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LA ZIA FRANCESCA

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

del povero conte Manci, durante la prima guerra mondiale fu condannato al capestro e si salvò con<br />

una fuga rocambolesca, ma questo non lo salvò dalla persecuzione del fascismo, che lo ebbe sempre<br />

irriducibile nemico.<br />

Tita, come tutti gli uomini d’azione, parlava poco delle sue vicende politiche, ma qualche volta, tra<br />

amici di cui si fidava, faceva qualche confessione.<br />

Quell’anno che fui a Pozza, una sera ch’era insolitamente di buon umore, in un gruppo di intimi narrò<br />

l’ultima, per allora, delle sue disavventure. Per il matrimonio della principessa Maria José egli era<br />

sceso a Trento, con l’intenzione di recarsi a Roma a salutare la futura regina, che aveva conosciuta<br />

bambina alla reggia di Bruxelles. Fu invece arrestato e chiuso in prigione. Allora pensò di scrivere alla<br />

principessa esclusivamente per comunicarle l’impedimento che gli aveva tolto il piacere di riverirla in<br />

terra italiana. Dopo qualche giorno venne scarcerato e a Perra gli giunse una fotografia con questa<br />

dedica: "A Tita Piaz, la seconda vittima del mio matrimonio".<br />

- Perché – gli chiesi io – la prima vittima chi era?<br />

Tita sorrise scontroso:<br />

- La prima vittima era stata lei, povera figlia.<br />

Caro, indimenticabile Tita. Egli amava i cimiteri! La sua anima ardente socialista si riposava nei<br />

luoghi dove tutti si diventa eguali. E nel cimitero della sua piccola Perra avrà riposo.<br />

PRIMAVERA IN MONTAGNA<br />

Da lungo tempo non assistevo al ritorno della primavera dimorando in campagna; quest’anno che vi<br />

assisto, dalla quiete un po’ freddolosa di una valle alpina, mi accorgo che avevo smarrito quasi<br />

interamente il senso sacro di questo ritorno.<br />

Noi, gente di città, a furia di vederci attorno la foresta di pietra dei grandi palazzi, le strade asfaltate,<br />

le piazze di marmo, le chiese, i monumenti e le ciminiere; circondati e quasi prigionieri come siamo<br />

delle opere composite dell’uomo, destinate non tanto alla soddisfazione dei suoi bisogni naturali,<br />

quanto alle esigenze di una vita complessa, arbitraria e artificiosa, finiamo col perdere il senso del<br />

lavoro spontaneo della natura, e quindi anche il senso religioso che regola il ritmo delle stagioni.<br />

Quasi si direbbe che ci accorgiamo del ritorno della primavera, più per quello che muta nelle nostri<br />

abitudini quotidiane, che per quello che si rinnova nell’aspetto delle cose. Per noi la primavera<br />

significa spegnere i termosifoni, cambiare i vestiti, ai colori gravi e alle lane pesanti sostituire colori<br />

più chiari e abiti leggeri, usare cravatte più gaie.<br />

In casa si riaprono i balconi, si ritorna in giacchetta sulle terrazze, si rimettono all’aperto i vasi di fiori<br />

e delle piante ornamentali; la grasta con l’alberello di limone e di oleandro, l’odorosa cedrina e la<br />

salvia, la violaciocca col suo velluto monacale e i gerani fiammeggianti, che pare debbano accendere<br />

l’aria coi loro colori di fuoco…<br />

Ma anche questa natura sana e addomesticata, le piante e i fiori che coltiviamo sui balconi, a vederli<br />

così soli e timidi nella terra esule dei vasi, perdono quasi il loro carattere vegetale, la loro immemore<br />

innocenza, per assumere un significato di simboli, di personificazioni magiche e demoniache di quelle<br />

aspirazioni celebrali alla gioia, alla bellezza e al mistero, che in noi sostituiscono i bisogni spontanei<br />

dell’anima.<br />

file:///C|/WINDOWS/Desktop/STORIE HTML colorato 418.htm (46 di 114) [03/09/2002 19.26.01]

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