna e nelle voci notturne che venivano dagli orti, lasciava<br />

aperta la finestra, e, quando era stanca di pregare inginocchiata davanti alla cassa o presso il letto, si<br />

accostava alla immagine della Madonna di Seminara e tendeva la mano nel consueto atto devoto.<br />

Appena le sue dita toccavano la carta, il rapido ticchettio della raganella si metteva a rullare come una<br />

voce acre e petulante di rimprovero. Allora la poverina, con un brivido di spavento, si rifugiava presso<br />

la finestra, vi si rannicchiava in un angolo come un cane minacciato, e riprendeva a recitare<br />

all’infinito le preghiere già dette invocando il morto. Poi la preghiera le moriva sulle labbra, un sopore<br />

inquieto le gravava sugli occhi; si accoccolava con la testa sulle ginocchia, e così passava intere notti,<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

ascoltando in un dormiveglia ansioso le musiche dei grilli e dei rospi che venivano dalla campagna, e<br />

parevano una voce nuova che rivelasse improvvisamente le cose per comunicare coi misteri notturni e<br />

parlare con le lucenti geometrie delle stelle. Qualche volta, destata da uno scricchiolio più vicino,<br />

alzava la testa e guardava nella stanza con gli occhi sbarrati: i mobili che vedeva confusamente<br />

nell’ombra prendevano l’aspetto di cose animate che stessero anch’esse rannicchiate ad ascoltare la<br />

voce del morto. Sembravano vecchie ombre famigliari quivi convenute per una veglia funebre.<br />

Ma dopo le prime paure, a poco a poco Lisabetta si era abituata alla creduta presenza del morto nella<br />

sua casa. In preda a una specie di lucida follia la giovane vedova viveva con lui in una soggezione<br />

macabra e commovente. Le era venuta una specie di mania religiosa, come se dovesse prepararsi<br />

anche lei a morire in un tempo breve. Stava delle mezze giornate in chiesa, assisteva a tutte le<br />

commemorazioni e alle messe dei defunti, faceva spesso la comunione e distribuiva delle elemosine<br />

con una allarmante prodigalità. In campagna non andava quasi più, e il telaio la stancava; girava<br />

invece tutto il giorno per casa come una lunatica, parlando da sola, e ripetendo sempre le stesse cose a<br />

guisa dei pazzi.<br />

I suoceri, vedendola languire di giorno in giorno, pallida, nervosa, con gli occhi febbricitanti e<br />

spaventati, la sottoposero a certi strani esorcismi contro il malocchio. Poi pensarono che quel<br />

malessere fosse effetto della prolungata vedovanza. Nelle persone in cui il lavoro e il naturale ritegno<br />

dell’ambiente distolgono i pensieri dai bisogni sessuali, questi si manifestano con effetti fisiologici<br />

come negli animali e nelle piante.<br />

"È giovane, è sana" diceva il vecchio suocero, "deve rimaritarsi, non bisogna farla soffrire".<br />

Valendosi perciò della inflessibile autorità paterna l’aveva senz’altro fidanzata col cugino di San<br />

Luca.<br />

Ma la povera Lisabetta era diventa un’ombra: il volto disfatto, gli occhi stanchi e stralunati fissavano<br />

nel vuoto come quelli degli alienati. In autunno ebbe una specie di raffreddore con febbri, e quando si<br />

alzò dal letto le rimase una tosserella secca, insistente, che non la lasciava tranquilla un minuto.<br />

Aveva perduto interamente l’appetito e girava per la casa come una lunatica, tossicchiando e recitando<br />

continuamente preghiere per i morti. In quaresima intensificò le pratiche religiose; poi si mise a fare<br />

delle stranezze. Cantava ad alta voce in casa delle poesie amorose, e ciò nelle ore notturne; indossava<br />

gli abiti da sposa e si sedeva vicino al letto, davanti alla immagine della Madonna di Seminara,<br />

fissandola intensamente e parlandole come ad una persona viva. Fu chiamato il medico che la trovò<br />

debolissima e le ordinò delle medicine ricostituenti.<br />

Tutto fu inutile: in aprile la vedova prese letto e non si rialzò più. Erano cominciati abbondanti gli<br />

sputi sanguigni, e il disordine del cervello ora si manifestava con una specie d’idea fissa.<br />

"Mio marito è con me" diceva la malata, "mi parla da dietro l’immagine della Madonna e mi vuole<br />

con lui".<br />

A quell’immagine guardavano ora tutti in casa con un misterioso terrore come a un idolo implacabile,<br />

e, quando la sera il ticchettio della raganella di San Pasquale si faceva udire nella stanza, tutti<br />

s’inginocchiavano esterrefatti e pregavano per la pace del morto, nella cui presenza ora credevano tutti<br />

fermamente, come in una verità di fede.<br />

Col declinare dell’aprile la malata peggiorò, tanto che il suocero mandò un’ambasciata al cugino di<br />

San Luca in montagna perché scendesse a vederla per l’ultima volta.<br />

Quello venne giù per il calendimaggio, e, sebbene la sapesse moribonda, volle portare alla fidanzata,<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

come segno augurale, il majù, il tradizionale ramo di pino e d’alloro che gli innamorati all’inizio del<br />

mese dell’amore depongono, all’alba, davanti al balcone delle loro belle.<br />

Quella notte il paese risuonò tutto di zampogne e di canti: innumerevoli comitive passavano e<br />

ripassavano per le vie. Si fermavano sotto le finestre, cantavano una o due strofette amorose e poi si<br />

allontanavano per riprendere il canto e la danza sotto un altro balcone. Il tintinnio dei tamburelli<br />

lasciava nell’aria notturna come delle scorie d’argento; si accendevano e si spegnevano continuamente<br />

dei lumi, e dei fiori di garofano e dei ramoscelli di origano odoroso volevano dalle finestre nelle vie<br />

come pegni d’amore.<br />

Lisabetta, già ridotta a un’ombra, ascoltava dal letto quelle musiche amorose con una specie di serena<br />

beatitudine. Le idee deliranti l’avevano abbandonata, l’incubo sembrava placato. Ella ragionava ora,<br />

guardava tutti con occhi calmi, pigliava le medicine e sembrava perfino ripresa dalla speranza di<br />

guarire. Quando all’alba entrò nella sua stanza il cugino, portando sulla spalla un ramo di pino e uno<br />

d’alloro fragranti del profumo della montagna, Lisabetta era sopita. Stava distesa supina sopra un<br />

mucchio di cuscini; i suoi capelli castagni, sparpagliati intorno al viso scarno e livido, sembravano<br />

una cosa bella e ricca che non appartenesse più a quel corpo distrutto. Il cugino la guardò con un nodo<br />

in gola e scambiò qualche parola con i suoceri che la vegliavano.<br />

La malata si riscosse ed aprì gli occhi.<br />

"Lisabetta" disse la suocera con un tono accorato, "non vedi chi è venuto a trovarti?".<br />

"Ah" fece Lisabetta con un filo di voce, e si levò a sedere sul letto; "sei tu, Bastiano? Mi hai portato il<br />

majù? Come sono contenta! Avvicinati, fammelo odorare". Bastiano prese i rami profumati e li portò<br />

vicino al letto. La malata tese le mani, strappò alcuni ramoscelli e se li portò alla bocca aspirando<br />

avidamente.<br />

"Che odore di montagna!" disse, e guardò il cugino con dolcezza; "come mi farebbe bene se potessi<br />

venire con te sulla montagna!".<br />

"Ci verrai" rispose il cugino; "non vuoi dunque guarire?".<br />

"Guarire?" fece la malata: "volesse Iddio!" e trasse a sé ancora più vicino i due rami.<br />

In quel punto una fronda di pino toccò appena la immagine della Madonna sul capezzale.<br />

Improvvisamente il ticchettio della raganella risuonò nella stanza rapidissimo, come il rullo di un<br />

minuscolo tamburo.<br />

La malata trasalì, sbarrò gli occhi e fece uno sforzo come per uscire dal letto.<br />

"È lui!" si mise a gridare terrorizzata, e respinse lontano i due rami "è lui… non vuole… non<br />

vuole…".<br />

Annaspò disperatamente con le mani, tentò gridare ancora, poi ricadde sui guanciali con in gola una<br />

specie di singhiozzo, e spirò.<br />

"È andata, figlia benedetta, è andata…" gemette la vecchia suocera passandole una mano<br />

amorosamente sulle palpebre semiaperte "non soffre più…".<br />

Bastiano guardò un istante accorato la morta, poi si avvicinò d’impeto al capezzale e, allungando la<br />

mano, con un gesto rabbioso, strappò l’immagine inchiodata sul muro.<br />

Tutti balzarono in piedi esterrefatti.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

Sulla parete, proprio nel centro del rettangolo dove era inchiodata l’immagine lacerata, un bombo<br />

grigio, peloso, palpitò con le ali un istante, si staccò dal muro ronzando, poi, dopo un rapido giro nella<br />

stanza, infilò la finestra e scomparve nell’aria rosea della mattina di maggio.<br />

PICCO<strong>LA</strong> MADRE<br />

Alla signora Molari da parecchi anni non era capitata più una donna di servizio brava, laboriosa e<br />

affezionata come quella friulana. Poteva avere vent’anni e sebbene fosse robusta e discretamente<br />

nutrita, aveva l’aspetto pallido e sofferente di chi esce appena da una malattia. Era tutt’altro che<br />

brutta, con bei capelli castagni, occhi chiari e grandi e un sorriso buono; solo nella sua persona si<br />

notava un contrasto singolare tra il volto assolutamente fresco, da fanciulla, e una certa maturità di<br />

espressione, quel non so che di molle e di languido che si riscontra nelle giovani spose.<br />

In casa era un tesoro. Timida, che pareva volesse dissimulare la sua presenza, silenziosa come una<br />

farfalla, ubbidiva senza discutere, non aveva grilli per la testa e non prendeva conversazione con le<br />

ragazze del vicinato.<br />

L’unica cosa da notare nella sua condotta era questa: che lei aveva pregato, con una certa insistenza,<br />

di essere lasciata libera la domenica all’una e mezza, perché voleva partire col tram di Monza, dove si<br />

recava a passare il pomeriggio in casa di una sua zia che abitava in una cascina, tra Sesto e Monza. E<br />

quando veniva la domenica, sbrigava rapidamente le sue faccende e partiva come un razzo, ritornando<br />

la sera sempre un po’ tardi.<br />

- Curiosa questa zia – disse un giorno a tavola il signor Molari – purché non sia uno zio.<br />

- Non credo – fece la signora che aveva preso una vera affezione alla servetta friulana – mi pare tanto<br />

buona, anzi per certi argomenti mi pare anche sciocca.<br />

- Può darsi – disse il signor Molari – tanto sveglia non pare neanche a me. Certo è curioso che,<br />

nell’unico giorno che ha libero, lasci la città, e vada a passare quelle poche ore in campagna.<br />

Da lì a qualche settimana la signora si accorse che la ragazza, quando usciva la domenica per il suo<br />

pomeriggio festivo, portava sempre con sé un involtino che pareva contenere biancheria. Insospettita<br />

fece una rapida ispezione al guardaroba, ai suoi vestiti, all’argenteria. Nulla! Tutto in perfetto ordine.<br />

Eppure la servetta qualche cosa portava in quel fagotto, e quel qualche cosa lo aveva preso in casa,<br />

perché fuori non le risultava avesse acquistato nulla. La condotta della ragazza cominciava a<br />

diventarle un po’ enigmatica.<br />

Un pomeriggio di domenica dopo che la ragazza era uscita, la signora si recò nella soffitta, dove<br />

quella aveva la sua stanzetta per dormire, e si mise a rovistare nei cassetti in cerca di qualche lettera<br />

rivelatrice. L’armadio era chiuso. Nel cassetto del tavolino da notte trovò un vecchio portafoglio di<br />

cuoio, con dentro alcune ricevute di vaglia postali. I denari erano spediti a certa Anna Ricca, cascina<br />

Brambilla, Sesto San Giovanni, e ciò regolarmente tutti i mesi. D’invio di denari alla sua mamma non<br />

una traccia. Era la zia quell’Anna Ricca a cui la servetta mandava ogni mese il suo salario? La sera<br />

stessa la signora Molari ne parlò al marito.<br />

- Io comincio a preoccuparmi – disse la signora – la condotta di questa ragazza non è affatto chiara.<br />

Questa misteriosa zia a cui manda i denari, tutti i mesi, questa premura di andarla a trovare tutte le<br />

settimane, è una cosa tutt’altro che rassicurante.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

Il signor Molari si strinse nelle spalle:<br />

- Facciamola sorvegliare da un’agenzia – disse.<br />

- Io propongo un’altra cosa – disse la signora. – Domenica ventura andiamo anche noi in macchina a<br />

Sesto. Con l’aria di fare una passeggiata, vedremo dove va a finire.<br />

Difatti la domenica i signori Molari, dopo che la ragazza fu uscita di casa si portarono a Sesto, ed<br />

attesero l’arrivo del tranvai. Qualche minuto dopo le due questo giunse. La servetta scese da uno<br />

scompartimento di terza classe e, tutta premurosa, senza guardarsi intorno, prese la via della<br />

campagna. I signori Molari la lasciarono allontanare di qualche centinaio di metri, per poterla<br />

sorvegliare senza essere eventualmente riconosciuti, e si misero a seguirla. La ragazza filava con<br />

passo svelto e con aria allegra, tenendo il margine sinistro della strada. La giornata di giugno era<br />

luminosa e un po’ fresca, perché durante la settimana, tutti i pomeriggi era piovuto qualche ora, e le<br />

biade abbiosciate al suolo dall’impeto del vento e degli acquazzoni, formavano delle ampie zone<br />

cinerine nel verde lucido e rigoglioso della campagna.<br />

La servetta avanzò sullo stradone provinciale per un buon chilometro, poi imboccò un viottolo e si<br />

avviò verso una casa di campagna, di cui si vedeva chiara l’aia, dietro una siepe di biancospino e di<br />

sambuco. Sull’uscio di quella casa stava una donna alta e forte, ancor giovane, con un lattante in<br />

braccio. Quando vide la ragazza, la indicò con la mano al piccino, e le mosse incontro. La servetta si<br />

mise a correre e, quando la raggiunse, si lanciò sul bimbo, se lo prese in braccio e cominciò a<br />

tempestarlo di baci, con gridi di gioia.<br />

I signori Molari, che si erano fermati sullo stradone, dietro una specie di stecconato, si guardarono<br />

interdetti.<br />

- Hai visto, - chiese la signora al marito, - di chi è quel bambino?<br />

- E che cosa vuoi che ne sappia io? – fece il signor Molari.<br />

- Sarebbe un bel caso che fosse della ragazza.<br />

- E perché un bel caso? Sarebbe normalissimo invece.<br />

- Io la credevo una santarellina.<br />

- Oh! sì, - disse il signor Molari – di santi al giorno d’oggi ce n’è pochi anche in paradiso.<br />

- Andiamo fino alla casa – disse la signora Molari, in cui la curiosità diventava un po’ dispettosa –<br />

faremo finta di cercare delle uova fresche. Il signor Molari la seguì.<br />

La corte era deserta. In un angolo un gruppo di galline razzolavano sopra un truogolo intriso di un<br />

pastone di crusca.<br />

Le voci delle donne ora si udivano più chiare e comprensibili.<br />

Questa settimana aveva un po’ di tosse – diceva la contadina – e non teneva il latte. Gli ho dato da<br />

mangiare polenta e fagioli: sta benissimo.<br />

- Non sapete – diceva la ragazza – che è più grosso di quello della mia padrona che ha dieci mesi?<br />

Guardate, questa cuffia non gli va…<br />

Ma i passi dei sopravvenienti e lo scoccolare corale delle galline allarmate interruppero la<br />

conversazione, e il viso della contadina, rubicondo come fosse dipinto, si affacciò sull’uscio mentre la<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

signora Molari diceva: - Non c’è nessuno qui?<br />

La servetta si alzò in piedi, pallida, e si fece sull’uscio anche lei. Aveva in mano una cuffietta color<br />

rosa con nastro azzurro, e il bimbo in braccio, un bel bambinone solido, con una grossa testa coperta<br />

da una fine calugine bionda.<br />

- Oh, signora, voi qui? – disse la ragazza, e rimase sulla soglia interdetta, guardando ora la padrona<br />

ora la contadina.<br />

- Già – disse la signora ostentando una certa sicurezza – abbiamo fatto una passeggiatina in campagna<br />

ed abbiamo pensato che qui si debbono trovare delle uova fresche. E tu?… È tua zia questa donna? – e<br />

indicò la contadina.<br />

- No, signora, io sono la sua balia – fece la contadina.<br />

La servetta diventò bianca come un cencio, abbassò gli occhi e disse con un fil di voce:<br />

- È la mia balia, e questo bimbo è mio.<br />

- Oh, bella! – fece la signora, con una punta di ironia – allora sei sposata?<br />

- Non sono sposata, signora, ma il bimbo è mio…<br />

Gli occhi le si erano riempiti di spavento e di lacrime. La contadina che se ne accorse, da principio si<br />

guardò intorno inquieta, poi con uno di quegli impeti grossolani e generosi della gente di campagna, si<br />

mise a parlare gesticolando:<br />

- Oh perché piangi adesso?… È la tua padrona questa signora? E non lo sapeva? Bene… ora lo sa. Di<br />

figli ne fa anche lei, non è vero, signora? Quando si è giovani i figli si fanno volentieri.<br />

- Ma sicuro – disse la signora Molari ridendo, - solo che questa sciocchina non mi aveva mai detto<br />

nulla. – Si avvicinò alla ragazza e si mise a vezzeggiare il piccino… - Guarda come è carino, e come è<br />

forte!… Quanti mesi ha?…<br />

- Sei mesi, signora – rispose la servetta.<br />

- Ma è una meraviglia! Guarda Mario – e chiamò il marito. È più grosso del nostro che ne ha dieci…<br />

Poi si rivolse alla servetta: - Perché non me lo hai mai detto che avevi un figlio?…<br />

- Perché temevo che mi mandaste via, signora – rispose la ragazza, - ed il mio mensile alla balia lo<br />

pago col mio salario.<br />

- Mandarti via… e perché? – fece la signora… Meno male che hai avuto il coraggio di tenerlo… E<br />

suo padre dov’è?<br />

La ragazza fece il viso desolato.<br />

- Non lo so, signora – e raccontò la sua storia.<br />

Era una storia comune, la storia di molte persone di servizio che finiscono col cadere nelle mani o dei<br />

padroni o dei compagni di lavoro, o dei soldati o dei vagabondi. Qui era stato proprio un vagabondo,<br />

uno di quei randagi che trascorrono i pomeriggi sdraiati sulle panche del parco e occhieggiano le balie<br />

e le cameriere. Lei era venuta da poco dal suo paese, era ancora una sciocca, inesperta, che non sapeva<br />

neppure come erano fatti gli uomini.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

- Quando mi accorsi di essere incinta, signora – diceva la ragazza, con gli occhi accesi e febbrili –<br />

pensai di uccidermi ma non ebbi il coraggio. Andare a casa mia non osavo. Mi feci forza e ora sono<br />

contenta di avere un bambino mio al mondo. Quando venne lei a prendermi all’agenzia ero liberata<br />

appena da un mese. Spero non mi manderà via per questo, signora.<br />

- Ma no… benedetta… - fece la signora Molari intenerita, - mi dispiace che tu me l’abbia nascosto<br />

fino adesso. Poi prese il bimbo in braccio e continuò a carezzarlo, tentandogli il piccolo mento col<br />

dito medio e dicendogli mille cose futili.<br />

Intanto la contadina aveva portate delle uova grosse come ciottoli, e le faceva vedere nel grembiule<br />

aperto.<br />

- Guardate signora come sono grosse, e fresche come l’acqua! Quando ne avete bisogno ditelo alla<br />

ragazza: ve ne mando. Poi si mise a parlare con la voce aspra e franca di suo marito, della campagna<br />

che prometteva bene, dei suoi figliuoli che erano tre e ne facevano da appendere.<br />

- Guardate – e indicò un ragazzo di circa sei anni che sbucava da dietro una siepe. In mano portava,<br />

appesa ad un cappio fatto con un filo di avena, una lucertola, che ancora si dibatteva dimenando qua e<br />

là la coda e la testolina verdognola.<br />

- Questo è il maggiore… un demonio, ma a questo piccino vuol più bene che ai suoi fratelli, volete<br />

vedere?… Si rivolse al ragazzetto: - Sai perché sono venuti questi signori? – disse – per portarsi via il<br />

nostro baliott.<br />

Il bimbo aggrottò le ciglia, diede uno sguardo di sbieco ai due forestieri, poi prese un sasso, lo mostrò<br />

al signor Molari, facendo l’atto di lanciarglielo contro e si nascose come in agguato dietro la siepe.<br />

Si misero tutti a ridere. La servetta friulana era felice, e la signora Molari pensava vezzeggiando il bimbo: Grandezza<br />

della Provvidenza! Questo piccino che è venuto al mondo senza amore, ha già tanta gente che lo ama. E un po’ sentiva<br />

di amarlo anche lei, sebbene lo conoscesse da un’ora.<br />

ASSOLUZIONE<br />

Suor Benedetta e Suor Clementina vanno alla cerca. Hanno finito ieri il loro turno in città alla cura dei<br />

malati e al soccorso degli indigenti; ora battono la campagna per raccogliere offerte nelle cascine.<br />

Il tempo è rigido ma bello, con un sole splendente e un cielo di un azzurro come quello che si vede<br />

dietro le aureole dei Santi negli affreschi delle chiese di campagna. I pioppi e i salici sono spogli, i<br />

canali argentei, l’erba superstite dei fossi, dov’è in ombra, è bianca di brina.<br />

Dietro i cancelli delle ville si vedono i giardini brulli vigilati da qualche cipresso. Sembrano angoli di<br />

cimiteri.<br />

Le due suore vanno per la via solitaria, vestite di quel nero da rondini, sul quale le cuffie a grandi ali<br />

si muovono leggermente come candidi uccelli uscito dall’Arca.<br />

Suor Clementina cammina a testa bassa, malinconica, la mente svagata, le mani sul seno e risponde a<br />

monosillabi alle domande della sua compagna. Essa è la più giovane perché non ha che 35 anni e,<br />

sebbene quel vestito la renda un po’ goffa, ha pure una sua delicata grazia nel viso pallido e<br />

sofferente.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

- A che cosa pensi, suor Clementina – le domanda suor Benedetta – non sei contenta di venire in<br />

campagna alla cerca? O hai lasciata qualche malata che ti era particolarmente cara?<br />

- Ah! Come ho pianto ieri, suor Benedetta, come ho pianto! È morta la più cara delle mie malate.<br />

Suor Clementina tira fuori dall’ampia manica una pezzuola, si asciuga gli occhi e poi comincia il suo<br />

racconto.<br />

- Ricordi il caso di quella giovane che ci fu segnalato questo autunno dal parroco di San Francesco da<br />

Paola?<br />

- Sì, sì. Quel biglietto trovato nella cassetta delle elemosine?<br />

- Appunto. Il biglietto, se ricordi, diceva: "Forse domani mi metterò a letto e non potrò alzarmi. Sono<br />

sola. Mandate una suora che mi visiti di quando in quando e che mi porti qualche giornale. Nel nome<br />

di Dio, grazie. Una giovane malata".<br />

Ad andarla a trovare fui incaricata io.<br />

Tanto mi fu cara quella piccola graziosa inferma che di ciò che si riferisce a lei io ricordo tutto, fino ai<br />

minimi particolari. Ricordo, per esempio, che quella mattina, quando mi recai a trovarla, io non vidi<br />

che cose gentili, aspetti di grazia: bambini che andavano a scuola, colombi, e una schiera di ragazzette<br />

che entravano in chiesa col velo bianco per la prima comunione.<br />

Pareva che circostanze esterne, provvidenziali, volessero predisporre il mio cuore alla conoscenza di<br />

quell’essere infelice e delicato, al quale doveva legarmi un interesse così tenero, e… Dio mio… così<br />

condannevole per me, che non debbo più amare le cose del mondo.<br />

La cameretta dove abitava era al quinto piano, una stanzuccia linda, ma poverissima, la cui finestra<br />

guardava sopra un parco signorile. La ragazza non era a letto, ma distesa sopra un sedia a sdraio. Era<br />

senza calze, con un paio di pianelline di seta rosa ai piedi e stava tutta raggomitolata in una pelliccia<br />

di coniglio dal colletto grigio. Non aveva più di vent’anni, era esile, graziosa, con una piccola bazza,<br />

due occhi bruni assai belli, e i capelli, di quel castano denso che tende al marrone, davano una<br />

espressione quasi esotica al suo volto olivastro.<br />

Dall’unica finestra a davanzale entrava un bel tappeto di sole caldo ed ella, inquadrata in quell’oro<br />

stava distesa come una gattina, tendendo le mani e i piedini bianchi come quelli di una bambola di<br />

porcellana.<br />

Quando venne ad aprire, da principio rimase un po’ stupita: si vede che non mi aspettava in quell’ora<br />

mattutina. E poi noi abbiamo un aspetto così lugubre e misero, che solo la estrema miseria ci accetta<br />

volentieri; e quella poveretta non era ancora all’estremo.<br />

- Siete malata – le dissi tentando un sorriso. – Posso esservi utile in qualche cosa?<br />

- Venite, venite, sorella. Non v’aspettavo. Ma siate la benvenuta. Non speravo che il mio biglietto<br />

avesse raggiunto il suo scopo.<br />

Grazie. Potete stare un quarto d’ora qui? Un quarto d’ora soltanto.<br />

Entrai e mi sedetti vicino a lei che aveva ripreso il suo posto. Dai pomelli arrossati e dagli occhi un<br />

po’ eccitati e brillanti mi accorsi che aveva la febbre. Ella, però si mostrava ilare e mi parlava con un<br />

bel sorriso infantile.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

Sono molto malata, sorella, ho avuto la febbre tutta la notte e forse l’ho ancora. Ma non mi sento<br />

abbattuta. Ho anche un po’ di danaro e per adesso non ho bisogno di niente. Quello che mi spaventa è<br />

la solitudine, l’idea di non potermi più alzare e di rimanere qui abbandonata senza vedere nessuno.<br />

Qui vicino a me non c’è che povera gente, sempre via di casa. Venite a vedermi, sorella, qualche<br />

volta, e portatemi un giornale. Io ho bisogno di leggere quello che succede in città, altrimenti muoio. –<br />

E sorrideva con una smorfia graziosa, come se avesse detto una birichinata.<br />

- Quanto tempo è che siete malata? – le chiesi.<br />

- È più di un anno, ma non mi sono mai curata. Ho continuato a star fuori, a fumare, a divertirmi, e<br />

capirete, così la vita se ne va. Del resto io sono già rassegnata, sorella, quasi contenta. La mia era una<br />

via senza uscita; è meglio che muoia presto.<br />

E sorrideva senza malinconia, come se parlasse, non della morte, ma di un sonno, di un sonno dolce e<br />

stanco dopo una festa.<br />

Quel giorno la lasciai subito, promettendole di ritornarci. Difatti mi recai da lei tutte le settimane e per<br />

qualche tempo la trovai ancora in casa. Stava meglio, non aveva più la febbre e cominciava anche a<br />

fare qualche passeggiatina. La disgraziata si divertiva anche!<br />

Ah, Signore, perché avete dato tanto potere di seduzione al peccato?<br />

Verso i primi di dicembre non la trovai più in casa e sospesi le mie visite, ma non potevo ricordarla<br />

senza una irragionevole passione. Mi sembrava di pensare ad una mia sorella, ma che!… Basta… Non<br />

riesco ad esprimermi…<br />

Ieri mattina non so per quale misteriosa ispirazione, mi venne un acuto desiderio di rivederla, e salii<br />

alla sua soffitta.<br />

La ritrovai in casa, difatti, ma ahimè! in quali condizioni! Non era che un’ombra tutta occhi e capelli.<br />

Quando entrai nella sua stanzetta, questa era piena di un fumo acre e bianco: la povera figliuola aveva<br />

esaurite tutte le sue risorse, impegnato o venduto tutto quanto aveva in casa, e solo si era tenuta la<br />

pelliccia, perché, essendo senza fuoco, le serviva per scaldarsi.<br />

Difatti la trovai con la pelliccia addosso davanti al caminetto.<br />

Non aveva, in casa che una scopa e per vedere un po’ di fiamma, le aveva dato fuoco. La saggina<br />

umida e sudicia, dopo una piccola vampata, bruciava lentamente, esalando un fumo spesso e fioccoso<br />

come lana, che un po’ prendeva la via del camino, un po’ si spandeva nella stanza. Lei stava<br />

raggomitolata in terra, avvolta nella pelliccia, con le mani tese verso quel misero fuoco, e tossiva<br />

penosamente come un piccolo cane malato.<br />

Quando mi vide entrare, mi tese le braccia con un lampo di quel suo bel sorriso di una volta.<br />

- Il Signore vi ha mandata, sorella – mi disse. – È giunta l’ora. Forse oggi morirò. Giacché ho finito<br />

tutto me ne vado anche io: me ne vado in tempo per non soffrire.<br />

La vista di quella scopa che bruciava affumicando la stanza, mi diede un orribile spasimo al cuore.<br />

- Dio mio… Dio mio – le dissi – perché non mi avete mandata a chiamare prima? Io non sapevo…<br />

La feci sdraiare sul letto, ed essa, raggomitolata nella pelliccia, trasalendo di quando in quando, mi<br />

narrò come aveva dato fondo a tutto quello che aveva: oro, gioielli, vestiti e perfino certi pastelli dei<br />

suoi amici pittori che l’avevano ritratta quando era sana.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

La consigliai di mettersi sotto le lenzuola, andai a prendere un po’ di legna ed accesi un bel fuoco; e<br />

quando la vidi tranquilla e quasi felice, con gli occhi sulla fiamma, le cominciai a parlare della cosa<br />

che più premeva a me: la sua anima.<br />

- Figliuola mia – le dissi – Iddio vi guarirà se vorrà, nulla a Lui è impossibile; ma la salute dell’anima<br />

può preparare, non danneggiare quella del corpo. Avete pensato, mia cara, all’anima vostra? Da quanti<br />

anni non fate la santa comunione?<br />

- Da molti anni, sorella, da quando ero bambina.<br />

- E allora? Nelle vostre condizioni la più elementare prudenza consiglia il ricorso ai santi sacramenti.<br />

Fate un esame di coscienza, figliuola, ricordate i vostri torti: poi chiameremo un confessore e voi<br />

chiederete il perdono dei vostri peccati. Lo farete, cara?<br />

- Se voi lo desiderate – mi rispose con molta franchezza – io lo farò ma vi assicuro che non saprei che<br />

cosa dire al confessore. Io non ho peccati.<br />

- Come, non avete peccati? Figliuola, tutti ne abbiamo.<br />

- Ebbene, sorella, io non ne ho. Non ricordo di avere fatto mai male ad anima viva, non so che cosa<br />

sia l’invidia, l’odio; ho sempre amato i poveri, e quando potevo, facevo tanta elemosina. Di che cosa<br />

mi dovrei accusare?<br />

- Così dicevano i farisei – dissi io con severità – e il Signore non li amava. Voi, se avete fatto male ad<br />

altri, l’avete fatto a voi stessa, avete sperperato la vostra gioventù, il bel dono che Dio vi aveva fatto,<br />

l’avete sciupata innanzi tempo, procurandovi questa malattia, che è anche un ammonimento. Questo<br />

dovrete dire al confessore, di questo dovete pentirvi per chiedere a Dio la saluta dell’anima prima, e<br />

poi quella del corpo.<br />

La poverina, quando mi ebbe ascoltato, chinò la testa e rimase un po’ pensierosa; poi rispose,<br />

fissandomi intensamente negli occhi:<br />

- No, sorella, non posso. Il Signore mi perdonerà se vorrà, ma io non posso pentirmi di quel poco di<br />

gioia che ho goduto nel mondo. Comprendetemi: non è che non voglia, non posso. Direi una bugia a<br />

me stessa e a Dio, e Lui, che legge nel fondo dei cuori, non accetterebbe il mio falso pentimento.<br />

Tante volte l’ho ringraziato al mattino dopo una notte di amore, e con tanto abbandono, con tanta<br />

sincera riconoscenza, che mi sembrerebbe di offenderlo se ora mi presentassi a Lui per dirgli che odio<br />

quello che ho sempre considerato come un suo prezioso dono, una grazia della vita che Lui mi aveva<br />

data. Pensateci anche voi, sorella. Che cosa sarebbe stata per me la vita senza quel poco d’amore che<br />

ho goduto? Venti anni opachi di sofferenze, di dolori e di rinunzie. Solo l’amore mi aprì le porte della<br />

gioia, solo per esso ho ringraziato Iddio e lo ringrazio di avermi fatta nascere.<br />

Io non ho mai pensato di fare peccato amando, perché l’ho sempre fatto senza malizia, senza<br />

ambizione e senza interesse. Ho amato per un bisogno del cuore e questo è rimasto sempre puro.<br />

Per pochi anni soltanto conobbi la gioia di vivere che… Dio mio… è fatta di cose così piccole ed<br />

effimere, ma che pure sono le sole cui siamo adatti. Breve tempo! La mia piccola vita si è consumata<br />

rapidamente. Io non mi lagno, la benedico invece, perché la vita è un dono di Dio e va sempre<br />

benedetta.<br />

Parlava avidamente, con la voce rauca, gli occhi socchiusi, come se parlasse a se stessa e approvasse<br />

le parole. Ma il suo respiro crepitante mi faceva rabbrividire.<br />

A un tratto ebbe un colpo di tosse che parve dovesse soffocarla. S’interruppe portandosi le mani alla<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

gola; poi mi pregò di aprire la finestra perché si sentiva mancare il respiro.<br />

L’aprii. Fuori vi era un nebbione scuro che fumava sui tetti e su gli alberi del parco. Un fiotto d’aria<br />

fredda entrò nella stanza.<br />

Ella riprese: "Sento che muoio, sorella, guardate in quella cassetta – me ne indicò una piccola di<br />

mogano sotto un tavolino, dentro vi sono delle lettere. Prendetele e buttatele sul fuoco".<br />

Io, come intontita, andai a prendere la cassetta, l’aprii e gliela portai sul letto. Vi erano dentro un<br />

quarantina di lettere, varie di buste e di scrittura. Ella le prese, le slegò, le rimestò un poco, come se<br />

volesse carezzarle tutte, poi me le porse. Io mi avvicinai al caminetto e le lasciai cadere sulla fiamma.<br />

La povera malata le guardava accartocciarsi e consumarsi lentamente, con un volto triste ma<br />

rassegnato. Quando furono tutte consumate la fissai negli occhi: pareva avessero visto calare nella<br />

tomba qualcuno.<br />

- Adesso è proprio finita – disse la poverina – adesso pensiamo all’anima, sorella. Io non voglio il<br />

confessore. Assolvetemi voi dei miei peccati, voi che siete come me una donna. Fatemi morire<br />

tranquilla!<br />

Suor Clementina sospende il suo racconto. Tira fuori ancora dalla manica la pezzuola e si asciuga il<br />

naso.<br />

- Dio mio, Dio mio… abbiate pietà di me!…<br />

- E tu – chiede suor Benedetta – che cosa hai risposto?<br />

- Io?… - fa, quasi atterrita, suor Clementina – io l’ho baciata sul volto e sui capelli e le ho mormorato:<br />

in nome di Dio e per la potestà che è data ad un cuore di donna, io ti assolvo di tutti i tuoi peccati.<br />

<strong>LA</strong> STRANIERA<br />

Quando scesero in quella stazione di un paesello della riviera jonica, in terra era già il crepuscolo, ma<br />

in alto e verso occidente era diffusa ancora una luminosità intensa.<br />

Dal treno deserto non scesero che loro due, marito e moglie, e un ferroviere con una lanterna ad<br />

occhio di bue e un fagotto sudicio sotto il braccio.<br />

La fermata fu brevissima. Appena essi ebbero posate le valigie in terra, il capotreno si sporse dal<br />

bagagliaio, emise un fischio, strano in quel silenzio melodioso della campagna, e tutto il convoglio si<br />

mosse cigolando.<br />

- È il mare? – chiese lei, udendo lo sciacquio dell’acqua dietro il muretto della ferrovia, e stupita di<br />

vederlo tanto piccolo e tranquillo, come un lago.<br />

- Sì, è il mare.<br />

- Andiamo – disse lui, e si caricò sulle spalle la sua grossa valigia, che sembrava una cassa da<br />

violoncello.<br />

Lei prese in mano quella più piccola e continuava a guardare intorno, trasognata, ora il capostazione,<br />

che seduto ad un tavolo del suo Ufficio continuava a battere il tasto di una macchina, ora il lume a<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

petrolio.<br />

- Che fai – disse ancora lui – non vedi che siamo giunti? Fra un quarto d’ora saremo a casa mia.<br />

Andiamo che i miei ti aspettano.<br />

- Aspettavano lei i parenti di suo marito? Ma se non la conoscevano neanche?<br />

Si provò a sorridere, ma il suo sorriso fu smorzato da una misteriosa paura. Le sembrava di essere<br />

giunta in un altro mondo, in uno di quei paesi coloniali di cui parlano i libri di viaggi, dove sotto un<br />

cielo mirifico, nelle notti solenni, si attende da un momento all’altro di udire il ruggito del leone.<br />

Veramente non vi era nulla di selvaggio intorno, ma le tracce del mondo civile, quella particolare cura<br />

che mettono gli uomini intorno ai luoghi del loro vivere quotidiano, non si vedevan più. Le poche case<br />

davanti alla stazione erano piccole, sbilenche, costruite senza alcuna tecnica, con delle porte anguste e<br />

un aspetto di assoluta povertà. Le vie erano strette, polverose, sparse di escrementi di animali e di<br />

rottami di vasi d’argilla. La campagna spoglia, arida, con rare selvette di ulivi e di roveti risuonava<br />

tutta di uno stupito tri… tri… di grilli e del frinire delle cavallette.<br />

- È questo il tuo paese? – chiese lei accostandosi al marito un po’ curva sopra un fianco per il peso<br />

della valigia.<br />

- No, rispose lui, il mio paese non è questo, ma noi non andiamo in paese, i miei parenti abitano in<br />

campagna. Siamo arrivati sai, piccina mia. Non hai mica paura? – aggiunse vedendole il volto un po’<br />

contratto e gli occhi ansiosi. – Vedrai come ti accoglieranno i miei, specialmente mia madre. Crederà<br />

che sia venuta a vederla la Madonna.<br />

- Perché la Madonna? – chiese lei ridendo.<br />

- Perché di donne come te qui non ne hanno mai viste, neanche le figlie dei signori sono come te.<br />

Lei sorrise ancora confortata e un po’ anche lusingata, ma nel suo profondo rimaneva malinconica e in<br />

un certo senso anche sbigottita. "In che paese strano mi ha portato mio marito!".<br />

Attraversarono un vialetto fiancheggiato da grandi querce, e allo svolto apparve loro davanti una casa<br />

piccola col suo piano terreno e col tetto così basso, che un uomo di media statura, allungando la mano,<br />

ne avrebbe raggiunta la gronda. Davanti alla casa era una siepe di fichidindia, dietro la quale si<br />

vedevano, attraverso la porta aperta i riflessi di un fuoco acceso. – Siamo giunti – disse lui – ed emise<br />

un lungo sospiro. Quella è la mia casa.<br />

Lei ebbe una stretta al cuore. Quella? Com’era, piccola e misera, una catapecchia.<br />

Le veniva voglia di piangere.<br />

Lui chiamò da sulla strada.<br />

Al suo richiamo un piccolo cane bastardo schizzò fuori dalla siepe e si mise ad abbaiare furiosamente.<br />

Poi una figura nera, curva, mingherlina – sembrava un’ombra – si affacciò sulla soglia, rientrò e<br />

ricomparve con un lume in mano. Allungò uno sguardo verso la straniera e discese in fretta<br />

mormorando:<br />

- Figlio, figlio mio! Sei tu?<br />

Si avanzò verso di lui con le braccia tese.<br />

Quello aveva già deposta la valigia e si strinsero a lungo baciandosi molte volte.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

La straniera assisteva stupita.<br />

La mamma di suo marito era una donnetta secca e bruna come un baccello di veccia, con una testa<br />

piccola e due occhi tristi, sofferenti, che facevano ricordare quelli delle vecchie testuggini. Era scalza<br />

e con quel lume in mano, sembrava una di quelle figure di vecchine che si vedono nei libri delle<br />

favole.<br />

Dopo avere abbracciato il figlio, la vecchia si era rivolta a lei, ma con circospezione, come se avesse<br />

paura di sbagliarsi, le aveva alzato il lume contro il viso e la guardava come incantata. Era quella la<br />

sua nuora, la sconosciuta che suo figlio aveva sposata in quel paese lontano? Le sembrava<br />

impossibile: suo figlio era un contadino e quella era tanto diversa.<br />

Lei non aveva mai visto nulla di simile: alta, coi capelli color dell’oro, un cappellino così curioso sulla<br />

testa, un soprabito color avana e un viso bianco, delicato, come in quei paesi non si vedeva che alle<br />

statue nelle chiese.<br />

La vecchia guardò suo figlio, poi ancora la nuora dalla testa ai piedi. Dio mio! Ai piedi portava un<br />

paio di scarpette lucide e affusolate come la navicella del telaio.<br />

- E questa chi è – domandò esitando.<br />

- Come chi è? È mia moglie… - rispose lui tutto orgoglioso.<br />

- Tua moglie? E dove sei andato a prenderla una giovane così? Sembra la Madonna, salvo peccato. E<br />

ora noi dove la metteremo?<br />

Si avvicinò timida, allungò la mano brulla e nodosa come quella di un uomo e, presa una mano della<br />

straniera, si mise a guardarla come si guarda una cosa di vetro.<br />

- Tò! Caro mio Dio, che mani! Sembrano fatte di sangue e latte.<br />

Tentò di portarsi quella mano alle labbra, ma l’altra la prevenne e le porse il viso, che la vecchia baciò<br />

avidamente.<br />

- Venite, venite, figlia mia, la nostra casa è così povera! E si incamminò protendendo avanti il lume.<br />

Quando furono dentro, i due posavano le valigie, la vecchia si fece sull’uscio e chiamò qualcuno.<br />

Un minuto dopo apparve sulla soglia un contadino magro, brullo anche lui, con una faccia rugosa e<br />

una specie di papalina in testa. Portava i calzoni corti di fustagno casalingo e grossi calzettoni di lana.<br />

In mano teneva un secchiello pieno di latte. Anche lui aveva gli occhi tristi e buoni.<br />

Depose il secchiello sulla tavola, abbracciò il figlio, poi si rivolse alla straniera e cominciò anche lui<br />

ad esaminarla con quella espressione ferma e seria che era una… qualità del suo sguardo.<br />

La vecchia teneva ancora il lume in mano e le stava davanti come si sta davanti ad una culla o a un<br />

nido.<br />

- Non vedete che ci ha portato nostro figlio? – disse lei – ha sposato una signora.<br />

Il vecchio prese una mano della nuora e la strinse con una strana tenerezza.<br />

- Figlia mia, siate la benvenuta. La casa è piccola e povera, ma da mangiare ce n’è e il cuore è grande.<br />

Lei non capiva nulla di quello che dicevano, ma si sentiva palpitare il cuore di una misteriosa<br />

inquietudine.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

Aveva sempre più l’impressione di aver fatto un viaggio nel paese delle favole.<br />

L’unica persona che lei sentiva un po’ più vicina, con la quale poteva comunicare, suo marito, si era<br />

tolta la giacca e muovendosi intorno, toccando gli oggetti di casa, chiacchierando coi suoi in quel loro<br />

dialetto duro ed ieratico, sembrava allontanarsi anche lui da lei, per tuffarsi in quell’ambiente come in<br />

un suo elemento naturale.<br />

- Levati il cappello – le disse lui – e avvicinandosi la baciò forte sulla bocca.<br />

Lei sorrise, si levò il cappellino e scosse la testa, scomponendo un po’ i suoi bei capelli ariosi.<br />

La vecchia che la guardava sempre come un uccello strano, si avvicinò alla nuora e le palpò i capelli: -<br />

Signore, Signore… sembrano di oro filato!… E poi, come parlando con se stessa.<br />

- Dove la mettiamo, poveri noi, dove la mettiamo?<br />

Intanto si mise a preparare la tavola.<br />

Stese una tovaglia bianca di lino, tessuto sul telaio di casa, vi collocò sopra alcuni piatti di creta<br />

smaltata con fiorellini pallidi, e delle forchette di ferro.<br />

Il vecchio prese il secchiello del latte, un cucchiaio di legno e si avvicinò alla nuora.<br />

- Non volete assaggiare un cucchiaio di schiuma? È buona, sapete: vi farà bene. È ancora calda. – Lei<br />

lo fissava attonita: non capiva, ma poiché l’altro le avvicinò amorosamente il cucchiaio alla bocca, lo<br />

prese.<br />

Quella schiuma di latte morbida e soave, esalante un odore materno, aveva un sapore dolce e buono.<br />

Lei ne prese un secondo cucchiaio e poi anche un terzo, con la golosità di una bambina; e il cuore le si<br />

riempiva di una indefinibile emozione nel vedere quel vecchio imboccarla con quei suoi gesti solenni,<br />

come se le desse la comunione. Il pranzo fu serio e quasi silenzioso: pareva una agape. Solo il marito<br />

parlava domandando notizie dei parenti, di gente conosciuta, degli avvenimenti del paese, della vita<br />

delle bestie a cui dava nomi umani. I due vecchi rispondevano misurati, mettendo nei loro rari<br />

commenti quella serietà rassegnata dei contadini, per i quali tutto è sacro e necessario.<br />

A un tratto il vecchio padre, vedendo che sulla pasta asciutta la nuora non aveva abbastanza<br />

formaggio, gliene versò una manata di quello forte, salato. – Mangiate, figlia, mangiate. La pasta<br />

senza formaggio non è buona. Questo l’ho fatto io con le mie mani.<br />

E le mesceva un vinello pallido, aromatico, che le scaldò improvvisamente le viscere come un liquore.<br />

Suo marito sembrava felice di rigustare, dopo tanto tempo, quei forti cibi casalinghi della sua terra, e<br />

un po’ interrogava i genitori, un po’ parlava con lei, divertendosi al suo impaccio e al suo<br />

smarrimento.<br />

Finito il pranzo andarono a dormire.<br />

La vecchia li accompagnò in una stanzetta a pian terreno che dava nell’orto. In un canto, sopra due<br />

lunghi trespoli di legno, era issato un saccone monumentale pieno di foglie di granoturco.<br />

La vecchia lo toccò con le mani, facendolo suonare stranamente.<br />

- Questo è il letto, figlia. Spero dormirete bene. L’ho riempito apposta per voi… Santa notte…<br />

aggiunse con una espressione timida e quasi pudica; e uscì.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

Quando rimase sola con suo marito la straniera ebbe la impressione che quella per lei fosse qualche<br />

cosa come una prima notte di nozze, come se suo marito l’avesse conosciuto allora per la prima volta<br />

e dovesse, per la prima volta, sottoporsi alla violazione del suo corpo da parte di un estraneo, che<br />

doveva poi confondere la propria vita con quella di lei.<br />

Suo marito l’abbracciò e la baciò avidamente, con un desiderio visibile e quasi impetuoso, ma lei,<br />

prima di andare a letto, sentì il bisogno di ordinare un po’ di tumulto dei suoi nuovi pensieri, di<br />

esaminarsi dopo la rivelazione di quel mondo povero e sacro dove suo marito era nato, e di cui lei fino<br />

allora non aveva neppure sospettata la esistenza.<br />

Sedette davanti a una finestra a petto d’uomo e si mise a guardare la campagna. Era sorta la luna, le<br />

ombre intorno alla casa si allungavano verso occidente, come se si mettessero in cammino. Un assiolo<br />

cantava sotto gli alberi poco discosto, e da lontano veniva il trillo malinconico e musicale dei rospi.<br />

Per la prima volta, davanti a quel paesaggio, le veniva in mente questa inquietante domanda: "Come<br />

mai io ho potuto sposare un uomo così diverso da me?".<br />

Si sentiva a poco a poco invadere da una strana tristezza, e aveva paura della imminente intimità col<br />

marito, perché temeva che anche da quella consuetudine così dolce le venisse qualche allarmante<br />

rivelazione.<br />

A un tratto si udì un bisbiglio fuori dell’aia.<br />

I due vecchi si erano seduti sull’uscio della casa e parlavano tra loro sottovoce. Ma lei non capiva<br />

nulla di quello che dicevano. Poiché pensò che il soggetto di quel colloquio potesse essere lei, chiamò<br />

il marito perché le facesse da interprete.<br />

- Avete visto – diceva la vecchia – avete visto che moglie è andato a prendere il mariolo? È bella più<br />

di una signora, deve essere figlia di qualche medico o avvocato…<br />

- È bella sì, osservò il vecchio ma… sai come dice il proverbio dell’antico: moglie e buoi dei paesi<br />

tuoi. È bella… ma gli vorrà bene? È così diversa da noi…<br />

Il marito spiegò e poi, prendendola fra le braccia, la strinse forte, baciandola sulla bocca: - Piccina, i<br />

miei domandano se tu mi vuoi bene? Me ne vuoi, tesoro, colomba mia, me ne vuoi?<br />

La straniera si arrovesciò inerte ed ebbe l’impressione che un terribile segreto la rivelasse a se stessa,<br />

in quell’istante. Voleva lei bene a suo marito?… Certo glie ne voleva… aveva passato tante ore felici<br />

con lui. Ma dentro, nell’angolo più remoto del cuore, perché sentiva ora un irresistibile bisogno di<br />

piangere?<br />

DONNA MARUZZA<br />

Fra i ricordi preziosi, che stanno all’origine della mia conoscenza, io, accanto al volto di mia madre,<br />

trovo nella memoria quello di un’altra donna, che per me fanciullo fu come una specie di madre<br />

putativa: il volto di Donna Maruzza.<br />

Donna Maruzza era figlia di signori. In paese la chiamavano anche col nome di sua madre, Donna<br />

Loicia (Luigia) un nome che sa di Corte, del tutto insolito da noi fra le donne del popolo. Caduta la<br />

sua famiglia in povertà, molti anni prima della mia nascita, Donna Maruzza si era rifugiata nel nostro<br />

paese, ed era venuta ad abitare in una casupola, proprio sotto casa mia.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

Era alta, sottile, di ossatura delicata, con un viso ovale e bianco, che in gioventù doveva essere stato<br />

bellissimo, e un neo dai pelucchi biondi su un angolo del mento. Sebbene fossi tanto bambino, io<br />

sentii subito per istinto che Donna Maruzza non era una popolana.<br />

Ricordo ancora l’impressione misteriosa, di piacere e insieme di sgomento, che provavo quando ella,<br />

sola con me nella sua casupola, si scopriva l’omero, per farmi vedere un lipoma che aveva sulla<br />

scapola sinistra: una cosa enorme quanto una scodella da latte, che formava una gobba.<br />

Sotto la pelle candida, di una finezza di seta, che io toccavo esitando, il lipoma ondeggiava e cedeva,<br />

come se contenesse del liquido.<br />

Per quanto i bambini non facciano mai attenzione all’amore che li circonda, pure io vedevo che la più<br />

grande felicità per Donna Maruzza, dopo quella di avermi vicino, era quella di vedermi mangiare.<br />

Bambino nervoso ed estroso, disperatamente attaccato al giuoco, in casa mia mangiavo pochissimo,<br />

con grande corruccio di mia madre. Donna Maruzza invece era orgogliosa del suo privilegio di<br />

riuscire a farmi mangiare. Di quando in quando si chiudeva misteriosamente in casa, il suo tetto<br />

fumava per qualche tempo, poi col volto acceso sporgeva il capo fuori dall’uscio e mi chiamava a<br />

bassa voce, come se si trattasse di una congiura. Io accorrevo e trovavo su una cassa piccola un bel<br />

piatto di maccheroni ben conditi e inalbati di formaggio.<br />

Fosse quell’aria di sotterfugio o lo stimolo inconscio della cosa proibita, certo è che mi veniva una<br />

fame da lupo, e mai in casa mia avevo trovato quel cibo tanto stranamente saporoso. Poi Donna<br />

Maruzza andava a prendere un uovo da sotto la gallina, e prima di mettermelo in tasca, mi appoggiava<br />

la punta nel cavo dell’occhio perché, diceva, quel caldo era propizio a mantenere sana la vista. Io<br />

chiudevo le palpebre, e a quel tepore, dolce e intimo come quello di un grembo, mi sentivo inebriato,<br />

come deve sentirsi un insetto nel calice di un fiore. Mia madre era gelosa di questa mia intimità con<br />

Donna Maruzza, ma affannata dalle continue maternità ed occupata a curare i miei fratellini, ad un<br />

dato momento parve contenta che qualcuno la sollevasse dalle sue cure verso di me. Quando poi morì<br />

mio padre, la sua ostilità cadde del tutto, e le mie due madri, quella carnale e quella putativa, parve<br />

ritrovassero in un comune dolore, un nuovo terreno d’intesa e di reciproca tolleranza.<br />

Allora, specialmente d’inverno, nei giorni di scirocco, Donna Maruzza vicino a me sopra uno<br />

sgabello, ed io seduto sulla cassa piccola, passavamo delle mezze giornate intere, io ad ascoltare e lei<br />

a recitare rapsodie di Santi. Mai nessun libro in seguito aprì alla mia fantasia le magiche porte del<br />

sogno e dell’emozione, come allora i racconti di Donna Maruzza.<br />

Ma la fanciullezza passò senza che me ne accorgessi, io terminai le scuole in paese, partii per il<br />

collegio, e Donna Maruzza non la vedevo che durante le vacanze. Attratto oramai da altre esperienze e<br />

da altri desideri, sentivo che le sue sollecitudini materne non m’interessavano più. E poi lei era molto<br />

invecchiata e di notte, a quanto mi riferiva mia madre, cominciava a vaneggiare. Le era nata in mente<br />

la strana idea che qualcuno tentasse di forzare la sua porta a scopi peccaminosi.<br />

Un anno – ero già all’università – mi recai a casa per trascorrere il Natale. Giunsi di sera avanzata, con<br />

un tempo pessimo, e non feci caso se non vidi Donna Maruzza, ma all’indomani, col tempo che si era<br />

rimesso al bello, mi parve strano di non vederla. Sebbene fosse rinsecchita e un po’ svanita, non<br />

mancava mai di venirmi a trovare con tre o quattro uova nel grembiule. Mi affacciai al balcone,<br />

guardai verso la sua casupola. Sul tetto, dove pigolavano alcuni passeri arruffati per il freddo, neppure<br />

un indizio di fumo: le tegole erano ancora umide della pioggia notturna. La porta, a me tanto<br />

familiare, tagliata in due battenti orizzontali e sovrapposti, era a metà chiusa, e tra il battente inferiore<br />

e quello superiore sporgeva un bastone, evidentemente collocato per ottenere che quello superiore<br />

rimanesse alquanto discosto e nel tugurio entrasse un po’ di luce.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

Quella vista mi strinse il cuore.<br />

A mia madre, ch’era entrata per portarmi il caffè, domandai: come va, mamma, che Donna Maruzza<br />

non si è fatta vedere?<br />

- Eh, poveretta – mi rispose – se vedessi come si è ridotta! Sono tre mesi che non si alza più, è<br />

un’ombra.<br />

Io rimasi oppresso da queste notizie, e chiesi a mia madre se potevo andarla a vedere: - Mi<br />

riconoscerà, spero – dissi…<br />

Mia madre alzò su di me uno sguardo un po’ allarmato; poi disse, con una specie di risoluzione<br />

improvvisa: - Va… va. Ti riconoscerà di sicuro, perché i suoi sensi sono ancora lucidi. Ma sarà una<br />

pena!<br />

Scesi nella strada, insinuai la mano fra i due battenti, feci scorrere nell’anello la piccola maniglia che<br />

teneva chiuso quello inferiore ed entrai.<br />

Da un giaciglio disteso sul pavimento vidi, in quel barlume, sollevarsi una testa secca incredibilmente<br />

piccola come quella di una tartaruga, una mano ischeletrita e due occhi infossati pieni di una disperata<br />

tristezza. Mi fissarono con una espressione dapprima di stupore e poi di ansia. Compresi subito che mi<br />

avevano riconosciuto.<br />

- Donna Maruzza, come va?… Vi siete ammalata, da molto tempo siete malata?…<br />

Lei mi fissò a lungo, tremando poi disse con fil di voce, che mi parve venisse dal fondo del petto,<br />

come quella di un ventriloquo: - Figlio… figlio mio… siete venuto a vedermi, per l’ultima volta?… E<br />

in preda a un’ansia inesprimibile allungò la mano prese una delle mie, e tentò portarsela alle labbra.<br />

Un senso di ribrezzo m’invase. Dal suo giaciglio saliva un tanfo nauseabondo, e le rughe spesse e<br />

sottili del suo volto erano piene, in modo visibile, di lordura. Lei mi fissava sempre più ansiosa, e mi<br />

attirava a sé, tremando e farfugliando con un fremito parole incomprensibili; ed io non sapevo che<br />

cosa dire per rompere quel silenzio opprimente.<br />

Rimasi qualche minuto accanto a lei in uno stato angoscioso, a guardarla, circondato e quasi assalito<br />

dall’ansia di quel suo sguardo, pieno di una misteriosa disperazione.<br />

Nella casupola il silenzio pareva piovesse a fiocchi, come una nevicata senza vento.<br />

A un tratto, davanti a quel suo tendersi ansioso e al balbettio delle sue labbra, mi sentii correre per le<br />

reni un brivido di sgomento: ebbi la impressione che Donna Maruzza volesse baciarmi.<br />

A questo punto il ribrezzo mi vinse. Ah, come ci rende ingrati e vigliacchi la vita intellettuale! Liberai<br />

la mia mano dalla sua, presi dalla tasca un biglietto da cinquanta lire, glie lo porsi ed uscì totalmente<br />

sconvolto.<br />

In casa trovai mia madre seduta davanti al fuoco.<br />

- Ebbene – mi chiese – vedendo il mio turbamento, ti ha riconosciuto?<br />

- Non me ne parlare, mamma – risposi. – Sono disperato. Pensa… ho avuto la impressione netta,<br />

precisa che volesse baciarmi, e non ho avuto il coraggio di farlo… Non ci posso pensare… è orribile!<br />

- Oh, poveretta – esclamò mia madre – perché non l’hai baciata? Avrebbe avuta la illusione di essere<br />

baciata da suo figlio e sarebbe morta più tranquilla. Baciata e perdonata – soggiunse dopo una pausa –<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

come parlando a se stessa.<br />

- Che figlio, mamma, Donna Maruzza ha avuto un figlio?<br />

Mia madre mi guardò di sfuggita e si chinò sul fuoco per attizzare. Fuori si udivano suonare le<br />

ciaramelle natalizie. Rimanemmo così per qualche minuto in silenzio, poi mi madre disse: Bè, oramai<br />

sei un uomo e puoi sapere tutto: Donna Maruzza, in gioventù, prima che io mi sposassi, ebbe un<br />

bambino da tuo padre. Ma la sciagurata non lo volle. Si tormentò tanto durante la gravidanza, che il<br />

bimbo nacque morto. Ora tu capisci…<br />

- Oh, Dio – dissi in preda a una viva agitazione – e balzai in piedi. Per questo mi guardava… e voleva<br />

baciarmi? Vado mamma… vado…<br />

Raggiunsi la sua porta, sfilai ancora il paletto del battente di sotto e mi chinai sul suo giaciglio,<br />

vincendo il ribrezzo di quel tanfo che mi assaliva alla gola. Ella giaceva con la testa riversa sul<br />

guanciale sudicio, gli occhi stranamente spalancati, e nella mano protesa stringeva il mio biglietto da<br />

cinquanta.<br />

Povera Donna Maruzza! Se n’era andata senza perdono. Il suo volto, trasfigurato dalla morte, aveva<br />

una espressione atterrita e sgomenta: pareva che con le pupille spente cercasse ancora il figlio che non<br />

aveva voluto nel mondo.<br />

KOSTIA NON RISPONDE<br />

Kostia aveva sedici anni, faceva parte di un gruppo di partigiani, e siccome era studente, si piccava di<br />

dare un indirizzo quasi scientifico alle sue imprese. Egli aveva notato, per esempio, che l’ora più<br />

propizia per ingannare le sentinelle è quella che di poco precede l’alba. A fare attenzione, in quell’ora<br />

anche le voci della notte, che poi sono le voci delle cose, il silenzio pare diventi più alto al canto dei<br />

galli, e perfino gl’insonni entrano in quel particolare stato di dormiveglia, in cui la trama tenue dei<br />

pensieri crepuscolari s’intreccia misteriosamente con l’apporto delle sensazioni esterne, in modo che<br />

non si riesce a distinguere quali sono le cose reali e quali quelle sognate. Nelle sentinelle poi, costrette<br />

a vegliare per ore all’aperto, in quel clima e nella solitudine ostile della campagna bianca, i nervi si<br />

tendono all’estremo e verso l’alba sopraggiunse il collasso. Allora la sentinella si mette a sognare in<br />

piedi, come fanno i cavalli, e la si può avvicinare e qualche volta anche pugnalare senza che se ne<br />

accorga.<br />

Uscito dall’isba verso le cinque, Kostia era giunto al limite del bosco poco prima che spuntasse l’alba.<br />

A un duecento passi sulla pianura piatta e increspata dal vento, si vedevano luccicare debolmente i<br />

binari della ferrovia. Alcuni ciuffi di betulle coi rami coperti da una peluria candida di brina,<br />

sembravano piante subacquee nella tenuissima bruma del crepuscolo. Vicino ad uno di quei ciuffi si<br />

scorgeva una specie di garitta a cono, fatta con tronchi di alberi, e sotto si vedeva una figura umana.<br />

Sembrava un gigantesco spaventapasseri imbottito di paglia. Era la sentinella tedesca. Ogni tanto,<br />

come mosso da un meccanismo interno, lo spaventapasseri batteva le mani e i piedi, e il rumore<br />

ovattato moriva nell’aria gelida, immota, dietro cui pareva che il cielo s’incrinasse come vetro, per<br />

lasciar trasparire il primo chiarore dell’alba.<br />

- Accidenti – mormorò Kostia – è ben sveglia stamane. Le debbono aver dato il cambio di fresco.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

Rimase per qualche minuto a spiare da dietro un tronco un po’ la ferrovia e un po’ il massiccio<br />

tedesco, che si agitava nella garitta, poi fece un passo avanti. La neve friabile, sotto la scarpa di feltro,<br />

cedette producendo un rumore come di sabbia. A un tratto il tedesco ebbe un moto brusco, nell’aria<br />

grigia si accese una rosa di fuoco, per un attimo, poi Kostia avvertì un urto che lo rovesciò a terra.<br />

Sebbene quell’urto lo avesse sbalordito, Kostia si rialzò subito e di un balzo rientrò nel bosco ma<br />

appena fu di nuovo sotto le betulle, che vibravano nell’aria come antenne di vetro, si accasciò sotto<br />

uno spasimante dolore alla coscia. Avvertì qualche cosa di caldo che gli scendeva verso il ginocchio:<br />

si portò la mano sul femore, dove aveva ricevuto l’urto, e la sentì inondata di una materia tiepida e<br />

vischiosa. Era sangue. Una fucilata gli aveva attraversata la coscia. La sentinella tedesca era diventata<br />

immobile, come pietrificata. Bisognava fuggire subito, prima che la ferita esacerbata dal freddo non lo<br />

inchiodasse sotto quegli alberi.<br />

Kostia si rialzò, si asciugò alla meglio la mano sulla tulupa e, nonostante il dolore atroce, si mise a<br />

correre zoppicando verso il villaggio, e col suo tubo di gelatina sotto il braccio. Ora che correva<br />

arrancando e soffiando, gli si era risvegliata la tosse che gli mangiava la gola, una tosse rabbiosa,<br />

indomabile, che lo scuoteva tutto e gli riempiva gli occhi di lacrime. Tuttavia, facendo sforzi inauditi<br />

per vincere il dolore acuto alla coscia, raggiunse il villaggio. L’isba dov’erano in attesa i suoi otto<br />

compagni, era la prima, dal tetto usciva un tenue filo di fumo. Kostia stava per allungare la mano<br />

verso la porta, ma un breve latrato lo riscosse. Si voltò e vide un grosso cane lupo che gli era quasi<br />

addosso. Lo raggiunse di un balzo lo addentò alla tulupa, ringhiando sordamente e fissandolo<br />

minaccioso coi suoi occhi gialli.<br />

La porta dell’isba si aprì, due uomini vennero sull’uscio, ma contemporaneamente sul fondo del<br />

sentiero spuntò un reparto di tedeschi coi mitra in mano, preceduti da un ufficiale gigantesco.<br />

I tedeschi raggiunsero in un attimo l’isba, la circondarono e l’ufficiale afferrò Kostia per il bavero<br />

della tulupa, scuotendolo violentemente. Il tubo di gelatina cadde sulla neve. L’ufficiale, ch’era un<br />

maggiore, si chinò ansimando, lo prese in mano, lo esaminò, poi si rivolse a Kostia: che cosa è<br />

questo?<br />

Il ragazzo lo fissò con una specie di ansia fredda, e non rispose.<br />

- Rispondi, canaglia, che cosa è questo? E poiché il ragazzo continuava a tacere, l’ufficiale gli vibrò<br />

uno schiaffo tra il viso e il collo che lo rovesciò a terra.<br />

- Fuori tutti – ordinò il maggiore tedesco.<br />

Intanto Kostia si era rialzato e con le mani sulla bocca tossiva convulsamente.<br />

- Fuori tutti – ripeté il maggiore – e rivolto ai suoi soldati diede ordine che si sgombrasse l’isba. Otto<br />

uomini tutti in tulupa uscirono all’aperto e si allinearono sulla neve: sull’uscio dell’isba rimase una<br />

vecchia donna, con uno scialletto sudicio intorno al collo. Kostia, tossendo sempre con gli occhi<br />

gonfi, si mise in fila insieme con gli altri.<br />

Il cane, con le orecchie dritte, guardava il maggiore scodinzolando. Seguì un attimo di silenzio rotto<br />

solo dall’ansimare di Kostia, che continuava a tossire.<br />

- Adesso parlerete, canaglie – disse il maggiore digrignando i denti – e impugnò una grossa pistola.<br />

Dove sono i vostri compagni, dov’è il vostro rifugio?<br />

Silenzio. I nove uomini si guardavano tra loro con una specie di solidarietà guardinga e continuavano<br />

a tacere.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

- A te, mutter – chiese il maggiore alla vecchia donna – chi sono questi uomini, cosa facevano nella<br />

tua isba?<br />

- Sono russi, batiusca, rispose la donna – non li vedi? Sono russi e si scaldavano.<br />

- E questo ragazzo? – e indicò Kostia.<br />

- È un russo anche lui, non lo vedi? E veniva a scaldarsi.<br />

- Non sai altro?<br />

- Niente altro, batiusca.<br />

- Bene – fece il maggiore – io comincio subito. Vedremo se parleranno.<br />

Si portò davanti al primo della fila quello più vicino alla porta dell’isba, e gli puntò la pistola nel<br />

mezzo della fronte. Parla, svinia d’un russo – (svinia significa porco) o ti brucio le cervella, dove sono<br />

i tuoi compagni? Dov’è il vostro rifugio? Parla.<br />

- Silenzio. Nell’aria gelida fumava il fiato agitato dei nove partigiani.<br />

S’udì un colpo secco e il primo partigiano piombò a terra. Un filo di sangue dalla fronte cominciò a<br />

colare sulla neve, solidificandosi subito.<br />

- E uno – il maggiore pensò al secondo.<br />

- A te, parla: dove sono i tuoi compagni?<br />

- Silenzio. – Un secondo colpo secco ed anche il secondo partigiano piombò sulla neve con la fronte<br />

spaccata.<br />

Per otto volte la domanda fu ripetuta e per otto volte la risposta fu identica: silenzio.<br />

La vecchia guardava da sull’uscio, impassibile, con le ruvide mani intrecciate sul grembo.<br />

Non restava in piedi che Kostia, una tosse convulsa lo scuoteva tutto, e la sua faccia giovanile,<br />

affilata, con qualche efelide sotto i pomelli, era livida.<br />

- Adesso tu parlerai, figlio di una p… o farai la fine dei tuoi compagni. Dov’è il vostro rifugio? E il<br />

maggiore puntò sulla fronte di Kostia la canna fredda della rivoltella.<br />

Il ragazzo avvertì il contatto gelido del metallo, mentre un nuovo accesso di tosse lo assaliva,<br />

soffocante. Si tese nello sforzo del petto e della gola, e fissando coi suoi occhi giallastri il maggiore<br />

tese in alto la bocca e sputò. Il grosso tedesco fece un passo indietro e si portò la mano al viso con<br />

ribrezzo. Uno sputo giallastro, già solidificato dal freddo intenso, gli rimase sulla palma.<br />

Il maggiore lo scagliò via, avanzò ancora, puntò la pistola sulla fronte di Kostia e fece fuoco.<br />

Il ragazzo rotolò nella neve a braccia spalancate. Allora la vecchia donna uscì all’aperto e si avvicinò<br />

al maggiore tedesco.<br />

- Ora puoi andare, batiusca – li seppellirò io.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

Allora vuoi proprio partire?<br />

ODILIA – FANCIUL<strong>LA</strong> NORDICA<br />

Sì – rispose lei, sollevando appena le ciglia sui grandi occhi verdi come le foglie del limone.<br />

Parto stasera col diretto delle 8,30 per Napoli.<br />

E dove andrai?<br />

Mi fermo a Roma due o tre giorni, per salutare un pastore del mio paese; poi mi recherò a Chézers, in<br />

Svizzera, dove ho un caro amico che mi attende da parecchio tempo.<br />

E poi?<br />

Starò con lui una quindicina di giorni e dopo andrò ad Insbruck. Un mio compagno di scuola è medico<br />

là. In una casa di salute, e mi ha scritto che desidera tanto vedermi. Anche lui mi aspetta da tanto.<br />

E poi? Da Insbruck passerò a Monaco, dove ho un altro amico fabbricante di birra; e da Monaco<br />

finalmente tornerò al mio paese. Vi troverò già la neve e con gli sport invernali riprenderò il mio<br />

lavoro.<br />

Sai che sono già stanca del tuo sole?<br />

Il giovane abbassò la testa con un’espressione disperata, e continuò ad arrotolare meccanicamente<br />

sulla tovaglia delle briciole di pane. Poi chiese ancora, ma timido: - Come va hai tutti codesti amici<br />

sparsi per il mondo?<br />

- Come va? – fece la donna.<br />

È semplicissimo. Io viaggio sempre, e dovunque vado conosco delle persone, che diventano miei<br />

amici.<br />

Tu non sei uno di questi? Come ho conosciuto te…<br />

- Ah come hai conosciuto me…<br />

La fissò un istante negli occhi e poi abbassò il capo, perché l’altra non leggesse nei suoi occhi lo<br />

smarrimento.<br />

Quelli di lei, così grandi e belli, erano tranquilli, indifferenti come quel dolce cielo settembrino che si<br />

stendeva sul loro capo.<br />

Guardavano un po’ trasognati verso occidente dove la cima dell’Etna, fumava in una nebbiolina<br />

d’opale, si profilava appena in lontananza come nel delicato disegno di una stampa giapponese.<br />

I due giovani erano seduti sul terrazzo dell’albergo a Reggio Calabria, e avevano appena finito di fare<br />

colazione. La giornata era bella, ma il cielo dietro la giogaia dei monti siciliani, aveva quella<br />

trasparenza caratteristica dei cieli di settembre, in cui pare rispecchi già la malinconia dell’autunno<br />

imminente.<br />

Lungo i fili telegrafici, che si disegnavano sul mare sottostante alcune rondini meriggianti sembravano<br />

note musicali tracciate sopra un gigantesco pentagramma, e di quando in quando, spollinando, fra i<br />

beccucci le penne delle ali e della coda forcuta, pareva le affilassero a lungo il volo del ritorno. Invano<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

gli alti oleandri ad ombrello di cui era ornata la terrazza, tutti cosparsi di una schiuma di petali rosei,<br />

tentavano di fermare l’opulenta sensazione dell’estate. Lo scroscio del mare da dietro il bastione della<br />

ferrovia si diffondeva troppo chiaro, nell’aria e troppo nitidi si scorgevano nastri brulli delle strade sui<br />

monti.<br />

L’autunno era alle porte e quella brava ragazza nordica sentiva che era giunto il tempo di ritornare alle<br />

sue verdi foreste e ai fiordi del suo paese.<br />

Erano belli e giovani tutti e due.<br />

Lui bruno, tarchiato, la testa piccola e crespa, i denti bianchi come i petali delle zagare. Lei alta, coi<br />

capelli di canapa lucente, gli occhi grandissimi, e la pelle su cui era leggera patina di bronzo, e vi<br />

aveva diffuso il sole del mezzogiorno, non aveva potuto cancellare la bianchezza e la serica<br />

delicatezza originaria. Anche lei aveva denti bianchi e regolari, ma alcuni di essi erano legati con un<br />

filo d’oro che scoprendosi nel sorriso faceva un certo contrasto spiacevole con la freschezza del volto.<br />

Egli la guardava sul collo, sulla bocca; sulle braccia nude fino al gomito, sulle ginocchia a cavalcioni<br />

e si sentiva sconvolto.<br />

Odilia, tesoro, non partire ancora! – disse il giovane e posò affettuosamente sul braccio di lei la sua<br />

mano bruna, incordonata di vene. Resta con me almeno per tutto settembre. Se tu parti io muoio<br />

divento pazzo!<br />

La giovane scosse la testa: - No tu non farai questo, sarebbe stupido. Io parto perché sono già stanca<br />

di tutta questa luce, di questa terra calda. Ho voglia di rotolarmi sopra la neve, di volare sugli sci sotto<br />

gli abeti del mio paese. Ci rivedremo un altro anno. Se non mi sposo ritornerò da te, io non dimentico<br />

facilmente i miei amici. Anzi li ricordo sempre.<br />

- Non partire, Odilia! Fece lui con angoscia.<br />

Ho deciso disse lei: e si alzò. – Ora vado in camera a riposare per un’ora. Poi tu verrai a trovarmi.<br />

Vuoi? Sarà l’ultimo nostro addio, il più dolce.<br />

S’incamminarono verso l’interno dell’albergo. Sull’uscio della camera di lei si baciarono, poi egli si<br />

chiuse nella propria stanzetta, si buttò sul letto e col viso contro il guanciale si mise a singhiozzare<br />

come un bambino. Si sentiva come schiantato.<br />

S’erano conosciuti per caso sulla spiaggia, in uno dei primi giorni di agosto, ritornando col suo<br />

motoscafo dalla parte di Lazzaro, egli aveva accostato a riva e, sceso a terra, si dirigeva verso un<br />

canneto, quando in una insenatura, al riparo di una gigantesca pianta di agave vide seduta sulla sabbia<br />

una donna con in testa un grande cappello di paglia.<br />

Il giovane ebbe l’impressione di trovarsi davanti ad una di quelle nereidi di cui gli antichi avevano<br />

popolato i mari del sud: Galatea o Aretusa! Quella pelle era di una bianchezza così abbagliante, che<br />

sembrava impastata con la schiuma.<br />

Nel vederlo ella aveva serrato rapidamente i ginocchi, ma lo aveva fissato arditamente da sotto la<br />

larga tesa del cappello con la franchezza serena dei fanciulli. Siccome il giovane aveva balbettato<br />

qualche parola di scusa lei era scappata ridendo nel canneto, aveva infilato in un attimo un costumino<br />

azzurro e poi era sbucata fuori di nuovo.<br />

- Oh prego signore – disse col suo accento esotico – sono venuta in un luogo solitario, per potermi<br />

mettere in libertà. È così caldo il sole quaggiù! Caldo e stupendo.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

Di viso non era bella. La faccia un po’ larga, il mento a spatola, il naso all’insù, di primo acchito<br />

davano alla sua fisionomia un’espressione alquanto goffa e sgradevole; ma il suo corpo sembrava<br />

foggiato da un artista dell’altica Ellade per la statua di un cinedo. Lo sport e la vita all’aria libera<br />

avevano dato alle sue membra la grazia inimitabile delle opere che la natura esprime perfette.<br />

Sedettero accanto, al riparo della pianta di agave e cominciarono a discorrere, attratti ambedue dalla<br />

doppia simpatia della gioventù e dell’ignoto.<br />

Lei disse che veniva dal Nord, si chiamava Odilia, viaggiava sola e aveva pensato di passare l’estate<br />

nella "Calabria dei briganti".<br />

Ve ne sono ancora quaggiù? – chiese ridendo.<br />

Sì signorina. Io sono un brigante per esempio.<br />

Oh, allora i briganti sono molto simpatici!<br />

Mezz’ora dopo salivano insieme sul motoscafo; e da quel giorno non si erano lasciati più. Partivano al<br />

mattino con un cestino di colazione e si fermavano nei luoghi dove la spiaggia era più solitaria. Un<br />

canneto, una siepe di fico d’india delle piccole vigne ai margini della sabbia, con casupole di pietra<br />

abbandonate, e più in su gli speroni d’arenaria, sparsi di grandi lentischi e d’oleandri. Intorno non si<br />

udiva che il cantare delle cicale e il fruscio del mare, ritmico, come di un mostro che lambisse la<br />

spiaggia.<br />

Si sdraiavano all’ombra dei canneti, inebriati dal profumo della salsedine da quello della menta e del<br />

serpillo, che esalavano sotto i loro improvvisati giacigli.<br />

Erano stati due mesi di sogno e di felicità perfetta.<br />

E ora ella partiva per andare a trovare degli altri amici, come diceva lei che l’avevano conosciuta ed<br />

amata come lui nelle soste della sua vita errabonda. Uno a Roma, un altro a Cheziers, un terzo a<br />

Insbruck un quarto a Monaco. La felicità che ella aveva diviso con lui l’avrebbe ora goduta con altri<br />

uomini, avrebbe detto ad altri le stesse parole appassionate che aveva detto a lui. Avrebbe prodigato<br />

ad altri le stesse carezze.<br />

E forse egli non l’avrebbe rivista più, sarebbe stata per lui come una di quelle visioni meravigliose che<br />

appaiono in sogno; all’inizio della primavera e che nessuno riesce a rievocare dalle profondità del<br />

subcosciente.<br />

Oh – ripeteva lui serrando disperatamente il viso tra le mani – questi due mesi così nostri non hanno<br />

lasciato nessuna traccia nella sua anima! Dopo essere stata per me la più deliziosa delle compagne,<br />

ella parte tranquilla verso altri amori.<br />

Come una rondine che lascia il nido sopra un campanile e va a fabbricarne un altro, sopra un<br />

minareto. M’invita ad un ultimo convegno, come io potrei invitarla ad un’ultima corsa in motoscafo!<br />

Erano già passate le quattro e faceva ancora molto caldo. I grandi oleandri e gli ombrelli aperti sui<br />

tavoli, con le tovaglie a vivaci colori, gittavano ombre oblique sul pavimento e palpitavano sotto il<br />

leggero soffio della brezza che veniva dai colli.<br />

Sulla grande porta a vetri del salone, apparve Odilia. Era fresca, ilare. Vestiva di bianco. Lo<br />

raggiunse. – Perché non sei venuto a trovarmi? – gli disse mettendogli un braccio al collo.<br />

Lui non rispose e non ricambiò la carezza. Soffriva troppo. Ora guardava con una strana fissità il mare<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

oltre la ringhiera della ferrovia.<br />

L’acqua di un azzurro intenso fiorata dalla luce obliqua del vespero ondeggiava appena, senza un<br />

fiocco di schiuma. Ad ovest un marezzo chiaro come il latte, partendo dalla spiaggia di Taormina, si<br />

perdeva a zig-zag verso il centro dello stretto, dove si sporgevano come delle zone fosche.<br />

Sei triste? Fece lei vedendolo così silenzioso. Oh bene, passerà.<br />

Andiamo a fare un’ultima gita sul mare. Almeno da lui voglio essere abbracciata un’ultima volta! E<br />

rise.<br />

Il giovane si alzò come un automa e la seguì. Scesero sulla spiaggia, montarono sul motoscafo e<br />

filarono verso il largo. A un buon chilometro dalla riva lei si svestì rapidamente tuffandosi in acqua.<br />

Nuotò per un pezzo, e a grandi bracciate, con gioia frenetica, abbandonando a pause il suo corpo<br />

resupino alla corrente; poi risalì nel motoscafo, e così com’era, tutta stillante, porse le mani e la bocca<br />

all’amato. Lunghi rivoli le scendevano giù dai capelli sulla fronte e sulle labbra.<br />

Vedi? Gli mormorò lei sulla bocca – il tuo mare è meno egoista di te.<br />

Mi lascia partire senza rancore, mentre tu…?<br />

- Oh, no, - fece lui con un’espressione indefinibile nello sguardo. – Se il mio mare ti amasse come ti<br />

amo io, ti abbraccerebbe con una forza maggiore della mia e ti terrebbe prigioniera!<br />

Mentre egli la fissava ansioso, il motoscafo scivolò nella zona chiara del marezzo e di colpo si spense<br />

il motore.<br />

Improvvisamente la fragile barca ebbe un urto sul fianco e fece un rapido giro su se stessa, poi, con la<br />

prua rivolta al nord, si mise a correre verso il centro dello stretto come se fosse d’un tratto balzata sul<br />

nastro di un tapis-roulant.<br />

- Che succede? – fece Odilia staccandosi da lui e guardandosi intorno un po’ stupita.<br />

Lui non rispose, guardava come stralunato davanti a sé, verso il luogo dove il motoscafo correva con<br />

rapidità crescente. A qualche centinaio di metri il gridellino tenero e uguale dell’acqua diventava<br />

fosco, e su quel nero si vedevano fiorire e scomparire in un attimo impetuose creste di schiuma. Il<br />

motoscafo abbandonato ormai a se stesso, filava con la velocità di un bolide verso il campo dei<br />

gorghi.<br />

- Dio mio, dove andiamo? – disse la donna attaccandosi al giovanotto, perché non accendi?<br />

Ma prima che finisse la domanda un’onda nera sibilante s’inarcò intorno a loro e scagliò la fragile<br />

barca in un imbuto pieno di schiuma e di clamori. Risalirono sulla cresta di un’altra onda. Lei era<br />

senza fiato. Accendi, accendi!, gridava in mezzo al clamore dell’acqua, e lo scuoteva per le braccia.<br />

Lui era livido. Fece quattro o cinque volte il tentativo di accendere, ma il motore non rispose. Come<br />

nelle favole antiche, erano entrati nei dominii paurosi di Scilla, e i gorghi si aprivano per inghiottirli.<br />

Accendi, accendi!, gridava lei. Che fai? E come si accorse che lui la guardava disperato, gli si<br />

aggrappò al collo e tutti e due, allacciati, scivolarono nel fondo del gorgo, sparirono in un rigurgito e<br />

schiuma.<br />

Tre giorni dopo, ai piedi di uno di quei canneti dove solevano riposare durante le ore della canicola, il<br />

mare li depose, ancora abbracciati, sereni nel volto e pallidi come dopo un’intensa ora d’amore.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

ESCI, SOLE, A RISCA LDARCI<br />

Nei paesi di campagna, dove tutto si accorda al ritmo casalingo della vita rurale, anche le creature più<br />

libere ed indocili, come gli uccelli e i ragazzi, pare che diventino abitudinarie.<br />

Anche per esse, come per gli uomini l’avventura quotidiana si riduce di proporzioni e perde il sapore<br />

dell’imprevisto.<br />

I passeri del villaggio, che scendono sulla strada o sui davanzali in cerca di briciole, sempre gli stessi<br />

e alla stessa ora, come piccoli frati minori alla cerca; le rondini sul campanile o sulla tesa di fili<br />

telegrafici, che si spollinano in fila pispigliando, come comari pettegole; i ragazzi che si radunano<br />

sempre allo stesso luogo, per organizzare le loro razzie negli orti periferici: tutta questa minuscola<br />

popolazione alata – perché i ragazzi, a loro modo, hanno anch’essi le ali – dà l’impressione che,<br />

vivendo accanto a quel microcosmo più vicino alla Provvidenza e più lontano all’intelligenza<br />

cittadina, ne acquisti le abitudini e i gusti, e ne riproduca i tipi.<br />

Quasi direste che anche fra i passeri vi sia Rocco l’accattone e Pasquale il sacrestano, e tra le rondini<br />

Nannetta la vedova, che cerca marito, e Rosina del macellaio, che si trascina dietro uno stormo di<br />

mosconi.<br />

Nel mio paese, per esempio, i passeri, le rondini e i ragazzi hanno, da tempo immemorabile, un luogo<br />

di raduno fisso.<br />

Per i passeri è un maestoso ulivo in fondo, tra le case e la campagna, lungo la strada carrozzabile. È<br />

un albero gigante, alto quanto un campanile, dal fogliame cupo e lucente come il bronzo lavato. In<br />

paese lo chiamano "l’ulivo del vescovo", perché il terreno su cui sorge appartiene alla mensa<br />

vescovile.<br />

Su quell’ulivo, quando il sole tramonta e nell’aria pare che ogni voce lasci una scia come una stella<br />

cadente, reduci dai campi d’orzo e di grano, che hanno saccheggiato tutto il giorno, migliaia di passeri<br />

si addensano fra i rami.<br />

Il loro cicaleccio, che dura fino al crepuscolo, è così frenetico e melodioso che a me, tutte le volte che<br />

l’odo, fa pensare a una cosa strana. Mi pare che l’ulivo si sia trasformato in un gigantesco sacco di<br />

seta, e che in esso un numero incalcolabile di mani mestino e rimestino miriadi di anelli nuziali.<br />

Le rondini, invece, tengono concilio sopra la tesa dei fili telegrafici che sta davanti al Municipio. Con<br />

le testoline brune e gli sparati bianchi rivolti al sole nascente, emettono un pispolio così minuto e<br />

indaffarato, che le direste uno stuolo di monacelle intente a sferruzzare intorno alla calza. Ma quelli<br />

che sono l’anima del villaggio sono i ragazzi.<br />

Per essere in carattere con gli uccelli, hanno scelto anch’essi un luogo aereo per i loro convegni. È un<br />

sasso enorme a forma di un immenso cocomero interrato alla base, alto come una casa, che sorge<br />

accanto alla chiesetta protopapale, nel bel mezzo di una delle vie di accesso al paese.<br />

È di granito durissimo, liscio, screziato come l’uovo di un gigantesco uccello, e poiché si trova in quel<br />

posto da chi sa quante migliaia di anni, è considerato come una specie di nume tutelare. La chiamano<br />

la "Pietra di Febo".<br />

Sulla sua piattaforma si danno convegno i ragazzi poveri, quelli che vivono non si sa di che, come gli<br />

uccelli dell’aria.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

Sono scalzi, scapigliati, con le camicie a brandelli, i visetti all’erta tatuati dal sole ardente del Sud. I<br />

loro occhi hanno quel colore strano, tra il giallo e il verde, che hanno gli occhi degli animali da preda,<br />

in agguato tra i canneti. Quando si chiamano fra loro: Cicciarè, Petricè, Rocchicè, Peppinè –<br />

sembrano galletti di primo canto. Nei loro discorsi passa la vita di tutto il paese. Accosciati sulla<br />

piattaforma aerea della Pietra di Febo, quando il sole ascende verso la cima del campanile, iniziano il<br />

loro cicaleccio. Sono in quattro.<br />

Dice Cicciarè, che si è sdraiato con la pancia sul sasso: - Senti com’è caldo? Sembra un pane uscito<br />

dal forno. Mi ristora lo stomaco ch’è vuoto.<br />

- Non hai mangiato – chiede Petricè?<br />

- Peuh!… un tozzo di pane stamattina, quando mia madre è partita per la campagna.<br />

- Prendi. E Petricè gli porge una manata di drupe di mandorle ancora tenere.<br />

Gli altri due tendono le mani: - E a noi niente?<br />

- Oh… ragazzi! Non ne ho più; una ciascuno.<br />

- Dove le hai rubate? Chiede abbassa voce Peppinè.<br />

- Nell’orto di Don Mico Surino…<br />

- Se ti coglie, quel lupo ti ammazza.<br />

- Bravo! e io mi lascio cogliere!… Conosco le sue abitudini. È sempre nella bettola di Romeo. Ieri<br />

giuocava a carte, vinceva e beveva, beveva, si metteva le dita in gola e vomitava, e riprendeva a bere.<br />

Era pallido, con quella faccia da pane cotto sotto la cenere e balbettava sbavando. Che porco! Allora<br />

sgusciai fuori dalla bettola, entrai nell’orto e mi arrampicai sul mandorlo. Non ho ancora allungata la<br />

mano che quasi mi viene un accidente; una voce acutissima si leva dalla casa di fronte: "Assassino,<br />

brigante… in galera a vita mi tiene, ahaa!".<br />

"San Francesco di Paola diletto…".<br />

Era la pazza di donna Marietta, la moglie di Don Micu, stavo per scappare. Ma poi mi ricordai ch’è<br />

chiusa a catenaccio e che non poteva vedermi. Anche gli scuri delle sue finestre sono inchiodati.<br />

- Poveretta, è al buio tutto il giorno. Delle volte canta, delle volte bestemmia come un giudeo.<br />

L’immagine della pazza diffonde un senso d’angustia fra i ragazzi. Segue un breve silenzio. Grandi<br />

nuvoloni bianchi passano nell’aria. Poi Rocchicè estrae dalla tasca una manata di bottoni e propone: -<br />

Vogliamo giuocare?<br />

Cicciarè fra i bottoni vede una specie di straccetto minuscolo, arrotolato su se stesso, di un colore<br />

indefinibile. Allunga la mano.<br />

- Che… briscola! Son due lire, sai?<br />

- Chi te le ha date?<br />

- Don Peppino…<br />

I ragazzi si guardarono in silenzio; poi uno azzarda una domanda scabrosa: - Don Peppino tuo padre?<br />

- E che ne so io… una volta mi minacciò di tagliarmi la testa se dicevo quello.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

- Ma… non va a letto con tua madre?<br />

- Non lo so. Rocchicè si guarda i piedi, impacciato.<br />

- Non lo sai! Sei scemo… non vedi?<br />

- Non sono scemo. Quando lui viene la sera, mi dà due lire e mi manda a dormire con l’asino nel<br />

fienile.<br />

- Io non ci andrei!<br />

- Si, non ci andresti! Sentiresti che calci. Però mi vuole bene. Delle volte mi porta un pezzo di pane<br />

bianco e della ricotta salata.<br />

- E a tua madre vuol bene?<br />

- Ma, lo sa lui… Qualche volta la picchia, però sempre con le mani.<br />

- E tu che fai quando la picchia?<br />

- Io – risponde il ragazzo tra la vergogna e la rabbia – io esco fuori e mi metto a piangere.<br />

- Io lo prenderei a sassi, quant’è vera la Madonna…<br />

- Credi che non mi sia venuta la voglia più di una volta? Ma tutti dicono ch’è mio padre, e allora?<br />

- Già, allora ha il diritto di picchiarvi, te e tua madre.<br />

Su questa sentenza, piena della più antica saggezza, si rifà silenzio. Pare che tutti i ragazzi siano<br />

intenti a risolvere degli enigmi.<br />

Ecco, che un quinto si avanza dalla piazza. È un mingherlino, coi capelli di un biondo opaco, e<br />

zoppica.<br />

- Ohè, Micarè, come va la gamba?<br />

Il ragazzo, si avvicina al sasso e tende le due mani senza rispondere:<br />

- Tirami sù; da solo non ce la faccio ancora.<br />

Cicciarè e Petricè, scivolano lungo il sasso come due lucertole, gli prendono le mani e lo issano sulla<br />

piattaforma.<br />

- Mi hanno levata ieri l’ingessatura – spiega Micarè – mostrando la gamba pallida e scarna, ma ancora<br />

zoppico.<br />

- Avete fatta la causa? Chiede Cicciarè.<br />

- Quale causa?<br />

- Tua madre non ha fatto querela a Don Savu? Ti ha rotto una gamba, ti deve dare dei soldi. Lo disse<br />

Nicolino, quello che studia d’avvocato.<br />

- Si, dei soldi… con quell’uomo! Lo possano ammazzare davanti a un calvario come Mastrantoni il<br />

tabaccaio, sai cos’ha fatto? Ha chiamato mia madre e, con un nervo di bue in mano, l’ha costretta a<br />

rimettere la querela. Ci ha dato mezzo tomolo di grano e due litri d’olio. Mia madre gli disse:<br />

- Signorino, avete rotto una gamba al mio ragazzo per due arance, due sole… e ora non mi pagate<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

neppure le medicine. Sapete cos’ha risposto? Che le sue arance valgono più della mia gamba. Pure<br />

che ci vuoi fare? Loro sono i signori. Se vuoi mangiare!…<br />

Per la terza volta i ragazzi tacciono, come oppressi da una invisibile minaccia. Si guardano intorno e<br />

poi guardano in alto. Dall’abbraccio del sole con la terra a loro viene la provvidenza: le mandorle, le<br />

lattughe, i gambi aspri dei cardi, il miele delle api selvatiche.<br />

Siamo in aprile. L’aria è piena di densi odori vegetali. Sui poggi fioriti di ginestre si alternano ombre<br />

di nuvole e isole di sole. L’erbe invadono tutto: nelle celle campanarie, ai piedi dei santi, nelle nicchie<br />

esterne, su gli embrici: dovunque il vento ha accumulato un po’ di terriccio spuntano nepitelle e<br />

soffioni. Affacciata sul cornicione della chiesa, una pianta di violacciocche, col suo saio di velluto<br />

monacale, sembra una piccola suora che sporga la testa per spiare il mondo.<br />

I ragazzi guardano il giuoco delle nuvole estatici e i loro volti si rasserenano. Gli uomini sono cattivi,<br />

ma il cielo è buono.<br />

Improvvisamente un brivido di freddo li circonda: un enorme nuvolone candido ha velato il sole. Si<br />

levano in piedi e, come uno stormo di passeri, si mettono a cantare.<br />

"Nesci suli, nesci suli,<br />

pe’ lu Santu Salvaturi<br />

pe’ lu cielu, pe’ li stilli,<br />

pe’ nui poveri piccirilli:<br />

N’uma nenti da mangiari,<br />

nesci suli a caddiari.<br />

"Esci, sole, esci sole – per il Santo Salvatore – per il cielo per le stelle – per noi poveri bambini – non<br />

abbiamo nulla da mangiare – esci sole a riscaldarci".<br />

IL DIAVOLO DELLE DOLOMITI<br />

A Perra di Fassa, dove abitava e dove molto probabilmente conduceva ancora un albergo (io non lo<br />

vedevo dal 1939), per una banale caduta dalla bicicletta, è morta il 6 agosto la guida più famosa<br />

dell’Alto Adige, Tita Piaz, che tutti chiamavano "il diavolo delle Dolomiti".<br />

La popolarità di Tita nel Trentino era unica ed aveva risonanza internazionale guida preferita ed<br />

amico del defunto re Alberto del Belgio, che lo ebbe ospite più di una volta alla reggia di Bruxelles;<br />

scalatore di incredibile audacia, autore di diecine di salvataggi nelle condizioni più difficili, le<br />

maggiori avventure delle Dolomiti negli ultimi quarant’anni lo ebbero protagonista ed eroe. Nei casi<br />

estremi non c’era che lui per risolvere le situazioni impossibili. Chi andava con lui era sicuro del fatto<br />

suo, perché egli non solo conosceva ogni angolo ed ogni spigolo delle sue montagne come la palma<br />

della propria mano, ma ad un coraggio temerario accoppiava l’acume di una viva intelligenza, che<br />

faceva di lui un poeta dell’alpinismo.<br />

Io ricordo ancora il modo bizzarro con cui lo conobbi nella estate di quell’anno, alla vigilia dello<br />

scoppio della seconda guerra mondiale.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

L’editore Monanni, che aveva preso alloggio nel suo albergo di Perra, venne a trovarmi a Pozza di<br />

Fassa, dove mi trovavo in vacanza e mi disse che aveva parlato di me al Piaz e che questi aveva<br />

espresso il desiderio di conoscermi.<br />

- Verrò io da lui – dissi al Monanni – perché vorrei pregarlo di un favore. Ho il mio ragazzo maggiore<br />

che fa il pazzo per andare sulle Torri del Vaiolet: vorrei pregarlo di prenderlo con sé alla prima<br />

occasione.<br />

Vi andai di fatti la mattina dopo, non essendo Perra che una frazione di Pozza. Lo spiazzo davanti<br />

all’albergo era deserto; le otto o dieci sedie a sdraio, che vi erano aperte, erano vuote meno una, sulla<br />

quale stava sdraiato un uomo tarchiato, d’un color fulvo anche nelle brache di grosso fustagno e nei<br />

peduli di stoffa e corda. Tutto sbarbato, la grossa testa grigia dai capelli corti, la pelle di una tinta<br />

vigorosa ma arida, quasi calcinata, sembrava dormisse.<br />

A un tratto venne fuori dall’albergo una magnifica ragazza tirolese, si avvicinò al dormente, l’osservò<br />

un istante, poi afferrato con ambo le mani il piuolo di testa della sedia, gli puntò un piede nel centro<br />

della schiena e d’un colpo lo sbalzò fuori come da una catapulta. Quell’uomo era Tita Piaz, e solo una<br />

donna poteva permettersi quegli scherzi con lui, che non usava cerimonie neppure coi suoi regali<br />

clienti.<br />

Quella florida Valchiria, che come appresi dopo era la sua cameriera e un po’ anche la sua segretaria,<br />

era stata abituata da lui a quelle ruvidezze, perché Tita sopportava più facilmente una sgarberia che<br />

non una sdolcinatura.<br />

Quando mi presentai, ridendo per la maniera spiccia con cui la giovane tirolese lo aveva destato,<br />

prima si aggrondò, poi, ascoltata che ebbe la mia preghiera di portare con sé sul Vaiolet mio figlio alla<br />

prima occasione, si rasserenò.<br />

- Niente occasioni – mi disse col suo fare scontroso – mandamelo qui domattina all’alba; faremo le<br />

Torri io, lui e il mio ragazzo.<br />

La sera dopo mio figlio tornò dall’ascensione difficilissima felice ma sbalordito.<br />

- Papà – mi disse – quell’uomo è veramente un diavolo. Ci cacciò su, me e suo figlio, più con gli<br />

occhi che con le mani, poi ci piantò in cima e solo, senza corde, balzando e scivolando leggero come<br />

l’acqua di una cascata, scomparve giù per la parete, con un: fate da voi, macachi! Io, a vederlo<br />

scendere con quella rapidità, mi sentivo arricciare i capelli.<br />

Seppi poi da lui, in gran segreto, che aveva fatto quello, perché si era accorto che i due ragazzi<br />

andavano bene. Fu così che conobbi Tita Piaz e fu allora che mi parlò di un suo volume di memorie a<br />

cui stava lavorando e che apparve solo nel 1947 per i tipi del Cappelli di Bologna: "Mezzo secolo<br />

d’alpinismo".<br />

Tita Piaz non era un rozzo montanaro, ma aveva frequentato le scuole magistrali di Bolzano in qualità<br />

di "Bettel-student" (studente povero, a lettera mendicante) da dove fu scacciato a diciannove anni per<br />

la vivacità eccessiva del suo carattere e perché non aveva ottemperato all’obbligo della confessione<br />

pasquale. Aveva una cultura farraginosa, caotica, fatta attraverso le più disparate letture, e aveva<br />

portato nell’alpinismo un qualche cosa di intellettualistico, di generoso e di religiosamente<br />

consapevole, che non è facile trovare nelle guide comuni. Per lui la montagna era una liberazione, un<br />

luogo immensamente aperto dove egli scaricava la tensione estrema del suo carattere un po’ strano,<br />

dove la forte e quasi eroica bontà dell’anima faceva a pugni con un senso di ribellione permanente<br />

contro tutti i legami, tutte le imposizioni e tutte le tirannidi. Amico devotissimo di Cesare Battisti e<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

del povero conte Manci, durante la prima guerra mondiale fu condannato al capestro e si salvò con<br />

una fuga rocambolesca, ma questo non lo salvò dalla persecuzione del fascismo, che lo ebbe sempre<br />

irriducibile nemico.<br />

Tita, come tutti gli uomini d’azione, parlava poco delle sue vicende politiche, ma qualche volta, tra<br />

amici di cui si fidava, faceva qualche confessione.<br />

Quell’anno che fui a Pozza, una sera ch’era insolitamente di buon umore, in un gruppo di intimi narrò<br />

l’ultima, per allora, delle sue disavventure. Per il matrimonio della principessa Maria José egli era<br />

sceso a Trento, con l’intenzione di recarsi a Roma a salutare la futura regina, che aveva conosciuta<br />

bambina alla reggia di Bruxelles. Fu invece arrestato e chiuso in prigione. Allora pensò di scrivere alla<br />

principessa esclusivamente per comunicarle l’impedimento che gli aveva tolto il piacere di riverirla in<br />

terra italiana. Dopo qualche giorno venne scarcerato e a Perra gli giunse una fotografia con questa<br />

dedica: "A Tita Piaz, la seconda vittima del mio matrimonio".<br />

- Perché – gli chiesi io – la prima vittima chi era?<br />

Tita sorrise scontroso:<br />

- La prima vittima era stata lei, povera figlia.<br />

Caro, indimenticabile Tita. Egli amava i cimiteri! La sua anima ardente socialista si riposava nei<br />

luoghi dove tutti si diventa eguali. E nel cimitero della sua piccola Perra avrà riposo.<br />

PRIMAVERA IN MONTAGNA<br />

Da lungo tempo non assistevo al ritorno della primavera dimorando in campagna; quest’anno che vi<br />

assisto, dalla quiete un po’ freddolosa di una valle alpina, mi accorgo che avevo smarrito quasi<br />

interamente il senso sacro di questo ritorno.<br />

Noi, gente di città, a furia di vederci attorno la foresta di pietra dei grandi palazzi, le strade asfaltate,<br />

le piazze di marmo, le chiese, i monumenti e le ciminiere; circondati e quasi prigionieri come siamo<br />

delle opere composite dell’uomo, destinate non tanto alla soddisfazione dei suoi bisogni naturali,<br />

quanto alle esigenze di una vita complessa, arbitraria e artificiosa, finiamo col perdere il senso del<br />

lavoro spontaneo della natura, e quindi anche il senso religioso che regola il ritmo delle stagioni.<br />

Quasi si direbbe che ci accorgiamo del ritorno della primavera, più per quello che muta nelle nostri<br />

abitudini quotidiane, che per quello che si rinnova nell’aspetto delle cose. Per noi la primavera<br />

significa spegnere i termosifoni, cambiare i vestiti, ai colori gravi e alle lane pesanti sostituire colori<br />

più chiari e abiti leggeri, usare cravatte più gaie.<br />

In casa si riaprono i balconi, si ritorna in giacchetta sulle terrazze, si rimettono all’aperto i vasi di fiori<br />

e delle piante ornamentali; la grasta con l’alberello di limone e di oleandro, l’odorosa cedrina e la<br />

salvia, la violaciocca col suo velluto monacale e i gerani fiammeggianti, che pare debbano accendere<br />

l’aria coi loro colori di fuoco…<br />

Ma anche questa natura sana e addomesticata, le piante e i fiori che coltiviamo sui balconi, a vederli<br />

così soli e timidi nella terra esule dei vasi, perdono quasi il loro carattere vegetale, la loro immemore<br />

innocenza, per assumere un significato di simboli, di personificazioni magiche e demoniache di quelle<br />

aspirazioni celebrali alla gioia, alla bellezza e al mistero, che in noi sostituiscono i bisogni spontanei<br />

dell’anima.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

Anche quel poco di campagna che vediamo nei parchi e nei giardini pubblici non basta a suggerire il<br />

sentimento reale e profondo del rinnovarsi della natura.<br />

Quelle aiuole pettinate e regolari, coi fiori messi in ordinanza come le comparse sopra un<br />

palcoscenico, e coltivati in forme geometriche – ad arabeschi, a circoli, a triangoli, simmetrici –<br />

quegli alberi belli e inutili piantati lungo i viali come gli ombrelloni sulle spiagge, gli ippocastani coi<br />

loro fiori a grappolo, eretti fra le grandi foglie e ordinati come le candele di un lampadario<br />

ottocentesco, più che di un fenomeno spontaneo, danno l’idea di una primavera artificiale. Si direbbe<br />

quasi che nella esposizione di verde e di fiori, sia uno spettacolo che ai cittadini prepara<br />

l’amministrazione comunale, come la Fiera Campionaria e, una volta, la festa dello Statuto.<br />

Non vi è nulla da meravigliarsi perciò, se a furia di allontanarci dalla vera natura, noi cittadini<br />

abbiamo smarrito quel senso panico e sacro, che gli antichi attribuivano al ritorno della primavera e<br />

che avvertono ancora solo gli uomini di campagna.<br />

Di questo ritorno gioioso e improvviso io ebbi l’altro ieri quassù la sensazione quasi fisica.<br />

Si sa che in montagna la primavera è tardiva, ma in questa dove io mi trovo, l’inverno appare ancora<br />

più squallido, in quanto la vegetazione è di quella che perde interamente le foglie. Le pendici qui<br />

intorno sono coperte quasi esclusivamente di larici e più in giù di betulle e di frassini.<br />

Quando io vi giunsi, gli alberi tutti del color della ruggine, si profilavano coi loro rami spogli sul cielo<br />

sereno, come nel disegno di una robusta acquaforte. I torrenti, i lotti delle cascatelle, che d’estate<br />

riempiono con un chiacchiericcio così delizioso le pendici boscose, erano secchi e muti.<br />

Il fiume nel fondo della valle, con le ossature scoperte del suo greto seminato di pietrosi enormi,<br />

levigati e incavati a cotila, di un verdognolo funerario, era desolato e solitario come una via maledetta.<br />

La terra sembrava proprio in lutto. Per ore e ore non si levava intorno una voce, non si udiva cantare<br />

un uccello.<br />

Verso i primi di Aprile cominciarono a spuntare sui prati ancora completamente gialli alcuni fiori<br />

delicati. Era l’aconito quello stesso fiore velenoso, che avevo lasciato nello scorso autunno, con<br />

questa differenza: che l’aconito dell’ottobre era violetto e questo è bianco come la zagara. Ha un<br />

gruppetto di pistilli dorati in fondo al calice che, a guardarli dall’alto, danno l’immagine di un lumino<br />

acceso, di uno di quei lumini senza fiamma, che ardono accanto a Gesù morto nel Santo Sepolcro.<br />

La primavera pareva non dovesse venire mai.<br />

Ma improvvisamente l’altra mattina un rombo diffuso si rovesciò dalle cime sulla valle, l’animò tutta<br />

di un fremito enorme.<br />

All’alba la mia casa vibrava come una campana percossa, le finestre e gli usci si misero a tremare e a<br />

bisbigliare, con quelle curiose voci che sembrano un discorso premuroso e segreto degli spiriti<br />

familiari.<br />

Cigolavano sospiravano, mandandosi l’un l’altro attraverso gli anditi i loro misteriosi scricchiolii,<br />

come se dovessero comunicarsi un annunzio festoso.<br />

Destato da tutto quel clamore, balzai giù dal letto e, in vestaglia, mi affacciai sul balcone: un balcone<br />

di legno, che cigolava anch’esso come il ponte di una barca assalita dalle onde.<br />

Un vento fragoroso era sceso dalla parte del Tremoggia prima che apparisse il sole e, spettacolo<br />

curioso, portava sulle ali, piccoli fiocchi di neve, che vagavano nell’aria mossa come delicati petali di<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

fiori.<br />

La voce dei boschi produceva una romba così gioiosa, che pareva quella di una sagra. Enormi nuvole<br />

bianche, luminosissime venivano cacciate in fuga verso sud; dileguavano in un attimo dietro le cime,<br />

dando una animazione mitica al cielo di una limpidezza divina. I larici, le betulle, i frassini e i due<br />

noci che stanno sotto il mio balcone, coi nocchi già turgidi delle nuove gemme, cantavano, si<br />

agitavano, come se la mano invisibile della primavera li scuotesse energicamente per svegliarli dal<br />

loro lungo letargo. Quando sulle pendici del Pizzo Scalino si affacciò il sole, sulla valle ancora<br />

animata dal vento, la sensazione della nuova stagione era nell’aria. Era come se le cose avessero<br />

acquistato una levità nuova, e fossero meglio profilate nella luce.<br />

In pochissimi giorni riapparve la delicata e varia famiglia dei fiori. Spuntarono le violette, certi<br />

magnifici ranuncoli d’oro che sembravano battuti da un orefice, e delle delicate stelline blu, che danno<br />

l’idea di occhi di fata, aperti in mezzo all’erba per spiare il lavoro diligente delle api.<br />

Sui larici il verde riappare d’ora in ora più denso: si direbbe che sui loro rami si rapprenda l’azzurro<br />

del cielo, come d’inverno l’umidità si rapprende nella fioritura della brina.<br />

I noci davanti al mio balcone hanno messo fuori dai nocchi i mazzetti delle loro foglioline color<br />

tabacco, così deliziosamente ripiegate e rugose, che sembra siano state strette per tutto l’inverno nel<br />

cavo di una minuscola mano.<br />

Anche gli uccelli sono ritornati. Nei boschi si ode durante le ore più calde del giorno il discorso<br />

risentito del merlo, e la capinera posata sui rami delle betulle, pare affili dei minuscoli ferri da ricamo.<br />

Il tappeto soffice dei fieni rinverdisce, riappaiono i rettangoli bruni per semine primaverili; e a vedere<br />

le ragazze con le corbe in mano e i lunghi rastrelli sulle spalle, con quella loro strana forma di croce<br />

greca, sembra di vedere delle sacerdotesse che si avviino per la celebrazione di un rito sacro.<br />

L’alma mater riprende il suo provvidenziale lavoro della generazione sotto il cielo benigno:<br />

infaticabile serena e indifferente.<br />

MANGIA E PASSA<br />

Rafele Chinè era arrivato alla soglia dei cinquant’anni esercitando il mestiere di compratore di<br />

morchia. I suoi guadagni erano modesti e molta la fatica, ma Rafele apparteneva a quella categoria di<br />

persone, che con linguaggio evangelico si potrebbero chiamare umili di cuore. Aveva la moglie, una<br />

donnetta mite e faccendiera che lo curava, il suo commercio gli dava il sufficiente per vivere, e Rafele<br />

si considerava un uomo felice.<br />

All’inizio dell’annata olearia Rafele si metteva in giro, e quando il suo grido: "Oh!… li murghi!"<br />

risuonava nel vento fra le case, le donne dicevano: È Mangia e Passa. In tutti i paesi intorno lo<br />

chiamavano così per il fatto che dovunque andava, faceva il suo giro per raccogliere la morchia, poi<br />

mangiava in fretta un boccone nella prima osteria che gli capitava davanti, e ripartiva con qualsiasi<br />

tempo, in qualsiasi ora.<br />

Io lo ricordo: piccoletto tutto angoli acuti, con un viso ridicolo da furetto, sudicio come un pidocchio,<br />

cosa del resto inevitabile nel suo mestiere, portava su le spalle un sacco con dentro un otre, e sopra<br />

quello, ben in vista un grosso imbuto di latta, un mestolo e un manipoletto di erba, flessibile e<br />

fioccosa. Dopo avere col mestolo svuotato il fondo della giara, Rafele lo ripuliva con l’erba, ne<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

spremeva energicamente nell’imbuto la coda fioccosa, poi ricaricava tutto su le spalle e ripigliava la<br />

sua marcia e il suo grido: Ohi… li murghi!…<br />

Ma quando Rafele toccò i cinquant’anni, parve che il figlio delle tenebre avesse acquistato sopra di lui<br />

mano libera come su Giobbe. Il povero mercante di morchia prima perdette la moglie e poi perdette la<br />

vista. Una specie di muco grigio, tenace, fibroso, gli coprì le iride e le pupille, e i suoi occhi, a vederli,<br />

sembravano due acini d’uva schiacciati e rovesciati con la polpa in fuori. Mangia e passa non poté più<br />

andare in giro a comprare la morchia.<br />

Nelle prime settimane fu una cosa atroce. Rafele si sedeva nella sua casupola davanti al focolare, e<br />

piangeva ad alta voce, con una trenodia sconcertante, che faceva rabbrividire tutto il paese. Poi<br />

improvvisamente sospese la sua lamentazione. Al mattino si metteva seduto al sole davanti all’uscio<br />

con un bastone in mezzo alle gambe, gli occhi spenti rivolti verso il vuoto, e rimaneva cosi delle intere<br />

giornate, come se ascoltasse una musica lontana. Sembrava assorto in profondi pensieri e invece non<br />

pensava a nulla. Ascoltava il coro immenso delle voci che passavano nell’aria, e che acquistavano ora<br />

per lui una magica, insospettata risuonanza.<br />

"Caro mio Dio – diceva tra sé – sorpreso e quasi rapito da quella improvvisa rivelazione dei suoi sensi<br />

– quando le vedevo le cose, non avevo mai fatta attenzione alle loro voci; ora, che non le vedo più,<br />

esse pare mi facciano ressa intorno e ciascuna dica la sua!".<br />

Difatti aveva l’impressione che la sua esistenza si immergesse di ora in ora in una nuova, magica<br />

realtà.<br />

Pareva che la sua anima, rimasta fino allora nascosta dietro la cortina tenue della esperienza visibile,<br />

si riversasse ora verso l’esterno e gli affiorasse sui polpastrelli, sui pori della pelle, alla radice dei<br />

capelli, esaltando ed acuendo tutti i suoi sensi superstiti. Era come se nel suo corpo si fossero aperte<br />

miriadi di finestre piccole, e un nuovo Rafele intavolasse un animato discorso con la brulicante realtà<br />

di un nuovo mondo. Tutto gli dava una gioia insospettata.<br />

Com’era seduto davanti all’uscio, allungava la mano: ecco la nepitella, cresciuta tra i sassi e il muro:<br />

ecco il fragile stele le foglie con le loro nervature delicate. Ecco una vespa ch’entra nella casa, con le<br />

gambe lunghe di un giallo d’uovo. Era come se la vedesse: volteggiava intorno al cestone del pane,<br />

poi entrava nel pugno terroso attaccato alla trave. Ecco le pentole appese al muro, che gli parlavano<br />

ora col suono, e per la prima volta assumevano per lui il significato amoroso e protettore di divinità<br />

domestiche. Ecco la coperta di picchè, bianchi a fiorami e ad arabeschi. Egli la palpava a lungo, la<br />

sera quando andava a letto, gli pareva che la sua buona moglie, trasformata in qualche cosa di<br />

indefinibile e di puro, gli porgesse il suo volto trasfigurato, perché egli lo accarezzasse prima di<br />

dormire.<br />

Ma un giorno Rafele fece una constatazione paurosa: in casa le provviste erano completamente finite.<br />

Finito il grano, finiti i pochi legumi che costituivano le sue scorte, e finito anche il gruzzolo che la<br />

moglie, soldo su soldo, aveva messo da parte, e che gli aveva lasciato annodato in un fazzoletto da<br />

testa in fondo alla cassa.<br />

Quel giorno Rafele Chinè rimase chiuso in casa oppresso dalla più crudele disperazione. Per lui ormai<br />

non vi erano che due vie da scegliere: adattarsi a fare il mendicante, o sprangare la porta, distendersi<br />

sul letto e lasciarsi morire di fame. Ora nessuno, per disperato e coraggioso che sia, accetta la morte,<br />

se l’accettazione non viene da un disordine dello spirito; e il suo spirito era candido e ordinato come<br />

un altare. Immerso in quella sua nuova realtà magica, egli sentiva ora più reverenza verso la vita di<br />

quando aveva gli occhi. Non gli rimaneva ormai che adattarsi a stendere la mano, vivere dell’altrui<br />

carità.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

"In nome di Dio, amen – disse il giorno dopo segnandosi; giacché questo è il mio destino, bisogna<br />

ubbidire".<br />

Scese dal letto che il sole era alto, chiuse l’uscio a chiave e si mise in cammino verso la campagna. In<br />

campagna c’è meno gente ed egli voleva abituarsi, fare – come si dice – la faccia alla sua nuova<br />

condizione di mendicante. Silenzioso, col passo incerto, il viso proteso, una mano che annaspava ad<br />

ogni rumore, e l’altra che impugnava il bastone, si mise a camminare diritto, senza una meta precisa,<br />

come se partisse per una avventura. Era la prima volta che si spingeva fuori dal paese da quando era<br />

diventato cieco, e non sapeva se e come sarebbe riuscito ad orientarsi. Procedette così per una<br />

mezz’ora, tenendosi ai margini della strada e tendendo l’orecchio alle voci intorno. Udiva gli strilli<br />

delle donne che chiamavano i bambini, lo starnazzare delle galline, il grugnito di qualche maiale; e<br />

poi a poco a poco si accorse ch’era fuori dall’abitato, in aperta campagna.<br />

Era primavera e l’aria scorreva intorno tiepida e soave, impregnata dell’odore delle acacie dei<br />

sambuchi. Un fruscio immenso e carezzevole si levava dalla campagna.<br />

"Dove sono?… si chiese Rafele ascoltando quel coro che lo circondava come la musica interminabile<br />

di una danza. Improvvisamente si sentì invaso da una specie di ebbrezza mista allo stupore; si era<br />

perfettamente orientato: era ad una decina di passi dalla fabbrica di mattoni Pulicanò.<br />

A duecento passi da lì c’era un mulino, e poi una cava di sabbia. Tutta la campagna intorno si<br />

disegnava nella sua mente, nitida, precisa come un obiettivo fotografico. Avrebbe potuto indicare tutto<br />

intorno i cespugli, gli alberi ai margini della strada, i paracarri, i mucchi di breccio; le betulle che<br />

tremolavano nel sole coi tronchi bianchi; e oltre la siepe le file dei gelsi, gli orti, i fossati, i campi<br />

gialli di ravizzone, le antenne geometriche della luce elettrica. E tutto nella sua mente era immerso in<br />

quell’aria riposante e nativa che dà il verde con tutte le sue varietà e le sue sfumature. Gli veniva da<br />

piangere per la gioia. I suoi occhi non gli servivano più, ma la sua memoria visiva gli rappresentava il<br />

mondo come se lo vedesse.<br />

Pure ancora non aveva affrontati gli uomini. Quale accoglienza riservavano gli uomini al povero<br />

Mangia e Passa? Quel pensiero lo sgomentava.<br />

Fece ancora qualche centinaio di passi e finalmente udì venire da lì vicino scoccodare di galline. Nello<br />

stesso tempo ebbe la sensazione che alla sua destra vi era un vano nella siepe che circondava la<br />

campagna. Allungò il bastone: e si accorse che il vano c’era. Avanzò di qualche passo dopo avere<br />

varcato il vano, verso un’aia, e dopo un minuto di esitazione alzò la voce: "O buona gente, il povero<br />

cieco…". La sua voce lo sbigottì. Era la prima volta che chiedeva l’elemosina, ed ebbe l’impressione<br />

che sulla sua testa dovesse scoppiare un tuono. Rispose invece una voce giovanile di donna: "Venite<br />

poveretto, venite avanti".<br />

E come Rafele era rimasto incerto per qualche istante in mezzo all’aia, udì uno schioccare rapido di<br />

donna che gli andava incontro. Una mano ruvida ma fresca prese la sua mano "Venite avanti, sedete<br />

qui, davanti all’uscio. Dietro di voi c’è un ceppo". "Iddio vi benedica, signora – disse Rafele, mentre<br />

allungava la mano per trovare il ceppo".<br />

"Non sono una signora, ma una ragazza – disse ridendo la donna; sto cucinando per i miei che<br />

lavorano nella vigna. Attendete, fra un po’ vi porterò un bel piatto di fave fresche cotte col lardo".<br />

Rafele rimase immobile sul ceppo in mezzo al brulichio dell’aia. Era sbalordito.<br />

Ecco come cominciava la sua esperienza di mendicante! Si era immaginata una cosa triste e umiliante;<br />

invece le veniva incontro un fresco riso di fanciulla e un’accoglienza festosa. La ragazza non l’aveva<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

riconosciuto ed egli era felice. Sarebbe stato un mendicante qualunque, l’uomo che passa e stende la<br />

mano, senza lasciare alcuna traccia del suo passaggio.<br />

Per qualche minuto si udì la ragazza canticchiare nella casa, tra un acciottolio di piatti, poi lo<br />

schioccare energico della sottana e si avvicinò di nuovo e la voce fresca gli risuonò ancora su la testa.<br />

"Ecco, prendete e mangiate".<br />

"Prendete e mangiate! Non erano quelle le parole di Gesù agli Apostoli nell’ultima cena?".<br />

Rafele allungò le mani, toccò un piatto di creta e un pezzo di pane. Un profumo di vivanda calda, gli<br />

passò come un soffio sul viso.<br />

"Grazie, figlia cara, grazie!… Per l’anima dei nostri morti".<br />

Appoggiò il piatto su le ginocchia e, scorrendo lungo l’orlo, trovò il cucchiaio di legno. Addentò il<br />

pane e si mise a mangiare. Le fave fresche fresche, morbide, condite col lardo, avevano un sapore<br />

buono di carne vegetale, e il pane, con la crosta screpolata ai margini e in mezzo liscio, era soave al<br />

tocco come un volto umano.<br />

Come era buono quel mangiare! Rafele non aveva mai gustato il sapore di un cibo come quel giorno.<br />

Ancora qualche minuto e la ragazza ritornò. Dal suo respiro greve e da una specie di controllo nella<br />

voce Rafele comprese che quella aveva qualche cosa di pesante su la testa: "State attento – disse – vi<br />

metto qui su lo scalino dell’uscio un bicchiere di vino. Io vado a portare da mangiare ai miei nella<br />

vigna.<br />

Chiuse l’uscio a chiave e si allontanò a passi svelti.<br />

Ora Rafele era solo sull’aia. Continuò a mangiare ascoltando il proprio respiro. Quando ebbe finito<br />

allungò la mano verso lo scalino e trovò il bicchiere col vino e bevve.<br />

Un piacevole calore gli inondò le viscere. Poi posò il piatto, vuoto su la soglia, e un po’ imbambolato<br />

dal calore del pasto, si rimise in ascolto. Era il suo modo di ricominciare il colloquio col mondo.<br />

Doveva essere mezzogiorno perché un gran silenzio era nell’aria.<br />

Dalla gronda sopra la sua testa scendeva un pigolio minuto di passeri nidificanti, che sembravan il<br />

gocciare melodioso di una fontana.<br />

Rafele pensava tra sé: "Io ora sono solo al mondo, non ho più nessuno e non posseggo nulla. Sono più<br />

misero del passero del tetto e del verme sotto il sasso: essi possono procurarsi il cibo ed io non lo<br />

posso più. Eppure sono contento. Da oggi la mia esistenza dipenderà dalla carità degli uomini, eppure<br />

io sono felice. Un piatto di fave e un bicchiere di vino bastano per rendermi così! Ah!, quanto poco ci<br />

vuole per far felice un mendico!".<br />

<strong>ZIA</strong> CHIARINA<br />

Tutti gli anni, quando ragazzo ritornavo dal Collegio per le vacanze estive, la persona che, dopo i miei<br />

genitori, io rivedevo con più piacere, era la zia Chiarina, una sorella di mia madre, rimasta nubile, che<br />

viveva solitaria, con un corvo e una domestica, nella vecchia casa dei nonni, in fondo il paese.<br />

La zia Chiarina non era bella ma neppure brutta: piccola, nervosa con gli occhi neri, aguzzi come due<br />

spilli, tutti fuoco e volontà, il volto pallido, un po’ macerato dai quarant’anni, i capelli nerissimi,<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

spartiti sulla fronte e raccolti in due bande sempre lisce ed eguali, come gli ornamenti di una divisa,<br />

dava l’impressione di non essere mai stata veramente giovane, ma che non sarebbe invecchiata mai.<br />

Di solito, quando andavo da lei, la trovavo sulla terrazza o nell’orto, seduta vicino la bocca di un<br />

pozzo abbandonato, intenta a leggere dei libri di storia, o a fare la calza. Il corvo le stava sempre<br />

vicino, guardandola coi suoi occhi scuri e misteriosi, ed emettendo a volte un cra… cra… così strano,<br />

che pareva venisse dalle viscere della terra.<br />

In casa mia aveva fama di donna bisbetica e intrattabile. Mia madre, che le voleva nonostante tutto un<br />

gran bene, la chiamava la matta, testa dura, cervello a X; e quando si trattava di paragonare qualcuno<br />

di noi ad una persona indocile e di spiriti ribelli, il paragone era lì bello e pronto: questo ha la testa<br />

della zia Chiarina. Mio padre ne parlava come un essere anormale. Il fatto che teneva in casa un<br />

corvo, mi ricordo, era una delle cose che più gli davano sui nervi. Un corvo, diceva, un animale<br />

brutto, sozzo e di malaugurio! Capirei un merlo, una gazza, un passero, ma un corvo. Quella donna è<br />

decisamente pazza, ed è una fortuna che non abbia preso marito.<br />

Invece la zia Chiarina un giorno mi spiegò perché, fra tante bestie più graziose, utili e belle a vedere,<br />

ella aveva scelto un corvo, che doveva essere, non solo vecchio, ma antico tanto erano lunghi i peli<br />

che aveva intorno al becco, nodosi i piedi, e misteriosi gli occhi, rotondi e fissi come quelli<br />

dell’incubo.<br />

Vedi, figlio mio, disse un giorno che glielo chiesi, se ho scelto un corvo non è senza ragione. Il<br />

canarino vive al massimo otto o dieci anni: così pure il cardellino, il passero, il merlo e via dicendo<br />

tutti i cantatori. Il corvo invece vive duecento anni: questo che ho ha più di un secolo e, salvo<br />

disgrazia, vivrà altrettanto: non avrò quindi, il dolore di vederlo partire prima di me. Io soffro molto a<br />

staccarmi dalle cose che amo e poiché esse ormai sono pochissime ????? tra quelle che durano più di<br />

me.<br />

La zia Chiarina aveva una storia: eccola.<br />

Era l’ultima delle figliuole di mio nonno, ed egli l’amava molto, anche perché gli era nata alla soglia<br />

della vecchiezza, come un fiore sopra un vecchio tronco.<br />

A vent’anni era una cutrettola mingherlina e secca come un fiammifero di legno, tutta moti e scatti<br />

improvvisi, e un bel giorno, come tutte le ragazze, s’innamorò. Ma di chi? Quando si seppe di chi, in<br />

casa si produsse uno spaventevole scompiglio. La zia Chiarina si era innamorata del figlio del fattore,<br />

un bel giovanottone, molto intelligente che studiava giurisprudenza. Bisogna avere presente la<br />

struttura delle vecchie famiglie della nobiltà meridionale per rendersi conto della cosa; tradizioni<br />

rigide come il ferro, uno spirito di casta impenetrabile, qualche cosa di nobile e di stolido insieme, di<br />

feroce e di sublime.<br />

Il fattore fu scacciato ed il figlio consigliato a cambiare aria, se non voleva due pallottole di fucile<br />

nella schiena. La zia Chiarina, caricata con mia nonna e due cameriere sopra una carrozza, venne<br />

relegata a Santa Colomba, una bella casa di campagna che i nonni avevano a una diecina di chilometri<br />

dal paese, con l’ordine perentorio di dimenticare a breve scadenza la sua passioncella.<br />

Dimenticare? Non ci voleva che un ordine di quel genere perché la zia Chiarina diventasse più<br />

innamorata che mai.<br />

Ella non protestò, non pianse, non diede alcun segno esteriore del suo dolore, ma dentro mulinava le<br />

cose più strane ed inaudite del mondo.<br />

Intanto tentava tutti i mezzi per poter corrispondere col figlio del fattore. Difatti organizzò un piano<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

audace di fuga e gli scrisse, mettendolo a parte del progetto. La lettera fu affidata ad un merciaio<br />

passato davanti alla casina di Santa Colomba. Il piano era questo: il primo sabato, successivo alla data<br />

della lettera, la zia Chiarina, poco prima dell’alba, avrebbe lasciata la casa e, a cavallo, si sarebbe<br />

portata davanti la chiesa di un vecchio convento abbandonato, a metà via tra Santa Colomba e il<br />

paese. Il giovane l’avrebbe attesa lì, ed insieme, avrebbero preso il volo per qualche luogo.<br />

Un giorno di sabato, verso le quattro del mattino, zia Chiarina, silenziosa come un gatto, si alzò dal<br />

letto, indossò abiti da viaggio, uscì sul terrazzo, e lungo il grosso fusto di una pergola, si calò proprio<br />

davanti la scuderia. La notte era limpida, e dalle case di campagna intorno si cominciava a levare il<br />

canto dei galli. La zia Chiarina, entrò nella scuderia, staccò un cavallo gli mise a tastoni una briglia, e<br />

lo menò fuori avviandosi verso il cancello. Ma fosse la ora insolita e il fresco del mattino, o fosse uno<br />

squillante chicchirichì che partì dal vicino pollaio, il cavallo levò la testa ed emise un gagliardo e<br />

lungo nitrito. Il cocchiere, che dormiva nella rimessa, si svegliò di soprassalto, e infilate alla meglio le<br />

brache, balzò fuori. La zia Chiarina, spaventata ma decisa a tutto, aveva aperto il cancello e stava per<br />

attraversarlo quando si vide balzare davanti il cocchiere scalzo e scarruffato, che già aveva afferrate le<br />

redini del cavallo e tentava strappargliele di mano.<br />

Dove andate, signorina… a quest’ora?<br />

La zia Chiarina aveva in mano un frustino di nervo di bue. Lo alzò minacciosa:<br />

- Lascia il cavallo e non alzare la voce – disse al cocchiere – o ti do una frustata sulla faccia.<br />

Ma non è possibile, signorina – mormorava il povero uomo – per l’amor di Dio! Se il signor Barone<br />

sa che io vi ho lasciata scappare mi uccide!<br />

- Lascia le briglie! – soffiò ancora inviperita la zia Chiarina, e poiché quello non la ubbidiva, mulinò il<br />

frustino in aria, e glielo lasciò cadere sul viso con tutta la sua forza.<br />

Il povero uomo, mezzo accecato dal colpo, gittò un grido e lasciò le briglie. La zia Chiarina si<br />

aggrappò alla criniera del cavallo, ed agile e leggera come era, saltò in groppa e sparì galoppando tra<br />

gli alberi verso il convento.<br />

Vi giunse che schiariva l’alba, ma con suo grande spavento non ci trovò nessuno. Il sagrato erboso<br />

davanti alla chiesa era deserto, e qualche allodola vi passava sopra con un volo radente, gittando il suo<br />

"vid vid" spaurito.<br />

L’idea che quivi presso, era della gente, che l’avrebbe potuta vedere, il pensiero di avere lasciato tanto<br />

drammaticamente la casa paterna per andare incontro all’ignoto, la situazione impreveduta, il<br />

disappunto, per la assenza del suo innamorato, la incertezza intorno alle cause che avevano così<br />

rapidamente sconvolto il suo progetto, la misero in una tale angoscia, che si sentì morire. Lasciò<br />

andare il cavallo per l’erba a brucare, e lei si nascose sotto il portico della chiesa, rimanendo in attesa<br />

di qualche cosa di tremendo e di straordinario, di cui non sapeva rendersi ragione.<br />

E giunse difatti. Sotto gli ulivi, improvvisamente si udì lo scalpito di un galoppo, e subito dopo sbucò<br />

davanti alla chiesa il cocchiere cavalcando a bisdosso, e con un fazzoletto legato intorno alla faccia.<br />

Appena vide il cavallo della zia Chiarina, che brucava sul sagrato, discese e si mise a cercare intorno.<br />

Alla idea di essere vista in quelle condizioni dal cocchiere al quale ella aveva, qualche minuto prima,<br />

lacerata la faccia col frustino, la vergogna di doversi presentare in casa umiliata, dopo una fuga<br />

romantica e così vana, fece perdere addirittura la bussola alla zia Chiarina.<br />

Prima che il cocchiere si avvicinasse al cantuccio dove essa si trovava rannicchiata si levò in piedi,<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

prese la rincorsa, e si lanciò a capo basso, contro uno dei pilastri di pietra che circondavano il portico,<br />

battendo la testa come un ariete.<br />

Trasportata a casa tutta sanguinante, priva di sensi, la infelice innamorata stette alcune settimane tra la<br />

vita e la morte. Il nonno che la adorava e non sapeva che pesci pigliare, e la nonna piagnucolava,<br />

raccomandandosi perché si trovasse una via di uscita in quella intricata questione di cuore. E la<br />

soluzione venne improvvisamente ed inaspettata, quale era da attendersi da un carattere originale<br />

come quello della zia Chiarina. Appena si fu rimessa dalle ferite il nonno la prese con le buone, si<br />

dimostrò disposto ad accontentarla, e le chiese quale fosse il suo desiderio più urgente.<br />

- Vedere lui – disse la zia Chiarina risoluta – ho bisogno di chiarire una cosa.<br />

Immediatamente fu disposto che il figlio del fattore, si recasse a Santa Colomba per visitarla.<br />

Ella si alzava già, e lo ricevette sdraiata sopra una poltrona a braccioli.<br />

Era pallidissima, emaciata, colla testa fasciata da un foulard di seta verde, e le gambe da un damasco<br />

cremisino. Il colloquio si svolse alla presenza del nonno e fu brevissimo.<br />

La zia chiese al giovane se aveva ricevuta la sua lettera e perché non si era fatto trovare quella tale<br />

mattina davanti alla chiesa del convento.<br />

Quello, fortemente turbato, commise la enorme sciocchezza di dire la verità: non era andato perché<br />

temeva un inganno. Credeva che la zia Chiarina avesse scritto quella lettera sotto la minaccia dei<br />

fratelli, che volevano tendergli un tranello ed infliggergli magari una solenne bastonatura.<br />

Ah! – disse la zia Chiarina, fulminandolo coi suoi begli occhi neri, - tu mi hai creduta capace di<br />

questo, sia pure per debolezza? – Stette un istante pensierosa a capo basso: le piccole mani pallide le<br />

tremavano sul damasco cremisino. Poi si rivolse al nonno: "Papà – disse – mandate via questo lacchè;<br />

non ho più niente da dirgli".<br />

IL GIOGO<br />

L’agonia durava ormai da tre giorni. Pareva che il vecchio si battesse con la morte come Giacobbe<br />

con l’angelo di Dio e non volesse cedere.<br />

Nei primi due giorni aveva ancora parlato, vaneggiava chiamando i familiari, chiedeva degli arnesi di<br />

lavoro, sillabava pronostici sul tempo e sul raccolto.<br />

Le sue mani brulle e nocchiute, che già stringevano i pollici nel palmo, come fanno gli agonizzanti, a<br />

volte si contraevano nel gesto di quando afferravano la stiva, e il malato, con un borbottio reso<br />

incomprensibile dal rantolo ripeteva: Oh… Massà oh… Livanè.<br />

Nel suo delirio credeva ancora di arare e incitava i buoi. Ma quando venne l’alba del terzo giorno non<br />

parlò più.<br />

Supino nella capanna, sul letto di ginestre, dove lo aveva colto la febbre polmonare, ansimava. La<br />

capanna era di un solo vano, senza finestra.<br />

La luce entrava dalla porta e di tra le tegole del tetto; dal quale scendevano obliquamente liste sottili e<br />

polverose di sole, che vibrano nell’aria come corde percosse.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

Alcune api selvatiche ronzavano presso i sostegni, intorno ai loro bugni terrosi e, attraversando le liste<br />

luminose brillavano come faville.<br />

Serafina, la figlia del vecchio Rocco, che lo vegliava davanti allo stramazzo, seguiva con una specie<br />

di sgomento panico le vicende di quella interminabile agonia. A tratti pareva che la vita del povero<br />

agonizzante si arrestasse.<br />

Il suo petto si placava immobile; gli occhi inondati di un liquido sieroso si aprivano lentamente senza<br />

sguardo; il naso affilato e reso trasparente dal riverbero intenso della luce, si ergeva in mezzo al viso<br />

come un’appendice estranea e macabra, e la bocca fuligginosa, in cui apparivano tre o quattro<br />

mozziconi di denti, prendeva quell’espressione di misterioso patimento, che caratterizza la maschera<br />

dei trapassati.<br />

"È morto?" – si chiedeva la Serafina sbigottita. E per assicurarsene, gl’insinuava la mano nell’apertura<br />

della camicia, cercando il petto dalla parte del cuore. Sembrava proprio morto.<br />

"O patri meu!" cominciava a piagnucolare la Serafina, con un incoercibile senso di liberazione; e si<br />

alzava per andare a chiamare il marito, che vangava nell’orto. Ma ecco che il petto del vecchio si<br />

sollevava come un’onda, e il rantolo riprendeva con un ritmo implacabile.<br />

Allora la giovane si accasciava in preda a un vero terrore, e rompeva in una invocazione disperata: - O<br />

Dio, Signore, perché lo fate soffrire tanto, così a lungo? San Giuseppe benedetto, protettore della<br />

buona morte, aiutatelo voi a rendere l’anima in pace!<br />

Verso mezzogiorno passò di lì il medico. Entrò nella capanna, si curvò sulle gambe e prese il polso<br />

del vecchio, ascoltando il rantolo crepitante che gli usciva dalla gola. "Dottore – chiese la donna – con<br />

una ingenuità quasi astiosa – sono quasi tre giorni ch’è in agonia e il Signore non se lo prende.<br />

"Il Signore non ha fretta" – disse il medico. "Ma perché soffre tanto dottore?". Il medico accennò<br />

appena un sorriso superficiale: "Non vedi che macchina?" e allargò l’apertura della camicia sul petto<br />

del malato.<br />

Quel petto coperto sullo sterno da un pelame grigio ed ispido come limatura di ferro, si sollevava e si<br />

abbassava con un ritmo poderoso, mostrando la curva e l’annodatura delle costole forti come le<br />

vertebre di un cavallo. Sulle clavicole dalle infossature profonde, il collo era incordonato da rughe<br />

grosse come panneggi, sotto le quali si vedeva fluire, a pause regolari il ritmo del sangue. "Un<br />

organismo come questo – continuò il medico – dà del filo da torcere anche alla morte. Ma la sua ora è<br />

venuta. Non c’è niente da fare.<br />

Inumidiscigli ogni tanto le labbra con acqua e aceto molto allungato, e lascialo tranquillo. Piuttosto<br />

perché lo tenete in questa capanna? Portatelo fuori, all’aperto, sull’aia sotto quel carrubo. Morirà più<br />

sereno, povero vecchio!<br />

Appena il medico se ne fu andato, il malato venne trasportato sull’aia e adagiato all’ombra di un<br />

maestoso carrubo, sopra una duna di paglia, che, sotto la luce intensa del giorno estivo, brillava come<br />

un letto d’oro.<br />

Appena all’aperto il vecchio aprì gli occhi, e le sue labbra si rimisero a farfugliare parole<br />

incomprensibili. Pareva che ascoltasse e parlasse col coro immenso della campagna circostante.<br />

Il caldo era soffocante. Dai campi intorno, screpolati dall’arsura sparsi di cardi, di cicute, di silique,<br />

vaporava un alito afoso che velava le lontananze; e tutti gli alberi, dagli arbusti, dai peri, dai ciliegi in<br />

mezzo alle vigne, dai lentischi e dai ginepri sparsi per le terre, si levava un canto interminabile.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

Migliaia di cicale frinivano a distesa, riempiendo l’aria di una musica così vasta che finiva col non<br />

avvertirsi più, come non si avverte nelle officine il rombo delle macchine, quando gli orecchi vi si<br />

sono assuefatti. Sotto quel coro maestoso il vecchio parve rianimarsi e diventare inquieto.<br />

Le sue grandi mani incominciavano a contrarsi, e dalla gola gli usciva ancora, a pause, con forza il<br />

grido che incitava i buoi: "Oh… Massà… oh Livanè.<br />

Nel suo delirio egli si vedeva ora davanti una pianura sterminata come il cielo, tutta sparsa di cicute,<br />

di cardi e di silique che cantavano nel vento. Oh come cantavano, con la voce di tutte le cicale, di tutti<br />

gli uccelli, quelle siliquie, quei baccelli di lupini a punta, che foravano le mani e portavano dentro il<br />

seme bianco e amaro!… Egli, il vecchio Rocco, ottantenne, era sul limitare di quella pianura, nel<br />

paese misterioso della morte. Erano tre giorni che si era messo in cammino per raggiungerla, perché la<br />

sua ora era venuta; ed ora che l’aveva raggiunta stanco, trafelato, con la bocca arsa e le gambe rotte,<br />

ora doveva afferrare in mano la stiva e ararla tutta quella pianura, con solchi interminabili fino al<br />

confine del cielo, fin laggiù dove il mare appariva come immenso campo di lino fiorito.<br />

Aveva tanto lavorato nel mondo, povero vecchio! Da quando aveva quindici anni non aveva fatto altro<br />

che rivoltare la terra, con la vanga e con l’aratro, rompere le zolle in tutte le stagioni. – Mi riposerò<br />

quando sarò morto – diceva tra sé, la sera lasciando il lavoro, mentre si faceva il segno della croce con<br />

le mani intrise di terra.<br />

Ed ecco invece che anche nel mondo di là gli toccava arare, curvarsi sul solco in eterno, aprire con<br />

l’aratro la pianura che gli stava davanti senza fine.<br />

Oppresse dalla luce intensa le sue pupille semispente vedevano sulla sua testa come una grande<br />

nuvola scura, e oltre quella nuvola un cielo uguale, grigio come il cielo di ottobre, quando tra le siepi<br />

spittinisce il pettirosso e la lumaca esce sul sasso a cercare l’ultimo sole. Egli doveva arare, ma i buoi,<br />

dove erano i buoi? Non aveva buoi e non si vedevano in nessun luogo su quella pianura grigia e<br />

interminabile, tutta sonora di silique e di cardi che cantavano al vento.<br />

- O Massà!… O Livanè!… - Le sue labbra con ira ed angoscia bisbigliavano l’incitamento consueto e<br />

le sue grandi mani si contraevano nell’atto di afferrare la stiva.<br />

La figlia Serafina lo vegliava terrorizzata. Quell’agonia interminabile le appariva adesso come un<br />

castigo divino. Tutti i terrori delle credenze popolari le venivano in mente, le argomentazioni speciose<br />

delle fattucchiere, quelle degli isterici che presumono di parlare coi morti e si spacciano come<br />

interpreti del loro mondo misterioso.<br />

Nella sua fanciullezza ella aveva sentito parlare di codeste lunghe agonie, di peccati che legavano<br />

l’anima al corpo con vincoli che non potevano essere sciolti, se non da formule magiche o da<br />

espiazioni rituali.<br />

Che a suo padre pesasse sull’anima un simile peccato, una di quelle infrazioni al corso maestoso<br />

dell’ordine naturale, i cui effetti sono inesorabili come quelli delle leggi meccaniche? O non piuttosto<br />

il vecchio aveva contravvenuto ad uno di quei riti casalinghi che santificano le stagioni, il ritmo<br />

ineffabile della fioritura e della fruttificazione, a cui presiede una specie di mitologia tra angelica e<br />

demoniaca, che ricorda quella degli antichi lari? E se così fosse chi avrebbe liberato il morente dal<br />

castigo divino?<br />

A un tratto le balenò alla mente un dubbio. Forse il vecchio, durante la sua vita, aveva bruciato un<br />

giogo, l’arnese sacro dell’aratura, quello che nell’aratro rappresenta ciò che sono le braccia della<br />

croce.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

Più di una volta ella aveva sentito dire che colui il quale commette un simile peccato, quando giunge<br />

all’agonia non può morire, se prima non gli pongono un giogo sotto il collo.<br />

Con un brivido di terrore fissò il padre. Ecco, il vecchio peccatore legato alla vita dal suo peccato<br />

come da un maleficio, che ansimava lottando con l’angelo della morte, e credeva ancora di arare.<br />

Bisognava liberarlo.<br />

Si alzò, entrò nella casa attigua all’aia e, dopo qualche minuto, venne fuori portando sulle braccia un<br />

giogo. Era di legno di olmo e il lungo uso, specie nelle incavature, dove esso poggiava sul collo dei<br />

buoi, lo aveva reso liscio e lucente come l’osso. Si avvicinò al moribondo e con un brivido gli sollevò<br />

la testa, mentre col ginocchio gli spingeva il giogo tra il collo e le spalle.<br />

Il vecchio aprì gli occhi e fissò la figlia con una specie di spavento.<br />

Sotto il riverbero intenso della luce la vedeva appena come un’ombra, una lunga ombra bianca<br />

indistinta e sinistra. Nel suo delirio quella era la morte. Eccola ch’era giunta, la sua nuova padrona.<br />

Gli si avvicinava e lo legava all’aratro.<br />

Con un sospiro angoscioso il vecchio, si mise a brancicare, cercando con la mano, l’arnese sacro sotto<br />

il collo. Era proprio così. Ecco l’anello, il chiovolo, ecco i fori per le giuntoie e finalmente il liscio<br />

dell’accollatura, su cui avrebbe posato il suo povero collo in eterno.<br />

Oh la pianura immensa, desolata che aveva davanti, e come squillavano le silique sotto il vento della<br />

morte! Egli doveva ora arare quella pianura, sotto quel cielo grigio, e il suo lavoro sarebbe durato per<br />

l’eternità.<br />

- Oh Massà!… Oh Livanè!…<br />

I buoi non c’erano ed era lui che doveva tirare l’aratro.<br />

In nome di Dio, avanti.<br />

Ebbe come un singulto, strinse i pollici nei pugni ed emise un sospiro lungo, profondo dietro cui parve<br />

distaccarsi l’anima. Poi il suo volto assunse una espressione di pianto, la espressione d’un bimbo<br />

battuto, e rimase immobile sulla paglia, lucente come un letto d’oro.<br />

IL PRIMO AMORE<br />

Non la rivedevo da oltre vent’anni, e di lei mi rimaneva, nelle più remote regioni della memoria, un<br />

ricordo squisito e tenero, come di un suono di flauto, udito di notte, durante un’ora di meditazione<br />

amorosa. Il ricordo di tutte le donne che io ho amate, è legato in me ad un motivo musicale. Il suo, che<br />

era il primo, mi ritornava sempre col vecchio motivo di una canzone napoletana, udita quando ero<br />

ragazzo, accanto a lei, mentre sul terrazzino ammiravamo i fuochi d’artifizio, che chiudevano una<br />

rumorosa festa al nostro paese. Si chiamava Clotilde. Io avevo allora sedici anni ed ella due mesi più<br />

di me; eravamo cugini e si può dire che eravamo cresciuti insieme.<br />

Il nostro amore era nato come un seme sull’angolo di una via campestre ed era stato una cosa così<br />

spirituale ed innocente che, se non fosse stato il primo per me e per lei, non l’avremmo neppure<br />

registrato nel libro della memoria. Era nato col primo crepuscolo dei sensi, in quel divino e pericoloso<br />

momento della pubertà, durante il quale nel ragazzo improvvisamente si desta l’uomo, e noi ci<br />

eravamo innamorati, l’uno dell’altra, senza dirci nulla, comunicandoci con gli sguardi soltanto il<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

desiderio dell’anima.<br />

Quel qualche cosa di sensuale che fermentava in fondo a questa aerea musica di sentimenti, veniva<br />

soffocato e purificato in me dalla inesperienza, dalla soggezione che mi mettevano addosso certi<br />

torbidi pensieri fugaci e soprattutto dal suo candore. Clotilde era tanto limpida e verginale, che io mi<br />

spaventavo all’idea di una carezza ardita, di un atto in cui ella avesse potuto indovinare un mio<br />

desiderio impuro. Perché un tal desiderio l’avrebbe allontanata da me ed io mi sarei sentito come<br />

Adamo scacciato dal Paradiso.<br />

Pensando a quello che io godevo allora solamente a guardarla e a starle vicino, mi faccio un’idea di<br />

quello che può essere la beatitudine, così come è concepita nel paradiso cristiano. Contemplare<br />

l’oggetto amato con una specie di esaltazione che mi portava fuori dal mondo, questo era per me in<br />

quel tempo il paradiso. Noi sedevamo sul davanzale di una finestra. Dalla strada piena dell’ombra<br />

vespertina veniva il cicaleccio dei ragazzi che giocavano a rincorrersi, e di quando in quando il canto<br />

di un gallo. Io guardavo le sue braccia, la sua fronte china, i suoi capelli; e poi i fiori di garofano<br />

vicini, la pergola, e lontano il mare; e l’universo mi sembrava il capolavoro di un dio felice, tratto dal<br />

nulla per la gioia delle sue creature.<br />

Pure quell’amore non ebbe seguito; fu tra i miei numerosi amori il più squisito, ma anche il più sterile<br />

di tutti.<br />

L’anno dopo io rimasi orfano, morì mio padre, i miei studi proseguirono in modo affannoso e<br />

irregolare: presto dovetti provvedere a guadagnarmi da vivere. Mi impiegai, lasciai il mio paese per<br />

quattro o cinque anni e ritornando, dopo tanto tempo, la seppi sposa. Aveva sposato un buon ragazzo<br />

di una provincia vicina, che pareva fosse abbastanza ricco e le volesse bene.<br />

Io ebbi allora un poco d’amarezza, poi mi dimenticai di tutto e questo primo amore lo relegai nelle<br />

reliquie del passato, quasi direi senza rimpianto. Di lei ebbi qualche notizia di quando in quando,<br />

attraverso i suoi fratelli: seppi che aveva avuto dei figli, che gli affari della sua famiglia andavano<br />

bene e che era felice. La sua immagine si affievolì nella mia memoria e non ci pensai più.<br />

Ma ecco che a Roma, l’anno scorso, incontrai in casa di un fratello di Clotilde, il marito di lei. Era un<br />

ometto basso, tarchiato, con qualche traccia di rachitismo nelle spalle incassate, ma<br />

straordinariamente affabile ed espansivo. Io ero diventato quasi celebre, i miei lavori letterari avevano<br />

avuto una certa fortuna e quindi l’accoglienza che mi fece quel mio ignoto cugino, fu non solo festosa,<br />

ma piena di rispetto e quasi direi di reverenza. Egli, il buon provinciale che accudiva alle sue terre, era<br />

orgoglioso di avere acquistato per parte di sua moglie un parente, il cui nome e il cui ritratto<br />

correvano su per i giornali, un letterato che scriveva dei libri. Mi strinse la mano con tutte e due le<br />

sue, mi disse che Clotilde aveva voluto subito acquistare i miei romanzi, che li aveva letti e che<br />

certamente mi avrebbe rivisto volentieri dopo tanto tempo. Mi pregò di passare una settimana a casa<br />

sua; egli mi sarebbe stato eternamente grato di questo onore.<br />

Non avrei mai creduto che la possibilità di rivedere dopo venti anni – e quali anni! – l’oggetto della<br />

mia prima passione, potesse turbarmi, eppure quell’invito mi mise addosso, insieme ad una certa<br />

curiosità, una sottile inquietudine. Nondimeno accettai. Sarei andato da Clotilde al ritorno dal mio<br />

paese e mi sarei fermato due o tre giorni in casa sua.<br />

Andai di fatti a rivedere mia madre, sistemai alcuni affari e al ritorno, alla stazione di X, trovai un<br />

carrozzino che il marito di Clotilde mi aveva mandato per portarmi al suo paese, un grosso borgo<br />

dell’interno, ad otto chilometri dal mare.<br />

Eccomi in viaggio in una limpida sera di settembre. Il cielo è terso, il sole è caduto, gli olivi<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

conservano sulle cime il bagliore del tramonto. Il paesaggio è misero e nudo. Davanti alle rare case di<br />

campagna stanno seduti dei contadini scalzi; qualche cane abbaia dietro le siepi di fichi d’India. Il<br />

cavallino nero trotta davanti a me con la testa e le orecchie aguzze profilate nel sereno colore dell’aria<br />

ed io penso: fra un’ora rivedrò la prima creatura che ho amata d’amore nel mondo, l’oggetto della mia<br />

più pura passione, la sola fra le mie passioni che rimase pura, incontaminata come una speranza.<br />

Il cuore mi batte un poco. Come la ritroverò? L’immagine che di lei rimane nella mia memoria è un<br />

po’ confusa e poi è quella giovanile, che invano io mi sforzo a sfrondare del suo fascino. Ora sono<br />

passati vent’anni e Clotilde non sarà più quella, come io non sono più quello di allora. I miei bei<br />

capelli inanellati, neri, quasi azzurri, si sono ridotti a pochi cernecchi grigi, che invano contendono il<br />

sommo del capo alla calvizie. Intorno alla mia bocca gli anni e le amarezze hanno chiuso il sorriso in<br />

due parentesi profonde come ferite; l’anima è delusa, il corpo è minacciato dalla placida pinguedine.<br />

E lei, la cara giovinetta, pallida, dagli occhi di colomba, che baciai sul davanzale di una finestra più di<br />

venti anni fa, come sarà ridotta dal tempo, dalle cure domestiche e dalla maternità? Che cosa mi dirà<br />

vedendomi, si ricorderà del passato, perché ha voluto rivedermi?<br />

Ho l’impressione di andare incontro a delle emozioni penose, ad una specie di tormento segreto. I<br />

miei pensieri mi danno fastidio; certe pure, aeree sensazioni del passato mi sono estranee. Ho paura<br />

che qualche rievocazione o qualche allusione turbino la serena felicità di quella donna che fu per me<br />

un angiolo, ed ora mi è quasi ignota e lontana. Quando, svoltando la strada, sul rovescio di un poggio,<br />

vedo le prime case del paese dove abita Clotilde, mi sento preso da un brivido. Ecco, ella è qui, fra un<br />

quarto d’ora la rivedrò, le stringerò la mano; e penso con tristezza al suo volto che non so immaginare,<br />

ai suoi occhi, ai suoi capelli. Sotto una casa a due piani il carrozzino si ferma e davanti al portone<br />

vedo il mio cugino che mi attende sorridendo. Mi stringe la mano con effusione, dà un breve ordine al<br />

cocchiere e noi imbocchiamo una scala un po’ buia, fresca come una grotta.<br />

- Andiamo – dice il mio bravo parente. – Clotilde ti aspetta.<br />

Mi aspetta? Dio mio, io non so che cosa le dirò quando me la vedrò comparire davanti. Mi sento<br />

confuso ed emozionato come un ragazzo.<br />

Da una parte e dall’altra della scala vedo dei magazzini chiusi con cancelli di legno, attraverso i quali<br />

mi giunge l’odore caratteristico del grano custodito negli alti cannicci, e un forte odore di botti e di<br />

vino. In quella casa sento l’abbondanza e la ricchezza tranquilla. Entriamo in un corridoio, a destra vi<br />

è una specie di lavabo con delle brocche e delle gorgolette in terra cotta, roride di acqua freschissima.<br />

Passiamo in una stanza con mobili di vimini, poi in un salotto.<br />

- Siedi – mi dice il mio parente – vado a chiamare Clotilde.<br />

Egli esce, ed io, rimasto solo, guardo alcune fotografie appese al muro. Una mi colpisce subito. Sopra<br />

uno sfondo di cielo nuvoloso, nel quale si profila debolmente una palma, si avanzano due figure<br />

rigide: un uomo e una donna. Lui più basso di lei, piccolo, con le spalle incassate e i baffi ravviati: è<br />

vestito di nero e tiene in una mano un paio di guanti. È il marito di Clotilde. La donna è lei. Porta in<br />

testa un enorme cappello carico di penne di struzzo e di fiori finti. È vestita da nozze, con un abito<br />

goffo come quello che si fa indossare alle madonne di legno nei villaggi; al collo porta una catenella<br />

con appeso un ventaglio che le pende fra le ginocchia. È questo il mio primo amore, la dolce creatura<br />

che mi ha fatto palpitare a sedici anni? Dio come è goffa! La sola cosa che mi dà una certa emozione è<br />

il suo viso ovale, dolce, un po’ spaurito e rigido nell’atteggiamento assunto davanti all’obiettivo. Con<br />

quel vestito, le mani penzoloni, una grossa borsa come quella per fare la spesa, gli occhi intenti e quel<br />

cestone sulla testa mi pare un idolo, l’idolo di una religione ridicola e primitiva.<br />

Il mio cuore si vuota; sento dentro una profonda amarezza, mi sembra di aver perduto qualche cosa di<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

intimo e di prezioso, e non so che cosa sia. Odo dei passi, uno pesante, un altro leggero. Mi volto:<br />

dietro il marito entra una donnetta grassa, vestita alla casalinga, con le mani sul seno, i capelli arruffati<br />

come un nido, con qualche filo grigio e un viso appassito.<br />

È lei, Clotilde!<br />

- Benvenuto il nostro illustre cugino – mi dice, e mi tende una mano grassoccia, non eccessivamente<br />

pulita che porta le tracce di un diuturno lavoro domestico. – Come stai, caro Giovanni, quanto è che<br />

non ci vediamo?<br />

- Sono venti anni, cugina, venti anni. E tu come stai?<br />

- La salute c’è, il pane anche, e ringraziamo Iddio! – Nel dire queste parole rivolge un’occhiata al<br />

marito con un senso di gratitudine. Poi riprende a parlare.<br />

- Accomodati, quanto tempo starai con noi… tre giorni?… troppo poco. Noi abbiamo appreso i tuoi<br />

trionfi, sappiamo che sei diventato un uomo celebre. Io non leggo mai, non ho tempo, caro cugino; ma<br />

i tuoi libri li ho presi tutti e ne tengo sempre qualcuno sul tavolino da notte.<br />

Io la guardo, sorpreso, malinconico, deluso. Della Clotilde di un tempo non ha che il sorriso, un<br />

sorriso sfiorito, reso più dolce da una attitudine pietosa e materna. Il suo corpo è sformato, il suo volto<br />

senza splendore e gli occhi sono tristi, con uno sguardo angusto, da animale domestico. Il neo sulla<br />

pinna del suo naso un po’ lungo, è diventato grosso come una lenticchia e dà alla sua fisionomia un<br />

non so che di grossolano e di volgare.<br />

Invano io cerco su quel viso, in quegli occhi tristi e buoni un qualche ricordo, una emozione del<br />

passato. Clotilde mi sorride, parla, risponde e la sua anima mi si rivela tutta ad un solo sguardo come<br />

la palma della mano.<br />

Marito e moglie mi parlano del raccolto, delle tasse, dei figliuoli. Uno dopo l’altro questi entrano nella<br />

stanza, me li presentano: Enrichetto, Pietro, Rachelina e il maggiore Giovanni, un ragazzo sui diciotto<br />

che fa il liceo.<br />

- Si chiama come te, mi dice Clotilde.<br />

- Ah!… come me? – dico io con una breve emozione. Penso che al suo primo figlio, in ricordo del<br />

nostro amore, abbia dato il mio nome. Ma lei soggiunge: è il nome del padre di mio marito. E tu non<br />

hai preso moglie, perché? Non ti è piaciuta nessuna di coteste donne eleganti della città?<br />

- Non ci ho pensato, Clotilde, non ci ho pensato.<br />

Ella mi guarda con una certa pietà. Io le ricerco gli occhi, ma il suo sguardo non ha una emozione.<br />

Andiamo a tavola: lei ordina, comanda, fa le parti, ammonisce i bambini, sorveglia amorevolmente il<br />

marito e per me ha le speciali premure che si hanno per un ospite di riguardo. La cena è abbondante,<br />

festosa.<br />

- Questo vino è della nostra vigna – dice Clotilde. I formaggi, la ricotta, i polli, le verdure: tutto hanno<br />

in casa, stanno bene, sono ricchi ed ho l’impressione che siano felici. Un’aurora di benessere mi pare<br />

vapori dalle vivande, dalle bocce di vino rosso allineate sulla tavola, dalla frutta profumata e dal cibo<br />

rubicondo dei bambini. Uno di essi, la Rachelina, somiglia a sua madre: il suo visino ovale delicato e<br />

fresco come un fiore di magnolia è segnato da piccoli nei bruni. Anche i suoi occhi neri hanno lo<br />

sguardo soave della colomba. Io lo contemplo, quel visino che viene verso la vita, lo fisso a lungo<br />

inquadrato tra due bottiglie, sotto la luce giallastra dei candelieri ad olio, a quattro becchi, e mi pare di<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

essere fuori dal mondo, in un paese dolce e triste, dove i ricordi delle passate felicità si raccolgono in<br />

una specie di agape religiosa.<br />

Dopo la cena i ragazzi vanno a letto. Clotilde, suo marito ed io ci sediamo sopra una loggetta che<br />

guarda verso il mare e ci mettiamo a discorrere. Parliamo del nostro paese, dei nostri parenti morti,<br />

rievochiamo ricordi di giovinezza e a un tratto Clotilde diventa silenziosa.<br />

Io la vedo sotto il debole chiarore delle stelle restare come assorta, con la testa china, ed ho la<br />

sensazione inquietante che pensi al nostro amore lontano.<br />

Mi sembra che i suoi pensieri giungano a me sensibili come un profumo, che una specie di fluido<br />

passi dal suo cervello al mio e che tutti e due vaporino un rimpianto verso il passato, come due<br />

incensieri nella navata di un tempio solitario. Essa rimpiange forse di non essere stata mia, di non<br />

avermi seguito nella mia via dolorosa e combattuta e di non avere dato a me il fiore della sua vita. Mi<br />

sento preso da uno strano disagio.<br />

La notte solenne è sopra di noi come la corrente di un fiume. Vedo il moto appena percettibile degli<br />

astri che si spostano in stormi immensi come per una divina migrazione, e mi pare di udire il rombo<br />

del tempo che cade, la cascata misteriosa che porta con sé le cose del mondo. Clotilde tace. La sua<br />

testa si china a poco a poco, il mento si appoggia sul petto e, il respiro si ingrossa, calmo, sonoro nella<br />

tranquillità, del sonno. La sua vita è conchiusa, essa dorme.<br />

PREVITELLU<br />

Nessuna stagione in Calabria ha il fascino dell’autunno.<br />

Dopo le grandi siccità estive, l’aria bianca, opaca, tramoggiata per mesi dall’interminabile coro delle<br />

cicale, col settembre, a poco a poco, ridiventa diafana. Il cielo si sfilaccia come un maestoso<br />

padiglione di seta ragnata e si decompone in trame tenui di vapori a tinte sfumate e finalmente, verso<br />

la fine del mese, sulla linea d’indaco del mare, si ripresentano quei grandi cumuli di nuvole bianche,<br />

che i contadini chiamano "i castelli". Stagnano, si gonfiano con un moto invisibile, per qualche giorno<br />

assediano l’orizzonte, spostandosi come in una manovra e disegnando fantastici scenari omerici.<br />

Credo che solo guardando quelle nuvole si può capire come sui mari del sud siano nate le più<br />

affascinanti fantasia dell’antichità.<br />

A sera il cielo prende un colore di porpora sfatta, sotto i cui riflessi i boschi si disegnano ariosi, in una<br />

magica prospettiva, come nell’obiettivo di un cosmorama. Finalmente un pomeriggio all’improvviso,<br />

quelle nuvole s’addensano, s’infoscano; il tuono rompe la pesante inerzia dell’aria, e come una manna<br />

di antiche divinità cadono le prime piogge.<br />

Allora la terra si trasfigura con una rapidità da prodigio. Sembra debba ritornare la primavera. Le<br />

macee, i sentieri, le bassure dove il vento ha mulinati i semi della grande estate, si coprono di verde e<br />

di piante grasse, le siepi di sambuco intorno buttano miriadi di polloni carnosi, e a guardare la<br />

campagna, quel verde improvviso ed impetuoso, fa il più strano contrasto col croco carico delle vigne<br />

che si spogliano, e il rosso dei ciliegi che, in mezzo a gli orti, sembrano alberi ornamentali.<br />

Quando io ero ragazzo per me quello era il periodo dell’anno più emozionante, perché segnava il mio<br />

ritorno a gli studi.<br />

Le vacanze erano finite e dovevo rientrare in seminario.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

Sull’epoca di quel ritorno mia madre era inesorabile. Lo faceva, com’essa diceva, per gli occhi del<br />

mondo.<br />

Rimasta vedova ancora giovane, con cinque figli, non voleva si dicesse che, per la morte di mio padre,<br />

il suo chierichetto, "u previtellu", non continuasse gli studi con la stretta regolarità. Con poca terra e<br />

poche bestie, la rendita era assai modesta; ma era amministrata con rigore spartano e per me, ch’ero il<br />

maggiore, si dovevano fare tutti i sacrifizi.<br />

Poiché il seminario si riapriva alla metà di ottobre, coi primi del mese mia madre cominciava i<br />

preparativi. Rifaceva i materassi, metteva in ordine il mio piccolo corredo e il giorno quattordici mi<br />

chiamava:<br />

- ‘Ntonuzzu, figlio, bisogna partire.<br />

- Quando, mamma?<br />

- Domani. Prepara i tuoi libri, io ho tutto pronto.<br />

- Va bene, mamma, come volete…<br />

La notte avanti la partenza io dormivo pochissimo e al cantare dei galli prima dell’alba, udivo nella<br />

casa silenziosa mia madre che sfaccendava. Faceva arrostire un pollastrino, che chiudeva in un grosso<br />

pane spaccato a metà, vi univa due uova sode, delle pere, e aggruppava tutto in un tovagliolo per la<br />

colazione. Sotto la casa una mula e un’asina scalciavano, soffiando nelle froge. Poi la mamma entrava<br />

nella mia cameretta e mi chiamava. Io mi alzavo e quando scendevo in strada, vedevo i due materassi<br />

già caricati sulla mula e una grossa bisaccia d’orbace sul basto dell’asina.<br />

Allora mia madre, per antica consuetudine, prima mi porgeva la mano da baciare, facendomi le ultime<br />

esortazioni, poi mi abbracciava, serrando a lungo il suo viso contro il mio, e me lo lasciava bagnato di<br />

lacrime che io non vedevo. Il nostro garzone, Pietro Carabetto, mi issava sulla mula, in mezzo ai due<br />

materassi, dove era stato legato un cuscino, ed io partivo con un nodo in gola, che mi durava fino a<br />

che non si arrivava in aperta campagna.<br />

Che albe stupende vedevo dall’alto della mia mula! Nel cielo lavato dalle piogge, di una lucentezza<br />

mirifica, splendevano delle grosse stelle e Marte, più grossa di tutte, sembrava un faro.<br />

Non so perché, ma quei ritorni mi mettevano in quello stato d’animo fantasioso e di ansia segreta, che<br />

provavo alla lettura dei libri cavallereschi. Forse perché il seminario, vicino alla grande cattedrale<br />

normanna, sorgeva sui bastioni di una fortezza, a trovarmi in viaggio avanti l’alba, con tutto quel<br />

cantare di galli che venivano dalla campagna e quegli astri in cielo meravigliosi e strani come i<br />

segnali di un castello incantato, mi pareva d’essere anch’io in viaggio verso una misteriosa avventura.<br />

E l’avventura c’era e c’era anche il pericolo.<br />

La paurosa avventura di quel viaggio era il passaggio obbligato di quattro fiumi che, in quell’epoca di<br />

prime piogge, erano sempre in piena. Di ponti o passerelle neppure l’ombra; bisognava attraversarli a<br />

guado. Al pensiero di quelle distese d’acqua torbida, nella quale la mula s’immergeva fino alla pancia<br />

e avanzava peritosa, guidata dal picchiare degli zoccoli sui sassi del greto, come un cielo dal rumore<br />

del suo bastone, io mi rannicchiavo tremando in mezzo ai materassi e chiudevo gli occhi.<br />

Col mio enorme cappello a tegola dal pelo ravviato, la sottana azzurra coi bottoni rossi, mi pareva di<br />

udire già il fragore della corrente che riempiva il greto immenso, prima di vedere il luccichio<br />

dell’acqua sopra le solvette di oleandri.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

Un anno, l’estate era finita con una serie di uragani, che avevano devastati gli uliveti, e il mio ritorno<br />

era particolarmente malinconico. Nel luglio avevo compiuti i tredici anni e cominciavo ad avvertire<br />

quei malesseri strani e inebrianti che annunziavano la pubertà. Quello era il mio primo anno in cui il<br />

seminario mi appariva come una clausura, e per la prima volta i pericoli di quel viaggio mi si<br />

presentavano come argomenti validi per deprecarlo; tanto più che questa volta si annunziavano<br />

particolarmente paurosi.<br />

Già i piccoli torrenti, tra le innumerevoli accidentalità di quella terra anarchica, schiumavano gonfi fra<br />

pietroni enormi; figurarsi i grossi, quelli che raccoglievano gli emissari di una intera vallata. Tuttavia,<br />

come Dio volle, i primi due li attraversammo senza incidenti. Ma quando, verso le dieci, ci trovammo<br />

davanti al fiume Ciminà un terribile sgomento mi invase.<br />

Già prima di affacciarmi sull’immenso greto, ci venne incontro nell’aria un clamore enorme, come di<br />

un esercito in marcia.<br />

- È il fiume, Pietro? – chiesi io atterrito al mio garzone.<br />

- Sì, è il fiume!<br />

Un brivido acuto mi balenò per la schiena. Di fatti, quando ebbimo attraversate alcune solvette<br />

d’oleandri, ci trovammo davanti ad una piena mai vista. L’acqua torbida, copriva il letto da un capo<br />

all’altro e passava veloce sotto i nostri occhi come il nastro di un tapis-roulant. Ad accrescere il mio<br />

terrore contribuì l’atteggiamento delle due bestie della nostra piccola carovana. La mula e l’asina,<br />

giunte davanti alla corrente, si erano arrestate, avevano sfiorata l’acqua col muso e si erano piantate lì,<br />

emettendo un lungo fremito, come per dire: "Qui non si passa".<br />

Io ricordavo quello che tutti gli anni mi diceva il Carabetto il quelle occasioni: "Allentate la cavezza e<br />

lasciate andare la mula dove vuole; essa sa meglio di noi dove deve andare".<br />

- Ecco – avevo concluso io tra me – le bestie col loro istinto, hanno già valutato il pericolo e non<br />

vogliono andare avanti. Speriamo che Pietro… Ma Pietro, con la rassegnata fatalità dei contadini che<br />

lasciano ogni decisione alla Provvidenza, si era già seduto sul greto e si scalzava, canticchiando non<br />

so più che specie di filastrocca propiziatoria. Quando si ebbe levate le scarpe e le ebbe appese al basto<br />

dell’asina, si rimboccò i pantaloni fino alla coscia e impugnato il bastone, che sembrava un litro e si<br />

accostò alla mula per fare a me le raccomandazioni di rito: "Non guardate nell’acqua, per l’amor di<br />

Dio! E lasciate andare la mula dove vuole. Aoh… Ciccia… con la buona di Dio!… Aoh!…<br />

Le bestie, dopo un istante d’esitazione, entrarono nell’acqua e cominciarono ad avanzare lentamente,<br />

con le orecchie ritte e una impassibilità quasi religiosa. Sembravano donne che portano la croce il<br />

Venerdì Santo. Io, aggrappato ai materassi, con la carne che non mi toccava più la camicia, ascoltavo<br />

atterrito il rotolio dell’acqua, il picchiare quasi cadenzato degli zoccoli della mula contro i sassi del<br />

greto, e di quando in quando, come attratto da una vertigine, socchiudevo gli occhi per vedere a che<br />

punto ci trovavamo. Non vedevo che le orecchie aguzze della mula, e poi acqua torbida, tutta a creste,<br />

in fondo alla quale emergeva un filare di betulle dal tronco di un bianco sepolcrale.<br />

Quanto tempo durasse questa specie di marcia alla cieca non saprei dirlo; certo è che ad un dato<br />

momento io fui invaso da un orribile panico: mi parve che la mula si fosse arrestata e che l’acqua mi<br />

sfiorasse i piedi. Spalancai gli occhi e mi misi a guardare come uno spiritato la corrente. Ad un tratto<br />

le orecchie della mula, le creste dell’acqua, le betulle della riva, il cielo si misero a turbinare intorno a<br />

me vertiginosamente, una strana contrazione mi serrò le mascelle. Emisi un piccolo grido soffocato e<br />

scivolai giù. Da quel momento i miei ricordi sono come brandelli scuciti di un sogno: una sensazione<br />

acutissima di freddo fino al petto che mi fa annaspare senza fiato per due minuti, la mula che si<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

arresta, qualcuno che mi afferra e, grondante mi arrovescia bocconi contro i materassi, il mio pianto<br />

silenzioso sulla riva opposta mentre l’acqua gelida, dalla sottana, mi scende ancora dentro le scarpe.<br />

Livido per il freddo, con i vestiti marci fino al petto, io mi ero seduto sopra un sasso, vinco ad un<br />

ciuffo di oleandri, e piagnucolavo in uno stato di abbattimento indescrivibile. Il mio cappello a tegola<br />

navigava felicemente verso il mare. Del pericolo corso non mi rendevo esattamente conto; quello che<br />

mi atterriva ora era l’idea di dover proseguire il viaggio in quelle condizioni. L’aria dell’ottobre era<br />

frizzante ed io, dal petto in giù, grondavo come una lontra. Non riuscivo a muovere un passo tanto i<br />

vestiti e la sottanella erano appiccicati tra loro. E poi… come presentarsi in seminario bagnato come<br />

un pulcino e senza cappello?<br />

L’unico che non avesse perduta la calma era Pietro Carabetto.<br />

Accorso vicino a me, appena toccammo la riva, si era messo a strizzare a settori la mia sottanella<br />

azzurra, borbottando, ma senza acredine: - Ah! santodianni, ve l’avevo detto di non guardare<br />

nell’acqua.<br />

- Pietro – chiesi io disfatto – ed ora che facciamo?<br />

- Quello che fecero gli antichi…<br />

- Quali antichi?… Non scherzare, Pietro…<br />

- Io non scherzo… Non sapete come fecero gli antichi? Camparono, camparono e poi morirono…<br />

Mi veniva la voglia di scagliargli un sasso sulla testa!<br />

Ma Pietro, mentre strizzava la mia sottanella, aveva adocchiata sopra un pendio di fronte una casa<br />

colonica, dal cui tetto usciva un bel pennacchio di fumo.<br />

- Via – disse ad un tratto. Tenete su la sottanella con le mani e seguitemi.<br />

- Dove andiamo, Pietro?<br />

- Vedete lassù quella casa? Lì c’è del fuoco, ci potremo asciugare. Senza neppur darmi tempo di<br />

pensarci, diede una voce alle bestie e imboccammo un sentiero fiancheggiato da due alti siepi di<br />

roveto.<br />

<strong>LA</strong> MAESTRINA DI CAMPAGNA<br />

(MUTAS)<br />

L’ordine del Provveditore diceva: "La insegnante Signorina Nella Dores è destinata alla Scuola rurale<br />

di Albonato, Sezione Cascina Gallarda"; e la signorina Dores raggiunse coi primi di ottobre la sua<br />

residenza, facendosi coraggio come un soldato sul fronte di battaglia.<br />

Nel treno, in quella malinconica mattina d’autunno, trovandosi sola in uno scompartimento di seconda<br />

classe, e guardando dal finestrino l’ampia campagna che si destava a fatica sotto il chiarore dell’alba,<br />

appoggiò il gomito sopra la valigia, la bruna testina sulla mano e pianse.<br />

Come cominciava male la sua carriera d’insegnante, e quale anno malinconico sarebbe stato il suo!<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

Le stavano davanti dieci mesi da trascorrere in una campagna come quella che le passava sotto gli<br />

occhi, attraverso il finestrino della vettura: distesa di prati malinconici di fieno, risaie rigate di canali,<br />

lunghe file di pioppi canadesi giovani, con le foglie larghe come quelle del cavolo, teorie di gelsi e di<br />

salci sui margini dei fossi, dai quali saliva una nebbia bianca, spessa come fumo, che radeva la terra e<br />

dava al paesaggio un aspetto fantastico, come di una cosa velata da un incantesimo.<br />

E poi gli scolari, ragazzini di campagna sudici, grossolani, duri di comprendonio, che l’avrebbero fatta<br />

diventar matta a richiamarli, a spiegare, a tenerli a dovere.<br />

Il brivido dell’alba le serpeggiava per le ossa come il rezzo di una febbre, e le sue belle mani bianche,<br />

distese su le ginocchia con le unghie rosee, e un piccolo anellino d’oro all’anulare, pareva chiedessero<br />

pietà anch’esse, come due uccellini catturati e portati verso la gabbia.<br />

- Bene, disse la signorina Dores, il buon Gesù mi aiuterà – e tuffata la faccina fino al naso nel colletto<br />

di martora del suo mantello, chiuse gli occhi e si mise a fantasticare.<br />

Quando li riaprì, dopo una mezz’ora di viaggio, il treno si era fermato davanti ad una stazioncina<br />

rurale, e la campagna fumante brillava tutta come d’argento.<br />

Dietro una fila d’albero il sole nascente sembrava, tra la nebbia, uno sfolgorante incendio lontano, e<br />

delle allodole salivano come carrucola melodiose nello splendore dell’aria.<br />

Discesa dal treno, con la sua valigia in mano, vide dietro il cancelletto della stazione un uomo pallido,<br />

secco ma robusto, di quella robustezza essenziale dei contadini, che la salutava come se la<br />

riconoscesse.<br />

- Lei è la signorina della Scuola?<br />

- Sì, disse la maestrina, e lei chi è?<br />

- Io sono il custode. Venga venga signorina, tutti l’aspettano.<br />

A Nella Dores si allargò il cuore. Tutti l’aspettavano? Meno male! Forse la gente in campagna è più<br />

buona ed ospitale che altrove. Poi chiese al custode: - È molto lontana da qui la cascina Gallarda?<br />

- No, signorina, rispose quello; un paio di chilometri. Ho qui il biroccio per lei; glielo ha mandato il<br />

signor Guarenti.<br />

- E chi è il signor Guarenti?<br />

- Il padrone della cascina Gallarda. Un uomo molto ricco, e buono come il pane.<br />

- Oh, grazie! – disse la signorina Dores, meravigliata di tanta bontà.<br />

Non sapeva capacitarsi come e perché uno sconosciuto mandasse a lei, che non aveva mai vista, il<br />

carrozzino. Si vede pensò, che lo fanno con tutte le maestre.<br />

La Cascina Gallarda era costituita da un gruppo di case sperdute nella risaia, attorno ad un edificio<br />

colonico, immenso come un convento. Vi era anche una osteria con vendita di generi privativa, una<br />

cappella per la messa domenicale, la buca delle lettere, ed un edificio scolastico nuovo, piccolo, bello,<br />

con una cancellata di ferro, ed un giardinetto, nel quale delle magnifiche spighe di amaranto si<br />

maceravano grondanti di rugiada.<br />

In quell’edificio scolastico la maestrina aveva l’alloggio: due stanzette con una graziosissima alcova,<br />

una cucina linda, con la macchina economica, e alcune casseruole di alluminio.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

Quando il biroccio si arrestò davanti alla cappella, molte donne si fecero su gli usci lì attorno, e poi da<br />

ogni casa saltarono fuori frotte di ragazzini, con grossi zoccoli ai piedi e il visino vispo e sudicio.<br />

- Oh, ben venuta la nuova maestrina. Guarda come è graziosa!…<br />

- E le si fecero tutti intorno: le donne con le grosse mani screpolate sul ventre, i bambini tutti ansiosi,<br />

tendendo le braccia come per prenderne possesso attraverso le loro carezze.<br />

La signorina, sebbene fosse meravigliata di quella accoglienza, era raggiante, e un po’ prendeva la<br />

mano di una mamma, un po’ toccava la testa di un bimbo, sorridendo a tutti col suo bel sorriso che<br />

sembrava un fiore sulla bocca.<br />

Poi venne fuori il signor Guarenti, un omone grosso, dalla faccia sanguigna e due buoni occhi paterni.<br />

Le tese una mano pesante come un mattone, e mentre le serrava la sua con vigore, disse al custode,<br />

che poi era un famiglio: - Provvedete la signorina di legna, verdura, uova e burro -. Poi ritornò nella<br />

grande casa colonica, solenne e soddisfatto come un bove che torna alla greppia.<br />

Intanto la signorina Dores, accompagnata dalla moglie del custode, si recò nel suo alloggetto. Aprì la<br />

valigia, mise a posto le sue robe nell’armadio, alcuni libri sopra un tavolino, gli oggetti della sua<br />

toeletta davanti allo specchio, e poi volle scendere giù ancora tra le donne e i bimbi, che non si<br />

stancavano mai di guardarla.<br />

Volle anche visitare le stalle del Guarenti. Che meraviglia! Settanta vacche da latte ruminavano in<br />

fila, alcune in piedi, altre sdraiate su lo strame, dal quale si avventava al naso una esalazione potente e<br />

calda come quella di un forno. In un chiuso, con le narici umide e fumanti attaccate al cancello di<br />

legno, rugliavano alcuni vitelli, grassi, rosei, coi dolci occhi lacrimosi. E poi i buoi da lavoro, grandi<br />

come nuvole, e i cavalli che scalpitavano sul selciato della stalla, con uno sfregiare frequente e<br />

gagliardo. Le sembrava di essere entrata in un mondo nuovo, fantastico, che viveva di una vita<br />

formidabile e benigna, una vita tanto lontana e tanto più feconda di quella nella quale era vissuta lei<br />

fino allora, e che adesso le appariva tanta angusta e artificiale.<br />

Forse l’anno, diceva tra sé, la signorina Dores, non sarà così triste e così solitario come me lo sono<br />

immaginato. È questione di adattarsi. Anche in campagna vi è del bello.<br />

I primi giorni furono alacri, e volarono via come un soffio: il lavoro d’installazione, l’inizio delle<br />

lezioni, la conoscenza dei bambini, i primi lavori scolastici l’assorbirono completamente, senza<br />

lasciarle il tempo neppure di guardarsi intorno. Dopo, la campagna fu stretta dall’autunno, i lavori<br />

rurali incalzarono. La popolazione della cascina era tutto il giorno via per le semine, e la signorina<br />

Dores si trovò come sperduta in quella immensa plaga solitaria, che diventava ogni giorno più<br />

malinconica e più austera nella sua faticosa tristezza.<br />

I campi nericavano dell’aratura recente, i salci e i pioppi perdevano lentamente le foglie, il bosco<br />

vicino aveva preso il colore del croco, e si spogliava lentamente nell’umidore della nebbia che saliva<br />

dai canali. Spesso pioveva col vento, e allora la scuola e la casa della signorina Dores sembravano una<br />

nave che scricchiolasse e grondasse nella tempesta. La signorina Dores, per distrarsi un po’ cominciò<br />

a scendere qualche volta nell’osteria, dove non di rado capitavano turisti di passaggio, per bere un<br />

bicchiere di vin bianco ed acquistare del tabacco; e finalmente si accordò con la padrona per<br />

consumare quivi i pasti cotidiani. Lei si annoiava a farsi da mangiare, e poi non era pratica, mentre la<br />

padrona dell’osteria, che era stata cameriera un tempo in città, cucinava molto bene.<br />

Tutti i giorni così, dopo la lezione, scendeva nella bettola, mangiava rapidamente al tavolo coi<br />

padroni, e poi si metteva a giocare col gatto, o più volentieri col piccino dell’oste, un bimbo grosso e<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

ricciuto, con le gambette e guance bleu come un budello di sanguinaccio.<br />

Ma l’essere che più interessava la signorina Dores in quella bettola era un ragazzo di circa sedici anni,<br />

un povero scemo che non si sapeva di chi fosse figlio, e viveva in giro per le cascine, di carità e del<br />

provento di piccoli lavori, che faceva pei contadini nelle campagne e nei cortili. Cambiava lo strame<br />

alle bestie, spaccava la legna, trasportava carichi di verdure, caricava e sparpagliava il concime.<br />

Nella cantina della bettola lavava le bottiglie, travasava il vino, e aiutava in tante piccole faccenduole<br />

il padrone per una minestra e un bicchiere di vino. Vestiva gli abiti smessi e le scarpe rotte che gli<br />

davano per carità, e dormiva nei fienili. La Cascina Gallarda era la sua residenza abituale: tutti lo<br />

conoscevano e tutti lo aiutavano, come una bestia innocua ed utile nello stesso tempo, che non dava<br />

neppure la noia di essere curata.<br />

Lo chiamavano Mutas perché così egli pronunciava il suo nome, che era Tommaso.<br />

Da principio la Dores aveva paura del povero scemo, perché egli era tanto brutto. La sua fronte era<br />

così angusta, che la linea dei capelli quasi toccava le sopracciglia; i suoi occhi erano infossati come<br />

quelli dei vecchi, e la faccia grossa da mastino, aveva una espressione di misteriosa sofferenza che<br />

suscitava, a guardarla, una specie di inquietudine panica, simile a quella che si prova davanti alle<br />

bestie malefiche. Il povero ragazzo, che quasi tutti i giorni, per l’ora del pranzo era nell’osteria,<br />

guardava la signorina Dores come si guarda una statua nella chiesa, e i suoi poveri occhi dolorosi e<br />

innocenti di diseredato pareva si riempissero di luce.<br />

Dio mio, diceva la Signorina Dores guardandolo, mentre con una specie di singulto, vibrava la scure<br />

sulle grosse radici di gelso nell’atrio della bettola, sembra appartenere ad una razza maledetta; ha<br />

l’espressione e gli occhi di una bestia, ma di una bestia sacra, che abbia il volto a somiglianza di Dio.<br />

Perciò una singolare pietà, e quasi una tenerezza profonda e misteriosa la piegava verso di lui, quella<br />

specie di carità che ha l’ardore dell’amore, di un amore senza residui, che si consumi interamente<br />

nella propria purità e dolcezza. E tanto maggiore e più intensa diventava quella tenerezza, quanto più<br />

grossolano e violento era il modo con cui tutti trattavano il povero Mutas. Il padrone della bettola,<br />

spesso – solo per far ridere i passeggeri che bevevano – gli faceva delle domande scurrili, o gli dava<br />

dei calci, come li avrebbe dati ad una tartaruga, per vederle ritirare la testa.<br />

La signorina Dores si sentiva stringere il cuore davanti a quelle scene; non voleva veder soffrire la<br />

povera bestia che aveva il volto a somiglianza di Dio, e gli andava vicino, gli sollevava il viso, lo<br />

accarezzava sui capelli, e gli diceva scherzosamente: - Povero Mutas, nessuno ti vuole bene, solo la<br />

maestrina vuol bene al povero Mutas!<br />

Per uno di quei singolari segreti del cuore umano, per cui l’uomo trova una gioia sempre quando gli è<br />

dato di contemplare un mistero, la signorina Dores si era abituata a considerare come una piccola<br />

gioia per lei l’affettuosa contemplazione di quell’anima ignara; ed era come se avesse in una gabbia<br />

una bestia affettuosa, una di quelle bestie inutili e dolci, che si fanno amare per la loro misteriosa<br />

bruttezza.<br />

Un giorno però avvenne un fatto che mise in allarme tutta la cascina Gallarda.<br />

Mutas, nelle prime ore del pomeriggio, stava sdraiato lungo un fosso a prendere il sole, e guardava<br />

verso una buca mascherata dall’erba, donde una volta aveva vista saltare in acqua una lontra.<br />

Una ragazzetta di circa dieci anni, figlia di un contadino chiamato Pedrin, venne a passare vicino a<br />

Mutas, e pare che questi, per celia l’abbia rincorsa a carponi tra l’erba, simulando un grugnito<br />

animalesco. La bambina spaventata si mise a correre urlando e giunta a casa trafelata, piangente, disse<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

che Mutas la voleva prendere.<br />

In un istante la cascina fu in allarme. Lo scemo, il trovatello randagio che viveva della carità di loro<br />

tutti, era un mostro, un degenerato che aggrediva le bambine come un caprone libidinoso.<br />

Un giorno o l’altro avrebbero ritrovata qualcuna strangolata e violentata su l’orlo di un fosso; e non vi<br />

era modo di guardarsi da lui, che era lì sempre tra i piedi. Bisognava scacciarlo via, non dargli né pane<br />

né ricetto, rincorrerlo con le forche e coi cani.<br />

Il padre della bambina, che apprese il fatto mentre lavorava in un campo, si armò di una roncola, e si<br />

diresse di corsa lungo il fosso dove era sdraiato Mutas. Questi, quando lo scorse da lontano che<br />

avanzava urlando e minacciando, senza rendersi ragione del perché, si mise a fuggire verso il bosco; e<br />

quella fuga fu interpretata come una conferma della colpa di Mutas. E Mutas fu bandito dalla cascina<br />

Gallarda e dai dintorni.<br />

Quando la signorina Dores ebbe notizia di questo fatto, ebbe un moto d’indignazione verso Mutas.<br />

Dio mio! Era possibile? Avrebbe potuto fare violenza anche a lei! Ma subito le si presentarono<br />

davanti alla memoria gli occhi del povero scemo, così tristi, di una misteriosa tristezza, così angusti, e<br />

la pietà vinse in lei ogni altro sentimento. Se l’aveva fatto era stato senza rendersi conto di quel che<br />

faceva; quel ragazzo era come una bestia, a cui Dio aveva concesso un volto a sua immagine, per<br />

attirare verso di lui la pietà degli uomini. E cosa avrebbe fatto ora quello sciagurato solo per il mondo,<br />

senza pane, senza vesti, senza ricovero, scacciato da tutti, sotto un’accusa che lo rendeva<br />

particolarmente odioso?<br />

La signorina Dores non sapeva staccare il pensiero dal povero scemo, e sempre che lo pensava, le si<br />

riempivano gli occhi di lacrime.<br />

Intanto Mutas errava per il bosco come un lupo braccato dai cani. Si era provato ad uscire, ad<br />

accostarci ad un’altra cascina, per chiedere un po’ di pane, un cantuccio per dormire tra il fieno, ma la<br />

notizia del suo tentativo delittuoso si era sparsa intorno con una incredibile rapidità. Tutti sapevano<br />

che lo scemo, alla cascina Gallarda, aveva tentato di violentare una bambina, e non appena lo<br />

scorgevano da lontano lo rincorrevano coi badili branditi, e gli scagliavano dietro dei sassi, dando<br />

l’allarme, come per annunziare la presenza di un cane rabbioso, o di una bestia selvaggia.<br />

Scacciato da ogni angolo, minacciato di morte, Mutas spaventato, assiderato, affamato ritornò nel<br />

bosco.<br />

La prima notte dormì in un cespuglio, sotto una volta di tralci selvatici e di roveti, ricoprendosi di<br />

frasche e di foglie secche. Poi venne la fame terribile. Per sedare gli spasmi dello stomaco cominciò a<br />

scavare la terra in cerca di lumache, che divorava crude avidamente.<br />

Uccise coi sassi qualche uccelletto. Ma al secondo giorno anche questi mezzi di nutrimento si<br />

esaurirono, e il povero Mutas, divorato da una fame spasmodica, si aggirava tutto il giorno pei<br />

margini del bosco, andando a carponi tra i cespugli, e spiava le case di cascina Gallarda come una<br />

bestia in agguato. Ma quando veniva la sera, e il bosco rombava sotto il vento, e gli uccelli si<br />

raccoglievano a frotte sui rami spogli dei pioppi, gittando al sole già caduto quei loro pigolii corali, e<br />

dai tetti delle case saliva il fumo violetto che faceva ricordare il focolare e le vivande, allora il povero<br />

Mutas s’internava nel folto degli alberi e preso da una specie di terrore panico, gittava degli urli<br />

disperati, finché non annottava.<br />

La signorina Dores una sera, stando alla finestra della sua cameretta, vide sul margine del bosco una<br />

figura umana che si moveva carponi, e quando per l’ombra sopravveniente non la vide più, udì levarsi<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

nella notte un urlo umano lungo, disperato, angoscioso, e poi un altro, e un altro ancora, fino a che<br />

non fu buio profondo.<br />

Il cuore le diventò come un pizzico di cenere. Era il povero Mutas che urlava per la fame.<br />

La notte era cupa e fredda, gli alberi stormivano nel silenzio, con quella voce singolare, inquieta, che<br />

preannuncia il temporale.<br />

La signorina Dores, si mise a letto tremando d’angoscia. L’urlo di Mutas, della povera bestia col volto<br />

a somiglianza di Dio, le risuonava nell’orecchio senza requie. Intanto si era messo a piovere col vento.<br />

Si udiva nell’aria, con lo scrosciar dell’acqua, il rombo del bosco, ed una specie di ululo lungo, a<br />

onde, con l’avvicinarsi delle raffiche, che il vento produceva soffiando nei fili del telegrafo e della<br />

luce elettrica.<br />

La signorina Dores non poteva chiudere occhio; le sembrava di udire ad ogni istante l’urlo del povero<br />

Mutas, e lo vedeva al buio entro il bosco grondante di pioggia, intirizzito, spaventato, cercare un<br />

ricovero nei cespugli e tremare, e chiamare.<br />

Il dolore di quella creatura umana abbandonata da tutti, le suscitò in cuore una specie di ribellione,<br />

essa non credeva alla colpa di Mutas, ma se anche fosse stata vera, la maestrina non riusciva a<br />

concepire per lui un sentimento di odio. Anzi ricordava gli occhi tristi del povero scemo quando<br />

fissavano lei, così strani, così pieni di una misteriosa tristezza; ed al pensiero che in quella tristezza, in<br />

quella sofferenza, potesse esservi un desiderio, un anelito amoroso, si sentiva sbigottita e sconvolta da<br />

una specie di attrazione istintiva.<br />

Così pensando tutta la notte a quell’infelice, concepì un disegno temerario. L’indomani era giovedì, e<br />

non aveva lezione. Per poco che il tempo l’avesse permesso, ella sarebbe andata nel bosco, avrebbe<br />

cercato Mutas e l’avrebbe interrogato.<br />

Come fu giorno balzò in piedi ed aprì gli scurini. Il cielo, dopo il temporale notturno, era stato<br />

spazzato dal vento, e la giornata si annunziava serena e fredda.<br />

La maestrina si vestì, fece la sua toeletta, prese una tazza di caffè, ed attese che il sole un po’ alto<br />

rassodasse i sentieri, che dovevano essere fangosi per la pioggia notturna.<br />

Verso le dieci mise nella borsetta due pezzi di pane, due mele e partì. Prese anche con sé un coltello di<br />

cucina acuminato, che nascose sotto le vesti. Ella andava ad affrontare un essere bestiale, esasperato,<br />

accusato di avere voluto usare violenza ad una ragazzina. Poteva darsi che vedendo lei, più adatta a<br />

suscitargli il furore dei sensi, e nella solitudine di un bosco, l’avesse assalita. In tal caso si sarebbe<br />

difesa con quel coltello.<br />

Attraversò le case, e percorse per qualche tratto lo stradone provinciale, per dar l’impressione che<br />

andasse a passeggio, poi ad un certo punto imboccò un vialetto di pioppi, costeggiò, tenendosi sulla<br />

ripa, un fosso d’acqua, attraversò un canale passando, non senza paura e pericolo, sopra un tubo di<br />

cemento, sospeso sulla corrente ed arrivò così sul limitare del bosco. Intorno era un grande silenzio,<br />

rotto appena dallo zirlare dei tordi, e dal frullo di qualche volo. Di quando in quando si udivano<br />

cadere sulle foglie morte delle grosse gocce d’acqua che stillavano dai rami, e quel brusio attonito che<br />

fanno gli alberi nel sole.<br />

La signorina Dores si fermò col cuore che le saltava in gola, e guardò intorno smarrita, pronta a<br />

gridare al primo rumore sospetto. Poi chiamò: - Mutas… - Udì a qualche centinaio di passi una specie<br />

di mugolio di spavento, e poi vide Mutas pallido, stralunato che fuggiva verso l’interno del bosco.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

- Mutas, Mutas… - chiamò ancora amorevolmente la signorina Dores – non fuggire.<br />

Mutas si arrestò un istante, afferrandosi con le mani alle verghe di un cespuglio, e guardò esterrefatto<br />

la ragazza, pronto a riprendere la corsa.<br />

- Non mi riconosci, povero Mutas, sono la maestrina, non fuggire. Hai paura di me? No, poverino,<br />

avvicinati, ti ho portato un po’ di pane.<br />

Quando udì la parola pane Mutas le corse incontro come un cane a cui si faccia vedere un pezzo di<br />

carne, e tremante, battendo i denti, livido, con le labbra verdi come l’erba, le tese le mani:<br />

- Pane… un po’ di pane. Ho fame… tanta fame!…<br />

I suoi poveri vestiti carichi di toppe erano marci d’acqua, e poiché si era messo al sole per asciugarsi,<br />

fumavano ora sotto l’ombra azzurra degli alberi spogli.<br />

La signorina Nella aprì la borsetta e gli buttò uno dopo l’altro i due pezzi di pane e le mele, che quello<br />

si mise a divorare con una avidità paurosa.<br />

- Mutas… benedetto Mutas… - disse la signorina Dores, avvicinandosi a lui un po’ guardinga, e<br />

sorvegliando ogni suo movimento – cosa hai fatto disgraziato?<br />

- Io… - chiese il ragazzo spaurito e col pianto in gola… - cosa ho fatto? Mutas non ha fatto niente.<br />

Perché mi vogliono ammazzare?<br />

- Non è vero, dunque che tu hai voluto prendere la bambina di Pedrin per farle del male?<br />

- Del male! Io?… che male? Io non volevo picchiarla, io non picchio i bambini, io…<br />

- So bene che non volevi picchiarla, ma volevi farle dell’altro male più brutto. Non è vero? Dillo a me.<br />

Ti porterò ancora del pane.<br />

La signorina Dores nel dir quelle parole era diventata rossa come il cinabro, e spiava Mutas negli<br />

occhi per scorgervi un lampo d’intelligenza, un guizzo di simulazione. Ma i poveri occhi spaventati<br />

restavano inerti, pieni di una così ingenua e bestiale ottusità che stringeva il cuore. Lo scemo guardava<br />

smarrito senza comprendere.<br />

- Io non volevo batterla, non avevo niente in mano – continuava a borbottare Mutas.<br />

- Cerca di capirmi, poveretto – diceva la Dores, e dimmi la verità. – Non è vero, dunque che tu volevi<br />

prendere quella bambina per farle delle cose brutte, quelle cose che dispiacciono al Signore?<br />

Mutas la guardava stralunato ma non un lampo di comprensione balenava nei suoi occhi tristi.<br />

- Dio mio, - disse la signorina Dores tra sé – questo povero essere è meno che una bestia, meno che un<br />

fanciullo. Iddio gli ha negato tutto, anche il senso del peccato, ed ha voluto mettere su quella tremenda<br />

inferiorità la sua immagine santa, come monito alla pietà degli uomini.<br />

Un’angosciosa tenerezza la invase per quell’essere che era nato dall’amore e non comprendeva<br />

l’amore: lo attirò a sé e cominciò a carezzarlo come una povera bestia tremante, dicendogli le più<br />

tenere parole, mentre grosse lacrime le scendevano dagli occhi.<br />

- Mutas, mio povero Mutas… hai avuto tanto freddo questa notte? Dove hai dormito? Eri tu che urlavi<br />

ieri sera mentre annottava?<br />

Il povero scemo tremava battendo i denti, e la guardava incantato smarrito, con quei suoi poveri occhi<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

tristi che si riempivano di lacrime e di luce.<br />

Ah, per Bacco, - disse la Signorina Dores – questo infelice è innocente, e non deve morire nel bosco<br />

come una bestia senza padrone. Iddio mi assista ma io lo salverò.<br />

Si levò in piedi, fece ancora una carezza a Mutas, e dopo avergli promesso di ritornare il giorno dopo,<br />

lo lasciò.<br />

Lungo la strada di ritorno pensò che l’unico a cui potesse parlare del fatto, senza incontrare una<br />

preconcetta e bestiale ostilità, era il signor Guarenti. I contadini sono di natura testardi, e quando si<br />

ficcano una cosa in testa è difficilissimo modificare le loro opinioni.<br />

Giunta alla cascina domandò del signor Guarienti, ma quello era andato in città al mercato.<br />

Quando, sull’imbrunire, fu di ritorno, la signorina Dores andò a parlargli. Gli narrò della sua visita a<br />

Mutas, piangendo, e lo persuase che quel poveretto non era affatto colpevole del fatto di cui lo<br />

accusavano. Il signor Guarienti rimase impressionato dell’audacia della maestrina, ma si commosse<br />

anche davanti al senso di verità della sua narrazione.<br />

- Eh, perbacco – disse s’è così, sarebbe un delitto lasciarlo morire di fame e freddo nel bosco. È una<br />

creatura di Dio. Domani manderò con lei uno dei miei famigli: lo ricercherete nel bosco, e me lo<br />

condurrete qui.<br />

Nella notte limpida e stellata fece una gelata terribile.<br />

All’indomani, tutti i campi e gli alberi e le siepi erano bianchi di brina, le pozze d’acqua coperte da un<br />

sottilissimo velo, il fango duro come marmo.<br />

La signorina Dores, senza curarsi della Scuola, partì di buon’ora col custode e si recò nel bosco. Gli<br />

alberi erano tutti fioriti di merletti candidi, e le numerose tele di ragno sembravano raggiere.<br />

Chiamarono Mutas ma nessuno rispose. Lo cercarono nei cespugli, e lo rinvennero sotto un mucchio<br />

di foglie, stecchito, con una grossa lumaca sul volto color di terra.<br />

IDILLIO MUTO<br />

TERZA C<br />

L’entrata del nuovo professore d’italiano nell’aula di terza C superiore, in quella grigia mattina di<br />

ottobre, era stata una cosa veramente emozionante.<br />

Le alunne – ormai tutte signorine sui diciotto anni – balzarono in piedi e dopo qualche bisbiglio e<br />

qualche tocco alla toilette, rimasero silenziose in attesa. Coi grembiuli neri, uniformi, e il colletto<br />

bianco, sembravano una tribù di rondini allineate sopra una gronda.<br />

Quel giovane vestito di nero, con grossi occhiali neri, era il nuovo professore d’italiano ed era cieco.<br />

Poteva avere una trentina d’anni. Il suo viso era pallido, affilato ma aveva una armoniosa testa<br />

dolicocefala, con lunghi capelli biondi divisi da una scriminatura sul lato sinistro: ricordava alla<br />

lontana qualche vecchia stampa di lord Byron.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

Vestiva di nero in modo inappuntabile e aveva delle mani bellissime, lunghe e bianche, da giovane<br />

prelato.<br />

- Vi presento il nuovo insegnante d’italiano – aveva detto il signor Preside – e voi del resto<br />

conoscerete di fama, poiché il suo nome è in tutte le antologie: il prof. Giacinto Fiorini. L’Istituto è<br />

orgoglioso di annoverarlo fra i suoi insegnanti e la scolaresca deve esserlo pure.<br />

Qui il Preside si arrestò un istante, come incerto poi riprese: - Credo inutile raccomandarvi di essere<br />

particolarmente rispettose verso il prof. Fiorini. Altra pausa. Anzi sono sicuro che non solo sarete<br />

disciplinate con lui ma che lo amerete anche, quando avrete sperimentata la sua bontà e la sua valentia<br />

di maestro.<br />

Signor preside – aveva detto il nuovo professore – vuol farmi il piacere di far fare l’appello? Banco<br />

per banco da sinistra a destra che io conosca il posto che ha ciascuna delle alunne, il nome e la voce:<br />

non mi sfuggiranno più.<br />

- Signorina Dores – disse il preside – faccia l’appello.<br />

Seguì un breve silenzio, poi una voce limpida, metallica e simpatica cominciò a scandire i nomi: I°<br />

banco: Anneri Rosita, Cefaly, Garisenda, Polly Ada, Serutti Palmira.<br />

Il nuovo professore ascoltava assorto, dietro i suoi grossi occhiali neri, e appena finito l’appello, egli<br />

ripeté ad uno ad uno i nomi, nello stesso ordine, senza sbagliarsi di un filo. Poi salutò il preside<br />

sedette alla cattedra e nel silenzio stupefatto delle alunne cominciò la lezione.<br />

Ma quel grigio giorno di ottobre adesso era lontano. Il Professore Fiorini insegnava da sei mesi nella<br />

terza C e nessun altro insegnante aveva mai interessato tanto le scolare, quanto era quel giovane poeta<br />

cieco, che tutte le volte che entrava nell’aula, sembrava giungere da un suo lontano mondo misterioso,<br />

portando con se il segreto di una vita interiore oscura, piena di fascini sconosciuti.<br />

Parlava piano, con una voce grave, un po’ velata, e la spiegazione delle poesie e della letteratura sulle<br />

sue labbra sembrava la rivelazione di un segreto amoroso.<br />

Le scolare lo ascoltavano estatiche. Egli le chiamava per nome riconosceva in modo infallibile la loro<br />

voce, e con una sensibilità che le faceva sbalordire, quando qualcuna si muoveva nel banco o<br />

bisbigliava, egli era in grado di dire chi si era mossa e chi aveva bisbigliato.<br />

Ma quello che le ragazze attendevano con una particolare emozione era di essere chiamate a recitare<br />

la lezione.<br />

Poiché il Professore era cieco, faceva andare l’alunna presso di sé, la faceva salire accanto a lui sulla<br />

cattedra, e per rassicurarsi che non si servisse di appunti e di annotazioni, le faceva mettere le mani sul<br />

tavolo e gliele copriva con le proprie.<br />

Per i primi giorni la cosa aveva messo le alunne in una specie di orgasmo; poi non solo vi si erano<br />

abituate, ma quel contatto aveva finito con l’acquistare per loro tutto il fascino di una gioia segreta.<br />

Le ragazze col cuore che pulsava forte, la voce vibrante per l’emozione, recitavano Dante, Leopardi,<br />

Pascoli e guardavano il volto pallido del giovane professore, mentre il calore delle loro mani si<br />

confondeva ed il ritmo accelerato delle piccole vene azzurre acquistava, nella loro fantasia eccitata, i<br />

caratteri di un segreto dialogo amoroso.<br />

Ma da parte del professore non un moto mai, e un indugio che tradisse in lui un’emozione, un<br />

sentimento particolare durante quei contatti.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

Egli era assorto, impassibile, e le sue mani si tendevano verso quelle delle sue alunne, come quelle di<br />

un sacerdote che dona la pace.<br />

L’unica delle ragazze che credeva di avvertire qualche cosa di speciale in quei contatti era la signorina<br />

Nella Dores, colei che era un po’ la guida del giovane cieco.<br />

Era una cosa dolcissima. Ora che era venuta la primavera e che gli esami si avvicinavano, le lezioni<br />

del professore Fiorini diventavano sempre più nutrite e interessanti, e le interrogazioni delle alunne<br />

più frequenti. La signorina Dores quando veniva chiamata a recitare la lezione, aveva l’impressione di<br />

andare ad un convegno amoroso. Arrivava davanti al professore, saliva sullo zoccolo della cattedra e<br />

accostandosi a lui fino a toccarlo, tendeva le mani.<br />

Quello le prendeva nelle sue e il dialogo muto incominciava.<br />

Il tempo era tiepido, dai grandi finestroni esposti al levante il sole stendeva sul pavimento dei<br />

rettangoli di luce color miele; fuori, sulle gronde e sugli alberi garrivano i passeri. La recitazione<br />

aveva delle vibrazioni di canto.<br />

"Piango e le dico, come ho potuto, dolce mio bene, partir da te".<br />

"Piange e mi dice d’un cenno muto: come hai potuto?".<br />

Le mani morbide e calde del giovane professore stringevano le sue e pareva risuonassero come di<br />

metallo alle sue parole. Il suo viso assorto, rivolto verso la luce, con le labbra semiaperte, i grossi<br />

occhiali neri che nascondevano gli occhi, aveva un’espressione di dolcezza indefinibile.<br />

In mancanza dello specchio, degli occhi, pareva che il bel volto giovanile di lei si riflettesse sulla<br />

pallida fronte dell’insegnante.<br />

Poiché le mani della signorina Dores, presa da una soave inquietudine, si muovevano, il professore le<br />

stringeva e le attirava a sé; e allora la signorina vedeva sotto le vene del collo di lui il sangue pulsare,<br />

con un ritmo più ampio e il respiro diventava sensibile.<br />

Così era venuto il giugno e di settimana in settimana si era arrivati alla fine dell’anno scolastico.<br />

Per l’ultimo giorno di lezione il professore aveva trovato la cattedra ingombra di fiori. Egli li aveva<br />

messi da parte sul tavolo; poi più pallido del solito, col volto stanco, dopo un vago riepilogo della<br />

materia svolta nell’anno, aveva rivolto alle scolare delle raccomandazioni riguardo gli esami: che<br />

fossero coraggiose, che distribuissero bene le ore di lavoro, senza gravare la mente, e soprattutto<br />

badassero a rispondere con franchezza. Poi, come se provasse pena sentirsele lì davanti, sui banchi, le<br />

aveva licenziate venti minuti prima dell’orario.<br />

Le ragazze emozionate, ma più preoccupate dell’esame che d’altro, erano scappate via come uno<br />

stormo di passeri.<br />

La signorina Dores era uscita anche lei, ma nell’atto di scendere l’ultima rampa della scala si arrestò.<br />

Non riusciva ad andarsene senza dire una parola a tu per tu col professore, senza chiarire un po’<br />

qualche cosa intorno a quell’idillio muto che durava da sei mesi.<br />

Fece finta di avere una scarpa slacciata e quando udì allontanarsi giù per il corridoio lo schiamazzo<br />

delle sue compagne, rapida come una rondine risalì le scale rientrò nell’aula. Il professore era solo con<br />

la testa arrovesciata, il viso rivolto verso l’alto, nel gesto vago dei ciechi, le mani sul tavolo accanto ai<br />

fiori, sembrava profondamente assorto.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

Quando udì il passo di lei che si avvicinava si volse, e poiché la Dores giunta davanti alla cattedra<br />

rimase muta per qualche tempo, egli la chiamò per nome:<br />

- Signorina Nella… - sì sono io, signor professore – fece la ragazza soffocata dalla emozione, - sono<br />

venuta per… sì … per vedere se ha bisogno di qualche cosa se ha ancora bisogno di me…<br />

Il professore sorrise, con un visibile sforzo di mostrarsi disinvolto.<br />

- Venga qua – disse – mi dia le mani come quando recitavamo la lezione.<br />

La signorina Dores porse le mani. Il cuore le si divincolava nel petto come una piccola bestia<br />

catturata.<br />

- La ringrazio, figliola, la ringrazio proprio di cuore delle affettuose premure che ha sempre avuto per<br />

me. Veda di far bene gli esami e fatemi conoscere l’esito. Che cosa pensa di fare, conseguito il<br />

diploma, la insegnante? – Non so professore – rispose la ragazza – forse sì.<br />

- Bene. Se farà l’insegnante si ricordi che quella è una missione alta e nobile.<br />

Si arrestò un istante pensieroso, poi serrandole le mani più forti, aggiunse : - Che se voi invece foste<br />

chiamata ad una missione : - più dolce e più dolce, quella della madre! Arrovesciò ancora la testa con<br />

un sospiro profondo e rimase come assorto in un tormentoso pensiero. Seguì un silenzio lungo,<br />

inesplicabile. Nell’aula entravano per i finestroni i garriti dei passeri e il rombo sordo della strada.<br />

La signorina Dores, sbigottita, ansante sentiva un tremenda voglia di scappare. Avrebbe voluto essere<br />

lontana mille miglia, e per tutto l’oro del mondo non avrebbe data quella emozione che la<br />

sconvolgeva tutta.<br />

Ruppe il silenzio lei per uscire da quell’orgasmo, ed anche per togliere lui dalla pena, perché vedeva<br />

che soffriva.<br />

- Professore – disse – quale che sia il mio avvenire, io mi ricorderò sempre di lei, e avrei tanto caro<br />

che lei si ricordasse di me qualche volta.<br />

Il professore si riscosse come da un sogno: "Sì, cara, io mi ricorderò sempre di lei. La ricorderò come<br />

posso. Ricorderò la sua voce, le sue manine, il rumore dei vostri passi, che mi era diventato familiare,<br />

e certo amerei tanto ricordare il suo viso. Oh, si tanto! Ma come fare?".<br />

Rimase un istante perplesso, poi lasciò andare le mani di lei e, brancolando con le sue cercò il viso.<br />

- Lasci disse con voce alterata – lasci che io la veda col toccare delle mani. Oh, sa, le mie mani sono<br />

fedeli, più fedeli degli occhi. Non dimenticheranno più.<br />

Dopo averle stretto il bel viso ovale fra le palme, cominciò a scorrervi sopra con le dita ansiose: - Così<br />

– mormorava come estatico – così vi avevo immaginato, così bella e soave. Con quanta gioia la<br />

ricorderò.<br />

La signorina Dores credeva di soffocare. Ora mi bacia – diceva tra sé – mi bacerà sulla bocca, ed io<br />

gli cadrò fra le braccia. Ma il professore, dopo essere rimasto per qualche istante col viso di lei fra le<br />

mani, come assorto, la congedò bruscamente.<br />

- Vada, figliola, addio. Sia felice.<br />

- Addio – pronunciò senza voce la signorina Dores – e uscì a precipizio.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

Scese le scale quasi senza vedere. Aveva il volto in fiamme. Il sangue le batteva alla tempia come un<br />

pugno e la sua gola era stretta da un prepotente, incontenibile bisogno di piangere. Afferrò la borsetta<br />

di cuoio, che stava appesa nel corridoio, ed evitando le sue compagne, uscì sul piazzale. Imboccò di<br />

corsa il viale.<br />

- Perché non mi ha baciata – diceva tra sé, oppressa da un sentimento inesprimibile – perché non mi<br />

ha baciata? E come si accorse di essere sola sotto gli ippocastani, sedette sopra una panca, e si mise a<br />

singhiozzare silenziosamente, come se avesse perduta una persona cara, la più cara cosa della vita<br />

LE DUE MADRI<br />

Quando il direttissimo Milano-Sarzano-Roma, in viaggio da oltre 10 ore entrava negli acquitrini della<br />

campagna romana, spuntava l’alba.<br />

Angelica, che nello scompartimento di seconda occupava un posto d’angolo dal lato del mare,<br />

vedendo il barlume del giorno che trapelava attraverso le tendine, stropicciò col lembo di una di esse<br />

la lastra del finestrino tutta opaca di vapore e guardò fuori sulla campagna.<br />

Oltre la linea ferrata, vide una serie di minuscoli stagni in cui si specchiava l’ultimo crepuscolo, poi il<br />

mare grigio, immobile al largo, che rotolava verso la riva con calma onde lunghe e fievoli senza<br />

schiuma. Più lontano ancora l’acqua razzava accesa dai riflessi di un fascio di nuvole rosse, che si<br />

sgretolavano alla base in un arcipelago di piccole isole abbaglianti come oro fuso. Riabbassò la tenda<br />

e richiuse gli occhi come ascoltare dentro di sé il ritmo agitato del suo sangue.<br />

Era vicina a Roma ormai, fra un’ora o poco più sarebbe scesa alla stazione, avrebbe presa una<br />

carrozzella e col suo bambino in braccio si sarebbe presentata a lui. Una specie di sgomento che aveva<br />

il sapore della speranza, e questa speranza le veniva dal bambino.<br />

Ella credeva ciecamente nell’influenza irresistibile del figlio in quella faccenda. "Potrebbe darsi che<br />

per me non si commuova – diceva tra sé – noi povere donne per gli uomini non siamo che capriccio<br />

del momento: ma di fronte al figlio nato dal suo sangue, che gli somiglia in modo così impressionante,<br />

perfino nel modo di muovere le mani e nell’atteggiare le labbra al sorriso, di fronte a lui non è<br />

possibile che egli resista e la pace sarà fatta. Io potrò stringermi al petto il mio uomo interamente<br />

riconquistato alla mia vita e al mio amore".<br />

Il bambino, raccolto in uno scialle di lana dai disegni scozzesi, le dormiva sulle ginocchia di quel<br />

sonno pesante ed immemore, che è proprio degli innocenti. Le gambette un po’ divaricate, un braccio<br />

penzoloni, bianco come un grappolo di fiori d’acacia, le lunghe ciglia calate sugli occhi e la boccuccia<br />

semiaperta.<br />

I bambini sono quasi tutti belli, ma quello lo era in un modo singolare. Aveva le guance rotonde,<br />

leggermente animate di roseo e l’espressione del viso un po’ corrucciata; quell’espressione misteriosa<br />

di serietà che hanno certi volti infantili e che dà alla loro fisionomia una significazione illogica e<br />

l’attrazione particolare che hanno le cose incomprensibili.<br />

Angelica lo guardava e il suo cuore si gonfiava di speranza.<br />

Il tepore fine di quel corpicciolo fragrante le inondava il grembo, le saliva alla gola simile ad una<br />

corrente di latte, come se il suo piccino ridonasse a lei, ridiffondendolo, il calore che da lei aveva<br />

succhiato e che aveva formato la sua rosea carne.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

Quell’esserino così fragile, che non avrebbe potuto vivere un giorno senza le cure della sua mamma,<br />

diventava ora per lei una forza protettrice, il presidio del suo avvenire.<br />

Si erano conosciuti durante l’altra guerra.<br />

Lui era ufficiale di fanteria e aveva preso una camera nella sua casa dove da alcuni anni, da quando<br />

era morto suo padre, una camera era sempre subaffittata o a militari o a studenti.<br />

Angelica in quel tempo andava a fare scuola in una frazione vicina a Milano, dove si recava tutti i<br />

giorni in tranvai o, quando il tempo lo permetteva, in bicicletta.<br />

I due giovani si vedevano poco, ma fin dal primo giorno si erano piaciuti reciprocamente. Lui era<br />

bruno, alto come un granatiere, coi capelli neri e lisci, due baffetti fini e gli occhi intelligenti.<br />

Parlava bene, con l’accento romano che è nello stesso tempo maschio e gentile, e quando rideva<br />

mostrava una magnifica dentatura da lupo. Era anche compito, serio, affabile nel trattare, non dava la<br />

minima noia per la camera, e qualche volta, invitato dalla mamma, veniva in tinello a fare quattro<br />

chiacchiere e a prendere una tazza di caffè.<br />

L’Angelica, quando quel giovane era con loro, non aveva mai voglia di andare a letto. Anche lui ci<br />

stava volentieri, e di quando in quando le allungava uno sguardo morbido, significativo, che sembrava<br />

un braccio teso per cingerla alla vita.<br />

Finirono con l’innamorarsi e diventarono amanti. Poi lui era partito e mentre si trovava sul Piave, era<br />

nato il bambino.<br />

Le prime amarezze e i primi dubbi incominciarono quando, alla fine della guerra, egli era stato<br />

congedato ed era ritornato a Roma senza neppur venire a vedere il figlio che non conosceva ancora.<br />

Questo aveva molto impressionato lei e la madre, ma la corrispondenza epistolare era continuata tra i<br />

due affettuosa e frequente. Le lettere di lui erano preoccupate, perché diceva di essere alla ricerca di<br />

un impiego, senza il quale non si sentiva di crearsi una nuova famiglia.<br />

Finalmente, dopo circa un anno, fece sapere che era stato assunto come straordinario in un Ministero<br />

in via del Seminario.<br />

Dopo quella lettera scrisse ancora per qualche mese, lettere sempre più rare e meno espansive, poi<br />

bruscamente si era taciuto, e lei non aveva più avuto notizie di lui.<br />

Che cosa era avvenuto? Per spiegare quell’improvviso silenzio, Angelica e sua madre avevano<br />

formulato le ipotesi più pietose. Avevano scritto, riscritto, telegrafato. Tutto inutile, nessuno<br />

rispondeva più. Allora, dopo lunghe discussioni, avevano deciso che la giovane si recasse<br />

personalmente a Roma, portando con sé il bambino.<br />

- Voglio vedere – aveva detto Angelica – se quando vedrà suo figlio, avrà il coraggio di lasciarmi. Ma<br />

non lo farà, mamma vedrai. È troppo buono e un pochino di bene lo vuole anche a me.<br />

La mamma l’aveva lasciata partire con il cuore nero, ed ora Angelica era alle porte di Roma. Intanto si<br />

era fatto giorno chiaro.<br />

I quattro passeggeri rimasti con Angelica nello scompartimento si erano alzati sbadigliando, avevano<br />

tirate le tendine, abbassato uno spiraglio dei vetri e l’aria frizzante del mattino aveva cominciato a<br />

circolare, mescolando all’odore del fumo e del rinchiuso un sentore buono di erbe nuove e di piante in<br />

fiore.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

Angelica si sentì allargare il cuore. Quella bella giornata pareva fosse di buon auspicio. Fece una<br />

carezza al suo bambino e si mise a guardare la campagna.<br />

Finalmente si giunse a Roma.<br />

Alla stazione Termini, Angelica lasciò al deposito una valigia, poi col bimbo uscì sul piazzale, e salì<br />

in botticella dando l’indicazione di via del Seminario.<br />

Il vetturino la squadrò con uno sguardo imperiale, perché a Roma tutto diventa solenne, anche lo<br />

sguardo dei vetturini, poi abbassò il tassametro e si mise in moto.<br />

Angelica si guardò intorno come trasognata.<br />

Il rudere di una torre a destra. La fontana delle Naiadi col suo tritone verdognolo nell’aria d’oro, i<br />

palazzi, le vetrine, tutto le sembrava la fantasmagoria di un sogno. Anche il piccino sbarrava ora i<br />

grandi occhi svagati, e sembrava un po’ atterrito da tutte quelle novità.<br />

Finalmente attraverso piazze, strade e vicoli giunsero in via del Seminario.<br />

- Ecco – disse il vetturino – "ce semo arivati" – e arrestò il cavallo davanti ad un enorme portone.<br />

Angelica pagò, poi col bimbo in braccio imboccò il portone.<br />

A sinistra, in una specie di atrio, un uomo in livrea stava seduto davanti ad un tavolo, sul quale si<br />

vedeva aperto un registro grosso come un messale.<br />

- Scusate – disse Angelica – cercavo un impiegato che è mio parente e deve essere qui: - Camillo<br />

Minici…<br />

- Vediamo subito -. Il portiere si portò un dito alle labbra per inumidirlo e si mise a sfogliare il<br />

registro, nel quale era scritta a mano una infinità di nomi.<br />

- Minici, avete detto… Minici: ecco Minici Camillo, trasferito a Piazza Termini. Alla ferrovia lo<br />

troverete – disse con un sorriso amabile.<br />

Delusa salutò e uscì.<br />

"E adesso dove vado da sola?".<br />

Nella via solitaria non si vedevano che scarsi passanti e qualche impiegato ritardatario che<br />

raggiungeva in fretta il portone del Ministero. Angelica si rivolse ad uno di quelli. – Per piacere<br />

signore, dove potrei trovare una carrozzella?<br />

- Andate avanti, in Piazza del Pantheon ne troverete di sicuro.<br />

In piazza del Pantheon infatti ne trovò una e si fece ricondurre alla Ferrovia. Dopo lunga difficoltà<br />

riuscì a trovare l’ufficio dove il Minici prestava servizio: un ufficio postale.<br />

Fu ricevuta da un capo-ufficio a cui tutti davano del cavaliere.<br />

- Desidererei parlare all’impiegato Camillo Minici.<br />

- Minici? Sì è qui, ma oggi è di riposo. Andatelo a cercare a casa, se credete; piazza Santa Croce in<br />

Gerusalemme n. 49.<br />

E Angelica ritornò sulla piazza.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

Dio, come era stanca, come l’abbattevano tutte quelle emozioni! Sentiva una specie di nausea e le<br />

girava un po’ la testa. Tuttavia prese un’altra carrozzella e si fece portare in piazza S. Croce.<br />

La casa era una di quelle costruzioni cooperative, che assomigliano a caserme. Angelica, avute le<br />

necessarie indicazioni dalla portinaia, imboccò una scala al centro del fabbricato.<br />

Il cuore le batteva così violentemente, che dopo la prima rampa, dovette arrestarsi per prendere fiato.<br />

Era in casa di lui ormai, a due passi dal suo appartamento, che era al quinto piano. Con chi abitava?<br />

Con la mamma, con le sorelle o solo? Che cosa avrebbero detto i suoi parenti quando avessero visto<br />

lei col figlio? Lo sapevano già o sarebbe stata una sorpresa?<br />

Tutti questi interrogativi, l’incertezza e le emozioni le avevano fatto perdere il coraggio. Gli occhi le<br />

si annebbiavano, la lingua le era diventata arida e le gambe si rifiutavano di sostenerla. Anche il<br />

bambino in quella casa enorme e sconosciuta sembrava atterrito, e di quando in quando allungava il<br />

labbro nell’atto di piangere.<br />

Angelica se lo strinse al petto, facendosi forza, e si rimise a salire. Giunta sul pianerottolo del quinto<br />

piano vide sopra un uscio una targhetta di ferro smaltato col nome: Camillo Minici. Dall’interno<br />

veniva uno strusciare di scopa, proprio dietro l’uscio, e la voce di una donna che canticchiava.<br />

"Sarà la sorella o la persona di servizio" disse tra sé Angelica e, con una decisione disperata suonò il<br />

campanello.<br />

La voce si spense, seguì un ciabattare di pianelle, un muovere di sedie, poi la porta si aprì e una donna<br />

sui venticinque anni, forte e bianca come il latte, una vera romana, si fece sull’uscio. Dal volume del<br />

seno e dei fianchi, dal viso leggermente appannato sui pomelli e dall’espressione di placida sofferenza<br />

degli occhi, Angelica capì che quella donna era in stato di avanzata gravidanza. Un misterioso brivido<br />

la scosse tutta.<br />

- Buon giorno – disse con la voce alterata – è qui che abita il signor Minici?<br />

- Qui appunto – rispose la donna – è mio marito…<br />

- Vostro marito? Ah!…<br />

Sentendosi mancare, Angelica buttò in braccio alla donna il bambino come se avesse ricevuto una<br />

pugnalata in mezzo alla schiena.<br />

Quando riprese i sensi e mentre ancora teneva gli occhi chiusi, udì un cicaleccio intorno a sé di voci<br />

femminili, e il piagnucolio intermittente del suo bambino.<br />

- Mangia, tesoro, mangia! – diceva amorosamente una voce – la tua mammina si sveglia subito.<br />

- Ma chi è? – chiedeva quasi con ira un’altra voce cauta. – Come diavolo v’è capitata in casa?<br />

- Non lo so, signora mia, non lo so, quanto è vero Gesù. Me la son vista capitare qui così di botto. Ha<br />

domandato di mio marito e paf… è andata giù come un sacco.<br />

- "Ve doveva capità proprio a voi", in quello stato in cui vi trovate. Dio liberi, è un momento.<br />

- Ah, vi dico io! Mi sento la schiena che mi si apre e mi si chiude come una porta.<br />

Angelica aprì gli occhi. La sposa teneva in braccio il suo bambino e lo accarezzava con passione. Il<br />

piccolo sgranocchiava il biscotto e ad ogni minuto allungava il labbro per piangere. Davanti a lei, che<br />

si trovava sdraiata sopra una poltrona di pelle, stava una donna enorme con due braccia poderose,<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

nude fino al gomito ed un paio di baffi neri da adolescente. Aveva in mano un bicchiere con del<br />

marsala. Quando vide che Angelica aveva aperti gli occhi le si precipitò addosso e le accostò il<br />

bicchiere alle labbra.<br />

- Neh, sora sposina, che cosa è stato? Bevete un sorso.<br />

Angelica, disfatta, respinse il bicchiere, si ravviò i capelli sulla fronte madida e gelida e si guardò<br />

intorno.<br />

Si trovava in un salotto ben messo, ordinato, con quadri, fotografie stampe e ninnoli di un gusto<br />

piuttosto dubbio. Sopra un mobile, in una cornice d’argento, vide una fotografia di lui vestito da<br />

ufficiale.<br />

Un orribile nodo di pianto le serrò la gola. Si sentiva soffocare. Avrebbe voluto urlare, spaventar tutti,<br />

gettare in allarme la casa intera. Poi i suoi occhi si posarono sulla sua rivale, la giovane sposa.<br />

Spaventata anche lei, inconsapevole, alle soglie della maternità, la spiava smarrita, con qualche<br />

sospetto forse del suo segreto. Allora una sconsolata pietà la vinse. Perché fare dello scandalo, perché<br />

mettere in angoscia quella giovane madre che non aveva alcuna colpa? Ormai lei si trovava davanti<br />

all’irreparabile. Quell’altro era dell’altra di fronte alla legge, ogni reazione non avrebbe approdato a<br />

nulla. Non avrebbe fatto che amareggiare quella donna che preparava nel suo seno, con una divina<br />

serenità, il fiore di una nuova vita, un fratellino della sua creatura diseredata.<br />

La fissò negli occhi con un misto di pietà e di rancore e balzò in piedi.<br />

Scusatemi tanto tutti – disse. Non è colpa mia. Datemi il mio bambino.<br />

- Ma no, signora, dove volete andare? – si oppose la sposa. – Non state ancora bene e potreste cadere.<br />

Attendete un minuto.<br />

- Ma che avete adesso? – strillava la donna grassa coi baffi – che vi piglia, sora sposa?<br />

- Datemi il mio bambino, debbo andar via! – ripeteva Angelica con voce sorda.<br />

La sposa, sempre più smarrita le restituì il piccolo e mentre l’altra stava per uscire l’afferrò per il<br />

braccio: - Ma voi – le chiese risoluta – che cosa volevate da mio marito?…<br />

Angelica la fissò come se volesse fulminarla, soffocò la risposta e si precipitò giù per le scale con gli<br />

occhi accecati dal pianto.<br />

IL CHICHIBIO CA<strong>LA</strong>BRESE<br />

Tutti gli anni per la festa di San Nicola, il notaro Pantaleo mandava al canonico Sansalone un dono:<br />

ora un capretto, ora una mezza dozzina di pernici, ora un tacchino.<br />

Quell’anno gli aveva preparati tre capponi che erano una meraviglia.<br />

Il canonico don Nicola Sansalone e il notaio Pantaleo erano, fra le altre cose, legati da una antica<br />

amicizia letteraria. Il notaro si dilettava anche a scrivere in versi latini, che il canonico gli correggeva,<br />

postillandoli con la citazione delle regole grammaticali del Portoreale.<br />

Prima ognun sia persuaso<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

d’accordare l’aggettivo<br />

col suo nome sostantivo<br />

in genere numero e caso.<br />

Ragione per cui il notaro aveva per il canonico una venerazione di discepolo più che di amico.<br />

Quell’anno, dunque, alla vigilia di San Nicola il notaro aveva preparata una bella lettera in stile<br />

fiorito, con diversi e svariati conciossiacché, poi aveva chiamato il suo garzone Bastiano, denominato<br />

anche Carabetto, e gli aveva detto: - Prendi questa lettera e i capponi che ti darà la Domenica, e recati<br />

alla magione del mio molto reverendo amico, il canonico Sansalone, porgendogli i miei saluti e gli<br />

auguri "ad multos annos".<br />

- Va bene signor padrone, - aveva detto il Carabetto, e presa la lettera era entrato in cucina, dove la<br />

Domenica, la serva-padrone del notaro, aveva già legato i tre capponi per le zampe e li aveva appesi<br />

alla spalliera di una sedia. A lui per il viaggio quella strega aveva preparato in un piatto un pane e un<br />

pugno di ulive in salamoia. Il Carabetto aveva intascato malinconicamente il pane e le ulive, si era<br />

caricati i capponi sulla spalla e si era messo in viaggio.<br />

- Pare che ci rimetta del suo – diceva Bastiano mentre andava per la strada nuova.<br />

- Vecchia strega! Se fosse per lei meriterebbe che a questi capponi io tirassi il collo e li mangiassi<br />

anziché portarli al canonico. Chissà come saranno buoni! – A questo pensiero gli venne voglia di<br />

esaminarli e, giacché si era già abbastanza dilungato dal paese, si fermò, calò da su la spalla il<br />

bastone, al quale le tre bestie erano appese, e cominciò a palparle.<br />

Erano veramente magnifici, grossi come paperi, col collo lungo e le piume sottili, irridate intorno alla<br />

testa minuscola. La cresta avevano piccola e pallida, un po’ dentellata, ma il petto e le cosce erano<br />

grassi e morbidi che facevano venire l’acquolina in bocca.<br />

Così sospesi per le zampe con le ali un po’ allargate e ondeggianti, tenevano la testa rialzata e<br />

guardavano intorno con i loro occhi rotondi, che brillavano di una specie di riso stralunato. – Dio che<br />

buon mangiare faranno questi capponi! – diceva Carabetto, e ricordava di averne qualche volta sentito<br />

l’odore nella cucina del notaro, ritornando dalla campagna. La Domenica, seduta davanti alla graticola<br />

con una mano agitava un ventaglio di legno per tener viva la brace, e con l’altra intingeva un<br />

ramoscello di origano selvatico in un piatto dove era una miscela d’olio, acqua sale e qualche spicchio<br />

di aglio; e come il grasso colava sul fuoco, si spandeva intorno un odore appetitoso da risuscitare un<br />

morto. Quando avrebbe mangiato un pezzo di cappone anche lui, povero Carabetto? Forse mai. "Certa<br />

buonagrazia di Dio pare non sia stata creata per i poveri", pensò il Carabetto, e ricaricatisi i capponi<br />

sulla spalla, continuò il suo cammino.<br />

Quando giunse a Paganica, un paesello a mezza strada tra quello che abitava il notaro e quello del<br />

canonico Sansalone, gli venne fame, e pensò di andare da un oste di sua conoscenza, per annaffiare<br />

con un bicchiere di vino il pane e le ulive che gli aveva dato la Domenica. L’oste, appena vide quei<br />

capponi, mise loro subito le mani addosso.<br />

- Dove li porti?<br />

- Dal canonico Sansalone.<br />

- Da parte di chi?<br />

- Del mio padrone, il notaro Pantaleo.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

- Ah, che Dio ti benedica, perché non me ne vendi uno?<br />

Ho qui in casa oggi il verificatore dei pesi e misure e non so che cosa dargli da mangiare.<br />

- E come faccio? – rispose il Carabetto.<br />

- Ho qui una lettera di accompagnamento dove è detto quanti sono i capponi. Conosco il mio padrone:<br />

è preciso.<br />

- E tu dirai che uno ti è scappato, - fece l’oste – che te lo hanno rubato; insomma inventerai qualche<br />

frottola. Per uno io ti do venti lire e un’ala arrosto.<br />

All’idea di mangiare un pezzo di quei bei capponi, il Carabetto si sentì venire come una specie di<br />

vertigine.<br />

- Bell’affare, - disse – un’ala! La parte più magra.<br />

- Una coscia allora, - fece l’oste; e prima che il Carabetto potesse intervenire slegò i capponi, prese<br />

quello nero che era il più grosso, e lo afferrò per il collo.<br />

- Cosa fai? Che il diavolo ti porti! – gridò il Carabetto levandosi in piedi; e intanto si chinò per<br />

afferrare gli altri due capponi che, posati in terra e mal rilegati, starnazzavano, minacciando di<br />

scappare. Li afferrò difatti brancicando, e poi si lanciò per riprendersi l’altro; ma quello con le ali<br />

abbandonate e il collo rotto, penzolava già morto tra le mani dell’oste.<br />

- E adesso?… - fece il Carabetto con gli occhi sbarrati.<br />

- Adesso lo faccio cuocere – rispose l’oste – e ti darò una coscia più venti lire, sei contento?<br />

Il Carabetto stette un istante a pensare alquanto disorientato; poi disse: - Bene, dammi le venti lire e la<br />

coscia quando sarà cotta: al canonico ci penso io.<br />

Dopo un’oretta il cappone era cotto. Il Carabetto ebbe una coscia, venti lire e un bicchiere di vino.<br />

Mangiò, bevve, intascò il denaro e ripartì.<br />

Quando giunse in casa del canonico era il vespero. Quello si era appena alzato dal suo pisolino<br />

quotidiano, e ora, sdraiato nell’orto sopra una sedia di vimini, fumava la pipa, guardando le rondini<br />

che passavano a stormi; garrendo sulla cima di un nero eucalipto.<br />

Il Carabetto fu ricevuto dalla serva, alla quale consegnò la lettera e i due capponi superstiti, con la<br />

preghiera di portare tanti auguri al signor canonico da parte del notaio Pantaleo.<br />

La serva, dopo avergli mesciuto un bicchiere di vino, andò nell’orto e porse al canonico la lettera: - Il<br />

garzone del notaro Pantaleo ha portato due capponi.<br />

Il canonico aprì la busta, inforcò gli occhiali e si mise a leggere.<br />

- Due o tre? – chiese dopo aver finito la lettera.<br />

- Due, signor canonico.<br />

- Come due? La lettera dice tre: "Molto reverendo amico e maestro colendissimo, vi mando tre floridi<br />

capponi dal mio domestico pollaio ecc. ecc. Devono essere tre".<br />

- Il notaio si sarà sbagliato, - fece la serva – i capponi sono due, venite voi stesso a vedere.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

Il canonico posò la pipa sopra un tavolo di pietra lì vicino, ed entrò in cucina.<br />

- Ebbene? – disse al Carabetto con fare gioviale. – Come sta il mio amico notaro Pantaleo?<br />

- Bene, signor Canonico, vi manda questi capponi e tanti auguri "ad murtosano".<br />

- Grazie, grazie – fece il canonico sorridendo. – Ma come va che sono due? La lettera mi parla di tre.<br />

- Signor canonico, quello che mi ha dato il mio padrone io ve l’ho portato.<br />

- Vediamo – disse il canonico, prendendo i capponi in mano.<br />

- Quanto tu dici non è esatto, perché la lettera mi annunzia tre e tu me ne hai portati due. Guarda bene:<br />

uno e uno due.<br />

E presi i due capponi ciascuno in una mano, li alzò in aria.<br />

- Ebbene, signor canonico, - fece il Carabetto – uno e due non fanno tre?<br />

Il canonico guardò il Carabetto con gli occhi piccoli piccoli:<br />

- Ah! Ho capito! Tu sei una specie di Bertoldo, figlio mio, - disse aggrottando le ciglia – ma a me non<br />

la farai. Stai bene attento. Qui siamo in tre: io, tu e la serva. Se i capponi fossero tre, come dice la<br />

lettera, ce ne spetterebbe uno ciascuno; uno a me, uno a te e uno alla serva. È giusto sì o no? Rispondi.<br />

- Giusto, signor canonico, - fece il Carabetto – ma guardate che le parti le avete fatte voi. Io accetto.<br />

- Allora vediamo – riprese il canonico trionfante, senza badare molto a quello che diceva il Carabetto.<br />

– Ora facciamo la distribuzione delle parti. Questo è il mio – e prese in una mano per le zampe uno<br />

dei capponi.<br />

- Quest’altro è della serva, - e porse il secondo alla domestica – e il tuo dov’è?<br />

- È vero, - rispose dopo un momento di esitazione Bastiano – manca proprio il mio.<br />

- E allora – domandò il canonico – il tuo dov’è?<br />

- Vi spiego io tutto, signor canonico – disse il Carabetto.<br />

Ricordatevi che le parti le avete fatte voi. Il vostro l’avete, la serva ha il suo, va bene? Manca il mio.<br />

Per il mio ecco… per il mio, signor canonico, non datevi pensiero. Io l’ho mangiato alla vostra salute.<br />

NINO MARTINO<br />

Nino Martino era un celebre brigante, la cui fama volava da un capo all’altro della terra Calabra.<br />

Egli viveva nei boschi, a capo di una banda numerosa ed agguerrita che, giusto l’espressione della<br />

leggenda, egli trattava "alla riale", e cioè, colla magnificenza di un re. I suoi compagni vestiti di<br />

splendidi velluti, avevano armi sopraffine, mangiavano robustamente, e vivevano come i lupi della<br />

montagna, magnifici, temuti a cento miglia d’intorno.<br />

I giovani animosi che avevano un sopruso da vendicare, o una giustizia da rendere, accorrevano a lui,<br />

e volentieri si assoggettavano alla sua cavalleresca ma inflessibile autorità.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

Perché Nino Martino non commetteva mai un’ingiustizia, non agiva mai per suo personale interesse, o<br />

per volgare malvagità, ma sempre per riparare dei torti, e per deprimere l’arroganza dei signorotti, che<br />

angariavano i poveri, ed opprimevano i deboli e i diseredati.<br />

Tutto il denaro che egli portava via ai ricchi lo distribuiva ai poverelli, alle vedove e agli ordini,<br />

cosicché il brigantaggio con lui diventava una specie di cavalleria a vantaggio degli umili. Ma era<br />

sempre brigantaggio, e il cuore generoso di Nino Martino ne soffriva.<br />

Un giorno Nino Martino, che era abituato a beffarsi dei gendarmi e ad affrontare i pericoli, scese in<br />

città da solo vestito da montanaro, e poiché era di quaresima, entrò in una chiesa per ascoltare la<br />

predica di un monaco che, durante quel periodo di penitenza, aveva convertiti parecchi peccatori.<br />

La chiesa rigurgitava di gente, di ogni condizione e di ogni età, e l’organo in fondo al coro, rombava<br />

come una foresta al vento, mentre delle voci bianche di chierici cantavano il Benedictus. Ad un tratto<br />

la musica si tacque, i canonici occuparono gli stalli, e sul pergamo, nella penombra austera della<br />

chiesa, apparve una figura maestosa di francescano, con una bella barba fluente sul petto, ed una<br />

faccia serafica. Con voce tonante il frate si mise a predicare, tra il religioso silenzio dell’auditorio. Il<br />

tema trattato era quello della morte.<br />

- "Io verrò come un ladro – tuonava il frate, ricordando le parole di Gesù – e voi non saprete della mia<br />

venuta".<br />

Il pubblico dei fedeli ascoltava in silenzio e per la vasta chiesa la voce del frate passava come un<br />

vento in tempesta.<br />

Nino Martino, passò in rapida rassegna le sue terribili colpe, e pensò che per lui, più che per gli altri,<br />

la morte poteva arrivare come un ladro notturno. Il suo cuore intimamente buono e generoso, si<br />

ribellava a quella vita di lotte e di agguato, di vendette furibonde e di tempestose libertà.<br />

Gli venne alla mente sua madre, la sua vecchia madre, che lo ammoniva sempre, e girando gli occhi<br />

intorno, la vide inginocchiata vicino ad una colonna che pregava per lui, col volto inondato di lacrime.<br />

Lasciò sconvolto la chiesa e si diresse verso la montagna.<br />

Appena uscito fuori dal paese, vide venirgli incontro un povero cencioso, emaciato, che basiva per il<br />

freddo, perché non aveva che una povera camicia sulle spalle e quella era anche tutta a brandelli.<br />

- Mi dai qualche cosa per l’amore di Dio? – disse il povero a Martino; e batteva i denti che era una<br />

pietà.<br />

Il brigante mise la mano nella cintura di cuoio e trasse fuori una manata di monete che porse al<br />

poverello; poi pensando allo stato miserando del vestito che lo ricopriva, si levò dalle spalle il suo<br />

ampio mantello di panno, e sfilato un coltellaccio dalla cintola, lo tagliò in due: una metà la diede al<br />

poverello, con l’altra metà si ravvolse le spalle alla meglio, e proseguì verso la montagna.<br />

Quando entrò nella caverna dove i suoi compagni erano raccolti, davanti alla mensa imbandita, tutti<br />

s’accorsero, dall’espressione del suo volto, che egli era agitato da tempestosi pensieri. Vedendo poi<br />

che non aveva se non la metà del mantello, cedettero senz’altro che fosse stato vittima di una qualche<br />

aggressione. Gli furono tutti intorno ansiosi, tempestandolo di domande. Nino Martino li calmò: -<br />

Nessuno mi ha aggredito – rispose – ma io ho combattuto un’aspra lotta con la mia coscienza e questa<br />

mi ha vinto. Ecco che io gitto ai vostri piedi le mie armi, i miei vestiti e i miei denari, lascio il<br />

comando della banda, e con questo mezzo mantello mi ritiro in solitudine a pregare Iddio per il<br />

perdono dei miei peccati.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

Così dicendo, si sfilò la casacca di fine velluto ornata di bottoni d’argento e la buttò a terra,<br />

similmente fece delle sue armi e della sua cintura di cuoio, tutta piena di grosse monete d’oro; poi si<br />

ravvolse nel suo mezzo mantello, e dopo aver abbracciato tutti i compagni, uscì dalla grotta e<br />

s’incamminò verso il folto della foresta.<br />

I briganti, dopo un minuto di sbalordimento, si misero a discutere violentemente sul gesto del loro<br />

capo. Senza di lui, che era il più animoso e il più accorto, essi si sentivano isolati e spaventati, e già si<br />

vedevano aggrediti dai gendarmi, arrestati e condotti al patibolo per i loro numerosi delitti. Ben presto<br />

le grida contro Nino Martino si alzarono furibonde, lo si chiamò vile traditore, e al colmo dell’ira i<br />

banditi, presi i fucili, balzarono tutti fuori dalla caverna, e si misero dietro le tracce del fuggiasco per<br />

ucciderlo.<br />

Lo raggiunsero in luogo della montagna detto l’Arma del Conte, un passo stretto tra due ripe boscose.<br />

Nino Martino andava curvo, rattristato, quando i suoi compagni gli balzarono intorno come una muta<br />

di lupi affamati, e dopo averlo insultato e malmenato, dato di piglio alle armi, lo uccisero<br />

crivellandolo di ferite. Quando lo videro in terra disteso nel suo sangue, per segno d’infamia,<br />

pensarono di innalzare sul suo corpo una piramide di sassi, che servisse d’ammonimento contro i<br />

traditori, e perché ogni viandante, nel tempo avvenire, passando davanti a quel mucchio, potesse<br />

aggiungere il suo sasso alla greve mora che copriva il corpo del trasfuga. Detto fatto ammucchiarono<br />

sul cadavere del morto quanti sassi e macigni trovarono intorno, e quando lo ebbero totalmente<br />

ricoperto, lo abbandonarono e si dispersero per la montagna.<br />

All’indomani la notizia della morte di Nino Martino si sparse fulminea per tutti i paesi d’intorno, e di<br />

bocca in bocca arrivò alla vecchia madre del brigante. Egli era stato ucciso all’Arma del Conte, e il<br />

suo corpo era seppellito sotto un mucchio di sassi.<br />

La povera vecchia pianse a lungo disperatamente, poi partì verso la montagna. Quando giunse al<br />

passo dove era stato ucciso suo figlio, vide la terra ancora bagnata di sangue, e la piramide enorme di<br />

sassi che nascondeva il suo povero corpo. Si mise in ginocchio davanti al mucchio, e piangendo si<br />

accinse a rimuoverlo. Ben presto le sue povere vecchie braccia si sentirono rotte dalla fatica, le mani<br />

le sanguinavano, ma la passione del figlio le sosteneva le forze. Per tutto il giorno durò in quella aspra<br />

fatica, e come fu sera la povera salma le apparve. Il gran corpo atletico di Nino Martino, sebbene<br />

avesse il petto spezzato da cento ferite, era ancor bello e sorridente come se dormisse, ed i sassi<br />

numerosi e pesanti ammucchiati su di esso, non lo avevano ne rotto ne deformato. La vecchia madre<br />

lo coperse di baci e delle sue lacrime e poi, come fosse stato un bambino dormente, se lo prese in<br />

braccio e lo portò nella sua casa. Nessuno l’aveva vista, mentre scendeva dalla montagna, e i nemici<br />

di Nino avrebbero ancora creduto che egli fosse sepolto sotto il mucchio di sassi all’Arma del Conte.<br />

Ella invece avrebbe dato amorosa sepoltura al suo povero figliolo nella sua casa, per averlo sempre<br />

vicino, e per potergli parlare quando la passione la prendeva.<br />

Giunta a casa lo nascose in cantina, gli lavò le ferite con acqua e vino, e non avendo il coraggio di<br />

metterlo sotto terra, lo coprì con una vecchia botte sfondata.<br />

Di tanto in tanto rimoveva la botte, lo guardava, lo baciava, e lo trovava sempre bello e fresco come se<br />

dormisse.<br />

Dopo alcuni mesi di questa pia comunione col suo morto, un giorno, avendo tentato di rimuovere la<br />

botte, non vi riuscì: essa era diventata pesante come di piombo. La batté con le nocche ed essa diede<br />

un suono opaco, come quello che rendono i recipienti quando sono pieni.<br />

- Povera me, - disse la vecchia madre – che io mi sia ingannata, che io abbia sognato quando ho<br />

creduto in questi mesi passati di rimuovere la botte, e rivedere il corpo del mio povero figliolo?<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

Poiché sui fianchi della botte vi era una spina, la vecchia donna la staccò e con sua grande meraviglia<br />

dal buco di quella spina zampillò un vino rosso come sangue. Lo gustò ed esso era eccellente, il<br />

miglior vino che mai avesse bevuto in vita sua. Per quel giorno ne spillò una damigiana, poi richiuse<br />

la spina, e chiamò alcuni poveri perché ne bevessero.<br />

Tutti rimasero meravigliati per la bontà di quel liquore.<br />

Bevuta quella damigiana, ne spillò un’altra, e poi ancora un’altra, e seguitò a spillare e a distribuire<br />

senza risparmio ai poveri, agli amici, ai passeggeri; la botte restava sempre piena, e il vino zampillava<br />

inesauribile come l’acqua da una fonte viva.<br />

La povera donna non sapeva come spiegare questo fenomeno e le doleva il cuore di non poter<br />

rimuovere più la botte e rivedere il volto del suo figliolo. Finalmente un giorno chiamò un bottaio e<br />

gli disse:<br />

- Da oltre un anno io spillo vino da questa vecchia botte, ed essa è sempre piena; volete levarmi il<br />

coperchio e vedere quanto vino ancora contiene?<br />

Il bottaio si mise all’opera, e quando ebbe levato il coperchio, uno spettacolo meraviglioso si presentò<br />

ai suoi occhi e a quelli della vecchia madre. In fondo alla botte era disteso, ancora fresco e intatto<br />

come se dormisse, il corpo di Nino Martino; da una delle sue ferite vicino al cuore era nata una pianta<br />

di vite, che, sebbene al buio, era mirabilmente cresciuta, e portata, e portava sui tralci una miriadi di<br />

grappoli sempre maturi. Questi grappoli, che si rinnovavano incessantemente, a mano a mano che la<br />

vecchia spillava, si convertivano in vino, e il cuore di Nino alimentava col suo sangue la pianta<br />

miracolosa.<br />

NOTTE IN ALTA MONTAGNA<br />

Si era progettato, un mio amico valdostano ed io, di fare una cima a tremila entro agosto. Questo<br />

normalmente è il mese in cui il tempo è più costante e noi, tutte le mattine, spiavamo la conca su cui si<br />

ergeva la piramide che avevamo deciso di scalare osservavamo la densità, il corso dei vapori e la<br />

direzione del vento, ma la giornata veramente bella, limpida e con promessa di durata tardava a<br />

venire.<br />

Difficilmente, anche nella più serena estate, le alte cime rimangono tutto il giorno sgombre. Verso il<br />

pomeriggio, per un fenomeno naturale a certe altezze, si formava attorno alla nostra piramide una<br />

fascia di vapori chiari, soffici come fiocchi di lana. Erravano, si piegavano, si deformavano, parevamo<br />

dileguare: poi improvvisamente risalivano dalla valle, riabbracciavano i contrafforti della montagna,<br />

la velavano tutta come spiriti gelosi della loro solitudine.<br />

Il mio amico esitava anche perché nella escursione non saremmo stati soli: avremmo avute con noi<br />

due donne: la sua signora ed una signorina che avevamo conosciuta da poco in quella stazione<br />

climatica.<br />

L’escursione doveva essere compiuta in due tappe. Il primo giorno, partendo all’alba, saremmo giunti<br />

ai piedi della piramide, dove avremmo pernottato in una baita di mandriani. All’indomani, freschi di<br />

forze e col tempo propizio, che avremmo potuto esaminare da vicino, avremmo tentata la scalata, che<br />

si prevedeva circa tre ore.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

Finalmente la giornata propizia venne e partimmo. Dato che l’altra coppia – marito e moglie – era<br />

perfetta, la signorina sarebbe stata la mia compagna.<br />

Essa non era bella. Aveva trent’anni e già si avvertiva sul suo volto e in tutta la sua persona quella<br />

specie di languore, che a quell’età, somiglia un po’ al languore dei fiori che soffrono per mancanza di<br />

umore.<br />

Ma era assai simpatica e aveva un modo di trattare tra il gentile e il riservato: il segreto di quelle<br />

femminilità ardenti e insieme pudiche, che covano in certi caratteri come un fuoco nascosto. Io la<br />

accettai volentieri come compagna. Mi lusingava un poco la curiosità di esplorare il suo intimo, quasi<br />

direi di tentare la sua scoperta.<br />

La salita fino alla baita fu piacevolissima. La mia compagna parlò con me a lungo, ilare, spigliata e<br />

con una insospettata libertà. Si fece sorreggere nei passi difficili; durante la sosta per la colazione<br />

mangiò il pane che io le spalmai di burro e marmellata e volle che bevessi l’acqua freschissima nel<br />

cavo delle sue mani. Ripresa la marcia, dopo un pisolino sull’erba, giungemmo davanti alla baita che<br />

il sole scompariva dietro gli scheggioni della montagna. Le mucche affluivano scampanando alla<br />

stalla, e due giovani sull’uscio sorvegliavano con in mano i secchi per la mungitura.<br />

Noi ci arrestammo trafelati davanti ad una specie di lago scuro, denso, che stagnava in una conca di<br />

sassi davanti alla stalla, e il mio amico salutò il padrone in quella specie di patois tedesco, che in<br />

quell’alta valle valdostana è il linguaggio familiare dei valligiani.<br />

Fummo accolti festosamente, ma la mia compagna guadagnava con una certa apprensione il lago<br />

graveolente, dal quale si sprigionava un acre e potente fetore. Era la concimaia…<br />

- È questo il rifugio dove dormiremo questa notte? – mi chiese.<br />

- Questo… perché?<br />

- Perché non so come faremo a dormire con questa puzza orrenda.<br />

- Vedrete che dentro la baita non l’avvertiremo più.<br />

Di fatti, come vi entrammo, fummo assaliti da un nuovo forte odore, quello della zangola, e da quello<br />

nativo del latte, che si mischiava con l’odore della resina esalante dal camino acceso.<br />

Ci fu offerto del latte tiepido, appena munto, tutto profumato di erbe aromatiche; noi mettemmo fuori<br />

le nostre provviste e la cena fu deliziosa. Poi fumammo delle sigarette, davanti a un bel fuoco, e<br />

quando il padrone e i figli ci lasciarono per manipolare il latte, il mio amico disse: "Adesso, ragazzi,<br />

vi offro il più straordinario spettacolo che sia al mondo: una notte in alta montagna. È uno spettacolo<br />

che bisogna vedere e godere da soli.<br />

- Ah… no – fece la mia compagna allarmata – e si attaccò al mio braccio – io da sola non ci sto, ho<br />

paura.<br />

Il mio amico rise: - Signorina… la donna non è che la metà dell’uomo. Quando un uomo e una donna<br />

sono insieme, non formano che una persona sola. Arrivederci a dopo lo spettacolo…<br />

Prese la moglie sottobraccio e uscì all’aperto. Io e la signorina lo seguimmo ma, giunti sul prato<br />

davanti alla baita, ci arrestammo smarriti.<br />

Il buio era denso, quasi palpabile…<br />

- Dove andiamo – chiese la giovane – stringendosi a me senza esitanza. – Qui vicino c’è l’odore della<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

concimaia che appesta.<br />

- Adesso troveremo un posticino – risposi un po’ turbato – e le passai metà della mia mantellina sulle<br />

spalle. Lei si attaccò al mio braccio tremando. Avanzammo così attraverso il prato, la cui erba sotto i<br />

passi si piegava cedevole e forte come un pelo vegetale. Dopo un centinaio di metri ci si parò davanti<br />

una grossa ombra nera, come una specie di enorme ippopotamo accovacciato. Era un macigno. Ci<br />

accostammo, lo palpammo e ci sedemmo ai suoi piedi.<br />

- Avete freddo? – chiesi alla mia compagna, sentendola tutta in un tremito.<br />

- No, ho paura. Non so di che, ma ho paura. Non vedete che spettacolo?<br />

Difatti la notte, che pure era bellissima, aveva qualche cosa di quasi minaccioso. Intorno a noi il<br />

profilo delle rupi e delle cime si disegnava nettamente nell’azzurro d’ardesia del cielo come un<br />

immenso anfiteatro di ferro. Alcuni di quegli scheggioni somigliavano a nasi, altri a crani, altri a<br />

schiene curvate sotto pesi invisibili; e pareva animassero l’ombra della loro presenza misteriosa.<br />

Davanti a noi, lungo la groppa di una montagna nera di abeti, si elevava una specie di obelisco di<br />

granito alto un centinaio di metri. Isolato come un campanile, la sua punta superando il profilo della<br />

montagna, somigliava stranamente alla mitria di un vescovo o alla corona di un re barbaro. Non so<br />

come, guardando quella punta, mi ricorsero alla mente certe figure di grandi papi o di conquistatori<br />

medievali e mi parve di vedere Carlo Magno o il Barbarossa o papa Adriano I in viaggio, dalle remote<br />

solitudini del tempo, che ritentassero di superare le Alpi.<br />

Intorno a noi era un silenzio strano, come generato da una presenza panica, e in mezzo a quel silenzio<br />

saliva da ogni angolo delle valli un borbottio monotono, scroscio di acque lontanissime. Pareva che<br />

delle moltitudini nascoste dietro quei macigni, nei meandri delle rocce, recitassero in una strana<br />

favella runica, delle preghiere misteriose o dei sortilegi. Sopra di noi, nell’azzurro remoto, la<br />

geometrica regolarità delle costellazioni dava l’idea di una immensa pagina di un libro, in cui fosse<br />

scritta, con strani geroglifici, la storia del tempo.<br />

A un tratto udimmo un fischio acutissimo; un secondo rispose un po’ più lontano e un terzo ancora.<br />

Seguì uno scroscio formidabile, come di una cascata di sassi, e tutta la montagna rispose con un boato.<br />

La mia compagna ebbe un moto di spavento. – Dio mio… che rumore è questo? – E nello<br />

smarrimento, attaccandosi a me, istintivamente appoggiò la sua guancia sulla mia.<br />

- Non vi spaventate… sono dei sassi che rotolano.<br />

- E chi li fa rotolare?<br />

- Gli spiriti della montagna.<br />

- Ma voi credete agli spiriti?<br />

- E perché no? Il mondo è pieno di forze occulte che si manifestano specialmente nella solitudine. La<br />

sfera incomparabilmente più vasta è quella che spazia oltre la nostra esperienza ed è appunto quando<br />

siamo soli, quando di fronte all’infinito il nostro intelletto avverte più chiaramente i suoi limiti, che<br />

noi sentiamo dietro di essi brulicare il mondo delle forze occulte.<br />

Seguì una lunga pausa di silenzio. Poi la mia compagna disse: - Sentite, parliamo… diciamo qualche<br />

cosa. Io ho una paura folle. Mi par che la montagna viva, che sia una specie di mostro enorme che<br />

respiri…<br />

- State tranquilla, cara – le dissi; e la baciai sulla guancia, con un moto più che di tenerezza, di<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

solidarietà.<br />

- Guardate le stelle – dissi io – come sono lontane e come palpitano! Sembrano tanti cuori, miliardi di<br />

cuori dell’universo.<br />

- Perché sono di diverso colore? – mi chiese lei. – Guardate… alcune sono bianche, altre sono azzurre<br />

ed altre hanno riflessi d’oro… Perché?…<br />

- Credo sia per la loro età. Alcune sono vecchie di miliardi di anni e sono vicine a spegnersi; altre si<br />

potrebbe dire comincino adesso la loro corsa. Non ricordo bene se le più vecchie sono quelle bianche<br />

o quelle azzurre…<br />

- Dio mio – gemé la mia compagna – voi state dicendo delle cose terribili!<br />

- Perché?<br />

- Dite che le stelle sono vecchie. Ma è spaventoso! La sola idea che esse abbiano avuto un principio,<br />

che la loro vita ha un rapporto col tempo sconvolge tutte le categorie del nostro pensiero. Se<br />

pensassimo a quello durante il giorno, io credo non sapremmo più trovare la ragione di vivere.<br />

Pensate! La vita dell’universo precaria! Da quando siamo nati, abbiamo considerato come immutabile<br />

almeno quello ch’è sopra di noi… Se pensiamo che l’universo è provvisorio, lo sgomento ci strozza. E<br />

che cosa c’è prima e dopo di esso?<br />

- Cara, c’è quello che, dal tempo dei pastori caldei ad oggi, tutti chiamiamo Dio!<br />

- E noi che cosa siamo, che cosa rappresentiamo nel mondo?<br />

- Nulla… il palpito di un istante!…<br />

- Nulla – stava per ripetere sbigottita la mia compagna; ma la sua voce si spense in un singulto di<br />

spavento.<br />

Una grossa stella sopra la nostra testa parve staccarsi e precipitarci addosso. Segnò il cielo di una<br />

striscia luminosa e dileguò dietro le rocce come un razzo. Seguì uno scoppio a cui risposero gli echi<br />

della montagna.<br />

- È un bolide? – chiese la mia amica.<br />

- Sì, un bolide, il frammento di una stella.<br />

- Dov’è caduto?<br />

- In qualche valle vicina.<br />

Rimanemmo silenziosi. Intorno a noi la montagna pareva vivere di una vita formidabile. Di quando in<br />

quando il silenzio era rotto da voci strane, da rombi, da lamenti misteriosi. La fantasia si eccitava, la<br />

sensibilità era acuita fino allo spasimo. Ad ogni ronzio, ad ogni sibilo, ad ogni fruscio trasalivamo<br />

smarriti. Il passaggio di un insetto nell’aria ci atterriva. Provavamo un senso di annientamento e<br />

guardavamo sopra di noi la sterminata pagina aperta, sulla quale tentavamo invano di leggere qualche<br />

cosa di preciso e d’intelligibile.<br />

Rimanemmo a lungo così, stretti l’uno all’altra come due bimbi smarriti, con la sua guancia sulla mia.<br />

E mai la vicinanza di una donna mi era parsa tanto solidale e tanto pura quanto in quella notte, col<br />

cuore e la mente occupati e attratti da una così misteriosa ansia e da una così intensa elevazione<br />

spirituale.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

Ad un tratto mi provai a rompere quel silenzio opprimente, e vedendo la mia compagna guardare in<br />

alto il turbinio delle stelle, e la via lattea che, come un immenso marezzo, attraversava il cielo da<br />

sud-ovest a nord-est, le mormorai:<br />

- A che pensate?<br />

- A nulla – rispose. – Sono troppo sbigottita. Ho l’impressione di trovarmi a faccia a faccia con Dio.<br />

- È vero – risposi – lo sento anch’io. – E, guardando in alto, mi parve che veramente una divina<br />

presenza riempisse il mondo.<br />

L’AMICO LONTANO<br />

Si scrivevano da circa un anno, ma non si erano mai visti. Lei era insegnante in un paesello di<br />

montagna, a circa mille metri e si chiamava Lisa. E lui? Di lui la signorina Lisa non sapeva quasi<br />

nulla. Sapeva che abitava a Milano, che scriveva libri e che alle sue lettere rispondeva puntualmente<br />

con altre lettere alquanto riservate ma tenerissime, che rivelavano il carattere estremamente buono di<br />

un uomo che non era felice.<br />

Perché non era felice? La signorina Lisa non era riuscita a strappargli nessuna notizia su questo<br />

argomento. Pareva che quel suo misterioso amico lontano evitasse, con una specie di orrore, di parlare<br />

della sua persona e della sua condizione familiare e sociale: e si studiasse invece di mantenere quella<br />

innocente relazione epistolare in un’atmosfera di pura e squisita idealità, dalla quale si proponeva di<br />

non uscire a nessun costo. L’unica cosa che era riuscita a sapere era questa: che egli non era sposato e<br />

viveva solo. La prima a scrivere era stata lei, dopo aver letto uno dei libri più belli dell’ignoto autore,<br />

dal titolo: "Le beatitudini".<br />

In un giorno di malinconia si era fatta coraggio e aveva scritto: A Roberto Marozzi, indirizzando<br />

presso la Casa editrice. Entro la settimana le era pervenuta la risposta, che l’aveva tenuta in una specie<br />

di esaltazione per tre giorni. L’ignoto autore la ringraziava delle sue parole gentili, accettava con gioia<br />

l’amicizia e prometteva di risponderle ancora.<br />

Si era così iniziata una corrispondenza che aveva un po’ mitigato la sua solitudine e riempita la sua<br />

anima di una nuova, ignota felicità. Si scrivevano regolarmente una volta la settimana. La signorina<br />

Lisa scriveva di domenica, lo sconosciuto rispondeva il giovedì.<br />

Le lettere di lui erano tanto belle e affettuose, ma riservate: pareva che il suo amico lontano,<br />

scrivendole, si preoccupasse di non illuderla soverchiamente, di non far sconfinare quella soave<br />

amicizia sul terreno pericoloso e tormentoso dell’amore. Soprattutto non parlava mai di sé: la sua<br />

persona rimaneva relegata in una atmosfera misteriosa, della quale invano ella cercava di squarciare il<br />

velo. Come era quell’uomo, che faceva, come viveva in quella città tumultuosa, in mezzo a tante belle<br />

donne, ai teatri, ai ritrovi mondani? Lisa non riusciva a indovinare nulla, e questo non faceva che<br />

accrescere la sua curiosità di conoscerlo, il desiderio di vederlo e di parlargli. In fondo a questo<br />

desiderio vi era anche un pochino di vanità, una segreta illusione di conquistarlo, di innamorarlo coi<br />

suoi begli occhi azzurri di miosotide, con quel suo viso soave di fata delle Alpi.<br />

A poco a poco questo pensiero diventò tormentoso, occupò tutto il suo spirito, ed allora ella decise<br />

senz’altro di tentare il colpo. Per andare in città aveva bisogno di qualche giorno di vacanza, e poiché<br />

la Pasqua era imminente, decise di farlo durante le vacanze pasquali.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

Il mercoledì santo, con un tempo magnifico, si vestì coi suoi abiti migliori, infilò il suo mantello<br />

azzurro col colletto di volpe, si aggiustò sul nasetto affilato le lenti di oro e partì.<br />

Quando scese a Milano davanti alla stazione centrale, ebbe l’impressione che la città l’aspettasse con<br />

gioia, tanto gaio le parve il rullio delle vetture e tanto luminoso il cielo sopra i comignoli delle case.<br />

Egli abitava lì, in quella città; in una casa di Porta Vercellina al primo piano. Erano le dieci e mezzo.<br />

Verso le undici sarebbe andata a trovarlo. Forse egli a quell’ora era nel suo studio a scrivere qualche<br />

bella pagina di romanzo, e forse pensava a lei, alla piccola amica sconosciuta.<br />

La signorina Lisa prese un tram e poco dopo scendeva in piazzale Baracca. La casa dello scrittore era<br />

lì; al numero quattro.<br />

Risoluta si affacciò in portineria e chiese: - È qui che abita lo scrittore Roberto Marozzi?<br />

La portinaia, una donnetta giovane ma brutta, che sfaccendava con uno straccio in mano, rispose<br />

senza guardarla: - Scala in fondo a sinistra, primo piano.<br />

La signorina entrò nel cortile, attraversò un portico col pavimento lucidissimo a mosaico e in fondo<br />

alla scala, vicino all’ascensore, vide un soldato di fanteria, che collocava in un angolo una specie di<br />

carrozzella da infermo.<br />

- Per piacere – chiese la signorina – sapete dirmi dove abita lo scrittore Roberto Marozzi?<br />

Il soldato alzò la testa e la fissò un istante, curioso. Poi riprese: - Accomodatevi, signora, è il mio<br />

capitano. – La signorina Lisa ebbe la impressione che le mancasse la terra sorto i piedi. Il suo ignoto<br />

corrispondente era dunque un ufficiale in attività di servizio? Eh già… se aveva l’attendente. Il cuore<br />

le si disfece nel petto e seguì il soldato come una sonnambula senza rendersi conto di quello che<br />

faceva. Un ufficiale, un uomo sano, giovane, vigoroso! E che cosa avrebbe pensato di lei, di quel suo<br />

gesto temerario e sconsiderato?<br />

Entrarono. L’anticamera era silenziosa come la corsia di un cimitero, tutta la casa era piena di quel<br />

silenzio che vi è negli appartamenti dove non sono né donne né bambini. Le pareti erano piene di<br />

acqueforti e di ritratti inquadrati all’inglese. Le porte a vetri erano tutte chiuse. In fondo, una appariva<br />

più chiara delle altre, dietro le lastre smerigliate.<br />

Il soldato aprì una di quelle porte, introdusse la giovane in un salottino elegantissimo, poi le chiese: -<br />

Chi debbo annunziare, signora?<br />

La maestrina riuscì appena a rispondere con un fil di voce:<br />

- La signorina Lisa Grimaud.<br />

Il soldato uscì e dopo qualche minuto ritornò tutto premuroso: - Prego, signorina, accomodatevi.<br />

La porta più illuminata era aperta a metà. Il soldato l’accompagnò fino all’uscio, la introdusse con un<br />

inchino e richiuse.<br />

Lisa rimase come pietrificata: davanti a lei, sopra una poltrona a braccioli carica di cuscini, era seduto<br />

un uomo sui trentacinque anni. Indossava una giacca di panno violetto coi risvolti grigio-ferro e gli<br />

alamari neri, e attorno alle gambe e fino al petto aveva una grossa coperta di lana cammello a scacchi,<br />

sulla quale spiccavano in modo singolare le sue mani nervose, lunghe e delicate come quelle di una<br />

donna. Il suo viso magro ma energico aveva una espressione di rassegnata amarezza, e gli occhi<br />

bellissimi, pieni di un ardore febbrile, fissavano la visitatrice con ansia e insieme con un senso di<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

dolce rimprovero.<br />

- Avete voluto conoscermi – le disse tendendole la mano con un sorriso un po’ forzato, - ed ecco che<br />

mi conoscete, ora. Avete distrutto la vostra illusione e un po’ anche la mia. Sedete, prego. Quando<br />

siete arrivata? Oh, che graziosa figliuola siete! Non mi ero dunque ingannato; vi avevo immaginata<br />

così.<br />

La sua voce era calda, semplice e comunicava un’impressione di affabilità. Si vedeva che si sforzava<br />

di apparire disinvolto e contento di quella visita. Per qualche istante la maestrina fu tanto smarrita,<br />

tanto confusa, che non riuscì a dire una parola. Ma subito comprese che a quello smarrimento<br />

bisognava reagire energicamente. Se ella avesse fatto indovinare il suo stato d’animo, la sua dolorosa<br />

sorpresa per aver trovato il suo ignoto corrispondente in quelle condizioni non avrebbe fatto che<br />

amareggiarlo di più. Si fece coraggio.<br />

- Vi chiedo perdono – disse – di avere osato questo senza chiedervi il permesso, ma avevo tanto<br />

desiderio di conoscervi di persona. Volevo anche ringraziarvi della pazienza che avete avuto<br />

rispondendo sempre ad una povera figliuola relegata fuori del mondo. Le vostre lettere e qualche libro<br />

erano la mia sola compagnia in quell’angolo di montagna. Voi non potete immaginare di quanto<br />

conforto siano state per me le vostre parole.<br />

- E le vostre! – fece lui – Anche le vostre sono state per me una cara compagnia. – Poi aggiunse con<br />

un sorriso triste: - Ora che mi avete visto, non mi scriverete più.<br />

E la fissava con gli occhi ansiosi, per leggere in quelli di lei il sentimento che avrebbero suscitato le<br />

sue parole.<br />

La maestrina, sbigottita, da quello sguardo più che dalle parole, protestò energicamente.<br />

- Ma non è assolutamente vero, signore. Io vi scriverò adesso più di prima. Perché non dovrei<br />

scrivervi? Sento che adesso… sì, voglio dire… adesso che vi ho conosciuto… Ma… voi siete un<br />

ufficiale? Il soldato che mi ha introdotta mi ha detto che siete il suo capitano.<br />

- Sono grande mutilato – rispose il giovane con una leggera punta di orgoglio – e siccome sono<br />

ufficiale di carriera, e son solo, mi si concede l’attendente.<br />

La giovane avrebbe voluto dire qualche cosa, ma non riuscì a balbettare nulla, perché la sua gola era<br />

chiusa da un nodo di pianto. Era un senso di pietà e insieme un impeto di tenerezza verso quell’uomo<br />

giovane, bello e intelligente. Oh, perché ella non era la sorella, una parente per potergli stare sempre<br />

vicino, per portare il sorriso soave di una donna intorno a quella vita triste e solitaria? Sentiva che lo<br />

avrebbe curato e carezzato come un bambino, che avrebbe trovato nel suo cuore le più riposte<br />

dolcezze della femminilità, per farlo sorridere ancora un poco alla vita!<br />

Nella stanza tutta tappezzata di scaffali pieni di libri, di quadri e di fotografie si era fatto un grande<br />

silenzio. La signorina non osava parlare, il giovane le guardava intenerito i capelli, il viso bianco e<br />

delicato la cui purezza virginale rendeva in lui più acuto il bisogno di affetto e di rimpianto, e le ciglia<br />

bionde abbassate sugli occhi così dolci e riposanti come il paesaggio di un lago tranquillo.<br />

Per rompere quel silenzio penoso e per il piacere di sentirla parlare, cominciò ad interrogarla sulla vita<br />

che conduceva in montagna, sui suoi scolari, sulla compagnia che aveva lassù. Poi parlarono di libri,<br />

del conforto che egli aveva trovato nell’arte e… sì, anche nella corrispondenza coi suoi lettori.<br />

- Sono state una grande gioia per me le vostre lettere – disse – ed anche di questa visita vi ringrazio.<br />

Ho l’impressione che con voi sia entrata nel mio studio la primavera ed anche un po’ della mia<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

giovinezza.<br />

- Oh, sono anch’io molto contenta! – disse la maestrina, ma senza persuasione, tanto confusi erano i<br />

suoi pensieri.<br />

- Quando partite?<br />

- Questo pomeriggio – rispose la ragazza. – Scrivetemi ancora, vi prego… Io scriverò di certo. E voi?<br />

Egli non rispose ma le prese una mano tra le sue e si mise a carezzarla. Allora ella non riuscì più a<br />

dominare né l’impeto del pianto, né il terribile bisogno che la teneva. Cadde in ginocchio davanti alla<br />

poltrona, prese fra le sue le mani di lui, si mise a baciarle singhiozzando: - Caro… caro, addio!<br />

Scrivetemi sempre, ricordatemi, io vi scriverò.<br />

Poi si alzò, e cercando di evitare lo sguardo di lui, uscì nel corridoio come un colpo di vento.<br />

Quando fu in strada, sotto il sole caldo del cielo primaverile, si sentì presa da un tal bisogno di<br />

lacrime, che se non avesse trovato subito un luogo per sfogarsi si sarebbe messa a urlare per la strada.<br />

Imboccato corso Magenta, presto si trovò davanti alla chiesa delle Grazie.<br />

Entrò si cacciò in un angolo sopra una panca, e pianse a lungo come se le fosse morta una persona<br />

cara.<br />

MIO ZIO BARONE<br />

Quando frequentavo il terzo anno di legge, abitavo, nella vecchia Messina; in via S. Paolo dei<br />

Disciplinati, una stanzetta al terzo piano, di una casa silenziosa, molto propizia agli studi e alle<br />

meditazioni. Tutto ciò che avrebbe potuto distrarmi era bandito da quella casa e soprattutto le donne<br />

giovani. Tutte le donne che incontravo o vedevo affacciarsi erano vecchie o spose sciupate e<br />

indaffarate che rifacevano i letti battendo di gran colpi con le mani sui materassi o lavavano in cucina<br />

o stendevano su certi fili distesi attraverso il balcone, lunghe teorie di vecchie calze e di fazzoletti.<br />

Difatti tutta la contrada era piena di un odore bucato e di quel caratteristico odore di vivande<br />

piccolo-borghese che mette addosso una strana malinconia, una malinconia di operazione destinata a<br />

sostentare una vita grama che pare non valga la pena di essere vissuta.<br />

La mia stanzetta era anch’essa molto modesta, rettangolare, con le pareti nude a intonaco, su una delle<br />

quali si apriva, con la sua luce argentea, come unico ornamento, uno specchio dalla cornice di legno<br />

nero, sospeso sopra un cassettone di ciliegio.<br />

Di fronte allo specchio era una finestra a davanzale che dava sulla via; in un angolo, il lettuccio<br />

miserino come quello di un frate, e accanto un tavolinetto con i libri, le dispense di diritto civile e di<br />

procedura.<br />

Dirimpetto a me, nella casa di fronte, abitava una vecchia signora, alta, magra e fantastica, che io<br />

vedevo qualche volta nel pomeriggio passare attraverso alla sua stanza, con un fazzoletto bianco in<br />

testa ed un lungo sigaro virginia in bocca. Quella vecchia signora aveva una figlia che doveva essere<br />

molto graziosa quando era giovane; ora sulla soglia della quarantina, era tutta appassita e illanguida,<br />

sebbene, nel corpo alto e ben costrutto, serbasse un residuo della tramontata grazia giovanile.<br />

Questa signorina che era la persona più giovane della via, conduceva con la madre una vita modesta e<br />

alquanto misteriosa. Si vedeva che vivevano di piccoli risparmi e di quelle risorse provvidenziali che<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

capitano alle vecchie famiglie decadute. Ciononostante la signorina conservava nel vestire un decoro<br />

dignitoso; indossava sempre abiti belli, magari di seconda mano, ma bene adattati alla sua persona e<br />

non tralasciava mai dopo pranzo di farsi vedere sul suo balconcino a prendere il caffè, tenendo nelle<br />

mani, con grande delicatezza, come un artista sulla scena una bella tazzina di vecchia porcellana.<br />

In casa io in quel tempo ci stavo poco, ma quando mi ci trovavo mi capitava inesorabilmente, specie<br />

nel pomeriggio, la visita di un mio paesano; il quale con la scusa di far quattro chiacchiere e di<br />

narrarmi le sue avventure amorose, mi scroccava tutti i giorni un mezzo pacchetto di sigarette.<br />

Era costui uno di quegli spostati della piccola borghesia, che dopo una giovinezza sciupata a crearsi<br />

una posizione, in piccole carriere di natura provvisorie, si trovava ora a quarant’anni suonati, senza<br />

posizione, senza impiego, con un’ottima salute, un desiderio intenso di godere, senza avere i mezzi<br />

per farlo. Per tirare avanti in quel tempo aveva accettato un posto di istitutore in un convitto privato e<br />

si agitava tutto il giorno dietro una specie di idea fissa: trovare una moglie con danari, di qualunque<br />

età, di qualunque moralità, purché avesse alcune diecine di biglietti da mille.<br />

Affaticato in questa ricerca, un po’ perseguiva realmente, un po’ inventava le più strabilianti<br />

avventure. Per riuscire nel suo intento quel poco di denaro che guadagnava, lo spendeva a vestirsi in<br />

modo eccentrico: pantaloni alla scudiero, stivali, giacca di velluto, frustino col manico d’osso, guanti<br />

bianchi e un immancabile fiore all’occhiello. Così vestito e con due grandi baffi sparpagliati, in su,<br />

contro le guance, si presentava in casa mia tutti i pomeriggi, mi salutava con voce tonante, che<br />

rimbombava nella strada solitaria come un colpo di trombone, caracollava un po’ davanti alla finestra<br />

poi si sedeva e, sfilandole dal pacchetto uno dopo l’altra, fumava le mie sigarette con un’aria così<br />

compiaciuta come se mi facesse un favore.<br />

Alla mia padrona di casa aveva detto che era mio zio il barone di Capo Passero ed io ero stato<br />

incaricato di confermare questa referenza.<br />

Fumando appoggiato al davanzale della mia piccola finestra, un pomeriggio di primavera, il barone di<br />

Capo Passero, vide la Signorina che abitava nella casa di fronte, mentre ella sorbiva con la solita<br />

grazia contegnosa il caffè sul balcone. La signorina indossava una vestaglia di seta a fiorami che le<br />

modellava splendidamente la persona ben formata e ancora alquanto fresca.<br />

La signorina, quando vide quel fiero cavallerizzo che la fissava in modo così guerriero e aggressivo<br />

rispose con due o tre di quelle occhiate oblique e languide, che di alcune donne meridionali sono una<br />

straordinaria specialità: vogliono essere pudiche e sono sfacciate, vogliono significare timidezza e<br />

riserbo e sono tutta audacia e abbandono.<br />

- Perbacco – esclamò il barone di Capo Passero battendo il manico del frustino sulla coscia. Chi è<br />

quella bella castellana che abita qui di fronte?<br />

- Non saprei – risposi io, - quel che posso dirti è questo: che è signorina, e che ha una mamma che<br />

fuma sigari Virginia, e che piglia il caffè tutti i giorni: dunque vive di rendita.<br />

Queste brevi notizie e l’aspetto distinto della signorina eccitarono la fantasia del mio amico, che in<br />

ogni donna vedeva una possibile moglie con danari. Cominciò a frequentare la mia stanza anche<br />

quando io ero via di casa, e iniziò rapidamente con la signorina di fronte una regolare corrispondenza<br />

amorosa in base di baci mandati sulle punte delle dita, di sospiri e di ogni specie di gesti per farsi<br />

capire.<br />

La strada era così stretta, e la finestra disposta in modo tale, che il barone, stando a due passi dalla<br />

mia, e la signorina, a due passi dal suo balcone, potevano farsi tutti i segni che volevano, senza essere<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

visti da alcuno, il barone, dritto in mezzo alla mia stanza, con l’enfasi di un tenero sul palcoscenico si<br />

sbracciava, si metteva le mani al cuore, chiamandola a mezza voce coi più dolci nomi, e mandava<br />

innumerevoli baci, che depositava sul palmo della mano e poi soffiava via come fossero farfalle, la<br />

signorina, non meno drammatica rispondeva con sospiri che avrebbero fatto muovere un mulino a<br />

vento e faceva con le mani l’atto di accarezzarlo, di lisciargli i capelli di stringerlo sul cuore.<br />

Quando qualche volta, durante queste scene mute, mi trovavo in casa io dovevo dissimulare la mia<br />

presenza sdraiandomi sul letto, e di lì, vedendo la signorina nello specchio smaniare e sbarrare i suoi<br />

grandi occhi ansiosi di zitellona quarantenne, mi dovevo mordere le mani per non scoppiare in una<br />

violenta risata.<br />

- Taci, macaco! – brontolava fra i denti il barone tra un’invocazione amorosa e un bacio: - Quella<br />

donna deve avere danaro. Non mi guastare l’affare.<br />

Ma quella corrispondenza, ristretta ai soli segni appena intelligibili e ai baci mandati sul palmo della<br />

mano, ben presto non fu più sufficiente all’espansivo cuore del barone; il quale propose, naturalmente<br />

a furia di segni, di scrivere qualche lettera. Apriti cielo! La signorina rispose con una mimica così<br />

disperata, che l’altro si ritrasse atterrito.<br />

E allora scrivesse lei. Meno che mai: né scrivere né ricevere lettere era possibile, la signorina aveva di<br />

ciò un folle terrore.<br />

Come risolvere l’intrigato problema?<br />

Allora il barone ebbe una trovata straordinaria.<br />

Un giorno si presentò a casa mia con un pennellino da gomma e un rotolo di carta protocollo. Ordinò<br />

a me di non farmi vedere; poi prese il mio calamaio e, intingendovi il pennello, cominciò a scrivere<br />

sulla carta, a caratteri di scatola, le sue generalità.<br />

Egli era ex capitano di cavalleria, era barone di Capo Passero, aveva avuto diciassette duelli, si<br />

chiamava Ruggero, era innamorato perdutamente, era pronto a presentarsi in famiglia; anzi era pronto<br />

a rapire la signorina in automobile, per poi sposarla. Scrisse tutto questo su tre o quattro fogli che<br />

distese sul letto, e poi spiegò per ordine davanti agli occhi ansiosi e meravigliati della signorina.<br />

Questa leggeva smaniando melodrammaticamente, mandava baci a decina, ma alla proposta di<br />

scappare da casa, implorava con le mani giunte, facendo capire che ciò era impossibile.<br />

Intanto da parte sua, sempre con segni, comunicò al barone le sue referenze, lei si chiamava Sofronia,<br />

apparteneva a ricca famiglia decaduta ma, ciò nonostante aveva una dote di trentamila lire.<br />

Il barone quando comprese questa cifra fece un salto nella stanza come un cavallo che adombri. –<br />

Perbacco – esclamò, trentamila lire sono quelle che mi ci vogliono!<br />

Ora bisognava persuadere la signorina Sofronia a scappare. La cosa non fu facile. Ella si difendeva<br />

accanitamente, mandando baci per calmare il furore del barone, e cadendo perfino in ginocchio con le<br />

mani sul petto.<br />

Ma il barone insistette affettuoso, insinuando, drammatico, e finalmente un giorno, estratta una<br />

elegante rivoltella scarica, se la puntò sull’orecchio minacciando di uccidersi, se la signorina non<br />

avesse acconsentito al suo progetto di fuga.<br />

Il gesto melodrammatico produsse il suo effetto. La signorina si arrese, e così si stabilì che la<br />

domenica dopo la messa mattutina, il barone l’avrebbe attesa in un determinato punto della città con<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

un automobile. E insieme avrebbero preso il volo.<br />

Il barone di Capo Passero era contento come un generale che ha vinto una difficile battaglia. Sono a<br />

posto, - mi disse confidandomi la cosa – trentamila lirette e una donna ancora ben conservata, di<br />

aspetto distinto e di buona famiglia.<br />

Egli era felice. Quello che cominciava a non essere più tranquillo ero io; quel progetto di fuga,<br />

combinato nella mia casa, con la mia acquiescenza se non addirittura con la mia complicità, l’inganno<br />

teso a quella povera zitellona di quarant’anni che smaniava davanti al falso barone, all’ex capitano,<br />

all’eroe di diciassette duelli, mi mettevano addosso un malessere insopportabile. Era una canagliata<br />

che avrebbe avuto conseguenze disastrose per quella povera donna.<br />

Immaginavo, con una strana inquietudine, la scena della fuga, il risveglio doloroso, la disperazione<br />

della vecchia madre, la fumatrice di sigari Virginia e mi pareva di essere un pochino responsabile<br />

anche io, come chi prenda parte ad un furto. La signorina, nell’attesa del giorno stabilito della fuga, si<br />

affacciava al balcone spaventata, guardava con occhi inquieti la mia finestra, spiava la via e mi dava<br />

l’impressione che preparasse le sue cose, e si sforzasse a lasciare un’atmosfera di conforto per la sua<br />

vecchia mamma.<br />

Per due giorni durai una fatica enorme a combattere contro il desiderio di impedire in qualche modo<br />

quella fuga. Era una specie di sofferenza fisica la mia, quella sofferenza che si impossessa dei timidi<br />

quando, anche involontariamente, partecipano ad una cattiva azione.<br />

Al terzo giorno finalmente deliberai di parlare e di servirmi perciò dello stesso mezzo di cui si era<br />

servito il barone di Capo Passero. Presi alcuni fogli di protocollo vi scrissi sopra col pennello quello<br />

che desideravo dire e poi attesi che la signorina si facesse vedere nella sua camera.<br />

Verso le quattro difatti la signorina apparve sul balcone, io mi allontanai due passi dalla mia finestra e<br />

le feci segno che desideravo comunicarle qualche cosa.<br />

La poverina, che non si aspettava da me un gesto simile, si ritrasse spaurita in mezzo alla stanza,<br />

spalancando i suoi occhi ansiosi. Io presi i fogli ad uno ad uno e li allargai davanti a lei perché<br />

leggesse. Sui fogli avevo scritto: "Signorina, non fugga col barone di Capo Passero. Egli non è barone,<br />

non è ex capitano, è uno spostato che tira il colpo alle sue trentamila lire".<br />

La signorina lesse pallidissima, e portandosi le mani al viso, con un gesto adunco come per ferirsi, si<br />

curvò su se stessa, affranta inebetita. Poi improvvisamente si rizzò con un gesto rabbioso mi fece<br />

cenno d’attendere e scomparve.<br />

Dopo qualche minuto ritornò e, postasi in mezzo alla stanza con un gran foglio di carta nelle mani me<br />

lo spiegò davanti. Sul foglio era scritto: "Io le trentamila lire manco le tengo".<br />

Quando s’accorse che avevo letto, abbatuffolò con furore la carta chiuse violentemente la finestra e<br />

sul balcone non si fece più vedere.<br />

Io rimasi di stucco, credevo che il Barone di Capo Passero avesse ordito un inganno ad una povera<br />

signorina di buona famiglia, mentre l’inganno più caratteristico lo aveva tentato proprio lei.<br />

Mi ricordai allora di quel che dice delle donne il Maupassant: "In amore noi siamo sempre apprendisti<br />

e le donne consumati commercianti".<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

GHITINETTA<br />

Guarda, dicevo a Ghitinetta, accarezzandole le belle gambe brune e nervose, che sembravano levigate<br />

dal sole e dal mare, guarda, piccina, che tu dai un calcio alla fortuna.<br />

Quell’imbecille ti sposa se tu smetti di civettare con tutti noi. Ghitinetta, che aveva finito di sbucciare<br />

un cioccolatino, se lo mise in bocca golosamente.<br />

- Lo so che mi sposerebbe, ma io non posso, vedi, è più forte di me. Quando egli mi parla della sua<br />

passione, le sue parole mi fanno l’impressione di un coperchio di cassa che stia per calarmi sulla testa.<br />

È necessario persuaderlo, quel povero ragazzo, che io non sono nata per fare la baronessa, mettere al<br />

mondo una dozzina di figli, sopraintendere ai granai baronali e ricevere gli omaggi dai massari col<br />

berretto lungo. Tu, che non sei uno sciocco come lui dovresti capirlo e farglielo capire.<br />

Pretendere di fare di me una buona moglie borghese è come prendere una rondine e costringerla a fare<br />

la gallina in un pollaio. Non è possibile, caro sull’anima mia.<br />

Io ora, vedi, sto volentieri su questa spiaggia barbaresca a cuocermi al sole e a mangiare le pesche<br />

squisite del baronetto di Santa Gudula perché ci siete voialtri studenti che rallegrate un po’ la<br />

compagnia, e portate qualche eco di vita cittadina, ma tra venti giorni, se non andassi via, mi piglierei<br />

un accidente. Io sono nata per essere libera come l’aria. Non te l’ho mai raccontata la mia storia?<br />

Te la voglio raccontare, anzi sarebbe bene che l’udisse anche lui, così si metterebbe il cuore in pace.<br />

Si arrovesciò sulla sabbia e, riparandosi il volto con le braccia contro il sole che folgorava dal centro<br />

del cielo, chiamò: Riccardo. La spiaggia dove noi eravamo sdraiati era quasi deserta; dalla sabbia<br />

giallastra vaporava nell’afa meridiana una specie di respiro tremolante, come quello che sale dalle<br />

fornaci. Ai piedi delle dune si vedeva disteso qua e là qualche bagnante tutto nascosto<br />

nell’accappatoio bianco, immobile come un morto del deserto avvolto nel suo barracano. Due barche<br />

in secco, scricchiolavano come argani sotto l’azione del calore cocente, e il mare d’un azzurro intenso,<br />

che tendeva al violetto, allungava calmo e metodico sulla sabbia finissima la sua frangia di schiuma,<br />

come un mostro che metta fuori la lingua e la ritragga continuamente.<br />

Al richiamo di Ghitinetta un giovanottone alto e grosso che stava sdraiato ad una cinquantina di passi<br />

da noi, alzò la testa e ci guardò con una faccia rabbuffata.<br />

- Che vuoi?<br />

- Vieni qua, Otello, fece la Ghitinetta ridendo, ti voglio raccontare una bella storia.<br />

Il giovanottone annoiato si arrovesciò supino ancora sulla sabbia, coprendosi il volto con una delle<br />

larghe maniche dell’accappatoio.<br />

- Lasciamolo perdere, fece la ragazza con un gesto d’impazienza; poi appoggiato il capo sulle mie<br />

ginocchia cominciò a parlare.<br />

- Ascoltami, disse, tu narro la mia storia. Non è allegra certamente, anzi quando ci penso una grande<br />

malinconia mi prende, per quello che fu e specialmente per quello che sarà di me nell’avvenire. Ma<br />

sento che nulla io posso fare per modificarla. In questo mondo ognuno di noi nasce col proprio destino<br />

e con la propria vocazione. Uno nasce poeta, un alto guerriero, un altro uomo d’affari, e ognuno è<br />

costretto a seguire inesorabilmente la sua via. Io per esempio, sono nata per far la ragazza di piacere, e<br />

mi facessero regina, lascerei il trono e scenderei ancora sulla strada per ritrovare la mia fame e le mie<br />

avventure. Credi che non abbia avuti dei dispiaceri da questa vita randagia? Oh, sì che ne ho avuti e<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

quanti! Ho saltato i pasti per delle settimane, ho impegnato i vestiti, ho dormito in soffitta d’inverno<br />

senza fuoco con una tazza di caffè e latte nello stomaco, e un panino integrale; e dieci giorni dopo ho<br />

giocato e perduto in una sera cinquanta biglietti da mille, dopo avere sciupato lo champagne come<br />

l’acqua d’una fontana. Ho portato gioielli da principessa e li ho venduti per il capriccio d’un uomo che<br />

mi piacque. Amare, di quell’amore esplosivo, irragionevole che rende infelici, forse non ho mai<br />

amato, perché difficilmente amano le donne come me. Io ho questa felicità al mondo, che non mi<br />

attacco a nulla; non ho che una passione: quella di girare e cambiare. Uomini, vestiti, paesi, amici;<br />

tutto deve essere sempre nuovo per me, fino al giorno in cui, esclusivamente per fare un viaggio<br />

nuovissimo ingoierò dieci pastiglie di Veronal e passerò nel paese del mistero.<br />

Ascolta, dunque, la mia storia, anzi quella della mia vocazione. Nacqui a Torino ventitré anni fa, mio<br />

padre era sarto ed abitavamo in una portineria in via Ormea. Ricordo quando ero ragazzetta che vicino<br />

a casa mia era una fabbrica di specchi, ed io, quando potevo mi ci ficcavo dentro a quella fabbrica, per<br />

il gusto di guardare lungamente in quegli specchi profondi, che mi davano l’impressione di abolire le<br />

pareti e portare le cose intorno all’infinito. Poiché ero fin da bambina molto vispa e sveglia di mente,<br />

mio papà, poveretto, aveva concepito l’ambizioso disegno di fare di me una ragioneria. Ma io mi<br />

accorsi subito che non ero fatta per incolonnare dei numeri; non avevo che una sola passione: quella<br />

degli uomini. Portavo ancora la treccina sulle spalle, e guardavo i miei compagni della scuola tecnica<br />

con certi occhi spiritati come se volessi divorarli.<br />

La metà di essi erano innamorati di me, mi scrivevano delle lettere incandescenti, e facevano per me<br />

delle terribili partite di pugilato davanti alla scuola, offrendomi eroicamente, un po’ per ciascuno, il<br />

sangue del loro naso. Scrivendo più lettere d’amore che componimenti scolastici era naturale che<br />

profittassi pochissimo, tanto che mio padre, perduta la speranza di diplomarmi ragioniera, mi mandò a<br />

fare la sarta in un laboratorio in piazza S. Carlo.<br />

Eravamo una ventina di ragazze e in quel laboratorio posso dire che veramente la mia vocazione si<br />

determinò in modo preciso. Lì mi preparai spiritualmente a spiccare il volo.<br />

Avevo sedici anni ed ero già sviluppata come adesso. Il giorno quando udivo le mie compagne parlare<br />

dei loro amanti, mi s’intorbidivano gli occhi e il cuore mi batteva forte come quando si ha paura.<br />

Avevo bisogno anch’io di un amico e, carina com’ero, non stentai a procurarmelo. Il mio primo amico<br />

fu un polacco impetuoso e appassionato che aveva un cognome con tutte le consonanti dell’alfabeto<br />

messo in fila, e che finì poi in prigione per ragioni politiche, al suo paese. Assaporato che ebbi<br />

l’amore mi buttai allo sbaraglio; mi sentivo dentro un desiderio di godere così vivace e inesauribile,<br />

che a mortificarlo mi dava una specie di angoscia fisica.<br />

La portineria di mio padre mi pareva brutta e angusta come una prigione senza luce, con quell’aria di<br />

povertà e di provvisorietà che mi stringeva il cuore. Mio padre, curvo su vecchi vestiti da rivoltare,<br />

mia madre un po’ malaticcia, tutta preoccupata di me, che non rincasavo mai per tempo mi venne in<br />

uggia, sentivo che li amavo tanto, ma sentivo anche che per amarli dovevo averli lontani, non vederli<br />

tutto il giorno in quello sgabuzzino pieno di ritagli di stoffa e di odore di carbone. Io avevo voglia di<br />

muovermi, di girare il mondo, di lanciarmi, come si dice nel nostro gergo, e di fatti alla prima<br />

occasione scappai da Torino così, come si scappa quando si è ragazzi, senza una meta, per sola<br />

vaghezza di conoscere il mondo. Me ne andai a Roma con un nordico che dopo quindici giorni mi<br />

lasciò per andare in Egitto, regalandomi cinquanta sterline. Da Roma scrissi subito a mia madre e mi<br />

ricordo che le scrissi piangendo; chiedevo perdono a lei e a mio padre di avere lasciata la famiglia, ma<br />

li assicuravo che ciò non era avvenuto per mancanza di affetto verso loro. Ormai essi conoscevano le<br />

mie scappate, io non ero più una ragazza idonea a formarmi una famiglia, dovevo cercare la mia via<br />

altrove. Siccome avevo una bella voce e ballavo benissimo, col gruzzolo che mi aveva dato il nordico<br />

mi sarei comperati dei costumi e mi sarei lanciata sul teatro di varietà. Comunque li avrei tenuti al<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

corrente di tutto.<br />

Alla lettera per addolcire mio padre, e per dimostrare loro che guadagnavo avevo unito un assegno di<br />

500 lire. Mia madre mi rispose rapidamente restituendomi il denaro e scongiurandomi di ritornare a<br />

casa. Le mie avventure e anche la mia fuga, in una grande città come Torino, non potevano essere<br />

note che a poche persone. Mio padre, dopo la mia partenza, aveva disposto di lasciare la portineria e<br />

aveva già cambiato casa. Io avrei aiutato a lavorare, e con un po’ di buona condotta, così carina<br />

com’ero, mi sarei sposata. Essi mi aspettavano a braccia aperte e mi avevano già perdonata.<br />

Questa lettera mi strinse il cuore, ma siccome in quel tempo io avevo di denari, e Roma era così bella,<br />

non produsse il suo effetto. Continuai a gironzolare, a divertirmi e a spendere fino a che mi trovai da lì<br />

a due mesi senza un soldo e con molte delusioni.<br />

L’ambiente del teatro era impenetrabile, e soprattutto mancava di quello che era il principale obietto<br />

della mia vaghezza: la gioia spensierata, la spontaneità, il sorriso del peccato. Vi regnava l’intrigo, il<br />

vizio abbietto e la rapacità. Vedi il denaro io non l’ho mai contato. È la cosa più necessaria ma anche<br />

la più ignobile della terra, ed io lo disprezzo. In quanto al vizio non lo conosco; amo per un bisogno<br />

naturale, come? Come respiro, come mangio e sempre senza malizia e venalità. Rimasi così tre o<br />

quattro mesi ancora a zonzo, un po’ divertendomi fino al delirio, un po’ stentando; sempre allegra<br />

però con la speranza di arrivare presto ad una ipotetica felicità che non sapevo rappresentarmi in<br />

concreto.<br />

Una lettera di mia madre, pervenutami in un momento particolarmente difficile, mi indusse a ritornare<br />

in famiglia. Fui accolta con gioia e con indulgenza. Mio padre, poveretto, non mi disse una parola sul<br />

mio passato m’indicò il mio posto di lavoro vicino a lui e si rimise ad agucchiare. L’appartamentino<br />

che abitavano allora i miei era al quarto piano di una grande casa in via Madama Cristina, a qualche<br />

passo del corso Valentino. Dal balcone di casa mia io vedevo gli ippocastani del viale, e più in là,<br />

dopo i tetti, le cime dei pini e degli abeti del parco lungo il Po.<br />

Ma non tardai ad accorgermi che quella calma era illusoria. Il giorno lavoravo e non pensavo ad altro,<br />

ma la sera, quando dopo cena mi mettevo curva sul mio balconcino ad osservare la città, provavo dei<br />

sentimenti che non potrei in nessun modo descriverli. Le lampade accese a rosari lungo le vie, i tram<br />

che passavano rullando pieni di gente, i taxi con le tendine celate che infilavano di corsa i viali, mi<br />

mettevano nel cuore una specie di angoscia. Sotto i miei occhi passavano incessantemente ragazze<br />

eleganti che si avviavano verso il centro, belle signore al braccio di uomini incaramellati, sartine<br />

seguite da presso da giovani intraprendenti.<br />

Sopra i tetti, verso piazza San Carlo e piazza Castello dove la città ha i suoi ritrovi mondani, i teatri, i<br />

caffè, il cielo era torbido, giallastro, pieno di bagliori e di rombi che mi facevano venire la vertigine.<br />

Io non uscivo perché ero sicura che non sarei più rientrata in casa. La città mi avrebbe ripresa<br />

inesorabilmente ed era con un senso di spasimo e di paura che io la immaginavo nei suoi ritrovi più<br />

pericolosi. Vedevo le piazze, i portici pieni di giovani eleganti che attendono alla posta, le vie corse da<br />

donne che vanno ai convegni, i teatri, i caffè dove le coppie si eccitano al suono del jazz per<br />

prepararsi al godimento notturno. E tutto questo su onde di musiche, di profumi intensi che mi<br />

facevano aprire le nari con una voracità da bestia feroce. Dopo le dieci spesso guardando sotto i viali<br />

del corso Valentino, vedevo delle coppie che vagavano lentamente, si fermavano in un angolo<br />

d’ombra, si stringevano con la bocca sulla bocca, a lungo, come piccioni che s’imbeccavano, poi<br />

riprendevano la loro marcia, lenti, beati.<br />

Ogni tanto mia madre mi chiamava: Ghitin, cosa fai?<br />

- Oh, niente, rispondevo io con la voce strana, prendo un po’ d’aria. E continuavo a guardare le coppie<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

degli innamorati, con uno struggimento senza fine.<br />

Ma una sera avvenne l’irreparabile. Era una sera bellissima d’estate, calda, eccitante, calata dopo una<br />

giornata d’afa e di polvere, una di quelle sere che cacciano fuori anche i vecchi, non fosse altro sulle<br />

terrazze per vedere il cielo, e respirare l’aria refrigerante delle ore notturne. Io ero da due ore al mio<br />

balcone e non mi risolvevo a rientrare, pareva che un sortilegio speciale mi tenesse lì curva sulla<br />

piccola ringhiera di ferro a guardare gli alberi del Valentino, e dietro il cielo tutto incoronato di grosse<br />

stelle. Via Madama Cristina quella sera era insolitamente deserta, e i tram continuavano a passare<br />

quasi vuoti. Anche la coppia che di consueto veniva a passeggiare sotto gli ippocastani del corso non<br />

si era fatta vedere quella sera. Io ero triste fino alle lacrime, e la mia tristezza era accresciuta da un<br />

pianoforte che in una casa di fronte suonava una romanza del Ballo in Maschera:<br />

che ti resta perduto l’amore<br />

che ti resta mio povero cor.<br />

Quella musica a quell’ora, in quella sera solitaria, mi produceva sul cuore l’effetto di una mano ruvida<br />

sopra una ferita. Sentivo un terribile bisogno di piangere, ma non potevo, un nodo mi si era stretto<br />

nella gola e non mi lasciava quasi respirare. A un tratto da Corso Valentino sbucò barcollando un<br />

ubriaco, cantava una canzone lubrica, una di quelle canzonacce che compongono i facchini<br />

avvinazzati, e i viaggiatori di commercio. All’udire quella canzone brutale mi sentii presa da una<br />

specie di delirio. Un desiderio pazzo di fuggire mi prese, una frenesia di andare non sapevo dove,<br />

purché andassi fuori da quella casa angusta, da quella vita metodica, virtuosa, lontano dagli occhi di<br />

mio padre e di mia madre, che mi sembravano due carcerieri. Sentivo che se non fossi scappata, mi<br />

sarei buttata giù dal balcone e mi sarei sfracellata sul selciato. I miei erano a letto. Io rientrai nella<br />

stanza, afferrai il mio cappellino, e senza mettermelo neppure in testa, aprii cautamente la porta. In<br />

due minuti fui sulla strada, dove mi misi a correre come una pazza verso il centro.<br />

Da quella sera non sono rientrata in casa mia e forse non vi rientrerò più. Ai miei genitori, scrivo, ma<br />

senza mandare il mio indirizzo per paura che le lettere di mia madre mi raggiungano, e<br />

sorprendendomi ancora in un momento difficile, m’inducano di nuovo a ritornare.<br />

Dopo quello che ti ho detto, dunque, tu pensi che io possa diventare la baronessa di Santa Gudula?<br />

No, povera me, non posso, e sono troppo onesta per ingannare la gente. Ho accettato di passare<br />

l’estate qui su questa spiaggia con quel ragazzo, e mi pare che gli tengo una eccellente compagnia. Fra<br />

un mesetto al massimo me ne andrò via e forse non rivedrò più nessuno di voialtri al mondo. Voi<br />

quando sarete, da qui a qualche anno, dei pacifici professionisti, e avrete sposata regolarmente<br />

qualcuna di questa goffe donne del vostro paese, che non osano guardare in faccia gli uomini per<br />

paura di fare peccato, sdraiati su questa spiaggia, vi ricorderete della Ghitinetta come di una<br />

mattacchiona graziosa che vi tenne allegri per circa due mesi e poi sparì.<br />

- E la Ghitinetta allora dove sarà? – chiesi io commosso, mettendogli le mani sotto la gola e fissandola<br />

negli occhi.<br />

- Chi sa, mi rispose, forse all’ospedale, forse sarà morta.<br />

Si cacciò in bocca, ridendo, un altro cioccolatino.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

LOTTA COL DEMONE<br />

Quella notte, per quanti sforzi facessi, non riuscivo a prendere sonno. Fosse il caldo che incombeva<br />

come una nube temporalesca sulla città, fosse il lavoro estenuante della giornata (avevo fatto quindici<br />

visite tra cui due di malati gravissimi) fosse uno di quei particolari squilibri del sistema nervoso che<br />

qualche volta si manifestano con l’insonnia; certo è che mi sentivo come una bussola in mezzo alla<br />

tempesta e continuavo a girarmi e rigirarmi nel letto, senza riuscire a chiudere occhio.<br />

Fantasticavo e, chissà perché, udendo il fischio di un treno, mi venne in mente il diavolo, il demone<br />

notturno dal pie’ di caprone; e tutte le fantasticherie paurose di quando ero ragazzo mi ritornarono in<br />

mente. A volte spalancavo gli occhi e, vedendo nel vano della finestra la vetta del pino dell’aiuola<br />

sottostante ondeggiare con un sibilo diffuso, mi pareva che da un momento all’altro la lunga ombra di<br />

un demone dovesse apparirmi in quel vano, propormi un enigma spaventoso.<br />

Misteriosi fenomeni dell’irrazionale; strane sensibilità che preannunciano le tempeste dell’anima.<br />

Poi, a poco a poco, i miei nervi eccitati si distesero, un sopore inquieto scese, mi avvolse molesto<br />

come la schiuma di un lavatoio, e dalla fantasticheria passai insensibilmente al sonno.<br />

Mi pareva di viaggiare solo, sopra un carro, per una via di montagna. Intorno non un indizio di anima<br />

viva. Il carro saliva per una gola di rocce in mezzo ai boschi, e nell’aria fresca ed energica si<br />

diffondeva, con una sonorità sconcertante, lo squillo del campanello che il mio mulo portava appeso<br />

sotto l’orecchio. Oh, come il vento della notte diffondeva intorno quel suono, come se esso diventava<br />

sempre più acuto, insistente, quasi collerico! Tutta la valle ne era piena.<br />

Ad un tratto mi parve che diventasse così forte, così lacerante che, preso da una paura folle, balzai giù<br />

dal carro e corsi verso la testa del mulo per strappargli il campanello e farlo tacere.<br />

Mi trovai seduto in mezzo al letto, tutto in un bagno di sudore, mentre nel corridoio il telefono trillava<br />

disperatamente.<br />

Mi precipitai all’apparecchio, col cuore che pareva dovesse saltarmi in gola e afferrai il ricevitore.<br />

- Pronto. Parlo col professore Pussini?<br />

- Sì, voi parlate col professore Pussini; e io?<br />

- Professore, sono la signora Molesini. Per carità, venga subito da me. Mio marito è moribondo.<br />

- Oh Dio, signora, mi dispiace! Un minuto che mi vesta e vengo subito – balbettai con voce rauca<br />

ancora tre o quattro volte frasi incoerenti e rimasi nel buio del corridoio con gli occhi sbarrati,<br />

respirando forte, come uno a cui si appiombato sul dorso un getto d’acqua gelata.<br />

I miei pensieri ondeggiavano come quelli di un ubriaco.<br />

La signora Molesini era una donna che avevo conosciuto in campagna, un anno avanti, e della quale<br />

mi ero perdutamente innamorato. Le avevo fatto una corte assidua e appassionata, ma non ero venuto<br />

a capo di nulla, sebbene ella avesse il marito di venti anni più vecchio di lei. I suoi sentimenti religiosi<br />

le impedivano di avere un amico. Me lo aveva detto un giorno fra le lacrime, fissandomi coi suoi begli<br />

occhi funebri di mistica voluttuosa:<br />

- Io vi amo, vorrei essere vostra moglie, ma non sarò mai la vostra amante, specialmente finché sarà<br />

vivo mio marito.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

Ora quello che mi dava un tremito per tutta la persona era la considerazione che io non ero il medico<br />

di casa Molesini e non avevo mai curato nessuno di quella famiglia. Perché, dunque, la signora<br />

chiamava me in quella drammatica contingenza? Brancolando accesi il lume, mi vestii e, sceso in<br />

istrada, presi un tassì e mi feci portare a casa della signora.<br />

Due minuti dopo una cameriera scaruffata e spaventata mi introduceva nell’appartamento.<br />

- Oh dottore, venite; mio marito muore!<br />

- Che cosa è stato signora, - dissi chinandomi a baciarle la mano – una indigestione, uno strapazzo?<br />

Un’onda del suo profumo mi assalì come un colpo di vento e mi diede un brivido fino alla radice dei<br />

capelli.<br />

- Pare si tratti di un attacco di angina pectoris – mi rispose la signora, attirandomi a sé con un gesto<br />

insolitamente affettuoso. Appena ebbe i primi sintomi, chiamammo il nostro medico curante ed è lì<br />

che lo assiste. Venite. La seguii nella camera da letto, barcollando come un ubriaco.<br />

Il malato giaceva supino con il largo viso carnoso quasi cianotico, abbandonato sul cuscino, le<br />

occhiaie gonfie sotto il flusso anormale del sangue e le labbra livide, da cui usciva un respiro greve,<br />

affannoso, pause irregolari. Il petto gli si alzava e abbassava come un mantice.<br />

Seduto al capezzale era un ometto calvo con un paio di occhiali a stanghetta da vecchio notaio, e una<br />

coroncina di capelli neri intorno al cranio che parevano quelli di un tonsurato. Come mi vide entrare,<br />

mi venne incontro con un inchino cerimonioso e un po’ servile:<br />

- Sono il medico curante, dottor Monaci.<br />

- Piacere – feci io tendendogli la mano. Voi lo avete già visitato, collega?<br />

- Sì, l’ho visitato, professore. Purtroppo mi pare che si tratti di una forma piuttosto grave.<br />

Ci appartammo nel vano di un balcone e il mio collega mi espose in succinto il risultato delle sue<br />

osservazioni.<br />

Tornammo verso il letto. Dopo aver osservato il malato per qualche minuto, mi accorsi che il medico<br />

curante non aveva capito nulla.<br />

L’indisposizione del signor Molesini era una banalissima congestione: con un buon salasso da lì a<br />

un’ora il malato si sarebbe addormentato placidamente. Ma senza il salasso sarebbe morto.<br />

E allora, mentre chino sul petto del malato, ascoltavo il suo respiro anfanante, fui afferrato da un<br />

pensiero infame. Quando mi rialzai, sul volto non avevo più una goccia di sangue. La mia fronte era<br />

imperlata di sudore freddo e avevo l’impressione che una mano terribile mi avesse afferrato i capelli,<br />

annullando completamente la mia volontà. Dovevo fare il salasso?<br />

Sotto l’imperativo categorico di quella domanda, il mio cuore si gonfiava come la gola di un naja.<br />

Vicino a me era la signora che io avevo tanto desiderata, coi capelli nerissimi un po’ scomposti, la<br />

faccia pallida, i grandi occhi funebri; ed io non vedevo che lei. Aspiravo a narici spalancate il<br />

profumo che veniva dalle sue vesti, dal suo corpo giovane, guardavo le sue braccia bianche aperte fino<br />

al gomito, e la mia volontà si inalberava come un cavallo selvaggio.<br />

No, io non avrei fatto il salasso!<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

I miei pensieri acquistavano immediatamente una lucidità spaventosa; il ragionamento diventò<br />

preciso, freddo, tagliente come una lama. La lotta col demone cominciava? Dopo un periodo di<br />

sgomento, la mia decisione parve irrevocabile.<br />

Mi trovavo nelle migliori condizioni per liberare la donna che amavo senza alcun rischio, lasciando a<br />

un accidente il suo libero corso.<br />

Un altro medico era lì a giustificare il mio operato. E se la sua diagnosi fosse stata giusta e la mia<br />

sbagliata? Con una vile condiscenza, arrivavo a legittimare l’errore del mio collega, e a dubitare delle<br />

mie capacità professionali, di cui pure ero tanto orgoglioso. Di fronte al malato, con un cinismo<br />

terribile, in un attimo che parve durasse un’eternità, mi rappresentai mentalmente quello che sarebbe<br />

avvenuto in quella casa se il demone avesse definitivamente vinto.<br />

Di lì a un’ora al massimo quell’uomo sarebbe morto. Intorno vi sarebbe stato un grande scompiglio, la<br />

signora avrebbe pianto, io l’avrei confortata rubandole fra le lacrime qualche carezza. Poi lei avrebbe<br />

vestito il lutto che l’avrebbe resa straordinariamente più bella e più interessante, e io le avrei ancora<br />

una volta, presentate le mie profferte d’amore. E l’avrei fatta mia.<br />

Questi pensieri mi davano un’ebbrezza frenetica, una specie di gioia selvaggia, simile forse a quella<br />

degli animali da preda in agguato.<br />

Il malato ansimava, il medico curante, col suo sguardo da miope intellettuale guardava un po’ me un<br />

po’ quello, e attendeva che io mi pronunziassi. Io rimanevo impassibile, la mia lingua pareva attaccata<br />

al palato, gli occhi giravano inquieti sotto il riflesso molesto della lampadina elettrica, che pareva<br />

illuminare agli altri i miei torbidi pensieri.<br />

- Ebbene, professore – mi chiese la signora venendomi più vicina e avviluppandomi tutto col suo<br />

profumo – è proprio tanto grave? Non possiamo tentare nulla?<br />

Con una voce, che non mi parve neppure la mia, risposi:<br />

- Sì signora, è grave, se la natura non aiuta…<br />

Ad un tratto il malato ansimando si levò in mezzo al letto e chiamò la moglie.<br />

- Lina, mi sento proprio morire… portami qui la bambina… voglio vederla.<br />

- Oh, Dio, Dio! Fece la signora, e uscì singhiozzando per rientrare subito dopo con la sua piccola in<br />

braccio. Disturbata dal sonno la bimba frignava, stropicciandosi con le manine gli occhi ancora chiusi.<br />

Quando la vide entrare abbiosciata sulle braccia materne, rosea come un fiore tutta avvolta in una<br />

camiciola di batista azzurra spumosa di trine, un senso violento di liberazione parve spalancarmi il<br />

petto. Non resistetti all’orrore dei miei pensieri.<br />

- Allontanate la bimba – dissi in tono perentorio e, portatemi immediatamente una catinella di acqua,<br />

dell’alcool e del cotone idrofilo.<br />

La signora arretrò, stringendosi la bimba sul petto il medico curante incerto, disorientato, mi<br />

domandò:<br />

- Che cosa facciamo, professore?<br />

Io ero tanto turbato che non gli diedi neppure risposta.<br />

- Subito una catinella!<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

Intanto avevo tirato fuori la piccola busta dei ferri chirurgici che portavo sempre con me e, allargatale<br />

sopra il canterano, avevo sfilato dalla guaina di cuoio il bisturi.<br />

- Cosa facciamo, professore? – mi chiese ancora il medico curante sempre più disorientato.<br />

- Facciamo un salasso – risposi. – Presto un catino, con l’acqua.<br />

Il catino venne, mi avvicinai al letto dove il malato, ricaduto sul guanciale, rantolava. Gli presi un<br />

braccio, glielo denudai fino all’omero, lo distesi in modo da far emergere il rilievo delle vene, e<br />

avvicinato il bisturi, ne punsi una.<br />

Un getto di sangue nero, come uno zampillo di una fontana, sprizzò lungo il petto e lo attraversò tutto,<br />

tanto che qualche spruzzo bagnò il pavimento poi attenuatosi l’impeto, il getto inondò il braccio, e in<br />

un attimo arrossò l’acqua del catino. Un po’ spaventato, il malato emise un profondo sospiro e<br />

lentamente, languidamente, chiuse gli occhi.<br />

A poco a poco il cerchio che gli serrava la testa parve allargarsi, il respiro prese un ritmo più calmo e<br />

regolare, e un velo di sudore fresco gli imperlò la fronte. A un tratto aprì gli occhi. Il suo sguardo era<br />

più calmo e regolare, il viso aveva perduto la tinta congestionata e aveva l’espressione di sofferenza<br />

quasi infantile, come quella di un bimbo che esce da una terribile paura.<br />

- Professore – mormorò a un tratto – grazie… Ho l’impressione che lei mi abbia salvato con questo<br />

salasso.<br />

Il medico curante mi guardava stralunato, persuaso ormai di avere sbagliato la diagnosi e si<br />

rannicchiava intorno a me come se volesse dissimulare la propria presenza. Io fasciai in fretta il<br />

braccio del malato, assicurai la signora che ogni pericolo era scomparso, e mi congedai.<br />

Avevo bisogno di essere solo con me stesso, di guardare dentro di me, direi quasi di palparmi, come<br />

chi è caduto da una grande altezza e si meraviglia di essere incolume.<br />

Quando fui fuori dal portone, avvertii sul viso quel fresco particolare dell’aria che precede l’alba. Le<br />

vie intorno al viale laterale che andava verso Monza erano assolutamente deserte. Avevo bisogno di<br />

fuggire gli uomini. Come avanzavo, ogni fruscio mi dava un brivido, mi faceva trasalire. Procedevo<br />

spedito, leggero, col viso contro il vento mattutino e avevo una strana voglia di gridare, di gesticolare,<br />

di abbracciare gli alberi, come la prima volta che ero ritornato da un convegno amoroso. Avevo vinto<br />

il mio demone. Qualche cosa di brutto e di osceno che era in me stato soggiogato, e andavo come se<br />

dovessero crescermi le ali.<br />

Mi trovavo fuori della città, in campagna. Qua e là vedevo delle case coloniche, da cui cominciavano<br />

a levarsi i canti dei galli. Dietro gli alberi il cielo prendeva una tinta di porfido. Da un viottolo sbucò<br />

un carretto tirato da un cavalluccio bastardo. Un fruttivendolo che portava in città delle pesche, me ne<br />

accorsi del profumo quando mi passò vicino.<br />

Mi venne una voglia strana mi mordere qualche cosa di fresco, d’innocente, di comunicarmi con un<br />

puro prodotto della terra, di riconciliarmi con la vita. Fermai il carrettiere e gli chiesi:<br />

- Porti delle pesche? Dammene una.<br />

- Prendete, signore – mi disse quello scoperchiando un cestino – sono fresche come le rose.<br />

Ne afferrai una e mentre gli tendevo una moneta, l’addentai. Il succo dolce e un po’ agretto mi scese<br />

nella gola come un lavacro. Mi si rischiararono i pensieri e il cuore riprese il suo ritmo pieno e sereno.<br />

Ero salvo.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

DA PARTE DEL NUDAR<br />

A tavola normalmente eravamo in quattro, e siccome mettevamo in subbuglio tutto il salone<br />

dell’albergo con la nostra allegria, ci chiamavano la compagnia della Scarampola.<br />

Prima di tutto bisogna che io vi presenti i miei compagni: ne vale la pena. Il presidente perpetuo della<br />

Scarampola era un maggiore di fanteria a riposo: bellissimo uomo, alto, aitante e decorativo come il<br />

portiere di un principe romano. Somigliava un poco all’attore Andrea Maggi buonanima, ed aveva<br />

come lui, una bella voce sonora ed autoritaria, a cui egli sapeva dare delle modulazioni da vecchio e<br />

impenitente amatore. Rimasto scapolo, col fascino della persona e della divisa e con una galante<br />

aggressività da moschettiere egli aveva in tutta la sua vita conosciuto un numero straordinario di<br />

donne di ogni condizione e di ogni paese, di modo che la sua testa era un casellario di ricordi, di fatti,<br />

e di avventure noi stavamo ad ascoltarlo estatici, perché, fra le altre cose, narrava bene, con foga<br />

immaginosa e con un certo gusto letterario, che gli veniva dalla lettura di innumerevoli romanzi.<br />

Magari una buona metà delle sue prodezze amatorie erano inventate ma egli le viveva talmente<br />

narrandole, che noi trovavamo gusto considerarle come vere, e ci tenevamo a farglielo credere. Solo<br />

uno di noi, un certo Segre, professore di scuole medie qualche volta, dopo uno di questi spettacolosi<br />

racconti di seduzione, diceva al maggiore con tutta serietà: "Ecco noi ci crediamo, purché tu non vada<br />

a dire in giro che ci abbiamo creduto". E la cosa finiva in una risata cordiale alla quale il maggiore<br />

prendeva viva parte.<br />

Altro tipo meraviglioso era Segre. Piccolo, mingherlino, secco e giallo come un ficuzzo colpito dallo<br />

scirocco, con una grossa testa, un naso aquilino, era uno degli uomini più arguti e bizzarri che io abbia<br />

conosciuti. In lui pareva si fossero dati convegno, per fondersi, lo spirito di Voltaire e quello di Enrico<br />

Heine. La sua conversazione era irresistibile: egli trovava il lato ridicolo di ogni cosa con una abilità<br />

sorprendente, ed era assolutamente impossibile stare un quarto d’ora con lui senza lasciarsi prendere<br />

dal giuoco di artifizio delle sue freddure, delle sue arguzie taglienti e pittoresche. Era il brillante della<br />

compagnia e lo tenevano prezioso come un impareggiabile dispensatore di buon umore che egli era.<br />

Il terzo non era, nel suo genere, meno interessante degli altri due. Era uno di quei meridionali che<br />

vengono dalla piccola borghesia, si laureano ordinariamente in legge, e poi entrano in un impiego<br />

governativo, mortificando nella malinconia della carriera burocratica i più ambiziosi sogni letterari.<br />

Ne ho conosciuto più d’uno di questi giovani. Ordinariamente sono dei malinconici, timidi con le<br />

donne, nonostante i loro arroventati desideri, scrivono delle poesie, e invecchiano emarginando<br />

pratiche e sospirando alla gloria, una povera gloria di cartone. Vestono con ricercatezza, quando sono<br />

scapoli fanno cena con caffè e latte, vanno di sera nei viali solitari per smaltire un cartoccio di<br />

caldarroste e fanno credere che ci vanno ad un convegno amoroso; e quando escono a passeggio<br />

corrono dietro a tutte le donne che incontrano, come certi cani randagi senza padrone. Il nostro<br />

compagno di tavola, aveva tutte queste qualità ed altre ancora. Era giovane sui trenta anni, portava<br />

una folta barbetta nera e crespa come un cespo d’insalata, vestiva in modo eccentrico, con calzoni<br />

stretti, ghette bianche, gilet fantasia e un tubino color cammello, per il quale il nostro Segre gli aveva<br />

affibbiato il nome di Don Portogallino. Ma la sua specialità, erano le cravatte. Credo ne avesse una<br />

cinquantina tra le più eccentriche e bizzarre del mondo.<br />

Se il maggiore si accendeva e diventava eloquente quando parlava di donne, il nostro Monga, così si<br />

chiamava, si trasformava in un Bossuet quando parlava di cravatte; anzi intorno a questo accessorio<br />

ornamentale aveva costruita una sua propria teoria dell’eleganza. Per lui la cravatta era il solo<br />

indumento che denunziava l’uomo fine. Il buon gusto, la spiritualità, la distinzione di una persona si<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

desumevano esclusivamente dalla sua cravatta. Insomma per lui, la cravatta era tutto. Se il maggiore<br />

era l’eroe e Segre il brillante, Monga era il bersaglio della compagnia. Su di lui Segre aveva coniate le<br />

più straordinarie trappole verbali per farci ridere, e il povero Monga sosteneva il fuoco di fila dei<br />

nostri lazzi, come una palla di gomma sostiene i calci dei ragazzi in un giardino pubblico.<br />

Un giorno Segre disse: - Adesso starete a vedere che cosa gli combino. Eravamo a tavola e si<br />

mangiava, mi ricordo, la fonduta con i tartufi, per festeggiare l’onomastico del maggiore. Segre<br />

portava quella mattina una meravigliosa cravatta blu-elettrico, con dei disegnini fantasia assai<br />

indovinati.<br />

Monga naturalmente se ne accorse subito e domandò: - Dove l’hai comprata?<br />

- A Torino – rispose Segre tranquillo, poi aggiunse: - Senza offenderti, ma una cravatta come questa<br />

non l’hai mai posseduta.<br />

- Questo mi pare un po’ esagerato – disse Monga – in ogni modo è molto bella – e ripeté la domanda:<br />

- Dove l’hai comprata?<br />

- A Torino ti dico!<br />

- Diamine, Torino è grande, in che via, in che negozio?<br />

- Inutile che io ti dica dove – rispose Segre, perché se anche ci vai di queste cravatte non ne trovi<br />

esposte al pubblico.<br />

- Non le faranno mica per portarle in famiglia – fece Monga ridendo.<br />

- No, caro – ribatté Segre, ma le fanno per un gran magazzino di Londra, e in Italia per averne ci vuole<br />

la mano di Dio.<br />

- Insomma tu come l’hai avuta? L’ho avuta perché conosco la padrona.<br />

- E non potresti farla conoscere anche a me?<br />

- Dio mio, potrei – fece Segre allungando il suo labbro inferiore come quello di un asino che abbocca<br />

un cardo, - ma bisogna essere discreti. Se tu non farai parola con altri, io t’insegnerò il segreto per<br />

averne di queste meravigliose cravatte.<br />

- Diamine – fece Monga – è mio interesse non parlarne ad altri. Capirai benissimo, più uomini<br />

eleganti vi sono in giro, più sono i concorrenti alle conquiste femminili.<br />

Segre ebbe un lampo d’arguzia negli occhietti da topo.<br />

- Allora sta bene attento. Il negozio dove si fabbricano queste cravatte è a Torino in via Lagrange n…<br />

Niente di straordinario all’esterno un negozietto modesto, dove si vendono cravatte e guanti. Tu entri<br />

e troverai al banco una commessa piuttosto appassita. Le dici che vuoi comperare una cravatta e poi,<br />

molto discretamente, in modo confidenziale, aggiungerai: Mi vegni da parte del Nudar. Vedrai che<br />

quella immediatamente ti farà passare nel retrobottega, dove troverai la padrona, che ti tratterà con<br />

molta cortesia.<br />

- E che significa quest’affare del Nudar? – chiese Monga.<br />

- A quante cose vuoi sapere! – fece Segre irritato. Fa come ti dico io, e vedrai che ti troverai<br />

contento…<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

Il nostro Monga attese il sabato, e nel pomeriggio partì per Torino alla ricerca delle cravatte<br />

meravigliose. Appena scese in città comprò delle sigarette uso egiziano, seguì per via Roma una bella<br />

sartina, poi per via Arcivescovado scese in via Lagrange, e si presentò al negozietto indicatogli dal<br />

Segre. Era proprio una vetrinetta modesta, dipinta in noce scura, con degli scaffali coperti di carta in<br />

cui erano esposte delle scatole di cartone bianco piene di cravatte, di bretelle, di guanti e di altri<br />

oggetti di abbigliamento maschile. Le cravatte erano sbiadite, e tutto aveva un aspetto vecchio e<br />

polveroso. Monga entrò a malincuore. Il negozio era deserto e una commessa, magra, alta, brutta, ma<br />

molto dipinta guardava verso i possibili avventori con gli occhi e il portamento aggressivo di una<br />

mantide religiosa che vada alla caccia.<br />

Appena vide entrare Monga la commessa si alzò in piedi e con un sorriso ammaestrato domandò: - Il<br />

signore desidera?<br />

- Vorrei comperare delle cravatte – fece Monga – e poiché quella con sveltezza sorprendente, aveva<br />

tratte giù da uno scaffale quattro o cinque scatole e le aveva scoperchiate, aggiunse chinandosi<br />

discretamente sul banco e in tono tutto confidenziale: - Sa… mi vegni da parte del Nudar.<br />

Ah!… - fece, con un sorrisetto significativo la commessa – allora aspetti un minuto, avverto la<br />

Signora.<br />

Scostò una tendina, entrò nel retrobottega, e dopo un minuto uscì fuori con l’aria di chi porta una<br />

buona notizia.<br />

- S’accomodi, signore – e lo fece entrare.<br />

Dietro la tenda era un piccolo corridoio scuro e poi una stanza piena di scaffali di legno e di scatole di<br />

cartone. Siccome era senza luce, quella stanza era illuminata da un modesto lampadario di cristallo,<br />

come quelli che si vedono in certe chiese di paese. In terra era disteso un tappeto e ai margini del<br />

tappeto, addossato al muro, un divano e due poltroncine di velluto rosso.<br />

Ritta davanti al divano era una donna sui cinquant’anni con un’enorme cresta di capelli biondi che<br />

diventavano grigi, un petto monumentale stretto in un busto a stecche, che le dava l’aria di un salame<br />

ben confezionato, ed una faccia larga apoplettica, rossa come un mattone, su cui brillavano due occhi<br />

avidi e accesi. La donna col più invitante dei sorrisi porse al nuovo venuto una mano piccola, grassa,<br />

viscida, come un cotechino, e lo invitò a sedere.<br />

S’accomodi signore, sono felicissima di fare la sua conoscenza. Intanto lo guardava avidamente.<br />

Monga sconcertato si sedette sopra una delle poltroncine e non sapeva capacitarsi del perché di quella<br />

accoglienza straordinaria e alquanto strana.<br />

- Mi hanno detto che lei vende delle cravatte molto belle – disse Monga – e vorrei comprarne<br />

qualcuna.<br />

La donna lo fissò un poco incerta, poi disse: - Quand’è che l’ha visto il signor notaio?<br />

Monga rimase male. E chi ne sa niente del notaio, disse tra sé. Poi rispondendo così a casaccio: - Ah,<br />

l’ho visto oggi, stamattina.<br />

- Di dov’è lei? – chiese ancora la donna e gli si avvicinò con una mossa ardita e confidenziale.<br />

Sono napoletano – rispose Monga – di un paese della provincia di Salerno.<br />

Simpatici i napoletani – disse la donna – e dove abita ora?<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

In provincia, sono segretario di amministrazione in una casa penale, a Fezzano.<br />

- È un buon impiego, sicuro – disse la donna. Io come vede ho questo negozietto modesto, ma ho<br />

anche alcune migliaia di lire alla banca, ed ho la casa completamente arredata. Non mi manca niente.<br />

E lo fissava eloquentemente negli occhi. Monga cominciava a sentirsi a disagio. Non capiva dove<br />

volessero andare a parare quegli strani discorsi… Soprattutto gli occhi di quella donna gli mettevano<br />

in corpo una specie di terrore.<br />

- Scusi signora, - disse seccato, io sono venuto per comprare delle cravatte, vuole farmene vedere<br />

qualcuna?<br />

La donna aggrottò le ciglia un po’ delusa, ma poi riprese il suo atteggiamento mellifluo: - Ma scusi<br />

disse… lei non viene fa parte del Nudar?<br />

Va bene – rispose Monga impacciato – ma vorrei comprare delle cravatte.<br />

Adesso gliene faccio vedere – disse la donna quasi mortificata. Si avviò ad uno scaffale, prese una<br />

grossa scatola e la depose sul divano accanto alla poltroncina dov’era seduto Monga. La scoperchiò e<br />

sciorinò cravatte di seta.<br />

Non erano brutte, ma neppure eccessivamente belle. In ogni modo, Monga, tanto per tagliar corto, e<br />

mandando una dozzina di accidenti a quel diavolo di Segre, ne prese una e disse: - Quanto costa?<br />

Le piace? – fece la donna tutta accesa nel suo faccione rosso, - mi permetta di regalargliela; e,<br />

allungando una mano fece l’atto d’accarezzarlo.<br />

Monga ebbe l’impressione come se un elefante lo avesse accarezzato con la sua proboscide. Fece un<br />

salto indietro, e si buttò verso il corridoio. La donna gli corse dietro ansando: - Scusi, signore, senta…<br />

lei non viene da parte del Nudar?<br />

E raggiuntolo al principio del corridoio lo afferrò per un lembo della giacca.<br />

Ma che Nudar d’Egitto! – borbottava Monga spaventato, mentre a tentoni cercava la via. Quando<br />

giunse alla tenda l’aprì, cacciò fuori la testa spiritata, e superato il banco d’un salto, fu nella strada.<br />

Mentre usciva a precipizio udì la commessa domandare smarrita alla padrona:<br />

- Dio mio, signora, cos’è successo? Chi era?… E la donna apoplettica rispondere: Ma!… uno stupido.<br />

Mi è impossibile descrivervi la faccia di Monga quando ritornò la sera da noi. Era verde e rimuginava<br />

contro il piccolo terribile Segre i più radicali propositi di vendetta. Voleva ucciderlo, sfidarlo a duello<br />

e tante altre cose ancora. Il maggiore rideva fino alle lacrime, io ero scivolato sotto il tavolo, Segre<br />

taceva.<br />

A duello sono pronto a battermi, disse questi infine con una mimica irresistibile, - ma l’arma la scelgo<br />

io. Ebbene, ci battiamo con una mascella d’asino: così l’ammazzerò con l’osso di un suo antenato.<br />

<strong>LA</strong> SIGNORINA PANEL<strong>LA</strong><br />

Molti anni fa, ahimè! più di trenta, in una mattina dei primi di luglio, col mio vocabolario sotto il<br />

braccio, pochi fogli di protocollo ed una asticciola col pennino nuovo, mi presentavo all’esame di<br />

licenza ginnasiale.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

Quando giunsi davanti al severo edificio del liceo Campanella a Reggio Calabria, vi trovai<br />

un’animazione insolitamente rumorosa: una quarantina di miei compagni esaminandi si erano raccolti<br />

attorno a un candidato, che per diverse ragioni aveva attratta la loro curiosità. Era un seminarista alto<br />

e forte e roseo, proprio un bel ragazzone, con una sottana azzurra dai bottoni rossi, un largo mantello a<br />

ruota ed un cappello di pelo così bel ravviato, che luccicava come l’ala di un corvo. Ma quello che<br />

soprattutto aveva dato la stura alle risa ed ai motteggi arguti dei miei compagni era un enorme<br />

vocabolario, che il seminarista si portava trionfalmente sotto il braccio, come per spaventare l’esame e<br />

gli esaminatori.<br />

Il seminarista rosso, in volto, un po’ impacciato, si guardava intorno e rispondeva con monosillabi ai<br />

motteggi che gli fioccavano addosso da ogni parte. La gazzarra fu tale che il giorno dopo quel povero<br />

figliolo pensò bene di smettere l’abito talare e si presentò vestito in borghese. Non l’avesse mai fatto!<br />

A vederlo apparire sulla piazzetta davanti al ginnasio, con un vestito marrone tagliato alla brava, una<br />

svolazzante cravatta nera, e un largo cappello da rivoluzionario, sollevammo un tale clamore di<br />

motteggi e di risa, che se non fosse intervenuta immediatamente la campana, che ci chiamava alla<br />

prova di latino, la gazzarra sarebbe andata a finire in un pugilato.<br />

Quando fummo nell’aula il seminarista me lo trovai seduto vicino; e poiché l’orgasmo dell’esame<br />

imminente mi aveva tolta la voglia di scherzare, gli domandai: - Sei ben preparato?<br />

- Abbastanza – mi rispose.<br />

E lo era di fatti: almeno più di me che un po’ per paura, un po’ per un vecchio fatto personale che<br />

avevo sempre avuto con la lingua di Cicerone, copiando sotto dettatura un brano di Quinto Curzio,<br />

invece di "penuria" mi accingevo a scrivere "pecunia aquarum". Poi ci facemmo delle confidenze.<br />

Seppi così che si chiamava Palumbo, che non aveva altri al mondo che uno zio che lo amava<br />

svisceratamente, e che si proponeva, dopo l’esame, di fargli smettere l’abito talare e mandarlo a<br />

proseguire gli studi fino all’Università di medicina. Almeno questi erano i propositi di suo zio,<br />

poveretto!<br />

L’esame andò bene, fummo promossi ambedue e ci ritrovammo coi primi di ottobre al liceo.<br />

Palumbo era diventato più disinvolto, più snodato e chiassoso, e del seminarista non gli rimanevano<br />

che le cravatte, certe grosse cravatte inverosimili, tutte a ramaglie e fiori vistosi, che sembravano<br />

ricavate da un vecchio piviale. Aveva diciotto anni, era sano e forte come un torello e voleva<br />

vendicarsi delle mortificazioni e delle privazioni subite in tanti anni di seminario: voleva divertirsi.<br />

Naturalmente divertirsi a quell’età significa soprattutto avvicinare delle donne; e quello era il tema<br />

principale dei suoi discorsi.<br />

Il mio amico Palumbo pensò che per avvicinare delle donne bisognava frequentare delle feste, e per<br />

frequentare delle feste bisognava prima di tutto saper ballare, perciò si fece presentare ad un maestro<br />

di ballo, un suonatore di bombardino, che dirigeva una banda rionale, insegnava all’orfanotrofio,<br />

suonava l’organo nella chiesa del Carmine, e per utilizzare le ore serali e guadagnare ancora qualche<br />

scudo, teneva nella sua casa una specie di sala da ballo per studenti, dove con cinque lire s’imparava<br />

perfino la quadriglia.<br />

Ma la vera attrattiva di quella sala da ballo era costituita da una figlia del maestro, una lucertolina<br />

magra, secca e nera come un baccello di veccia che faceva da ballerina per tutti i frequentatori.<br />

Non aveva di bello che due occhi neri come il pepe che sembravano due candele accese su una faccia<br />

magra e sottile, sparsa qua e là di qualche piccolino quanto un grano di sabbia; ma era vivacissima,<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

parlava vertiginosamente, si muoveva tutta, e quando ballava quel suo corpicciolo esile e snodato<br />

acquistava la grazia e la leggerezza di un uccello. Si chiamava Concettina, ma gli studenti la<br />

chiamavano Nerina, anzi suo padre la chiamava il merlo, per via delle gambette esili e sempre calzate<br />

di nero.<br />

Entrare in quella sala da ballo, vedere la signorina Panella (così si chiamava il maestro) ed<br />

innamorarsene a fuoco, fu per il mio amico Palumbo tutt’uno. Pensate! Avvicinare una donna, tenerla<br />

fra le braccia, muoversi con lei in ritmo di danza! Ma queste erano le ardenti fantasie del seminario,<br />

che salivano in cielo coi canti del mese mariano, i sogni deliziosi della prima pubertà, o una realtà<br />

vivente?<br />

Insomma i due ragazzi finirono con l’intendersela a dovere, e quando potevano nella sala, attraverso<br />

le porte, su per la scala, si davano dei baci che sembravano morsi. Ma era così poco! I contatti erano<br />

così brevi e spauriti, che lasciavano un desiderio più ardente e divorante di prima. Come fare per<br />

trovarsi insieme una mezz’ora soli, senza fretta, per potersi dire qualche parolina di più, stringersi<br />

forte a lungo? Sarebbe stato così bello e perché no? Anche innocente. Non vi è nulla di più innocente<br />

che l’amore.<br />

Un giorno il mio amico Palumbo, tra un giro di valzer e una quadriglia, lasciò scivolar nella mano<br />

ardente della signorina Panella un bigliettino, nel quale le esprimeva questo acceso desiderio. Il giorno<br />

dopo Nerina gli consegnò nelle stesse condizioni un altro biglietto su cui erano scritte queste terribili<br />

parole: "Cuore mio, non è possibile!…".<br />

Palumbo più che mai inebriato da quel "cuore mio", tornò alla carica e finalmente venne fissato un<br />

convegno strabiliante.<br />

L’ultimo bigliettino della signorina Panella diceva: "Ti attendo domenica (era venerdì) a mezzanotte,<br />

nella mia stanza. Per salire darai cinque lire a Zumbo, quello che accende i lampioni, perché lasci la<br />

scala nel cortile. Ti bacio. Nerina".<br />

La signorina Panella, con quella adorabile preveggenza che hanno le donne, aveva pensato a tutto.<br />

Palumbo si stropicciò un po’ gli occhi leggendo quel biglietto, perché in un primo tempo credette di<br />

non aver compreso bene. Poi si precipitò per il corso in cerca di Zumbo.<br />

Zumbo era un povero diavolo d’età indefinita che il giorno vendeva giornali, e la sera trottava per le<br />

strade, con in collo una scala per accendere i lampioni a gas della città. Lo incontrò con un mazzo di<br />

copie del "Mattino" che gridava come un energumeno: "U Mattino… u Mattino… un articolo di<br />

Tartarin".<br />

Zumbo era un bravo ragazzo anche lui che conosceva il mondo e non si fece pregare a lungo. Fece<br />

aggiungere un altro scudo a quello che gli era stato offerto e lasciò la scala nel cortile.<br />

Il mio amico Palumbo attese la mezzanotte di domenica, come una giovane sposa attende la prima<br />

notte nuziale.<br />

Si recò al concerto della musica cittadina ai giardini pubblici, poi scese in via Marina e mangiò, così,<br />

tanto per fare qualche cosa, due dozzine di fichi d’india, una fetta d’anguria e dello zibibbo: poi si<br />

mise a passeggiare sopra una di quelle soggette che davano sul mare, sospirando, recitando versi e<br />

spiando di quando in quando il cielo, come fosse stato un quadrante d’orologio. – Oh, Dio degli<br />

innamorati, la mezzanotte, fate suonare la mezzanotte!<br />

Finalmente anche la mezzanotte scoccò dall’orologio del duomo, aggrondata, solenne, come il grido<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

di un muezzino misterioso, il muezzino dell’azzurro.<br />

Il mio amico Palumbo si premette una mano sul cuore, sospirò, si scompigliò i capelli, e come l’eroe<br />

di un antico poema d’amore s’avviò anelante verso il desiderato convegno.<br />

La via era deserta. Là dove essa sboccava in corso Garibaldi due uomini stavano ritti e fumavano,<br />

rivolgendo la schiena alla marina.<br />

Qualche carrozzella lontana rotolava pel lastricato con un rombo che pareva venisse da sotto terra.<br />

Il mio amico Palumbo col cuore in gola, leggero come un gatto, felice come un Dio, entrò nel cortile<br />

al N… diede una occhiata intorno, e poi fissò il balcone della signorina Panella.<br />

Santa Vergine!… Il balcone era socchiuso. Una pianta di cedronella entro un gran vaso a coppa,<br />

sembrava una piccola graziosa vedetta davanti all’uscio del paradiso.<br />

Forse Nerina era dietro le lastre che attendeva, palpitante anche lei come un uccellino.<br />

Con le mani tremanti afferrò la scala che stava addossata ad un angolo del cortile, la sollevò e, con<br />

precauzione, l’appoggiò al poggiolo. Origliò, si guardò intorno, nessun rumore! La notte era<br />

melodiosa come una musica. Posò il piede sul primo scalino, esitando tanto era l’orgasmo, e si accinse<br />

a salire.<br />

Aveva già raggiunta la ringhiera del balcone, ed un’onda di profumo gli era venuta dalla cedronella,<br />

come una prima carezza, quando udì nel cortile un doppio passo affrettato, e subito dopo una voce:<br />

- Ohè! Voi… dove andate?…<br />

Si voltò spaventato. Due uomini erano ai piedi della scala.<br />

- Dove andate, voi?… gl’intimò ancora uno di essi.<br />

Il mio amico Palumbo ebbe un impeto di collera terribile.<br />

- Ma lei cosa vuole, chi è lei?…<br />

- Te lo do io chi sono, pezzo di ladruncolo, - fece l’uomo più risoluto che mai, scendi giù…<br />

Palumbo, a sentirsi dare del ladro, si rinfrancò alquanto.<br />

Meno male!, disse fra sé, non hanno capito la ragione della mia scalata notturna.<br />

- Prego… prego, disse, moderate le parole. Io non sono un ladro. Ma voi chi siete?<br />

- Agenti della forza pubblica.<br />

- Ah! Scusate… vi siete sbagliati… io non sono un ladro: sono uno studente. Qua ci sono i documenti.<br />

E si mise, con una certa spavalderia, a cercare nelle tasche, dove non aveva che qualche lettera dello<br />

zio col proprio indirizzo.<br />

- Storie – disse il questurino dopo avere preso in mano distrattamente le lettere di Palumbo – ditemi<br />

piuttosto cosa andavate a fare a quest’ora su per quella scala?<br />

- Ma veramente… andavo… andavo a trovare un amico.<br />

- Mi avete preso per un imbecille?, urlò il questurino afferrandolo per il braccio e scuotendolo con<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

violenza… Via, via, seguiteci in Questura.<br />

Quando il mio amico Palumbo giunse in questura, era più morto che vivo, e davanti al Commissario<br />

scoppiò in un pianto disperato e rabbioso insieme, che lo faceva sussultare come una caldaia in<br />

ebollizione.<br />

Il Commissario un uomo sui quarant’anni, bruno, con due baffi in aria come quelli di un vecchio<br />

sergente di cavalleria, ed una voce cavernosa, sebbene avesse capito di che cosa si trattasse, lo investì<br />

con un cipiglio terribile.<br />

- Vergogna! Alla vostra età, rubare! Scalare di notte i balconi.<br />

- Ma signor Commissario, - faceva Palumbo piangendo come un vitello, a mani giunte – non andavo a<br />

rubare.<br />

- Che cosa andavate a fare allora in quella casa, a quell’ora salendo per un balcone, con un mezzo<br />

appositamente predisposto?<br />

- Ah, signor Commissario… non posso dirvelo… sull’onor vostro… Voi siete cavaliere… e…<br />

capirete… in certe condizioni.<br />

- Avete dei complici forse?<br />

- No, signor Commissario, non ho nessun complice… ma non posso parlare… non mi torturate… voi<br />

siete cavaliere.<br />

- E dagli con la cavalleria… - fece il Commissario con una gran voglia di ridere in corpo. Se voi non<br />

mi dite immediatamente quello che andavate a fare su per quella scala, di notte… con un mezzo<br />

appositamente predisposto, io vi denunzio per tentativo di furto… e poi direte al magistrato<br />

pubblicamente quello che non volete dire a me.<br />

All’idea di un processo e di una pubblica confessione della sua avventura notturna, Palumbo diventò<br />

bianco come un pagliaccio da circo equestre e tra pianti e reticenze e giuramenti, confessò tutto.<br />

Ma quando ebbe rivelato il nome della signorina Panella, si alzò in piedi di scatto, e con l’aria di un<br />

creditore intimò al Commissario: - Giurate… giurate che non rivelerete questo nome a nessuno.<br />

Il Commissario, sganasciandosi dalle risa, rassicurò il povero mio amico sulla sua assoluta discrezione<br />

e lo mandò a casa.<br />

L’indomani, non si sa come, tutta la città conosceva l’avventura del seminarista, compreso il maestro<br />

di bombardino.<br />

Il povero Palumbo, pieno di tragiche risoluzioni, si presentò in casa Panella, e fu ricevuto da Nerina in<br />

lacrime.<br />

- Ah! che sventura, mio adorato, siamo perduti, mio padre sa tutto…<br />

- Sa tutto?, fece Palumbo come uno stralunato, e allora?<br />

- Allora non c’è che una risoluzione da prendere.<br />

- Quale? – domandò ancora il mio amico…<br />

- Fuggire – rispose la Nerina con una calma tragica e accorata, e lo fissava coi suoi occhietti neri, che<br />

sembravano quelli di una serpe.<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

- Fuggire?… e dove?… chiese ancora smarrito Palumbo.<br />

Dove tu vuoi, caro, tanto ormai non ci resta che sposarci.<br />

Già, hai ragione… fece Palumbo vibrandosi un pugno sulla testa, quasi adirato contro se stesso per<br />

non aver avuto quella felice idea.<br />

Un’ora dopo i due ragazzi erano sul treno, e poi erano soli in uno scompartimento di terza, si<br />

abbracciavano finalmente senza soggezione, smarriti come fuori dal mondo, tutti presi da<br />

quell’ebbrezza dei venti anni ch’è una delle più divine cose della vita.<br />

La zia Francesca<br />

La straniera<br />

Il primo amore<br />

Previtellu<br />

Una notte d’amore<br />

La raganella di San Pasquale<br />

La Pasqua di Veccia<br />

Una notte d’amore<br />

Donna Maruzza<br />

Esci, sole a riscaldarci<br />

Mangia e passa<br />

Il giogo<br />

La maestrina di campagna<br />

Idillio muto - Terza C<br />

Odilia – fanciulla nordica<br />

Le due madri<br />

Il Chichibio calabrese<br />

Nino Martino<br />

Primavera in montagna<br />

Zia Chiarina<br />

INDICE<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

Assoluzione<br />

Notte in alta montagna<br />

Il diavolo delle Dolomiti<br />

L’amico lontano<br />

Mio zio barone<br />

Ghitinetta<br />

Piccola madre<br />

Kostia non risponde (Resistenza)<br />

Lotta col demone<br />

Da parte del Nudar<br />

La signorina Panella<br />

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

I racconti riuniti in questo volume sono apparsi su quotidiani e periodici.<br />

Di alcuni racconti non abbiamo potuto dare notizie complete perché mancanti<br />

nei fogli sgualciti da cui li abbiamo recuperati.<br />

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