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LA ZIA FRANCESCA

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

L’editore Monanni, che aveva preso alloggio nel suo albergo di Perra, venne a trovarmi a Pozza di<br />

Fassa, dove mi trovavo in vacanza e mi disse che aveva parlato di me al Piaz e che questi aveva<br />

espresso il desiderio di conoscermi.<br />

- Verrò io da lui – dissi al Monanni – perché vorrei pregarlo di un favore. Ho il mio ragazzo maggiore<br />

che fa il pazzo per andare sulle Torri del Vaiolet: vorrei pregarlo di prenderlo con sé alla prima<br />

occasione.<br />

Vi andai di fatti la mattina dopo, non essendo Perra che una frazione di Pozza. Lo spiazzo davanti<br />

all’albergo era deserto; le otto o dieci sedie a sdraio, che vi erano aperte, erano vuote meno una, sulla<br />

quale stava sdraiato un uomo tarchiato, d’un color fulvo anche nelle brache di grosso fustagno e nei<br />

peduli di stoffa e corda. Tutto sbarbato, la grossa testa grigia dai capelli corti, la pelle di una tinta<br />

vigorosa ma arida, quasi calcinata, sembrava dormisse.<br />

A un tratto venne fuori dall’albergo una magnifica ragazza tirolese, si avvicinò al dormente, l’osservò<br />

un istante, poi afferrato con ambo le mani il piuolo di testa della sedia, gli puntò un piede nel centro<br />

della schiena e d’un colpo lo sbalzò fuori come da una catapulta. Quell’uomo era Tita Piaz, e solo una<br />

donna poteva permettersi quegli scherzi con lui, che non usava cerimonie neppure coi suoi regali<br />

clienti.<br />

Quella florida Valchiria, che come appresi dopo era la sua cameriera e un po’ anche la sua segretaria,<br />

era stata abituata da lui a quelle ruvidezze, perché Tita sopportava più facilmente una sgarberia che<br />

non una sdolcinatura.<br />

Quando mi presentai, ridendo per la maniera spiccia con cui la giovane tirolese lo aveva destato,<br />

prima si aggrondò, poi, ascoltata che ebbe la mia preghiera di portare con sé sul Vaiolet mio figlio alla<br />

prima occasione, si rasserenò.<br />

- Niente occasioni – mi disse col suo fare scontroso – mandamelo qui domattina all’alba; faremo le<br />

Torri io, lui e il mio ragazzo.<br />

La sera dopo mio figlio tornò dall’ascensione difficilissima felice ma sbalordito.<br />

- Papà – mi disse – quell’uomo è veramente un diavolo. Ci cacciò su, me e suo figlio, più con gli<br />

occhi che con le mani, poi ci piantò in cima e solo, senza corde, balzando e scivolando leggero come<br />

l’acqua di una cascata, scomparve giù per la parete, con un: fate da voi, macachi! Io, a vederlo<br />

scendere con quella rapidità, mi sentivo arricciare i capelli.<br />

Seppi poi da lui, in gran segreto, che aveva fatto quello, perché si era accorto che i due ragazzi<br />

andavano bene. Fu così che conobbi Tita Piaz e fu allora che mi parlò di un suo volume di memorie a<br />

cui stava lavorando e che apparve solo nel 1947 per i tipi del Cappelli di Bologna: "Mezzo secolo<br />

d’alpinismo".<br />

Tita Piaz non era un rozzo montanaro, ma aveva frequentato le scuole magistrali di Bolzano in qualità<br />

di "Bettel-student" (studente povero, a lettera mendicante) da dove fu scacciato a diciannove anni per<br />

la vivacità eccessiva del suo carattere e perché non aveva ottemperato all’obbligo della confessione<br />

pasquale. Aveva una cultura farraginosa, caotica, fatta attraverso le più disparate letture, e aveva<br />

portato nell’alpinismo un qualche cosa di intellettualistico, di generoso e di religiosamente<br />

consapevole, che non è facile trovare nelle guide comuni. Per lui la montagna era una liberazione, un<br />

luogo immensamente aperto dove egli scaricava la tensione estrema del suo carattere un po’ strano,<br />

dove la forte e quasi eroica bontà dell’anima faceva a pugni con un senso di ribellione permanente<br />

contro tutti i legami, tutte le imposizioni e tutte le tirannidi. Amico devotissimo di Cesare Battisti e<br />

file:///C|/WINDOWS/Desktop/STORIE HTML colorato 418.htm (45 di 114) [03/09/2002 19.26.01]

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