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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />
Più di una volta ella aveva sentito dire che colui il quale commette un simile peccato, quando giunge<br />
all’agonia non può morire, se prima non gli pongono un giogo sotto il collo.<br />
Con un brivido di terrore fissò il padre. Ecco, il vecchio peccatore legato alla vita dal suo peccato<br />
come da un maleficio, che ansimava lottando con l’angelo della morte, e credeva ancora di arare.<br />
Bisognava liberarlo.<br />
Si alzò, entrò nella casa attigua all’aia e, dopo qualche minuto, venne fuori portando sulle braccia un<br />
giogo. Era di legno di olmo e il lungo uso, specie nelle incavature, dove esso poggiava sul collo dei<br />
buoi, lo aveva reso liscio e lucente come l’osso. Si avvicinò al moribondo e con un brivido gli sollevò<br />
la testa, mentre col ginocchio gli spingeva il giogo tra il collo e le spalle.<br />
Il vecchio aprì gli occhi e fissò la figlia con una specie di spavento.<br />
Sotto il riverbero intenso della luce la vedeva appena come un’ombra, una lunga ombra bianca<br />
indistinta e sinistra. Nel suo delirio quella era la morte. Eccola ch’era giunta, la sua nuova padrona.<br />
Gli si avvicinava e lo legava all’aratro.<br />
Con un sospiro angoscioso il vecchio, si mise a brancicare, cercando con la mano, l’arnese sacro sotto<br />
il collo. Era proprio così. Ecco l’anello, il chiovolo, ecco i fori per le giuntoie e finalmente il liscio<br />
dell’accollatura, su cui avrebbe posato il suo povero collo in eterno.<br />
Oh la pianura immensa, desolata che aveva davanti, e come squillavano le silique sotto il vento della<br />
morte! Egli doveva ora arare quella pianura, sotto quel cielo grigio, e il suo lavoro sarebbe durato per<br />
l’eternità.<br />
- Oh Massà!… Oh Livanè!…<br />
I buoi non c’erano ed era lui che doveva tirare l’aratro.<br />
In nome di Dio, avanti.<br />
Ebbe come un singulto, strinse i pollici nei pugni ed emise un sospiro lungo, profondo dietro cui parve<br />
distaccarsi l’anima. Poi il suo volto assunse una espressione di pianto, la espressione d’un bimbo<br />
battuto, e rimase immobile sulla paglia, lucente come un letto d’oro.<br />
IL PRIMO AMORE<br />
Non la rivedevo da oltre vent’anni, e di lei mi rimaneva, nelle più remote regioni della memoria, un<br />
ricordo squisito e tenero, come di un suono di flauto, udito di notte, durante un’ora di meditazione<br />
amorosa. Il ricordo di tutte le donne che io ho amate, è legato in me ad un motivo musicale. Il suo, che<br />
era il primo, mi ritornava sempre col vecchio motivo di una canzone napoletana, udita quando ero<br />
ragazzo, accanto a lei, mentre sul terrazzino ammiravamo i fuochi d’artifizio, che chiudevano una<br />
rumorosa festa al nostro paese. Si chiamava Clotilde. Io avevo allora sedici anni ed ella due mesi più<br />
di me; eravamo cugini e si può dire che eravamo cresciuti insieme.<br />
Il nostro amore era nato come un seme sull’angolo di una via campestre ed era stato una cosa così<br />
spirituale ed innocente che, se non fosse stato il primo per me e per lei, non l’avremmo neppure<br />
registrato nel libro della memoria. Era nato col primo crepuscolo dei sensi, in quel divino e pericoloso<br />
momento della pubertà, durante il quale nel ragazzo improvvisamente si desta l’uomo, e noi ci<br />
eravamo innamorati, l’uno dell’altra, senza dirci nulla, comunicandoci con gli sguardi soltanto il<br />
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