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LA ZIA FRANCESCA

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<strong>LA</strong> <strong>ZIA</strong> <strong>FRANCESCA</strong><br />

corrente di tutto.<br />

Alla lettera per addolcire mio padre, e per dimostrare loro che guadagnavo avevo unito un assegno di<br />

500 lire. Mia madre mi rispose rapidamente restituendomi il denaro e scongiurandomi di ritornare a<br />

casa. Le mie avventure e anche la mia fuga, in una grande città come Torino, non potevano essere<br />

note che a poche persone. Mio padre, dopo la mia partenza, aveva disposto di lasciare la portineria e<br />

aveva già cambiato casa. Io avrei aiutato a lavorare, e con un po’ di buona condotta, così carina<br />

com’ero, mi sarei sposata. Essi mi aspettavano a braccia aperte e mi avevano già perdonata.<br />

Questa lettera mi strinse il cuore, ma siccome in quel tempo io avevo di denari, e Roma era così bella,<br />

non produsse il suo effetto. Continuai a gironzolare, a divertirmi e a spendere fino a che mi trovai da lì<br />

a due mesi senza un soldo e con molte delusioni.<br />

L’ambiente del teatro era impenetrabile, e soprattutto mancava di quello che era il principale obietto<br />

della mia vaghezza: la gioia spensierata, la spontaneità, il sorriso del peccato. Vi regnava l’intrigo, il<br />

vizio abbietto e la rapacità. Vedi il denaro io non l’ho mai contato. È la cosa più necessaria ma anche<br />

la più ignobile della terra, ed io lo disprezzo. In quanto al vizio non lo conosco; amo per un bisogno<br />

naturale, come? Come respiro, come mangio e sempre senza malizia e venalità. Rimasi così tre o<br />

quattro mesi ancora a zonzo, un po’ divertendomi fino al delirio, un po’ stentando; sempre allegra<br />

però con la speranza di arrivare presto ad una ipotetica felicità che non sapevo rappresentarmi in<br />

concreto.<br />

Una lettera di mia madre, pervenutami in un momento particolarmente difficile, mi indusse a ritornare<br />

in famiglia. Fui accolta con gioia e con indulgenza. Mio padre, poveretto, non mi disse una parola sul<br />

mio passato m’indicò il mio posto di lavoro vicino a lui e si rimise ad agucchiare. L’appartamentino<br />

che abitavano allora i miei era al quarto piano di una grande casa in via Madama Cristina, a qualche<br />

passo del corso Valentino. Dal balcone di casa mia io vedevo gli ippocastani del viale, e più in là,<br />

dopo i tetti, le cime dei pini e degli abeti del parco lungo il Po.<br />

Ma non tardai ad accorgermi che quella calma era illusoria. Il giorno lavoravo e non pensavo ad altro,<br />

ma la sera, quando dopo cena mi mettevo curva sul mio balconcino ad osservare la città, provavo dei<br />

sentimenti che non potrei in nessun modo descriverli. Le lampade accese a rosari lungo le vie, i tram<br />

che passavano rullando pieni di gente, i taxi con le tendine celate che infilavano di corsa i viali, mi<br />

mettevano nel cuore una specie di angoscia. Sotto i miei occhi passavano incessantemente ragazze<br />

eleganti che si avviavano verso il centro, belle signore al braccio di uomini incaramellati, sartine<br />

seguite da presso da giovani intraprendenti.<br />

Sopra i tetti, verso piazza San Carlo e piazza Castello dove la città ha i suoi ritrovi mondani, i teatri, i<br />

caffè, il cielo era torbido, giallastro, pieno di bagliori e di rombi che mi facevano venire la vertigine.<br />

Io non uscivo perché ero sicura che non sarei più rientrata in casa. La città mi avrebbe ripresa<br />

inesorabilmente ed era con un senso di spasimo e di paura che io la immaginavo nei suoi ritrovi più<br />

pericolosi. Vedevo le piazze, i portici pieni di giovani eleganti che attendono alla posta, le vie corse da<br />

donne che vanno ai convegni, i teatri, i caffè dove le coppie si eccitano al suono del jazz per<br />

prepararsi al godimento notturno. E tutto questo su onde di musiche, di profumi intensi che mi<br />

facevano aprire le nari con una voracità da bestia feroce. Dopo le dieci spesso guardando sotto i viali<br />

del corso Valentino, vedevo delle coppie che vagavano lentamente, si fermavano in un angolo<br />

d’ombra, si stringevano con la bocca sulla bocca, a lungo, come piccioni che s’imbeccavano, poi<br />

riprendevano la loro marcia, lenti, beati.<br />

Ogni tanto mia madre mi chiamava: Ghitin, cosa fai?<br />

- Oh, niente, rispondevo io con la voce strana, prendo un po’ d’aria. E continuavo a guardare le coppie<br />

file:///C|/WINDOWS/Desktop/STORIE HTML colorato 418.htm (98 di 114) [03/09/2002 19.26.03]

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